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«Le proteste per bloccare e proibire il gigantismo navale da diporto non hanno trovato risposta e tutto è rimasto soggetto a continuo peggioramento. Occorrerebbero misure d’imperio, drastiche. Viviamo invece in una plaga senza governo». La Repubblica, 5 maggio 2014

LAPAZZIA domina le acque della Laguna. Solo la fantasia diabolica di un gruppo onnipotente di despoti del paesaggio poteva immaginare nuove devastazioni, che sancissero la trasformazione di uno dei luoghi più splendidi del mondo in una Disneyland, a disposizione di masnade di fanciulli pazzi, senza età e senza criterio, liberi di baloccarsi con la città, considerata finora il capolavoro assoluto dell’estetica, raggiunta dall’uomo in venti secoli di storia e di arte.

Forse non è noto in questo Paese, dove “sgoverna” distratta la noncuranza, che il dominio della Serenissima venne attuato da severe leggi emanate da Dogi e Magistrati alle Acque, sì che il fluire e il rifluire regolare di queste ultime fosse retto dall’intelligenza della natura, combinata con il raziocinio dell’uomo, dando vita ad un sistema governato da norme ferree, scolpite nella pietra. Ripeto, nella pietra e non sull’acqua in quanto questa era soggetto e non oggetto della legge. Sì che mai nessuna mente, per quanto perversa, avrebbe potuto immaginare che la navigazione venisse dominata da giganteschi scatoloni di metallo e plastica, mossi da potenti e rumorosi motori, animatori di questa, fino ad oggi ignota, forma di gigantismo navale.

Le chiamano navi ma non riescono nemmeno a riprodurre le forme e il buon gusto dei piroscafi di un tempo. Somigliano a giganteschi super-mercati, inseriti in villaggi con piscine e negozi, saloni da ballo i cui abitanti fruiscono per alcuni giorni di un finto universo ludico a disposizione. La crescita è la legge di natura di queste anomale e mostruose costruzioni. L’altra caratteristica sta nel cercare non il mare aperto ma tutti quegli spazi che danno vita, per natura, alle bellezze paesaggistiche (golfi, canali, borghi e città marittime), così da mettere i passeggeri nelle condizioni di sfiorare, quasi con mano, sponde e rocce, in cieca attesa di ogni possibile disastro, così come è avvenuto al Giglio.

Chi gode di questo nuovo padronaggio dei mari sono gli armatori che, dal Mediterraneo all’Estremo oriente, hanno issato le bandiere di una intangibile pirateria e dominano la vita, i passaggi, i porti di ogni riva. La politica è cosa loro. Non c’è più misura di contenimento. Gli attuali mega-piroscafi hanno dimensioni che superano i 300 metri di lunghezza, i 40 di larghezza, i 60 di altezza, le 130 mila tonnellate e un pescaggio di 9,50 metri. Queste navi necessitano di canali di navigazione la cui larghezza si aggira sui 200 metri. Il loro transito genera da prua a poppa onde che si infrangono sui bassi fondali contermini, sollevando e spostando sedimenti, che vengono interrati dalle correnti che questi giganti formano. Di qui la necessità di interventi sistematici di drenaggio.

Le proteste per bloccare e proibire il gigantismo navale da diporto non hanno trovato risposta e tutto è rimasto soggetto a continuo peggioramento. Occorrerebbero misure d’imperio, drastiche. Imbrigliare questo tipo di navigazione in zone rigorose di transito, da porto a porto. Salvaguardare in assoluto le città d’arte a cominciare da Venezia. Proibire ogni scempio passato, presente e futuro. Viviamo invece in una plaga senza governo. Il 30 aprile, il “Comitatone per Venezia”, (presieduto dal Sindaco della Serenissima e composto da rappresentanti di altri comuni, ministeri ed enti pubblici) è stato convocato a Roma. Renzi aveva promesso la sua presenza che, però, all’ultimo è mancata. Sono venuti, in suo luogo, Delrio, Lupi e qualche altro. Ai convenuti sono stati assegnati tre minuti a testa per dire la loro. Sono stati scelleratamente proposti nuovi canali per continuare a permettere questo vandalico passaggio. Qualcuno riporterà l’ordine nella follia in atto? Il governo Renzi coprirà le manchevolezze dei governi precedenti?

Una manifestazione e un dossier sulle inarrestabili fortune di un complesso post-industriale nato e cresciuto vigorosamente all'ombra della "Larghe intese" e della greeneconomy. Il manifesto online, 5 maggio 2014

Una grande abba­iata per imi­tare il coro di una­nime plauso che acco­glie ogni ini­zia­tiva di Oscar Fari­netti, il patron di Eataly, il pre­sti­gia­tore dell’autentico made in italy. Il flash mob #lagran­deab­ba­iata è stato orga­niz­zato sabato 3 mag­gio dalla rete mila­nese Atti­tu­dine NoExpo: Euro­may­days and The Ned, Macao, Off­to­pic, La terra trema, San pre­ca­rio, Zam, Lam­bretta, Boc­cac­cio, Farro e fuoco, Rimake, Rima­flow, all’ex tea­tro Sme­raldo, oggi Eataly Milano, in Piazza XXV Aprile a un passo da Corso Como.

Sme­raldo, il tea­tro chiuso da un parcheggio

Pro­prio quello inau­gu­rato il 18 marzo scorso, per il momento cono­sciuto per le pole­mi­che sol­le­vate dalla ristrut­tu­ra­zione. Eataly si è affi­data all’impresa “Costru­zioni euro­pee” di Peru­gia che ha subap­pal­tato una parte dei lavori di ristrut­tu­ra­zione dello Sme­raldo a una ditta romena, la Cobe­tra: 25 ope­rai, di cui uno spe­cia­liz­zato in restauri e un solo capo­ma­stro. Secondo la Filca Cisl, gli ope­rai romeni avreb­bero per­ce­pii sti­pendi da fame: 500–800 euro per 40 ore set­ti­ma­nali. Eataly ha soste­nuto di essere all’oscuro di que­sto subap­palto. Sul suo Libro Unico del lavoro lo sti­pen­dio men­sile dei mura­tori era di 2100 euro men­sili, con­tri­buti inclusi. L’importazione del per­so­nale a basso costo dalla roma­nia sarebbe avve­nuto a sua insaputa.

Lo Sme­raldo era un tea­tro che a Milano ha ospi­tato Cats, il Fan­ta­sma dell’opera, Evita, David Bowie, Astor Piaz­zolla e Spring­steen. Oscar Fari­netti, pro­prie­ta­rio di Eataly lo ha rile­vato da Gian­ma­rio Lon­goni che ha cer­cato di sal­vare il tea­tro dal fal­li­mento. Lon­goni ha rice­vuto lo Sme­raldo da un lascito di fami­glia, una di quelle anti­che e nobili della Brianza. L’ex gestore del Ciak di Milano lo rilevò che era un cinema porno, por­tan­dolo ad essere un luogo per una pro­gram­ma­zione più consona.

Una vicenda tor­men­tata, quella che ha por­tato il tea­tro a chiu­dere, e poi ad essere acqui­stato da Fari­netti. Aperto il 28 luglio del 2006, e ter­mi­nato nel luglio 2012, il can­tiere per i box di piazza XXV Aprile ha dimez­zato la clien­tela e gli spet­ta­coli del tea­tro. Ste­fano Boeri lan­ciò dallo Sme­raldo la sua can­di­da­tura, Giu­liano Pisa­pia fece il punto sulla sua giunta pro­prio qui. Lon­goni ha detto di essere stato lasciato solo dall’amministrazione di centro-sinistra. Ha detto anche di essere stato schiac­ciato dalla con­cor­renza sleale degli altri tea­tri che tra l’altro per­ce­pi­vano aiuti pub­blici, men­tre lui ha cer­cato di fare da solo,da impren­di­tore indipendente.

Una brutta sto­ria, e tri­ste, che parla della com­mi­stione tra cul­tura e spet­ta­colo, unico stru­mento per far soprav­vi­vere un tea­tro dove i fondi pub­blici sono sem­pre più esi­gui e sem­pre più nelle mani di pochi.

Apo­lo­gia del tem­pio del gusto

Da quando la cultura-spettacolo-Tv, quella per inten­dersi degli spet­ta­coli di Bri­gnano o Pana­riello a tea­tro, è stata inte­grata e rico­di­fi­cata nel nuovo del made in Italy — Eataly — i tea­tri sono diven­tati i pos­si­bili con­te­ni­tori di una forma di mar­ke­ting aggres­sivo e vin­cente. Come lo Sme­raldo a Milano oggi, o il Tea­tro Valle a Roma. Tre anni fa, prima della sua occu­pa­zione, voci insi­stenti par­la­vano di una sua tra­sfor­ma­zione in un “tem­pio del gusto” Eataly, con dire­zione arti­stica a cura di Ales­san­dro Baricco.

Sulle ceneri dello Sme­raldo, la cul­tura della tra­di­zione gastro­no­mica ita­liana diventa l’alto cibo — hanno spie­gato i pro­mo­tori della pro­te­sta mila­nese — nel cen­tro di uno dei quar­tieri più gen­tri­fi­cati di Milano si pro­clama al con­sumo (di classe!), come se la cul­tura non avesse spa­zio nel pro­getto di una città da Expo. E che con­sumo: la tra­di­zione della terra diventa pro­dotto di élite, stando attenti che il fascino del locale, del tra­di­zio­nale, del pro­dotto buono, sano e giu­sto, rimanga intatta.

Decine di per­sone hanno ulu­lato con­tro la “grande abba­iata” del con­senso verso il “fascino del locale”, una forma per­va­siva del con­senso poli­tico che lavora sull’immaginario di un paese in crisi, che ago­gna un posti­cino nella “com­pe­ti­zione” sui mer­cati glo­bali, ma non sa cosa vendere.

Fari­netti, che è un impren­di­tore poli­tico post­for­di­sta, lavora sul bran­ding, e ha avuto un’idea: biso­gna ven­dere l’immagine del paese-che-ama-il-buon-cibo, un paese otti­mi­sta per­ché la fatica, i sacri­fici, la crisi non aiu­tano a ven­dere. E così ha inter­pre­tato il desi­de­rio di riscatto delle classi domi­nanti (quelle che pen­sano che “la cul­tura è il petro­lio d’Italia” o che l’Italia è un mera­vi­glioso paese dove tutti devono stu­diare da cuo­chi o came­rieri e lavo­rare in un ristorante.

Feno­me­no­lo­gia Eataliana

Acqui­stando tea­tri, ex cen­tri della logi­stica (come il Cen­tro Agro Ali­men­tare Bolo­gnese — CAAB — una sorta di mer­cati gene­rali nella zona nord di Bolo­gna dove sor­gerà “Eataly WORLD”, forse per sot­to­li­neare le ambi­zioni degli inve­sti­tori ceduto dal comune senza con­tro­par­tite per costruire il F.I.C.O.), grandi palazzi o ex sta­zioni abban­do­nate come a Roma, Fari­netti inter­preta la pro­pria impresa al cen­tro di un pro­getto di civi­liz­za­zione urba­ni­stica. Riqua­li­fica i vec­chi immo­bili, ne tra­sforma la sto­ria, la incor­pora nella pro­pria impresa poli­tica e intende nobi­li­tare la città dove lui porta lavoro e il suo iper­mer­cato di cose buone e costose.

Un mondo bello, curato, pulito, in cui tutto-va-bene — spie­gano ancora i pro­mo­tori del flash mob — ci pro­pon­gono uno stile di vita accat­ti­vante, in cui non c’è spa­zio per il disor­dine, il dis­senso, la cri­tica. Ci ane­ste­tizza. Come una pas­seg­giata in Corso Como, come i grat­ta­cieli di Porta Nuova, ci sug­ge­ri­sce non solo un’idea della città, ma anche un’idea di ciò che noi dob­biamo essere e di come noi dob­biamo vivere. Di ciò a cui, da brave per­sone, dovremmo aspi­rare. Per que­sto, oggi ulu­liamo. Siamo indi­sci­pli­nati nell’affermare quel che vogliamo essere, fare, come vogliamo vivere la città, quale lavoro vogliamo sce­gliere e con chi lo vogliamo fare. Senza mori­ge­ra­tezza, disor­di­na­ta­mente, e con intel­li­genza: ulu­liamo libe­ra­mente con­tro la grande abbaiata.

Un com­plesso indu­striale trasversale

Il flash mob #lagran­deab­ba­iata è stata una nuova azione di pro­te­sta con­tro l’Expo 2015 ad un anno esatto dalla sua inau­gu­ra­zione. Fa parte di un festi­val d’arte per­for­ma­tivo “Folle agire urbano” orga­niz­zato dal primo mag­gio (giorno della May­day) al 5 mag­gio, ricor­renza dell’occupazione della Torre Galfa a Milano nel 2012 (vedi qui e qui).

In un dos­sier su Slow Food, COOP Ita­lia ed Eataly, Nes­suna fac­cia buona, pulita e giu­sta a EXPO 2015, i movi­menti hanno rico­struito anche la sto­ria di Eataly.

Fon­data nel 2004, l’azienda verrà quo­tata in borsa entro il 2017. Dal 2007 al 2014 le aper­ture di iper­mer­cati sono arri­vate a 25, una metà in Ita­lia, l’altra metà nel mondo. Solo a New York pro­duce un fat­tu­rato annuo con entrate per circa 80 milioni di euro. Nei pros­simi due anni è pre­vi­sta un’altra quin­di­cina di nuove aperture.

La fami­glia Fari­netti pos­siede l’80% di Eatin­vest srl, la finan­zia­ria del gruppo, che a sua volta con­trolla Eataly srl, che ha un fat­tu­rato annuo di 400 milioni di euro. Eataly srl a sua volta que­sta con­trolla la società Eataly Distri­bu­zione srl alla quale par­te­ci­pano COOP, COOP Adria­tica, COOP Ligu­ria, NOVA COOP, per un totale del 40%. Tutti gli store della catena Eataly sono for­mal­mente nelle mani di que­sta terza strut­tura socie­ta­ria alla quale COOP dà appog­gio sul know-how e sull’area della for­ma­zione e del per­so­nale. Eataly srl siede negli orga­ni­grammi di diverse società pro­dut­trici –spesso già pre­sidi Slow Food– la cui merce è ven­duta nei negozi Eataly come le bibite Luri­sia o la pasta Alferta, vini e carni.

Eataly ha ria­dat­tato il modello Auto­grill alle città e con cri­teri qua­li­ta­tivi più alti. Auto­grill man­tiene in un angolo dei suoi store i pro­dotti tipici. Fari­netti ha invece creato spazi enormi fatto di pro­dotti tipici. Se sulle auto­strade il “tipico”, il pro­dotto Dop, è un’eccezione in una risto­ra­zione fatta di panini e pizze uni­ver­sali, a Eataly l’eccezione è la norma. E anche il panino e la pizza hanno il loro posto d’onore nella triade ideo­lo­gica che vede nel cibo ita­liano, e nelle sue mol­te­plici ver­sioni dia­let­tali, le idee pla­to­ni­che del Buono, del Pulito e del Giu­sto. Que­sta è la tri­nità che sta alla base della demo­cra­zia del Gusto pagata a prezzi non certo popolari.

Una tri­nità che uni­sce, nell’impresa fari­net­tiana, Coop, Eataly e Slow-food. Nel dicem­bre 2013, que­sta entità una e trina ha fir­mato con l’amministratore unico di Expo 2015 Giu­seppe Sala un accordo per rap­pre­sen­tare il tema della mani­fe­sta­zione mila­nese: “Nutrire il Pia­neta. Ener­gia per la Vita”. Un blocco di imprese spe­cia­liz­zato in “food-branding”, crea­zione com­mer­cia­liz­za­zione e distri­bu­zione del cibo.

Un com­plesso impren­di­to­riale tra­sver­sale e bi-partisan, dalle ban­che all’edilizia all’editoria e all’università (l’ateneo di scienze della gastro­no­mia di Pol­lenzo vicino a Bra in Pie­monte), e con un’aura di auto­re­vo­lezza in mate­ria ali­men­tare si can­dida cre­di­bil­mente a rap­pre­sen­tare il vero con­te­nuto di un Expo sgan­ghe­rato e mul­ti­mi­liar­da­rio dove, si asfal­tano campi di mezza Lom­bar­dia per costruire strade che con­du­cano al sito di EXPO o si costrui­sce la Via d’acqua che stra­volge i par­chi della cer­chia nord-ovest di Milano (Trenno, Bag­gio, Cave, Bosco in città e aree verdi limi­trofe). Senza con­si­de­rare le prime inda­gini della pro­cura di Milano che nel marzo 2014 ha arre­stato Anto­nio Giu­lio Rognoni, diret­tore gene­rale di “Infra­strut­ture Lom­barde”, già can­di­dato al posto di sub­com­mis­sa­rio di Expo 2015 per una sto­ria di appalti truc­cati, insieme ad altre 8 per­sone. Il giro di appalti a Milano per l’Expo è di 11 miliardi di euro.

Nel marzo 2014 Eatin­vest srl ha ven­duto alla società Tam­buri Invest­ment Part­ners (Tip) il 20% delle quote di Eataly per circa 120 milioni di euro, dove un altro 20% era già pos­se­duto da uno dei soci della di Fari­netti, Luca Baf­figo Filan­geri. Alla Tip par­te­ci­pano alcune delle più influenti fami­glie dell’alimentare ita­liano: Lavazza, Lunelli del vino Fer­rari, Fer­rero.

“Sono spe­cia­liz­zati nelle ope­ra­zioni di borsa e ci accom­pa­gne­ranno alla quo­ta­zione di Eataly nel 2016–2017 — ha detto Fari­netti — E poi per­ché è una società ita­liana: abbiamo rice­vuto molte pro­po­ste da stra­nieri, che ci offri­vano anche di più, ma abbiamo scelto Tip per­ché Eataly deve restare al 100% ita­liana. Inve­sti­remo nell’Expo 2015 e nel nuovo pro­getto Fico.

L’evoluzione di Eataly viene spie­gata nel dos­sier nella cor­nice del capi­ta­li­smo basato sulle grandi opere e sui grandi eventi. Grandi opere come il TAV, il MOSE, e grandi eventi come Espo­si­zioni, Olim­piadi, Mon­diali di sport, Fiere sono il frutto della ricerca di visi­bi­lità, con­senso, ren­dita fon­dia­ria e pro­fitto da parte di sog­getti poli­tici e di gruppi di potere legati alle costru­zioni, alle infra­strut­ture, alle coo­pe­ra­tive, al mondo delle società anche mul­ti­na­zio­nali– che oggi vivono di bandi, con­su­lenze, appalti e fondi pubblici.

