Un esemplare tentativo di "buongoverno dal basso", in una Laguna devastata dal Saccheggiatori, dai Demolitori e dagli Ignoranti, la cui mamma è sempre incinta. Inviato a eddyburg il 18 aprile 2014
Poveglia. Una storia fuori dal comune. Come andrà a finire non lo sanessuno, nemmeno i principali protagonisti che sono una decina di amici dellaGiudecca, l’isola più popolare e ancora autentica di Venezia, che hanno decisodi reagire all’ennesimo affronto che sta subendo la loro città: la messaall’asta di Poveglia, un antico insediamento composto da tre isole collegatetra loro in mezzo alla Laguna: un ottagono fortificato dalla RepubblicaSerenissima a guardia dell’antica bocca di porto di Malamocco, un lazzaretto trasformatonell’800 in stazione sanitaria marittima e successivamente in ospizio, unachiesa di cui sopravvive solo uno splendido campanile, antichi orti. In tutto 75.000mq di cui 5.000 edificati. Dopo decenni di abbandono e svariati tentativi di“trasformazione e sviluppo con finalità turistico-culturali” andati a cattivofine, l’Agenzia del demanio ha repentinamente deciso di svendere il complessoimmobiliare con un’asta telematica al miglior offerente. L’efficiente governoRenzi mette in televendita non solo auto blu, ma anche gioielli immobiliari. Tecnicamentesi tratta di una concessione per 99 anni. Scadenza delle offerte segrete il 6maggio ore 11. Nessun limite minimo, né massimo. Saranno selezionate le cinqueofferte economiche più vantaggiose per le casse dello stato. Una specie dipoker-teresina a carte coperte. Non serve presentare alcun progetto, nonservono piani tecnico-finanziari, non servono garanzie. Basta versare unacauzione di 20.000 euro. Poi, in un secondo momento, i selezioanti saranno chiamati ad una secondatrattativa con l’Agenzia del Demani
Ovviamente si è subito alzato in volo uno stormo di avvoltoi: un paio dibroker per conto di anonimi clienti, una società di ingegneria, un grandealbergo, la società Umana che per vocazione intermedia
forza lavoro ma che non disdegna trattare anche alte mercanzie, “investitori” vari. L’amministrazione comunale, come sempre impegnata a far quadrare i bilanci ordinari, sospira rassegnata alla perdita di un altro pezzo della città. Il Ministero ai beni culturali non muove ciglio per una delle tante “isole minori” della Laguna. Nemmeno le associazioni ambientaliste sembrano avere la forza di protestare più di tanto, impegnate su troppe vertenze, tra cui quella “madre” conto l’entrata in Laguna delle grandi navi da crociera.
Ma un paio di settimane fa l’inerzia è stata rotta da un accadimento inaspettato. Un gruppo di abitanti della Giudecca ha deciso spontaneamente di dover reagire in qualche modo direttamente in prima persona. Troppe volte i veneziani hanno visto prendere a morsi i beni pubblici della propria città. C’è un lungo elenco di “trasformazioni d’uso” avvenute negli ultimi anni: i magazzini della Dogana alla Salute trasformati in galleria privata della collezione di monsieur Pinout, il Fondaco dei Tedeschi a Rialto trasformato da sede delle Poste a store di Benetton, la Misericordia diventata un bazar, le isole ex ospedaliere di San Clemente, di Sacca Sessola e delle Grazie diventate dei resort internazionale. Ai nostri valorosi cittadini viene quindi l’idea pazza di lanciare una sottoscrizione popolare per partecipare all’asta e segnalare così ufficialmente l’esistenza di una cittadinanza attiva ostinatamente contraria alla privatizzazione turistica della città.
All’inizio l’obiettivo era semplice e modesto: raccogliere i 20.000 euro necessari alla partecipazione dell’asta, che sarebbero poi stati restituiti. Ma il tam-tam corre tra calli e social network e in pochi giorni centinaia e poi migliaia di persone sommergono la neonata Associazione Poveglia di richieste di veneziani entusiasti che si dichiarano disponibili anche ad avanzare una vera e propria offerta per ottenere davvero la concessione dell’isola dal demanio e riutilizzarla a scopi collettivi. Si sono così formati dei gruppi di progettazione partecipata. Architetti, avvocati, storici, capomastri, giardinieri, funzionari pubblici in pensione… che hanno rapidamente elaborato una proposta chiamata “Poveglia per tutti”. In pochi giorni più di tremila persone hanno versato 99 euro a testa: 19 a fondo perduto per le spese e 80 per partecipare all’asta, che, in caso di sconfitta, verranno restituiti. “Vogliamo che l’isola rimanga pubblica, aperta, ad uso di tutti”, scrivono. “La gestione dell’isola sarà no-profit ed eco-sostenibile”, quindi “la quota sottoscritta darà diritto a partecipare equamente alle decisioni sulle sorti di Poveglia”.
L’idea sembra piacere anche in giro nel mondo. Ne stanno scrivendo giornali tedeschi, inglesi, americani. Tra poco sarà possibile sottoscrivere on-line secondo le modalità crowfounding. Saranno accettati marchi, sterline e dollari, ma attenzione - precisano i promotori - non ci saranno utili da spartire, né dividendi, né azioni e ogni sottoscrittore conterà un voto nell’assemblea della Associazione a prescindere dall’entità della donazione. Profitti sono esclusi per statuto: gli utili che si riusciranno ad ottenere svolgendo attività economiche nell’isola andranno ad esclusivo beneficio del restauro e del mantenimento. Lorenzo Pesola, uno dei portavoce, precisa: “Siamo dei garanti, non dei proprietari”. Insomma, Poveglia bene comune.
Non sarebbe la prima volta che delle associazioni (Fai, Wwf) riescono ad acquisire dei beni e a gestirli a fini sociali, ma la novità di questa iniziativa veneziana è che si è messa in moto un’intera comunità cittadina che non chiede nulla né allo Stato, né al Comune se non di lasciarla gestire in autonomia e autogestione un bene pubblico. E’ la dimostrazione che esiste una terza via al fallimento dello stato (sommerso dai debiti) e del capitale privato (guidato dalla ricerca del massimo profitto). Per tutti e due questi “soggetti forti” rinunciare a speculare sui propri beni appare culturalmente e politicamente impossibile nell’attuale epoca dominata dal liberismo. Ma l’alternativa c’è e si chiama economia civile, sociale, solidale, etica… o del bene comune. Si sottrae alle logiche del mercato e per svilupparsi non ha bisogno delle società di capitale. Non ha mire competitive. Al contrario offre utilità da condividere. Non chiede né tasse, né lavoro coatto, ma la libera e volontaria messa in comune di competenze, di tempo-lavoro volontario, di risorse economiche necessarie alla realizzazione di un progetto comune.
Non sarà facile realizzare il sogno di “Poveglia per tutti”. Serviranno molte donazioni per riuscire a formalizzare una offerta non ignorabile dall’Agenzia del demanio. Servirà dissuadere gli speculari da presentare offerte ricordando loro che comunque saranno ben sorvegliati e non avranno mano libera. Serve che le autorità politiche locali e nazionali la smettano di comportarsi come liquidatori fallimentari del lascito di ricchezza, storia e memoria che dovrebbero invece preservare e amministrare con cura.
Speriamo che gli amici giudecchini ce la facciano.
Per info e adesioni: associazionepoveglia@gmail.com.
Il manifesto, 17 aprile 2014
Fino a giugno, il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme ospiterà una fantasmagorica rassegna dedicata ai mostri e alle creature fantastiche nella mitologia antica. Tutti presenti gli incubi dell’uomo classico: dal minotauro alle arpie, passando per la chimera. In catalogo, manca ovviamente il biblico leviatano, simbolo di quello Stato onnipresente, lento e opprimente, denunciato da Thomas Hobbes. Lo scorso mese, un articolo di Giovanni Valentini su Repubblica è parso evocarlo, quel monstrum, a proposito dell’amministrazione pubblica della cultura: sarebbe soprattutto la burocrazia delle soprintendenze ciò che «imbriglia il recupero e la valorizzazione del nostro patrimonio culturale, contribuendo così a congelare la modernizzazione».
Immediata l’alzata di capo degli archeologi, che hanno reagito lanciando un appello attraverso il sito Patrimonio sos. Tra le tante firme, troviamo quella di Rita Paris, consigliere comunale eletta nella Lista Civica Marino Sindaco e responsabile dell’area archeologica del Parco dell’Appia Antica. La incontriamo nel suo ufficio di Palazzo Massimo, sede museale che dirige dal 2005.
Qualcosa non va nelle soprintendenze?
La struttura per la quale lavoriamo deve essere migliorata: noi stessi ne parliamo ormai da anni. Non è tuttavia giusto descrivere le soprintendenze come carrozzoni ottocenteschi. Innanzitutto, sono passate con successo a gestire finanziamenti, anche consistenti, applicando la normativa sui lavori pubblici, estremamente complessa per studiosi costretti a confrontarsi con scavi e restauri alla stregua di opere edili quali viadotti e autostrade. Ci hanno quindi chiesto di informatizzare il nostro patrimonio conoscitivo: l’abbiamo fatto. Allo stesso modo ottemperiamo alla legge 241 sulla trasparenza degli atti: rispettiamo in pieno i tempi, rispondendo sempre all’attenzione pubblica.
Che le soprintendenze siano antiche, questo è un altro discorso. In effetti sono nate ancora prima del ministero, quando erano comprese all’interno della Direzione generale per le antichità e belle arti, dipendente dalla Pubblica istruzione. Da allora, sono le soprintendenze di settore — archeologiche, storico-artistiche, architettoniche e paesaggistiche — gli uffici periferici presenti sul territorio, che presidiano e controllano seguendo le forme di pianificazione elaborate dagli enti locali, dai piani regolatori ai piani territoriali paesistici. Francamente, non riesco a immaginare da quale struttura possano essere sostituite.
Una grande rivoluzione fu, nel 1993, la legge Ronchey sui servizi aggiuntivi: prima custode e bigliettaio erano la stessa persona; adesso biglietteria, bookshop, e punti di ristoro sono gestiti a parte. Le soprintendenze hanno definitivamente rivolto la loro attenzione agli aspetti gestionali e di valorizzazione della funzione pubblica, concentrandosi sulle nuove esigenze didattiche e comunicative. I luoghi della cultura si sono aperti a un mondo diverso, non solo specialistico.
Un luogo comune, tuttavia, insiste nel ribadire che siete troppo autoreferenziali e dovreste aprirvi ancora di più all’esterno.
Per quanto riguarda la ricerca di sponsorizzazioni, non è vero che siamo soltanto conservatori. Anzi, manca poco che facciamo i butta-dentro: quelli che pur di rendere attraenti i nostri musei, pur di avere maggiori visitatori si mostrano disponibili a organizzare tipi di eventi che non hanno molto a che vedere con l’archeologia. Non è il caso di Musei in musica, Una notte al museo, la Settimana della cultura, iniziative che possono attrarre un pubblico diverso che altrimenti non si sarebbe mai accostato all’arte antica. I Rolling Stones, però, sono eccessivi, anche perché il Circo Massimo non ha bisogno di visibilità.
Quali sono, quindi, i limiti e le criticità principali delle soprintendenze?
Abbiamo una serie di figure professionali entrate con una qualifica direttivo-apicale; se non fai un concorso, lì ti fermi. La nostra è una struttura piramidale con un dirigente e diversi direttori che hanno degli incarichi specifici presso monumenti, pezzi di territorio, musei. Una struttura del genere, con tali responsabilità, meriterebbe un riconoscimento diverso. Lo stipendio di un direttore di museo, invece — Uffizi compresi — arriva al massimo a 1800 euro. È un incarico che, come ti viene dato, così ti viene tolto: oggi sei il direttore della Galleria Borghese, domani puoi lavorare altrove. Non hai un’indennità di funzione a fronte della mole di impegni e responsabilità richieste, delle competenze necessarie per gestire rapporti con le istituzioni nazionali e internazionali.
Così non si può continuare a lavorare: se ancora resistiamo, è perché abbiamo introdotto nel lavoro qualcosa che va oltre l’idea di contratto. È proprio la passione, il trasporto, l’enorme senso di responsabilità che ha fatto dimenticare a chi ci governa quanto la nostra considerazione sia inadeguata al ruolo svolto. Tutti lavoriamo normalmente dodici ore al giorno, districandoci tra aspetti gestionali e amministrativi, senza dimenticare la ricerca scientifica: non possiamo smettere di studiare per restare al passo con l’impegno scientifico che gli accademici possono affrontare. Se non studi, non puoi organizzare una mostra né gestire un museo: non hai la possibilità di redigere un catalogo, scrivere le didascalie, organizzare attività didattiche.
Sembrano le stesse richieste degli insegnanti. E se le soprintendenze le abolissero?
L’età media delle sovrintendenze è di 57 anni. In alcune regioni sono state immesse forze giovani; a Roma e nel Lazio no. Da anni ormai non entra un funzionario nuovo al quale trasmettere la nostra esperienza, giusto per passare la staffetta. Nello Stato non c’è carriera: ci sono degli interni di livelli inferiori che non crescono, altri proprio non entrano. Le dichiarazioni del ministro, finora, da un lato parlano del ricorso a privati, dall’altro di una spending review che sicuramente va operata, ma non certo qui, dove sarebbe quanto meno rischiosa e controproducente. Se si tolgono risorse alle soprintendenze, si impoverisce irrimediabilmente il rapporto dello Stato con i luoghi della cultura sul territorio.
Una delle obiezioni più frequenti sostiene che lo Stato non possa farcela a gestire da solo il nostro patrimonio culturale. Bisognerebbe concede maggiore spazio ai privati?
Davvero non si capisce cosa si intende oggi per privati, perché ci sono sempre stati. Già nel ’94 avevo immaginato una mostra — Dono Hartwig, originali ricongiunti e copie tra Roma e Ann Arbor in Michigan — che riuniva frammenti scultorei del Templum Gentis Flaviae finiti all’inizio del ’900 sul mercato antiquario. L’operazione fu portata avanti grazie al contributo di uno sponsor privato: l’Eni. È fondamentale, tuttavia, sottolineare quello che sembra ovvio: deve essere lo Stato a soprintendere. Ultimamente abbiamo avuto contributi di privati a titolo diverso: nel caso della Piramide Cestia e della Fondazione Packard a Ercolano, si è trattato di erogazioni liberali e di atti di mecenatismo che non hanno chiesto nulla in cambio se non il pubblico riconoscimento e ringraziamento; nel caso del Colosseo, si è andati un po’ oltre. Quello che conta, tuttavia, è il procedimento: i privati versano i soldi nelle casse dello Stato e, quindi, delle soprintendenze; queste, infine, procedono a realizzare i progetti attenendosi rigorosamente alle procedure di legge. Nessun privato può dire direttamente: «io voglio occuparmi dei restauri al Colosseo».
Non pensa che l’opinione pubblica possa faticare a comprendere le vostre ragioni?
Al contrario, penso che a volte i cittadini siano perfino più esigenti di noi, fino a pretendere di più di quello che si possa effettivamente dare. Per esempio, anni fa, un limitato scavo preventivo in occasione della costruzione di un edificio in via Padre Semeria, all’Eur, aveva restituito alcune testimonianze antiche. In seguito, il palazzo non si fece più e lo scavo rimase a lungo in stato di abbandono, finché noi non chiedemmo il rinterro per garantirne la protezione: la migliore forma di conservazione.
