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Un esemplare tentativo di "buongoverno dal basso", in una Laguna devastata dal Saccheggiatori, dai Demolitori e dagli Ignoranti, la cui mamma è sempre incinta. Inviato a eddyburg il 18 aprile 2014
Poveglia. Una storia fuori dal comune. Come andrà a finire non lo sanessuno, nemmeno i principali protagonisti che sono una decina di amici dellaGiudecca, l’isola più popolare e ancora autentica di Venezia, che hanno decisodi reagire all’ennesimo affronto che sta subendo la loro città: la messaall’asta di Poveglia, un antico insediamento composto da tre isole collegatetra loro in mezzo alla Laguna: un ottagono fortificato dalla RepubblicaSerenissima a guardia dell’antica bocca di porto di Malamocco, un lazzaretto trasformatonell’800 in stazione sanitaria marittima e successivamente in ospizio, unachiesa di cui sopravvive solo uno splendido campanile, antichi orti. In tutto 75.000mq di cui 5.000 edificati. Dopo decenni di abbandono e svariati tentativi di“trasformazione e sviluppo con finalità turistico-culturali” andati a cattivofine, l’Agenzia del demanio ha repentinamente deciso di svendere il complessoimmobiliare con un’asta telematica al miglior offerente. L’efficiente governoRenzi mette in televendita non solo auto blu, ma anche gioielli immobiliari. Tecnicamentesi tratta di una concessione per 99 anni. Scadenza delle offerte segrete il 6maggio ore 11. Nessun limite minimo, né massimo. Saranno selezionate le cinqueofferte economiche più vantaggiose per le casse dello stato. Una specie dipoker-teresina a carte coperte. Non serve presentare alcun progetto, nonservono piani tecnico-finanziari, non servono garanzie. Basta versare unacauzione di 20.000 euro. Poi, in un secondo momento, i selezioanti saranno chiamati ad una secondatrattativa con l’Agenzia del Demani

Ovviamente si è subito alzato in volo uno stormo di avvoltoi: un paio dibroker per conto di anonimi clienti, una società di ingegneria, un grandealbergo, la società Umana che per vocazione intermedia
forza lavoro ma che non disdegna trattare anche alte mercanzie, “investitori” vari. L’amministrazione comunale, come sempre impegnata a far quadrare i bilanci ordinari, sospira rassegnata alla perdita di un altro pezzo della città. Il Ministero ai beni culturali non muove ciglio per una delle tante “isole minori” della Laguna. Nemmeno le associazioni ambientaliste sembrano avere la forza di protestare più di tanto, impegnate su troppe vertenze, tra cui quella “madre” conto l’entrata in Laguna delle grandi navi da crociera.

Ma un paio di settimane fa l’inerzia è stata rotta da un accadimento inaspettato. Un gruppo di abitanti della Giudecca ha deciso spontaneamente di dover reagire in qualche modo direttamente in prima persona. Troppe volte i veneziani hanno visto prendere a morsi i beni pubblici della propria città. C’è un lungo elenco di “trasformazioni d’uso” avvenute negli ultimi anni: i magazzini della Dogana alla Salute trasformati in galleria privata della collezione di monsieur Pinout, il Fondaco dei Tedeschi a Rialto trasformato da sede delle Poste a store di Benetton, la Misericordia diventata un bazar, le isole ex ospedaliere di San Clemente, di Sacca Sessola e delle Grazie diventate dei resort internazionale. Ai nostri valorosi cittadini viene quindi l’idea pazza di lanciare una sottoscrizione popolare per partecipare all’asta e segnalare così ufficialmente l’esistenza di una cittadinanza attiva ostinatamente contraria alla privatizzazione turistica della città.

All’inizio l’obiettivo era semplice e modesto: raccogliere i 20.000 euro necessari alla partecipazione dell’asta, che sarebbero poi stati restituiti. Ma il tam-tam corre tra calli e social network e in pochi giorni centinaia e poi migliaia di persone sommergono la neonata Associazione Poveglia di richieste di veneziani entusiasti che si dichiarano disponibili anche ad avanzare una vera e propria offerta per ottenere davvero la concessione dell’isola dal demanio e riutilizzarla a scopi collettivi. Si sono così formati dei gruppi di progettazione partecipata. Architetti, avvocati, storici, capomastri, giardinieri, funzionari pubblici in pensione… che hanno rapidamente elaborato una proposta chiamata “Poveglia per tutti”. In pochi giorni più di tremila persone hanno versato 99 euro a testa: 19 a fondo perduto per le spese e 80 per partecipare all’asta, che, in caso di sconfitta, verranno restituiti. “Vogliamo che l’isola rimanga pubblica, aperta, ad uso di tutti”, scrivono. “La gestione dell’isola sarà no-profit ed eco-sostenibile”, quindi “la quota sottoscritta darà diritto a partecipare equamente alle decisioni sulle sorti di Poveglia”.

L’idea sembra piacere anche in giro nel mondo. Ne stanno scrivendo giornali tedeschi, inglesi, americani. Tra poco sarà possibile sottoscrivere on-line secondo le modalità crowfounding. Saranno accettati marchi, sterline e dollari, ma attenzione - precisano i promotori - non ci saranno utili da spartire, né dividendi, né azioni e ogni sottoscrittore conterà un voto nell’assemblea della Associazione a prescindere dall’entità della donazione. Profitti sono esclusi per statuto: gli utili che si riusciranno ad ottenere svolgendo attività economiche nell’isola andranno ad esclusivo beneficio del restauro e del mantenimento. Lorenzo Pesola, uno dei portavoce, precisa: “Siamo dei garanti, non dei proprietari”. Insomma, Poveglia bene comune.

Non sarebbe la prima volta che delle associazioni (Fai, Wwf) riescono ad acquisire dei beni e a gestirli a fini sociali, ma la novità di questa iniziativa veneziana è che si è messa in moto un’intera comunità cittadina che non chiede nulla né allo Stato, né al Comune se non di lasciarla gestire in autonomia e autogestione un bene pubblico. E’ la dimostrazione che esiste una terza via al fallimento dello stato (sommerso dai debiti) e del capitale privato (guidato dalla ricerca del massimo profitto). Per tutti e due questi “soggetti forti” rinunciare a speculare sui propri beni appare culturalmente e politicamente impossibile nell’attuale epoca dominata dal liberismo. Ma l’alternativa c’è e si chiama economia civile, sociale, solidale, etica… o del bene comune. Si sottrae alle logiche del mercato e per svilupparsi non ha bisogno delle società di capitale. Non ha mire competitive. Al contrario offre utilità da condividere. Non chiede né tasse, né lavoro coatto, ma la libera e volontaria messa in comune di competenze, di tempo-lavoro volontario, di risorse economiche necessarie alla realizzazione di un progetto comune.

Non sarà facile realizzare il sogno di “Poveglia per tutti”. Serviranno molte donazioni per riuscire a formalizzare una offerta non ignorabile dall’Agenzia del demanio. Servirà dissuadere gli speculari da presentare offerte ricordando loro che comunque saranno ben sorvegliati e non avranno mano libera. Serve che le autorità politiche locali e nazionali la smettano di comportarsi come liquidatori fallimentari del lascito di ricchezza, storia e memoria che dovrebbero invece preservare e amministrare con cura.

Speriamo che gli amici giudecchini ce la facciano.

Per info e adesioni: associazionepoveglia@gmail.com.



Il manifesto, 17 aprile 2014

Fino a giu­gno, il Museo Nazio­nale Romano di Palazzo Mas­simo alle Terme ospi­terà una fan­ta­sma­go­rica ras­se­gna dedi­cata ai mostri e alle crea­ture fan­ta­sti­che nella mito­lo­gia antica. Tutti pre­senti gli incubi dell’uomo clas­sico: dal mino­tauro alle arpie, pas­sando per la chi­mera. In cata­logo, manca ovvia­mente il biblico levia­tano, sim­bolo di quello Stato onni­pre­sente, lento e oppri­mente, denun­ciato da Tho­mas Hob­bes. Lo scorso mese, un arti­colo di Gio­vanni Valen­tini su Repub­blica è parso evo­carlo, quel mon­strum, a pro­po­sito dell’amministrazione pub­blica della cul­tura: sarebbe soprat­tutto la buro­cra­zia delle soprin­ten­denze ciò che «imbri­glia il recu­pero e la valo­riz­za­zione del nostro patri­mo­nio cul­tu­rale, con­tri­buendo così a con­ge­lare la modernizzazione».

Imme­diata l’alzata di capo degli archeo­logi, che hanno rea­gito lan­ciando un appello attra­verso il sito Patri­mo­nio sos. Tra le tante firme, tro­viamo quella di Rita Paris, con­si­gliere comu­nale eletta nella Lista Civica Marino Sin­daco e respon­sa­bile dell’area archeo­lo­gica del Parco dell’Appia Antica. La incon­triamo nel suo uffi­cio di Palazzo Mas­simo, sede museale che dirige dal 2005.

Qual­cosa non va nelle soprintendenze?

La strut­tura per la quale lavo­riamo deve essere miglio­rata: noi stessi ne par­liamo ormai da anni. Non è tut­ta­via giu­sto descri­vere le soprin­ten­denze come car­roz­zoni otto­cen­te­schi. Innan­zi­tutto, sono pas­sate con suc­cesso a gestire finan­zia­menti, anche con­si­stenti, appli­cando la nor­ma­tiva sui lavori pub­blici, estre­ma­mente com­plessa per stu­diosi costretti a con­fron­tarsi con scavi e restauri alla stre­gua di opere edili quali via­dotti e auto­strade. Ci hanno quindi chie­sto di infor­ma­tiz­zare il nostro patri­mo­nio cono­sci­tivo: l’abbiamo fatto. Allo stesso modo ottem­pe­riamo alla legge 241 sulla tra­spa­renza degli atti: rispet­tiamo in pieno i tempi, rispon­dendo sem­pre all’attenzione pubblica.

Che le soprin­ten­denze siano anti­che, que­sto è un altro discorso. In effetti sono nate ancora prima del mini­stero, quando erano com­prese all’interno della Dire­zione gene­rale per le anti­chità e belle arti, dipen­dente dalla Pub­blica istru­zione. Da allora, sono le soprin­ten­denze di set­tore — archeo­lo­gi­che, storico-artistiche, archi­tet­to­ni­che e pae­sag­gi­sti­che — gli uffici peri­fe­rici pre­senti sul ter­ri­to­rio, che pre­si­diano e con­trol­lano seguendo le forme di pia­ni­fi­ca­zione ela­bo­rate dagli enti locali, dai piani rego­la­tori ai piani ter­ri­to­riali pae­si­stici. Fran­ca­mente, non rie­sco a imma­gi­nare da quale strut­tura pos­sano essere sostituite.

Una grande rivo­lu­zione fu, nel 1993, la legge Ron­chey sui ser­vizi aggiun­tivi: prima custode e bigliet­taio erano la stessa per­sona; adesso bigliet­te­ria, book­shop, e punti di ristoro sono gestiti a parte. Le soprin­ten­denze hanno defi­ni­ti­va­mente rivolto la loro atten­zione agli aspetti gestio­nali e di valo­riz­za­zione della fun­zione pub­blica, con­cen­tran­dosi sulle nuove esi­genze didat­ti­che e comu­ni­ca­tive. I luo­ghi della cul­tura si sono aperti a un mondo diverso, non solo specialistico.

Un luogo comune, tut­ta­via, insi­ste nel riba­dire che siete troppo auto­re­fe­ren­ziali e dovre­ste aprirvi ancora di più all’esterno.

Per quanto riguarda la ricerca di spon­so­riz­za­zioni, non è vero che siamo sol­tanto con­ser­va­tori. Anzi, manca poco che fac­ciamo i butta-dentro: quelli che pur di ren­dere attraenti i nostri musei, pur di avere mag­giori visi­ta­tori si mostrano dispo­ni­bili a orga­niz­zare tipi di eventi che non hanno molto a che vedere con l’archeologia. Non è il caso di Musei in musica, Una notte al museo, la Set­ti­mana della cul­tura, ini­zia­tive che pos­sono attrarre un pub­blico diverso che altri­menti non si sarebbe mai acco­stato all’arte antica. I Rol­ling Sto­nes, però, sono ecces­sivi, anche per­ché il Circo Mas­simo non ha biso­gno di visibilità.

Quali sono, quindi, i limiti e le cri­ti­cità prin­ci­pali delle soprintendenze?

Abbiamo una serie di figure pro­fes­sio­nali entrate con una qua­li­fica direttivo-apicale; se non fai un con­corso, lì ti fermi. La nostra è una strut­tura pira­mi­dale con un diri­gente e diversi diret­tori che hanno degli inca­ri­chi spe­ci­fici presso monu­menti, pezzi di ter­ri­to­rio, musei. Una strut­tura del genere, con tali respon­sa­bi­lità, meri­te­rebbe un rico­no­sci­mento diverso. Lo sti­pen­dio di un diret­tore di museo, invece — Uffizi com­presi — arriva al mas­simo a 1800 euro. È un inca­rico che, come ti viene dato, così ti viene tolto: oggi sei il diret­tore della Gal­le­ria Bor­ghese, domani puoi lavo­rare altrove. Non hai un’indennità di fun­zione a fronte della mole di impe­gni e respon­sa­bi­lità richie­ste, delle com­pe­tenze neces­sa­rie per gestire rap­porti con le isti­tu­zioni nazio­nali e internazionali.

Così non si può con­ti­nuare a lavo­rare: se ancora resi­stiamo, è per­ché abbiamo intro­dotto nel lavoro qual­cosa che va oltre l’idea di con­tratto. È pro­prio la pas­sione, il tra­sporto, l’enorme senso di respon­sa­bi­lità che ha fatto dimen­ti­care a chi ci governa quanto la nostra con­si­de­ra­zione sia ina­de­guata al ruolo svolto. Tutti lavo­riamo nor­mal­mente dodici ore al giorno, distri­can­doci tra aspetti gestio­nali e ammi­ni­stra­tivi, senza dimen­ti­care la ricerca scien­ti­fica: non pos­siamo smet­tere di stu­diare per restare al passo con l’impegno scien­ti­fico che gli acca­de­mici pos­sono affron­tare. Se non studi, non puoi orga­niz­zare una mostra né gestire un museo: non hai la pos­si­bi­lità di redigere un cata­logo, scri­vere le dida­sca­lie, orga­niz­zare atti­vità didattiche.

Sem­brano le stesse richie­ste degli inse­gnanti. E se le soprin­ten­denze le abolissero?

L’età media delle sovrin­ten­denze è di 57 anni. In alcune regioni sono state immesse forze gio­vani; a Roma e nel Lazio no. Da anni ormai non entra un fun­zio­na­rio nuovo al quale tra­smet­tere la nostra espe­rienza, giu­sto per pas­sare la staf­fetta. Nello Stato non c’è car­riera: ci sono degli interni di livelli infe­riori che non cre­scono, altri pro­prio non entrano. Le dichia­ra­zioni del mini­stro, finora, da un lato par­lano del ricorso a pri­vati, dall’altro di una spen­ding review che sicu­ra­mente va ope­rata, ma non certo qui, dove sarebbe quanto meno rischiosa e con­tro­pro­du­cente. Se si tol­gono risorse alle soprin­ten­denze, si impo­ve­ri­sce irri­me­dia­bil­mente il rap­porto dello Stato con i luo­ghi della cul­tura sul territorio.

Una delle obie­zioni più fre­quenti sostiene che lo Stato non possa far­cela a gestire da solo il nostro patri­mo­nio cul­tu­rale. Biso­gne­rebbe con­cede mag­giore spa­zio ai privati?

Dav­vero non si capi­sce cosa si intende oggi per pri­vati, per­ché ci sono sem­pre stati. Già nel ’94 avevo imma­gi­nato una mostra — Dono Hart­wig, ori­gi­nali ricon­giunti e copie tra Roma e Ann Arbor in Michi­gan — che riu­niva fram­menti scul­to­rei del Tem­plum Gen­tis Fla­viae finiti all’inizio del ’900 sul mer­cato anti­qua­rio. L’operazione fu por­tata avanti gra­zie al con­tri­buto di uno spon­sor pri­vato: l’Eni. È fon­da­men­tale, tut­ta­via, sot­to­li­neare quello che sem­bra ovvio: deve essere lo Stato a soprin­ten­dere. Ulti­ma­mente abbiamo avuto con­tri­buti di pri­vati a titolo diverso: nel caso della Pira­mide Cestia e della Fon­da­zione Pac­kard a Erco­lano, si è trat­tato di ero­ga­zioni libe­rali e di atti di mece­na­ti­smo che non hanno chie­sto nulla in cam­bio se non il pub­blico rico­no­sci­mento e rin­gra­zia­mento; nel caso del Colos­seo, si è andati un po’ oltre. Quello che conta, tut­ta­via, è il pro­ce­di­mento: i pri­vati ver­sano i soldi nelle casse dello Stato e, quindi, delle soprin­ten­denze; que­ste, infine, pro­ce­dono a rea­liz­zare i pro­getti atte­nen­dosi rigo­ro­sa­mente alle pro­ce­dure di legge. Nes­sun pri­vato può dire diret­ta­mente: «io voglio occu­parmi dei restauri al Colosseo».

Non pensa che l’opinione pub­blica possa fati­care a com­pren­dere le vostre ragioni?

Al con­tra­rio, penso che a volte i cit­ta­dini siano per­fino più esi­genti di noi, fino a pre­ten­dere di più di quello che si possa effet­ti­va­mente dare. Per esem­pio, anni fa, un limi­tato scavo pre­ven­tivo in occa­sione della costru­zione di un edi­fi­cio in via Padre Seme­ria, all’Eur, aveva resti­tuito alcune testi­mo­nianze anti­che. In seguito, il palazzo non si fece più e lo scavo rimase a lungo in stato di abban­dono, fin­ché noi non chie­demmo il rin­terro per garan­tirne la pro­te­zione: la migliore forma di conservazione.

I cit­ta­dini quasi insor­sero. Insomma, da un lato si accu­sano le soprin­ten­denze di essere da osta­colo al pro­gresso, dall’altro ogni ritro­va­mento archeo­lo­gico fini­sce per sca­te­nare una sorta di orgo­glio locale. Se l’Italia asse­gna all’intero patri­mo­nio cul­tu­rale della nazione uno 0,19%, è ovvio che il governo e gli ammi­ni­stra­tori con­ti­nuino a chie­dere con mag­giore forza il con­tri­buto dei pri­vati. La que­stione sta tutta qui.

«Il pro­blema dei pro­blemi però, non è stato ancora risolto. L’azienda infatti, non pos­siede le risorse per attuare gli inve­sti­menti pre­vi­sti dal piano ambien­tale ed è in cerca di even­tuali finan­zia­tori (da indi­vi­duarsi anche nello Stato, attra­verso un inter­vento della Cassa Depo­siti e Prestiti)». Il manifesto 17 aprile 2014 (m.p.r.)



La Com­mis­sione euro­pea ha inviato all’Italia una nuova let­tera di messa in mora sulla vicenda Ilva. La noti­zia era nell’aria da un paio di giorni. A dif­fe­renza del primo inter­vento dello scorso set­tem­bre, in cui veni­vano mossi all’Italia rilievi in merito a pos­si­bili infra­zioni alla Diret­tiva Ippc (Indu­strial Pol­lu­tion Pre­ven­tion and Con­trol) e alla Diret­tiva sulla Respon­sa­bi­lità ambien­tale, che attua il prin­ci­pio «chi inquina paga», in que­sta seconda let­tera la Com­mis­sione ha evi­den­ziato nuove pos­si­bili infra­zioni da parte dell’Italia. Che riguar­dano le pre­scri­zioni dell’autorizzazione inte­grata ambien­tale che l’Ilva non ha rispet­tato, o di cui il governo non ha impo­sto il rispetto, secondo la nuova Diret­tiva sulle Emis­sioni indu­striali, e la man­cata pub­bli­ca­zione del Rap­porto di Sicu­rezza «Seveso» aggior­nato sull’acciaieria di Taranto.
E’ bene comun­que pre­ci­sare che quella inviata dalla Com­mis­sione all’Italia, è una let­tera di messa in mora «com­ple­men­tare» e non ancora il pas­sag­gio al secondo sta­dio della pro­ce­dura, il «parere moti­vato», che pre­lude al ricorso in Corte di Giu­sti­zia in caso di rispo­sta non sod­di­sfa­cente. Una rispo­sta che l’Italia è tenuta a dare entro due mesi, così come avvenne lo scorso set­tem­bre, con la rispo­sta del governo che arrivò il 2 dicem­bre.