Eataly a Sharm-el-Sheik


“Godo quando assumo un gio­vane” ha detto Fari­netti. Molte di que­ste assun­zioni sono a ter­mine. Non solo per­ché Fari­netti è un impren­di­tore ren­ziano che applica alla let­tera la ricetta “moder­niz­za­trice” del suo sodale poli­tico, ma per­ché inter­preta lo spi­rito dell’impresa nel paese dove l’ex capo dell’Alleanza delle Coo­pe­ra­tive, rosse e bian­che, Giu­liano Poletti rico­pre il ruolo mini­stro del Lavoro. Fari­netti ne applica il Decreto lavoro e assume i suoi dipen­denti tra­mite agen­zia inte­ri­nale, con con­tratti a pro­getto o a tempo deter­mi­nato. Molti rice­vono circa 8 euro lordi all’ora, che equi­val­gono a 800 euro netti al mese nel caso di 40 ore set­ti­ma­nali, 500 per il part-time. Poco più, o poco meno, degli ope­rai rumeni che hanno ristrut­tu­rato lo Sme­raldo. Un lavoro all’italiana, un eata­lyan job.
Un eata­lyan job ini­zia sca­te­nando la potenza di fuoco del mar­chio. Gli enti locali fanno di tutto per inca­sto­nare il brand nel loro ter­ri­to­rio. Que­sta è la forza dell’impresa made in Italy: ven­dere il mar­chio affin­ché il ter­ri­to­rio, la città, quell’immobile riac­qui­stino valore nell’immaginario. Si dichiara uno stato di emer­genza e le pro­ce­dure diven­tano veloci. E’ già suc­cesso a Torino nel 2007 dove l’allora sin­daco Chiam­pa­rino con­cesse gra­tui­ta­mente a Fari­netti l’ex fab­brica della Car­pano per 60 anni, in cam­bio la com­pleta ristrut­tu­ra­zione dell’edificio.
E’ acca­duto a Bari, primo pre­si­dio a sud dell’azienda, nella Fiera del Levante. Un fiera ago­niz­zante, che cerca ogni stru­mento per mone­tiz­zare e pri­va­tiz­zare un’area di 280 mila metri qua­dri a ridosso del porto. Fari­netti è piom­bato sulla città, ha vinto un bando con i suoi soci baresi (tra cui c’è Fabri­zio Lom­bardo Pijola al cen­tro del caso dell’emittente tv Antenna Sud in crisi e con gior­na­li­sti licen­ziati), per una “mostra tem­po­ra­nea” del suo Eataly per sei mesi. Per sei mesi Fari­netti avrebbe stan­ziato 15 milioni di euro? Poco cre­di­bile. Si può invece pen­sare che la for­mula “mostra tem­po­ra­nea” per un immo­bile di migliaia di metri qua­drati è stato lo stru­mento per sospen­dere tutta la “buro­cra­zia” e far aprire le porte al “tempo del gusto”.
L’apertura è stata a tempo di record, le auto­rità locali hanno fatto “mira­coli”, e l’azienda non aveva fatto a tempo a creare un orga­nico defi­ni­tivo. In realtà, Eataly Bari (inve­sti­mento: 15 milioni di euro) aveva un per­messo tem­po­ra­neo di aper­tura di sei mesi, come “mostra-mercato”. E per que­sto non poteva assu­mere a tempo inde­ter­mi­nato. Fari­netti è aggres­sivo. La sua potenza è attual­mente legata ad una buona liqui­dità, ma si regge fon­da­men­tal­mente sulla spe­ranza di creare occu­pa­zione, non importa quale, l’importante è che sia lavoro. Que­sta è la for­mula usata da Renzi e Poletti per far pas­sare il decreto che pre­ca­rizza tutti i con­tratti a ter­mine. Uno stru­mento spac­ciato come la solu­zione con­tro la disoc­cu­pa­zione strut­tu­rale e di lunga durata.
E poi c’è la debo­lezza dei poten­tati locali stroz­zati dai debiti e dalla crisi. A Bari il blitz di Fari­netti deve avere creato qual­che pro­blema con i ver­tici di una Fiera del Levante. Al punto che ci hanno ripen­sato: “Mai più un caso Eataly” ha detto il 4 feb­braio 2014 al Cor­riere del Mez­zo­giorno il pre­si­dente Ugo Patroni-Griffi. Da domani si pro­ce­derà con il clas­sico bando per fare gestire ai pri­vati 75 mila metri qua­dri per 30 anni. Non è escluso che Fari­netti par­te­cipi anche a que­sti. Lui a Sharm-el-Sheikh porta lavoro in un paese di came­rieri e risto­ranti ad uso turistico.

The Eata­lyan Job

All’inizio di ago­sto 2013, poco dopo il varo della sede barese di Eataly alla Fiera del Levante, la prima in quel Sud che dovrebbe essere come Sharm-el-Skeikh, Cgil-Csil e Uil ave­vano denun­ciato Fari­netti per 160 “assun­zioni fuo­ri­legge”, arri­vate a 180 durante la Fiera a set­tem­bre. Troppi inte­ri­nali e pochi a tempo inde­ter­mi­nato. Era stata vio­lata la legge Biagi che per­mette di assu­mere l’8% di inte­ri­nali con un minimo di 3 e non 160. Poi c’erano 10 con­tratti a tempo deter­mi­nato e 3 indeterminati.

La rego­la­riz­za­zione poi è avve­nuta, i sin­da­cati si sono pla­cati, Fari­netti ha otte­nuto che la sua mostra tem­po­ra­nea diven­tasse permanente.i, anche per­ché il can can è stato intenso e tutti hanno fatto capire a Fari­netti (“quello del Nord”) che la sua atti­tu­dine da colonizzatore-che-porta-il-lavoro-a-Sud doveva con­fron­tarsi con la richie­sta di un lavoro rego­lare. Atten­zione alle pro­por­zioni: 63 a tempo inde­ter­mi­nato, 66 appren­di­sti, 34 a tempo deter­mi­nato, 1 som­mi­ni­strato): 100 su 163 sono lavo­ra­tori a ter­mine. Ma il ter­mine quanto dura?Le assun­zioni sono state fatte secondo le regole del decreto “Letta-Giovannini” per gli under 29, a due con­di­zioni: i “gio­vani” dove­vano essere disoc­cu­pati o avere una fami­glia a carico. Quando entrerà in vigore, il “Decreto Poletti” sta­bi­li­sce che que­sti 100 potranno essere rin­no­vati a ter­mine fino al 2017. Nel mezzo potranno esserci più rin­novi e più pro­ro­ghe. Poi potreb­bero essere assunti.

Sem­pre che Eataly Bari non chiuda prima. Le pro­ie­zioni a 12 mesi par­lano di 10 milioni sui 20 pro­gram­mati. A luglio si faranno i conti. Tra mille distin­guo in città si è ini­ziato a dire che sarà dif­fi­cile man­te­nere l’occupazione. Nes­suno di que­sti lavo­ra­tori è iscritto ai sin­da­cati con­fe­de­rali, nono­stante abbiano vinto una ver­tenza in due mesi. Non è il primo caso di lavo­ra­tori a ter­mine, non sin­da­ca­liz­zati, nelle grandi colo­nie indu­striali create nel sud-senza-lavoro. Può darsi che il clima azien­dale abbia influito. Fari­netti tiene molto a dire che la sua azienda è “una grande fami­glia”. E una fami­glia si gesti­sce da sola i con­flitti e soprat­tutto le com­pa­ti­bi­lità con i suoi “figli”, i lavo­ra­tori. Del resto, “i sin­da­cati sono medioe­vali” ha detto il patron.

Basta con lacci e lac­ciuoli per chi crea lavoro. Piut­to­sto creare “zone spe­ciali”, come in Cina, a sud come nelle metro­poli del Nord, dove il diritto del lavoro viene ridotto alla misura dei con­tratti a ter­mine senza cau­sale. L’obiettivo è col­ti­vare un indi­vi­duo come con­su­ma­tore, utente, visi­ta­tore. O come turi­sta, come sug­ge­rito in que­sti anni dagli stessi ver­tici di Expo 2015 e dai poli­tici ita­liani.

Un bel reportage in diretta dalla mecca dell'innovazione tecnologica globale, dove la ricerca di soluzioni avanzatissime a certi problemi pare corrispondere a indifferenza rispetto ad altri. La Repubblica 4 maggio 2014, postilla (f.b.)

SAN FRANCISCO – Se il nostro futuro sta nascendo qui, finora si è ben nascosto. Ritorno a guidare sull’autostrada 101, che da San Francisco verso Sud attraversa la Silicon Valley. Ora che abito a New York, mi colpisce di più ciò che davo per scontato quando vivevo qui: la banalità. Incolonnato nel traffico denso e monotono a 55 miglia orarie obbligatorie, vedo scorrere ai due lati un paesaggio fatto di insegne dei fast food McDonald’s e Taco Bell, di ipermercati Costco, Home Depot e Office Max, benzinai, concessionari d’auto, magazzini, depositi. La Highway 101, leggendaria nel mondo intero perché attraversa la più alta concentrazione di tecnologia, innovazione e ricchezza, ha partorito negli ultimi quarant’anni tutte le rivoluzioni del nostro tempo: dall’elettronica all’informatica, da internet ai social network. Eppure potrei essere sul raccordo anulare di Dallas o di Atlanta, in qualunque sconfinata periferia americana: stesse insegne sempre uguali, stesso anonimato. La standardizzazione della bruttura.

Poi il paesaggio s’ingentilisce, con palmizi rigogliosi sotto il sole californiano, giardini e parchi ben curati, quando abbandono l’autostrada e mi addentro nelle cittadine, da Palo Alto (Stanford University) in giù. Immersi nel verde, tuttavia, i quartieri generali dei Nuovi Padroni dell’Universo sono anch’essi una delusione garantita. A Menlo Park, al numero uno della Hacker Way, diverte l’ironia della toponomastica (è come se i banchieri newyorchesi avessero ribattezzato Wall Street la Via dei Predoni), ma è l’unico guizzo di fantasia: a parte il nome della strada, il quartier generale di Facebook è segnalato solo da un cartello col pollice rivolto in alto, il segno “like” (mi piace) del social network. Non fosse per le tante auto Tesla elettriche da cinquantamila dollari che ricaricano le batterie (gratis) nel parking aziendale, l’anonimo edificio di mattoni rossi è un casermone squadrato che potrebbe ospitare un scuola o la posta. Proseguo il mio viaggio fino a Cupertino, che mi accoglie come una città sino-coreana: le insegne dei negozi pubblicizzano ristoranti asiatici, massaggio dei piedi, corsi di taekwondo, serate karaoke, e la filiale della Cathay Bank. Prima ancora di arrivare al mitico numero uno dell’Infinite Loop (“cerchio infinito”) mi rendo conto che Apple si è appropriata di questa cittadina come una metastasi: occupando via via tutti i palazzi di uffici lungo il De Anza Boulevard. Una crescita a casaccio, senza un filo conduttore, senza una linea estetica. Che vergogna, per un’azienda che nel design dei suoi prodotti ha imposto la sublime eleganza zen come tratto distintivo.

Certo la banalità della Silicon Valley scompare quando varchi le porte d’ingresso e penetri nei luoghi di lavoro. Googleplex sembra un villaggio vacanze per hippy, con ragazzi in bermuda e infradito che giocano a beachvolley. Le sue celebri mense salutiste (che furono fondate dall’ex cuoco della rock band Grateful Dead) sono ubique, ispirate dall’idea che “nutrirsi deve essere un divertimento gratuito”, i magnifici giardini sono essenziali per incoraggiare la “biofi- lia”, l’amore della natura che “è la migliore cura antistress”. L’unico dei giganti digitali che ha scelto di rimanere in città (a San Francisco) cioè Twitter, ti accoglie in uffici dove ha abolito i telefoni fissi, le pareti e le porte, dove la reception d’ingresso è un “nido” (i tweet sono cinguettii di uccelli), dove le riunioni strategiche conservano quel tono d’improvvisazione giovanile che serve a ribadire un concetto: nulla è permanente, nulla è codificato e gerarchizzato, la vita nell’economia hi-tech è un flusso di cambiamento incessante.

Non sono certo il primo a notare che la Silicon Valley è una gran delusione estetica. L’esteta capo, Steve Jobs, lo avvertì come una sconfitta personale. Quattro mesi prima di morire, nel giugno 2011, il fondatore di Apple si presentò alla seduta del consiglio comunale di Cupertino con un annuncio clamoroso: la costruzione di un nuovo quartier generale. Affidato a una delle archistar globali, l’inglese Sir Norman Foster celebre per monumenti grandiosi come il Nido d’Uccello (Pechino, Olimpiadi 2008) e il Reichstag di Berlino. Jobs si presentò all’amministrazione cittadina col progetto già bell’e pronto. Il disco volante, o l’astronave, l’hanno chiamato. Un disco gigantesco, appoggiato in mezzo al verde, di dimensioni colossali: il più grande e costoso (cinque miliardi di dollari) edificio d’America, più ampio del Pentagono. Potrebbe contenere cinque stadi di football, ci staranno diecimila dipendenti. Fu l’ultimo grande sogno di Jobs, orchestrato con cura, fino alla presentazione spettacolo che fece ricordare le sue performance al lancio dei nuovi prodotti di Apple.

E così da quel giugno 2011 la Silicon Valley ha deciso di redimersi, di riscattare la propria banale bruttezza. Scatenata da Jobs, è partita subito la gara dell’emulazione di tutti gli altri. Il centro mondiale delle tecnologie, dopo avere generato la più vasta ricchezza capitalistica in un arco di tempo così breve (nessun altro distretto industriale nella storia ha raggiunto in pochi anni la capitalizzazione di Borsa di Apple più Google più Facebook più Twitter eccetera), ora vuole lasciare un segno durevole anche nel paesaggio. Come Bill Gates arrivato alla maturità s’innamorò del Rinascimento italiano, così tutta l’economia digitale scopre il mecenatismo a fini estetici. La Silicon Valley avrà le sue piramidi, la sua valle dei templi.

Appena divulgato il progetto Jobs-Foster, immediatamente Facebook si è messa alla rincorsa. Il fondatore Mark Zuckerberg ha ingaggiato un’altra archistar, l’americano Frank Gehry. Il cui progetto, volutamente, è una sorta di anti-Foster. Mentre il vascello spaziale di Apple sarà imponente e ingombrante, smisuratamente visibile da lontano, al contrario la nuova sede Facebook disegnata da Gehry vuole scomparire nella natura. Imitando il museo di scienze ambientali di Renzo Piano a San Francisco, Gehry ha adottato la soluzione del “tetto verde”: il campus Google sarà semi-interrato, interamente coperto di vegetazione, sotto giardini pensili che lo assorbiranno e lo mimetizzeranno.

Google ha lanciato il suo progetto pochi mesi dopo Facebook. I fondatori Sergey Brin e Larry Page hanno esaminato vari progetti concorrenti, scartandone uno dell’architetto tedesco Christoph Ingenhoven, per selezionare una società di design di Seattle, la Nbbj. «La sfida — spiega l’esperto di architettura Paul Goldberger — è molto ardua. I giganti delle tecnologie digitali hanno sconvolto e rivoluzionato ogni altro aspetto della nostra vita quotidiana, resta da vedere se possano avere un impatto altrettanto potente sull’ambiente urbanistico e la costruzione ». Un aspetto colpisce Goldberger. Le piramidi dei nuovi faraoni della nostra epoca, pur diverse come lo sono i progetti di Foster e Gehry, sembrano avere una cosa in comune: «Guardano verso se stessi, sono degli ambienti auto-sufficienti, più simili ai campus universitari che alle città, anzi del tutto scollegati dalle cittadine attorno».

Tutto accadrà molto in fretta, le cattedrali della Silicon Valley sorgeranno entro il 2016. La velocità non fa difetto, da queste parti. E allora il pellegrinaggio in quest’angolo della California ci offrirà emozioni nuove, forse anche una chiave di lettura aggiuntiva sull’ideologia dei faraoni digitali. L’informalità e la mediocrità estetica si addiceva alla fase pionieristica: dopotutto questi giovani cervelli hanno quasi sempre cominciato a reinventare il mondo dentro un garage. Ora che del mondo sono diventati i padroni, devono decidere che forma dargli.

postilla


Più che simili a campus universitari, i parchi uffici delle mega-imprese tecnologiche assomigliano alla cittadella suburbana ripiegata su sé stessa da cui l'idea di campus discende. E la vera questione, di cui Rampini cita solo l'aspetto secondario dell'anonimato di un territorio architettonicamente seriale, è l'impatto ambientale dello sprawl fatalmente indotto da questo modello organizzativo: di qui i parchi uffici aggrappati all'autostrada, di là i baccelli chiusi delle aree residenziali cul-de-sac socialmente omogenee, di là ancora i servizi e il commercio a offrire quella caricatura di spazio pubblico e di relazione creata via via dal novecento automobilistico. Il tono minaccioso con cui Steve Jobs presentava a Cupertino il progetto di astronave suburbana di Foster, spiegando al consiglio comunale “o me lo accettate così, o me ne vado altrove con la sede”, non riguardava tanto le forme architettoniche, ma proprio quel genere di zoning esclusivo che tutti additano come colpevole di tante cose, incluso il cambiamento climatico da emissioni. Le amministrazioni locali della California stanno cercando da anni con alcune leggi urbanistiche di arginare questa deriva, promuovendo nuclei urbani polifunzionali più densi e adatti alla mobilità dolce e pubblica, ma faticano assai nello scontro con questi innovatori ma non troppo, rigorosamente a modo loro. Pur di rifugiarsi nel vecchio american dream delle sicurezze infantili, Steve Jobs ha inventato la Macchina del Tempo (f.b.)

«Lo sciacallaggio intensivo del Rinascimento è l’unica economia della città, e guai a chi dice che ormai la vacca non solo stramazza dalle mungiture, ma è anzi prossima alla macellazione o sciacallaggio intensivo del Rinascimento è l’unica economia della città, e guai a chi dice che ormai la vacca non solo stramazza dalle mungiture, ma è anzi prossima alla macellazione». Il Fatto Quotidiano, 3 maggio 2014

«Gli Uffizi sono una macchina da soldi, se li facciamo gestire nel modo giusto», ha dichiarato Matteo Renzi il 29 novembre 2012. A giudicare da quel che si è visto giovedì sera a Servizio Pubblico, almeno quest’unico punto del programma dell’ex sindaco di Firenze si è avverato: nel celebre palazzo vasariano, un invalicabile muro di corpi traspiranti preclude ogni possibilità di vedere le opere d’arte.

Il limite di sicurezza prevede la compresenza di 980 persone al massimo. Nelle scorse settimane, dipendenti e giornalisti ne hanno contate invece almeno fino a punte di 3.500. Meglio non chiedersi cosa sarebbe successo nel caso di un’evacuazione d’emergenza. No, è una novità: negli ultimi anni si sono susseguiti esposti e denunce, soprattutto da parte dei sindacati dei dipendenti, ma senza sortire alcun effetto: lo sciacallaggio intensivo del Rinascimento è l’unica economia della città, e guai a chi dice che ormai la vacca non solo stramazza dalle mungiture, ma è anzi prossima alla macellazione. Ci vogliono un Leonardo distrutto o un turista morto per far capire che gli Uffizi sono sul punto di esplodere?

La faccia della soprintendente Cristina Acidini, di fronte alle telecamere di Santoro, è la risposta: non sento, non vedo, non parlo. D’altra parte, un processo della Corte dei conti chiede 600.000 euro di danno erariale alla signora, che nel 2009 ha fatto comprare allo Stato un crocifisso ligneo attribuito a Michelangelo e prezzato da lei stessa. E se nessuno dei cinque ministri che si sono succeduti da allora ha pensato bene di destinarla ad altro incarico è anche perché la Acidini garantisce il rapporto di ferro che lega il Polo Museale al concessionario, che è Opera Laboratori Fiorentini, di Civita Cultura (presidente Luigi Abete), a sua volta parte di Associazione Civita (presidente Gianni Letta). Tanto che il portavoce del concedente (cioè il Polo Museale) è un ex giornalista del Giornale della Toscana di Denis Verdini, ora dipendente di Opera: un portavoce a cui la Acidini ha addirittura consentito di curare un’incredibile mostra di documenti storici a Palazzo Pitti.