I cittadini quasi insorsero. Insomma, da un lato si accusano le soprintendenze di essere da ostacolo al progresso, dall’altro ogni ritrovamento archeologico finisce per scatenare una sorta di orgoglio locale. Se l’Italia assegna all’intero patrimonio culturale della nazione uno 0,19%, è ovvio che il governo e gli amministratori continuino a chiedere con maggiore forza il contributo dei privati. La questione sta tutta qui.
«Il problema dei problemi però, non è stato ancora risolto. L’azienda infatti, non possiede le risorse per attuare gli investimenti previsti dal piano ambientale ed è in cerca di eventuali finanziatori (da individuarsi anche nello Stato, attraverso un intervento della Cassa Depositi e Prestiti)». Il manifesto 17 aprile 2014 (m.p.r.)
Il sub commissario dell’Ilva, Edo Ronchi, ha invece evidenziato come l’intervento della Commissione sia a suo dire addebitabile unicamente alla mancata approvazione del piano ambientale, all’interno del quale sono previsti tutti gli interventi da effettuare sugli impianti dell’area a caldo del siderurgico. Il piano ambientale, secondo la legge approvata lo scorso 4 agosto, rimodulava e posticipava infatti la tempistica prevista per la scadenza degli interventi. In realtà il piano è stato approvato ai primi di marzo dal Consiglio dei ministri ed è tutt’ora al vaglio della Corte dei Conti. Il problema dei problemi però, non è stato ancora risolto. L’azienda infatti, non possiede le risorse per attuare gli investimenti previsti dal piano ambientale ed è in cerca di eventuali finanziatori (da individuarsi anche nello Stato, attraverso un intervento della Cassa Depositi e Prestiti).
Dopo la ferita dei bombardamenti del 1943, che avevano raso al suolo buona parte del cento storico, Cagliari negli anni del boom economico (i Cinquanta e poi per tutti i Sessanta), era cresciuta. Sede dell’amministrazione regionale, centro politico ma anche economico dell’isola. Un’imprenditoria quasi tutta legata ai traffici commerciali con la penisola, comprare e rivendere, rivendere e comprare. Poca industria vera, sino all’arrivo dei Moratti con la loro raffineria a Sarroch, sul finire degli anni Sessanta. Ma anche, in una città in tumultuoso sviluppo urbanistico,speculatori edilizi e palazzinari. Nei primi anni Settanta a Sant’Elia accaddero due cose che cambiarono per sempre il volto del quartiere: la decisione di trasformare la ex zona paludosa bonificata in un’area di edilizia popolare e quella di costruire al limite est il nuovo stadio del Cagliari Calcio.
Decisioni prese da un’amministrazione comunale di segno moderato, dominata dalle correnti democristiane più conservatrici. Alle quali, però, nessuno si oppose. Cagliari cresceva in popolazione a ritmi esponenziali, la fame di case era grande. E poi la squadra di football era quella dello scudetto, la squadra di Gigi Riva “Rombo di tuono”: si poteva negare all’undici guidato da Manlio Scopigno, che aveva regalato a una città mezzo nobile d’antico lignaggio iberico e mezzo stracciona un sogno che sembrava impossibile? No. E così, sotto la piccola collina dove continuavano a stare i pescatori, nell’avvallamento dove prima era soltanto acqua stagnante e saline, sorsero enormi orrendi palazzoni dove mettere quelli che cercavano casa e non potevano permettersi i prezzi di mercato. E insieme ai casermoni, lo stadio nuovo. Due simboli del benessere conquistato, una carta di credito per l’ingresso nel palcoscenico sul quale si costruiva una miserevole identità nazionale
Che cosa significa, per uno che sta a sinistra, diventare sindaco di una città governata per decenni, dal secondo dopoguerra in poi, da forze politiche espressione di un blocco sociale conservatore che ha dato al tessuto urbanistico la forma corrispondente a ben precisi interessi economici? Massimo Zedda, prima Pd e poi Sel, è diventato sindaco di Cagliari il 30 maggio del 2011, alla testa di uno schieramento di centrosinistra. Una svolta, in larga parte inattesa. Un’occasione storica.
La sua elezioni a sindaco, quasi tre anni fa, rappresentò una rottura e accese le speranze di un cambiamento radicale. Che bilancio si può fare oggi?
Abbiamo dato uno stop netto al saccheggio urbanistico della città. Ci siamo mossi da subito lungo una linea di adeguamento del piano urbanistico comunale alle direttive di tutela sancite dal piano paesaggistico approvato nel 2006 dalla giunta Soru. Abbiamo approvato il piano particolareggiato del centro storico, il piano della mobilità, il piano di utilizzo dei litorali. Tutto secondo un’ottica di restauro e di riutilizzo del patrimonio edilizio già esistente, in particolare di quello di proprietà pubblica: del comune, della Regione Sardegna, del demanio. Basta con l’aumento delle volumetrie e con il dissennato consumo del territorio. Rispetto al passato è una svolta radicale.
Qualche vostra decisione in dettaglio?
Intanto la pedonalizzazione di vaste aree del centro storico, in passato intasate e snaturate da un traffico caotico, senza regole. Meno auto private e un potenziamento del trasporto pubblico e la definizione di un sistema di parcheggi intorno al centro, con l’obiettivo di fornire un servizio a chi usa le auto per arrivare dalle periferie senza che questo significhi, come nel passato, l’invasione delle strade e delle piazze da parte del traffico privato. Tenendo conto anche che il centro storico di Cagliari è molto ampio. I quattro quartieri antichi di Marina, Stampace, Villanova e Castello insieme coprono un’area molto più vasta, ad esempio, di quella della parte storica di una città come Praga.
Per la spiaggia del Poetto che cosa avete fatto?
Come si sa quel litorale nel passato recente è stato devastato da un ripascimento disastroso. Al problema dell’erosione della spiaggia si è risposto aggiungendo sabbia prelevata dai fondali al largo del Golfo di Cagliari. Con esiti che hanno modificato le caratteristiche ambientali di un sito che per la città ha una rilevanza anche urbanistica centrale. Noi abbiamo puntato invece su interventi strutturali, che hanno come obiettivo quello di una riqualificazione urbanistica dell’intero litorale, che si estende per otto chilometri dalla Sella del diavolo sino alla città di Quartu. Abbiamo trovato i fondi per un progetto che è già in fase esecutiva e che modificherà in maniera sostanziale il volto e la funzione urbanistica di tutta la zona. Istituiremo, ad esempio, un’area pedonale che sarà una specie di cordone tra la spiaggia e la strada che corre parallela all’arenile.
Il tessuto urbanistico di Cagliari è ricco di aree demaniali in uso a strutture militari. Cosa avete fatto per recuperarle alla città?
Come amministrazione comunale abbiamo cercato di costruire un fronte unitario con la Regione Sardegna per aprire un confronto con il ministero della Difesa che consentisse una “liberazione” se non totale almeno parziale di quelle aree, che sono davvero molto vaste e tutte di grande pregio urbanistico e ambientale, dai vincoli militari. Non abbiamo trovato grande sensibilità nella giunta di centrodestra presieduta da Ugo Cappellacci. Contiamo di riprendere il discorso con il nuovo esecutivo, guidato da Francesco Pigliaru dopo la vittoria del centrosinistra alle elezioni regionali dello scorso febbraio.
E per le periferie? In particolare per Sant’Elia?
Sant’Elia in realtà non è una periferia. È un quartiere ormai pienamente inserito nel cuore del tessuto urbanistico. Lì esiste un enorme problema di disagio sociale e di emarginazione che stiamo affrontando attraverso la creazione di strutture permanenti di integrazione sociale. Le scelte che sono state fatte in passato hanno trasformato Sant’Elia in un corpo separato. Correggere quelle storture è uno dei compiti che ci siamo assegnati. Vedere la questione soltanto in termini di ordine pubblico è sbagliato. Bisogna puntare invece ad inserire pienamente il quartiere nella vita della città. Ed è esattamente questo che stiamo cercando di fare, con non pochi risultati incoraggianti
«La città è cresciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filosofia del costruire. Amnesia del passato. Ha ricoperto di asfalto e cemento il suo contado agricolo e lo chiama hinterland. Deturpato la sua spiaggia abbagliante. Violato con bitume, palazzi e fabbriche gli stagni sconfinati a est e a ovest. E tutto questo lo chiama "sviluppo"». .Il manifesto, 17 aprile 2014
Poi il XX secolo. Antonio Gramsci fa il suo liceo a Cagliari. La carneficina della Grande Guerra. Pastori e contadini, riuniti nella Brigata Sassari mandati a morire sul Carso e Emilio Lussu. Poi il fascismo, la seconda guerra, l’occupazione tedesca senza sangue, i bombardamenti anglo-americani del ‘43. La città inizia la sua ricostruzione e l’inurbamento è feroce. Nasce una nuova classe dirigente insieme ai nuovi brutti quartieri, anni 50 e 60, che la raffigurano. L’edilizia caccia via l’architettura. Impresari e commercianti disegnano la città sulla propria immagine e producono una generazione politica conformata, come un calco di gesso, alla loro visione materiale delle cose. I cosiddetti intellettuali si rifugiano in un mondo sognante vicino all’infanzia, lontano dalle azioni.
Ma qualcosa cambia negli ultimi decenni. Si smette di masticare i fiori di loto e la memoria ritorna nella testa di alcuni. La città si guarda, si riconosce. Si risveglia un’anima critica che comunica, osserva ed è interessata alle proprie origini. E ricava energia dal passato senza essere passatista. Guarda indietro per essere moderna perché quando uno sa da dove viene non ha bisogno di altro. E si oppone alla frenesia del fare a tutti i costi. Però l’altra anima, quella mercantile, resta forte.
La città è cresciuta, negli ultimi sessant’anni, senza una filosofia del costruire. Amnesia del passato. Ha ricoperto di asfalto e cemento il suo contado agricolo e lo chiama hinterland. Deturpato la sua spiaggia abbagliante. Violato con bitume, palazzi e fabbriche gli stagni sconfinati a est e a ovest. E tutto questo lo chiama «sviluppo» mentre dimostra che quando la politica si confonde con l’impresa ci si ammala di un morbo che si chiama sviluppite.
Cagliari è un’incubatrice di questa malattia. Però la storia è incancellabile. I luoghi resistono e mettono in movimento gli avvenimenti. I morti della necropoli di Tuvixeddu possiedono la forza dell’assoluto e ancora determinano conseguenze. La rocca medievale resiste ai tentativi di renderla «progredita» con scale mobili e ferraglia. Il promontorio sacro della Sella del Diavolo resterà intatto anche se la città famelica gli gira intorno. E l’acropoli di Castello resisterà ai nuovi assedianti che oggi vogliono un volgare garage dentro le sue mura.
Nel 1956 avevo cinque anni. Il braccio quasi lussato quando passeggiavo a traino delle mani inaccessibili di mio padre, il lungomare, il mercato al centro della città, le barche che tornavano tanto cariche che i pescatori stavano in piedi sui cumuli di pescato, allora i polpi sembravano piovre, le anguille scappavano dalle cesti nelle corsie del mercato, i pesci boccheggiavano. Era bello e sarebbe stato più bello ancora se fosse durato.
Ma i fatti si muovevano per necessità che non comprendevo. E non obbedivano a nessuno. Ero troppo piccolo per capire cosa accadeva alla mia città, troppo basso per vedere le prime gru. Oppure, semplicemente, non guardavo perché, appeso alla mano di mio padre, osservavo solo le cose vicine oppure l’orizzonte marino, l’unico orizzonte per me.
So che i monti che vedevo a meridione erano il profilo dei monti del golfo, ma allora credevo che fosse l’Africa perché sentivo ripetere che la città più vicina alla mia era Tunisi. Poche ore di traversata.Dalle mie rive, certo, non si vedeva l’Africa. Fu una delusione. Però continuai a crederci.
Un giorno mamma ci portò a vedere una nuova meraviglia che il maestro, ammirato dal progresso benché conservasse la sua casa come un salotto di Nonna Speranza, ci aveva già annunciato a scuola. Il grattacielo.
Be’, era solo un brutto palazzo di dodici piani. Ma era il nuovo presente e tutti volevano solo presente e futuro. Mai visto dal vero un palazzo così alto.Non fu stupore quello che provai vedendo quel lungo parallelepipedo grigio con decine e decine di finestre funerarie. Ancora oggi ricordo la sensazione di perdita che provai e ricordo che non compresi, ero troppo bambino, quel sentimento.
Quella costruzione infantilmente chiamata grattacielo, che ancora esiste, ha segnato la nascita in città dell’eternamente brutto. Sì, quel palazzo era brutto dalla nascita, talmente brutto che diventò proverbiale.
Però il brutto è epidemico e quando inizia si moltiplica con enigmatica testardaggine. Non lo fermi più. Deve, si vede, necessariamente trascorrere e concludersi un’epoca.
Eppure tutti vedevano. Fu un’amnesia di massa che non è mai cessata da allora. E chissà se riacquisteremo mai la memoria. Ma, l’ho detto, tutti volevano abbandonare il passato, anche quello buono.
Mia nonna, mentre passeggiavo e giocavo in un terrapieno da dove si vedeva la città in basso, mi disse un giorno che cominciava a esserci troppo cemento e che tutti questi nuovi arrivati dal contado — così chiamava gli inurbati che arrivavano da ogni parte dell’isola — stavano rendendo deforme la città. Che lei era comunista, ma questo non le impediva di capire che c’erano persone rese feroci proprio dall’arrivo in città e che avevano l’urgenza di far vedere chi erano. Che costruire un muro, una casa, un palazzo era il modo più facile di far vedere quello che si vale. E che un ignorante non sa mai di essere ignorante.
Appena tirano su un muro si fanno chiamare cavalieri e commendatori, ripeteva. D’altronde il cemento aveva reso facile e possibile a tutti l’azione di costruire. L’intera nazione ribolliva di cemento, ma io non lo sapevo. E neppure nonna. Però osservava la sua città.
Lei vedeva la bruttezza del cemento, capiva che non si può mettere insieme cemento e pietra perché invecchiano in modo diverso, che la pietra si smussa e che il cemento faceva solo angoli.
Il cemento è un materiale che non sa invecchiare. La pietra, invece, è già vecchia, esiste da milioni di anni. Il cemento costringe chi lo usa a disegnare forme squallide.
Era squallido anche il bar aperto al piano terra nel «grattacielo», cattive le brioche, il caffè puzzava di bruciato e un moscone giaceva a pancia all’insù, mummificato per sempre in un angolo della vetrina pretenziosa. Dentro quel palazzone c’erano però alcuni segnali importanti del presente che seduceva la comunità e la convinceva che il passato era vergognoso.
Però è vero che nella mia città una luce che non finiva neppure la notte e un sole felice anche d’inverno mi facevano sentire fortunato e lontano da ogni pericolo.
Traslocammo nel 1962 in una nuova casa. E tutto mutò.
La nostalgia è un sentimento indispensabile, ma deve essere organizzato. Sennò si soffre. Oltretutto distorce, nelle sua forma malata, la realtà, i ricordi e l’interpretazione del presente.Traslocammo, dicevo, che avevo dodici anni. Una casa luminosa, moderna, con due bagni, con davanzali, una portineria, l’ascensore e vicina all’orto botanico.