Al rice­vi­mento della let­tera da parte della Com­mis­sione, l’azienda ha rispo­sto dichia­rando che i rilievi mossi si basano sulle ispe­zioni che i tec­nici Ispra hanno effet­tuato nel corso del 2013 e non alla situa­zione attuale. In una nota uffi­ciale, l’Ilva dichiara che al momento l’attività pro­dut­tiva non com­porta «alcuna riper­cus­sione seria ed imme­diata sull’ambiente, ma nem­meno nelle acque e nel suolo non si sta cor­rendo alcun peri­colo imme­diato per la salute umana per­ché gli sca­ri­chi, che comun­que saranno miglio­rati, sono ad oggi a norma e non vi sono in corso rila­sci peri­co­losi sui suoli».

Il sub com­mis­sa­rio dell’Ilva, Edo Ron­chi, ha invece evi­den­ziato come l’intervento della Com­mis­sione sia a suo dire adde­bi­ta­bile uni­ca­mente alla man­cata appro­va­zione del piano ambien­tale, all’interno del quale sono pre­vi­sti tutti gli inter­venti da effet­tuare sugli impianti dell’area a caldo del side­rur­gico. Il piano ambien­tale, secondo la legge appro­vata lo scorso 4 ago­sto, rimo­du­lava e posti­ci­pava infatti la tem­pi­stica pre­vi­sta per la sca­denza degli inter­venti. In realtà il piano è stato appro­vato ai primi di marzo dal Con­si­glio dei mini­stri ed è tutt’ora al vaglio della Corte dei Conti. Il pro­blema dei pro­blemi però, non è stato ancora risolto. L’azienda infatti, non pos­siede le risorse per attuare gli inve­sti­menti pre­vi­sti dal piano ambien­tale ed è in cerca di even­tuali finan­zia­tori (da indi­vi­duarsi anche nello Stato, attra­verso un inter­vento della Cassa Depo­siti e Prestiti).

Un articolo sul nodo di Sant'Elia e un'intervista al sindaco Massimo Zedda completano l'inchiesta su Cagliari oggi. Il manifesto, 17 aprile 2014
IL COMUNE SI GIOCA LA PARTITA
di Costantino Cossu
Sant’Elia. Qui all’inizio c’erano sol­tanto paludi, sull’orlo del mare, di fronte all’enorme spa­zio azzurro d’acqua e di cielo del Golfo degli Angeli. Era la zona più a sud della città, poche case, un intrico di viuzze attorno al cam­pa­nile della chiesa. Un borgo abi­tato da pesca­tori. Da loro lavoro veniva il pesce che finiva nel vec­chio mer­cato di San Bene­detto. Prima ancora del borgo, nel Sei­cento che a Cagliari fu spa­gnolo, qui ave­vano messo, per decreto vice regio, il Laz­za­retto, il luogo per la cura dei leb­brosi, degli intoc­ca­bili. Restò tutto più o meno così (a parte il Lazzaretto,da fine Otto­cento abban­do­nato e cadente) sino ai primi anni Set­tanta del secolo scorso.

Dopo la ferita dei bom­bar­da­menti del 1943, che ave­vano raso al suolo buona parte del cento sto­rico, Cagliari negli anni del boom eco­no­mico (i Cin­quanta e poi per tutti i Ses­santa), era cre­sciuta. Sede dell’amministrazione regio­nale, cen­tro poli­tico ma anche eco­no­mico dell’isola. Un’imprenditoria quasi tutta legata ai traf­fici com­mer­ciali con la peni­sola, com­prare e riven­dere, riven­dere e com­prare. Poca indu­stria vera, sino all’arrivo dei Moratti con la loro raf­fi­ne­ria a Sar­roch, sul finire degli anni Ses­santa. Ma anche, in una città in tumul­tuoso svi­luppo urbanistico,speculatori edi­lizi e palaz­zi­nari. Nei primi anni Set­tanta a Sant’Elia accad­dero due cose che cam­bia­rono per sem­pre il volto del quar­tiere: la deci­sione di tra­sfor­mare la ex zona palu­dosa boni­fi­cata in un’area di edi­li­zia popo­lare e quella di costruire al limite est il nuovo sta­dio del Cagliari Calcio.

Deci­sioni prese da un’amministrazione comu­nale di segno mode­rato, domi­nata dalle cor­renti demo­cri­stiane più con­ser­va­trici. Alle quali, però, nes­suno si oppose. Cagliari cre­sceva in popo­la­zione a ritmi espo­nen­ziali, la fame di case era grande. E poi la squa­dra di foot­ball era quella dello scu­detto, la squa­dra di Gigi Riva “Rombo di tuono”: si poteva negare all’undici gui­dato da Man­lio Sco­pi­gno, che aveva rega­lato a una città mezzo nobile d’antico lignag­gio ibe­rico e mezzo strac­ciona un sogno che sem­brava impos­si­bile? No. E così, sotto la pic­cola col­lina dove con­ti­nua­vano a stare i pesca­tori, nell’avvallamento dove prima era sol­tanto acqua sta­gnante e saline, sor­sero enormi orrendi palaz­zoni dove met­tere quelli che cer­ca­vano casa e non pote­vano per­met­tersi i prezzi di mer­cato. E insieme ai caser­moni, lo sta­dio nuovo. Due sim­boli del benes­sere con­qui­stato, una carta di cre­dito per l’ingresso nel pal­co­sce­nico sul quale si costruiva una mise­re­vole iden­tità nazionale

«RESTAURO E RIUTILIZZO
PER FERMARE IL SACCHEGGIO»
intervista di Costantino Cossu al sindaco Massimo Zedda

Che cosa signi­fica, per uno che sta a sini­stra, diven­tare sin­daco di una città gover­nata per decenni, dal secondo dopo­guerra in poi, da forze poli­ti­che espres­sione di un blocco sociale con­ser­va­tore che ha dato al tes­suto urba­ni­stico la forma cor­ri­spon­dente a ben pre­cisi inte­ressi eco­no­mici? Mas­simo Zedda, prima Pd e poi Sel, è diven­tato sin­daco di Cagliari il 30 mag­gio del 2011, alla testa di uno schie­ra­mento di cen­tro­si­ni­stra. Una svolta, in larga parte inat­tesa. Un’occasione storica.

La sua ele­zioni a sin­daco, quasi tre anni fa, rap­pre­sentò una rot­tura e accese le spe­ranze di un cam­bia­mento radi­cale. Che bilan­cio si può fare oggi?
Abbiamo dato uno stop netto al sac­cheg­gio urba­ni­stico della città. Ci siamo mossi da subito lungo una linea di ade­gua­mento del piano urba­ni­stico comu­nale alle diret­tive di tutela san­cite dal piano pae­sag­gi­stico appro­vato nel 2006 dalla giunta Soru. Abbiamo appro­vato il piano par­ti­co­la­reg­giato del cen­tro sto­rico, il piano della mobi­lità, il piano di uti­lizzo dei lito­rali. Tutto secondo un’ottica di restauro e di riu­ti­lizzo del patri­mo­nio edi­li­zio già esi­stente, in par­ti­co­lare di quello di pro­prietà pub­blica: del comune, della Regione Sar­de­gna, del dema­nio. Basta con l’aumento delle volu­me­trie e con il dis­sen­nato con­sumo del ter­ri­to­rio. Rispetto al pas­sato è una svolta radicale.

Qual­che vostra deci­sione in dettaglio?
Intanto la pedo­na­liz­za­zione di vaste aree del cen­tro sto­rico, in pas­sato inta­sate e sna­tu­rate da un traf­fico cao­tico, senza regole. Meno auto pri­vate e un poten­zia­mento del tra­sporto pub­blico e la defi­ni­zione di un sistema di par­cheggi intorno al cen­tro, con l’obiettivo di for­nire un ser­vi­zio a chi usa le auto per arri­vare dalle peri­fe­rie senza che que­sto signi­fi­chi, come nel pas­sato, l’invasione delle strade e delle piazze da parte del traf­fico pri­vato. Tenendo conto anche che il cen­tro sto­rico di Cagliari è molto ampio. I quat­tro quar­tieri anti­chi di Marina, Stam­pace, Vil­la­nova e Castello insieme coprono un’area molto più vasta, ad esem­pio, di quella della parte sto­rica di una città come Praga.

Per la spiag­gia del Poetto che cosa avete fatto?
Come si sa quel lito­rale nel pas­sato recente è stato deva­stato da un ripa­sci­mento disa­stroso. Al pro­blema dell’erosione della spiag­gia si è rispo­sto aggiun­gendo sab­bia pre­le­vata dai fon­dali al largo del Golfo di Cagliari. Con esiti che hanno modi­fi­cato le carat­te­ri­sti­che ambien­tali di un sito che per la città ha una rile­vanza anche urba­ni­stica cen­trale. Noi abbiamo pun­tato invece su inter­venti strut­tu­rali, che hanno come obiet­tivo quello di una riqua­li­fi­ca­zione urba­ni­stica dell’intero lito­rale, che si estende per otto chi­lo­me­tri dalla Sella del dia­volo sino alla città di Quartu. Abbiamo tro­vato i fondi per un pro­getto che è già in fase ese­cu­tiva e che modi­fi­cherà in maniera sostan­ziale il volto e la fun­zione urba­ni­stica di tutta la zona. Isti­tui­remo, ad esem­pio, un’area pedo­nale che sarà una spe­cie di cor­done tra la spiag­gia e la strada che corre paral­lela all’arenile.

Il tes­suto urba­ni­stico di Cagliari è ricco di aree dema­niali in uso a strut­ture mili­tari. Cosa avete fatto per recu­pe­rarle alla città?

Come ammi­ni­stra­zione comu­nale abbiamo cer­cato di costruire un fronte uni­ta­rio con la Regione Sar­de­gna per aprire un con­fronto con il mini­stero della Difesa che con­sen­tisse una “libe­ra­zione” se non totale almeno par­ziale di quelle aree, che sono dav­vero molto vaste e tutte di grande pre­gio urba­ni­stico e ambien­tale, dai vin­coli mili­tari. Non abbiamo tro­vato grande sen­si­bi­lità nella giunta di cen­tro­de­stra pre­sie­duta da Ugo Cap­pel­lacci. Con­tiamo di ripren­dere il discorso con il nuovo ese­cu­tivo, gui­dato da Fran­ce­sco Pigliaru dopo la vit­to­ria del cen­tro­si­ni­stra alle ele­zioni regio­nali dello scorso febbraio.

E per le peri­fe­rie? In par­ti­co­lare per Sant’Elia?
Sant’Elia in realtà non è una peri­fe­ria. È un quar­tiere ormai pie­na­mente inse­rito nel cuore del tes­suto urba­ni­stico. Lì esi­ste un enorme pro­blema di disa­gio sociale e di emar­gi­na­zione che stiamo affron­tando attra­verso la crea­zione di strut­ture per­ma­nenti di inte­gra­zione sociale. Le scelte che sono state fatte in pas­sato hanno tra­sfor­mato Sant’Elia in un corpo sepa­rato. Cor­reg­gere quelle stor­ture è uno dei com­piti che ci siamo asse­gnati. Vedere la que­stione sol­tanto in ter­mini di ordine pub­blico è sba­gliato. Biso­gna pun­tare invece ad inse­rire pie­na­mente il quar­tiere nella vita della città. Ed è esat­ta­mente que­sto che stiamo cer­cando di fare, con non pochi risul­tati incoraggianti

«La città è cresciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filosofia del costruire. Amnesia del passato. Ha ricoperto di asfalto e cemento il suo contado agricolo e lo chiama hinterland. Deturpato la sua spiaggia abbagliante. Violato con bitume, palazzi e fabbriche gli stagni sconfinati a est e a ovest. E tutto questo lo chiama "sviluppo"». .Il manifesto, 17 aprile 2014

I nura­gici erme­tici. Poi i Fenici trac­ciano le rotte. Poi la città diventa Punica e poi romana per molti secoli. Poi i Van­dali. Poi Bisan­zio e i due evi medi. L’epoca dei Giu­di­cati, le inva­sioni more­sche, i Pisani e i Geno­vesi. Eleo­nora d’Arborea e il suo nuovo ordi­na­mento, la Carta de Logu. Poi, a lungo, gli spa­gnoli e la deca­denza. Il Set­te­cento, i Savoia, il Regno di Sar­de­gna la rivo­lu­zione poi e la moder­niz­za­zione otto­cen­te­sca. Gli echi del Risorgimento.

Poi il XX secolo. Anto­nio Gram­sci fa il suo liceo a Cagliari. La car­ne­fi­cina della Grande Guerra. Pastori e con­ta­dini, riu­niti nella Bri­gata Sas­sari man­dati a morire sul Carso e Emi­lio Lussu. Poi il fasci­smo, la seconda guerra, l’occupazione tede­sca senza san­gue, i bom­bar­da­menti anglo-americani del ‘43. La città ini­zia la sua rico­stru­zione e l’inurbamento è feroce. Nasce una nuova classe diri­gente insieme ai nuovi brutti quar­tieri, anni 50 e 60, che la raf­fi­gu­rano. L’edilizia cac­cia via l’architettura. Impre­sari e com­mer­cianti dise­gnano la città sulla pro­pria imma­gine e pro­du­cono una gene­ra­zione poli­tica con­for­mata, come un calco di gesso, alla loro visione mate­riale delle cose. I cosid­detti intel­let­tuali si rifu­giano in un mondo sognante vicino all’infanzia, lon­tano dalle azioni.

Ma qual­cosa cam­bia negli ultimi decenni. Si smette di masti­care i fiori di loto e la memo­ria ritorna nella testa di alcuni. La città si guarda, si rico­no­sce. Si risve­glia un’anima cri­tica che comu­nica, osserva ed è inte­res­sata alle pro­prie ori­gini. E ricava ener­gia dal pas­sato senza essere pas­sa­ti­sta. Guarda indie­tro per essere moderna per­ché quando uno sa da dove viene non ha biso­gno di altro. E si oppone alla fre­ne­sia del fare a tutti i costi. Però l’altra anima, quella mer­can­tile, resta forte.

La città è cre­sciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filo­so­fia del costruire. Amne­sia del pas­sato. Ha rico­perto di asfalto e cemento il suo con­tado agri­colo e lo chiama hin­ter­land. Detur­pato la sua spiag­gia abba­gliante. Vio­lato con bitume, palazzi e fab­bri­che gli sta­gni scon­fi­nati a est e a ovest. E tutto que­sto lo chiama «svi­luppo» men­tre dimo­stra che quando la poli­tica si con­fonde con l’impresa ci si ammala di un morbo che si chiama sviluppite.

Cagliari è un’incubatrice di que­sta malat­tia. Però la sto­ria è incan­cel­la­bile. I luo­ghi resi­stono e met­tono in movi­mento gli avve­ni­menti. I morti della necro­poli di Tuvi­xeddu pos­sie­dono la forza dell’assoluto e ancora deter­mi­nano con­se­guenze. La rocca medie­vale resi­ste ai ten­ta­tivi di ren­derla «pro­gre­dita» con scale mobili e fer­ra­glia. Il pro­mon­to­rio sacro della Sella del Dia­volo resterà intatto anche se la città fame­lica gli gira intorno. E l’acropoli di Castello resi­sterà ai nuovi asse­dianti che oggi vogliono un vol­gare garage den­tro le sue mura.

Nel 1956 avevo cin­que anni. Il brac­cio quasi lus­sato quando pas­seg­giavo a traino delle mani inac­ces­si­bili di mio padre, il lun­go­mare, il mer­cato al cen­tro della città, le bar­che che tor­na­vano tanto cari­che che i pesca­tori sta­vano in piedi sui cumuli di pescato, allora i polpi sem­bra­vano pio­vre, le anguille scap­pa­vano dalle cesti nelle cor­sie del mer­cato, i pesci boc­cheg­gia­vano. Era bello e sarebbe stato più bello ancora se fosse durato.

Ma i fat­ti si muo­ve­vano per neces­sità che non com­pren­devo. E non obbe­di­vano a nessuno. Ero troppo pic­colo per capire cosa acca­deva alla mia città, troppo basso per vedere le prime gru. Oppure, sem­pli­ce­mente, non guar­davo per­ché, appeso alla mano di mio padre, osser­vavo solo le cose vicine oppure l’orizzonte marino, l’unico oriz­zonte per me.

So che i monti che vedevo a meri­dione erano il pro­filo dei monti del golfo, ma allora cre­devo che fosse l’Africa per­ché sen­tivo ripe­tere che la città più vicina alla mia era Tunisi. Poche ore di traversata.Dalle mie rive, certo, non si vedeva l’Africa. Fu una delu­sione. Però con­ti­nuai a crederci.

Un giorno mamma ci portò a vedere una nuova mera­vi­glia che il mae­stro, ammi­rato dal pro­gresso ben­ché con­ser­vasse la sua casa come un salotto di Nonna Spe­ranza, ci aveva già annun­ciato a scuola. Il grat­ta­cielo.

Be’, era solo un brutto palazzo di dodici piani. Ma era il nuovo pre­sente e tutti vole­vano solo pre­sente e futuro. Mai visto dal vero un palazzo così alto.Non fu stu­pore quello che pro­vai vedendo quel lungo paral­le­le­pi­pedo gri­gio con decine e decine di fine­stre fune­ra­rie. Ancora oggi ricordo la sen­sa­zione di per­dita che pro­vai e ricordo che non com­presi, ero troppo bam­bino, quel sentimento.

Quella costru­zione infan­til­mente chia­mata grat­ta­cielo, che ancora esi­ste, ha segnato la nascita in città dell’eternamente brutto. Sì, quel palazzo era brutto dalla nascita, tal­mente brutto che diventò proverbiale.

Però il brutto è epi­de­mico e quando ini­zia si mol­ti­plica con enig­ma­tica testar­dag­gine. Non lo fermi più. Deve, si vede, neces­sa­ria­mente tra­scor­rere e con­clu­dersi un’epoca.

Eppure tutti vedevano. Fu un’amnesia di massa che non è mai ces­sata da allora. E chissà se riac­qui­ste­remo mai la memoria. Ma, l’ho detto, tutti vole­vano abban­do­nare il pas­sato, anche quello buono.

Mia nonna, men­tre pas­seg­giavo e gio­cavo in un ter­ra­pieno da dove si vedeva la città in basso, mi disse un giorno che comin­ciava a esserci troppo cemento e che tutti que­sti nuovi arri­vati dal con­tado — così chia­mava gli inur­bati che arri­va­vano da ogni parte dell’isola — sta­vano ren­dendo deforme la città. Che lei era comu­ni­sta, ma que­sto non le impe­diva di capire che c’erano per­sone rese feroci pro­prio dall’arrivo in città e che ave­vano l’urgenza di far vedere chi erano. Che costruire un muro, una casa, un palazzo era il modo più facile di far vedere quello che si vale. E che un igno­rante non sa mai di essere ignorante.

Appena tirano su un muro si fanno chia­mare cava­lieri e com­men­da­tori, ripeteva. D’altronde il cemento aveva reso facile e pos­si­bile a tutti l’azione di costruire. L’intera nazione ribol­liva di cemento, ma io non lo sapevo. E nep­pure nonna. Però osser­vava la sua città.

Lei vedeva la brut­tezza del cemento, capiva che non si può met­tere insieme cemento e pie­tra per­ché invec­chiano in modo diverso, che la pie­tra si smussa e che il cemento faceva solo angoli.

Il cemento è un mate­riale che non sa invec­chiare. La pie­tra, invece, è già vec­chia, esi­ste da milioni di anni. Il cemento costringe chi lo usa a dise­gnare forme squallide.

Era squal­lido anche il bar aperto al piano terra nel «grat­ta­cielo», cat­tive le brio­che, il caffè puz­zava di bru­ciato e un moscone gia­ceva a pan­cia all’insù, mum­mi­fi­cato per sem­pre in un angolo della vetrina pretenziosa. Den­tro quel palaz­zone c’erano però alcuni segnali impor­tanti del pre­sente che sedu­ceva la comu­nità e la con­vin­ceva che il pas­sato era vergognoso.

Però è vero che nella mia città una luce che non finiva nep­pure la notte e un sole felice anche d’inverno mi face­vano sen­tire for­tu­nato e lon­tano da ogni pericolo.