Il legame tra Opera e Polo è ormai cementizio: la concessione risale nientemeno che al 1996, ed è andato avanti di proroga in proroga, alla faccia della libera concorrenza. Ed è Opera a staccare i biglietti per gli Uffizi, e dunque a governarne gli accessi e a decidere la sorte delle opere, la condizioni della visita, lo stato reale della sicurezza. In verità, la legge Ronchey prevede che si possa (ma non che si debba) cedere a un privato for profit come Opera la biglietteria di un museo come gli Uffizi. E le immagini di Servizio Pubblico dimostrano che non è una buona idea dare le chiavi del nostro patrimonio culturale a chi non ha altra bussola che il proprio profitto. Perché il risultato è la socializzazione delle perdite e la privatizzazione degli utili: incassando a percentuale, il concessionario ha interesse a farcire il museo come il tacchino del Ringraziamento, senza curarsi dell'usura delle opere, del drastico abbassamento della qualità della visita, e del rischio sicurezza.

E non è solo un problema di biglietti. Nello scorso dicembre, i lavoratori del Polo hanno contestato la decisione dell'Acidini di affidare le visite guidate del Corridoio Vasariano alla solita Opera. Essi fecero notare che i dipendenti pubblici erano più che capaci di gestire da soli la cosa, il che avrebbe evitato le assurde tariffe del servizio privatizzato con Civita: 34 euro a prezzo pieno, 25 il ridotto e 16 il... gratuito! Ma nonostante tutto, si continua a perseverare sulla strada della “macchina da soldi”. Nemmeno le immagini girate in galleria hanno indotto Philippe Daverio (ospite di Santoro) a cogliere il punto: il noto divulgatore ha pensato bene di ripetere che gli Uffizi dovrebbero fare i numeri del Louvre. Qualcuno dovrebbe spiegargli che il Louvre è quasi 12 volte più grande degli Uffizi per dimensioni fisiche e ha un numero di opere d'arte che è circa 76 volte quello degli Uffizi. Considerando che i visitatori del Louvre sono solo 5 volte più di quelli degli Uffizi, dovremmo piuttosto meravigliarci che non ci sia stato ancora il morto. Al contrario, nei 44 punti che strutturano la sua “rivoluzione” della Pubblica amministrazione, Renzi ha incluso l'idea di introdurre “una gestione manageriale nei poli museali”: il che vuol dire continuare a badare solo ai profitti (sperando almeno che siano pubblici), e non alla sostenibilità culturale e alla sicurezza dei lavoratori e dei visitatori dei musei. Chissà se Renzi si è mai chiesto perché da 20 anni gli Uffizi non appartengono più ai fiorentini, che ci mettono piede solo da bambini e poi si tengono alla larga da quella specie di pericoloso bagno turco sontuosamente decorato.

Il Fatto Quotidiano, 2 maggio 2014 (m.p.r)

L’Isola di Poveglia è un pallino di sette ettari nella Laguna Veneta, fino a tre settimane fa non interessava nessuno. Nella cartografia delle follie italiane oggi occupa invece una posizione di prima grandezza. Il fatto è che intorno a questo lembo di terra, abbandonato e buono per storie di fantasmi, succedono cose decisamente paranormali. Dopo anni di disinteresse, lo Stato proprietario ha definitivamente appeso la ragione al chiodo dell’incasso e l’ha messa all’asta, come fosse un quadro. Potrebbe diventare l’ennesimo albergo cinque stelle, accessibile solo a danarosi clienti come avvenuto già nella vicina isola di San Clemente, alle Grazie e all’atollo di Sacca Sessola. Follia pura. Ma ecco che i veneziani meno arresi si sono candidati a sventare l’operazione con un’altra follia: comprarsi tutti un pezzetto dell’isola per impedire la speculazione a favore di pochi, privatizzare un bene pubblico perché resti tale, a disposizione di ciascuno.

L’avventura inizia come una provocazione in una bar della Giudecca. In poche ore l’affare utopico si rivela contagioso e la notizia fa il giro del mondo. Ne parlano il Times, il New York Times, il Guardian, lo Spiegel, la tv francese e tanti altri. Molti mettono mani al portafogli per ricomprare collettivamente qualcosa che era già loro: in meno tre settimane l’associazione “Poveglia per tutti” raccoglie oltre 3mila sottoscrizioni, più alcune donazioni superiori alla quota minima. Ed è una notizia incoraggiante per i suoi promotori. Per essere ammessi alla seconda fase, quella del rilancio, si stima servano circa 350-400mila euro. Grossomodo il valore minimo ipotizzato dal Demanio. Il bando per partecipare scade tra quattro giorni. Migliaia di potenziali micro-proprietari aspettano col fiato sospeso, gli altri dovranno affrettarsi. Il countdown, è ormai iniziato.

Il motto dell’associazione è “99X99″, tanti euro necessari alla sottoscrizione minima quanti gli anni di durata massima della concessione. Funziona così. In caso di vittoria Poveglia sarà trasformata in un giardino lagunare liberamente accessibile a tutti, svincolato da regole di produttività. Tutti gli utili eventuali saranno reinvestiti sull’isola stessa. Sarà poi gestita in modo no-profit ed eco-sostenibile. La quota sottoscritta darà diritto a partecipare equamente alle decisioni sulle sorti di Poveglia, mai a una qualche forma si partecipazione agli utili, né a quote azionarie e né a fonte di privilegio per gli associati. Se viceversa l’aggiudicazione non andrà in porto, al momento del rientro del deposito cauzionale la quota di sottoscrizione straordinaria di 80 euro sarà restituita ai soci mentre i restanti 19 saranno serviti per coprire le spese di registrazione dell’associazione, del conto corrente, di partecipazione al bando. Il comitato e gli altri eventuali compratori avranno tempo fino al 6 maggio. Passeranno alla fase di rilancio solo le cinque migliori offerte economiche.

Comunque vada la sfida è stata in parte già vinta. Almeno come esperimento sociale di riappropriazione della cosa pubblica attraverso l’azionariato e la mobilitazione popolare. Alla prima serata di presentazione dello strano gruppo d’acquisto le adesioni sono state tali da superare i 20mila euro necessari a partecipare alla gara e l’associazione ha raccolto intorno a sé un centinaio di volontari tra professionisti ed esperti in varie materie. Si è scoperto così, grazie al gruppo tecnico, che in realtà il piano regolatore di Venezia prevede che il 30% della superficie delle isole resti ad uso pubblico. Anche di quelle in mano a privati che respingono malamente i veneziani che tentano l’approdo a luoghi da sempre pubblici ma privatizzati di punto in bianco, sempre a favore del miglior offerente.

La corsa al tesseramento è stata un crescendo, grazie a una decina di banchetti di raccolta tra Venezia, Lido e Mestre e al sito “message in a bottle”. Sono arrivate anche adesioni da parte di turisti stranieri e di personalità della cultura, come lo scrittore Giancarlo De Cataldo e l’esperto di storia veneziana e di misteri Alberto Toso. E tra i misteri regna sovrano il disinteresse dello Stato per un luogo che ha un’importante storia alle spalle. L’ottagono fortificato che protegge l’isola è il suo biglietto da visita: risale al 1380 ed è il più antico dei cinque presenti in Laguna. Se ne sono occupati, invece, i format-spettacolo anglossassoni che hanno sfruttato la fama di Poveglia come isola maledetta, abitata da fantasmi, che è poi una suggestione dello stato di abbandono che si salda alle funzioni cui l’isola è stata destinata nel tempo, di lazzaretto prima, cronicario per lungo degenti e sanatorio psichiatrico fino al 1979. Sono approdati qui cameramen, fotografi e giornalisti da tutti i continenti, attratti dall’immagine di struggente decadenza della vegetazione che si riprende a forza le antiche mura, in un groviglio di riflessi romantici e terribili sullo specchio d’acqua. Certo, nessuno avrebbe immaginato che un giorno questo gioiello dimenticato, buono per una cartolina e un pomeriggio a occhi spalancati, sarebbe stato battuto all’asta come un quadro.

Ma la vicenda è apertissima. Da ultimo, quasi fuori tempo massimo, è arrivata l’adesione del sindaco, Giorgio Orsoni. Il Comune di Venezia ha certificato, dopo aver incontrato l’associazione, l’intenzione di sostenere apertamente “Poveglia per tutti”. A ilfattoquotidiano.it Orsoni racconta che sono in corso tentativi di intercettare l’isola a ldilà dell’esito della gara, attraverso il meccanismo del trasferimento di beni storici e architettonici nell’ambito del federalismo demaniale. “Le due strade non sono alternative – spiega Orsoni – hanno l’obiettivo di assicurare l’isola alla città e scongiurare usi impropri che possano derivare dall’aggiudicazione della gara”. Il bando, del resto, prevede che la commissione valuti anche l’interesse pubblico dei progetti. Ma cosa sia esattamente non è poi così chiaro, visto che il primario interesse dello Stato era fare più soldi possibile.

Il direttore generale del patrimonio immobiliare dello Stato, Stefano Maranga, non può che dire: “Bella iniziativa. La valuteremo con tutte le altre”. I manager di Stato si sono affrettati a precisare che “non sarà valutato un progetto d’uso. Solo la migliore offerta: gara telematica senza base d’asta”. Affermare o fare il contrario, del resto, sarebbe rischioso: una forzatura non ben congegnata potrebbe invalidare la gara dando titolo a richieste di risarcimento da parte dei concorrenti esclusi. Perché di paranormale, alla fine della storia, c’è anche questo: è ormai evidente dove l’interesse pubblico alberghi davvero, anche oltre il microcosmo di Venezia e pure fuori dall’Italia. Tocca vedere, a questo punto, se a Roma vorranno e sapranno sbrogliare l’inghippo per raccogliere il messaggio nella bottiglia che galleggia in Laguna. Con un carico di migliaia di sottoscrizioni.

Anche il Fatto Quotidiano ha sottoscritto la sua quota e incidentalmente ha ricevuto la tessera n.666. Un avvertimento per quel diavolo d’un Demanio: perfino i suoi fantasmi difendono Poveglia!

Il manifesto, 3 maggio 2014 (m.p.r.)

L’identità di un popolo si fonda, da una parte, sul vin­colo di valori comuni e, dall’altra, sull’ accet­tazione di un pas­sato con­di­viso. La memo­ria cul­tu­rale fa da ponte con l’oggi, favo­rendo – secondo la defi­ni­zione dell’egittologo tede­sco Jan Ass­man – la «strut­tura con­net­tiva» di una società. La rimo­zione del ricordo, dun­que, ci rende non solo più poveri di sapere ma ci con­danna a una pena ben più one­rosa: la per­dita del senso di appar­te­nenza, l’incapacità di tra­sfor­mare l’immagine del sé in noi. Tale pro­cesso, osser­va­bile anche nell’Italia che boi­cotta gli studi clas­sici e svi­li­sce il suo patri­mo­nio storico-artistico, è ancor più accen­tuato in paesi dove una tri­ste sequenza di con­flitti e atti ter­ro­ri­stici ha lasciato ferite aperte e traumi inde­le­bili, che si vor­reb­bero can­cel­lare con l’artificio della menzogna.

Camus in cerca di radici.
In Alge­ria, l’instaurazione di un’ideologia nazio­na­li­sta post-indipendenza, ha por­tato al disco­no­sci­mento dell’eredità romana, nega­ti­va­mente asso­ciata alle esplo­ra­zioni otto­cen­te­sche delle truppe fran­cesi e al rap­porto – spesso infe­lice – tra il Magh­reb e l’Europa. Il rifiuto delle radici latine è fun­zio­nale all’elaborazione di un’identità fit­ti­zia, che prende le distanze dal colo­nia­li­smo ed esclu­dendo dalla pro­pria Sto­ria i non-arabi e i non-musulmani, pro­voca una muti­la­zione cul­tu­rale. Quella che Albert Camus – agli inizi della sua car­riera let­te­ra­ria – ebbe l’ansia di col­mare, resti­tuendo la con­so­la­zione dei miti a un popolo che sem­brava esau­rirsi nel pre­sente. Le parole del cele­bre filo­sofo esi­sten­zia­li­sta risplen­dono su una stele ele­vata dai suoi amici sullo sfondo del monte Che­noua, tra l’azzurro del mare e il giallo caldo delle pie­tre di Tipasa: «Io com­prendo, qui, ciò che chia­miamo glo­ria: il diritto di amare senza misura».
Fu infatti nell’essai Nozze a Tipasa (1938) – nar­ra­zione nostal­gica della gio­vi­nezza tra­scorsa in Alge­ria – che Camus esaltò lo spo­sa­li­zio delle rovine con la pri­ma­vera, nella cui armo­nia con­fessò di aver tro­vato la misura pro­fonda di sé. In un suc­ces­sivo rac­conto – pub­bli­cato nel 1953 e inti­to­lato Ritorno a Tipasa – affiora invece la disil­lu­sione dinanzi alla scon­fitta della bel­lezza, al filo spi­nato soprag­giunto a cir­con­dare i ruderi alla stre­gua delle tiran­nie, della guerra e della morale, venute a chiu­dere per sem­pre l’età dell’innocenza. Inse­rita dal 1982 nella lista del patri­mo­nio dell’umanità, l’antica città romana di Tipasa – impian­ta­tasi sul luogo di un empo­rio feni­cio – si sta­glia su due col­line roc­ciose, sepa­rate dal porto di epoca moderna.
La sparizione di Tipasa.
Una rigo­gliosa vege­ta­zione arbo­rea adorna strade e monu­menti, accom­pa­gnando il visi­ta­tore sulle alture del foro e fino al pro­mon­to­rio che guarda a Occi­dente. Là, verso l’orizzonte del Medi­ter­ra­neo, si affac­ciano alteri i resti della Villa degli Affre­schi e le arcate delle basi­li­che paleo­cri­stiane: «c’è un tempo per vivere e un tempo per testi­mo­niare di vivere», scri­veva ancora Camus in Nozze. Ed è amaro con­sta­tare come, a Tipasa, il valore della testi­mo­nianza non sia ade­gua­ta­mente pre­ser­vato. Nel 2002, a causa del degrado e della cre­scente spe­cu­la­zione edi­li­zia, il sito venne segna­lato dall’Unesco fra quelli in peri­colo di dispa­ri­zione e a tutt’oggi il rischio non è stato scon­giu­rato. All’ingresso del parco, la costru­zione di un risto­rante insi­nua con pre­po­tenza le volte di un com­plesso ter­male. Nell’attiguo giar­dino archeo­lo­gico, stele riverse, bas­so­ri­lievi sfi­gu­rati e capi­telli sor­mon­tati da rifiuti mostrano la mise­ria del van­da­li­smo e dell’incuria. Sulla col­lina orien­tale – detta di Santa Salsa, dal nome della mar­tire che, secondo la leg­genda, vi fu sepolta nel IV sec. d.C. – si svi­luppò una delle più vaste necro­poli della tarda anti­chità: un’immensa distesa di sar­co­fagi aperti al vento, ora meta indi­stur­bata di bivacchi.
Lace­rata dalle distru­zioni e dagli scon­vol­gi­menti urba­ni­stici dell’occupazione fran­cese, anche la città numida di Iol – riba­tez­zata Cae­sa­rea da Giuba II in onore dell’imperatore Augu­sto e capi­tale della Mau­re­ta­nia Cesa­riense sotto Cali­gola – sem­bra aver ceduto l’anima all’oblio. Per­sino le sta­tue delle divi­nità che ne deco­ra­rono un tempo i son­tuosi edi­fici, sof­fo­cano nel cel­lo­fan di restauri mai ulti­mati. Stessa sorte – nella dimen­ti­canza – affligge Lam­bae­sis, for­ma­tasi nel I secolo d.C. come distac­ca­mento della legione III Augu­sta e sede del comando mili­tare romano in Africa. Il muni­ci­pium di vete­rani, dive­nuto colo­nia sotto Set­ti­mio Severo, è asse­diato da cespu­gli e rovi che ne occul­tano muri e mosaici.
A metà del XIX secolo, sulle vesti­gia del castrum fu edi­fi­cato un peni­ten­zia­rio e oggi solo il cosid­detto pre­to­rio si eleva gran­dioso dalle ster­pa­glie, quasi a sfi­dare l’indifferenza. Con cadenza annuale, i siti di Cuicul/ Dje­mila e Tha­mu­gadi/Timgad – entrambi insi­gniti del pre­sti­gioso «mar­chio» Une­sco – bal­zano invece agli onori della cro­naca. Attra­verso l’organizzazione di eventi musi­cali, il Mini­stero della Cul­tura per­se­gue uffi­cial­mente l’obiettivo di sen­si­bi­liz­zare le popo­la­zioni locali alla pro­te­zione del patri­mo­nio archeo­lo­gico. Il discu­ti­bile scopo peda­go­gico di tali ini­zia­tive ha però avuto, fino adesso, esiti controproducenti.
L’installazione di un’impalcatura di metallo e cemento sul piaz­zale dei Severi durante il Festi­val di Dje­mila ha arre­cato danni incom­men­su­ra­bili. Il più cla­mo­roso è il crollo par­ziale della sca­li­nata del tem­pio dedi­cato alla gens Sep­ti­mia.Mal­grado nel 2012 le pro­te­ste di nume­rosi atti­vi­sti della società civile por­ta­rono alla delo­ca­liz­za­zione della ker­messe nella vicina Sétif, nel 2013 gli spet­ta­coli si sono svolti nuo­va­mente a Cui­cul. E se per il Camus de Il Vento a Dje­mila (1939) il mondo fini­sce sem­pre per vin­cere sulla Sto­ria, di «que­sto grande grido di pie­tra che Dje­mila getta tra le mon­ta­gne, il cielo e il silen­zio» sen­tiamo anche noi la dispe­ra­zione e la malin­co­nica poesia. Nono­stante le appas­sio­nate bat­ta­glie che l’archeologa Nacéra Ben­sed­dik porta avanti da decenni, un destino di cemento si è abbat­tuto sul sito di Tha­mu­gadi, che dal lon­tano 1967 acco­glie il Festi­val di Tim­gad. Col pre­te­sto della sicu­rezza (un rap­porto dell’Unesco datato al 2009 sot­to­li­neava già i rischi di un afflusso mas­sic­cio di visi­ta­tori in occa­sione della ras­se­gna) una copia della scena del tea­tro romano è stata innal­zata su un’area non sca­vata, pre­giu­di­cando future ricerche.
Labili tracce.
Non meno gra­ve­mente, l’abuso edi­li­zio ha sfi­gu­rato il pae­sag­gio pre­de­ser­tico dei monti Aurès che incor­ni­ciano la colo­nia di Tra­iano, una fra le più mae­stose e sedu­centi Roma d’Africa. Nes­suna indul­genza nean­che per Ippona – cele­brata col nome di Hippo Regius, la Reale – dove s’incamminarono gli ultimi passi del vescovo Ago­stino, dot­tore e padre della Chiesa. Pro­prio qui, nel 1996, fu tra­fu­gata la maschera in marmo bianco di una Gor­gone di tre­cen­to­venti chi­lo­grammi di peso. Ritro­vata nel 2011 in Tuni­sia nell’abitazione di Sakhr el Materi, genero del depo­sto dit­ta­tore Zine El-Abidine Ben Alì, la scul­tura non ha ancora fatto ritorno nel luogo di origine.
Fin dal 1972, l’Algeria ha rati­fi­cato la Con­ven­zione sulla pro­te­zione del patri­mo­nio mon­diale adot­tata dall’Unesco ma l’incoerenza nell’applicazione del codice non si mani­fe­sta sol­tanto a svan­tag­gio delle città romane. Nel Sahara occi­den­tale, le pit­ture e inci­sioni rupe­stri del Tas­sili n’Ajjer risa­lenti al neo­li­tico stanno scom­pa­rendo per la man­canza di pro­te­zione dagli agenti atmo­sfe­rici e dai cri­mini di deva­sta­zione volon­ta­ria, men­tre a Nord i carat­te­ri­stici mau­so­lei numidi di Imed­ghas­sen, La Chre­tienne e Siga subi­scono l’onta dell’abbandono.
Se in que­sti ultimi casi è evi­dente il disprezzo dello stato alge­rino per le cul­ture tua­reg e ber­bera con­si­de­rate estra­nee alla «purezza» araba, nella Casbah di Algeri – luogo sim­bolo della bat­ta­glia per l’indipendenza – ben cin­que­cen­to­cin­quan­ta­quat­tro edi­fici ver­sano in stato di degrado avan­zato e centottant’otto sono in con­di­zioni di estrema pre­ca­rietà. Sem­pre nella capi­tale, la costru­zione di una fer­mata della metro­po­li­tana nella Place des Mar­ty­res ha com­pro­messo lo stu­dio e la con­ser­va­zione delle già labili tracce dell’antica Ico­sium, abbat­tuta dai con­qui­sta­tori otto­mani e poi fran­cesi. Esclusa dalle recenti rivo­lu­zioni arabe, l’Algeria ha man­cato la sua pri­ma­vera. I risul­tati delle pre­si­den­ziali del 17 aprile, con la rielezione-farsa di Abde­la­ziz Bou­te­flika – al potere dal 1999 e assente dalla scena pub­blica dal 2012 a causa di una malat­tia – hanno inferto l’ennesimo colpo alla spe­ranza di una svolta democratica.
Il forte asten­sio­ni­smo e le vio­lente con­te­sta­zioni scop­piate in occa­sione del voto nella regione della Kaby­lia get­tano nuove ombre sull’avvenire. Anche per que­sto la tutela del patri­mo­nio dovrebbe essere affi­data, ancor prima che a leggi effi­caci, a un revi­sio­ni­smo delle radici. Una libe­ra­zione com­piuta, che renda gli alge­rini depo­si­tari coscienti e respon­sa­bili del pro­prio passato.