Quel quartiere era il confine della città storica, però mi sembrava un salto nel futuro. E ogni volta che passavamo vicino alla vecchia casa trascinavo la mano che mi conduceva per entrare dentro il portone. Come quei cani che tirano quando sono vicini alla casa del padrone morto.
Con il camion carico di mobili apparve la differenza tra presente e passato, tra una fine e un inizio.
Babbo aveva battuto a macchina il suo nome su un foglio, ritagliato la striscia di carta e l’aveva infilato nella fessura del nuovo campanello. Poi aveva letto a voce alta il proprio nome e schiacciato il pulsante. Quel trillo era il segnale della città nuova.
Questa volta gli "occhi aperti su Venezia" sono volti a indagare gli effetti che le scelte della Biennale di architettura hanno avuto sulla città: fughe dalla realtà. alibi culturali a tendenze nefasta, o contributi alla tutela e alla vivibilità?. Pervenuto a eddyburg il 16 aprile 2014
Nella preziosissima collana di Corte del Fontego che tiene aperti i nostri occhi su Venezia, è uscito un nuovo libro dell'urbanista Paola Somma. Come sempre il bersaglio è grosso, ma questa volta è anche particolarmente scomodo, visto il conformismo degli intellettuali italiani: la Biennale di Architettura!
Il libro risponde alla domanda avanzata dal sottotitolo: «Progetti in vetrina o città in vendita?». E la risposta sta già nel titolo, che è: «Mercanti in fiera».
A leggerlo viene da pensare che se gli architetti facessero il 'giuramento di Vitruvio' proposto da Salvatore Settis, ebbene la Biennale veneziana sarebbe una specie di festival dello spergiuro.
Tra i molti fili d'Arianna offertici da Paola Somma, quello più impressionante è forse la vicenda paradigmatica del Mulino Stucky, al cui recupero fu dedicato quel che venne poi considerato il 'numero zero' della Biennale di Architettura, e cioè un concorso di idee organizzato nel 1975 dalla Biennale di Venezia. Si trattava di immaginare una seconda vita per un gigantesco complesso dell'industria alimentare dismesso da vent'anni. Tutti i partecipanti al concorso lo immaginarono come un grande contenitore delle cose più disparate e irrelate, senza minimamente valutarne – nota l'autrice – «le relazioni con la struttura economica e sociale della città».
E questa è, in fondo, la cifra prevalente della Biennale di Architettura nel complesso: una lunga esercitazione a tema libero, e a tasso di responsabilità civile e sociale pari a zero. Ma non è una cifra senza conseguenze pratiche: e anche da questo punto di vista la storia dello Stucky è, fino in fondo, esemplare. Nessuno dei progetti del 1975 venne attuato, e dopo che – nel 2007 – un provvidenziale incendio ne distrusse le parti vincolate, è nato lo Stucky Hilton, un albergo di lusso con 300 camere e una piscina sul tetto. «Nel 2012 – conclude Paola Somma – l’imprenditore Caltagirone [che ne era proprietario] è stato arrestato per frode fiscale e la società Acqua Marcia è stata messa in liquidazione. Ora lo Stucky Hilton è in vendita, con base d’asta di 300 milioni di euro, ma non è dato sapere quale sia stato l’incremento di valore garantito agli investitori dalla trasformazione, né quali costi, diretti e indiretti, questa abbia comportato per la città, dove non si è manifestato nessun segnale della “creatività collettiva” auspicata dai promotori del concorso del 1975».
E a questo punto, la domanda è d'obbligo: ma non ci sarà un qualche nesso causale tra il lungo tradimento delle fughe architettoniche dalla realtà, la speculazione immobiliare selvaggia e la progressiva morte di Venezia, trasformatasi «da città a portacontainer di alberghi»? A questa domanda l'autrice risponde con un paziente, pacatissimo intarsio di citazioni testuali, dati di fatto, limpide e indiscutibili connessioni. Ed è forse a causa di questo tono civilissimo che l'effetto su chi legge è ancora più devastante.
L'architettura promossa in questi quarant'anni di Biennale è un'architettura irrelata: in primo luogo irrelata alla sua funzione, e poi ai luoghi nei quali dovrebbe essere poi calata. Un immagine, questa, insieme amplificata e alimentata dai media: «i mezzi di informazione di massa pubblicano fotografie o simulazioni di edifici descritti con un linguaggio metaforico che, assimilandoli di volta in volta a vele, nuvole, farfalle, uccelli in volo, ne ignora l’impatto spesso violento sul suolo, mentre il programmatico disinteresse per il contesto li rende indifferenti, se non ostili, ai luoghi».
Paola Somma segue, quindi, la storia della Biennale, aiutandoci a leggerla come un'incubatrice di tutti i flagelli in seguito abbattutisi su Venezia. Alla prima mostra internazionale di architettura (1980), curata da Paolo Portoghesi, risale la produzione e la propaganda di «immagini della città come palcoscenico per suggestive rappresentazioni e, che, al tempo stesso, ne hanno promosso e avallato l’uso per affari ben concreti». Una linea – che si fatica a chiamare 'culturale' – che culminerà nella privatizzazione dell'Arsenale: che invece di essere restituito alla città finirà nelle mani del Consorzio Venezia Nuova. Erano, d'altra parte, gli anni in cui nasceva – e proprio nella cerchia di Bettino Craxi, ben nota a Portoghesi – la nefasta dottrina del patrimonio culturale come petrolio d'Italia, con il suo corollario di eventi effimeri e violento sfruttamento privatistico.
Negli anni novanta continua il rapporto perverso per cui il peggio delle 'innovazioni' architettoniche ed urbanistiche veneziane nasce nella serra della Biennale: è il caso del Ponte di Calatrava, ed è il caso del più clamoroso scempio degli ultimi decenni, il cantiere per il Palazzo del Cinema al Lido, passato per l'inutile e criminale distruzione della pineta storica: «Nel 2008, alla posa della prima pietra, il presidente della Regione, Giancarlo Galan, si rallegrò perché «sono stati abbattuti tutti quegli ostacoli burocratici fastidiosi di enti e uffici che non vogliono lavorare per il bene comune». Un'affermazione e un tono che preludono tristemente a quelli – ben più pericolosi – che Matteo Renzi riserva agli stessi organi di tutela: «Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che?».
Paola Somma segue con dolorosa, ma fredda, partecipazione il resto della storia (che davvero, a Venezia dovrebbe esser fatta leggere a tutti gli studenti di architettura del primo anno), e ci accompagna all'attualissimo epilogo, il matrimonio d'affari tra la Biennale e l'Expo 2015. «Il periodo di apertura, sei mesi, sarà più lungo del solito e grande rilievo sarà dato all’esposizione dei modelli dei padiglioni di Milano, a cominciare da quello italiano, una «foresta urbana pietrificata, ispirata all’albero della vita» in cui il visitatore potrà "immergersi e scoprire una suggestiva architettura- paesaggio". E, soprattutto, la Biennale di architettura si adopererà affinché l’Arsenale diventi, e venga percepito, come la vera porta d’ingresso dell'Expo. Il presidente Baratta, che non sembra nutrire preoccupazioni per i danni collaterali derivanti dallo sbarco di ulteriori milioni di turisti, è molto soddisfatto, perché in questo modo «la Biennale farà da traino allo sviluppo di Venezia».
Temiamo anche noi che finisca proprio così, ancora una volta. Perché la morale della storia è tutta iscritta in questa misurata, ma inappellabile condanna: «ovviamente, la Biennale non è la sola responsabile dello stravolgimento economico e sociale che ha trasformato Venezia prima in vetrina e poi in merce essa stessa. Ma ha attivamente cooperato con i governi e le istituzioni locali e nazionali e con i gruppi finanziari interessati a riconvertire le cosiddette città d’arte in fabbriche di eventi e in condensatori di rendita immobiliare e fondiaria».
Analisi critica dell'art. 10 del DL n. 47 del 28 marzo scorso “Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per l’Expo 2015”. Nuvola di parole accattivanti a nascondere «accordi coi privati basati su indici urbanistici arbitrari e tesi a garantire il conseguimento della rendita attesa, anche in condizioni di mercato altalenante tra bolle speculative e stagnazione delle vendite. Inviato a eddyburg il 15 aprile 2014
Il ministro Lupi ha maturato nella propria passata esperienza di assessore all’urbanistica del Comune di Milano come si possa fomentare uno scambio ineguale tra presunte virtù private e permissivismo pubblico, accettando la demolizione di ogni regola basata su un razionale rapporto tra quantità costruite, densità di popolazione e spazi ed aree per strutture pubbliche a fronte della promessa di edifici "verdi", "intelligenti", "energeticamente autosufficienti", "riciclabili"o "resilienti" (in altre parole, tutto l'armamentario ideologico delle tecnologie delle smart cities), per promuovere accordi coi privati basati su indici urbanistici del tutto arbitrari e tesi solo a garantire loro il conseguimento della rendita fondiario-immobiliare attesa, anche in condizioni di mercato altalenante tra bolle speculative e stagnazione delle vendite.
E’ esattamente ciò che viene riproposto su un orizzonte di mercato esteso all’intero quadro nazionale con l’art. 10 del Decreto Legge n. 47 del 28 marzo scorso intitolato non casualmente “Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per l’Expo 2015”. Il pensiero di fondo del provvedimento è alimentato da una mancanza di fiducia nella capacità della società di costruire progetti comunitari condivisi a lungo termine, come avviene nei piani urbanistici promossi dal pubblico sulla base di una propria visione dell’interesse generale, ed utilizza invece la pressione della domanda insoddisfatta di edilizia abitativa ad uso sociale, soprattutto in locazione, per tentare di smaltire a condizioni di smobilizzo senza regole insediative lo stock edilizio privato accumulato nel periodo della bolla speculativa immobiliare montante e il poco patrimonio edilizio pubblico sopravvissuto alle ricorrenti ondate di cartolarizzazioni e svendite.
Infatti, secondo il primo comma dell’art. 10, ciò dovrebbe avvenire “senza consumo di nuovo suolo rispetto agli strumenti urbanistici vigenti, favorendo il risparmio energetico e la promozione, da parte dei Comuni, di politiche urbane mirate ad un processo integrato di rigenerazione delle aree e dei tessuti attraverso lo sviluppo dell’edilizia sociale”.
Per conseguire questo scopo, tuttavia, il comma 5 mette in campo ogni genere di possibile intervento dalla “ristrutturazione edilizia, restauro o risanamento conservativo” alla “ sostituzione edilizia mediante anche la totale demolizione dell’edificio e la sua ricostruzione con modifica di sagoma o diversa localizzazione nel lotto di riferimento” alla “variazione di destinazione d’uso anche senza opere” (e quindi, eventualmente, anche con opere di trasformazione), alla “creazione di servizi e funzioni connesse e complementari alla residenza, al commercio (…) necessarie a garantire l’integrazione sociale degli inquilini degli alloggi sociali” alla “creazione di quote di alloggi da destinare alla locazione temporanea dei residenti di immobili di edilizia residenziale pubblica in corso di ristrutturazione o a soggetti sottoposti a procedure di sfratto”.
E’facile prevedere quali di queste modalità di intervento verranno preferite dai privati proponenti, soprattutto se si tiene conto che il comma 8 consente che essi “possono essere realizzati in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, e ai regolamenti edilizi ed alle destinazioni d’uso, nel rispetto delle norme e dei vincoli artistici, storici, archeologici, paesaggistici e ambientali, nonché delle norme di carattere igienico-sanitario e degli obiettivi di qualità dei suoli” e il comma 9 prescrive che tali interventi “devono comunque assicurare la copertura del fabbisogno energetico necessario per l’acqua calda sanitaria, il riscaldamento e il raffrescamento, tramite impianti alimentati da fonti rinnovabili”. Cioè, nel rispetto di ogni vincolo esterno, fuorché quelli di carattere di carattere intrinsecamente urbanistico-insediativo, che vengono totalmente deregolamentati.
Suona beffardo, infine, che tutto ciò si prescrive debba essere regolato “da convenzioni sottoscritte dal comune e dal soggetto privato, con la previsione di clausole sanzionatorie per il mancato rispetto del vincolo di destinazione d’uso”. Un’urbanistica “à la carte” che richiama in auge le convenzioni senza piano regolatore o il “rito ambrosiano” degli Anni Cinquanta-Sessanta che, nonostante il disastro insediativo di cui portiamo in gran parte ancora le nefaste conseguenze, si concluse solo dopo il simbolico episodio della frana di Agrigento del 1966, il cui impatto sulla pubblica opinione vinse le resistenze anche delle forze politiche più conservatrici nei confronti della necessità di una regolamentazione pubblica dell’assetto insediativo.
Anche il finanziamento che viene stanziato per l’attuazione dell’evento Expo 2015 a Milano-Rho lascia del tutto impregiudicato ciò che accadrà su quell’area (pochissimo adatta all’uso residenziale per le pesanti barriere infrastrutturali che la contornano) dal 2016 in poi, e su cui invece già aleggiano le aspettative del mondo della sussidiarietà cooperativistica dalle larghe intese, in assenza di chiari criteri insediativi prefissati dagli enti pubblici.
Oggi, l' urbanistica, dopo essere stata oggetto di grandi aspettative e rivendicazioni sociali negli anni Settanta e Ottanta, negli ultimi decenni, non gode più di una buona fama in un periodo di difficoltà finanziarie e di rapidità di mutamenti economico-produttivi e il suo posto nell’immaginario sociale collettivo dell’aspettativa di un futuro migliore è stato preso dall’ambientalismo ecologista o dal liberismo da regole insediative per l’attività economica imprenditoriale o familiare.
C’è da augurarsi che non occorra un nuovo choc analogo a quello provocato dalla disastrosa frana di Agrigento per comprendere su quale strada rischiamo di tornare a metterci.
La Repubblica, 15 aprile 2014
Braccio di ferro in Costa Smeralda. Il Qatar impedisce l’accesso alle spiagge più à la page bloccando i posteggi pubblici delle auto. E il Comune di Arzachena, nel cui territorio ricade gran parte del Consorzio turistico creato dall’Aga Khan, reagisce con forza: da oggi saranno avviate le procedure di esproprio delle aree, riservate d’estate ai parcheggi di chi va in macchina sino alle splendide spiagge di Liscia Ruia, del Pevero e di Romazzino. Per raggiungerle, oggi bisognerebbe percorrere a piedi oltre 10 km: impossibile lasciare moto, scooter o auto lungo le stradine sterrate che portano fin lì. E tutto questo perché la Land Holding, una delle società madri che fa capo all’emirato, qualche giorno fa ha fatto collocare una fila di massi per impedire l’accesso nei posteggi usati dai villeggianti.
Ma c’è di più. A fianco ai macigni sono apparsi cartelli con la scritta «Proprietà privata». Una palese violazione di prassi e consuetudini, secondo il Comune. «Perché sarà pur vero che i terreni appartengono al Qatar, ma il principe Karim prima e il suo successore Tom Barrack poi li avevano sempre lasciati a disposizione della collettività» spiegano ad Arzachena. Senza contare che i parcheggi devono rimanere pubblici per assicurare l’efficienza del servizio antincendi lungo una costa più volte minacciate dai roghi.