Tra­slo­cammo nel 1962 in una nuova casa. E tutto mutò.

La nostal­gia è un sen­ti­mento indi­spen­sa­bile, ma deve essere orga­niz­zato. Sennò si sof­fre. Oltre­tutto distorce, nelle sua forma malata, la realtà, i ricordi e l’interpretazione del presente.Tra­slo­cammo, dicevo, che avevo dodici anni. Una casa lumi­nosa, moderna, con due bagni, con davan­zali, una por­ti­ne­ria, l’ascensore e vicina all’orto botanico.

Quel quar­tiere era il con­fine della città sto­rica, però mi sem­brava un salto nel futuro. E ogni volta che pas­sa­vamo vicino alla vec­chia casa tra­sci­navo la mano che mi con­du­ceva per entrare den­tro il por­tone. Come quei cani che tirano quando sono vicini alla casa del padrone morto.

Il tra­sloco cam­biò i giorni e le ore della fami­glia, cam­biò per­fino l’espressione dei geni­tori, il lin­guag­gio, i vestiti, le abi­tu­dini a tavola, la puli­zia dome­stica e per­fino l’igiene del corpo, gli odori e la memo­ria degli odori .Il tra­sloco è l’allegoria del cam­bia­mento ine­vi­ta­bile, ma non necessario.

Con il camion carico di mobili apparve la dif­fe­renza tra pre­sente e pas­sato, tra una fine e un inizio.
Babbo aveva bat­tuto a mac­china il suo nome su un foglio, rita­gliato la stri­scia di carta e l’aveva infi­lato nella fes­sura del nuovo cam­pa­nello. Poi aveva letto a voce alta il pro­prio nome e schiac­ciato il pul­sante. Quel trillo era il segnale della città nuova.

Riferimenti
Le precedenti puntate della serie di inchieste sulle città italiane dopo 30 anni di neoliberalismo sono state dedicate a Milano (7 febbraio), Sassari(13 febbraio), Venezia (20 febbraio), Napoli (27 Febbraio), Avellino (6 marzo), Bologna (13 marzo), Parma (20 marzo 2014) Roma(27 marzo), Firenze (3 aprile), Reggio Calabria e Messina (10 aprile).

Questa volta gli "occhi aperti su Venezia" sono volti a indagare gli effetti che le scelte della Biennale di architettura hanno avuto sulla città: fughe dalla realtà. alibi culturali a tendenze nefasta, o contributi alla tutela e alla vivibilità?. Pervenuto a eddyburg il 16 aprile 2014

Nella preziosissima collana di Corte del Fontego che tiene aperti i nostri occhi su Venezia, è uscito un nuovo libro dell'urbanista Paola Somma. Come sempre il bersaglio è grosso, ma questa volta è anche particolarmente scomodo, visto il conformismo degli intellettuali italiani: la Biennale di Architettura!

Il libro risponde alla domanda avanzata dal sottotitolo: «Progetti in vetrina o città in vendita?». E la risposta sta già nel titolo, che è: «Mercanti in fiera».

A leggerlo viene da pensare che se gli architetti facessero il 'giuramento di Vitruvio' proposto da Salvatore Settis, ebbene la Biennale veneziana sarebbe una specie di festival dello spergiuro.

Tra i molti fili d'Arianna offertici da Paola Somma, quello più impressionante è forse la vicenda paradigmatica del Mulino Stucky, al cui recupero fu dedicato quel che venne poi considerato il 'numero zero' della Biennale di Architettura, e cioè un concorso di idee organizzato nel 1975 dalla Biennale di Venezia. Si trattava di immaginare una seconda vita per un gigantesco complesso dell'industria alimentare dismesso da vent'anni. Tutti i partecipanti al concorso lo immaginarono come un grande contenitore delle cose più disparate e irrelate, senza minimamente valutarne – nota l'autrice – «le relazioni con la struttura economica e sociale della città».

E questa è, in fondo, la cifra prevalente della Biennale di Architettura nel complesso: una lunga esercitazione a tema libero, e a tasso di responsabilità civile e sociale pari a zero. Ma non è una cifra senza conseguenze pratiche: e anche da questo punto di vista la storia dello Stucky è, fino in fondo, esemplare. Nessuno dei progetti del 1975 venne attuato, e dopo che – nel 2007 – un provvidenziale incendio ne distrusse le parti vincolate, è nato lo Stucky Hilton, un albergo di lusso con 300 camere e una piscina sul tetto. «Nel 2012 – conclude Paola Somma – l’imprenditore Caltagirone [che ne era proprietario] è stato arrestato per frode fiscale e la società Acqua Marcia è stata messa in liquidazione. Ora lo Stucky Hilton è in vendita, con base d’asta di 300 milioni di euro, ma non è dato sapere quale sia stato l’incremento di valore garantito agli investitori dalla trasformazione, né quali costi, diretti e indiretti, questa abbia comportato per la città, dove non si è manifestato nessun segnale della “creatività collettiva” auspicata dai promotori del concorso del 1975».

E a questo punto, la domanda è d'obbligo: ma non ci sarà un qualche nesso causale tra il lungo tradimento delle fughe architettoniche dalla realtà, la speculazione immobiliare selvaggia e la progressiva morte di Venezia, trasformatasi «da città a portacontainer di alberghi»? A questa domanda l'autrice risponde con un paziente, pacatissimo intarsio di citazioni testuali, dati di fatto, limpide e indiscutibili connessioni. Ed è forse a causa di questo tono civilissimo che l'effetto su chi legge è ancora più devastante.

L'architettura promossa in questi quarant'anni di Biennale è un'architettura irrelata: in primo luogo irrelata alla sua funzione, e poi ai luoghi nei quali dovrebbe essere poi calata. Un immagine, questa, insieme amplificata e alimentata dai media: «i mezzi di informazione di massa pubblicano fotografie o simulazioni di edifici descritti con un linguaggio metaforico che, assimilandoli di volta in volta a vele, nuvole, farfalle, uccelli in volo, ne ignora l’impatto spesso violento sul suolo, mentre il programmatico disinteresse per il contesto li rende indifferenti, se non ostili, ai luoghi».

Paola Somma segue, quindi, la storia della Biennale, aiutandoci a leggerla come un'incubatrice di tutti i flagelli in seguito abbattutisi su Venezia. Alla prima mostra internazionale di architettura (1980), curata da Paolo Portoghesi, risale la produzione e la propaganda di «immagini della città come palcoscenico per suggestive rappresentazioni e, che, al tempo stesso, ne hanno promosso e avallato l’uso per affari ben concreti». Una linea – che si fatica a chiamare 'culturale' – che culminerà nella privatizzazione dell'Arsenale: che invece di essere restituito alla città finirà nelle mani del Consorzio Venezia Nuova. Erano, d'altra parte, gli anni in cui nasceva – e proprio nella cerchia di Bettino Craxi, ben nota a Portoghesi – la nefasta dottrina del patrimonio culturale come petrolio d'Italia, con il suo corollario di eventi effimeri e violento sfruttamento privatistico.

Negli anni novanta continua il rapporto perverso per cui il peggio delle 'innovazioni' architettoniche ed urbanistiche veneziane nasce nella serra della Biennale: è il caso del Ponte di Calatrava, ed è il caso del più clamoroso scempio degli ultimi decenni, il cantiere per il Palazzo del Cinema al Lido, passato per l'inutile e criminale distruzione della pineta storica: «Nel 2008, alla posa della prima pietra, il presidente della Regione, Giancarlo Galan, si rallegrò perché «sono stati abbattuti tutti quegli ostacoli burocratici fastidiosi di enti e uffici che non vogliono lavorare per il bene comune». Un'affermazione e un tono che preludono tristemente a quelli – ben più pericolosi – che Matteo Renzi riserva agli stessi organi di tutela: «Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che?».

Paola Somma segue con dolorosa, ma fredda, partecipazione il resto della storia (che davvero, a Venezia dovrebbe esser fatta leggere a tutti gli studenti di architettura del primo anno), e ci accompagna all'attualissimo epilogo, il matrimonio d'affari tra la Biennale e l'Expo 2015. «Il periodo di apertura, sei mesi, sarà più lungo del solito e grande rilievo sarà dato all’esposizione dei modelli dei padiglioni di Milano, a cominciare da quello italiano, una «foresta urbana pietrificata, ispirata all’albero della vita» in cui il visitatore potrà "immergersi e scoprire una suggestiva architettura- paesaggio". E, soprattutto, la Biennale di architettura si adopererà affinché l’Arsenale diventi, e venga percepito, come la vera porta d’ingresso dell'Expo. Il presidente Baratta, che non sembra nutrire preoccupazioni per i danni collaterali derivanti dallo sbarco di ulteriori milioni di turisti, è molto soddisfatto, perché in questo modo «la Biennale farà da traino allo sviluppo di Venezia».

Temiamo anche noi che finisca proprio così, ancora una volta. Perché la morale della storia è tutta iscritta in questa misurata, ma inappellabile condanna: «ovviamente, la Biennale non è la sola responsabile dello stravolgimento economico e sociale che ha trasformato Venezia prima in vetrina e poi in merce essa stessa. Ma ha attivamente cooperato con i governi e le istituzioni locali e nazionali e con i gruppi finanziari interessati a riconvertire le cosiddette città d’arte in fabbriche di eventi e in condensatori di rendita immobiliare e fondiaria».

Analisi critica dell'art. 10 del DL n. 47 del 28 marzo scorso “Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per l’Expo 2015”. Nuvola di parole accattivanti a nascondere «accordi coi privati basati su indici urbanistici arbitrari e tesi a garantire il conseguimento della rendita attesa, anche in condizioni di mercato altalenante tra bolle speculative e stagnazione delle vendite. Inviato a eddyburg il 15 aprile 2014

Il ministro Lupi ha maturato nella propria passata esperienza di assessore all’urbanistica del Comune di Milano come si possa fomentare uno scambio ineguale tra presunte virtù private e permissivismo pubblico, accettando la demolizione di ogni regola basata su un razionale rapporto tra quantità costruite, densità di popolazione e spazi ed aree per strutture pubbliche a fronte della promessa di edifici "verdi", "intelligenti", "energeticamente autosufficienti", "riciclabili"o "resilienti" (in altre parole, tutto l'armamentario ideologico delle tecnologie delle smart cities), per promuovere accordi coi privati basati su indici urbanistici del tutto arbitrari e tesi solo a garantire loro il conseguimento della rendita fondiario-immobiliare attesa, anche in condizioni di mercato altalenante tra bolle speculative e stagnazione delle vendite.
E’ esattamente ciò che viene riproposto su un orizzonte di mercato esteso all’intero quadro nazionale con l’art. 10 del Decreto Legge n. 47 del 28 marzo scorso intitolato non casualmente “Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per l’Expo 2015”. Il pensiero di fondo del provvedimento è alimentato da una mancanza di fiducia nella capacità della società di costruire progetti comunitari condivisi a lungo termine, come avviene nei piani urbanistici promossi dal pubblico sulla base di una propria visione dell’interesse generale, ed utilizza invece la pressione della domanda insoddisfatta di edilizia abitativa ad uso sociale, soprattutto in locazione, per tentare di smaltire a condizioni di smobilizzo senza regole insediative lo stock edilizio privato accumulato nel periodo della bolla speculativa immobiliare montante e il poco patrimonio edilizio pubblico sopravvissuto alle ricorrenti ondate di cartolarizzazioni e svendite.

Infatti, secondo il primo comma dell’art. 10, ciò dovrebbe avvenire “senza consumo di nuovo suolo rispetto agli strumenti urbanistici vigenti, favorendo il risparmio energetico e la promozione, da parte dei Comuni, di politiche urbane mirate ad un processo integrato di rigenerazione delle aree e dei tessuti attraverso lo sviluppo dell’edilizia sociale”.

Per conseguire questo scopo, tuttavia, il comma 5 mette in campo ogni genere di possibile intervento dalla “ristrutturazione edilizia, restauro o risanamento conservativo” alla “ sostituzione edilizia mediante anche la totale demolizione dell’edificio e la sua ricostruzione con modifica di sagoma o diversa localizzazione nel lotto di riferimento” alla “variazione di destinazione d’uso anche senza opere” (e quindi, eventualmente, anche con opere di trasformazione), alla “creazione di servizi e funzioni connesse e complementari alla residenza, al commercio (…) necessarie a garantire l’integrazione sociale degli inquilini degli alloggi sociali” alla “creazione di quote di alloggi da destinare alla locazione temporanea dei residenti di immobili di edilizia residenziale pubblica in corso di ristrutturazione o a soggetti sottoposti a procedure di sfratto”.

E’facile prevedere quali di queste modalità di intervento verranno preferite dai privati proponenti, soprattutto se si tiene conto che il comma 8 consente che essi “possono essere realizzati in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, e ai regolamenti edilizi ed alle destinazioni d’uso, nel rispetto delle norme e dei vincoli artistici, storici, archeologici, paesaggistici e ambientali, nonché delle norme di carattere igienico-sanitario e degli obiettivi di qualità dei suoli” e il comma 9 prescrive che tali interventi “devono comunque assicurare la copertura del fabbisogno energetico necessario per l’acqua calda sanitaria, il riscaldamento e il raffrescamento, tramite impianti alimentati da fonti rinnovabili”. Cioè, nel rispetto di ogni vincolo esterno, fuorché quelli di carattere di carattere intrinsecamente urbanistico-insediativo, che vengono totalmente deregolamentati.

Suona beffardo, infine, che tutto ciò si prescrive debba essere regolato “da convenzioni sottoscritte dal comune e dal soggetto privato, con la previsione di clausole sanzionatorie per il mancato rispetto del vincolo di destinazione d’uso”. Un’urbanistica “à la carte” che richiama in auge le convenzioni senza piano regolatore o il “rito ambrosiano” degli Anni Cinquanta-Sessanta che, nonostante il disastro insediativo di cui portiamo in gran parte ancora le nefaste conseguenze, si concluse solo dopo il simbolico episodio della frana di Agrigento del 1966, il cui impatto sulla pubblica opinione vinse le resistenze anche delle forze politiche più conservatrici nei confronti della necessità di una regolamentazione pubblica dell’assetto insediativo.

Anche il finanziamento che viene stanziato per l’attuazione dell’evento Expo 2015 a Milano-Rho lascia del tutto impregiudicato ciò che accadrà su quell’area (pochissimo adatta all’uso residenziale per le pesanti barriere infrastrutturali che la contornano) dal 2016 in poi, e su cui invece già aleggiano le aspettative del mondo della sussidiarietà cooperativistica dalle larghe intese, in assenza di chiari criteri insediativi prefissati dagli enti pubblici.

Oggi, l' urbanistica, dopo essere stata oggetto di grandi aspettative e rivendicazioni sociali negli anni Settanta e Ottanta, negli ultimi decenni, non gode più di una buona fama in un periodo di difficoltà finanziarie e di rapidità di mutamenti economico-produttivi e il suo posto nell’immaginario sociale collettivo dell’aspettativa di un futuro migliore è stato preso dall’ambientalismo ecologista o dal liberismo da regole insediative per l’attività economica imprenditoriale o familiare.

C’è da augurarsi che non occorra un nuovo choc analogo a quello provocato dalla disastrosa frana di Agrigento per comprendere su quale strada rischiamo di tornare a metterci.

La Repubblica, 15 aprile 2014

Braccio di ferro in Costa Smeralda. Il Qatar impedisce l’accesso alle spiagge più à la page bloccando i posteggi pubblici delle auto. E il Comune di Arzachena, nel cui territorio ricade gran parte del Consorzio turistico creato dall’Aga Khan, reagisce con forza: da oggi saranno avviate le procedure di esproprio delle aree, riservate d’estate ai parcheggi di chi va in macchina sino alle splendide spiagge di Liscia Ruia, del Pevero e di Romazzino. Per raggiungerle, oggi bisognerebbe percorrere a piedi oltre 10 km: impossibile lasciare moto, scooter o auto lungo le stradine sterrate che portano fin lì. E tutto questo perché la Land Holding, una delle società madri che fa capo all’emirato, qualche giorno fa ha fatto collocare una fila di massi per impedire l’accesso nei posteggi usati dai villeggianti.

Ma c’è di più. A fianco ai macigni sono apparsi cartelli con la scritta «Proprietà privata». Una palese violazione di prassi e consuetudini, secondo il Comune. «Perché sarà pur vero che i terreni appartengono al Qatar, ma il principe Karim prima e il suo successore Tom Barrack poi li avevano sempre lasciati a disposizione della collettività» spiegano ad Arzachena. Senza contare che i parcheggi devono rimanere pubblici per assicurare l’efficienza del servizio antincendi lungo una costa più volte minacciate dai roghi.

La querelle, sorta alla vigilia del primo ponte che dovrebbe portare nell’isola decine di migliaia di turisti, non pare destinata a risolversi subito. A meno che la società dell’emirato di stanza in Sardegna non decida di fare un passo indietro. Così, se tutti cercano di dare il minor clamore possibile alla vicenda, per non ledere l’immagine internazionale della Costa Smeralda, un fatto resta evidente: per la prima volta in mezzo secolo non è stata osservata la tradizione della cessione gratuita delle aree. Aree che l’apparato per i servizi tecnici del Comune affida a una coop e dota delle attrezzature necessarie per la sosta. Non si tratta, chiaramente, di pochi stalli. In tutto, i posti auto in ballo sono 600-700: è in gioco l’ospitalità quotidiana per almeno duemila persone. Oggi la giunta di Arzachena darà corso alle operazioni di esproprio, segno che qualsiasi tentativo di mediazione con il Consorzio sinora è fallito. Non si sa quanto tempo richiederanno le procedure. Ma il sindaco e i suoi assessori sono fiduciosi sulla possibilità di trovare soluzioni prima dell’inizio dell’estate. In ogni caso rifiutano di credere, come molti invece ritengono, che dietro la mossa della multinazionale possa celarsi un sotterraneo ultimatum per ottenere il via libera ai lavori di ampliamento di una perla della zona, l’hotel Cala di Volpe. Ovvia, quindi, anche la protesta dei balneari: «Per noi piazzare sedie e sdraio in queste condizioni sarà impossibile — dicono — E tutto ciò equivarrebbe a un calo delle presenze, ingiustificato in un paradiso come questo ».

Il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2014
La cancelliera tedesca Angela Merkel ha visitato la Pompei antica, pagando il biglietto. Non ci sarebbe la notizia: almeno non in un paese civile. Diventa, invece, una notizia proprio il fatto che, in Italia, questo piccolo accadimento abbia avuto una straordinaria risonanza mediatica. Per noi un capo del governo che si comporta come un cittadino è un evento letteralmente eccezionale.

E qui sta il primo punto: lo scollamento tra classe politica e cittadinanza. Un abisso antropologico che certo non viene colmato da un Matteo Renzi, figlio d’arte e professionista della politica fin dall’età della ragione.

Eppure, nonostante l’effimero compiacimento verso il gesto graziosamente accondiscendente del potente di turno, il dato su cui interrogarsi è che millenni di potere, imperiale e poi papale, hanno abituato gli italiani a piegare le ginocchia di fronte alla scenografia del sovrano di turno. Il dato tragico è che, in fondo, non prenderemmo sul serio un potente che si comportasse da cittadino.

Nello specifico, tuttavia, l’aspetto su cui riflettere è il rapporto tra il potere e il patrimonio culturale. Come dimostra il recentissimo scivolone della sottosegretaria Vicari, che ha chiesto i quadri dei musei di Roma per arredarsi l’ufficio al ministero dello Sviluppo economico, il nostro patrimonio storico e artistico viene percepito come una specie di grande attrezzeria di scena al servizio del potere. Quadri delicatissimi vengono spediti come commessi viaggiatori in mezzo mondo, gruppi scultorei antichi sono dislocati nei palazzi della politica, un luogo unico come Villa Madama (progettata da Raffaello) viene usato come sfondo di lusso per i vertici internazionali dei nostri capi del governo.