Flâner, dicono i francesi. Anche se la tesi dell'Autore è che in fondo noialtri si ragiona coi piedi, interpretandolo in modo solo un pochino più esteso si arriva a un principio ovvio di urbanistica, che forse non val la pena ricordare. Corriere della Sera, 3 maggio 2014, postilla (f.b.)

Aveva ragione mio nonno Aurelio quando diceva che solo i piedi danno fiato al cervello, non era un gran lettore ma fosse nato un secolo prima avrebbe fatto volentieri compagnia a quell’omone barbuto di Charles Dickens accanito camminatore in cerca di ispirazione. Nonno Aurelio sosteneva che 50 passi erano sufficienti per scansare un guaio, 500 per avere un’idea decente e 10.000 per una rivoluzione. A Dickens ne bastavano un migliaio per risolvere un’empatia con un personaggio o sgominare un’ingiustizia tra le pagine scritte mentre passeggiava per la sua Londra notturna.

Chissà se avevano capito tutti e due la piccola alchimia del moto senza luogo, quella specie di incoscienza che lega una persona in movimento e la mancanza di un punto d’arrivo. In un modo o nell’altro entrambi mi inculcarono il segreto del camminare a zonzo verso qualcosa che non c’è e assomiglia a una cometa: è il processo che rigenera l’immaginazione e che invoco se la scrittura si blocca. Così, nel mezzo della disperazione, chiudo il computer e mi affido all’anarchia dei piedi che sanno trovare il bandolo della matassa. I primi cento metri sono di sconforto totale, poi qualcosa accade ed è una specie di coscienza che le gambe acquisiscono sottraendola alla testa. C’è una clausola fondamentale che vieta cellulari, MP3 e altre compagnie artificiali, nemici acerrimi e invincibili della camminata creativa.

Gambe intelligenti, cervello stolto: il miracolo passa da questa condizione stramba che mi ha tolto parecchie castagne dal fuoco, anche un vicolo cieco in cui mi ero cacciato nel mio ultimo romanzo. Il problema stava nel protagonista, avevo in mente un portinaio che usava le chiavi di riserva di un condomino per entrare segretamente nel suo appartamento, mi mancava il cuore dell’azione. Serviva un movente totale, cosmico, assoluto, ero certo che fosse già in un angolo del mio ipotalamo, corteccia cerebrale, emisfero destro o sinistro, dovevo solo scovarlo. Per farlo mi annotavo schemi, rovistavo nei ricordi, mangiucchiavo liquirizie, ammiravo rovesci di Federer, scribacchiavo incipit e facevo suonare musica folk, mi ero dimenticato che tutto questo era destinazione forzata. Le idee rifiutano le destinazioni, pretendono il vuoto. Invocai mio nonno e sgattaiolai fuori tra lo smog di Milano, passeggiai per il quartiere di porta Romana e giù verso Missori, attraversai il Duomo in direzione Scala, e verso Brera, e su per corso Garibaldi fino alla chiesa dell’Incoronata. Lì, poco prima che l’isola pedonale diventi traffico, mi sedetti su una panchina e mi accorsi di un uomo su un balcone che insegnava a un ragazzino a innaffiare i gerani. Il ragazzino lo fece con pazienza e quando finì disse «Mica sono una femmina, papà». Lo vidi rientrare in casa, mi alzai e feci una cinquantina di passi, poi l’avvertii: la cometa. Il romanzo aveva trovato il movente.

Tradii la camminata per un trotto, avevo fretta di arrivare a casa e annotarmi l’epifania come avrei fatto con le altre che sarebbero venute, figlie di gambe lente e svogliate, sempre senza bussola: nel tempo ho scoperto che i piedi amano stupirsi, più battono strade nuove più accendono neuroni, e sono abitudinari solo per l’ora. Preferiscono sgranchirsi in un momento della giornata che ricorre. Per Immanuel Kant il momento giusto era dalle due e trenta pomeridiane alle tre e cinquantaquattro, non un minuto di più. Circa il mio orario. Per mio nonno era di prima mattina, per Dickens dopo le undici della sera. Per tutti è il camminare senza testa, ormai estinto, che fa la differenza: può valere un guaio scansato, un’idea decente, una rivoluzione.

postilla
Einstein ricordava spesso che l'intuizione alla base della teoria della relatività gli era venuta pedalando in bicicletta, e qui volendo nascerebbe immediatamente la polemica tra pedoni e ciclisti, su quale genere di aerazione del cervello favorisce di più le idee geniali: un flusso costante a circa 5-7kmh oppure i più fugaci sbuffi delle falcate da un angolo di isolato all'altro o tra le panchine di un giardino? Oltre le facili battute, forse è bene ricordare quanto le immagini urbane complesse moderne derivino proprio dal genere di osservazione soggettiva che, da Baudelaire, a Benjamin, attraverso William H. Whyte e Kevin Lynch, arriva sino al massimo teorico contemporaneo delle pedonalizzazioni, ovvero Ian Gehl (che riconosce esplicitamente i suoi maestri). E non serve certo un lungo ragionamento per ricordarsi quanto il piegare gli spazi urbani alle pure necessità meccaniche del trasporto motorizzato abbia finito per ottundere certe funzioni complesse dei cittadini, magari non necessariamente geniali, e però indispensabili da recuperare alla svelta con adeguate politiche. Come quella particolarmente innovativa, non a caso promossa dal settore Trasporti della città di Los Angeles, cresciuta sulla mobilità automobilistica ma più che mai ansiosa di recuperare Cittadini da Marciapiede (f.b.)

Un appello sottoscritto anche da eddyburg perchè la ricostruzione poster remoto in Emilia, rispetti i centri storici e si adegui al principio del "com'era, dov'era", così come è successo dopo la guerra e dopo il terremoto del Friuli. Corriere on-line, 2 maggio 2014 (m.p.g.)
Ad un anno dallo straordinario 5 maggio 2013 all'Aquila, domenica la comunità del patrimonio culturale tornerà a riunirsi: questa a volta a Mirandola, nel cratere del terremoto che due anni fa sconvolsel'Emilia. Perché proprio lì? Perché è urgente ripetere proprio lì il messaggio che scaturì dalla giornata aquilana: e cioè che il vero valore in gioco non è il restauro di alcuni oggetti, ma la sopravvivenza del rapporto tra la comunità e i suoi monumenti. Gli storici dell'arte non studiano solo delle 'cose', ma il rapporto tra l'uomo e queste cose, nel tempo. In Italia non sarà forse mai possibile evitare che i terremoti uccidano e distruggano i monumenti:ma invece possiamo far sì che essi non cancellino il legame vitale tra una comunità e il suo territorio: fatto di paesaggio e patrimonio artistico.

E se in Emilia è stata veloce ed efficiente la ricostruzione dei capannoni e delle case, la gran parte dei duemila edifici storici colpiti dal terremoto sta ancora aspettando di essere restaurata. Un'ondata di demolizioni affrettate e poi un precoce oblìo rischiano di far passare l'idea che in fondo si vive bene anche senza quei punti di riferimenti identitari e culturali che sono i luoghi storici monumentali: campanili, chiese, palazzi.Dopo due anni, siamo alla vigilia dell'approvazione dei primi progetti per il restauro di questi monumenti, e c'è la fondata preoccupazione che venga messo in pratica lo slogan che dominava il Salone del Restauro di Ferrara dell'anno scorso, che era Dov'era, ma NON com'era. Secondo una discutibile e macabra retorica, il terremoto avrebbe datoun' 'occasione' per svecchiare il tessuto dei centri storici emiliani: e dunque via libera alle speculazioni, alle modifiche, gli abbattimenti, alla pittoresca 'ruderizzazione' dei monumenti. Si fosse fatta questa scelta dopo la Seconda Guerra Mondiale, oggi non avremmo il Ponte a Santa Trinita a Firenze, il Tempio Malatestiano a Rimini,l'Archiginnasio a Bologna e moltissimo altro.

Invece, ed è una gran buona notizia, esiste un popolo che andrà a Mirandola a dire che i cittadini rivogliono tornare a vedere i connotati storici della loro terra. Perché senza quel contesto, il testo della nostra vita individuale e sociale ha meno senso. E non è una pretesa intellettualistica di un élite, come dimostra bene una storia di Mirandola.Uno degli episodi più luminosi del post-sisma è stata la creazione, all'interno del Palazzo Ducale di Sassuolo, di un Centro di raccolta e cantiere di primo intervento sulle opere mobili danneggiate: un centro organizzato in modo esemplare, coordinato da Stefano Casciu, soprintendente di Modena . Perché le soprintendenze - proprio quelle spesso vilipese, e che l'attuale governo ha appena annunciato di voler accorpare - quando sono messe in grado di farlo, funzionano molto bene.

Ma accanto al lavoro delle soprintendenze, c'è stata anche una mobilitazione dal basso: di quei cittadini che hanno a cuore il loro patrimonio. A Mirandola una delle chiese più colpite è stata quella del Gesù, ancora non messa in sicurezza (e la cosa sta diventando scandalosa) e dunque ancora colma di macerie e di opere e arredi sacri più o meno distrutti, certo costantemente in pericolo. Qui il 30 luglio del 2012 i Vigili del fuoco hanno coraggiosamente recuperato tre monumentali cornici lignee barocche (veri e rarissimi capolavori nel loro genere): ed esse sono state immediatamente 'adottate' dall'associazione la Nostra Mirandola, che dal 2001 teneva aperta la chiesa, prendendosene cura. L'indomita e generosa presidente dell'associazione, la signora Nicoletta Vecchi Arbizzi, ha trovato loro un provvisorio, ma sicurissimo e gratuito, domicilio nel capannone di un generoso concittadino industriale: e se ne è presa cura, non senza suscitare qualche comprensibile gelosia negli organi di tutela.

Un capannone che ospita tre opere barocche: ecco un simbolo potente. Che significa che non c'è alcuna opposizione tra l'Emilia operosa e imprenditoriale e l'Emilia dei monumenti da salvare: sono due facce essenziali della stessa comunità. Il miglior modo per spiegare che salvare il patrimonio culturale vuol dire salvare il futuro, non ilpassato. Ecco, dopodomani in tanti saremo a Mirandola per dire che la signora Nicoletta e la sua associazione non sono soli: siamo in tanti a chiedere che quella essenziale faccia dell'Emilia, cioè dell'Italia, rinasca in fretta. E rinasca com'era e dov'era, per consentirci di continuare a crescere insieme.Per il programma, le informazioni logistiche e i materiali sulla manifestazione di domenica, il sito dedicato: http://mirandola4maggio.wordpress.com/

il Primo mondo piange o addirittura protesta perché i disperati del Terzo mondo vogliono "invadere le ricche metropoli costruite con le ricchezze rapinate dal vecchio e dal nuovo colonialismo. Il land grabbing non è solo un delitto contro la Terra: lo è anche contro i popoli che l'abitano. Greenreport online, 29 aprile 2014

Il rapporto “Le projet Jatropha de Nuove Iniziative Industriali in République de Guinée – Production industrielle d’agrocarburants et cohérence des politiques européennes”, appena pubblicato, rappresenta una forte denuncia contro la politica energetica dell’Ue sui biocarburanti, che ha fissato un obbiettivo del 10% entro il 2020 di carburanti di origine vegetale. «Questa legislazione, una manna per l’agro-industria – si legge nel dossier – ha come conseguenza quella di incoraggiare delle acquisizioni massicce di terre che minacciano la sicurezza alimentare di numerose popolazioni».

Lo studio – pubblicato da Comité Français pour la Solidarité Internationale (Cfsi), una coalizione di 23 organizzazioni di solidarietà internazionale che lavora con Ong dei Paesi del Sud del mondo, SOS Faim e la Coalition pour la protection du patrimoine géné-tique africain (Copagen), una rete di 9 coalizioni di Paesi dell’Africa occidentale che favoriscono la partecipazione civica e comunitaria sulle questioni delle sementi Ogm, del lang grabbing e dell’agricoltura familiare – si basa su un caso di land grabbing in Guinea «negoziato nella più grande opacità, il protocollo d’intesa firmato tra il governo e l’investitore italiano lascia i contadini senza indennizzazione e senza protezione giuridica».

Si tratta dell’impresa Guinée Énergie S.A, filiale del gruppo italiano Nuove Iniziative Industriali SRL (Nii), che ha acquisito vaste aree in Guinea per coltivare la jatropha per poi trasformarla in biocarburante da esportare nell’Unione europea. Secondo Cfsi, SOS Faim e Copagen, «Benché la vaghezza sulle supoerfici cedute resti totale, i 74.504 ettari di terre censite non sarebbero che la parte emergente dell’iceberg. Il protocollo di accordo stabilito nel 2010 tra il Ministère de l’Agriculture e Guinée Énergie S.A (partecipata di Nii al 70%) menziona una superficie totale di più di 710.000 ettari, cioè più dell’11% delle terre arabili del Paese… La maggioranza di questi investimenti sarebbe inoltre illegale secondo delle disposizioni che limitano a 10.000 ettari ogni cessione di terre a delle imprese». L’impresa italiana, che ha acquisito terreni nelle prefetture di Faranah e Kouroussa (Haute-Guinée) e Beyla (Guinée forestière), è accusata di far leva su promesse di lavoro, infrastrutture e servizi in un Paese nel quale circa la metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà e più del 15% è sottoalimentata.

In Guinea l’80% dei redditi deriva dall’agricoltura e le terre cedute a Guinée Énergie S.A sono in maggioranza comunitarie, utilizzate come pascoli o per le coltivazioni alimentari. «Se sono detenute abitualmente dalle comunità e dalle famiglie – sottolinea il rapporto - non esistono prove legali. I primi interessati non dispongono né di informazioni né dei documenti necessari per far valere i loro diritti in caso di litigio. Nessuna delle comunità incontrate sa per quale durata sono state cedute le terre. Il protocollo d’intesa non menziona nessun indennizzo monetario».

Nel suo sito, la Nii parla dello «sviluppo di un progetto più ampio che prevede l’acquisizione di terreni per la produzione ecosostenibile di olio vegetale combustibile no-food “progetto Jatropha”. Tale progetto,che impegna fortemente Nuove Iniziative Industriali srl e in corso in diverse zone dell’Africa (Senegal, Kenya, Etiopia e Guinea), prevede la coltivazione della jatropha (pianta tropicale oleaginosa non alimentare), da cui si estrae un olio da utilizzare come combustibile in alcuni impianti Nuove Iniziative Industriali srl; mentre il residuo della spremitura può essere utilizzato nei digestori per la produzione di biogas da bruciare nei motori e ricavare così ulteriore energia elettrica. Rilevante è inoltre il risvolto sociale di questo progetto che comporta la creazione di numerosi posti di lavoro per le popolazioni coinvolte nell’iniziativa. La creazione di una propria filiera ci permetterà di essere autosufficienti per le forniture dei nostri impianti e di non essere soggetti alle intemperanze dei prezzi del mercato degli oli».

Ma le Ong europee e africane dicono che l’esito del progetto italiano è incerto: «Nel 2010, tutto sembrava pronto ad iniziare, ma nessuna attività significativa di Guinée Énergie è stata più segnalata da fine fin 2012 (anche se nel 2014 l’ufficio guineano dell’Ong Acord ha segnalato il ritorno degli investitori a Beyla e Faranah, ndr) . Le ragioni di questo improvviso stop del processo di investimento restano indeterminate.Ma resta il fatto che, localmente, le terre sono sempre assegnate a Guinée Énergie».

Per Cfsi, SOS Faim e Copagen «questo progetto accumula tutte le caratteristiche del land grabbing:
1. E’ necessariamente condannato a violare il diritto all’alimentazione, dato la sua ampiezza, la sua natura, la sua destinazione.
2. la cessione delle terre si basa sul il consenso preliminare, libero ma non chiaro degli utenti, come denunciano delle personalità locali (il sous-préfet di Tiro, insegnante i Bèlèya).
3. Nessuna valutazione minuziosa degli impatti sociali, economici ed ambientali è stata condotta e resa pubblica.
4. la procedura di investimento non è trasparenti gli impegni non sono chiari ed il risultato del progetto resta, ad oggi, incerto. 5. la pianificazione democratica, la partecipazione significativa e la supervisione indipendente sono assenti dal progetto. Di fronte ad una tale situazione, le organizzazioni europee della società civile chiedono coerenza della politica energetica dell’Ue con i suoi obiettivi di sviluppo e la società guineana reclama più trasparenza».

La Nuove Iniziative Industriali, fondata nel 1999 da Luciano Orlandi, è specializzata in risparmio energetico e agro-energie, prodotte in particolare con olio di palma importato dall’Asia e dall’Africa. Guinée Energie S.A. è stata creata dalla Nii con un capitale iniziale di 15.000 euro. In un’intervista (Biocarburanti per le luci Ikea) concessa a Marco Magrini e pubblicata su il Sole 24 Ore nel marzo 2010, Luciano Orlandi assicurava che «l’olio di jatropha è praticamente a impatto zero di anidride carbonica» e il giornalista scriveva che «il risvolto sostenibile di questo promettente business è chiaro. Non a caso, usare questo biofuel dà il diritto a ricevere certificati verdi, rivendibili sul mercato». Ma i biocarburanti non sono senza impatto, visto che – come dimostra il caso del Brasile e dell’Indonesia – le foreste primarie, cioè grandi pozzi di carbonio, vengono abbattuti per coltivare canna da zucchero e olio di palma per fabbricare biocarburanti.