La querelle, sorta alla vigilia del primo ponte che dovrebbe portare nell’isola decine di migliaia di turisti, non pare destinata a risolversi subito. A meno che la società dell’emirato di stanza in Sardegna non decida di fare un passo indietro. Così, se tutti cercano di dare il minor clamore possibile alla vicenda, per non ledere l’immagine internazionale della Costa Smeralda, un fatto resta evidente: per la prima volta in mezzo secolo non è stata osservata la tradizione della cessione gratuita delle aree. Aree che l’apparato per i servizi tecnici del Comune affida a una coop e dota delle attrezzature necessarie per la sosta. Non si tratta, chiaramente, di pochi stalli. In tutto, i posti auto in ballo sono 600-700: è in gioco l’ospitalità quotidiana per almeno duemila persone. Oggi la giunta di Arzachena darà corso alle operazioni di esproprio, segno che qualsiasi tentativo di mediazione con il Consorzio sinora è fallito. Non si sa quanto tempo richiederanno le procedure. Ma il sindaco e i suoi assessori sono fiduciosi sulla possibilità di trovare soluzioni prima dell’inizio dell’estate. In ogni caso rifiutano di credere, come molti invece ritengono, che dietro la mossa della multinazionale possa celarsi un sotterraneo ultimatum per ottenere il via libera ai lavori di ampliamento di una perla della zona, l’hotel Cala di Volpe. Ovvia, quindi, anche la protesta dei balneari: «Per noi piazzare sedie e sdraio in queste condizioni sarà impossibile — dicono — E tutto ciò equivarrebbe a un calo delle presenze, ingiustificato in un paradiso come questo ».
Il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2014
La cancelliera tedesca Angela Merkel ha visitato la Pompei antica, pagando il biglietto. Non ci sarebbe la notizia: almeno non in un paese civile. Diventa, invece, una notizia proprio il fatto che, in Italia, questo piccolo accadimento abbia avuto una straordinaria risonanza mediatica. Per noi un capo del governo che si comporta come un cittadino è un evento letteralmente eccezionale.
E qui sta il primo punto: lo scollamento tra classe politica e cittadinanza. Un abisso antropologico che certo non viene colmato da un Matteo Renzi, figlio d’arte e professionista della politica fin dall’età della ragione.
Eppure, nonostante l’effimero compiacimento verso il gesto graziosamente accondiscendente del potente di turno, il dato su cui interrogarsi è che millenni di potere, imperiale e poi papale, hanno abituato gli italiani a piegare le ginocchia di fronte alla scenografia del sovrano di turno. Il dato tragico è che, in fondo, non prenderemmo sul serio un potente che si comportasse da cittadino.
Nello specifico, tuttavia, l’aspetto su cui riflettere è il rapporto tra il potere e il patrimonio culturale. Come dimostra il recentissimo scivolone della sottosegretaria Vicari, che ha chiesto i quadri dei musei di Roma per arredarsi l’ufficio al ministero dello Sviluppo economico, il nostro patrimonio storico e artistico viene percepito come una specie di grande attrezzeria di scena al servizio del potere. Quadri delicatissimi vengono spediti come commessi viaggiatori in mezzo mondo, gruppi scultorei antichi sono dislocati nei palazzi della politica, un luogo unico come Villa Madama (progettata da Raffaello) viene usato come sfondo di lusso per i vertici internazionali dei nostri capi del governo.
Quel che manca è un qualsiasi indizio di un rapporto personale tra i “potenti” e quello stesso patrimonio. La vera notizia, per l’Italia, non è che Angela Merkel abbia pagato il biglietto, ma che abbia impiegato tre ore e mezzo del suo tempo privato e personale per vedere Pompei, con una cartina in mano e in compagnia di un archeologo tedesco. E che abbia trovato poi il tempo di vedere anche il Rione Terra di Pozzuoli, con le sue vestigia romane e il suo Duomo appena restaurato. Ora, quale politico italiano lo farebbe, se non per dovere di Stato, e a favore di telecamera? E questo è il punto: in Italia non c’è mai stata una vera politica per la cultura, perché almeno dagli anni Sessanta, la nostra classe politica – salvo rare eccezioni – non è stata composta da persone che avessero un vivo rapporto personale con la cultura. È dura parlare di politica internazionale con uno che non sa nemmeno cos’è la geografia, o di economia con uno che non ricorda manco le tabelline: eppure, la stragrande maggioranza dei nostri ministri per i Beni culturali e dei nostri presidenti del Consiglio non ha la più pallida idea di cosa sia un museo, per non dire uno scavo archeologico. Commentando un libro di Renzi, Paolo Nori ha scritto “Ecco: a me è sembrato stranissimo che in tutte le 193 pagine di questo libro sulla bellezza non sono riuscito a trovare una frase che mi sembrasse non dico bella, ben fatta”. Ed è per questo che ci colpisce così tanto vedere la Merkel felice di passare tre ore e mezza tra scavi da cui i suoi omologhi italiani scapperebbero a gambe levate.
Infine, il biglietto. Salvo rarissime eccezioni, nessuna istituzione culturale del mondo campa con i biglietti: ed è per questo che si potrebbe addirittura pensare di sopprimerli, sottolineando così – come avviene, per esempio, in molti musei pubblici inglesi – la gratuità del patrimonio e la sua dimensione inclusiva. Piuttosto, sarebbe stato bello far notare a Frau Merkel che se Pompei versa nello stato penoso in cui l’ha trovata, è in massima parte a causa dei dissennati tagli al bilancio pubblico imposti proprio dall’Europa a trazione tedesca. Non esiste una politica europea della cultura, né una chiara idea della sua funzione civile: e forse il punto da cui partire potrebbe esser proprio il senso della Merkel per Pompei. Senza battere i pugni sul tavolo, ma riallacciando i fili di un’antica conversazione tra Italia e Germania.
Ecco perchè bisogna opporsi all'approvazione del TTIP: non perchè è un fastidioso acronimo. ecco infatti «tutte le conseguenze (su diritto del lavoro, ogm, sanità, ambiente, proprietà intellettuale e energia) del trattato di libero scambio che Usa e Ue vogliono approvare». www.sbilanciamoci.info, 8 aprile 2014 (m.p.r.)
L’obiettivo dichiarato del Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) è quello di costruire la più grande area di libero scambio al mondo attraverso l’eliminazione delle barriere, tariffarie e non, che ancora limitano i flussi commerciali tra Europa e Usa. Le previsioni ufficiali in merito ai presunti benefici associati al Ttip non sembrano però esaltare, a fronte della brusca deregolamentazione di cui il Trattato è foriero. È già riscontrabile una divaricazione tra quanto affermano i report ufficiali e gli studi commissionati dalle lobby interessate (la Commissione ha recentemente ridimensionato i dati già forniti ad uno 0.1% di crescita del Pil per entrambe le parti coinvolte nell’accordo, che equivarrebbe ad una crescita risibile dello 0.01% annuo su di un orizzonte di dieci anni. (Dettagli qui)
Ciò che preoccupa maggiormente però è l’assenza, a parte alcune meritorie eccezioni come Attac!, S2B Network e la rete Sbilanciamoci, di una intensa campagna che informi in merito alle conseguenze sociali ed ambientali che un trattato come questo potrebbe produrre. L’obiettivo dei negoziatori è quello di armonizzare le rispettive regolamentazioni in materia di commercio internazionale. Il riferimento nient’affatto implicito è alle differenze che tuttora intercorrono tra Ue ed Usa nelle regole in materia di protezione sanitaria, alimentare, di diritto d’autore e del lavoro. Parlare semplicisticamente di “armonizzazione”, tuttavia, può apparire perlomeno riduttivo se si adotta una prospettiva che identifica in quei “..costi e ritardi non necessari e dannosi per le imprese..” delle conquiste di civiltà irrinunciabili per chi ambisce ad un mondo più giusto e sostenibile dal punto di vista ambientale. È noto infatti come in molti ambiti gli standard Ue, basati sul principio di precauzione, siano più stringenti di quelli Usa ed uno scivolamento verso i livelli di deregolamentazione americani diverrebbe la conseguenza più naturale del Ttip. Si starebbero in questo modo realizzando le ambizioni che le organizzazioni di impresa hanno ripetutamente manifestato negli anni recenti (vedi)
Il primo blocco di diritti ad essere minacciato sono quelli a protezione del lavoro. Potrebbe non essere remota la possibilità che una normativa analoga al “Rights to Works” americano, ribattezzata dai sindacati statunitensi l’Anti-Unions-Act (Greenhouse, S. “States seek laws to curb power of unions”. NYT 3 January, 2011), si affacci con sembianze analoghe anche in Europa. La sostanza liberista di una normativa di questo tipo verrebbe ad alimentare una rinnovata concorrenza al ribasso fra i lavoratori sui loro diritti e le loro retribuzioni. Si tratta esattamente della logica in virtù della quale i recenti governi di emergenza italiani hanno messo mano, flessibilizzandola, alla legislazione in materia di lavoro augurandosi di avere in cambio un salvifico ed ingente afflusso di capitali internazionali.
La conseguenza immediata di un superamento de facto del principio di precauzione sarebbe l’ineffettività di gran parte delle normative europee sulla sostenibilità ambientale. Una delle maggiori fonti di rischio in questo senso è il cosiddetto shale-gas, o “fracking-gas” dalla particolare tecnica estrattiva che contraddistingue questi idrocarburi. Questa tecnica richiede l’uso di una procedura ritenuta letale per le falde acquifere ed il suolo sottostante i giacimenti e le zone ad essi limitrofe. L’approvazione del Ttip potrebbe, anche in questo caso, spalancare le porte dell’Europa (Polonia, Francia e Danimarca sembrano essere le regioni con le più ricche di shale-gas) alle imprese americane del settore le quali potrebbero efficacemente sfruttare i vantaggi competitivi dati da una tecnologia che perfezionano in patria da più di dieci anni.
Non meno importanti sono le limitazioni che la Ue impone all’uso ed all’importazione degli Ogm e delle carni trattate con ormoni o sterilizzate tramite l’uso di cloro. Le barriere che secondo Max Baucus, attuale presidente della Commissione Finanze del Senato Americano, “..non sono in linea con le attuali posizioni della comunità scientifica internazionale..” sono quelle che sino ad oggi hanno parzialmente impedito che prodotti di questo tipo fossero diffusi sui campi o nei supermercati europei. Inoltre, una brusca eliminazione delle tradizionali barriere commerciali esporrebbe le imprese agricole europee alla concorrenza dell’agri-businness statunitense forte di una concentrazione di mercato imparagonabile a quella europea (2 milioni di imprese agricole negli Usa contro 13 milioni nella Ue).
Il Ttip potrebbe concretamente rappresentare il tentativo di reintrodurre ciò che è stato respinto dal Parlamento europeo nel 2012. Si tratta del Anti Counterfeiting Trade Agreement (Acta), un accordo in materia di proprietà intellettuale tentato senza successo tra Ue ed Usa. A spingere i parlamentari europei ad esprimersi contro l’Acta è stata la duplice implicazione che lo stesso avrebbe avuto, ovvero quella di limitare in modo rilevante il libero accesso alla conoscenza sul web e di dare un potere enorme nella gestione dei dati personali alle imprese del settore.
Una particolare attenzione andrebbe poi riposta sui rischi che gravano sul settore sanitario europeo che rischia di trasformarsi in terreno di conquista per le grandi imprese americane. Così come le norme ambientali europee ci hanno sin qui tutelato dagli Ogm e dalle carni trattate, il Reach (Regulation on Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemicals, entrato in vigore il 1° giugno 2007 con lo scopo di regolamentare il mercato dei prodotti chimici nella Ue) ha consentito ai cittadini di tutelarsi dall’invasione di prodotti farmaceutici che per le autorità europee sono potenzialmente nocivi per la salute umana e animale. Grazie al Ttip, nondimeno, nascerebbe la possibilità per le imprese, qualora volessero contestare una regolamentazione statale o comunitaria troppo stringente, di rivolgersi ad un organismo arbitrale terzo dotandosi così di un potente mezzo per il contrasto di politiche e leggi democraticamente adottate ma divergenti dalle loro strategie aziendali.
I rappresentanti della grande finanza stanno chiedendo agli estensori del Ttip di prevedere esplicitamente una “disciplina” per la regolamentazione della finanza da parte degli Stati (vedi qui). Ciò significherebbe in termini concreti una limitazione alla dimensione ed alla pervasività della regolamentazione finanziaria nei due blocchi. L’ambiguità di questo metodo di redazione del Trattato potrebbe essere foriera di una nuova diffusione di massa degli eredi di quegli strumenti finanziari protagonisti del crack della Lehman Brothers.
La breve sintesi fornita rispetto a quanto hanno in mente gli estensori del Ttip allarmerebbe chiunque non fosse un lobbista o un percettore di dividendi da parte di un impresa multinazionale. Per i cittadini europei la sfida è però duplice. Le urne francesi hanno segnalato il raggiungimento di un livello critico di sopportazione da parte dei cittadini per i metodi antidemocratici che guidano le decisioni delle istituzioni europee. Appare chiaro come un futuro diverso da quello che ha caratterizzato gli ultimi anni non possa che passare per una riforma radicale delle istituzioni e delle prospettive della Ue. Da questo punto di vista il Ttip appare un emblema ed una sintesi di quei “valori” che hanno condotto l’occidente, e l’Europa in particolare, nella situazione di crisi in cui ancora versa. Una discussione profonda, pubblica e democratica rispetto ai contenuti del Ttip non potrà non essere un punto fermo della campagna per le imminenti elezioni europee che si profilano come un crocevia fondamentale per il nostro futuro.
«Ecco perché mi preoccupa, e molto, come il nostro cibo quotidiano potrebbe cambiare, in modo silenzioso e totalmente sconnesso da ogni condivisione popolare, se venisse approvato l’accordo di commercio transatlantico Europa-Usa». La Repubblica 12 aprile 2014
Che ne direste di dare la delega al vicino per l’assemblea di condominio e sapere (ma solo quando il demolitore sarà arrivato davanti a casa vostra) che lui e gli altri hanno deciso di buttare giù il palazzo e ora nessuno ci può più fare nulla? La domanda può sembrare strampalata ma serve per chiedersi: la democrazia può legittimare qualcuno ad adottare scelte che interessano tutti gli altri, senza che gli elettori possano più dire la loro? I governi dei Paesi moderni sono i nostri delegati all’assemblea di condominio mondiale. Se decidono qualcosa che alla maggioranza dei cittadini non piace o che ne mette in discussione il diritto a fare libere scelte per sé e per i propri figli, allora quelle decisioni non solo dovrebbero poter essere discusse, ma dovrebbero almeno poter essere ben conosciute.
Un copione classico va in scena nella variante mobilità sostenibile: commercianti contro amministrazione per una limitazione di traffico, ma non è tutto. La Repubblica Milano, 11 aprile 2014, postilla (f.b.)