Quel che manca è un qualsiasi indizio di un rapporto personale tra i “potenti” e quello stesso patrimonio. La vera notizia, per l’Italia, non è che Angela Merkel abbia pagato il biglietto, ma che abbia impiegato tre ore e mezzo del suo tempo privato e personale per vedere Pompei, con una cartina in mano e in compagnia di un archeologo tedesco. E che abbia trovato poi il tempo di vedere anche il Rione Terra di Pozzuoli, con le sue vestigia romane e il suo Duomo appena restaurato. Ora, quale politico italiano lo farebbe, se non per dovere di Stato, e a favore di telecamera? E questo è il punto: in Italia non c’è mai stata una vera politica per la cultura, perché almeno dagli anni Sessanta, la nostra classe politica – salvo rare eccezioni – non è stata composta da persone che avessero un vivo rapporto personale con la cultura. È dura parlare di politica internazionale con uno che non sa nemmeno cos’è la geografia, o di economia con uno che non ricorda manco le tabelline: eppure, la stragrande maggioranza dei nostri ministri per i Beni culturali e dei nostri presidenti del Consiglio non ha la più pallida idea di cosa sia un museo, per non dire uno scavo archeologico. Commentando un libro di Renzi, Paolo Nori ha scritto “Ecco: a me è sembrato stranissimo che in tutte le 193 pagine di questo libro sulla bellezza non sono riuscito a trovare una frase che mi sembrasse non dico bella, ben fatta”. Ed è per questo che ci colpisce così tanto vedere la Merkel felice di passare tre ore e mezza tra scavi da cui i suoi omologhi italiani scapperebbero a gambe levate.

Infine, il biglietto. Salvo rarissime eccezioni, nessuna istituzione culturale del mondo campa con i biglietti: ed è per questo che si potrebbe addirittura pensare di sopprimerli, sottolineando così – come avviene, per esempio, in molti musei pubblici inglesi – la gratuità del patrimonio e la sua dimensione inclusiva. Piuttosto, sarebbe stato bello far notare a Frau Merkel che se Pompei versa nello stato penoso in cui l’ha trovata, è in massima parte a causa dei dissennati tagli al bilancio pubblico imposti proprio dall’Europa a trazione tedesca. Non esiste una politica europea della cultura, né una chiara idea della sua funzione civile: e forse il punto da cui partire potrebbe esser proprio il senso della Merkel per Pompei. Senza battere i pugni sul tavolo, ma riallacciando i fili di un’antica conversazione tra Italia e Germania.

Ecco perchè bisogna opporsi all'approvazione del TTIP: non perchè è un fastidioso acronimo. ecco infatti «tutte le conseguenze (su diritto del lavoro, ogm, sanità, ambiente, proprietà intellettuale e energia) del trattato di libero scambio che Usa e Ue vogliono approvare». www.sbilanciamoci.info, 8 aprile 2014 (m.p.r.)

L’obiettivo dichiarato del Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) è quello di costruire la più grande area di libero scambio al mondo attraverso l’eliminazione delle barriere, tariffarie e non, che ancora limitano i flussi commerciali tra Europa e Usa. Le previsioni ufficiali in merito ai presunti benefici associati al Ttip non sembrano però esaltare, a fronte della brusca deregolamentazione di cui il Trattato è foriero. È già riscontrabile una divaricazione tra quanto affermano i report ufficiali e gli studi commissionati dalle lobby interessate (la Commissione ha recentemente ridimensionato i dati già forniti ad uno 0.1% di crescita del Pil per entrambe le parti coinvolte nell’accordo, che equivarrebbe ad una crescita risibile dello 0.01% annuo su di un orizzonte di dieci anni. (Dettagli qui)

Ciò che preoccupa maggiormente però è l’assenza, a parte alcune meritorie eccezioni come Attac!, S2B Network e la rete Sbilanciamoci, di una intensa campagna che informi in merito alle conseguenze sociali ed ambientali che un trattato come questo potrebbe produrre. L’obiettivo dei negoziatori è quello di armonizzare le rispettive regolamentazioni in materia di commercio internazionale. Il riferimento nient’affatto implicito è alle differenze che tuttora intercorrono tra Ue ed Usa nelle regole in materia di protezione sanitaria, alimentare, di diritto d’autore e del lavoro. Parlare semplicisticamente di “armonizzazione”, tuttavia, può apparire perlomeno riduttivo se si adotta una prospettiva che identifica in quei “..costi e ritardi non necessari e dannosi per le imprese..” delle conquiste di civiltà irrinunciabili per chi ambisce ad un mondo più giusto e sostenibile dal punto di vista ambientale. È noto infatti come in molti ambiti gli standard Ue, basati sul principio di precauzione, siano più stringenti di quelli Usa ed uno scivolamento verso i livelli di deregolamentazione americani diverrebbe la conseguenza più naturale del Ttip. Si starebbero in questo modo realizzando le ambizioni che le organizzazioni di impresa hanno ripetutamente manifestato negli anni recenti (vedi)

Il primo blocco di diritti ad essere minacciato sono quelli a protezione del lavoro. Potrebbe non essere remota la possibilità che una normativa analoga al “Rights to Works” americano, ribattezzata dai sindacati statunitensi l’Anti-Unions-Act (Greenhouse, S. “States seek laws to curb power of unions”. NYT 3 January, 2011), si affacci con sembianze analoghe anche in Europa. La sostanza liberista di una normativa di questo tipo verrebbe ad alimentare una rinnovata concorrenza al ribasso fra i lavoratori sui loro diritti e le loro retribuzioni. Si tratta esattamente della logica in virtù della quale i recenti governi di emergenza italiani hanno messo mano, flessibilizzandola, alla legislazione in materia di lavoro augurandosi di avere in cambio un salvifico ed ingente afflusso di capitali internazionali.

La conseguenza immediata di un superamento de facto del principio di precauzione sarebbe l’ineffettività di gran parte delle normative europee sulla sostenibilità ambientale. Una delle maggiori fonti di rischio in questo senso è il cosiddetto shale-gas, o “fracking-gas” dalla particolare tecnica estrattiva che contraddistingue questi idrocarburi. Questa tecnica richiede l’uso di una procedura ritenuta letale per le falde acquifere ed il suolo sottostante i giacimenti e le zone ad essi limitrofe. L’approvazione del Ttip potrebbe, anche in questo caso, spalancare le porte dell’Europa (Polonia, Francia e Danimarca sembrano essere le regioni con le più ricche di shale-gas) alle imprese americane del settore le quali potrebbero efficacemente sfruttare i vantaggi competitivi dati da una tecnologia che perfezionano in patria da più di dieci anni.

Non meno importanti sono le limitazioni che la Ue impone all’uso ed all’importazione degli Ogm e delle carni trattate con ormoni o sterilizzate tramite l’uso di cloro. Le barriere che secondo Max Baucus, attuale presidente della Commissione Finanze del Senato Americano, “..non sono in linea con le attuali posizioni della comunità scientifica internazionale..” sono quelle che sino ad oggi hanno parzialmente impedito che prodotti di questo tipo fossero diffusi sui campi o nei supermercati europei. Inoltre, una brusca eliminazione delle tradizionali barriere commerciali esporrebbe le imprese agricole europee alla concorrenza dell’agri-businness statunitense forte di una concentrazione di mercato imparagonabile a quella europea (2 milioni di imprese agricole negli Usa contro 13 milioni nella Ue).

Il Ttip potrebbe concretamente rappresentare il tentativo di reintrodurre ciò che è stato respinto dal Parlamento europeo nel 2012. Si tratta del Anti Counterfeiting Trade Agreement (Acta), un accordo in materia di proprietà intellettuale tentato senza successo tra Ue ed Usa. A spingere i parlamentari europei ad esprimersi contro l’Acta è stata la duplice implicazione che lo stesso avrebbe avuto, ovvero quella di limitare in modo rilevante il libero accesso alla conoscenza sul web e di dare un potere enorme nella gestione dei dati personali alle imprese del settore.

Una particolare attenzione andrebbe poi riposta sui rischi che gravano sul settore sanitario europeo che rischia di trasformarsi in terreno di conquista per le grandi imprese americane. Così come le norme ambientali europee ci hanno sin qui tutelato dagli Ogm e dalle carni trattate, il Reach (Regulation on Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemicals, entrato in vigore il 1° giugno 2007 con lo scopo di regolamentare il mercato dei prodotti chimici nella Ue) ha consentito ai cittadini di tutelarsi dall’invasione di prodotti farmaceutici che per le autorità europee sono potenzialmente nocivi per la salute umana e animale. Grazie al Ttip, nondimeno, nascerebbe la possibilità per le imprese, qualora volessero contestare una regolamentazione statale o comunitaria troppo stringente, di rivolgersi ad un organismo arbitrale terzo dotandosi così di un potente mezzo per il contrasto di politiche e leggi democraticamente adottate ma divergenti dalle loro strategie aziendali.

I rappresentanti della grande finanza stanno chiedendo agli estensori del Ttip di prevedere esplicitamente una “disciplina” per la regolamentazione della finanza da parte degli Stati (vedi qui). Ciò significherebbe in termini concreti una limitazione alla dimensione ed alla pervasività della regolamentazione finanziaria nei due blocchi. L’ambiguità di questo metodo di redazione del Trattato potrebbe essere foriera di una nuova diffusione di massa degli eredi di quegli strumenti finanziari protagonisti del crack della Lehman Brothers.

La breve sintesi fornita rispetto a quanto hanno in mente gli estensori del Ttip allarmerebbe chiunque non fosse un lobbista o un percettore di dividendi da parte di un impresa multinazionale. Per i cittadini europei la sfida è però duplice. Le urne francesi hanno segnalato il raggiungimento di un livello critico di sopportazione da parte dei cittadini per i metodi antidemocratici che guidano le decisioni delle istituzioni europee. Appare chiaro come un futuro diverso da quello che ha caratterizzato gli ultimi anni non possa che passare per una riforma radicale delle istituzioni e delle prospettive della Ue. Da questo punto di vista il Ttip appare un emblema ed una sintesi di quei “valori” che hanno condotto l’occidente, e l’Europa in particolare, nella situazione di crisi in cui ancora versa. Una discussione profonda, pubblica e democratica rispetto ai contenuti del Ttip non potrà non essere un punto fermo della campagna per le imminenti elezioni europee che si profilano come un crocevia fondamentale per il nostro futuro.

«Ecco perché mi preoccupa, e molto, come il nostro cibo quotidiano potrebbe cambiare, in modo silenzioso e totalmente sconnesso da ogni condivisione popolare, se venisse approvato l’accordo di commercio transatlantico Europa-Usa». La Repubblica 12 aprile 2014

Che ne direste di dare la delega al vicino per l’assemblea di condominio e sapere (ma solo quando il demolitore sarà arrivato davanti a casa vostra) che lui e gli altri hanno deciso di buttare giù il palazzo e ora nessuno ci può più fare nulla? La domanda può sembrare strampalata ma serve per chiedersi: la democrazia può legittimare qualcuno ad adottare scelte che interessano tutti gli altri, senza che gli elettori possano più dire la loro? I governi dei Paesi moderni sono i nostri delegati all’assemblea di condominio mondiale. Se decidono qualcosa che alla maggioranza dei cittadini non piace o che ne mette in discussione il diritto a fare libere scelte per sé e per i propri figli, allora quelle decisioni non solo dovrebbero poter essere discusse, ma dovrebbero almeno poter essere ben conosciute.

Ecco perché mi preoccupa, e molto, come il nostro cibo quotidiano potrebbe cambiare, in modo silenzioso e totalmente sconnesso da ogni condivisione popolare, se venisse approvato l’accordo di commercio transatlantico Europa-Usa (quello che, con una delle consuete e criptiche sigle, si chiama Ttip, Transatlantic Trade & Investment Partnership).
Il trattato viene annunciato come una straordinaria opportunità economica e di crescita, perché dovrebbe creare tra Europa e Usa, quelle facilitazioni commerciali che mitologicamente dovrebbero rendere tutti più ricchi. Dico mitologicamente, perché un Nobel dell’economia come Joseph Stiglitz ha scritto apertamente che la teoria — secondo cui se si arricchiscono i ceti più abbienti in una società certamente staranno meglio tutti — è semplicemente una bugia. Gli accordi di libero scambio, dal Nafta in poi, infatti non hanno visto migliorare il tenore di vita dei più poveri e dei piccoli produttori, ma solo moltiplicare i guadagni dei più ricchi speculatori.
Sarebbe bello che il Ttip servisse a definire standard comuni di sicurezza alimentare, che proteggesse le produzioni nazionali e i territori che danno loro vita. Sarebbe un nobile accordo, un compromesso al rialzo. Purtroppo però sappiamo bene che non sarà così, che ancora una volta trionferanno i pochi attori multinazionali a scapito della volontà dei molti cittadini che vivono e lavorano ben lontano dal vertice della piramide. Con buona pace dei consumatori e dei loro diritti e soprattutto, in questo caso, con un percorso di sola andata, che si svolge a porte chiuse.
Le delegazioni della Commissione Europea e degli Usa, infatti, svolgono i propri lavori in sedute non pubbliche, elaborando documenti che non vengono diffusi. L’unica informazione trapelata è che nascerà un tribunale transatlantico del commercio. Questo non sarà legato a un’autorità politica e funzionerà come un arbitrato di altissimo livello, attraverso cui le grandi corporazioni potranno anche chiedere e ottenere sanzioni contro gli Stati che dovessero, in qualche misura, limitare la portata dell’accordo attraverso leggi o altre norme approvate dalle proprie istituzioni rappresentative. Spero che si comprenda cosa significa che le multinazionali possono fare causa agli Stati con il beneplacito di quest’ultimo, anche se gli Stati decidono conformemente alle loro Costituzioni e a procedure democratiche: è la nascita certificata di un nuovo ordine mondiale. Così, per i consumatori e soprattutto per i cittadini europei, si prepara una pietanza che si preannuncia ben poco digeribile, ancora una volta cucinata secondo lo stile delle decisioni che piovono dall’alto, nel nome dell’interesse nazionale che è spesso l’interesse di pochi e ben individuabili gruppi, assolutamente elitari. Finiti i tempi dei corridoi dove operano le lobby: le multinazionali acquisiscono il potere di bacchettare pubblicamente gli improvvidi governanti.
Mi sembra incredibile la situazione in cui siamo: alcuni delegati — la cui legittimazione democratica è già molto più che mediata — discutono in segreto i termini di un accordo che i cittadini conosceranno solo quando sarà pronto per la firma. Prendere o lasciare. Senza la possibilità per gli Stati membri dell’Ue di ritornare su quanto verrà sottoscritto. Nemmeno se le maggioranze dei cittadini che li abitano si esprimessero per imboccare una direzione diversa.
Mi trovo sempre più spesso a dubitare che le istituzioni politiche che decidono riguardo al nostro fondamentale bisogno alimentare finiscano per dare vita a regolamentazioni al servizio dell’uomo. Avevo già maturato questa considerazione quando il “tribunale” del Wto aveva stabilito che il bando della carne agli ormoni — deciso in Europa, a furor di popolo, negli anni ‘80 — era ingiustificato e doveva venir meno proprio perché corrispondente alla sola volontà popolare e non a univoche evidenze scientifiche della pericolosità del consumo di questa carne.
Ora, io nutro grande rispetto della scienza e credo davvero che non si debba decidere sulla base di un consenso agitato dalla demagogia, ma mi chiedo allora: perché non obbligare chi vuole vendere carne prodotta usando ormoni della crescita, o prodotti tra i cui ingredienti ci siano materie prime ogm, a indicarlo in etichetta? Perché la scienza serve come scusa, al fine di non permettere una scelta consapevole al consumatore? Perché come già in passato per il cioccolato fatto anche con grassi diversi dal burro di cacao, si consente una produzione, si ammette alla vendita un cibo diverso da quello che ben conosciamo (il che è legittimo) ma non si impone a chi lo produce di rendere evidente la sua procedura produttiva, consentendo al consumatore di scegliere a ragione veduta?
Sospetto fortemente che la risposta alle mie domande siano gli stessi interessi che sono alla base della decisione di trattare l’accordo Ttip a porte chiuse, senza condivisione prima e senza possibilità di retromarcia dopo.

Un copione classico va in scena nella variante mobilità sostenibile: commercianti contro amministrazione per una limitazione di traffico, ma non è tutto. La Repubblica Milano, 11 aprile 2014, postilla (f.b.)

È la ciclabile della discordia. Progettata dal Comune, voluta dai ciclisti ma ostacolata dai commercianti. Prima ancora che siano partiti i lavori, la (doppia) corsia riservata alle bici in viale Tunisia ha già scatenato polemiche. Da una parte ci sono i proprietari dei negozi che temono di perdere clienti, dall’altra i ciclisti che hanno lanciato il boicottaggio degli esercenti anticiclabile. Ancora non è stata posata una goccia di vernice sull’asfalto e quella di viale Tunisia è già diventata la pista ciclabile della discordia. Scatenando una battaglia a tre, fra il Comune, i commercianti che si oppongono al progetto, e i ciclisti che attendono la corsia riservata da anni. Uno scontro durissimo, fra denunce, boicottaggi e polemiche al vetriolo sui social network.

Tutto è cominciato quando Palazzo Marino ha annunciato il progetto di una doppia corsia ciclabile (una su entrambi i lati del viale). La notizia ha mandato i commercianti dell’Asscomm Porta Venezia su tutte le furie perché secondo loro ostacolerebbe il traffico e la sosta dei clienti. «È un progetto inutile e scellerato — ha spiegato Luca Longo, presidente dell’associazione — perché esiste già una pista che viaggia parallela in via Monforte. Senza contare i soldi, 850mila euro per poche centinaia di metri. Risorse che chiediamo vengano investite per l’abbattimento delle barriere architettoniche ». Un disappunto che i commercianti — o almeno parte di loro, visto che la Confcommercio ha preso le distanze — hanno espresso nei modi più disparati: prima diffondendo vignette di Pisapia e Maran sopra una bara con la scritta “hanno condannato a morte commercio e sicurezza in tutta Milano”, poi intervenendo a un incontro pubblico dove hanno apertamente contestato l’assessore. Infine con volantini che hanno fatto infuriare la giunta per una frase («c’era scritto “le ciclabili si fanno per dare le mazzette agli assessori”», ha spiegato Maran) e per cui è stata avviata una causa. «Cose che non ci spaventano — ha commentato Longo — noi vogliamo che Maran ci incontri e ci ascolti».

Ma quello che probabilmente non si aspettavano i commercianti è la rivolta che si è scatenata sulla pagina Facebook dell’associazione dopo questa presa di posizione: decine e decine di ciclisti hanno cominciato a postare messaggi di indignazione, lanciando di fatto una campagna per il boicottaggio dei negozi di viale Tunisia. «Ho preso nota di tutti i vostri soci, dove non metterò mai più piede » ha scritto ad esempio Marco Mazzei, ciclista e attivista della critical mass. «Vista la vostra insensata posizione vedrò bene di non fare più acquisti in nessuno dei vostri negozi», ha commentato Federico Cupellini. Un boomerang che ha spinto alcuni esercenti a fare marcia indietro: come il ristorante Delicatessen che ha comunicato ufficialmente di non essere più un socio sostenitore.

I piani per l’avvio dei lavori, nel frattempo, procedono. E l’apertura dei cantieri (che dovrebbero durare otto mesi) è prevista entro il mese. «Questi commercianti stanno difendendo il diritto a sostare irregolarmente su strada — ha detto l’assessore Maran — perché il progetto della ciclabile, oltre a dare spazio alle bici, contrasta la sosta selvaggia. Senza contare che la pista in quel tratto ha una funzione fondamentale di raccordo con il resto della rete ciclabile».

postilla

Forse sfugge a prima vista l'analogia fra queste polemiche, che coinvolgono un paio di corporazioni (come altro definire chi si autodefinisce “ciclista” oppure “commerciante a orientamento automobilistico”?) e altre apparentemente lontanissime, come quelle fra gli esercenti tradizionali e le catene della grande distribuzione. Come insegnano di recente le numerose analoghe battaglie in grandi città del mondo dove non esisteva alcuna tradizione di mobilità su due ruote, introdurre o recuperare un certo tipo di metabolismo e scambio tra il fronte edificato e la strada/piazza può rivelarsi traumatico. E non riguarda solo, appunto, problemi di mobilità, inquinamento, gestione dei parcheggi, ma lo stesso funzionamento dell'organismo urbano, la distribuzione delle funzioni, i loro rapporti reciproci. Forse il commercio affacciato sulle arterie a scorrimento veloce (si fa per dire, quando sono mezze intasate dalla sosta dei veicoli) dopo mezzo secolo non ha ancora compreso davvero la massima secondo cui non si è mai dato che un'automobile entri in un negozio a comprare o consumare qualcosa. E che se si tratta di gestire l'interfaccia in termini di parcheggio loro hanno già perso in partenza, appunto da oltre mezzo secolo, la battaglia coi centri commerciali a scatolone e autosilo. In definitiva, come si immagina inizino a capire anche le amministrazioni cittadine, qualunque azione sulla mobilità innesca rapidissime reazioni a catena, e va inquadrata in un piano/programma con obiettivi di massima coordinati. Ecco: questi non si capisce ancora quali siano, e magari aiuterebbe anche a evitare scontri paralizzanti. Qualche considerazione in più su Millennio Urbano (f.b.)