La Nii in Africa ha interessi anche in Senegal (Senergie, partecipata al 60%), Etiopia (Ethio Renewable Energie – 70%) e Kenya Jatropha Energy (100%), proprio quest’ultimo progetto era finito nel mirinmo di ActionAid, preoccupata per un progetto di piantagioni per biocarburanti nelle foreste di Dakatcha, in Kenya, che «viola i diritti di una comunità autoctone di più di 20.000 personnes. Secondo i piani sottoposti da Nuove Iniziative Industriali, una società di biocarburanti italiana, la produzione di agriocarburanti metterà in pericolo i diritti alla terra ed all’alimentazione di questa comunità».

Invece il già citato articolo del Sole 24 Ore presentava i progetti italiani per le bioenergie in Africa sotto un altro aspetto: «Anche Adriano Ghirardello faceva l’imprenditore. L’imprenditore tessile, per l’esattezza. Davanti alla concorrenza cinese – racconta – qualche anno fa mi sono visto costretto a chiudere i battenti e, con mia moglie, mi sono trasferito in Kenya». Peccato che, anche lui, non avesse nessuna voglia di restare con le mani in mano. Così, dopo qualche iniziativa umanitaria in favore delle popolazioni locali, si è imbattuto nella jatropha e nel suo olio combustibile che – non essendo edibile – non fa concorrenza alle coltivazioni per fini alimentari. «Dopo una lunga trattativa con il governo kenyota e dopo un corposo studio di fattibilità e di impatto ambientale – spiega Ghirardello – abbiamo avuto in concessione 50mila ettari da coltivare, che porteranno lavoro a 8mila persone che non ce l’hanno».

Così, in partenership con la Nii, è nata la Kenya Jatropha Energy che, a regime, produrrà 150mila tonnellate di biofuel all’anno: secondo gli accordi col governo, il 20% resterà in Kenya e il restante 80 sarà esportato in Italia, per illuminare, riscaldare e raffreddare i giganteschi negozi di Ikea e gli stabilimenti industriali degli altri clienti della Nuove Iniziative Industriali. «In questo business – osserva – il lato che mi piace di più è la possibilità di coltivare un’area gigantesca, oggi incoltivabile, e di portare lavoro e benessere ai villaggi locali».

Ma secondo ActionAid «Questi combustibili “verdi” – molti dei quali sono destinati ai Paesi dell’Ue – hanno delle qualità ambientali contestabili. La distruzione di grandi zone di foreste e la potenziale espulsione delle comunità indigene che vivono nelle foreste sarebbe un fallimento totale per le autorità kenyane locali e nazionali nel far rispettare la Costituzione del Paese e gli obblighi internazionali sui diritti dell’uomo. Questo affare dimostra anche l’impatto allarmante delle politiche energetiche europee irresponsabili che favoriscono l’utilizzo e la produzione di biocarburanti senza alcuna considerazione per l’impatto che possono avere al di fuori dell’Europa. Il caso di Dakatcha illustra un problema più vasto che si svolge in tutta Africa e in altre parti del mondo in via di sviluppo, dove i diritti al cibo ed alla terra sono già una questione sensibile. La contraddizione con gli obiettivi di sviluppo dell’Ue è totale».

Kenya Jatropha Energy, aveva ottenuto una concessione di 33 anni su 50.000 ettari nella regione di Matidi, senza le consultazioni pubbliche previste dalla legge e le Ong kenyane hanno appoggiato ActionAid denunciando che il progetto della filiale della Nii «non solo minaccia le risorse idriche, avrebbe potuto sparire alcune specie animali e vegetali rare, ma si sarebbe verosimilmente tradotto nello spostamento forzato di circa 20.000 persone».

Sotto la pressione della società civile, il governo di Nairobi ha chiuso il progetto e ha vietato la produzione di biocarburanti nella regione costiera del Kenya. La Nii allora si è rivolta alla Guinea, ma anche lì le voci contro il land grabbing all’italiana cominciano ad alzarsi sempre più forti.

L'intuizione che sta dietro al nuovo modello di mobilità integrata forse rischia di diluirsi in un eccesso di tradizionalismo, se non ci si adatta davvero al tipo di domanda espressa dalla città. La Repubblica Milano, 30 aprile 2014, postilla (f.b.)

La missione più ardua sarà mettere mano a Piazzale Maciachini: “Un vecchio chiosco, due mignotte e sei tombini”, secondo l’efficace sintesi dello chansonnier Folco Orselli. Ma il programma prevede anche il rifacimento di piazzale Loreto, mentre sono in corso i lavori per piazza XXIV Maggio e per la pedonalizzazione “light” di piazza Castello. Vecchie piazze che rinascono e nuove che si affermano, come piazza Gae Aulenti, divenuta nel giro di due anni la “terrazza” chic nel cuore del nuovo skyline urbano. Insomma, un po’ a sorpresa si scopre che il “segno” più forte che l’amministrazione Pisapia sta lasciando è la riscoperta di Milano come una città di piazze, con il conseguente ridimensionamento della città degli incroci, dominatrice dell’orizzonte urbano dal dopoguerra.

È una piccola, ma significativa, rivoluzione figlia di un cambio di paradigma iniziato con l’introduzione di Area C. Se si può mettere mano a luoghi disumanizzati ed emblematici della dittatura del traffico come Loreto e Maciachini, lo si deve al fatto che fra i milanesi si è fatta largo l’idea che il futuro della città si gioca sulla diminuzione del traffico privato. E che la rottura della dipendenza dall’auto come mezzo di trasporto urbano è la premessa indispensabile per una nuova, e riscoperta, vivibilità. Sarebbe bello che la riscossa delle piazze avvenisse con il massimo coinvolgimento dei cittadini e, cassa permettendo, evitando soluzioni provvisorie o posticce.

Su Maciachini e Loreto, per esempio, forse varrebbe la pena indire un concorso di idee a tambur battente. È evidente, infatti, che in questi due casi non ci si può limitare a una semplice riorganizzazione viabilistica o di qualche aiuola. Serve, invece, una rilettura dello spazio che riesca a tenere insieme vivibilità, nuovi servizi e funzionalità (compresa quella di scorrimento del traffico). Farsi prendere dalla fretta — magari imbastendo lavori da chiudere in tempo per l’Expo — può comportare errori, complicazioni nella gestione del cambiamento e conflitti con i residenti. Su Loreto, ad esempio, è stato sperimentato negli scorsi anni un modello alternativo di rotatoria. Può rappresentare la base del nuovo assetto della piazza, ma a condizione di calibrare bene la dimensione di carreggiate e intersezioni semaforiche, per non generare ingorghi. Per lo stesso motivo sarebbe utile poter seguire, passo passo, lo studio del nuovo piazzale Maciachini, inevitabile ed enorme snodo della circolazione nel quadrante Nord, strappando spazi alle auto ma senza immaginare un’impossibile pedonalizzazione globale.

La riconquista delle piazze come luoghi dell’incrocio e dello scambio fra le persone può essere una straordinaria leva della partecipazione civica offerta dalla giunta Pisapia, che su questo punto ha suscitato più di una critica. A patto, però, che si agisca con una regolazione fine. Che non si sottovalutino obiezioni e, anche, contestazioni, come purtroppo sembra stia avvenendo per la pedonalizzazione di piazza Castello. Che, per quel che si è capito, rimarrà uno stradone di dimensioni autostradali, con qualche chiringuito e alcune sdraio.

postilla

Ha perfettamente ragione l'opinionista, a chiedere che l'idea della nuova rete di piazze non venga rovesciata in testa ai cittadini dal chiuso di strutture tecniche e decisioni calate dall'alto, ma dal tono delle discussioni pare emergere anche un altro rischio, ora solo vagamente accennato: un inutile e anacronistico passo indietro, invece di quello avanti che sarebbe necessario, anzi indispensabile per la città in movimento. Naturalmente si capirà meglio poi dai progetti spaziali di riordino, di queste piazze, e dal loro costituire una rete oppure no, ma la domanda di luoghi sostanzialmente assimilabili alla classica piazza italiana pare davvero priva di senso, in una città che in epoca moderna non ne ha mai avute, e non ne avverte alcun bisogno: ambienti per la sosta, il movimento, la pausa; nodi di socialità e relazione, oltre che di flusso e scambio, ma nulla a che vedere col genere di salotti urbani che forse qualcuno sogna. Spazi chiusi e identitari di cui Milano non saprebbe che fare. Qualche osservazione in più su Millennio Urbano (f.b.)

Pare incredibile: fra un anno esatto inizia l'evento Expo, e naturalmente anche il dopo-Expo, ma per quei milioni di “strategici” metri quadrati del sito non si è ancora deciso (pubblicamente) nulla. Corriere della Sera Milano, 29 aprile 2014 con postilla.

Un anno all’Expo significa che tra un anno e un giorno comincerà il dopo Expo. Il milione di metri quadri, dove il primo maggio del prossimo anno aprirà i battenti l’esposizione dedicata al tema «Nutrire il Pianeta Energia per la Vita», potrebbero diventare o un luogo di sviluppo dell’area metropolitana o una landa desolata. A oggi però la sola certezza che si ha sul futuro di quei terreni su cui sono stati investiti molti quattrini pubblici per ripulire, bonificare e infrastrutturare, è che per metà saranno vincolati a verde. E il resto? La società Arexpo, nata appositamente tra Regione, Comune e Fondazione Fiera dopo un travagliato iter per la cessione delle aree (già di proprietà in parte di Fiera in parte della famiglia Cabassi) aveva lanciato un concorso di idee: diversi soggetti avevano partecipato, le proposte migliori erano state selezionate e presentate al pubblico.

Ma stiamo parlando di filosofia. Nessun business plan , nessun investitore interessato formalmente, nessun progetto vidimato dagli uffici dell’urbanistica comunale. Ad avere un po’ più di consistenza pare soltanto l’ipotesi di uno stadio, che il Milan vorrebbe costruire sull’area: ipotesi per altro che piace molto al Governatore Roberto Maroni e su cui invece frena la giunta Pisapia. Lo stadio potrebbe essere una parte di pezzo di un progetto più complessivo: magari all’interno di una Cittadella dello sport che a Milano ancora manca. Certo, il tema dell’alimentazione qui non c’entra nulla. E viene da chiedersi quale sarà dunque l’eredità culturale di un’Expo che ha l’ambizione di presentarsi per quello che non sarà: «Non una Fiera». Se l’idea è davvero di arrivare a definire un protocollo alimentare, sul modello di quello firmato a Kyoto sui temi ambientali, impegnando tutti gli Stati a darsi delle regole in materia di lotta allo spreco, di sostegno alle popolazioni denutrite e di promozione di stili di vita sani, forse almeno un segno tangibile di questo lavoro dovrebbe restare anche dove saranno smontati i padiglioni.

Mentre l’idea dell’orto botanico è del tutto tramontata, o forse non è mai esistita davvero, mentre Bologna sta invece già lavorando al progetto, avveniristico e unico nel suo genere, di un parco agroalimentare che valorizzi le eccellenze del territorio, Milano brancola nel buio. Conosciamo bene i tempi necessari per concedere licenze, superare gli iter burocratici e della politica, avviare un’operazione così articolata: per questo viene da pensare che siamo già in ritardo. A quelli che insistono sul fatto che «intanto cominciamo a fare bene l’esposizione» bisogna rispondere ricordando che il successo di un sistema Paese, quello che questo evento mette alla prova, si misurerà (anche) dal dopo Expo. Serve un’idea illuminata e moderna e serve in fretta. Per questo le istituzioni devono muoversi. Perché manca solo un anno, al dopo Expo.

Postilla

Non esiste, è vero, una decisione nè una strategia "pubblica" per le aree dell'Expo. Ma è facile comprendere le strategie e intravedere i piani dei decisori effettivi - se si conosce il percorso che è intercorso tra la trasformazione dell'area dell'ex Fiera e il progetto dell'attuale Expo, e se soprattutto si conosce il gioco degli interessi che da sempre si muovono dietro le "valorizzazioni" delle aree milanesi. Sui vantaggi e svantaggi - economici, sociali, urbanistici - dell'Expo e sui modi di realizzarla la discussione non ha più molto senso: i giochi sono già fatti e l'amministrazione anche se volesse fare un passo indietro, sarebbe troppo debole per cimentarsi in quest'impresa. Se ne può trarre qualche insegnamento, e proveremo a farlo. Ma la battaglia per il futuro dell'area è ancora aperta. Servirà per contribuire a costruire una "città dei cittadini" o a rendere più vasta, solida e ricca (per i ricchi) la "città della rendita"? Dipenderà in primo luogo dai milanesi. (e.s.)

La lettera di dimissioni dell'autore con la denuncia della deriva populista e anticostituzionale incarnata dall'attuale sindaco napoletano. Corriere del Mezzogiorno, 27 aprile 2014 (m.p.g.)

Quasi un anno fa (il 28 giugno 2013) descrissi su questo giornale le ragioni che mi avevano indotto ad accettare di far parte dell'Osservatorio cittadino permanente sui Beni Comuni istituito dal sindaco Luigi De Magistris. Oggi mi trovo ad esporre quelle che mi inducono a rassegnare le dimissioni.In questo mesi l'Osservatorio ha lavorato alacremente, sotto la direzione di Alberto Lucarelli e con il contributo di tutti i suoi membri. Da tutta Italia si guarda con speranza a questa esperienza, che cerca di tradurre in concreti atti di governo, sia pur locale, alcuni dei principi e delle istanze emerse in anni di riflessione giuridica e culturale sui beni comuni. E l'Osservatorio napoletano è arrivato a preparare alcune delibere che, ove fossero davvero adottate dalla giunta, segnerebbero un indiscutibile punto di svolta nella restituzione alla collettività di alcuni grandi spazi pubblici e privati ormai socialmente improduttivi, e anzi abbandonati da anni.

Ciò che, al contrario, non ha funzionato è stato il rapporto con il sindaco stesso, che non ha mai dato alcun segno concreto di interesse per il nostro lavoro. Al punto che è lecito chiedersi se mai quelle delibere saranno varate. Concludevo quell'articolo del giugno scorso assicurando che «se gli orecchi del sindaco non saranno aperti, sarò io a chiamarmi fuori: perché certo l'ultima cosa di cui ha bisogno il governo di Napoli sarebbe un'inutile foglia di fico accademica». Ecco, quel momento è arrivato.Perché questo visibile disinteresse si è accompagnato a segnali sempre più negativi, specialmente nelle politiche per la cultura. Il licenziamento degli assessori Antonella Di Nocera e Luigi De Falco era già stato un pessimo segnale. A cui vanno aggiunti l'abbandono del patrimonio monumentale comunale, il cronico disinteresse per la martoriata Villa Comunale e per le sorti della biblioteca di Marotta e soprattutto l'ambiguo silenzio sulle sorti di Bagnoli. De Magistris non ha mai ritenuto di rispondere alla lettera aperta indirizzatagli da Lucarelli e da chi scrive su queste pagine a proposito della ricostruzione della Città della Scienza: che a nostro giudizio non può rinascere dov'era e com'era, ma solo nel rispetto del vincolo paesaggistico e della legge.

A tutto questo si aggiunge ora un segnale politico gravissimo. De Magistris ha deciso di concedere Piazza Plebiscito alla Nutella, trasformando uno spazio pubblico simbolicamente cruciale in una specie di grande centro commerciale. Una scelta a mio giudizio sbagliata, ma ovviamente legittima. Quella che non è legittima, e che con le mie dimissioni intendo denunciare di fronte alla città, è invece la dichiarazione con la quale il sindaco ha attaccato la Soprintendenza architettonica, rea di star valutando attentamente se l'evento arrecherà danni alla cortina monumentale della piazza. Dopo aver cercato una sponda politica nel ministro per i Beni culturali Dario Franceschini, De Magistris ha testualmente dichiarato che «Le piazze sono del popolo e dobbiamo renderle fruibili liberandole da orpelli ed imposizioni burocratiche».

Lasciamo perdere l'impostura di identificare il popolo con un marchio commerciale e i cittadini con dei consumatori: in questo De Magistris si adegua al vento neoliberista interpretato al massimo livello istituzionale da Matteo Renzi. Anche se dovrebbe ricordare che gli italiani, purtroppo, perdonano, e anzi approvano con entusiasmo, simili impuntature narcisistiche e demagogiche solo quando si manifestano in politici 'vincenti'.

Ma soprattutto una simile dichiarazione rivela un grado di analfabetismo istituzionale francamente impressionante in un ex magistrato. Le soprintendenze sono una delle poche garanzie che il popolo italiano veda rispettati i propri diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione. Chiunque le irrida e le attacchi come burocrazia sorda e grigia svela un tratto autoritario preoccupante: specie se le oppone al presunto interesse del popolo.Nessun serio discorso politico sui beni comuni può essere fatto contro le soprintendenze: delle quali si possono e si debbono criticare singoli atti, ma che non si possono violentemente delegittimare in nome di un presunto bene del popolo.

Da parte mia, infine, non intendo legittimare in alcun modo questa deriva, ed è per questo che mi dimetto irrevocabilmente dall'Osservatorio sui beni comuni. E invito le associazioni, i comitati e i cittadini napoletani che hanno a cuore il bene comune ad aprire bene gli occhi, e a giudicare chi ora, a Napoli, sta difendendo davvero i principi costituzionali.

Sull'argomento vedi anche, su eddyburg, "Mercificando, mercificando, che male ti fo?"

Una politica di spazi condivisi della mobilità e degli ambiti pubblici in rete, alla base delle politiche urbane, privilegiando il ruolo del sistema dei flussi rispetto a volumi e funzioni. La Repubblica Milano, 27 aprile 2014, (f.b.)

Piazzale Loreto cambierà volto. Da slargo informe e invaso dal traffico diventerà una vera piazza più legata alla città. Con attraversamenti pedonali, senza togliere troppo spazio alle auto. E il mezzanino del metrò che potrebbe diventare open air. È il futuro che il Comune sta immaginando per ricucire lo storico rondò e luogo simbolico al resto della città. In particolare a viale Monza e a via Padova. Un piano che si sta studiando ora, che prenderà forma dopo l’Expo, per riequilibrare i flussi in un piazzale che oggi, al 56 per cento, è occupato dal traffico automobilistico e per un quarto è considerata terra di nessuno. Per l’urbanista del Politecnico Gabriele Pasqui «piazzale Loreto da linea Maginot deve tornare a essere uno spazio pubblico».

È l’ultimo tassello di un piano con cui si stanno rimodellando molte piazze cittadine all’insegna della vivibilità. La giunta punta a riscoprire le piazze, è il mantra. E così piazza XXV Aprile, con la nuova Gae Aulenti, entrambe pedonali, sono già entrate nelle abitudini dei milanesi. Piazza Castello, di fatto, è già stata liberata dai motori. In piazza XXIV Maggio, poi, sono in corso i lavori per renderla semipedonale, in vista di Expo. Trasformazioni urbanistiche in centro, ma anche fuori: in piazza Leonardo da Vinci da un anno non transitano più motori davanti alla storica sede del Politecnico. E la prossima missione dell’amministrazione, tra un anno, sarà ripensare piazzale Maciachini, oggi solo snodo viabilistico e poco luogo di socialità.