È la ciclabile della discordia. Progettata dal Comune, voluta dai ciclisti ma ostacolata dai commercianti. Prima ancora che siano partiti i lavori, la (doppia) corsia riservata alle bici in viale Tunisia ha già scatenato polemiche. Da una parte ci sono i proprietari dei negozi che temono di perdere clienti, dall’altra i ciclisti che hanno lanciato il boicottaggio degli esercenti anticiclabile. Ancora non è stata posata una goccia di vernice sull’asfalto e quella di viale Tunisia è già diventata la pista ciclabile della discordia. Scatenando una battaglia a tre, fra il Comune, i commercianti che si oppongono al progetto, e i ciclisti che attendono la corsia riservata da anni. Uno scontro durissimo, fra denunce, boicottaggi e polemiche al vetriolo sui social network.
Tutto è cominciato quando Palazzo Marino ha annunciato il progetto di una doppia corsia ciclabile (una su entrambi i lati del viale). La notizia ha mandato i commercianti dell’Asscomm Porta Venezia su tutte le furie perché secondo loro ostacolerebbe il traffico e la sosta dei clienti. «È un progetto inutile e scellerato — ha spiegato Luca Longo, presidente dell’associazione — perché esiste già una pista che viaggia parallela in via Monforte. Senza contare i soldi, 850mila euro per poche centinaia di metri. Risorse che chiediamo vengano investite per l’abbattimento delle barriere architettoniche ». Un disappunto che i commercianti — o almeno parte di loro, visto che la Confcommercio ha preso le distanze — hanno espresso nei modi più disparati: prima diffondendo vignette di Pisapia e Maran sopra una bara con la scritta “hanno condannato a morte commercio e sicurezza in tutta Milano”, poi intervenendo a un incontro pubblico dove hanno apertamente contestato l’assessore. Infine con volantini che hanno fatto infuriare la giunta per una frase («c’era scritto “le ciclabili si fanno per dare le mazzette agli assessori”», ha spiegato Maran) e per cui è stata avviata una causa. «Cose che non ci spaventano — ha commentato Longo — noi vogliamo che Maran ci incontri e ci ascolti».
Ma quello che probabilmente non si aspettavano i commercianti è la rivolta che si è scatenata sulla pagina Facebook dell’associazione dopo questa presa di posizione: decine e decine di ciclisti hanno cominciato a postare messaggi di indignazione, lanciando di fatto una campagna per il boicottaggio dei negozi di viale Tunisia. «Ho preso nota di tutti i vostri soci, dove non metterò mai più piede » ha scritto ad esempio Marco Mazzei, ciclista e attivista della critical mass. «Vista la vostra insensata posizione vedrò bene di non fare più acquisti in nessuno dei vostri negozi», ha commentato Federico Cupellini. Un boomerang che ha spinto alcuni esercenti a fare marcia indietro: come il ristorante Delicatessen che ha comunicato ufficialmente di non essere più un socio sostenitore.
I piani per l’avvio dei lavori, nel frattempo, procedono. E l’apertura dei cantieri (che dovrebbero durare otto mesi) è prevista entro il mese. «Questi commercianti stanno difendendo il diritto a sostare irregolarmente su strada — ha detto l’assessore Maran — perché il progetto della ciclabile, oltre a dare spazio alle bici, contrasta la sosta selvaggia. Senza contare che la pista in quel tratto ha una funzione fondamentale di raccordo con il resto della rete ciclabile».
postilla
Forse sfugge a prima vista l'analogia fra queste polemiche, che coinvolgono un paio di corporazioni (come altro definire chi si autodefinisce “ciclista” oppure “commerciante a orientamento automobilistico”?) e altre apparentemente lontanissime, come quelle fra gli esercenti tradizionali e le catene della grande distribuzione. Come insegnano di recente le numerose analoghe battaglie in grandi città del mondo dove non esisteva alcuna tradizione di mobilità su due ruote, introdurre o recuperare un certo tipo di metabolismo e scambio tra il fronte edificato e la strada/piazza può rivelarsi traumatico. E non riguarda solo, appunto, problemi di mobilità, inquinamento, gestione dei parcheggi, ma lo stesso funzionamento dell'organismo urbano, la distribuzione delle funzioni, i loro rapporti reciproci. Forse il commercio affacciato sulle arterie a scorrimento veloce (si fa per dire, quando sono mezze intasate dalla sosta dei veicoli) dopo mezzo secolo non ha ancora compreso davvero la massima secondo cui non si è mai dato che un'automobile entri in un negozio a comprare o consumare qualcosa. E che se si tratta di gestire l'interfaccia in termini di parcheggio loro hanno già perso in partenza, appunto da oltre mezzo secolo, la battaglia coi centri commerciali a scatolone e autosilo. In definitiva, come si immagina inizino a capire anche le amministrazioni cittadine, qualunque azione sulla mobilità innesca rapidissime reazioni a catena, e va inquadrata in un piano/programma con obiettivi di massima coordinati. Ecco: questi non si capisce ancora quali siano, e magari aiuterebbe anche a evitare scontri paralizzanti. Qualche considerazione in più su Millennio Urbano (f.b.)
Prosegue l'analisi del manifesto sulle cittàitaliane. Dopo Milano (7 febbraio), Sassari(13 febbraio), Venezia (20 febbraio),Napoli (27 Febbraio), Avellino (6 marzo), Bologna (13 marzo), Parma (20marzo 2014) Roma(27 marzo), Firenze (3 aprile) due città di frontiera che vogliono diventareuna: la più grande del Mezzogiorno. Prossimamente Torino e Cagliari, 10 aprile 2014
Reggio e Messina, città sorelle e, a volte, acerrime nemiche, hanno vissuto nel corso della storia le stesse catastrofi naturali (più di venti terremoti/maremoti catastrofici di cui i più recenti sono stati il 1783 e il 1908) che ne hanno segnato la memoria e l’identità, ma hanno anche intrecciato e mescolato le popolazioni delle due sponde, le culture e i riti religiosi, la gastronomia e il dialetto. Reggio è la meno calabrese delle città della Calabria così come Messina è la meno siciliana: sono città di frontiera, rispetto a Palermo e Catanzaro, i capoluoghi regionali. Appartengono allo Stretto, a questo paesaggio unico al mondo, carico di miti antichi quanto la nostra civiltà, di fenomeni naturali straordinari (come la fata Morgana), di uno skyline armonioso e suggestivo che solo la follia dello sviluppismo delle grandi opere voleva deturpare e distruggere con la costruzione del faraonico Ponte. Un’opera voluta anche dai siciliani e calabresi che vivono lontano dallo Stretto e vedono questo tratto di mare come un ostacolo, una perdita di tempo, perché non sanno godere di questo spettacolo perenne che unisce le due città, come la vite che s’intreccia all’ulivo.
Ricostruite dopo il terribile terremoto del 1908, il più devastante al mondo per numero di morti (oltre 100.000) durante il secolo scorso, le due città hanno seguito traiettorie diverse sul piano socio-economico. Durante il fascismo che realizzò velocemente la ricostruzione, Messina ebbe un ambizioso piano urbanistico (piano Borzì) e cospicui finanziamenti da parte del governo fascista per via degli stretti rapporti del suo arcivescovo con il duce. La città fu ridisegnata con grandi viali, ampie piazze, e grandi edifici pubblici in stile fascista, nonché palazzi e ville nobiliari in stile liberty. Fino alla seconda guerra mondiale il porto di Messina aveva un ruolo importante nell’esportazione di vino e agrumi siciliani (in particolare i limoni, il 90% dell’export nazionale di questo agrume), del legname dell’Aspromonte, della seta prodotta a Villa San Giovanni e delle essenze di bergamotto prodotte a Reggio. Aveva inoltre delle fabbriche di essenze agrumarie e tessili e altre industrie create da imprenditori stranieri e locali. Divisa tra due forti massonerie, una laica-mazziniana e l’altra cattolica, la città esprimeva un livello culturale molto più alto della media delle altre città del Mezzogiorno anche grazie alla prestigiosa Università nata nel XV secolo, una delle più antiche del nostro Sud.
Di contro, Reggio era una piccola città-fortezza, disegnata intorno al castello aragonese del XV secolo. Fu ricostruita sulla stessa struttura urbanistica pre-terremoto, solo più in alto perché era stato il maremoto a fare il maggior numero di vittime. La sua ricchezza non veniva dal mare, ma dall’entroterra e il potere era in mano a una decadente nobiltà e a una piccola borghesia commerciale. Ma, aveva una grande fonte di ricchezza e di lavoro: la lavorazione del bergamotto, le cui essenze hanno costituito la base dell’industria cosmetica fino a quando, nel 1954, non è stato trovato un sostituto chimico.
Dagli anni ’50 del secolo scorso le due città subirono un progressivo processo di deindustrializzazione, di perdita del rapporto produttivo con le proprie risorse, di crescente peso della pubblica amministrazione e della spesa assistenziale. Un fenomeno che è stato comune alla gran parte delle regioni meridionali, dove solo dal 1951 al 1971 l’industria manifatturiera ha fatto registrare un saldo negativo di 17.525 unità a fronte di un aumento di 144.130 unità che si registra nel Centro-Nord . È un processo di deindustrializzazione che colpisce la Pmi meridionale e porta ad una delegittimazione del mercato capitalistico. Il ventennio dello sviluppo economico italiano è stato il ventennio della desertificazione produttiva nel Mezzogiorno, che non ha retto alla progressiva globalizzazione dei mercati, e ha prodotto un vuoto socio-economico e politico che altri soggetti hanno riempito.
A Messina, la crisi produttiva e occupazionale è stata in parte sostituita dalla spesa pubblica e la crescita abnorme delle pubbliche istituzioni: Comune, Provincia, Ospedale, Policlinico, Università. Alla borghesia produttiva e liberale (a Messina nel 1948 il Partito liberale prese il 14%, un record in Italia) si è andata sostituendo la borghesia statale, i burocrati e i politici che intercettavano i flussi crescenti di spesa pubblica. La crisi profonda della città inizia negli anni ’70 del secolo scorso e segue la parabola della spesa pubblica. Il suo declino è inarrestabile, ma lento, sordido, non suscita reazioni, tanto da confermare l’ingiuria per i messinesi di essere dei buddaci, cioè pesci che stanno a bocca aperta, parlano tanto, ma non combinano niente. La corruzione, l’incapacità, la mancanza di una cittadinanza attiva, fanno sì che la città continui a spegnersi lentamente, con brevi ritorni di fiamma come accadde nel periodo 1994-‘98 durante la giunta Providenti. Un’eccezione in oltre quarant’anni di decadenza.
Dall’altra parte dello Stretto il crollo nelle vendite delle essenze di bergamotto e delle arance (per via della concorrenza spagnola), fonti primarie di ricchezza della città, venne solo in parte compensato dalla crescita della spesa pubblica. Il crollo della nobiltà latifondista, della borghesia commerciale, non trovò un soggetto sociale capace di egemonia finché non scoppiò la guerra per il Capoluogo nel 1970. Durò quasi un anno e fu l’ultima rivolta popolare di massa del Mezzogiorno, su cui si inserirono interessi esterni legati alla strategia della tensione, e si saldarono i rapporti tra Massoneria, servizi segreti e ‘ndrangheta. Ma, la gente che era scesa in piazza e che morì o fu ferita e arrestata aveva, oltre l’orgoglio di appartenenza, l’obiettivo di combattere per gli unici posti di lavoro credibili: quelli della pubblica amministrazione. Mentre la sinistra, Pci in testa, parlava di fabbriche e industrializzazione, la popolazione credeva solo al Capoluogo come fonte d’occupazione e di reddito. Questa rivolta segnò una cesura storica netta: la violenza della repressione governativa, l’azzeramento della classe politica democristiana, portò a un vuoto totale di potere e di legalità che durò molti anni. Crebbe allora l’abusivismo edilizio, fino a quel momento marginale, fino a dar vita nei decenni successivi, alla costruzione del 90 per cento di case abusive. Intorno al centro storico la città è cresciuta come uno sterminato e informe agglomerato di case mangiandosi la campagna un tempo lussureggiante. Ma, soprattutto, emerse con forza il ruolo egemone della borghesia mafiosa composta da professionisti, imprenditori, politici e il braccio armato di quella organizzazione che si chiama ‘ndrangheta, diventata la più potente delle mafie. Senza Stato, né Mercato, Reggio divenne un laboratorio per la via criminale all’accumulazione capitalistica che si è diffuso in tutto il mondo.
Nel nuovo secolo lo scenario socio-politico dell’area dello Stretto apparentemente non cambiò. Messina continuò nel suo declino e passò da un Commissariamento del Comune all’altro, per corruzione, dissesto finanziario o semplice caduta della giunta comunale. Reggio, che aveva vissuto un piccolo momento di rinascita (la cosiddetta «Primavera reggina» del compianto sindaco Italo Falcomatà), ricadde nello sconforto e finì nelle mani di un abile politico, già leader del Fronte della Gioventù, che si inventò il modello Reggio: spesa pubblica a go-go per spettacoli e divertimenti, clientelismo sfrenato e bilancio comunale truccato e fuori controllo.
Negli ultimi anni la storia delle due città ha subito un’accelerazione e una svolta imprevedibile. Il bello della vita è questo: quando non ti aspetti più niente, quando sembra che non ci siano più speranze, quando sei rattristato da una giornata carica di nuvole, pioggia e vento, improvvisamente un raggio di luce appare sullo Stretto e cambia la tua visione, la tua percezione del futuro.
A Reggio il modello Scopelliti è finito nelle mani della magistratura, mentre la città langue sotto il peso di un lungo Commissariamento incapace di risolvere il dissesto finanziario dovuto alle passate amministrazioni. È una città in fuga, dove partono non solo i laureati ma tutti quelli che possono, e la stessa borghesia mafiosa ha smesso di investire da anni, spostando i capitali verso il Nord Italia e le aree più ricche del mondo. Quasi ogni notte una bomba sveglia gli abitanti (l’ultima proprio al lato della prefettura) e sono ripresi gli omicidi mafiosi, dopo una lunga pax seguita al «Trattato» del 1992 in cui i capiclan posero fine alla guerra di ‘ndrangheta che costò settecento omicidi in sette anni.
A Messina, nessuno se lo aspettava o ci avrebbe scommesso un euro, nelle elezioni comunali del giugno scorso ha vinto la lista civica di Renato Accorinti, militante pacifista, ecologista e leader del movimento No Ponte. Una figura di sindaco che ha stupito l’Italia interna e non solo, e che è il frutto di una improvvisa rivolta della città al malaffare e alla borghesia parassitaria che l’ha governata per decenni. La giunta Accorinti, composta da tecnici socialmente impegnati, ha un programma ambizioso di riscatto della città e in pochi mesi ha già segnato un visibile cambiamento (Renato Accorinti è il sindaco più amato dagli italiani secondo l’ultimo sondaggio Ipsos). Ma, il fatto istituzionalmente più rilevante è la volontà di questa giunta di costruire la città metropolitana dello Stretto, unendo Reggio e Messina e i Comuni limitrofi. Diverrebbe la terza città del Mezzogiorno per popolazione e, soprattutto, un laboratorio di sostenibilità sociale e ambientale, a partire dai trasporti necessari per dare la continuità territoriale alle due sponde. La sfida della giunta Accorinti ha contagiato la sponda reggina e l’idea di una città dello Stretto che venga fondata sui valori dell’ambiente, dell’economia solidale e della pace, sta cominciando a navigare da una sponda all’altra. Se il tiranno Anassila era riuscito a unificare le due città con la forza, oggi questa unione avviene sotto il segno di una democrazia che cresce dal basso.