Prosegue l'analisi del manifesto sulle cittàitaliane. Dopo Milano (7 febbraio), Sassari(13 febbraio), Venezia (20 febbraio),Napoli (27 Febbraio), Avellino (6 marzo), Bologna (13 marzo), Parma (20marzo 2014) Roma(27 marzo), Firenze (3 aprile) due città di frontiera che vogliono diventareuna: la più grande del Mezzogiorno. Prossimamente Torino e Cagliari, 10 aprile 2014

Tra la punta dello sti­vale e la Sici­lia c’è un tratto di mare, di poco più di tre chi­lo­me­tri che alcune volte diventa un lago salato, facile da attra­ver­sare con una pic­cola barca a remi, ma anche a nuoto come avviene ogni anno il 15 ago­sto e a Capo­danno per un antica tra­di­zione. Altre volte que­sto mare si agita, ha le con­vul­sioni, solo le grandi navi por­ta­con­tai­ner rie­scono a pas­sare men­tre le due rive si allon­ta­nano, l’Aspromonte scom­pare dalla vista dei mes­si­nesi e un’ombra scura sulla costa sici­liana impe­di­sce ai reg­gini di vedere Zan­kle, Mes­sene, Messina.

Reg­gio e Mes­sina, città sorelle e, a volte, acer­rime nemi­che, hanno vis­suto nel corso della sto­ria le stesse cata­strofi natu­rali (più di venti terremoti/maremoti cata­stro­fici di cui i più recenti sono stati il 1783 e il 1908) che ne hanno segnato la memo­ria e l’identità, ma hanno anche intrec­ciato e mesco­lato le popo­la­zioni delle due sponde, le cul­ture e i riti reli­giosi, la gastro­no­mia e il dia­letto. Reg­gio è la meno cala­brese delle città della Cala­bria così come Mes­sina è la meno sici­liana: sono città di fron­tiera, rispetto a Palermo e Catan­zaro, i capo­luo­ghi regio­nali. Appar­ten­gono allo Stretto, a que­sto pae­sag­gio unico al mondo, carico di miti anti­chi quanto la nostra civiltà, di feno­meni natu­rali straor­di­nari (come la fata Mor­gana), di uno sky­line armo­nioso e sug­ge­stivo che solo la fol­lia dello svi­lup­pi­smo delle grandi opere voleva detur­pare e distrug­gere con la costru­zione del farao­nico Ponte. Un’opera voluta anche dai sici­liani e cala­bresi che vivono lon­tano dallo Stretto e vedono que­sto tratto di mare come un osta­colo, una per­dita di tempo, per­ché non sanno godere di que­sto spet­ta­colo perenne che uni­sce le due città, come la vite che s’intreccia all’ulivo.

Rico­struite dopo il ter­ri­bile ter­re­moto del 1908, il più deva­stante al mondo per numero di morti (oltre 100.000) durante il secolo scorso, le due città hanno seguito tra­iet­to­rie diverse sul piano socio-economico. Durante il fasci­smo che rea­lizzò velo­ce­mente la rico­stru­zione, Mes­sina ebbe un ambi­zioso piano urba­ni­stico (piano Borzì) e cospi­cui finan­zia­menti da parte del governo fasci­sta per via degli stretti rap­porti del suo arci­ve­scovo con il duce. La città fu ridi­se­gnata con grandi viali, ampie piazze, e grandi edi­fici pub­blici in stile fasci­sta, non­ché palazzi e ville nobi­liari in stile liberty. Fino alla seconda guerra mon­diale il porto di Mes­sina aveva un ruolo impor­tante nell’esportazione di vino e agrumi sici­liani (in par­ti­co­lare i limoni, il 90% dell’export nazio­nale di que­sto agrume), del legname dell’Aspromonte, della seta pro­dotta a Villa San Gio­vanni e delle essenze di ber­ga­motto pro­dotte a Reg­gio. Aveva inol­tre delle fab­bri­che di essenze agru­ma­rie e tes­sili e altre indu­strie create da impren­di­tori stra­nieri e locali. Divisa tra due forti mas­so­ne­rie, una laica-mazziniana e l’altra cat­to­lica, la città espri­meva un livello cul­tu­rale molto più alto della media delle altre città del Mez­zo­giorno anche gra­zie alla pre­sti­giosa Uni­ver­sità nata nel XV secolo, una delle più anti­che del nostro Sud.

Di con­tro, Reg­gio era una pic­cola città-fortezza, dise­gnata intorno al castello ara­go­nese del XV secolo. Fu rico­struita sulla stessa strut­tura urba­ni­stica pre-terremoto, solo più in alto per­ché era stato il mare­moto a fare il mag­gior numero di vit­time. La sua ric­chezza non veniva dal mare, ma dall’entroterra e il potere era in mano a una deca­dente nobiltà e a una pic­cola bor­ghe­sia com­mer­ciale. Ma, aveva una grande fonte di ric­chezza e di lavoro: la lavo­ra­zione del ber­ga­motto, le cui essenze hanno costi­tuito la base dell’industria cosme­tica fino a quando, nel 1954, non è stato tro­vato un sosti­tuto chimico.

Dagli anni ’50 del secolo scorso le due città subi­rono un pro­gres­sivo pro­cesso di dein­du­stria­liz­za­zione, di per­dita del rap­porto pro­dut­tivo con le pro­prie risorse, di cre­scente peso della pub­blica ammi­ni­stra­zione e della spesa assi­sten­ziale. Un feno­meno che è stato comune alla gran parte delle regioni meri­dio­nali, dove solo dal 1951 al 1971 l’industria mani­fat­tu­riera ha fatto regi­strare un saldo nega­tivo di 17.525 unità a fronte di un aumento di 144.130 unità che si regi­stra nel Centro-Nord . È un pro­cesso di dein­du­stria­liz­za­zione che col­pi­sce la Pmi meri­dio­nale e porta ad una dele­git­ti­ma­zione del mer­cato capi­ta­li­stico. Il ven­ten­nio dello svi­luppo eco­no­mico ita­liano è stato il ven­ten­nio della deser­ti­fi­ca­zione pro­dut­tiva nel Mez­zo­giorno, che non ha retto alla pro­gres­siva glo­ba­liz­za­zione dei mer­cati, e ha pro­dotto un vuoto socio-economico e poli­tico che altri sog­getti hanno riempito.

A Mes­sina, la crisi pro­dut­tiva e occu­pa­zio­nale è stata in parte sosti­tuita dalla spesa pub­blica e la cre­scita abnorme delle pub­bli­che isti­tu­zioni: Comune, Pro­vin­cia, Ospe­dale, Poli­cli­nico, Uni­ver­sità. Alla bor­ghe­sia pro­dut­tiva e libe­rale (a Mes­sina nel 1948 il Par­tito libe­rale prese il 14%, un record in Ita­lia) si è andata sosti­tuendo la bor­ghe­sia sta­tale, i buro­crati e i poli­tici che inter­cet­ta­vano i flussi cre­scenti di spesa pub­blica. La crisi pro­fonda della città ini­zia negli anni ’70 del secolo scorso e segue la para­bola della spesa pub­blica. Il suo declino è inar­re­sta­bile, ma lento, sor­dido, non suscita rea­zioni, tanto da con­fer­mare l’ingiuria per i mes­si­nesi di essere dei bud­daci, cioè pesci che stanno a bocca aperta, par­lano tanto, ma non com­bi­nano niente. La cor­ru­zione, l’incapacità, la man­canza di una cit­ta­di­nanza attiva, fanno sì che la città con­ti­nui a spe­gnersi len­ta­mente, con brevi ritorni di fiamma come accadde nel periodo 1994-‘98 durante la giunta Pro­vi­denti. Un’eccezione in oltre quarant’anni di decadenza.

Dall’altra parte dello Stretto il crollo nelle ven­dite delle essenze di ber­ga­motto e delle arance (per via della con­cor­renza spa­gnola), fonti pri­ma­rie di ric­chezza della città, venne solo in parte com­pen­sato dalla cre­scita della spesa pub­blica. Il crollo della nobiltà lati­fon­di­sta, della bor­ghe­sia com­mer­ciale, non trovò un sog­getto sociale capace di ege­mo­nia fin­ché non scop­piò la guerra per il Capo­luogo nel 1970. Durò quasi un anno e fu l’ultima rivolta popo­lare di massa del Mez­zo­giorno, su cui si inse­ri­rono inte­ressi esterni legati alla stra­te­gia della ten­sione, e si sal­da­rono i rap­porti tra Mas­so­ne­ria, ser­vizi segreti e ‘ndran­gheta. Ma, la gente che era scesa in piazza e che morì o fu ferita e arre­stata aveva, oltre l’orgoglio di appar­te­nenza, l’obiettivo di com­bat­tere per gli unici posti di lavoro cre­di­bili: quelli della pub­blica ammi­ni­stra­zione. Men­tre la sini­stra, Pci in testa, par­lava di fab­bri­che e indu­stria­liz­za­zione, la popo­la­zione cre­deva solo al Capo­luogo come fonte d’occupazione e di red­dito. Que­sta rivolta segnò una cesura sto­rica netta: la vio­lenza della repres­sione gover­na­tiva, l’azzeramento della classe poli­tica demo­cri­stiana, portò a un vuoto totale di potere e di lega­lità che durò molti anni. Crebbe allora l’abusivismo edi­li­zio, fino a quel momento mar­gi­nale, fino a dar vita nei decenni suc­ces­sivi, alla costru­zione del 90 per cento di case abu­sive. Intorno al cen­tro sto­rico la città è cre­sciuta come uno ster­mi­nato e informe agglo­me­rato di case man­gian­dosi la cam­pa­gna un tempo lus­su­reg­giante. Ma, soprat­tutto, emerse con forza il ruolo ege­mone della bor­ghe­sia mafiosa com­po­sta da pro­fes­sio­ni­sti, impren­di­tori, poli­tici e il brac­cio armato di quella orga­niz­za­zione che si chiama ‘ndran­gheta, diven­tata la più potente delle mafie. Senza Stato, né Mer­cato, Reg­gio divenne un labo­ra­to­rio per la via cri­mi­nale all’accumulazione capi­ta­li­stica che si è dif­fuso in tutto il mondo.

Nel nuovo secolo lo sce­na­rio socio-politico dell’area dello Stretto appa­ren­te­mente non cam­biò. Mes­sina con­ti­nuò nel suo declino e passò da un Com­mis­sa­ria­mento del Comune all’altro, per cor­ru­zione, dis­se­sto finan­zia­rio o sem­plice caduta della giunta comu­nale. Reg­gio, che aveva vis­suto un pic­colo momento di rina­scita (la cosid­detta «Pri­ma­vera reg­gina» del com­pianto sin­daco Italo Fal­co­matà), ricadde nello scon­forto e finì nelle mani di un abile poli­tico, già lea­der del Fronte della Gio­ventù, che si inventò il modello Reg­gio: spesa pub­blica a go-go per spet­ta­coli e diver­ti­menti, clien­te­li­smo sfre­nato e bilan­cio comu­nale truc­cato e fuori controllo.

Negli ultimi anni la sto­ria delle due città ha subito un’accelerazione e una svolta impre­ve­di­bile. Il bello della vita è que­sto: quando non ti aspetti più niente, quando sem­bra che non ci siano più spe­ranze, quando sei rat­tri­stato da una gior­nata carica di nuvole, piog­gia e vento, improv­vi­sa­mente un rag­gio di luce appare sullo Stretto e cam­bia la tua visione, la tua per­ce­zione del futuro.

A Reg­gio il modello Sco­pel­liti è finito nelle mani della magi­stra­tura, men­tre la città lan­gue sotto il peso di un lungo Com­mis­sa­ria­mento inca­pace di risol­vere il dis­se­sto finan­zia­rio dovuto alle pas­sate ammi­ni­stra­zioni. È una città in fuga, dove par­tono non solo i lau­reati ma tutti quelli che pos­sono, e la stessa bor­ghe­sia mafiosa ha smesso di inve­stire da anni, spo­stando i capi­tali verso il Nord Ita­lia e le aree più ric­che del mondo. Quasi ogni notte una bomba sve­glia gli abi­tanti (l’ultima pro­prio al lato della pre­fet­tura) e sono ripresi gli omi­cidi mafiosi, dopo una lunga pax seguita al «Trat­tato» del 1992 in cui i capi­clan posero fine alla guerra di ‘ndran­gheta che costò set­te­cento omi­cidi in sette anni.

A Mes­sina, nes­suno se lo aspet­tava o ci avrebbe scom­messo un euro, nelle ele­zioni comu­nali del giu­gno scorso ha vinto la lista civica di Renato Acco­rinti, mili­tante paci­fi­sta, eco­lo­gi­sta e lea­der del movi­mento No Ponte. Una figura di sin­daco che ha stu­pito l’Italia interna e non solo, e che è il frutto di una improv­visa rivolta della città al malaf­fare e alla bor­ghe­sia paras­si­ta­ria che l’ha gover­nata per decenni. La giunta Acco­rinti, com­po­sta da tec­nici social­mente impe­gnati, ha un pro­gramma ambi­zioso di riscatto della città e in pochi mesi ha già segnato un visi­bile cam­bia­mento (Renato Acco­rinti è il sin­daco più amato dagli ita­liani secondo l’ultimo son­dag­gio Ipsos). Ma, il fatto isti­tu­zio­nal­mente più rile­vante è la volontà di que­sta giunta di costruire la città metro­po­li­tana dello Stretto, unendo Reg­gio e Mes­sina e i Comuni limi­trofi. Diver­rebbe la terza città del Mez­zo­giorno per popo­la­zione e, soprat­tutto, un labo­ra­to­rio di soste­ni­bi­lità sociale e ambien­tale, a par­tire dai tra­sporti neces­sari per dare la con­ti­nuità ter­ri­to­riale alle due sponde. La sfida della giunta Acco­rinti ha con­ta­giato la sponda reg­gina e l’idea di una città dello Stretto che venga fon­data sui valori dell’ambiente, dell’economia soli­dale e della pace, sta comin­ciando a navi­gare da una sponda all’altra. Se il tiranno Anas­sila era riu­scito a uni­fi­care le due città con la forza, oggi que­sta unione avviene sotto il segno di una demo­cra­zia che cre­sce dal basso.

Corriere della Sera Lombardia, 6 aprile 2014

MILANO — I contrari, i paladini delle vette, Cai in testa, hanno raccolto online oltre 23 mila firme in 7 giorni. I favorevoli, gli appassionati delle moto, rispondono con più di 3.700 sottoscrizioni. È sfida sui sentieri di montagna della Lombardia a colpi di petizioni in rete fra pro e contro la nuova legge regionale che, se approvata, cancellerà gli attuali divieti, per permettere alle moto da cross, enduro e trial di sfrecciare in libertà nelle oasi verdi d’alta quota e nei boschi di collina e pianura. Infatti al Pirellone, martedì, sarà discusso e votato il progetto di legge 124, con il quale la maggioranza di centrodestra vorrebbe cambiare la normativa regionale del 2008 sul «traffico motorizzato nelle aree agro-silvo-pastorali», come spiegano Dario Bianchi (Lega Nord) e Alessandro Fermi (Forza Italia).

Nel dettaglio, l’obiettivo è di eliminare i commi 3 e 4 dell’articolo 59 dell’attuale legge 31, che vietano «il transito dei mezzi motorizzati su strade, mulattiere e sentieri, nonché in tutti i boschi e nei pascoli ad eccezione di quelli di servizio». Con la proposta di modifica, spiega il Cai nella sua raccolta firme online per dire «No», si mira a «introdurre una deroga per consentire ai singoli comuni di autorizzare il transito temporaneo delle moto in base a un regolamento regionale da definire». Risultato? «Se passasse la nuova legge, l’effetto risulterebbe devastante per l’ambiente e ci sarebbe un’impennata dei livelli di smog e rumore», osserva Paolo Micheli, consigliere regionale di Patto Civico che, come tutta l’opposizione, boccia la nuova proposta. «In poche ore si possono creare danni che solo la natura potrebbe riparare impiegando però anni e ai quali l’uomo non può porre rimedio», tuonano in coro Fai, Federparchi, Legambiente, Wwf e Coldiretti.

Inoltre il Cai sottolinea «l’incompatibilità fra escursionismo e motociclismo sugli stessi sentieri». e ribadisce che le due ruote sono «contrarie allo sviluppo di un turismo dolce ed ecosostenibile». Sull’altro fronte della barricata, invece, ci sono la Fmi (Federazione motociclistica italiana) e i motoclub di tutta la Lombardia. Un esercito di piloti (professionisti e dilettanti) che si battono per il «Sì». Invocano un «motocross libero» e vanno in pressing sulla giunta Maroni chiedendo meno vincoli e burocrazia. Perché «quest’attività sportiva non arreca danni irreparabili né ai sentieri, né alle mulattiere».

(qui qualche commento in più e il link alla petizione)

Il manifesto, 6 aprile 2014

La Gal­lura come Eldo­rado degli eva­sori fiscali. Sul para­diso turi­stico sardo si abbatte una tem­pe­sta giu­di­zia­ria che pro­mette di avere svi­luppi cla­mo­rosi. La noti­zia è stata data ieri in esclu­siva dal quo­ti­diano la Nuova Sar­de­gna. «In Gal­lura 2500 ville, con tanto di giar­dini, depen­dance e ampie ter­razze con vista sul mare — scrive la testata sarda — sono risul­tate appar­te­nenti, come pro­prietà immo­bi­liari, a società estere regi­strate in para­disi fiscali, men­tre a sfrut­tarne il loro altis­simo poten­ziale eco­no­mico o uti­liz­zarle per le vacanze a cin­que stelle, sono in gran parte sco­no­sciuti cit­ta­dini ita­liani con denunce dei red­diti da ope­rai metal­mec­ca­nici. Per sta­nare il fol­tis­simo gruppo di per­sone iscritte alla «Ano­nima Pro­prie­tari Ltd» dalle loro dimore di lusso è stata alle­stita, ed è entrata in piena atti­vità già da alcuni mesi, una impo­nente e iper­tec­no­lo­gica task force coor­di­nata dal pro­cu­ra­tore capo della Repub­blica di Tem­pio, Dome­nico Fior­da­lisi. Il quale ha aperto un fasci­colo che rac­chiude l’inchiesta avviata alla fine dello scorso dicem­bre per accer­tare se siano riscon­tra­bili reati di carat­tere penale oltre a vio­la­zioni in ambito fiscale o ammi­ni­stra­tivo». Le zone fiscali «free» nelle quali le società coin­volte nell’inchiesta hanno regi­strato le ville sono sparse un po’ in tutto il mondo: Repub­blica di San Marino e prin­ci­pato di Monaco, Lus­sem­burgo e Lie­ch­ten­stein, Andorra e Gibil­terra, Cipro e Barein, Antille e Poli­ne­sia fran­cese. L’indagine è con­dotta dalla poli­zia tri­bu­ta­ria e dal Gico di Roma. Ma sono coin­volti anche gli uffici del dema­nio sardi, le agen­zie delle entrate di Sas­sari, Tem­pio e Olbia, la guar­dia di finanza di Olbia e Sas­sari. Un mega team che ha por­tato alla luce una realtà per molti versi sconcertante.

Tutto è comin­ciato circa un anno fa, quando gli ispet­tori dell’Agenzia delle entrate di Tem­pio esa­mi­nando le denunce dei red­diti di alcuni per­so­naggi che fre­quen­tano la Costa e i movi­menti dei ban­co­mat e delle carte di cre­dito, si sono resi conto che il loro tenore di vita non era com­pa­ti­bile con le loro dichia­ra­zioni fiscali. «Un cam­pa­nello d’allarme — scrive la Nuova Sar­de­gna — che ha fatto scat­tare i suc­ces­sivi accer­ta­menti patri­mo­niali che hanno messo in rilievo che ben 2500 tra ville e dimore da fiaba dis­se­mi­nate sulla Costa gal­lu­rese — dalle alture di Monti di Mola (Porto Cervo) alle asso­late spiagge dal mare cri­stal­lino di Porto Rotondo e Palau — risul­tano inte­state, come pro­prietà immo­bi­liari, a società estere. Appro­fon­dendo ulte­rior­mente que­sto sin­go­lare aspetto si è venuti a sco­prire che gran parte degli immo­bili sono uti­liz­zati nel periodo estivo da cit­ta­dini ita­liani, oppure ceduti in loca­zione, attra­verso una fitta ragna­tela di agen­zie immo­bi­liari sarde, ita­liane ed euro­pee, a ita­liani che, stando alla loro denun­cia dei red­diti, potreb­bero per­met­tersi al mas­simo di affit­tare, e per poche ore sol­tanto, una cabina sulla spiag­gia di Ric­cione, Rimini o Cattolica».