Da slargo informe e caotico a piazza urbana viva e vissuta dalla città. Con più spazi e attraversamenti pedonali, senza togliere troppo spazio alle auto visto lo snodo, strategico, nello scacchiere degli spostamenti cittadini. E un mezzanino del metrò che potrebbe diventare a cielo aperto. È il futuro che il Comune sta immaginando per piazzale Loreto. Obiettivo: ricucire lo storico rondò al resto della città. Uno dei progetti del più ampio “piano piazze” che l’amministrazione sta realizzando. Il progetto è di rendere piazzale Loreto meno “autocentrico”, sganciandolo dalle necessità del traffico secondo l’impostazione classica degli anni Sessanta: auto sopra, metropolitana sotto, pedoni attorno, livelli tutti sganciati. Si cambia filosofia. Questo è il sogno di Palazzo Marino per uno degli incroci più affollati, che è stato tribunale partigiano, luogo simbolo nella storia di Milano.

Ci stanno lavorando gli esperti dell’Amat (Agenzia mobilità ambiente territorio, società del Comune) assieme a un team di consulenti di Mobility in chain. Oggi il 56 per cento del piazzale è occupato dal traffico automobilistico, il 25 per cento è considerato terra di nessuno e il 19 per cento, di fatto i marciapiedi intorno al rondò, ha una vocazione pedonale. La missione è garantire più o meno gli stessi flussi di traffico (49 per cento), assicurano i tecnici, ridisegnandoli. Ma raddoppiare gli spazi pedonali e abbattere al 5 per cento la porzione di piazza inutilizzata. Già due anni fa, d’estate, si era tentato un esperimento. Sul modello della newyorkese Columbus Circle: una rotatoria «obbligata», con l’interruzione della linea continua che unisce corso Buenos Aires a viale Monza attraversando la piazza.

Il nuovo progetto, ancora in divenire e da realizzare dopo l’Expo — anche perché servono almeno dieci milioni, tutti da trovare — , potrebbe mantenere questa impostazione. Oppure, è ancora da decidere, contemplare ancora l’attraversamento delle auto da un capo all’altro ma creando spicchi pedonali tra via Padova e via Costa e da viale Monza a viale Brianza. «Il progetto nasce per ridare centralità alla mobilità pedonale — spiega Federico Parolotto di Mobility in chain — oggi lo spazio centrale non è attraversabile, non è fruibile: il pedone passa o sotto usando il metrò oppure deve circumnavigare la piazza. Per questo l’idea è di rendere pubblici e senz’auto alcuni spazi a ridosso degli edifici per garantirne una migliore fruibilità».

Nel piano, c’è anche l’idea di aprire il mezzanino del metrò, magari con delle vetrate, per dare respiro al piazzale. Un progetto che ha anche una valenza sociale, secondo l’amministrazione: ricomporre la frattura con le vie intorno, specie via Padova e viale Monza. «Un’iniziativa su cui inizieremo a lavorare seriamente dopo l’Expo — spiega l’assessore alla Mobilità, Pierfrancesco Maran — per recuperare una delle piazze che abbiamo lasciato diventare uno svincolo: il nostro non è solo un progetto di mobilità ma un lavoro urbanistico, e anche sociologico».

Più spazio alle persone, quindi. Per riappropriarsi di pezzi di città. Loreto sarà solo l’ultimo passo del processo che la giunta arancione ha avviato in città. L’esempio che secondo molti osservatori è più riuscito, in questo senso, è quello già terminato in piazza XXV Aprile, dove si è creato un asse naturale con piazza Gae Aulenti, a Porta Nuova, ormai entrato nelle abitudini di passeggio e passaggio dei milanesi. Dopo anni di ritardo nella consegna di un par- cheggio sotterraneo che ha fatto dannare il quartiere, oggi quella piazza è tornata viva. Una rivoluzione sta trasformando anche piazza Castello, già di fatto pedonale nelle strade intorno alla fortezza, anche se l’ufficialità si avrà con l’inaugurazione nel weekend del 10-11 maggio. Un esperimento, anche questo, per rianimare l’area con eventi e all’insegna della mobilità sostenibile, del basso impatto ambientale, della vivibilità. Accadrà, parzialmente, qualcosa di simile anche in piazza XXIV Maggio: è qui che, nel più ampio progetto di riqualificazione della Darsena in chiave Expo, si sta lavorando per rendere semipedonale la piazza sotto l’arco neoclassico del Cagnola. Zero auto al centro, solo mezzi pubblici e taxi, e uno spicchio d’acqua del Ticinello che verrà riscoperto per abbellire la piazza.

Riconcepire gli snodi cruciali della città. In centro anche piazza Sant’Ambrogio sta per riaprire al pubblico, senz’auto e con una nuova pavimentazione, dopo quasi dieci anni di palizzate per il contestato progetto di box sotto la basilica. E il Comune, in piazza Missori, vorrebbe creare un’ampia aiuola verde al centro, anche se non tutti i residenti sono d’accordo.

Fuori dal centro si è intrapresa una strada simile, l’anno scorso, anche in piazza Leonardo da Vinci, davanti al Politecnico. Stop ai motori davanti all’ingresso della sede storica dell’università, con il Comune pronto a condividere il progetto di un «campus sostenibile» di Politecnico e Statale, che punta ad alleggerire il quartiere dal traffico: aree pedonali, zone 30 e mobilità dolce nell’area intorno all’università, tra le vie Celoria, Ponzio e Bonardi. Una grande isola ambientale che nei prossimi mesi dovrebbe vedere la luce. Infine, dopo Loreto, la prossima sfida fuori dal centro sarà dare una nuova forma ai flussi di traffico di piazzale Maciachini. Altro snodo percepito quasi “ostile” e staccato, da ricollegare, anche socialmente, al resto della città

“È una linea Maginot che si può trasformare in cerniera urbana” (intervista a Gabriele Pasqui)
«OGGI piazzale Loreto funziona come snodo viabilistico ma non come spazio pubblico». Per Gabriele Pasqui, direttore del dipartimento di Architettura e Studi urbani al Politecnico, il progetto del Comune di «metterci mano è un’idea molto interessante ».

Pasqui, che ruolo devono svolgere le piazze oggi?«La piazza deve smettere di essere solo un luogo di passaggio e deve tornare a essere un luogo di socialità. Un’agorà. Più un punto di incontro, come in passato. Certo, senza esagerare».

Quali sono i rischi?«Nel caso di piazzale Loreto, non si possono sconvolgere troppo i flussi di traffico, altrimenti si rischia di bloccare tutto. Ma abbattere questa sorta di linea Maginot che si è creata negli anni è un’ottima idea».

Come si deve fare?«Deve diventare un luogo di cucitura urbana. Vanno creati ambiti che siano fruibili non solo alle auto. Quindi un recupero della pedonalità, verso la quale negli anni, a ogni progetto, ci sono state alzate di scudi, come in via Dante, ma poi se n’è apprezzato il valore».

Sono trasformazioni che hanno impatti sui cittadini?«Non ho mai pensato che un progetto per quanto bello determini i comportamenti, ma credo che ripensare gli spazi possa permettere alle persone di reinventarne usi diversi».

Cambiamenti così possono anche avere una sorta di valenza sociale, come nel caso di piazzale Loreto verso via Padova e viale Monza?«Una maggiore permeabilità tra corso Buenos Aires e le grandi vie che partono verso l’esterno non credo che di per sé garantisca integrazione sociale, ma è un modo per interconnettere spazi oggi separati. O percepiti tali».

Ma più spazi pedonali è l’unico modo per ridare dignità a una piazza?«Sedute, panchine, la possibilità di un incontro a un ritmo più lento, ripresa di urbanità. E il ridisegno dello spazio pubblico che già esiste, magari su giardini poco usati perché ostili».

Ci sono altri progetti in questo senso che ricorda in città?«In corso di realizzazione o appena realizzati sì. Come molti punti lungo la circonvallazione delle mura, da piazza XXIV Maggio a piazza XXV Aprile, snodi che sono diventati già anche potenziali luoghi di socialità».

Ci sono altri snodi viabilistici “ostili” in città?«Piazzale Maciachini, ma anche piazzale Lotto. Ambiti già socializzanti in sé, snodi di trasporto pubblico e privato. Ma dove come uso dello spazio si potrebbe lavorare molto per renderli meno slarghi e più piazze».

Gli eventi sportivi internazionali sono, abbastanza prevedibilmente, anche un'occasione per scoprire luoghi e società: ma quanti stereotipi culturali in certa informazione! La Gazzetta dello Sport, 26 aprile 2014 (f.b.)

La spettacolare vista dai piedi del Cristo Redentore che sovrasta il monte Corcovado, le rinomate spiagge di Copacabana e Ipanema, l'incantevole Pão de Açucar e il mitico stadio Maracanã. Alzi la mano chi non ha mai sentito parlare almeno una volta di questi gioielli che identificano Rio de Janeiro, unanimemente considerata "la cartolina" del Brasile. Se poi si aggiunge anche il fascino dei Mondiali, con la finale nel leggendario tempio del jogo bonito , è facile immaginare come una visita alla "Cidade Maravilhosa" tra giugno e luglio si rivelerà indimenticabile.

Impossibile elencare tutte le meraviglie che fanno di Rio la principale meta turistica dell'intero emisfero sud. Sbirciando dall'oblò dell'aereo in fase di atterraggio, colpisce subito la visione di una metropoli da oltre 6 milioni di abitanti, incastonata tra colline e promontori che affacciano sulla spettacolare baia di Guanabara, puntellata da oltre un centinaio di isolette. Per non parlare dei tanti quartieri caratteristici, dal fascino bohémien di Santa Teresa al brulicare notturno di Lapa, dove si respira il vero folklore carioca nei caratteristici "botecos" che offrono "cerveja" gelata al ritmo di samba. Ma Rio è soprattutto luogo di scioccanti contrasti, dove i quartieri più esclusivi come Leblon e Barra da Tijuca, sorgono accanto a sterminate favelas, in cui regnano miseria, violenza e degrado. La diseguaglianza sociale resta il tratto distintivo di una città in cui ricchezza e povertà camminano a braccetto. Il governo ha avviato una massiccia operazione di bonifica in decine di favelas attraverso il presidio costante della polizia, ma è sconsigliato addentrarvisi...

Se ne accorgeranno anche quelli che penseranno solo alla vita notturna della sfavillante zona sud, o le spiagge (anche d'inverno, con temperature di 25°) popolate da chioschi, in cui gustare gamberi alla piastra e acqua di cocco, e da campi di futvolley. Ai turisti più fortunati, poi, potrà anche capitare di cimentarsi in una partitella con qualche idolo del passato. Romario e l'ex romanista Renato Portaluppi, ad esempio, sono tra i frequentatori dei campetti sulla spiaggia di Ipanema.

Tempio rinnovato Ma la meta principale dovrà essere il leggendario Maracanã, teatro di sette sfide mondiali tra il 16 giugno e il 13 luglio, giorno della finale. Il tempio del calco brasiliano, casa di leggende come Zico e Garrincha, ha cambiato volto dopo gli oltre 400 milioni di euro spesi per adeguarlo ai rigorosi parametri Fifa, che impediranno di battere il record registrato nella gara decisiva del mondiale 1950 con 200 mila persone ad assistere alla disfatta verdeoro contro l'Uruguay. Il mitico impianto, che gli Azzurri hanno vissuto durante la Confederations 2013, entrerà nella storia con l'Azteca di Città del Messico: gli unici stadi teatro di due atti conclusivi dei Mondiali.

«Gli enti locali devono prendere atto di queste realtà e cominciare a proporre politiche di gestione territoriale che considerino davvero i beni e il bene comune». Altreconomia.it, 24 aprile 2014 (m.p.r)

È primavera, e la natura si risveglia. Mentre l’agricoltura si dedica alla semina di stagione, alcuni cittadini prendono consapevolezza che l’ambiente è importante per la qualità della nostra vita. Altri cittadini e imprese, invece, non ritengono fondamentale mantenere un equilibrio nell’utilizzo delle risorse che la natura ci offre. Per questo torna la proposta di autorizzare l’utilizzo di sementi geneticamente modificate (Ogm). Sostengono che queste sementi produrranno di più, saranno più resistenti a malattie e parassiti, qualcuno addirittura che saranno meno dannose per l’alimentazione umana. False motivazioni scientifiche, per coprire il vero scopo di tutto questo: il profitto, o il facile guadagno. Ma noi, cittadini e agricoltori, non solo i biologici, possiamo “fare” di fronte all’autorizzazione alle semine Ogm in Europa e Italia. Per cominciare, firmando la petizione promossa da Greenpeace, Avaaz eFriends of the Earth per chiedere una moratoria (per info: www.liberidaogm.org o www.greenpeace.org/italy). Oppure acquistando solo prodotti biologici che non utilizzano queste sementi geneticamente modificate; ma anche prendendo ad esempio e aiutando tante piccole realtà che lavorano per sottrarre territorio agricolo a un “futuro Ogm”.

Nel Salento, fra Francavilla e San Marzano, la comune autogestita Urupia coltiva 35 ettari di cui 25 a oliveto, 4 a vigna e il resto -a rotazione- con un grande orto a metodo biologico, insegnando e trasmettendo a chi volesse esserne ospite le varie pratiche di lavoro e condivisione di vita. A Fano (Pu), un gruppo di cittadine ha costituito un’associazione e ottenuto in gestione dal Comune circa 6mila metri quadrati di terra, già previsti per l’urbanizzazione riuscendo a organizzare e gestire uno spazio per i bambini del quartiere con orti e relativo mercatino. In provincia di Milano c’è l’esperienza del Distretto di economia solidale rurale (di cui scriviamo a p. 23).

A Genova, in Val di Vesima, un gruppo di giovanissimi contadini ha occupato la valle e aperto con il proprietario, un barone, un confronto per il definitivo insediamento, coltivando ortaggi, tenendo animali al pascolo, trasformando le farine in pane, creando un mercatino e collaborando con l’emporio etico Met di Sestri Ponente per distribuire le cassette di ortaggi biologici ai genovesi. A Matera, Vito Castoro e un’associazione che raccoglie varie realtà locali coltivano diversi ettari, gestiscono una filiera del pane e portano in vari mercatini la loro esperienza -dimostrazione che al Sud non solo si coltiva bio, ma si consuma bio, perché solo la relazione diretta fra le due cose spiega il vero ruolo culturale e imprenditoriale di quest’esperienza.

A Massenzatica (Fe), e a Nonantola (Mo) esistono due “partecipanze”, ovvero imprese comunitarie con diversi profili giuridici, formate da contadini che hanno a disposizione terreni da coltivare che richiedono un supporto progettuale. A Nonantola dispongono di circa 800 ettari, in parte coltivati e in parte a bosco, con la possibilità di creare spazi sociali e didattici. Senza supporti pubblici, la partecipazione della cittadinanza a queste iniziative è indispensabile per dare sostenibilità economica e dignità gestionale ai progetti, e permette di sottrarre ulteriore spazio alle pratiche di agricoltura industriale con Ogm, alla cementificazione e all’urbanizzazione. In Piemonte, a Pezzolo Valle Uzzone (Cn), grazie anche alla collaborazione con Iris, i contadini hanno trasformato il territorio, passando in 7 anni da un’agricoltura convenzionale, ormai “finita”, a quella biologica certificata e di qualità. Hanno recuperato antiche coltivazioni, ristrutturato il mulino e il centro di stoccaggio ormai in disuso, creato un mercato basato sulle relazioni e non sulle borse e i prezzi, che sa riconoscere il valore del lavoro e del prodotto. E presto trasformeranno i cereali. Abbiamo così creato 5 posti di lavoro, riuscendo a far tornare la comunità protagonista del proprio territorio.

Queste sono solo alcune delle numerose iniziative concrete - territoriali e imprenditoriali - che produttori, soprattutto biologici/biodinamici, e cittadini stanno portando avanti con caparbietà e realismo. Gli enti locali devono prendere atto di queste realtà e cominciare a proporre politiche di gestione territoriale che considerino davvero i beni e il bene comune, per avere più possibile il bene d’essere e non solo il benessere materiale. Se avremo il primo, di sicuro non ci mancherà il secondo. Ed è la strada per fermare il diffondersi delle sementi Ogm: non utilizzarle, scambiarsi le sementi, riprodurle, gestire il terreno secondo il nostro desiderio naturale e non le false indicazioni da parte d’interessi avulsi alla nostra vita e alla comunità. “No agli Ogm, sì alla natura madre!”.

Venezia docet, e dopo Firenze, anche a Napoli cartelloni della pubblicità rendono osceni i monumenti più insigni. La cronaca di Silvia Truzzi e il commento di Tomaso Montanari a proposito del Palazzo Reale a Piazza Plebiscito. Il Fatto quotidiano, 25 aprile 2014

CHE NAPOLI È
SENZA NUTELLA?
di Silvia Truzzi,

Una gigantesca pubblicità su palazzo reale. Eppure in Piazza del Plebiscito sono vietati “eventi commerciali”
Può la Nutella far venire mal di pancia, anche senza mangiarne cinque chili? Assolutamente sì, e succede precisamente a Napoli. Protagonisti: la famosa crema di nocciole in odore di un importante genetliaco (50 anni) e un sovrintendente assai puntiglioso (ma non sempre). Location: la famosa piazza del Plebiscito nella sopracitata Napoli. Breve riassunto: qualche mese fa – informa il Mattino – un cartellone pubblicitario di notevoli dimensioni campeggiava, a copertura dei lavori di restauro, sulla facciata di Palazzo Reale con tanto di faccione di Gerry Scotti e Linus. A pochi metri da lì c’è l’ufficio del Sovrintendente Giorgio Cozzolino, che l’estate scorsa ha firmato un perentorio decreto per vietare in Piazza del Plebiscito “eventi a carattere commerciale”. Proprio lì c’era appena stato il concerto di Bruce Springsteen, attorno al quale si erano scatenate mille e una polemica. Che c’entra oggi tutto questo?

La Ferrero ha deciso di festeggiare i cinquant’anni della Nutella non ad Alba, bensì nella più assolata Napoli con un concerto gratuito, previsto per il 18 maggio, della popstar Mika.

In cambio l’azienda piemontese, oltre a pagare 50 mila euro per l’occupazione del suolo pubblico, s’impegna a restaurare le due statue equestri della piazza e ha offerto “disponibilità per altri eventuali aiuti”. Ma sarà considerato evento commerciale, e dunque incapperà nella scure del decreto di Cozzolino? Napoli fibrilla perché il concerto sta già richiamando moltissimi fan del cantautore libanese. Dal Comune obiettano che non si tratta di evento commerciale perché gratuito (per tutta la giornata: al mattino sono previste attività per i bambini, primi consumatori della Nutella). Luigi De Magistris, che da quando è sindaco ha litigato praticamente con chiunque, ha dichiarato che “la piazza simbolo della città deve vivere anche attraverso i grandi eventi internazionali, che rilanciano l’immagine di Napoli e producono ricadute positive sull’indotto economico e commerciale”. Gli eventi internazionali sono la sua passione (le prove dell’America’s Cup, la Coppa Davis, un improbabile invito ad Al Pacino), però (nonostante strascichi poco edificanti di alcune vicende) tocca dargli ragione. Anche se in città i detrattori degli eventi al Plebiscito ricordano i danni alla pavimentazione che arrecano i Tir quando montano i palchi o i ricordini sotto forma di graffiti che regolarmente lasciano gli spettatori . Dirimente sarà la decisione del Sovrintendente Cozzolino, oggetto di una polemica piuttosto vivace sulle pagine de il Mattino dove ieri si criticava un’intransigenza intermittente. Ha bocciato le luci d’artista in piazza Plebiscito (quest’anno erano di rara bruttezza), la scogliera finta costruita per la Coppa America, i concerti di Pino Daniele e Mark Knopfler sempre in Piazza del Plebiscito, l’Arena del mare, ma a vedere le partite di Coppa Davis c’è andato. E poi c’è anche la questione delle piattaforme sul lungo mare: sull’unica installata, al circolo Canottieri, è intervenuta la Polizia municipale. Dov’era il Sovrintendente? A prendere il sole, proprio lì.