Corriere della Sera Lombardia, 6 aprile 2014
MILANO — I contrari, i paladini delle vette, Cai in testa, hanno raccolto online oltre 23 mila firme in 7 giorni. I favorevoli, gli appassionati delle moto, rispondono con più di 3.700 sottoscrizioni. È sfida sui sentieri di montagna della Lombardia a colpi di petizioni in rete fra pro e contro la nuova legge regionale che, se approvata, cancellerà gli attuali divieti, per permettere alle moto da cross, enduro e trial di sfrecciare in libertà nelle oasi verdi d’alta quota e nei boschi di collina e pianura. Infatti al Pirellone, martedì, sarà discusso e votato il progetto di legge 124, con il quale la maggioranza di centrodestra vorrebbe cambiare la normativa regionale del 2008 sul «traffico motorizzato nelle aree agro-silvo-pastorali», come spiegano Dario Bianchi (Lega Nord) e Alessandro Fermi (Forza Italia).
Nel dettaglio, l’obiettivo è di eliminare i commi 3 e 4 dell’articolo 59 dell’attuale legge 31, che vietano «il transito dei mezzi motorizzati su strade, mulattiere e sentieri, nonché in tutti i boschi e nei pascoli ad eccezione di quelli di servizio». Con la proposta di modifica, spiega il Cai nella sua raccolta firme online per dire «No», si mira a «introdurre una deroga per consentire ai singoli comuni di autorizzare il transito temporaneo delle moto in base a un regolamento regionale da definire». Risultato? «Se passasse la nuova legge, l’effetto risulterebbe devastante per l’ambiente e ci sarebbe un’impennata dei livelli di smog e rumore», osserva Paolo Micheli, consigliere regionale di Patto Civico che, come tutta l’opposizione, boccia la nuova proposta. «In poche ore si possono creare danni che solo la natura potrebbe riparare impiegando però anni e ai quali l’uomo non può porre rimedio», tuonano in coro Fai, Federparchi, Legambiente, Wwf e Coldiretti.
Inoltre il Cai sottolinea «l’incompatibilità fra escursionismo e motociclismo sugli stessi sentieri». e ribadisce che le due ruote sono «contrarie allo sviluppo di un turismo dolce ed ecosostenibile». Sull’altro fronte della barricata, invece, ci sono la Fmi (Federazione motociclistica italiana) e i motoclub di tutta la Lombardia. Un esercito di piloti (professionisti e dilettanti) che si battono per il «Sì». Invocano un «motocross libero» e vanno in pressing sulla giunta Maroni chiedendo meno vincoli e burocrazia. Perché «quest’attività sportiva non arreca danni irreparabili né ai sentieri, né alle mulattiere».
(qui qualche commento in più e il link alla petizione)
Il manifesto, 6 aprile 2014
La Gallura come Eldorado degli evasori fiscali. Sul paradiso turistico sardo si abbatte una tempesta giudiziaria che promette di avere sviluppi clamorosi. La notizia è stata data ieri in esclusiva dal quotidiano la Nuova Sardegna. «In Gallura 2500 ville, con tanto di giardini, dependance e ampie terrazze con vista sul mare — scrive la testata sarda — sono risultate appartenenti, come proprietà immobiliari, a società estere registrate in paradisi fiscali, mentre a sfruttarne il loro altissimo potenziale economico o utilizzarle per le vacanze a cinque stelle, sono in gran parte sconosciuti cittadini italiani con denunce dei redditi da operai metalmeccanici. Per stanare il foltissimo gruppo di persone iscritte alla «Anonima Proprietari Ltd» dalle loro dimore di lusso è stata allestita, ed è entrata in piena attività già da alcuni mesi, una imponente e ipertecnologica task force coordinata dal procuratore capo della Repubblica di Tempio, Domenico Fiordalisi. Il quale ha aperto un fascicolo che racchiude l’inchiesta avviata alla fine dello scorso dicembre per accertare se siano riscontrabili reati di carattere penale oltre a violazioni in ambito fiscale o amministrativo». Le zone fiscali «free» nelle quali le società coinvolte nell’inchiesta hanno registrato le ville sono sparse un po’ in tutto il mondo: Repubblica di San Marino e principato di Monaco, Lussemburgo e Liechtenstein, Andorra e Gibilterra, Cipro e Barein, Antille e Polinesia francese. L’indagine è condotta dalla polizia tributaria e dal Gico di Roma. Ma sono coinvolti anche gli uffici del demanio sardi, le agenzie delle entrate di Sassari, Tempio e Olbia, la guardia di finanza di Olbia e Sassari. Un mega team che ha portato alla luce una realtà per molti versi sconcertante.
Tutto è cominciato circa un anno fa, quando gli ispettori dell’Agenzia delle entrate di Tempio esaminando le denunce dei redditi di alcuni personaggi che frequentano la Costa e i movimenti dei bancomat e delle carte di credito, si sono resi conto che il loro tenore di vita non era compatibile con le loro dichiarazioni fiscali. «Un campanello d’allarme — scrive la Nuova Sardegna — che ha fatto scattare i successivi accertamenti patrimoniali che hanno messo in rilievo che ben 2500 tra ville e dimore da fiaba disseminate sulla Costa gallurese — dalle alture di Monti di Mola (Porto Cervo) alle assolate spiagge dal mare cristallino di Porto Rotondo e Palau — risultano intestate, come proprietà immobiliari, a società estere. Approfondendo ulteriormente questo singolare aspetto si è venuti a scoprire che gran parte degli immobili sono utilizzati nel periodo estivo da cittadini italiani, oppure ceduti in locazione, attraverso una fitta ragnatela di agenzie immobiliari sarde, italiane ed europee, a italiani che, stando alla loro denuncia dei redditi, potrebbero permettersi al massimo di affittare, e per poche ore soltanto, una cabina sulla spiaggia di Riccione, Rimini o Cattolica».
«L’inchiesta — dice il procuratore Fiordalisi — è appena avviata e nessun reato o violazione sono stati finora ipotizzati o contestati». Quindi è impossibile conoscere i nomi delle persone coinvolte e delle società proprietarie delle ville «appoggiate» ai paradisi fiscali. In procura però non fanno mistero del fatto che i dati raccolti in più di un anno di indagini forniscono un quadro molto dettagliato, sostenuto da riscontri difficilmente contestabili. E viste le dimensioni dell’inchiesta e i personaggi coinvolti, i prossimi giorni potrebbero riservare rivelazioni clamorose.
Fiordalisi nelle scorse settimane è stato impegnato su un altro fronte caldo, quello dell’inchiesta avviata dagli uffici giudiziari di Tempio sulle ville abusive costruite sull’isola della Maddalena. Prima sono arrivate le ordinanze di sgombero e poi, lunedì scorso, le ruspe. Sono trentacinque gli edifici totalmente o parzialmente abusivi, tutti costruiti in un’area sottoposta a tutela ambientale integrale. Una decina sono abitati stabilmente da anni. Martedì scorso alcuni proprietari delle case da abbattere hanno cercato invano di fermare le ruspe e si sono vissuti momenti di forte tensione, con un paio di feriti lievi, quando un nutritissimo schieramento di polizia ha caricato per rompere il blocco intorno alle ville. Fiordalisi, però, non sembra intenzionato a fermarsi e la prossima settimana le ruspe rientreranno in azione.
Con il procuratore di Tempio si schiera Legambiente. «Costruire case abusive — dice Laura Biffi dell’Osservatorio nazionale ambiente e legalità — è un reato, demolirle è un obbligo di legge. Scene come quelle che si sono viste alla Maddalena, con il sindaco, i consiglieri comunali e persino il parroco schierati accanto ai manifestanti per bloccare le ruspe purtroppo non sono nuove. Le abbiamo già viste tante volte in Campania, in Sicilia e nella stessa Sardegna. L’abusivismo di necessità è una falsa giustificazione. Di fronte a situazioni di reale disagio abitativo, la politica dovrebbe dare risposte con gli strumenti previsti dalla legge, provvedendo ad assicurare un alloggio sociale, non una casa abusiva»
Post-sisma. Cinque anni dopo il terremoto, la città ancora aspetta una rinascita che tarda ad arrivare. Chi può va via: nel 2013 duemila iscrizioni in meno nelle scuole. E la ricostruzione non è più un affare vantaggioso neanche per la criminalità organizzata. Il manifesto, 5 aprile 2014
E’ un non luogo, questo. E la sua anima d’un tempo, il centro storico, è un marasma di puntellamenti, operai con la mascherina, ventate di polvere, caterve di calcinacci, di muri ancora sbrindellati dal sisma, di pareti demolite, di crepe, crolli e transenne, divieti, un andirivieni di carrelli elevatori e camion. E’ così L’Aquila: metà rovine, metà attesa. Sono trascorsi cinque anni dal terremoto che causò 309 morti. E le impronte di quel 6 aprile 2009 sono impresse su passi, volti, case e strade. «La ricostruzione — spiega Enrico De Pietra, giornalista — sembra essere finalmente avviata, anche se sarà lunga e sempre legata all’incognita dei finanziamenti. Ma il problema è il vuoto devastante». Palpabile tra piazze esageratamente silenziose, viuzze sbarrate, lucchetti arrugginiti, catene che serrano edifici lacerati. «I pochi esercizi commerciali rimasti — aggiunge — hanno chiuso. A parte alcuni locali, che resistono su sparute strade, non c’è nulla. Neppure gli edifici resi agibili e disponibili hanno ripreso vita: sono rimasti sfitti, forse anche perché i proprietari pretendono somme spropositate. Nella zona della Fontana luminosa, ad esempio, c’era un negozio di abbigliamento che è stato smantellato: per la locazione di quei vani sono stati chiesti 6 mila euro al mese E’ ripartita la prefettura, va bene, ma non ha prodotto alcun movimento. E’ una realtà da rinvigorire: bisogna convincere le persone a riappropriarsi di questi luoghi. Che, altrimenti — evidenzia De Pietra — diventeranno un museo a cielo aperto».
Una città surreale
Difficile tornare a far rivivere L’Aquila. Difficile tornare all’Aquila. Difficile… L’Aquila. «E surreale», come la definisce il Comitato 3e32 che per quest’anniversario – in cui vuole stigmatizzare «turisti che partecipano alle commemorazioni e passerelle di una classe politica nazionale e locale che ha evidentemente fallito» — ha organizzato una mostra fotografica, che campeggia sui principali muri, per narrare la precarietà, per «denunciare le reiterate promesse mancate, l’abbandono delle frazioni e dei piccoli centri del cratere, la totale assenza di politiche sociali e per il lavoro, il folle scempio del territorio, la mancanza di una visione comune per il futuro di una città che continua irrimediabilmente a spopolarsi».
Cresce la disoccupazione
Manca il lavoro. «La disoccupazione, in Abruzzo — dichiara il segretario generale della Cgil L’Aquila, Umberto Trasatti — dall’8.6% del 2008 è passata al 12.5% del 2013. In tutta la provincia nel 2008 si registravano 118.300 occupati, siamo scesi a 111.800. Bisogna creare opportunità: la sola ricostruzione materiale non è sufficiente a dare prospettive». A proposito, la ricostruzione? «Il centro storico dell’Aquila sarà rimesso in sesto in 5 anni», ha detto in una sua recente visita il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini. Mah, certo, tutti lo sperano ma nessuno ci crede.
Vivere con dignità
Attualmente nelle dimore del progetto Case stanno in 11.670, mentre sono 2.461 quelli che alloggiano nei Map (Moduli abitativi provvisori) e 189 negli appartamenti del Fondo immobiliare. Percepiscono il contributo di autonoma sistemazione in 4.054. «Si tira avanti cercando di farlo in maniera dignitosa — commenta Sara Vegni, di Action Aid — ma le ferite inferte sono state profonde e sono tuttora aperte. Domina un sentimento di lacerante precarietà, che attanaglia tutti. Basti considerare il fatto che ci sono 6 mila ragazzi costretti ancora a studiare nei container. Finora è mancata una seria programmazione e c’è la questione fondi. Ogni tanto bisogna recarsi a Roma, col piattino in mano, a chiedere l’elemosina».
In una specie di promozione immobiliare travestita da articolo di giornale, si sdogana esplicitamente in Italia il modello della gated community, segregazionista sottilmente razzista e completamente antiurbana. Corriere della Sera Milano, 5 aprile 2014, postilla (f.b.)
Ha una sola lancetta, quella che scandisce le ore, l’orologio del XII secolo che ancora oggi segna il tempo sul campanile di Borgo Vione, a Basiglio. «È un gioiello alto-medievale con un meccanismo infallibile – spiega Nicola Vedani -. I monaci cistercensi che costruirono cascina Vione non avevano certo bisogno di misurare i minuti. Ecco, è questa visione diversa del tempo e della vita che vogliamo offrire ai nuovi abitanti». Vedani, 43 anni, imprenditore, fa parte dell’omonima famiglia a capo del gruppo siderurgico Intals-Somet che dal 2010 sta portando avanti il recupero di questa ex grangia dei monaci cistercensi di Chiaravalle trasformata nella prima gated community italiana.
E davvero, quando si supera il lungo muro di cinta sorvegliato 24 ore su 24 dagli occhi di 35 videocamere e dai sensori antintrusione e si varca il cancello della «nuova» Vione, si ha come l’impressione che il tempo prenda un’altra direzione. Qui è tutto pulito, ordinato: il caos di Milano sembra lontanissimo, ma è a soli 20 minuti. Non circolano automobili, anche se in realtà ci sono, nascoste in un parcheggio sotterraneo multicolore. Si sente persino la musica di un pianoforte che, tutte le mattine, si diffonde ovunque tra le ville e gli appartamenti. Proviene dalla chiesetta di San Bernardo e non c’è il pianista. Come in film, la tastiera si anima e il piano suona da solo.
Borgo Vione, uno degli ingressi alla corte centrale - foto F. Bottini |
A maggio partiranno i lavori per la realizzazione del secondo lotto che prevede il recupero conservativo di altri tre edifici storici . Per ora, abitano nell’ex borgo medievale circondato dal verde 35 famiglie. Australiani, inglesi, portoghesi: sono soprattutto stranieri, manager e professionisti che vogliono vedere crescere i loro figli in un ambiente protetto e sicuro. È la garanzia di tutte le gated community : si entra solo se invitati. I bambini sono liberi di giocare ovunque: qui si conoscono tutti. «Non a caso i nuovi arrivati dicono di sentirsi in un resort.
L’atmosfera è quella», spiega il direttore del complesso Luca Baffoni. E anche gli ingredienti: ludoteca comune con wi fi e pc, barbecue in un’area dedicata, giardino d’inverno dove a breve, accanto alla vasca all’aperto in cui i bimbi vanno a giocare, spunterà un’area relax con idromassaggio. La lingua «franca», parlata persino dai bambini, è ovviamente l’inglese. Complessivamente il piano di recupero prevede 130 tra loft, ville e appartamenti su una superficie di 100.000 mq. Il costo al metro quadrato va dai 3.300 euro in su.
postillaPer fortuna a suo tempo avevamo già stigmatizzato questa operazione immobiliare esplicitamente reazionaria, dove si invitavano in buona sostanza i bianchi ariani stufi di mescolarsi al resto del mondo nella metropoli multiculturale, a rifugiarsi in una specie di medioevo da cartolina dietro un fossato d'epoca restaurato ad hoc con acqua calda e fredda corrente. Il rinvio, per non ripetere ancora le medesime cose, è quindi a Immersi nel verde e nella paranoia. Del resto lo sdoganamento di concetti praticamente tabù non è cosa nuova, quando riguarda interessi economici sul territorio, l'abbiamo visto con lo sprawl autostradale transustanziato in Città Infinita, o con la Gentrification usata oggi spesso, spudoratamente, come sinonimo di riqualificazione urbana (f.b.)