«L’inchiesta — dice il pro­cu­ra­tore Fior­da­lisi — è appena avviata e nes­sun reato o vio­la­zione sono stati finora ipo­tiz­zati o con­te­stati». Quindi è impos­si­bile cono­scere i nomi delle per­sone coin­volte e delle società pro­prie­ta­rie delle ville «appog­giate» ai para­disi fiscali. In pro­cura però non fanno mistero del fatto che i dati rac­colti in più di un anno di inda­gini for­ni­scono un qua­dro molto det­ta­gliato, soste­nuto da riscon­tri dif­fi­cil­mente con­te­sta­bili. E viste le dimen­sioni dell’inchiesta e i per­so­naggi coin­volti, i pros­simi giorni potreb­bero riser­vare rive­la­zioni clamorose.

Fior­da­lisi nelle scorse set­ti­mane è stato impe­gnato su un altro fronte caldo, quello dell’inchiesta avviata dagli uffici giu­di­ziari di Tem­pio sulle ville abu­sive costruite sull’isola della Mad­da­lena. Prima sono arri­vate le ordi­nanze di sgom­bero e poi, lunedì scorso, le ruspe. Sono tren­ta­cin­que gli edi­fici total­mente o par­zial­mente abu­sivi, tutti costruiti in un’area sot­to­po­sta a tutela ambien­tale inte­grale. Una decina sono abi­tati sta­bil­mente da anni. Mar­tedì scorso alcuni pro­prie­tari delle case da abbat­tere hanno cer­cato invano di fer­mare le ruspe e si sono vis­suti momenti di forte ten­sione, con un paio di feriti lievi, quando un nutri­tis­simo schie­ra­mento di poli­zia ha cari­cato per rom­pere il blocco intorno alle ville. Fior­da­lisi, però, non sem­bra inten­zio­nato a fer­marsi e la pros­sima set­ti­mana le ruspe rien­tre­ranno in azione.

Con il pro­cu­ra­tore di Tem­pio si schiera Legam­biente. «Costruire case abu­sive — dice Laura Biffi dell’Osservatorio nazio­nale ambiente e lega­lità — è un reato, demo­lirle è un obbligo di legge. Scene come quelle che si sono viste alla Mad­da­lena, con il sin­daco, i con­si­glieri comu­nali e per­sino il par­roco schie­rati accanto ai mani­fe­stanti per bloc­care le ruspe pur­troppo non sono nuove. Le abbiamo già viste tante volte in Cam­pa­nia, in Sici­lia e nella stessa Sar­de­gna. L’abusivismo di neces­sità è una falsa giu­sti­fi­ca­zione. Di fronte a situa­zioni di reale disa­gio abi­ta­tivo, la poli­tica dovrebbe dare rispo­ste con gli stru­menti pre­vi­sti dalla legge, prov­ve­dendo ad assi­cu­rare un allog­gio sociale, non una casa abusiva»

Post-sisma. Cinque anni dopo il terremoto, la città ancora aspetta una rinascita che tarda ad arrivare. Chi può va via: nel 2013 duemila iscrizioni in meno nelle scuole. E la ricostruzione non è più un affare vantaggioso neanche per la criminalità organizzata. Il manifesto, 5 aprile 2014
E’ un non luogo, que­sto. E la sua anima d’un tempo, il cen­tro sto­rico, è un mara­sma di pun­tel­la­menti, ope­rai con la masche­rina, ven­tate di pol­vere, caterve di cal­ci­nacci, di muri ancora sbrin­del­lati dal sisma, di pareti demo­lite, di crepe, crolli e tran­senne, divieti, un andi­ri­vieni di car­relli ele­va­tori e camion. E’ così L’Aquila: metà rovine, metà attesa. Sono tra­scorsi cin­que anni dal ter­re­moto che causò 309 morti. E le impronte di quel 6 aprile 2009 sono impresse su passi, volti, case e strade. «La rico­stru­zione — spiega Enrico De Pie­tra, gior­na­li­sta — sem­bra essere final­mente avviata, anche se sarà lunga e sem­pre legata all’incognita dei finan­zia­menti. Ma il pro­blema è il vuoto deva­stante». Pal­pa­bile tra piazze esa­ge­ra­ta­mente silen­ziose, viuzze sbar­rate, luc­chetti arrug­gi­niti, catene che ser­rano edi­fici lace­rati. «I pochi eser­cizi com­mer­ciali rima­sti — aggiunge — hanno chiuso. A parte alcuni locali, che resi­stono su spa­rute strade, non c’è nulla. Nep­pure gli edi­fici resi agi­bili e dispo­ni­bili hanno ripreso vita: sono rima­sti sfitti, forse anche per­ché i pro­prie­tari pre­ten­dono somme spro­po­si­tate. Nella zona della Fon­tana lumi­nosa, ad esem­pio, c’era un nego­zio di abbi­glia­mento che è stato sman­tel­lato: per la loca­zione di quei vani sono stati chie­sti 6 mila euro al mese E’ ripar­tita la pre­fet­tura, va bene, ma non ha pro­dotto alcun movi­mento. E’ una realtà da rin­vi­go­rire: biso­gna con­vin­cere le per­sone a riap­pro­priarsi di que­sti luo­ghi. Che, altri­menti — evi­den­zia De Pie­tra — diven­te­ranno un museo a cielo aperto».

Una città surreale

Dif­fi­cile tor­nare a far rivi­vere L’Aquila. Dif­fi­cile tor­nare all’Aquila. Dif­fi­cile… L’Aquila. «E sur­reale», come la defi­ni­sce il Comi­tato 3e32 che per quest’anniversario – in cui vuole stig­ma­tiz­zare «turi­sti che par­te­ci­pano alle com­me­mo­ra­zioni e pas­se­relle di una classe poli­tica nazio­nale e locale che ha evi­den­te­mente fal­lito» — ha orga­niz­zato una mostra foto­gra­fica, che cam­peg­gia sui prin­ci­pali muri, per nar­rare la pre­ca­rietà, per «denun­ciare le rei­te­rate pro­messe man­cate, l’abbandono delle fra­zioni e dei pic­coli cen­tri del cra­tere, la totale assenza di poli­ti­che sociali e per il lavoro, il folle scem­pio del ter­ri­to­rio, la man­canza di una visione comune per il futuro di una città che con­ti­nua irri­me­dia­bil­mente a spo­po­larsi».

«L’Aquila — viene fatto pre­sente — è diven­tata una dispersa e disa­giata peri­fe­ria, dove le fasce sociali più deboli sof­frono mag­gior­mente una quo­ti­dia­nità dif­fi­cile». Una peri­fe­ria carica di pro­blemi nasco­sti den­tro le infi­nite schiere di ano­nime palaz­zine erette dopo il disa­stro. Erano le nuove «C.A.S.E» (Com­plessi anti­si­smici soste­ni­bili eco­com­pa­ti­bili). «Siste­ma­zioni prov­vi­so­rie…, que­sto ci ave­vano assi­cu­rato, che sareb­bero state siste­ma­zioni prov­vi­so­rie… — ricorda Mar­cella Dal Vec­chio -. Invece, ben­ve­nuti tra le nostre pareti di car­ton­gesso… Che, in più zone, stanno andando a pezzi. Con tuba­ture logore che goc­cio­lano anche liquami, con i ser­vizi che non ci sono, le mat­to­nelle rotte, i sistemi anti­si­smici non bre­vet­tati, con la manu­ten­zione ine­si­stente, con fun­ghi ed erba che spun­tano all’interno per l’umidità, con i disagi che aumen­tano pre­po­tenti».
«Un recente son­dag­gio del Pd — sot­to­li­nea il sin­daco Mas­simo Cia­lente — rife­ri­sce che il 78% degli aqui­lani vive male e che per il 65% la situa­zione è gra­dual­mente peg­gio­rata. Solo il 37% pensa che nei pros­simi anni, forse, potrebbe andare meglio». Per­ciò c’è la fuga dall’Aquila, soprat­tutto dei gio­vani. Ma anche delle fami­glie: lo scorso anno, rispetto al 2009, sono state regi­strate 2 mila iscri­zioni sco­la­sti­che in meno. Una città di emer­genze, soprat­tutto sociali, che si nascon­dono timide, quasi impac­ciate die­tro ai vicoli blin­dati e nei cor­tili inermi, strac­ciati, che giac­ciono aspettando.

Cre­sce la disoccupazione
Manca il lavoro. «La disoc­cu­pa­zione, in Abruzzo — dichiara il segre­ta­rio gene­rale della Cgil L’Aquila, Umberto Tra­satti — dall’8.6% del 2008 è pas­sata al 12.5% del 2013. In tutta la pro­vin­cia nel 2008 si regi­stra­vano 118.300 occu­pati, siamo scesi a 111.800. Biso­gna creare oppor­tu­nità: la sola rico­stru­zione mate­riale non è suf­fi­ciente a dare pro­spet­tive». A pro­po­sito, la rico­stru­zione? «Il cen­tro sto­rico dell’Aquila sarà rimesso in sesto in 5 anni», ha detto in una sua recente visita il mini­stro dei Beni cul­tu­rali, Dario Fran­ce­schini. Mah, certo, tutti lo spe­rano ma nes­suno ci crede.

In prima linea, ora, c’è il sot­to­se­gre­ta­rio all’Economia, Gio­vanni Legnini, al quale il pre­mier Renzi ha affi­dato la delega alla Rico­stru­zione. Il par­la­men­tare, ori­gi­na­rio di Roc­ca­mon­te­piano (Chieti), si è impe­gnato a tro­vare i 700 milioni di euro che ancora occor­rono per il 2014. «Dob­biamo giun­gere ad una con­di­zione di sta­bi­lità col­lo­cata in un punto da indi­vi­duare con pre­ci­sione tra Roma e Bru­xel­les. Per­ve­nire a un pac­chetto di dispo­si­zioni nor­ma­tive che — spiega — eviti di con­ti­nuare lo stress che da anni river­siamo sul par­la­mento sull’onda dell’emergenza con­ti­nua. Occorre una rico­gni­zione pre­cisa di tutto ciò che serve, con tutti gli attori del ter­ri­to­rio e dello Stato, per modi­fi­care e inte­grare la legi­sla­zione vigente».
Scio­rina, invece, cifre il pre­si­dente Ance, Gio­vanni Frat­tale: «C’è una marea di gru in azione — afferma — e sono circa 1.400 le imprese impe­gnate in inter­venti edi­lizi, di cui 800 di fuori regione. Solo la rico­stru­zione pri­vata coin­volge oltre un migliaio di aziende di 90 pro­vince ita­liane. Cen­to­cin­quanta i can­tieri attivi nel cen­tro sto­rico, 1.500 in peri­fe­ria; 11.500 gli addetti in campo. Siamo indie­tro? E’ stato perso tempo? In Friuli, dopo il ter­re­moto del ’76, la prima pie­tra fu posata nel ’79. In Umbria e Mar­che si sta ancora lavo­rando…». Ma quello dell’Aquila, non avrebbe dovuto essere il can­tiere più grande d’Europa? «Gli sforzi sono immani — pun­tua­lizza Cia­lente — e, con­clusa la fase di com­mis­sa­ria­mento, c’è stata un’accelerazione delle pro­ce­dure». «Ci devono spie­gare — tuona Pio Rapa­gnà ex par­la­men­tare e por­ta­voce della asso­cia­zione Mia casa d’Abruzzo — per­ché non è ancora stata avviato il rifa­ci­mento delle case popo­lari clas­si­fi­cate E, cioè semi­di­strutte». La sua pro­te­sta va avanti da un pezzo: ha anche attuato lo scio­pero della fame. «Ci sono — pro­se­gue — 78 milioni di euro ancora inu­ti­liz­zati per ripa­rare 1.750 appar­ta­menti ina­gi­bili in cui atten­dono di rien­trare cin­que­mila per­sone. La non rico­stru­zione lede un diritto sog­get­tivo e causa un danno era­riale. Anche per­ché i costi della rico­stru­zione, con il pro­gres­sivo degrado degli sta­bili, sono aumen­tati, e con essi i costi dell’assistenza, visto che sono ancora molti i cit­ta­dini che bene­fi­ciano di asse­gni di auto­noma siste­ma­zione o dell’affitto concordato».

Vivere con dignità
Attual­mente nelle dimore del pro­getto Case stanno in 11.670, men­tre sono 2.461 quelli che allog­giano nei Map (Moduli abi­ta­tivi prov­vi­sori) e 189 negli appar­ta­menti del Fondo immo­bi­liare. Per­ce­pi­scono il con­tri­buto di auto­noma siste­ma­zione in 4.054. «Si tira avanti cer­cando di farlo in maniera digni­tosa — com­menta Sara Vegni, di Action Aid — ma le ferite inferte sono state pro­fonde e sono tut­tora aperte. Domina un sen­ti­mento di lace­rante pre­ca­rietà, che atta­na­glia tutti. Basti con­si­de­rare il fatto che ci sono 6 mila ragazzi costretti ancora a stu­diare nei con­tai­ner. Finora è man­cata una seria pro­gram­ma­zione e c’è la que­stione fondi. Ogni tanto biso­gna recarsi a Roma, col piat­tino in mano, a chie­dere l’elemosina».

Un ter­ri­to­rio dis­se­stato e in parte abban­do­nato — quello dell’Aquila e degli altri 56 comuni del cra­tere — e che, dopo il dramma, ha dovuto fare i conti pure con la cri­mi­na­lità orga­niz­zata. C’è stato «quasi un assalto alla dili­genza per arri­vare ad acca­par­rarsi gli appalti più lucrosi da parte della camorra, della ‘ndran­gheta e di cosa nostra (par­ti­co­lar­mente quella gelese)», scrive infatti, nella rela­zione annuale, rife­rita al 2013, il sosti­tuto pro­cu­ra­tore nazio­nale anti­ma­fia Olga Capasso, appli­cata per un periodo al Tri­bu­nale delll’Aquila. «L’unica vera intru­sione della ‘ndran­gheta e della camorra — rileva — si è avuta in seguito al ter­re­moto. Si è trat­tato di società sal­da­mente impian­tate nell’Italia set­ten­trio­nale, atti­rate dagli appalti e dun­que pre­senti in Abruzzo solo fino a quando erano pro­spet­ta­bili lucrosi gua­da­gni. E’ stato docu­men­tato il dina­mi­smo di espo­nenti delle cosche Borghetto-Caridi-Zindato, Ser­ra­iano e Rosmini di Reg­gio Cala­bria nell’accaparramento di appalti con­nessi alle opere di rico­stru­zione, con­sen­tendo il seque­stro pre­ven­tivo di beni mobili e par­te­ci­pa­zioni socie­ta­rie per un valore com­ples­sivo di circa 50 milioni di euro. E’ stato altresì accer­tato l’interesse di alcuni grossi espo­nenti della ‘ndran­gheta — con­dan­nati per asso­cia­zione mafiosa facente capo al clan Grande Ara­cri con una recen­tis­sima sen­tenza del 2013 del tri­bu­nale di Reg­gio Emi­lia — per gli appalti dell’Aquila.…
Intanto per la rico­stru­zione vera e pro­pria della città, con i suoi palazzi anti­chi, i monu­menti e gli edi­fici pub­blici, tutto si è invo­luto verso la stasi più com­pleta ed oggi il capo­luogo sem­bra dor­mire tra le sue mace­rie». «La rico­stru­zione è ferma — dice Capasso — e i can­tieri esi­stenti sono quelli desti­nati al risa­na­mento dei con­do­mini pri­vati, che pure pre­stano il fianco allo svi­lup­parsi della micro­cri­mi­na­lità, essen­dosi veri­fi­cati casi di ingiu­sti­fi­cata esten­sione dei lavori pagati con soldi pub­blici a danni non cau­sati diret­ta­mente dal sisma, oppure di gon­fia­mento abnorme dei prezzi. Di qui diversi pro­ce­di­menti penali». Adesso «l’affare rico­stru­zione» non è più van­tag­gioso, e dove «non c’è pro­fitto la mafia lascia campo libero». E domani è lutto cittadino
Riferimenti

Al terremoto dell'Aquila è dedicata un'intera cartella ne vecchio archivio di eddyburg. Precisamente qui. Si veda inoltre qui l'opinione di Vezio De Lucia

In una specie di promozione immobiliare travestita da articolo di giornale, si sdogana esplicitamente in Italia il modello della gated community, segregazionista sottilmente razzista e completamente antiurbana. Corriere della Sera Milano, 5 aprile 2014, postilla (f.b.)

Ha una sola lancetta, quella che scandisce le ore, l’orologio del XII secolo che ancora oggi segna il tempo sul campanile di Borgo Vione, a Basiglio. «È un gioiello alto-medievale con un meccanismo infallibile – spiega Nicola Vedani -. I monaci cistercensi che costruirono cascina Vione non avevano certo bisogno di misurare i minuti. Ecco, è questa visione diversa del tempo e della vita che vogliamo offrire ai nuovi abitanti». Vedani, 43 anni, imprenditore, fa parte dell’omonima famiglia a capo del gruppo siderurgico Intals-Somet che dal 2010 sta portando avanti il recupero di questa ex grangia dei monaci cistercensi di Chiaravalle trasformata nella prima gated community italiana.

E davvero, quando si supera il lungo muro di cinta sorvegliato 24 ore su 24 dagli occhi di 35 videocamere e dai sensori antintrusione e si varca il cancello della «nuova» Vione, si ha come l’impressione che il tempo prenda un’altra direzione. Qui è tutto pulito, ordinato: il caos di Milano sembra lontanissimo, ma è a soli 20 minuti. Non circolano automobili, anche se in realtà ci sono, nascoste in un parcheggio sotterraneo multicolore. Si sente persino la musica di un pianoforte che, tutte le mattine, si diffonde ovunque tra le ville e gli appartamenti. Proviene dalla chiesetta di San Bernardo e non c’è il pianista. Come in film, la tastiera si anima e il piano suona da solo.

Borgo Vione, uno degli ingressi alla corte centrale - foto F. Bottini

A maggio partiranno i lavori per la realizzazione del secondo lotto che prevede il recupero conservativo di altri tre edifici storici . Per ora, abitano nell’ex borgo medievale circondato dal verde 35 famiglie. Australiani, inglesi, portoghesi: sono soprattutto stranieri, manager e professionisti che vogliono vedere crescere i loro figli in un ambiente protetto e sicuro. È la garanzia di tutte le gated community : si entra solo se invitati. I bambini sono liberi di giocare ovunque: qui si conoscono tutti. «Non a caso i nuovi arrivati dicono di sentirsi in un resort.

L’atmosfera è quella», spiega il direttore del complesso Luca Baffoni. E anche gli ingredienti: ludoteca comune con wi fi e pc, barbecue in un’area dedicata, giardino d’inverno dove a breve, accanto alla vasca all’aperto in cui i bimbi vanno a giocare, spunterà un’area relax con idromassaggio. La lingua «franca», parlata persino dai bambini, è ovviamente l’inglese. Complessivamente il piano di recupero prevede 130 tra loft, ville e appartamenti su una superficie di 100.000 mq. Il costo al metro quadrato va dai 3.300 euro in su.

postillaPer fortuna a suo tempo avevamo già stigmatizzato questa operazione immobiliare esplicitamente reazionaria, dove si invitavano in buona sostanza i bianchi ariani stufi di mescolarsi al resto del mondo nella metropoli multiculturale, a rifugiarsi in una specie di medioevo da cartolina dietro un fossato d'epoca restaurato ad hoc con acqua calda e fredda corrente. Il rinvio, per non ripetere ancora le medesime cose, è quindi a Immersi nel verde e nella paranoia. Del resto lo sdoganamento di concetti praticamente tabù non è cosa nuova, quando riguarda interessi economici sul territorio, l'abbiamo visto con lo sprawl autostradale transustanziato in Città Infinita, o con la Gentrification usata oggi spesso, spudoratamente, come sinonimo di riqualificazione urbana (f.b.)