Prende le sue difese Gregorio Angelini, direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici della Campania: “Un linciaggio mediatico che mi ha ricordato la storia del magistrato con i calzini celesti”. A parte il riferimento poco pertinente al giudice Mesiano, dell’affaire Nutella al Plebiscito, dice: “C’è un vincolo su quella piazza.

Dopo l'impugnazione del decreto, il Tar aveva concesso una sospensiva, annullata dal Consiglio di Stato che però deve ancora esprimersi sul merito. È vero che la Nutella rappresenta il Made in Italy, ma ci sono norme a tutela della monumentalità della piazza. Lunedì il dottor Cozzolino e io incontreremo l’assessore all’Urbanistica, per verificare la proposta del Comune. Nessuno mette in discussione che la piazza debba essere un luogo vitale e vissuto della città, tuttavia c’è un’area di rispetto che restringe un poco la ricettività: esiste un problema di attività compatibili. Ma lo spirito è quello di collaborare per trovare una soluzione”. In tarda serata un comunicato del ministro Franceschini sembra mettere la parola fine alla querelle: “Io credo che la salvaguardia dei monumenti e delle piazze non debba necessariamente tradursi in un impedimento a manifestazioni pubbliche, soprattutto quando possono essere, come un bel concerto, un’occasione di utilizzo e valorizzazione del patrimonio pubblico mettendolo a disposizione di tutti i cittadini”. Che Napoli sarebbe, senza Nutella?

COME PER PONTE VECCHIO
IL PROBLEMA È POLITICO, NON DI TUTELA

di Tomaso Montanari

Concedere a un grande marchio commerciale Piazza del Plebiscito a Napoli non è un problema di tutela dei monumenti. Non so cosa deciderà il soprintendente architettonico Giorgio Cozzolino – specie dopo la nota del suo ministro Dario Franceschini, che sembra volerne impropriamente condizionare il verdetto –, ma in ogni caso il problema è politico, non certo tecnico.

Esattamente come nel caso del Ponte Vecchio noleggiato da Matteo Renzi alla Ferrari per una cena di lusso, del Teatro Greco di Siracusa concesso a un raduno di auto da corsa, della sala di lettura della Biblioteca Nazionale di Firenze usata come location per il lancio di una collezione di moda di Alessandro Dell'Acqua. In tutte queste occasioni in gioco non c'era la salvaguardia materiale dei luoghi, ma quella dei valori immateriali connessi a quegli spazi pubblici. Per secoli la forma dello Stato e la forma dell’etica pubblica si sono definite nella forma dei luoghi pubblici. Le città italiane sono sorte come specchio, e insieme come scuola, per le comunità politiche che le abitavano. E la funzione delle loro piazze era permettere ai cittadini di incontrarsi come liberi e come pari. Se trasformiamo questi luoghi in un centro commerciale più o meno occulto, essi non produrranno più cittadini, ma clienti, consumatori, sudditi del mercato. Il sociologo americano Cristopher Lasch ha scritto che “quando il mercato esercita il diritto di prelazione su qualsiasi spazio pubblico, la gente corre il rischio di perdere la capacità di autogovernarsi”. Un enorme cartellone pubblicitario issato pochi anni fa sui monumenti di Piazza San Marco a Venezia gridava a caratteri colossali lo slogan: “Non rispettare le regole, dettale”. Che è esattamente il messaggio che mandiamo sottoponendo al mercato i grandi spazi pubblici del Paese.

Non ho nulla contro la Nutella (anzi...), ma dobbiamo chiederci se sia giusto che tutto abbia un prezzo: è questo il nostro progetto di città, e dunque di società? Il fatto che le soprintendenze (quando funzionano) siano rimaste (sole) a difendere lo statuto non commerciale dello spazio pubblico italiano appare sempre più intollerabile, ed è per questo che da destra a sinistra si propone di abolirle.

In queste ore un sito web campano pubblica un ‘editoriale’ dal titolo “Mika, la Nutella e piazza Plebiscito: abolire le Sovrintendenze”, che si apre con un plauso alla notissima avversione di Matteo Renzi per gli organi di tutela. Ma se non stupisce che il liberista Renzi detesti ogni limite sociale imposto alla creazione di reddito privato, ci si chiede per quale terrificante confusione culturale uno come Luigi De Magistris riveli, alla prova dei fatti, un'identica scala di valori. Certo, il bilancio comunale è in dissesto: ma se l’unica strada per fare qualche soldo è questa triste prostituzione dello spazio pubblico, il sindaco di Napoli dovrebbe almeno rinunciare alla sua retorica dei beni comuni. Che a questo punto rischia di suonare falsa come le innumerevoli imitazioni di una celebre cioccolata da spalmare.
Riferimenti
Per Venezia, città che contende a Firenze il primato della mercificazione, vedi su equesto sito: Venezia, una città come merce, e il powerpont allegato in calce all'articolo

Intervista di Milena Farina all'assessore comunale alla Trasformazione urbana Giovanni Caudo: una persona scomoda per i partigiani della città della rendita. Il Giornale dell'architettura online, 25 aprile 2014

ROMA. Continua il braccio di ferro, soprattutto intorno alle destinazioni d'uso, alle nuove volumetrie e alle modalità di realizzazione della centralità Romanina prevista dal PRG, tra l'assessore alla Trasformazione urbana Giovanni Caudo e i cosiddetti poteri forti rappresentati dagli immobiliaristi della capitale (cfr.www.abitarearoma.net). Cogliamo l'occasione per pubblicare la versione integrale dell'intervista comparsa sul numero 117 (primavera 2014) dell'edizione cartacea del nostro Giornale, attualmente in distribuzione, al neoassessore della giunta Marino dopo oltre 8 mesi dal suo varo. L'intervista, insieme ad altri due articoli, intende inoltre fare il punto sullo stato d'avanzamento delle grandi opere incompiute, sulle politiche avviate in tema di mobilità e sulle varie scelte urbanistiche. Architetto e professore associato di Urbanistica presso l’Università di «Roma Tre», Caudo (Fiumefreddo di Sicilia, 1964) si è interessato in particolare alle questioni abitative nella città contemporanea.

Assessore Caudo, la decisione di cambiare nome all’assessorato è stato uno dei primi segnali del nuovo corso dell’amministrazione. Perché il termine urbanistica vi è sembrato inadeguato?
Il nuovo nome deriva dalla constatazione che siamo passati dall’urbanistica dell’espansione tipica del ‘900 a un nuovo ciclo in cui si ritorna alle origini della disciplina, che alla fine dell’800 si occupava del risanamento della città esistente. La scelta ha quindi un duplice significato, culturale e operativo.

Quali sono le azioni più significative in tal senso, dopo la revoca della Delibera della giunta Alemanno sui nuovi ambiti di riserva nell’agro romano?
La delibera, oltre a evitare un’ulteriore urbanizzazione su 2.365 ettari di agro romano (161 nuove aree edificabili), è il primo segnale della volontà di riportare l’azione all’interno delle previsioni del PRG e in particolare in quelle aree individuate come parte della città da riqualificare, pari a 9.500 ettari: abbiamo avviato 5 PRINT che sono tra gli strumenti previsti dal PRG per intervenire in queste aree; poi c’è l’attenzione alla trasformazione delle aree dismesse o dismettibili, come il patrimonio del demanio e in particolare le caserme del Ministero della Difesa.

Il primo intervento di trasformazione urbana annunciato è la Città della Scienza in via Guido Reni, di fronte al MAXXI. Sarà l’occasione per sperimentare una nuova modalità di gestione delle trasformazioni complesse?
La trasformazione dello stabilimento militare materiali elettrici di precisione è l’operazione più importante avviata sul patrimonio demaniale, che interessa un vero e proprio pezzo di città. Qui abbiamo cercato di determinare una linea di azione per gli interventi di rigenerazione articolata in tre strategie: si rende accessibile l’area, attraverso la costruzione di un’armatura di spazio pubblico che permetta di reinserirla nel tessuto urbano, in continuità con la piazza del MAXXI; s’inseriscono funzioni pubbliche, delle quali la Città della Scienza è l’elemento principale; si favorisce la messa a valore dell’area in modo da produrre le risorse necessarie per sostenere l’intervento pubblico (residenze e funzioni commerciali). Abbiamo appena predisposto la variante urbanistica, che fissa i nuovi parametri e le invarianti dell’intervento pubblico; ora sta partendo la fase di consultazione con la formazione di un’assemblea partecipata degli abitanti, dalla quale usciranno gli elementi che saranno posti a base di un Documento di progettazione preliminare; poi organizzeremo un concorso internazionale per il masterplan di tutta l’area, con 5-6 gruppi selezionati su curricula che parteciperanno a una serie di incontri intermedi per la discussione di temi specifici (spazio pubblico, risparmio energetico, tipologie insediative). Per la città della Scienza si organizzerà anche un concorso di progettazione, una volta messo a punto il progetto scientifico che, oltre alla parte espositiva, prevede laboratori di ricerca e aree per l’innovazione scientifica e culturale.

La strategia della trasformazione sembra molto più complessa da gestire rispetto a quella dell’espansione, poiché ci si scontra con interessi consolidati. Quale sarà il ruolo della partecipazione, visto il dissenso che ormai sembra accompagnare ogni proposta di cambiamento?
Il dialogo con la città si è interrotto negli anni passati e insieme è cresciuta la sfiducia nei confronti dell’amministrazione comunale. Per ricostruire questo rapporto è necessario parlare con trasparenza e costruire momenti di partecipazione, a partire da situazioni concrete. Nel caso di via Guido Reni, stiamo avviando la partecipazione sulla base di una variante urbanistica già approvata, nella quale sono state individuate le quantità necessarie a garantire la sostenibilità economica dell’intervento per i soggetti coinvolti: il demanio dello Stato che vende l’area, l’operatore privato che realizza la valorizzazione immobiliare (Cassa Depositi e Prestiti Investimenti SGR), l’Amministrazione che acquisisce metà dell’area (27.000 mq di SUL) per funzioni pubbliche e il contributo straordinario. Sarà aperto un tavolo con le associazioni, il Municipio e un gruppo tecnico dell’assessorato che potrà esprimere indicazioni sulle funzioni pubbliche più adatte e sulla collocazione delle funzioni private.

Il vostro programma s’inserisce nel PRG, quindi viene confermata l’idea di città policentrica? Intendete rilanciare il tema delle centralità, visto che uno dei limiti del piano è la loro scarsa caratterizzazione funzionale nonché debole capacità aggregativa?
La struttura policentrica del piano è stata in gran parte realizzata già negli anni precedenti, anche se non è percepita dalla città: il 70% delle centralità erano già attuate quando è stato approvato il piano e altre sono state realizzate nel frattempo. Ora stiamo lavorando sulle loro connessioni con il sistema di trasporto pubblico: a dicembre abbiamo approvato in giunta la delibera per la realizzazione della stazione ferroviaria a Ponte di Nona, una delle centralità più discusse per l’assenza di collegamenti con la rete su ferro oltre che per la pessima qualità dell’intervento; tra le centralità da realizzare, a Romanina abbiamo previsto il prolungamento di 2 fermate della metro A e a Massimina si realizzerà una nuova stazione sulla linea FR1. Lavoreremo inoltre in variante al piano per collocare nuove concentrazioni di funzioni intorno alle stazioni delle linee ferroviarie già esistenti all’interno del GRA (Ponte Mammolo, Grotta Rossa, Ipogeo degli Ottavi, Anagnina), che potrebbero avere un effetto di riequilibrio del sistema dei flussi spostando i pesi nella zona intermedia tra la città consolidata e l’esterno. Non si rinuncia a un’ulteriore cura del ferro, ma in attesa delle nuove linee Metropolitane portiamo le funzioni dove il ferro c’è già o è sottoutilizzato.

Quale sarà l’impatto delle compensazioni previste dal PRG? È possibile individuare strumenti per disinnescare questo meccanismo che già ha fatto «atterrare» grosse cubature su Roma?
Per buona parte delle compensazioni erano già state individuate 84 aree di «atterraggio», con un meccanismo, quello dell’equivalenza di valore, che ha trasformato i 4 milioni di mc in 6,4 milioni di mc per via della loro collocazione più periferica. L’Assemblea capitolina ha già approvato negli anni scorsi le delibere relative a 61 aree, che sono dunque già operative, mentre noi stiamo lavorando sulle altre 23. Gli anni non sono passati invano, come si vede. Anche se promuovessimo una moratoria urbanistica, questi atti andrebbero comunque avanti. Stiamo lavorando affinché le nuove collocazioni siano coerenti con il piano ma anche con il nostro programma, ovvero rilocalizzando la cubatura in aree già urbanizzate; seguiremo la stessa logica nella localizzazione degli ulteriori 3,5 milioni di mc che restano da compensare, portandoli in aree più centrali in modo da ridurli. Dunque la nostra azione prevede la chiusura delle compensazioni ancora in itinere e, come obiettivo di fine mandato, la cancellazione dell’articolo del piano che le prevede perché è un principio sbagliato e di difficile gestione.

A proposito di strumenti difficili da gestire, che impatto avrà nei prossimi anni l’attuazione del Piano Casa? Cosa può fare l’amministrazione per evitare che tali interventi sconvolgano gli equilibri di tanti quartieri e rendano superflue le previsioni del PRG?
Dal punto di vista dei principi il Piano Casa non è sbagliato. È sbagliata la Legge Regionale che ha esteso le maglie della normativa oltre l’intervento edilizio arrivando alla dimensione urbanistica. In questo modo invece di semplificare si complica, perché gli interventi che hanno un impatto urbanistico devono passare al vaglio dell’Assemblea capitolina, quindi hanno un iter più complesso. Intanto abbiamo concordato con la Regione di modificare la legge, in particolare il comma 3 dell’articolo 3-ter che è il più devastante in termini di pesi insediativi in quanto prevede nelle aree non edificate una premialità del 10% calcolato sull’intera cubatura prevista da un piano attuativo. Nella nuova proposta di legge regionale questa possibilità viene ridotta. Si poteva fare di più, l’accordo Stato Regioni su cui si fonda il cosiddetto Piano Casa, infatti, non prevede l’applicazione a volumi non esistenti. Così di fatto il Piano Casa si applica anche alla nuova edificazione e non solo all’esistente, è l’unica Regione che consente questa fattispecie.

Attraverso quali strumenti l’amministrazione si sta facendo carico della questione abitativa?
Vista la carenza di risorse pubbliche, ci stiamo muovendo su due binari: limitando il nostro intervento alle situazioni di estrema emergenza ovvero trovando una soluzione abitativa per le famiglie – circa 3.000 – che sono in graduatoria per la casa popolare con il massimo di punteggio; proponendo ai costruttori che oggi hanno il problema dell’invenduto di mettere sul mercato alloggi a prezzi convenzionati, in cambio della riduzione degli oneri. Stiamo infine concludendo le procedure del 2° PEEP che prevede 14 nuovi interventi di edilizia agevolata, per circa 3.000 alloggi.

Che idea avete del centro storico? Il progetto di pedonalizzazione del tridente non rischia di trasformare ulteriormente questa parte di città in una sorta di parco turistico, dal quale i romani si sentono esclusi?
Nel tridente stiamo completando la ripavimentazione delle strade: è una predisposizione alla pedonalizzazione che sarà attuata dopo aver individuato un sistema di parcheggi per attutire i disagi ai residenti e lasciare l’auto fuori dal centro storico. Per contrastare la progressiva commercializzazione, abbiamo messo in campo due interventi strategici: la sistemazione intorno al Mausoleo di Augusto, dove si costruirà una nuova piazza laddove ora c’è uno slargo; il piano di recupero di via Crispi con l’ampliamento della Galleria d’arte moderna. Stiamo inoltre individuando gli immobili sottoutilizzati e dismessi per introdurre nuovi usi pubblici, con destinazioni solitamente escluse dal mercato.

Quali sono le difficoltà nel governare dinamiche metropolitane che vanno oltre i confini della stessa provincia con strumenti limitati alla dimensione territoriale comunale? Che caratteristiche dovrebbe avere l’architettura istituzionale di Roma Capitale?
È necessario aprire un dibattito su questo tema. I finanziamenti per Roma Capitale dovrebbero essere stabiliti con una Legge Speciale in relazione a obiettivi legati al suo ruolo, visto che in ogni caso lo Stato si trova periodicamente a ripianarne i debiti. Noi come assessorato la dimensione metropolitana l’abbiamo già assunta: nella macrostruttura abbiamo costituito un’apposita unità operativa che dialoga su un doppio livello, con i Municipi e con i Comuni contermini, anticipando lagovernance che sarà tipica della città metropolitana.

Come si immagina Roma alla fine del mandato?
La città si sta preparando anche con le scelte urbanistiche a due importanti appuntamenti: il 150° anniversario di Roma Capitale nel 2020 e il Giubileo nel 2025. Traguardando l’orizzonte di medio periodo, m’immagino una città più ordinata che si è riappropriata delle regole come strumento per costruirsi il proprio futuro; una città che guarda alla sua dimensione metropolitana in cui le periferie sono luoghi che si riposizionano rispetto a un nuovo concetto di centralità; una città che ha ricostruito un appeal internazionale oggi completamente perso. Una città in cui le scelte urbanistiche devono essere a sostegno dei percorsi di sviluppo sociale ed economico e non essere fine a se stesse.

(di Milena Farina, edizione online, 15 aprile 2014)

C'è chi difende la sopravvivenza di Venezia e della sua Laguna. Dal basso, nuotando contriocorrente nell'oceano dell'ignoranza, degli interessi economici, delle menzogne. Cronaca dell'affollata assemblea del Comitato No Grandi navi. La Nuova Venezia, 24 aprile 2014, con postilla

«Il 7 e 8 giugno, in coincidenza con la Biennale d'Architettura, sarà blocco delle grandi navi. E non sarà un blocco simbolico, di qualche ora: le navi non devono partire per tutto il giorno. E la risposta che la città darà alla drammatizzazione del governo e del porto che vogliono accelerare sullo scavo del Canale Contorta». Tommaso Cacciari parla al termine dell'affollata assemblea del Comitato Nograndinavi, che ieri pomeriggio ha riempito l'aula magna della sede universitaria di San Sebastiano: la risposta è stata ferma e unitaria da parte delle molte anime del mondo "noNav". E fino al giorno annunciato del grande blocco, un incalzare di iniziative, in quello che Luciano Mazzolin presenta come «un percorso di avvvicinamento serrato al 7-8 giugno». Così appello a tutti i parlamentari (italiani ed europei) «non solo per una simbolica presa di posizione contro le grandi navi» - per dirla ancora con Tommaso Cacciari - «per l'ennesima interpellanza parlamentare, ma perché siano in piazza con la città a manifestare e bloccare le navi».