Uno scenario . La città come motore di sviluppo della Toscana, crocevia e nodo propulsore di un progetto di riequilibrio e valorizzazione regionale. Una integrazione dell'analisi di Ilaria Agostini. Il manifesto, 3 aprile 2014
Il futuro di Firenze dipende, come nei precedenti illustri della città rinascimentale e lorenese, da quale ruolo strategico intende attribuirsi rispetto alla «sua» città metropolitana e alla regione toscana.
In particolare nel periodo lorenese Firenze ebbe un ruolo di centro motore di un grande progetto di infrastrutturazione del territorio regionale (bonifiche, strade, porti, popolamento, valorizzazione delle comunità locali…) implementandone il carattere fortemente policentrico, senza ampliare il sistema urbano centrale. È l’economista Giacomo Becattini a ricordarci che oggi «un passo avanti nell’impostazione corretta dell’intervento pubblico sul territorio può esser rappresentato da un ripensamento sistematico delle “Relazioni sul governo della Toscana” di più di due secoli fa» (La lezione di Pietro Leopoldo, www .socie ta dei ter ri to ria li sti .it). Quale può essere dunque il progetto strategico di Firenze oggi?
Riprendo uno scenario che veda Firenze sviluppare i suoi ruoli di servizio, coordinamento, promozione di un modello regionale di sviluppo policentrico, fondato innanzitutto sulla riqualificazione in chiave bioregionale del sistema metropolitano Firenze-Prato-Pistoia, (piana, valli appenniniche e colline che ne connotano l’identità di lunga durata: una collana di «perle» urbane affacciate sull’antico lago pleistocenico, testate di sistemi vallivi profondi). È una visione di città metropolitana come federazione solidale di città, riaffacciate sull’Arno e sui suoi affluenti e sul grande parco agricolo multifunzionale.
Questa federazione urbana fiorentina lancia «umilmente» a Pisa, Lucca, Massa, Livorno, Siena, Arezzo e Grosseto e via via alle città d’arte minori una proposta di rete solidale che trasformi Firenze in crocevia e nodo propulsore di un progetto di riequilibrio e valorizzazione regionale che veda:
- la valorizzazione delle identità dei sistemi territoriali e paesaggistici locali entro un contesto relazionale fortemente multipolare, fondato sugli equilibri ambientali, sociali, produttivi e culturali di ciascun sistema locale e sulle reti policentriche (materiali e immateriali) di piccole e medie città: il sistema a rete dei poli universitari «territorializzati» fa da battistrada all’elevamento del rango gerarchico delle città stesse;
- l’investimento nelle aree interne per progetti di ripopolamento rurale dell’alta collina, della montagna degli entroterra costieri, base sociale e presidio di nuovi equilibri socio-produttivi, idraulici, ecologici, energetici, nel contesto di una conversione ecologica dell’economia a superamento del modello insediativo che ha prodotto, con il dominio del centro regionale, aree periferiche e marginali;
- il blocco del consumo di suolo agricolo che, entro un nuovo patto fra città e campagna, può consentire strategie di riequilibrio idrogeomorfologico, ecologico, insediativo; nuove frontiere dell’agricoltura nella produzione di cibo per le città e di servizi ecosistemici; la chiusura locale dei cicli dei rifiuti, dell’alimentazione, dell’acqua e dell’energia.
Firenze capitale, sede della Regione, può guidare questo progetto dando l’esempio:
- riattivando la città storica con funzioni e attività di terziario avanzato connesse alla conversione produttiva del sistema regionale e alla qualità dell’abitare, fermando gli effetti distruttivi della identità urbana da parte della disneyland turistico-finanziaria-immobiliare;
- ridisegnando i confini della città metropolitana e dei suoi centri urbani attraverso la valorizzazione multifunzionale del suo parco agricolo in riva destra dell’Arno (Firenze-Prato) e sviluppando quello in costruzione in riva sinistra (Firenze-Lastra a Signa); e avviando progetti di riqualificazione, riuso e riciclo delle periferie e dei loro margini, verso una città di villaggi urbani ad alta qualità abitativa, ecologica e energetica;
- attivando la riqualificazione del sistema dell’Arno e dei suoi affluenti nelle loro funzioni fruitive, ecologiche, produttive, agricole, turistiche, in stretta connessione con i parchi agricoli rivieraschi;
- valorizzando il sistema multipolare di città affacciate sulla piana, di valli profonde, di nodi orografici, in grado di superare il degrado del modello centro-periferico dell’urbanizzazione recente;
- producendo un sistema di trasporti al servizio della mobilità della città metropolitana policentrica connesso al progetto di mobilità dolce della piana (ivi compresa la navigabilità «leggera» dell’Arno fra Firenze e Pisa); e con la rivitalizzazione del sistema ferroviario metropolitano e delle ferrovie regionali minori, investendovi i capitali risparmiati con una soluzione di superficie dell’alta velocità;
- potenziando gli accessi da Firenze ai sistemi aereoportuali di Pisa e di Bologna, contenendo il ruolo del city airport fiorentino;
- sottoponendo infine a dibattito pubblico e a processi partecipativi capillari e permanenti la propria transizione urbanistica e socioeconomica a una visione di bioregione urbana.
La città metropolitana così concepita, riqualificando in senso democratico e federativo la propria magnificenza civile (contro i giochi in atto che vedono Firenze alla conquista gerarchica del territorio metropolitano), può aspirare a divenire motore di sviluppo del futuro della Toscana, promuovendo modelli insediativi virtuosi nelle aree ex periferiche e marginali della regione; modelli dei quali essa stessa si propone come esemplificazione di eccellenza
Due avvenimenti segnano il capo e la coda di un quindicennio di tranquilla urbanistica fiorentina: la telefonata del segretario di un Pci in fase di autodemolizione - Achille Occhetto - che bloccava la grande, tuttora irrisolta, espansione occidentale di Castello (1989); e il recepimento, negli anni 2000, del tracciato urbano dei 7 km sotterranei dell’alta velocità ferroviaria. Nella seconda giunta Domenici (2004–2009) la pianificazione entra nella fase di risveglio, per assumere poi specifici connotati, dal valore di prova in vitro per l’urbanistica peninsulare avvenire.
Riportando in auge il vecchio piano attuativo, Leonardo Domenici (Ds poi Pd), di concerto con l’assessore Gianni Biagi, imbastisce nel 2005 l’affaire Castello, patto tra gentiluomini stretto e celebrato con Salvatore Ligresti. Un milione e 400mila metri cubi di cemento nella piana a nord-ovest della città, a ridosso dell’aeroporto, in terreni acquitrinosi poco appetibili e perciò da destinare a servizi pubblici: oltre alla ciclopica caserma dei Carabinieri e alla sventata Cittadella dello Sport (ora alla Mercafir), spicca nel progetto un polo didattico voluto dalla Provincia, allora governata da un promettente Matteo Renzi. Il sindaco Domenici, lavorato ai fianchi dalla lista di cittadinanza per Unaltracittà e indicato presso il grande pubblico da Repubblica, in segno di protesta si incatenerà sotto la sede romana dell’Espresso.
Tra 2009 e 2010 il governo del territorio passa di mano. È eletto sindaco Matteo Renzi (Margherita poi Pd); nominata assessore regionale al territorio Anna Marson, accolta con favore dai comitati; nel frattempo, a colpi di petizioni degli iscritti, l’ordine degli architetti si rinnova.
Renzi, a dispetto dell’ammirazione proclamata urbi et orbi per La Pira (che, detto per inciso, aveva affidato la stesura del Prg a Edoardo Detti, urbanista di riconosciute qualità), trattiene ad interim l’assessorato all’urbanistica, e riparte da zero. Il nuovo Piano Strutturale, approvato nel 2011, allude ai temi disciplinari che puntualmente elude, e si pone in una dimensione extrapianificatoria. Vediamo come.
L’abilità comunicativa del primo cittadino adotta e consolida televisivamente lo slogan dei «volumi zero», smentito dai grandi volumi fatti partire in variante al Prg, nonché dal milione e passa di metri cubi di Castello (ora proprietà Unipol) dati per già edificati e non ricontrattati. E dalla grande cementificazione che dà l’assalto al sottosuolo: stazione e tunnel Tav, dieci parcheggi interrati nelle piazze storiche, tram sotterraneo sotto il centro città, «passante urbano» nelle colline costituiscono il banchetto per imprenditori privati a cui di fatto viene demandata la trasformazione urbana.
Stante la rimarchevole sensibilità del governo cittadino verso proprietà privata, il Piano Strutturale rinuncia alla titolarità pubblica del progetto sulla città chiamando a raccolta, con un bando di pubblico avviso, i medio-grandi proprietari di aree in trasformazione. I loro 217 progetti «predetermineranno» il Regolamento Urbanistico zelantemente redatto dall’ufficio tecnico comunale in linea coi dettami del principe ammiccanti alla strumentazione finanziaria (crediti edilizi in primis) e adottato nei giorni scorsi.
In città persiste tuttavia una tradizione di laboratori critici che dagli anni ‘90 vede attivo il LaPei (Laboratorio di Progettazione ecologica degli insediamenti) con il progetto partecipato delle «4 piccole città sull’Arno» all’Isolotto e, ai tempi della Pantera, con l’ipotesi di «bonifica territoriale» per l’area metropolitana impostata sul progetto ecologico socialmente prodotto di concerto coi comitati locali. Nell’orbita del LaPei, è il recente progetto alternativo di sopra attraversamento Tav. La Comunità delle Piagge oppone resistenza in un quartiere povero di servizi, affrontando il disegno degli spazi pubblici e il tema dell’autocostruzione per fini sociali. Raccoglie il testimone di queste esperienze il "Gruppo urbanistica perUnaltracittà" che si adopera per una controffensiva radicale fondata sulla riappropriazione degli strumenti analitico-critici, sulle pratiche urbanistiche condivise e sulle relazioni sociali, costruita con incontri pubblici, elaborazione di progetti e di testi specifici. Il gruppo, che fa rete con le espressioni dell’autogestione, dell’autorecupero e della cittadinanza attiva (San Salvi chi può, NoTunnelTav, Oltrarnofuturo etc.) e intesse relazioni con esperienze nazionali (ReTe dei comitati per la difesa del territorio, GrIG, etc.), porta avanti una riflessione collettiva sulla forma della città, sul destino dei contenitori dismessi, sui luoghi della socialità, sul ridisegno delle relazioni ecologiche.
Esperienze di condivisione del sapere e di collettivizzazione del pensiero critico, scuole disciplinari e luoghi di sperimentazione politica conviviali, liberi e libertari, questi laboratori arricchiscono il fronte di resistenza peninsulare a contrasto di un’urbanistica distruttiva e neoliberista che da Firenze viene dispiegandosi nelle sue forme più «nuove».
Il Fatto Quotidiano, 2 aprile 2014
Agli argomenti di chi indica il carattere autoritario della sua riforma costituzionale, Matteo Renzi non oppone altri argomenti, ma una delegittimazione radicale dei “professoroni, o presunti tali”. Non risponde a chi dice che un governo non può essere costituente (Piero Calamandrei chiese che durante la discussione dell’articolato della Costituzione i banchi del governo fossero addirittura vuoti). Non risponde a chi spiega perché un Senato degli enti locali potrebbe portare a una rottura dell’unità nazionale. Non risponde a chi – come Walter Tocci, senatore pd che ha annunciato il suo voto contrario – scrive che “l’Italicum consente a una minoranza sostenuta dal 20% degli aventi diritto al voto di arrivare al governo, potendo contare su deputati non scelti dagli elettori e non avendo risolto il conflitto di interessi”.
Di solito parlando di urbanizzazione impropria si pensa soprattutto al suolo, ma anche l'acqua ha il medesimo ruolo di risorsa finita non sostituibile. Il manifesto, 2 aprile 2014 (f.b.)
Lo scorso autunno Los Angeles ha celebrato in pompa magna il centenario del «Los Angeles Acqueduct», il canale che rifornisce d’acqua la città inaugurato nel 1913. L’anniversario è stato commemorato da gonfaloni appesi ai lampioni delle maggiori arterie cittadine e l’acquedotto celebrato come «sorgente di vita» in altisonanti articoli di giornale. Plauso per un’opera di ingegneria idrica che rende bene la misura dell’importanza tuttora attribuita all’acqua in questa regione – perlopiù in funzione della sua cronica scarsità. Si dà il caso, infatti, che nell’inverno appena concluso sia piovuto meno che in ogni anno dal 1850, quando la California, da poco strappata al Messico, è diventata uno stato americano. Inevitabile che nel mezzo della peggiore siccità a memoria d’uomo le commemorazioni civiche abbiano assunto un che di rito propiziatorio, una liturgia del «cargo cult» che in questa città come nell’intero quadrante sud occidentale d’America è legato alla risorsa più preziosa e scarsa e alla grande e perenne sete.
Le fasi aride come l’attuale in questa regione degli States sono una certezza climatica che torna con ciclica regolarità. E ogni volta rammentano come la California e l’Ovest americano (gran parte di Nevada, Utah, Arizona e Nuovo Messico, parti del Colorado e del Texas) siano sostanzialmente regioni desertiche in cui negli ultimi 100 anni si sono insediate 60 milioni di persone. Questa colonizzazione arbitraria, senza logica geografica e soprattutto senza riguardo per le risorse naturali, è avvenuta in una regione dove oltretutto esiste ampia documentazione archeologica di civiltà indigene la cui scomparsa viene ormai attribuita proprio a cause climatiche (ad esempio quella rupestre degli indiani Anasazi). Oggi paradossalmente – assurdamente – quelle che erano le regioni più inospitali del continente sono diventate l’epicentro della crescita demografica del paese.
Los Angeles, senza insenatura, senza porto naturale o un fiume navigabile, priva di vere risorse minerarie e circondata dall’aridità implacabile del Mojave è il prototipo originale di questo sviluppo «contronatura» predicato sull’irrigazione su scala mastodontica. Per un secolo il Pueblo de Los Angeles rimase poco più di un bivacco dei frati francescani spagnoli che l’avevano fondato, circondato da sterpaglia, macchia mediterranea e da piccole coltivazioni in balia di un clima imprevedibile. A fine ‘800, grazie allo scalo ferroviario della Union Pacific, la popolazione era arrivata a 80.000 abitanti e nel 1903 aveva già esaurito l’acqua dell’esiguo Los Angeles River, il torrente che raccoglieva le acque stagionali delle vicine montagne San Gabriel. Non a caso chi ancora oggi più si avvicina a un santo patrono, colui al quale è intitolata una delle strade più celebri della città, Mulholland Drive, è l’ingegnere che progettò il canale lungo 674 chilometri che a questo lembo di deserto meridionale portò l’acqua che nei decenni successivi avrebbe permesso l’insediamento di oltre 10 milioni di esseri umani.