Uno scenario . La città come motore di sviluppo della Toscana, crocevia e nodo propulsore di un progetto di riequilibrio e valorizzazione regionale. Una integrazione dell'analisi di Ilaria Agostini. Il manifesto, 3 aprile 2014
Il futuro di Firenze dipende, come nei pre­ce­denti illu­stri della città rina­sci­men­tale e lore­nese, da quale ruolo stra­te­gico intende attri­buirsi rispetto alla «sua» città metro­po­li­tana e alla regione toscana.

In par­ti­co­lare nel periodo lore­nese Firenze ebbe un ruolo di cen­tro motore di un grande pro­getto di infra­strut­tu­ra­zione del ter­ri­to­rio regio­nale (boni­fi­che, strade, porti, popo­la­mento, valo­riz­za­zione delle comu­nità locali…) imple­men­tan­done il carat­tere for­te­mente poli­cen­trico, senza ampliare il sistema urbano cen­trale. È l’economista Gia­como Becat­tini a ricor­darci che oggi «un passo avanti nell’impostazione cor­retta dell’intervento pub­blico sul ter­ri­to­rio può esser rap­pre­sen­tato da un ripen­sa­mento siste­ma­tico delle “Rela­zioni sul governo della Toscana” di più di due secoli fa» (La lezione di Pie­tro Leo­poldo, www .socie ta dei ter ri to ria li sti .it). Quale può essere dun­que il pro­getto stra­te­gico di Firenze oggi?

Riprendo uno sce­na­rio che veda Firenze svi­lup­pare i suoi ruoli di ser­vi­zio, coor­di­na­mento, pro­mo­zione di un modello regio­nale di svi­luppo poli­cen­trico, fon­dato innan­zi­tutto sulla riqua­li­fi­ca­zione in chiave bio­re­gio­nale del sistema metro­po­li­tano Firenze-Prato-Pistoia, (piana, valli appen­ni­ni­che e col­line che ne con­no­tano l’identità di lunga durata: una col­lana di «perle» urbane affac­ciate sull’antico lago plei­sto­ce­nico, testate di sistemi val­livi pro­fondi). È una visione di città metro­po­li­tana come fede­ra­zione soli­dale di città, riaf­fac­ciate sull’Arno e sui suoi affluenti e sul grande parco agri­colo multifunzionale.

Que­sta fede­ra­zione urbana fio­ren­tina lan­cia «umil­mente» a Pisa, Lucca, Massa, Livorno, Siena, Arezzo e Gros­seto e via via alle città d’arte minori una pro­po­sta di rete soli­dale che tra­sformi Firenze in cro­ce­via e nodo pro­pul­sore di un pro­getto di rie­qui­li­brio e valo­riz­za­zione regio­nale che veda:
- la valo­riz­za­zione delle iden­tità dei sistemi ter­ri­to­riali e pae­sag­gi­stici locali entro un con­te­sto rela­zio­nale for­te­mente mul­ti­po­lare, fon­dato sugli equi­li­bri ambien­tali, sociali, pro­dut­tivi e cul­tu­rali di cia­scun sistema locale e sulle reti poli­cen­tri­che (mate­riali e imma­te­riali) di pic­cole e medie città: il sistema a rete dei poli uni­ver­si­tari «ter­ri­to­ria­liz­zati» fa da bat­ti­strada all’elevamento del rango gerar­chico delle città stesse;
- l’investimento nelle aree interne per pro­getti di ripo­po­la­mento rurale dell’alta col­lina, della mon­ta­gna degli entro­terra costieri, base sociale e pre­si­dio di nuovi equi­li­bri socio-produttivi, idrau­lici, eco­lo­gici, ener­ge­tici, nel con­te­sto di una con­ver­sione eco­lo­gica dell’economia a supe­ra­mento del modello inse­dia­tivo che ha pro­dotto, con il domi­nio del cen­tro regio­nale, aree peri­fe­ri­che e marginali;
- il blocco del con­sumo di suolo agri­colo che, entro un nuovo patto fra città e cam­pa­gna, può con­sen­tire stra­te­gie di rie­qui­li­brio idro­geo­mor­fo­lo­gico, eco­lo­gico, inse­dia­tivo; nuove fron­tiere dell’agricoltura nella pro­du­zione di cibo per le città e di ser­vizi eco­si­ste­mici; la chiu­sura locale dei cicli dei rifiuti, dell’alimentazione, dell’acqua e dell’energia.

Firenze capi­tale, sede della Regione, può gui­dare que­sto pro­getto dando l’esempio:
- riat­ti­vando la città sto­rica con fun­zioni e atti­vità di ter­zia­rio avan­zato con­nesse alla con­ver­sione pro­dut­tiva del sistema regio­nale e alla qua­lità dell’abitare, fer­mando gli effetti distrut­tivi della iden­tità urbana da parte della disney­land turistico-finanziaria-immobiliare;
- ridi­se­gnando i con­fini della città metro­po­li­tana e dei suoi cen­tri urbani attra­verso la valo­riz­za­zione mul­ti­fun­zio­nale del suo parco agri­colo in riva destra dell’Arno (Firenze-Prato) e svi­lup­pando quello in costru­zione in riva sini­stra (Firenze-Lastra a Signa); e avviando pro­getti di riqua­li­fi­ca­zione, riuso e rici­clo delle peri­fe­rie e dei loro mar­gini, verso una città di vil­laggi urbani ad alta qua­lità abi­ta­tiva, eco­lo­gica e energetica;
- atti­vando la riqua­li­fi­ca­zione del sistema dell’Arno e dei suoi affluenti nelle loro fun­zioni frui­tive, eco­lo­gi­che, pro­dut­tive, agri­cole, turi­sti­che, in stretta con­nes­sione con i par­chi agri­coli rivieraschi;
- valo­riz­zando il sistema mul­ti­po­lare di città affac­ciate sulla piana, di valli pro­fonde, di nodi oro­gra­fici, in grado di supe­rare il degrado del modello centro-periferico dell’urbanizzazione recente;
- pro­du­cendo un sistema di tra­sporti al ser­vi­zio della mobi­lità della città metro­po­li­tana poli­cen­trica con­nesso al pro­getto di mobi­lità dolce della piana (ivi com­presa la navi­ga­bi­lità «leg­gera» dell’Arno fra Firenze e Pisa); e con la rivi­ta­liz­za­zione del sistema fer­ro­via­rio metro­po­li­tano e delle fer­ro­vie regio­nali minori, inve­sten­dovi i capi­tali rispar­miati con una solu­zione di super­fi­cie dell’alta velocità;
- poten­ziando gli accessi da Firenze ai sistemi aereo­por­tuali di Pisa e di Bolo­gna, con­te­nendo il ruolo del city air­port fiorentino;
- sot­to­po­nendo infine a dibat­tito pub­blico e a pro­cessi par­te­ci­pa­tivi capil­lari e per­ma­nenti la pro­pria tran­si­zione urba­ni­stica e socioe­co­no­mica a una visione di bio­re­gione urbana.

La città metro­po­li­tana così con­ce­pita, riqua­li­fi­cando in senso demo­cra­tico e fede­ra­tivo la pro­pria magni­fi­cenza civile (con­tro i gio­chi in atto che vedono Firenze alla con­qui­sta gerar­chica del ter­ri­to­rio metro­po­li­tano), può aspi­rare a dive­nire motore di svi­luppo del futuro della Toscana, pro­muo­vendo modelli inse­dia­tivi vir­tuosi nelle aree ex peri­fe­ri­che e mar­gi­nali della regione; modelli dei quali essa stessa si pro­pone come esem­pli­fi­ca­zione di eccellenza

Prosegue l'analisi del manifesto sulle cittàitaliane. Dopo Milano (7 febbraio), Sassari(13 febbraio), Venezia (20febbraio), Napoli (27 Febbraio), Avellino (6 marzo), Bologna (13 marzo),Parma (20 marzo 2014) eccoci a Firenze, trent’anni dopo la telefonata diOcchetto che tentò di bloccare la speculazione contrattata sull’areaFiat-Fondiaria. 3 aprile 2014

Due avve­ni­menti segnano il capo e la coda di un quin­di­cen­nio di tran­quilla urba­ni­stica fio­ren­tina: la tele­fo­nata del segre­ta­rio di un Pci in fase di auto­de­mo­li­zione - Achille Occhetto - che bloc­cava la grande, tut­tora irri­solta, espan­sione occi­den­tale di Castello (1989); e il rece­pi­mento, negli anni 2000, del trac­ciato urbano dei 7 km sot­ter­ra­nei dell’alta velo­cità fer­ro­via­ria. Nella seconda giunta Dome­nici (2004–2009) la pia­ni­fi­ca­zione entra nella fase di risve­glio, per assu­mere poi spe­ci­fici con­no­tati, dal valore di prova in vitro per l’urbanistica penin­su­lare avvenire.

Ripor­tando in auge il vec­chio piano attua­tivo, Leo­nardo Dome­nici (Ds poi Pd), di con­certo con l’assessore Gianni Biagi, imba­sti­sce nel 2005 l’affaire Castello, patto tra gen­ti­luo­mini stretto e cele­brato con Sal­va­tore Ligre­sti. Un milione e 400mila metri cubi di cemento nella piana a nord-ovest della città, a ridosso dell’aeroporto, in ter­reni acqui­tri­nosi poco appe­ti­bili e per­ciò da desti­nare a ser­vizi pub­blici: oltre alla ciclo­pica caserma dei Cara­bi­nieri e alla sven­tata Cit­ta­della dello Sport (ora alla Mer­ca­fir), spicca nel pro­getto un polo didat­tico voluto dalla Pro­vin­cia, allora gover­nata da un pro­met­tente Mat­teo Renzi. Il sin­daco Dome­nici, lavo­rato ai fian­chi dalla lista di cit­ta­di­nanza per U­nal­tra­città e indi­cato presso il grande pub­blico da Repub­blica, in segno di pro­te­sta si inca­te­nerà sotto la sede romana dell’Espresso.

La caduta verso la gene­rale dere­go­la­zione acce­lera: in Regione Toscana l’urbanistica è nelle mani dell’assessore Ric­cardo Conti, pas­sato alla cro­naca (anche) per le cari­che con­tem­po­ra­nea­mente rive­stite di respon­sa­bile infra­strut­ture del Pd e di con­si­gliere di ammi­ni­stra­zione della F2I, il fondo spe­cia­liz­zato in inve­sti­menti in infra­strut­ture gui­dato da Vito Gam­be­rale. L’ordine degli archi­tetti si alli­nea: il pre­si­dente è a capo della pluri-indagata società Qua­dra Pro­getti, com­po­sta da archi­tetti e costrut­tori, con un con­si­gliere Pd in qua­lità di socio occulto, secondo l’accusa. Nel 2009, come ultimo atto con­si­liare viene ten­tata l’approvazione del Piano Strut­tu­rale (ovvero della parte stra­te­gica del Prg). Il piano Dome­nici non è un lavoro di qua­lità; la con­te­sta­zione cit­ta­dina ai piedi di Palazzo Vec­chio ne accom­pa­gna la déba­cle: man­cano i numeri della mag­gio­ranza e il Piano Strut­tu­rale è ritirato.

Tra 2009 e 2010 il governo del ter­ri­to­rio passa di mano. È eletto sin­daco Mat­teo Renzi (Mar­ghe­rita poi Pd); nomi­nata asses­sore regio­nale al ter­ri­to­rio Anna Mar­son, accolta con favore dai comi­tati; nel frat­tempo, a colpi di peti­zioni degli iscritti, l’ordine degli archi­tetti si rinnova.

Renzi, a dispetto dell’ammirazione pro­cla­mata urbi et orbi per La Pira (che, detto per inciso, aveva affi­dato la ste­sura del Prg a Edoardo Detti, urba­ni­sta di rico­no­sciute qua­lità), trat­tiene ad inte­rim l’assessorato all’urbanistica, e riparte da zero. Il nuovo Piano Strut­tu­rale, appro­vato nel 2011, allude ai temi disci­pli­nari che pun­tual­mente elude, e si pone in una dimen­sione extra­pia­ni­fi­ca­to­ria. Vediamo come.

L’abilità comu­ni­ca­tiva del primo cit­ta­dino adotta e con­so­lida tele­vi­si­va­mente lo slo­gan dei «volumi zero», smen­tito dai grandi volumi fatti par­tire in variante al Prg, non­ché dal milione e passa di metri cubi di Castello (ora pro­prietà Uni­pol) dati per già edi­fi­cati e non ricon­trat­tati. E dalla grande cemen­ti­fi­ca­zione che dà l’assalto al sot­to­suolo: sta­zione e tun­nel Tav, dieci par­cheggi inter­rati nelle piazze sto­ri­che, tram sot­ter­ra­neo sotto il cen­tro città, «pas­sante urbano» nelle col­line costi­tui­scono il ban­chetto per impren­di­tori pri­vati a cui di fatto viene deman­data la tra­sfor­ma­zione urbana.

Il piano è ridu­ci­bile a un coa­cervo di slo­gan, privo di un’idea di città, povero di inda­gine cono­sci­tiva, cor­re­dato da eventi di pseudo-partecipazione; deli­neato nell’indifferenza di quanto si sta pre­di­spo­nendo in Regione, sia sul fronte del Parco della Piana e del Piano pae­sag­gi­stico, sia su quello nor­ma­tivo che vede la legge urba­ni­stica in piena, auspi­cata riforma. La pia­ni­fi­ca­zione fio­ren­tina pro­cede, così, in soli­ta­rio e per fram­menti, frutto di deci­sioni auto­cra­ti­che di forte riso­nanza media­tica a cui fanno seguito altre innu­me­re­voli affer­ma­zioni, con­tra­stanti e irrea­liz­za­bili, al di fuori di una pro­gram­ma­zione e di una con­di­vi­sione delle scelte. Esem­pio lumi­noso del «pia­ni­fi­car twit­tando» è la pedo­na­liz­za­zione di piazza Duomo, attuata d’autorità, senza dibat­tito in con­si­glio e senza un piano per il rias­setto del tra­sporto pub­blico arran­giato con logica di can­tiere che aumenta il disa­gio dei frui­tori, men­tre la piazza viene pri­va­tiz­zata dai «dehors» di bar e risto­ranti. In un cen­tro sto­rico esan­gue, deser­ti­fi­cato e mer­ci­fi­cato, ormai preda della spe­cu­la­zione turi­stica, l’affitto del Ponte Vec­chio alla Fer­rari passa per un atto di nor­male amministrazione.

Stante la rimar­che­vole sen­si­bi­lità del governo cit­ta­dino verso pro­prietà pri­vata, il Piano Strut­tu­rale rinun­cia alla tito­la­rità pub­blica del pro­getto sulla città chia­mando a rac­colta, con un bando di pub­blico avviso, i medio-grandi pro­prie­tari di aree in tra­sfor­ma­zione. I loro 217 pro­getti «pre­de­ter­mi­ne­ranno» il Rego­la­mento Urba­ni­stico zelan­te­mente redatto dall’ufficio tec­nico comu­nale in linea coi det­tami del prin­cipe ammic­canti alla stru­men­ta­zione finan­zia­ria (cre­diti edi­lizi in pri­mis) e adot­tato nei giorni scorsi.

In città per­si­ste tut­ta­via una tra­di­zione di labo­ra­tori cri­tici che dagli anni ‘90 vede attivo il LaPei (Labo­ra­to­rio di Pro­get­ta­zione eco­lo­gica degli inse­dia­menti) con il pro­getto par­te­ci­pato delle «4 pic­cole città sull’Arno» all’Isolotto e, ai tempi della Pan­tera, con l’ipotesi di «boni­fica ter­ri­to­riale» per l’area metro­po­li­tana impo­stata sul pro­getto eco­lo­gico social­mente pro­dotto di con­certo coi comi­tati locali. Nell’orbita del LaPei, è il recente pro­getto alter­na­tivo di sopra attra­ver­sa­mento Tav. La Comu­nità delle Piagge oppone resi­stenza in un quar­tiere povero di ser­vizi, affron­tando il dise­gno degli spazi pub­blici e il tema dell’autocostruzione per fini sociali. Rac­co­glie il testi­mone di que­ste espe­rienze il "Gruppo urba­ni­stica perU­nal­tra­città" che si ado­pera per una con­trof­fen­siva radi­cale fon­data sulla riap­pro­pria­zione degli stru­menti analitico-critici, sulle pra­ti­che urba­ni­sti­che con­di­vise e sulle rela­zioni sociali, costruita con incon­tri pub­blici, ela­bo­ra­zione di pro­getti e di testi spe­ci­fici. Il gruppo, che fa rete con le espres­sioni dell’autogestione, dell’autorecupero e della cit­ta­di­nanza attiva (San Salvi chi può, NoTun­nel­Tav, Oltrar­no­fu­turo etc.) e intesse rela­zioni con espe­rienze nazio­nali (ReTe dei comi­tati per la difesa del ter­ri­to­rio, GrIG, etc.), porta avanti una rifles­sione col­let­tiva sulla forma della città, sul destino dei con­te­ni­tori dismessi, sui luo­ghi della socia­lità, sul ridi­se­gno delle rela­zioni ecologiche.

Espe­rienze di con­di­vi­sione del sapere e di col­let­ti­viz­za­zione del pen­siero cri­tico, scuole disci­pli­nari e luo­ghi di spe­ri­men­ta­zione poli­tica con­vi­viali, liberi e liber­tari, que­sti labo­ra­tori arric­chi­scono il fronte di resi­stenza penin­su­lare a con­tra­sto di un’urbanistica distrut­tiva e neo­li­be­ri­sta che da Firenze viene dispie­gan­dosi nelle sue forme più «nuove».

Il Fatto Quotidiano, 2 aprile 2014
Agli argomenti di chi indica il carattere autoritario della sua riforma costituzionale, Matteo Renzi non oppone altri argomenti, ma una delegittimazione radicale dei “professoroni, o presunti tali”. Non risponde a chi dice che un governo non può essere costituente (Piero Calamandrei chiese che durante la discussione dell’articolato della Costituzione i banchi del governo fossero addirittura vuoti). Non risponde a chi spiega perché un Senato degli enti locali potrebbe portare a una rottura dell’unità nazionale. Non risponde a chi – come Walter Tocci, senatore pd che ha annunciato il suo voto contrario – scrive che “l’Italicum consente a una minoranza sostenuta dal 20% degli aventi diritto al voto di arrivare al governo, potendo contare su deputati non scelti dagli elettori e non avendo risolto il conflitto di interessi”.

Al sapere Renzi oppone il plebiscito: i professori avranno studiato, ma lui ha il consenso. Poco importa se il consenso è quello delle primarie (consultazioni private a cui ha partecipato una quota minuscola di elettori), se è al governo senza essere stato eletto, se questo Parlamento è legalmente eletto, ma forse non proprio legittimato a cambiare la Costituzione. E poco importa se si sta facendo di tutto per far passare la riforma con i due terzi delle Camere, e dunque per evitare di consultare, con un referendum, il popolo sovrano del quale ci si riempie la bocca.
Invece di discutere, Renzi preferisce scagliarsi contro Rodotà e Zagrebelsky con un tono che ricorda queste parole del primo discorso alla Camera di Mussolini capo del governo (16 novembre 1922): “Lascio ai melanconici zelatori del supercostituzionalismo il compito di dissertare più o meno lamentosamente”.
Non è una novità. Renzi sta replicando, su una scala ben più larga, ciò che fece a Firenze durante la caccia alla Battaglia di Anghiari di Leonardo. L’allora sindaco non si abbassò a discutere le prove dell’assoluta infondatezza di quella purissima operazione di marketing esibite dalla comunità scientifica internazionale degli storici dell’arte. Invece, si scagliò contro i “presunti scienziati”, accusati di non essere “stupiti dal mistero” a causa di un “pregiudizio ideologico”. Arrivò a scrivere: “Penso agli studenti di questi professoroni. Mi domando con quale fiducia ascolteranno adesso le loro lezioni”. La violenza denigratoria contro i “professionisti della cultura che pretendono di fare a pugni con la realtà e con l’innovazione” echeggiò il “culturame” di Scelba. E certo Renzi non si scusò quando le operazioni si conclusero senza trovare alcunché.
Ma perché il capo del governo teme così tanto i portatori del sapere critico? Perché sa che la loro funzione, in una democrazia evoluta, è – come ha scritto Tony Judt – “tirar fuori la verità e poi spiegare perché è proprio la verità. La verità spiacevole, nella maggior parte dei luoghi, è di solito che ti stanno mentendo”. Ecco, questo Renzi non se lo può permettere: sa benissimo di essere un prodotto che vende solo in regime di monopolio, e con un marketing senza smagliature. La prima funzione del pensiero critico, al contrario, è quella di mostrare che c’è sempre un’alternativa: sempre. Un filologo, un giurista, uno storico, un fisico sanno partecipare al discorso pubblico demistificando la retorica dell’ultima spiaggia e dell’uomo della provvidenza. Perché lo fanno usando argomenti comprensibili e razionali, dimostrabili e verificabili. Tutte cose pericolose per chi basa l’acquisizione del consenso non sul cervello, ma sulla pancia degli ascoltatori-elettori. La cui digestione non dev’essere turbata da dubbi. Quel famoso discorso di Mussolini si chiudeva così: “Non gettate, o signori, altre chiacchiere vane alla Nazione. Cinquantadue iscritti a parlare sulle mie comunicazioni, sono troppi”.
Al tempo del Leonardo inesistente Renzi esaltava le emozioni (che sarebbero state 'popolari') e demonizzava la conoscenza (secondo lui elitaria e inutile). Ora Renzi fa leva sulla disperazione diffusa, sul viscerale rigetto per il criminale immobilismo di chi lo ha preceduto, sul riflesso condizionato prodotto dalla promessa degli ottanta euro.
Chi si oppone è «un sacerdote del no», come ha prontamente scritto Ernesto Galli della Loggia evocando addirittura il terrorismo: ecco la parola d'ordine da far passare a tutti costi, prima che qualcuno possa spiegare a cosa si oppone quel no. È il momento di «fare»: ma guai a chi si chiede cosa si stia davvero facendo. Guai a chi sa dimostrare che il re è nudo.

Di solito parlando di urbanizzazione impropria si pensa soprattutto al suolo, ma anche l'acqua ha il medesimo ruolo di risorsa finita non sostituibile. Il manifesto, 2 aprile 2014 (f.b.)

Lo scorso autunno Los Angeles ha celebrato in pompa magna il centenario del «Los Angeles Acqueduct», il canale che rifornisce d’acqua la città inaugurato nel 1913. L’anniversario è stato commemorato da gonfaloni appesi ai lampioni delle maggiori arterie cittadine e l’acquedotto celebrato come «sorgente di vita» in altisonanti articoli di giornale. Plauso per un’opera di ingegneria idrica che rende bene la misura dell’importanza tuttora attribuita all’acqua in questa regione – perlopiù in funzione della sua cronica scarsità. Si dà il caso, infatti, che nell’inverno appena concluso sia piovuto meno che in ogni anno dal 1850, quando la California, da poco strappata al Messico, è diventata uno stato americano. Inevitabile che nel mezzo della peggiore siccità a memoria d’uomo le commemorazioni civiche abbiano assunto un che di rito propiziatorio, una liturgia del «cargo cult» che in questa città come nell’intero quadrante sud occidentale d’America è legato alla risorsa più preziosa e scarsa e alla grande e perenne sete.

Le fasi aride come l’attuale in questa regione degli States sono una certezza climatica che torna con ciclica regolarità. E ogni volta rammentano come la California e l’Ovest americano (gran parte di Nevada, Utah, Arizona e Nuovo Messico, parti del Colorado e del Texas) siano sostanzialmente regioni desertiche in cui negli ultimi 100 anni si sono insediate 60 milioni di persone. Questa colonizzazione arbitraria, senza logica geografica e soprattutto senza riguardo per le risorse naturali, è avvenuta in una regione dove oltretutto esiste ampia documentazione archeologica di civiltà indigene la cui scomparsa viene ormai attribuita proprio a cause climatiche (ad esempio quella rupestre degli indiani Anasazi). Oggi paradossalmente – assurdamente – quelle che erano le regioni più inospitali del continente sono diventate l’epicentro della crescita demografica del paese.

Los Angeles, senza insenatura, senza porto naturale o un fiume navigabile, priva di vere risorse minerarie e circondata dall’aridità implacabile del Mojave è il prototipo originale di questo sviluppo «contronatura» predicato sull’irrigazione su scala mastodontica. Per un secolo il Pueblo de Los Angeles rimase poco più di un bivacco dei frati francescani spagnoli che l’avevano fondato, circondato da sterpaglia, macchia mediterranea e da piccole coltivazioni in balia di un clima imprevedibile. A fine ‘800, grazie allo scalo ferroviario della Union Pacific, la popolazione era arrivata a 80.000 abitanti e nel 1903 aveva già esaurito l’acqua dell’esiguo Los Angeles River, il torrente che raccoglieva le acque stagionali delle vicine montagne San Gabriel. Non a caso chi ancora oggi più si avvicina a un santo patrono, colui al quale è intitolata una delle strade più celebri della città, Mulholland Drive, è l’ingegnere che progettò il canale lungo 674 chilometri che a questo lembo di deserto meridionale portò l’acqua che nei decenni successivi avrebbe permesso l’insediamento di oltre 10 milioni di esseri umani.

William Mulholland era un ingegnere autodidatta irlandese arrivato in California per tentare la fortuna come cercatore d’oro, ossessionato dall’approvvigionamento idrico della città. Finanziato dai petrolieri, baroni ferroviari e speculatori dell’edilizia e agroindustriali che rappresentavano gli interessi fondativi della giovane Los Angeles, l’acqua decise di andarla a prendere alle pendici della Sierra Nevada orientale, nella verdeggiante valle dell’Owens, 600 km a nord, e trasportarla attraverso l’infuocato deserto Mojave.

Gli agenti del Department of Water and Power di Los Angeles cominciarono ad acquisire i diritti d’uso dell’acqua dagli agricoltori della Owens Valley sotto le mentite spoglie di fantomatici «ottimizzatori dell’irrigazione». E quando con proditorietà da insider trader ante litteram ebbero in mano i necessari pacchetti di maggioranza sulle acque montane, annunciarono la diversione nel canale in costruzione. In sostanza avviarono il commissariamento delle acque che avrebbe condannato la ridente vallata a trasformarsi in polveroso deserto. In quel momento il bacino aveva già perso metà del proprio volume ed era avviato a prosciugarsi. 700 famiglie di agricoltori locali occuparono allora le chiuse e tentarono di dirottare il flusso dell’acquedotto nuovamente verso i campi moribondi. Los Angeles rispose inviando centinaia di agenti di polizia mentre gli sceriffi del luogo presero la parte dei ribelli. Lo scontro armato venne evitato in extremis solo da un accordo che avrebbe restituito una parte delle acqua ma che non fu mai rispettato da Los Angeles. Tanto che una campagna di attentati dinamitardi contro l’acquedotto – 17 in tutto sarebbe continuata per diversi anni fin quando la rivolta dell’acqua non venne sedata con la legge marziale e l’istituzione di guarnigioni con mitragliatrici poste ad intervalli regolari lungo tutto il percorso della tubatura.

La vicenda è accennata in chiave di noir nello splendido Chinatown di Roman Polanski (nel film Mulholland è l'inquietante patriarca interpretato da John Huston) e costituisce il «peccato originale» del trionfo di Los Angeles. Un’allegoria perfetta per l’ipersviluppo degli stati dell’Ovest. L’esproprio delle acque è stato replicato in varia misura da tutte le metropoli del deserto: la fondazione di Phoenix e Las Vegas, la crescita di Salt Lake City e San Diego sono dovute a massicce opere di irrigazione, dato che come dichiarò all’epoca il ministro degli interni di Herbert Hoover, Ray Lyman Wilbur, «con l’aggiunta di acqua, la conquista del Sudovest assicurerà la crescita di una grande e stabile civiltà».

Un secolo dopo, nel mezzo dell’ennesima drammatica siccità, e ora con milioni di abitanti che dipendono da una risorsa ancora altrettanto incerta, il costo della «grande civiltà», quella dei 100 campi da golf di Palm Springs, delle mega-fontane di Las Vegas, delle mille suburbie spuntate come funghi nel deserto, è infine ineluttabile. Del lago Owens oggi rimane un fondale secco da cui si levano turbini di polveri sottili che rendono irrespirabile l’aria della valle un disastro ecologico simile a quello del lago Aral in Kazakhstan. Appena fuori Bishop, capoluogo della Owens Valley, ancora oggi ci sono incongrui tombini recanti la dicitura «acque di Los Angeles» e le chiuse sono ancora protette da imponenti reticolati spinati con la stessa scritta.

Ma quando negli anni ’70 il Department of Water and Power decise di mettere in atto la terza fase del progetto Mulholland, andando a pescare ancora più a nord nelle acque vulcaniche di Mono Lake, condannando anche questo splendido lago alpino a una morte sicura, la campagna per salvarlo diventò subito una pietra miliare del movimento ecologista californiano, che organizzò proteste e petizioni e ricorse in tribunale per fermare la conquista dell’acqua cominciata 80 anni prima. Nel 1988 la corte federale decretò che l’intrinseco interesse alla tutela del patrimonio naturale prevaleva su quelli di singole municipalità; Los Angeles stavolta dovette interrompere i prelievi e istituire invece misure di risparmio idrico. Il lago, una delle meraviglie naturali della Sierra Nevada, venne salvato e oggi sta lentamente recuperando volume.

Una lettera aperta al sindaco di Napoli, affinchè Bagnoli non continui a essere il buco nero dell'urbanistica napoletana, in contrasto con il vigente piano regolatore, Corriere del Mezzogiorno, 30 marzo 2014 (m.p.g.)

Caro Sindaco De Magistris, tra i troppi beni comuni che sono stati negati ai cittadini di Napoli ci sono, e da troppo tempo, anche la salute e il mare. In nessun luogo come a Bagnoli è drammaticamente tangibile l'intreccio tra queste due privazioni.
Oggi la criminale distruzione della Città della Scienza mette le amministrazioni napoletane – il Comune, ma anche la Regione e gli organi di tutela – di fronte all'ennesimo bivio di questa lunga storia: e per l'ennesima volta si rischia di imboccare la direzione sbagliata. Fu un errore fatale collocare un insediamento industriale così enorme in uno dei luoghi simbolo del paesaggio e del patrimonio culturale europei, fu un errore farlo ripartire dopo la Grande Guerra, fu un errore ricostruirlo dopo la Secondo Guerra mondiale, fu un errore piegare la pianificazione urbanistica ai diktat industriali e permettere la realizzazione della colmata a mare.

Oggi sarebbe un errore imperdonabile rinunciare a rimuovere la colmata, a condurre fino in fondo la bonifica, a ripristinare la linea di costa, a restituire ai napoletani una vera spiaggia urbana. Oltre ad essere un errore, sarebbe una gravissima violazione della legge. Lo storico vincolo apposto dal Ministero per i Beni culturali nell'agosto del 1999 (basato sull'esemplare relazione di Antonio Iannello) e la legge 582 del 1996 impongono infatti di abbattere gli edifici che impediscono il ripristino della morfologia originale della costa. Coerentemente, l'attuale Consiglio Comunale ha deliberato, nella seduta del 25 settembre 2013, di destinare a spiaggia pubblica l’arenile da Nisida a Coroglio, accogliendo così la petizione popolare del comitato “Una spiaggia per tutti”, sottoscritta da oltre 13.000 napoletani.

Il primo passo, importantissimo in sé e importantissimo come pegno concreto della volontà di perseguire effettivamente questo processo di affermazione dei valori costituzionali, è rappresentato dalla decisione di ricostruire la Città della Scienza non dov'era, ma bensì al di là della strada di Coroglio.
Come membri dell'Osservatorio per i Beni Comuni rivolgiamo un accorato appello a Lei, alla Giunta e al Consiglio Comunale perché questo passo venga compiuto senza esitazioni e ambiguità.
E ricordiamo che ove si imboccasse, invece, la strada contraria, il nostro stesso lavoro sui beni comuni non avrebbe più senso, perché sarebbe smentito alla radice.

Alberto Lucarelli è Presidente dell'Osservatorio sui Beni Comuni del Comune di Napoli, Tomaso Montanari ne è membro

Tutto il mondo è malpaese. Ma anche all'estero primeggiano gli archistar italiani. «Tra l’altro questi grattacieli non rispondono al bisogno di alloggi popolari ma solo a speculazioni immobiliari che muterebbero per sempre l’aspetto della capitale». La Repubblica, 31 marzo 2014

Cosa fa venire in mente un grappolo di grattacieli? Una volta la risposta era obbligata: New York. Oggi potrebbe essere anche Shanghai, Hong Kong, Dubai. Ma domani rischia di diventare Londra. Già trasformata da decine di torri nella vecchia City, nella nuova cittadella della finanza a Canary Wharf e lungo il Tamigi, ora la capitale britannica sta per costruire altri 250 grattacieli. Fatti più in là, Manhattan, potrebbe dire alla metropoli sua rivale dall’altra parte dell’oceano. Sennonché un gruppo di scrittori, artisti e intellettuali accusa il sindaco Boris Johnson di volere stravolgere lo skyline e il carattere della metropoli, lanciando una petizione pubblica per provare a fermare il progetto.

I firmatari comprendono alcune delle voci più prestigiose e autorevoli della città, dal romanziere Alan Bennett allo scultore Anish Kapoor, dal filosofo Alain de Botton all’architetto Alison Brooks, da Charles Saumarez Smith, direttore della Royal Academy, a lord Baker, ex-ministro degli Interni conservatore, a due pesi massimi del partito laburista, il deputato nero David Lammy (che qualcuno ha ribattezzato l’Obama inglese) e l’ex-ministro della cultura Tessa Jowell, non a caso, questi ultimi, entrambi aspiranti a rimpiazzare Johnson come primo cittadino alle prossime elezioni. «È scioccante che si prepari un cambiamento così radicale dell’orizzonte di Londra praticamente senza dibattito, senza che la popolazione ne sia nemmeno consapevole », afferma la petizione, sostenuta da una settantina di personaggi di spicco. «Tra l’altro questi grattacieli non rispondono al bisogno di alloggi popolari ma solo a speculazioni immobiliari che muterebbero per sempre l’aspetto della capitale».

L’aspetto di Londra in verità è già molto mutato negli ultimi due decenni. Lo skyline odierno non è più dominato dalla cupola della cattedrale di Saint Paul, che nel ‘700 faceva declamare a un poeta: «Dentro, fuori, sopra, sotto, l’occhio si riempie di delizia». Nel ventunesimo secolo l’occhio del visitatore si riempie di torri come il Cheese-Grater (la Grattugia), il Walkie-Talkie (il Radiotelefono), il Gerkhin (il Cetriolo) e al di sopra di tutti lo Shard (la Scheggia) disegnato da Renzo Piano, la più alta d’Europa, solo per citare le più note, senza dimenticare le due gemelle di Canary Wharf in cui lavorano più di 50 mila persone. I progetti autorizzati dalla municipalità, tuttavia, promettono di aggiungere nel prossimo decennio all’orizzonte cittadino 200 grattacieli di oltre venti piani, 30 di quaranta piani e 20 di almeno cinquanta piani. L’identità di una metropoli di case basse, anche per questo meno claustrofobica di New York e altre città fitte di torri, ne risulterebbe fortemente alterata.

Il sindaco Johnson risponde dicendosi disposto ad avviare un dibattito «con gli altrettanto autorevoli esperti » da lui consultati prima di dare via libera ai progetti, e ribatte che i grattacieli porterebbero lavoro, dinamismo e vivacità alla Londra del terzo millennio. I suoi critici obiettano che la metropoli più grande d’Europa sta diventando vittima di una bolla immobiliare in cui i prezzi delle case salgono del 15 per cento l’anno. Un parco giochi per ricchi di ogni angolo della terra. A loro sono destinati i 250 nuovi grattacieli di Londra.

“Un soprintendente è tenuto a compiere sopralluoghi, controllare perizie, dirigere i lavori, pubblicare studi, redigere piani paesistici, ma soprattutto resistere ai privati che vorrebbero distruggere tutto per rifarlo in vetrocemento, quasi sempre con l’assenso e l’appoggio delle autorità”.

“Resistere ai privati”: chi lo sostiene oggi è un talebano, statalista, comunista. A scriverlo, invece, era il liberalissimo Indro Montanelli, in un memorabile articolo comparso sul Corriere della Sera il12 marzo 1966. Oggi, invece, un giornale come Repubblica scrive che “troppo spesso le soprintendenze diventano fattori di conservazione e di protezionismo in senso stretto, cioè di freno e ostacolo allo sviluppo, alla crescita del turismo, e dell’economia”, sul Corriere si invoca un giorno sì e l’altro pure l’intervento salvifico di quegli stessi privati, Matteo Renzi ripete a macchinetta che “Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba”.

L’entusiasmo e la fantasia di chi – tra il 1966 e oggi – ha sepolto questo Paese sotto una colata di cemento. L’attualità dell’articolo è devastante, perché tutto è rimasto come allora: il bilancio miserabile del patrimonio, gli stipendi da fame e la solitudine dei soprintendenti, “pochi eroi, sopraffatti dal lavoro e senza mezzi per svolgerlo”. Montanelli vedeva che il vero problema era – ed è tuttora – la disparità dei mezzi tra i difensori del bene comune e quelli degli interessi privati: “I loro uffici sono letteralmente assediati da orde di impresari, ingegneri, architetti, geometri e altri guastatori. Nel periodo del ‘ boom’ edilizio il soprintendente ai monumenti della Liguria, Mazzino, esaminò in un anno 10 mila progetti con l’aiuto di un solo architetto. Il suo collega di Sassari, Carità, deve difendere da solo circa mille chilometri di costa che, a lasciar fare agli speculatori e ai progettisti a quest’ora sarebbero già un’immensa Ostia. E mentre gli speculatori hanno a disposizione i migliori giuristi per redigerlo, il Soprintendente deve farlo con l’aiuto del bidello e della custode”.

Montanelli vedeva lucidamente nel clero un pericolo per il patrimonio: “E qui bisogna parlarci chiaro, soprattutto coi preti. Il 70 per cento dei monumenti italiani è in loro custodia (…) Non per malizia o cupidigia, ma per ignoranza e spregio di ciò che essi chiamano ‘valori mondani’, i parroci demoliscono vecchie chiese gotiche e barocche per costruire orrende scatole in vetrocemento (quelle che i fiorentini chiamano con pertinente empietà i ‘cristogrill’) con pareti intonacate a ducotone, tapparelle, luci al neon e cromi”.

Oggi le cose stanno forse perfino peggio: ma quasi nessuno osa scriverlo. Con la scusa dell’adeguamento liturgico, zelanti vescovi rifanno da capo a piedi (e orribilmente) le loro cattedrali (da Reggio Emilia ad Arezzo) senza che nessun soprintendente riesca a contrastarli, e laricostruzione delle chiese emiliane dopo il terremoto rischia di risolversi in una mattanza del tessuto storico in nome delle mani libere. Oggi è di moda parlar male delle soprintendenze: dovremmo piuttosto chiederci se il ministero per i Beni culturali (nato nel 1974) sia riuscito a farle funzionare meglio di quando scriveva Montanelli, ed esse rispondevano alla Pubblica Istruzione. La risposta è evidentemente negativa, e questo dovrebbe indurre a ripensamenti radicali: il problema non è la rete territoriale della tutela, ma semmai la burocrazia e la sudditanza alla politica del quartiere generale romano.

Ciò che più colpisce, tuttavia, è la regressione generale del Paese, e del suo discorso pubblico. C’è davvero un abisso tra il profondo senso dello Stato e del pubblico interesse del liberale Montanelli, e il liberismo all’amatriciana del pensiero unico di oggi, insofferente ad ogni regola che non sia l’arbitrio assoluto degli interessi privati. E, soprattutto, c’era in Montanelli la profonda convinzione che ilpatrimonio culturale non fosse misurabile, come scrive, “sul metro del denaro”. Perché è proprio il nostro straordinario patrimonio ciò “che ci qualifica a un rango, del tutto immeritato, di Nazione civile”. È proprio questo il punto centrale: il punto che sfugge a tutti coloro che si riempiono incessantemente la bocca della retorica del “petrolio d’Italia”. A essere venuta meno, in questi cinquant’anni, non è solo la tutela del patrimonio, è l’idea stessa di Stato, un qualunque progetto di civiltà.

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