William Mulholland era un ingegnere autodidatta irlandese arrivato in California per tentare la fortuna come cercatore d’oro, ossessionato dall’approvvigionamento idrico della città. Finanziato dai petrolieri, baroni ferroviari e speculatori dell’edilizia e agroindustriali che rappresentavano gli interessi fondativi della giovane Los Angeles, l’acqua decise di andarla a prendere alle pendici della Sierra Nevada orientale, nella verdeggiante valle dell’Owens, 600 km a nord, e trasportarla attraverso l’infuocato deserto Mojave.
Gli agenti del Department of Water and Power di Los Angeles cominciarono ad acquisire i diritti d’uso dell’acqua dagli agricoltori della Owens Valley sotto le mentite spoglie di fantomatici «ottimizzatori dell’irrigazione». E quando con proditorietà da insider trader ante litteram ebbero in mano i necessari pacchetti di maggioranza sulle acque montane, annunciarono la diversione nel canale in costruzione. In sostanza avviarono il commissariamento delle acque che avrebbe condannato la ridente vallata a trasformarsi in polveroso deserto. In quel momento il bacino aveva già perso metà del proprio volume ed era avviato a prosciugarsi. 700 famiglie di agricoltori locali occuparono allora le chiuse e tentarono di dirottare il flusso dell’acquedotto nuovamente verso i campi moribondi. Los Angeles rispose inviando centinaia di agenti di polizia mentre gli sceriffi del luogo presero la parte dei ribelli. Lo scontro armato venne evitato in extremis solo da un accordo che avrebbe restituito una parte delle acqua ma che non fu mai rispettato da Los Angeles. Tanto che una campagna di attentati dinamitardi contro l’acquedotto – 17 in tutto sarebbe continuata per diversi anni fin quando la rivolta dell’acqua non venne sedata con la legge marziale e l’istituzione di guarnigioni con mitragliatrici poste ad intervalli regolari lungo tutto il percorso della tubatura.
La vicenda è accennata in chiave di noir nello splendido Chinatown di Roman Polanski (nel film Mulholland è l'inquietante patriarca interpretato da John Huston) e costituisce il «peccato originale» del trionfo di Los Angeles. Un’allegoria perfetta per l’ipersviluppo degli stati dell’Ovest. L’esproprio delle acque è stato replicato in varia misura da tutte le metropoli del deserto: la fondazione di Phoenix e Las Vegas, la crescita di Salt Lake City e San Diego sono dovute a massicce opere di irrigazione, dato che come dichiarò all’epoca il ministro degli interni di Herbert Hoover, Ray Lyman Wilbur, «con l’aggiunta di acqua, la conquista del Sudovest assicurerà la crescita di una grande e stabile civiltà».
Un secolo dopo, nel mezzo dell’ennesima drammatica siccità, e ora con milioni di abitanti che dipendono da una risorsa ancora altrettanto incerta, il costo della «grande civiltà», quella dei 100 campi da golf di Palm Springs, delle mega-fontane di Las Vegas, delle mille suburbie spuntate come funghi nel deserto, è infine ineluttabile. Del lago Owens oggi rimane un fondale secco da cui si levano turbini di polveri sottili che rendono irrespirabile l’aria della valle un disastro ecologico simile a quello del lago Aral in Kazakhstan. Appena fuori Bishop, capoluogo della Owens Valley, ancora oggi ci sono incongrui tombini recanti la dicitura «acque di Los Angeles» e le chiuse sono ancora protette da imponenti reticolati spinati con la stessa scritta.
Ma quando negli anni ’70 il Department of Water and Power decise di mettere in atto la terza fase del progetto Mulholland, andando a pescare ancora più a nord nelle acque vulcaniche di Mono Lake, condannando anche questo splendido lago alpino a una morte sicura, la campagna per salvarlo diventò subito una pietra miliare del movimento ecologista californiano, che organizzò proteste e petizioni e ricorse in tribunale per fermare la conquista dell’acqua cominciata 80 anni prima. Nel 1988 la corte federale decretò che l’intrinseco interesse alla tutela del patrimonio naturale prevaleva su quelli di singole municipalità; Los Angeles stavolta dovette interrompere i prelievi e istituire invece misure di risparmio idrico. Il lago, una delle meraviglie naturali della Sierra Nevada, venne salvato e oggi sta lentamente recuperando volume.
Una lettera aperta al sindaco di Napoli, affinchè Bagnoli non continui a essere il buco nero dell'urbanistica napoletana, in contrasto con il vigente piano regolatore, Corriere del Mezzogiorno, 30 marzo 2014 (m.p.g.)
Caro Sindaco De Magistris, tra i troppi beni comuni che sono stati negati ai cittadini di Napoli ci sono, e da troppo tempo, anche la salute e il mare. In nessun luogo come a Bagnoli è drammaticamente tangibile l'intreccio tra queste due privazioni.
Oggi la criminale distruzione della Città della Scienza mette le amministrazioni napoletane – il Comune, ma anche la Regione e gli organi di tutela – di fronte all'ennesimo bivio di questa lunga storia: e per l'ennesima volta si rischia di imboccare la direzione sbagliata. Fu un errore fatale collocare un insediamento industriale così enorme in uno dei luoghi simbolo del paesaggio e del patrimonio culturale europei, fu un errore farlo ripartire dopo la Grande Guerra, fu un errore ricostruirlo dopo la Secondo Guerra mondiale, fu un errore piegare la pianificazione urbanistica ai diktat industriali e permettere la realizzazione della colmata a mare.
Oggi sarebbe un errore imperdonabile rinunciare a rimuovere la colmata, a condurre fino in fondo la bonifica, a ripristinare la linea di costa, a restituire ai napoletani una vera spiaggia urbana. Oltre ad essere un errore, sarebbe una gravissima violazione della legge. Lo storico vincolo apposto dal Ministero per i Beni culturali nell'agosto del 1999 (basato sull'esemplare relazione di Antonio Iannello) e la legge 582 del 1996 impongono infatti di abbattere gli edifici che impediscono il ripristino della morfologia originale della costa. Coerentemente, l'attuale Consiglio Comunale ha deliberato, nella seduta del 25 settembre 2013, di destinare a spiaggia pubblica l’arenile da Nisida a Coroglio, accogliendo così la petizione popolare del comitato “Una spiaggia per tutti”, sottoscritta da oltre 13.000 napoletani.
Il primo passo, importantissimo in sé e importantissimo come pegno concreto della volontà di perseguire effettivamente questo processo di affermazione dei valori costituzionali, è rappresentato dalla decisione di ricostruire la Città della Scienza non dov'era, ma bensì al di là della strada di Coroglio.
Come membri dell'Osservatorio per i Beni Comuni rivolgiamo un accorato appello a Lei, alla Giunta e al Consiglio Comunale perché questo passo venga compiuto senza esitazioni e ambiguità.
E ricordiamo che ove si imboccasse, invece, la strada contraria, il nostro stesso lavoro sui beni comuni non avrebbe più senso, perché sarebbe smentito alla radice.
Alberto Lucarelli è Presidente dell'Osservatorio sui Beni Comuni del Comune di Napoli, Tomaso Montanari ne è membro
Tutto il mondo è malpaese. Ma anche all'estero primeggiano gli archistar italiani. «Tra l’altro questi grattacieli non rispondono al bisogno di alloggi popolari ma solo a speculazioni immobiliari che muterebbero per sempre l’aspetto della capitale». La Repubblica, 31 marzo 2014
Cosa fa venire in mente un grappolo di grattacieli? Una volta la risposta era obbligata: New York. Oggi potrebbe essere anche Shanghai, Hong Kong, Dubai. Ma domani rischia di diventare Londra. Già trasformata da decine di torri nella vecchia City, nella nuova cittadella della finanza a Canary Wharf e lungo il Tamigi, ora la capitale britannica sta per costruire altri 250 grattacieli. Fatti più in là, Manhattan, potrebbe dire alla metropoli sua rivale dall’altra parte dell’oceano. Sennonché un gruppo di scrittori, artisti e intellettuali accusa il sindaco Boris Johnson di volere stravolgere lo skyline e il carattere della metropoli, lanciando una petizione pubblica per provare a fermare il progetto.
I firmatari comprendono alcune delle voci più prestigiose e autorevoli della città, dal romanziere Alan Bennett allo scultore Anish Kapoor, dal filosofo Alain de Botton all’architetto Alison Brooks, da Charles Saumarez Smith, direttore della Royal Academy, a lord Baker, ex-ministro degli Interni conservatore, a due pesi massimi del partito laburista, il deputato nero David Lammy (che qualcuno ha ribattezzato l’Obama inglese) e l’ex-ministro della cultura Tessa Jowell, non a caso, questi ultimi, entrambi aspiranti a rimpiazzare Johnson come primo cittadino alle prossime elezioni. «È scioccante che si prepari un cambiamento così radicale dell’orizzonte di Londra praticamente senza dibattito, senza che la popolazione ne sia nemmeno consapevole », afferma la petizione, sostenuta da una settantina di personaggi di spicco. «Tra l’altro questi grattacieli non rispondono al bisogno di alloggi popolari ma solo a speculazioni immobiliari che muterebbero per sempre l’aspetto della capitale».
L’aspetto di Londra in verità è già molto mutato negli ultimi due decenni. Lo skyline odierno non è più dominato dalla cupola della cattedrale di Saint Paul, che nel ‘700 faceva declamare a un poeta: «Dentro, fuori, sopra, sotto, l’occhio si riempie di delizia». Nel ventunesimo secolo l’occhio del visitatore si riempie di torri come il Cheese-Grater (la Grattugia), il Walkie-Talkie (il Radiotelefono), il Gerkhin (il Cetriolo) e al di sopra di tutti lo Shard (la Scheggia) disegnato da Renzo Piano, la più alta d’Europa, solo per citare le più note, senza dimenticare le due gemelle di Canary Wharf in cui lavorano più di 50 mila persone. I progetti autorizzati dalla municipalità, tuttavia, promettono di aggiungere nel prossimo decennio all’orizzonte cittadino 200 grattacieli di oltre venti piani, 30 di quaranta piani e 20 di almeno cinquanta piani. L’identità di una metropoli di case basse, anche per questo meno claustrofobica di New York e altre città fitte di torri, ne risulterebbe fortemente alterata.
Il sindaco Johnson risponde dicendosi disposto ad avviare un dibattito «con gli altrettanto autorevoli esperti » da lui consultati prima di dare via libera ai progetti, e ribatte che i grattacieli porterebbero lavoro, dinamismo e vivacità alla Londra del terzo millennio. I suoi critici obiettano che la metropoli più grande d’Europa sta diventando vittima di una bolla immobiliare in cui i prezzi delle case salgono del 15 per cento l’anno. Un parco giochi per ricchi di ogni angolo della terra. A loro sono destinati i 250 nuovi grattacieli di Londra.
“Un soprintendente è tenuto a compiere sopralluoghi, controllare perizie, dirigere i lavori, pubblicare studi, redigere piani paesistici, ma soprattutto resistere ai privati che vorrebbero distruggere tutto per rifarlo in vetrocemento, quasi sempre con l’assenso e l’appoggio delle autorità”.
“Resistere ai privati”: chi lo sostiene oggi è un talebano, statalista, comunista. A scriverlo, invece, era il liberalissimo Indro Montanelli, in un memorabile articolo comparso sul Corriere della Sera il12 marzo 1966. Oggi, invece, un giornale come Repubblica scrive che “troppo spesso le soprintendenze diventano fattori di conservazione e di protezionismo in senso stretto, cioè di freno e ostacolo allo sviluppo, alla crescita del turismo, e dell’economia”, sul Corriere si invoca un giorno sì e l’altro pure l’intervento salvifico di quegli stessi privati, Matteo Renzi ripete a macchinetta che “Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba”.
L’entusiasmo e la fantasia di chi – tra il 1966 e oggi – ha sepolto questo Paese sotto una colata di cemento. L’attualità dell’articolo è devastante, perché tutto è rimasto come allora: il bilancio miserabile del patrimonio, gli stipendi da fame e la solitudine dei soprintendenti, “pochi eroi, sopraffatti dal lavoro e senza mezzi per svolgerlo”. Montanelli vedeva che il vero problema era – ed è tuttora – la disparità dei mezzi tra i difensori del bene comune e quelli degli interessi privati: “I loro uffici sono letteralmente assediati da orde di impresari, ingegneri, architetti, geometri e altri guastatori. Nel periodo del ‘ boom’ edilizio il soprintendente ai monumenti della Liguria, Mazzino, esaminò in un anno 10 mila progetti con l’aiuto di un solo architetto. Il suo collega di Sassari, Carità, deve difendere da solo circa mille chilometri di costa che, a lasciar fare agli speculatori e ai progettisti a quest’ora sarebbero già un’immensa Ostia. E mentre gli speculatori hanno a disposizione i migliori giuristi per redigerlo, il Soprintendente deve farlo con l’aiuto del bidello e della custode”.
Montanelli vedeva lucidamente nel clero un pericolo per il patrimonio: “E qui bisogna parlarci chiaro, soprattutto coi preti. Il 70 per cento dei monumenti italiani è in loro custodia (…) Non per malizia o cupidigia, ma per ignoranza e spregio di ciò che essi chiamano ‘valori mondani’, i parroci demoliscono vecchie chiese gotiche e barocche per costruire orrende scatole in vetrocemento (quelle che i fiorentini chiamano con pertinente empietà i ‘cristogrill’) con pareti intonacate a ducotone, tapparelle, luci al neon e cromi”.
Oggi le cose stanno forse perfino peggio: ma quasi nessuno osa scriverlo. Con la scusa dell’adeguamento liturgico, zelanti vescovi rifanno da capo a piedi (e orribilmente) le loro cattedrali (da Reggio Emilia ad Arezzo) senza che nessun soprintendente riesca a contrastarli, e laricostruzione delle chiese emiliane dopo il terremoto rischia di risolversi in una mattanza del tessuto storico in nome delle mani libere. Oggi è di moda parlar male delle soprintendenze: dovremmo piuttosto chiederci se il ministero per i Beni culturali (nato nel 1974) sia riuscito a farle funzionare meglio di quando scriveva Montanelli, ed esse rispondevano alla Pubblica Istruzione. La risposta è evidentemente negativa, e questo dovrebbe indurre a ripensamenti radicali: il problema non è la rete territoriale della tutela, ma semmai la burocrazia e la sudditanza alla politica del quartiere generale romano.
Ciò che più colpisce, tuttavia, è la regressione generale del Paese, e del suo discorso pubblico. C’è davvero un abisso tra il profondo senso dello Stato e del pubblico interesse del liberale Montanelli, e il liberismo all’amatriciana del pensiero unico di oggi, insofferente ad ogni regola che non sia l’arbitrio assoluto degli interessi privati. E, soprattutto, c’era in Montanelli la profonda convinzione che ilpatrimonio culturale non fosse misurabile, come scrive, “sul metro del denaro”. Perché è proprio il nostro straordinario patrimonio ciò “che ci qualifica a un rango, del tutto immeritato, di Nazione civile”. È proprio questo il punto centrale: il punto che sfugge a tutti coloro che si riempiono incessantemente la bocca della retorica del “petrolio d’Italia”. A essere venuta meno, in questi cinquant’anni, non è solo la tutela del patrimonio, è l’idea stessa di Stato, un qualunque progetto di civiltà.