Da domani, striscioni e volantini alla tre giorni di apertura straordinaria dell'Arsenale, allo stand di Corte del Fontego Editore. Lunedì 28, conferenza stampa con i risultati delle indagini di rilevamento sulla qualità dell'aria che il Comitato ha affidato a un gruppo di docenti universitari tedeschi. Ancora, presidio informativo alla Festa per Poveglia, a Malamocco il 4 maggio. Entro metà maggio, assemblea pubblica cittadina nuovamente in sala San Leonardo; il 27 maggio in pullman a Roma per la manifestazione nazionale organizzata da Comitato per l'acqua pubblica.

La "linea dura" arriva nel giorno in cui il sindaco Giorgio Orsoni comunica di avere in calendario «a giorni, un incontro con il presidente del Consiglio Matteo Renzi». La posizione del Comune è nota: opzione Marghera, «da subito, per due o tre giganti più grandi» e per le altre arrivo in Marittima attraverso il Canale Vittorio Emanuele lungo il ponte della Libertà, in opposizione allo scavo del canale Contorta voluto dall'Autorità Portuale o di un nuovo canale parallelo alla Giudecca (avanzato da Scelta civica e caldeggiato da Venezia Terminal passeggeri).

Ma il dibattito interno ai "NograndiNavi" sul "dopo" è aperto: ieri, il vicepresidente di Italia Nostra Paolo Lanapoppi ha scritto una lettera aperta, per prendere le distanze dal progetto alternativo di realizzare un nuovo porto off shore in mare. «Cari amici del Comitato no grandi navi, siete sicuri che le vostre energie siano spese bene quando sostenete che a Venezia le grandi navi da crociera devono essere alloggiate in una nuova banchina portuale tra il Cavallino e la punta del Lido a San Nicolò? Immaginate il traffico di lancioni e motonavi, taxi e moto-topi da San Basilio a Sant'Elena e Cavallino quando 12 mila persone dovranno essere trasportate in andata e altrettante in ritorno, e poi i loro bagagli, le provviste, i rifiuti? Le navi da crociera forse fanno meno danni in Marittima, che in un porto artificiale tra due dighe».

«Diciamo che la soluzione De Piccoli è un ripiego», osserva la presidente Lidia Fersuoch, «le navi non vanno tolte dal bacino, come sostiene il Comune, vanno tolte dalla Laguna, perché lo scavo di qualsiasi canale mette a rischio la monumentalità di quel bene immenso che è la Laguna: sembra impossibile che il sindaco Orsoni non lo capisca. Serve un nuovo progetto di turismo, non assuefatto allo sfruttamento».

In un'intervista (pubblicata su Youtube) del Comitato NoGrandiNavi, il senatore Felice Casson ricorda dell'«atto vincolante per il governo» approvato dal Senato, per sottoporre a una valutazione tecnico-scientifica tutti gli scenari, anche «se il ministro Lupi sta cercando di forzare la mano, giocando sul tempo per evitare di dare modo ai cittadini di organizzarsi», «un conflitto istituzionale grave che si metta contro il Parlamento».

Postilla

Ancora una volta è dal basso che viene un segnale di chiarezza, verità, onestà intellettuale e saggezza. Il comitato Nograndi navi ha avuto il grande merito di aprire gli occhi al mondo sulle scempio dell’arrivo dei Grattacieli del mare in Laguna. Oggi ha ancheil merito di mettere l’accento su due verità che l’opinione pubblica italiana e internazionale non conosce, e che i decisori (da Orsoni a Costa, da Renzi e dai suoi ministri e sottosegretari ai rappresentanti dei poteri economici) se conoscono nascondono nelle parole e nei conseguenti atti.

La prima verità nascosta dai potenti è questa: il problema non è estetico, non è l’impatto visivo dei Grattacieli, non è il disturbo e il rischio nel “salotto buono”della citta: il Bacino San Marco. Il problema e il danno è la salute dei cittadini ed è il degrado ulteriore alla sopravvivenza di quel monumento unico al mondo che è la Laguna: la Laguna di Venezia, l’unica laguna rimasta tale da un millennio grazie al sapiente incontro tra la natura e la cultura e il lavoro quotidiano dell’uomo. E’ questo il bene universale che il pensiero corrente ignora o nasconde

La seconda verità che viene nascosta è che i Grattacieli in Laguna sono a loro volta un effetto. La causa è la scelta politica, condivisa da tutti i decisori, di assumere come obiettivo principale di ogni azione lo sfruttamento economico della città e del suo ambiente. Il turismo di massa, il turismo mordi e fuggi espresso dall’arrivo delle torme di passeggeri che arrivano nel tessuto delicato e fragile della città ne è la faccia più evidente, e più vistosamente devastante delle qualità incomparabili di Venezia. E’ una delle facce del problema e del danno, simmetrica a quella dell’esproprio dei beni pubblici compiuta dal turismo d’élite (vedi la vicenda del Mulino Stucky).

La mercificazione dei patrimoni culturali, e con essa la distruzione delle diversità che sono la ricchezza del mondo, è un morbo che corrode non solo Venezia, ma ogni luogo nel mondo che sia dotato di qualità particolarmente vistose e celebrate. Lo sforzo che va fatto è perciò quello di riprendere il ragionamento su un turismo alternativo rispetto a quello attuale: un turismo basato sulla conoscenza, lo studio, il godimento dello specifico bene che ogni luogo possiede, della storia da cui è stato prodotto, dalla società che lo abita e ne è un elemento.

A chi vuole approfondire consigliamo gli aurei libretti della collana “Occhi aperti su Venezia” di Corte del fontego editore, e in particolare: E le chiamano navi, di Silvio Testa, La Laguna di Venezia, di Edoardo Salzano, Imbonimenti, di Paola Somma, Confondere la Laguna, di Lidia Fersuoch. Su eddyburg si vedano i numerosi documenti le cartelle su Venezia e la Laguna nell’archivio del vecchio e del nuovo eddyburg

Riemerge un vecchio scandalo veneziano: l'utilizzazione tutta privatistica di un gioiello dell'età industriale de Venezia. Il Fatto Quotidiano, 23 aprile 2014, con postilla

Nella preziosissima collana di Corte del Fontego che tiene aperti i nostri occhi su Venezia, è uscito un nuovo libro dell’urbanista Paola Somma. Il bersaglio questa volta è la Biennale di Architettura, e alla domanda avanzata dal sottotitolo (“Progetti in vetrina o città in vendita?”) risponde il titolo stesso: “Mercanti in fiera”. E viene da pensare che se gli architetti facessero il ‘giuramento di Vitruvio’ proposto da Salvatore Settis, ebbene la Biennale veneziana sarebbe una specie di festival dello spergiuro. Perché se “ovviamente la Biennale non è la sola responsabile dello stravolgimento economico e sociale che ha trasformato Venezia prima in vetrina e poi in merce essa stessa, essa ha attivamente cooperato con i governi e le istituzioni locali e nazionali e con i gruppi finanziari interessati a riconvertire le cosiddette città d’arte in fabbriche di eventi e in condensatori di rendita immobiliare e fondiaria”.

Tra i molti percorsi che portano a questa conclusione è impressionante quello che riguarda il Mulino Stucky, al cui recupero fu dedicato il ‘numero zero’ della Biennale di Architettura, nel 1975. Si trattava di immaginare una seconda vita per un gigantesco complesso dell’industria alimentare dismesso da vent’anni. Tutti i partecipanti al concorso lo riprogettarono come un grande contenitore delle cose più disparate e irrelate, senza minimamente valutarne – nota l’autrice – “le relazioni con la struttura economica e sociale della città”. E questa è, in fondo, la cifra prevalente della Biennale di Architettura nel complesso: una lunga esercitazione a tema libero, e a tasso di responsabilità civile e sociale pari a zero. Nessuno dei progetti del 1975 venne attuato, e dopo che – nel 2007 – un provvidenziale incendio ne distrusse le parti vincolate, è nato lo Stucky Hilton, un albergo di lusso con 300 camere e una piscina sul tetto. “Nel 2012 – conclude Paola Somma – l’imprenditore Caltagirone (che ne era proprietario) è stato arrestato per frode fiscale e la società Acqua Marcia è stata messa in liquidazione. Ora lo Stucky Hilton è in vendita, con base d’asta di 300 milioni di euro”.

Postilla

A mo' di postilla inserisco uno stralcio di un mio libro (Memorie di un urbanista, Venezia 2010, p.105) sull'argomento:
«Per lo Stucky le destinazioni previste dai pianirendevano necessaria una iniziativa concordata con la proprietà. Si prevedeva –tenendo conto anche delle caratteristiche strutturali degli edifici – larealizzazione di un centro congressi, di un albergo, di un luogo ove sistemarei moltissimi archivi comunali oggi ancora collocati in spazi meglioutilizzabili per altre funzioni urbane (a questo scopo si prevedeva diutilizzare i giganteschisilos di cereali), e infine edilizia residenziale. Ciò che si chiedeva allaproprietà era la cessione gratuita dei silos, a titolo di oneri diurbanizzazione e costruzione, e il rigoroso convenzionamento dell’ediliziaresidenziale per i veneziani. La proprietà non accettò queste condizioni e ilcomplesso rimase abbandonato finché l’ amministrazione, agli albori del nuovosecolo, accettò le pretese della proprietà. Adesso lo Stucky è una esclusivaenclave di lusso. I silos, le cui facciate erano interamente prive di aperture,sono stati vittima di un incendio che li ha completamente distrutti (lasciandomiracolosamente illesi gli edifici adiacenti)[1]. Sonostati ritrovati disegni “originali” che avrebbero previsto la realizzazione difinestre sulle facciate; su questa base anche quell’ala è stata trasformata inalbergo. Lucrosamente: per la proprietà, s’intende.


[1]“E' stato un incendio doloso per il pm di Venezia, Michele Maturi, quelloche ha se- midistrutto il mulino Stucky sull'isola della Giudecca nella cittàlagunare. Il pubblico ministero ha infatti parlato di una "manoumana" e ipotizzato "il gesto di un folle o l'imprudenza di unbarbone o, più probabilmente l'iniziativa dolosa di qualcuno". Al momentonon ci sono gli elementi per confermare questa pista, ma la strada sembraessere quella giusta. Il mulino Stucky, importante esempio di architetturaindustriale ottocentesca, era in fase di restauro e pronto ad essere trasformatoin un grande albergo e centro bergo e centro congressi” (da “Edilportale”, 18aprile 2003).

«Un’operazione che ha avuto come conseguenza immediata l’aumento dei pedaggi fino al 350%. Ma ormai è chiaro che nemmeno le tariffe più alte d’Europa sono sufficienti per uscire da questa spirale perversa: di debito in debito il buco si sta allargando sempre di più e prima o dopo esploderà. Le conseguenze inevitabili saranno ulteriori aumenti delle tariffe, tasse e tagli ai servizi pubblici locali come sanità, trasporti e scuole» Il granello di sabbia, n.11 aprile 2014 (m.p.r.)

Venerdì 21, nel primo giorno della mobilitazione nazionale contro le grandi opere lanciata dai No TAV, alle ore 14 in punto scatta il blitz di vari comitati Veneto che con un’azione fulminea e precisa aprono alcuni caselli dell’autostrada presso la barriera di Villabona, «liberalizzando» di fatto la Padova-Mestre.

A darsi appuntamento ci sono il comitato Opzione Zero che lotta contro la Orte-Mestre, i No Grandi Navi, i No dal Molin, i No pedemontana, il Comitato Lasciateci respirare, attivisti dei Centri Sociali del Nordest. Un’azione per contestare l’aumento spropositato dei pedaggi sulla tratta Mestre-Padova e sul Passante, ma soprattutto un modo per denunciare come le Grandi Opere distruggono l’ambiente, minano la salute dei cittadini e generano debito pubblico.

Tutto parte dall’inchiesta sul Passante di Mestre messa a punto da Opzione Zero. La storia inizia alla fine degli anni ’90, quando, per risolvere il congestionamento della tangenziale, viene ideato il by-pass autostradale. Nel 2001 l’opera viene inserita nella famigerata Legge Obiettivo; nel giro di due anni viene nominato un Commissario straordinario e approvato il progetto. Lo stesso Commissario con procedura negoziata, e quindi “discrezionale”, affida i lavori al consorzio di imprese Passante di Mestre Scpa; ne fanno parte Impregilo S.p.a., Grandi Lavori Fincosit S.p.a. e Consorzio Cooperative Costruzioni; a fare incetta di sub-appalti c’è invece la Mantovani SpA, al centro della recente inchiesta sul malaffare in Veneto aperta dalla Procura di Venezia. Il costo iniziale del mostruoso nastro di asfalto si aggira intorno agli 800 milioni di euro, ma alla fine il conto è di quasi 1,4 miliardi. A far lievitare i costi non sono solo varianti e opere di compensazione, è la stessa Corte dei Conti nel 2011 a sollevare dubbi sulla regolarità delle procedure con le quali è stata approvata e realizzata l’opera, e sulla legittimità dei costi sostenuti.

Il caso del Passante fa scuola. Si tratta infatti di una sorta di Project Financing tutto “pubblico”: a finanziare l’opera sono infatti ANAS (società al 100% del Ministero dell’Economia) per circa 1 miliardo di euro, e direttamente lo Stato per circa 300 milioni di euro. Fino a qui nulla di strano, si tratterebbe di un’opera pubblica costruita usando legittimamentei soldi dei contribuenti. Nel 2008 però viene costituita la società CAV SpA (partecipata da Anas e da Regione Veneto) per la gestione del Passante, della tangenziale di Mestre e del tratto di autostrada Padova-Mestre. La convenzione tra CAV e ANAS del 2011 prevede che CAV restituisca ad ANAS circa 1 miliardo in 23 anni attraverso il gettito dei pedaggi.

Ma perché mai CAV, società pubblica, dovrebbe restituire quei soldi alla stessa ANAS, altra società pubblica, che li ha anticipati per realizzare un’opera pubblica (considerata) strategica, usando soldi prelevati dalla fiscalità generale? Per Opzione Zero si tratta di un “debito fantasma” totalmente illegittimo, addirittura diabolico se andiamo oltre con la storia. Ai vertici di CAV, infatti, appare ben presto chiaro che nonostante il notevole flusso di traffico che attraversa il nodo autostradale di Venezia, il “debito” verso ANAS non è solvibile; la situazione precipita con l’esplodere della “crisi”: nel 2012 il traffico crolla del 7,5%. Ed ecco il colpo di scena finale: in sede di approvazione del bilancio 2012, CAV SpA, per restituire i soldi a ANAS, sottoscrive due mutui a tassi di interesse di mercato: uno di 350 milioni di euro con Banca Europea degli Investimenti (BEI) attraverso un’intermediazione di Cassa Depositi e Prestiti del costo di 8,47 milioni di euro; l’altro di 73,5 milioni di euro direttamente con CDP, controllata dal Tesoro per oltre l’80% e per il 20% dalle Fondazioni Bancarie.

Un’operazione che ha avuto come conseguenza immediata l’aumento dei pedaggi fino al 350%. Ma ormai è chiaro che nemmeno le tariffe più alte d’Europa sono sufficienti per uscire da questa spirale perversa: di debito in debito il buco si sta allargando sempre di più e prima o dopo esploderà. A quel punto saranno direttamente Regione Veneto e ANAS a dover rispondere di questa situazione. Le conseguenze inevitabili saranno ulteriori aumenti delle tariffe, tasse e tagli ai servizi pubblici locali come sanità, trasporti e scuole.

«Le grandi opere sono diventate il totem dei faccendieri della grande impresa post-fordista, con cui apparecchiare la tavola alla quale invitare i mariuoli dello stato post-keynesiano» Un'analisi acuta di una delle più pesanti (per i cittadini) distorsioni del sistema economico vigente. Naturalmente, tutte "innovative". Il granello di sabbia, n.11 aprile 2014 (m.p.r)

Le grandi opere sono diventate il totem dei faccendieri della grande impresa post-fordista, con cui apparecchiare la tavola alla quale invitare i mariuoli dello stato post-keynesiano. La grande impresa del capitalismo globalizzato è caratterizzata da una organizzazione fondata sul cosiddetto outsourcing, che sta ad identificare un processo di scomposizione e svuotamento della fabbrica fordista, che passa da un’organizzazione “a catena piramidale” ad un sistema “a rete virtuale”.

Questo modello di impresa non può che essere orientato al controllo dei fattori finanziari e di mercato e sempre meno ai fattori della produzione. E’ una grande impresa virtuale che inevitabilmente scarica, attraverso una ragnatela di appalti e subappalti, la competizione verso il basso e induce, anche nella piccola e media impresa, una competizione tutta fondata sullo sfruttamento del lavoro nero, grigio, precario, atipico. La grande opera è l’unico prodotto che può consentire a questo modello di impresa virtuale di funzionare: in alcuni casi massimizzando i profitti, in altri permettendogli semplicemente di sopravvivere. Essa è il piatto più ambito e consumato sulla tavola della nuova tangentopoli, nella in cui i faccendieri postfordisti possono azzannare beni e risorse pubbliche, insieme ai mariuoli dei partiti virtuali dello Stato post-keynesiano. Le grandi opere consentono alla classe dirigente politica e imprenditoriale di scaricare sul debito pubblico le risorse necessarie alla sua realizzazione. In tal senso, il progetto TAV ha costituito un modello di architettura finanziaria e contrattuale.

In esso si realizza una sorta di privatizzazione della committenza pubblica, attraverso l’affidamento in concessione della progettazione, costruzione e gestione dell’opera pubblica ad una società di diritto privato (Spa), ma con capitale tutto pubblico (TAV Spa appunto, ma anche Stretto di Messina Spa, e le migliaia di Spa di questo tipo). La Spa pubblica nel modello TAV serve solo per garantire al contraente generale (il privato) il pagamento oggi del 100% del costo della progettazione e della costruzione e di mantenere per sé (il pubblico) il rischio del recupero dell’investimento con la gestione (i debiti pubblici futuri).

Oltre ad un progressivo ricorso al contratto di concessione, nel quale la funzione del committente si trasferisce al privato e l’elemento finanziario diventa fondamentale, si sono introdotti ulteriori istituti contrattuali nei quali il regime privatistico ed il fattore finanziario sono dominanti. Ai contratti tipici se ne sono aggiunti altri (il project-financing, il global-service, il contraente generale, il contratto di disponibilità, il leasing immobiliare), nei quali la filiera del sistema della sub contrattazione non solo diventa più lunga e più articolata, ma si rendono anche inutilizzabili o di difficile applicazione le norme di contrasto della mafia, della corruzione o di tutela del lavoro, che sono state concepite e codificate per procedure di affidamento tradizionali, in particolare per l’appalto tipico. In questi casi infatti il contraente principale può sub-affidare tutte le attività in un regime privatistico, sottratto alle regole della gestione degli appalti pubblici.

Con l’uso di questi nuovi istituti contrattuali, ed in un contesto nel quale il fattore finanziario pesa in mododecisivo, si determinano condizioni che offrono opportunità straordinarie proprio a quei soggetti che, oltre a disporre di denaro a costo zero, hanno l’esigenza di riciclare capitali di provenienza illecita. Se infatti già nel contratto di appalto è connaturata una fisiologica esposizione finanziaria dell’appaltatore: sia per l’attività svolta, con la quale anticipa le risorse necessarie, sia per il patologico ritardo nei pagamenti della pubblica amministrazione; con i nuovi istituti contrattuali il valore finanziario si dilata enormemente fino a diventare il fattore determinante. Con la diffusione delle concessioni e delle società di diritto privato controllate o partecipate, siamo allo stesso livello della ricontrattazione del debito con le operazioni dei “derivati”, che scaricano sui debiti futuri gli oneri di convenienze virtuali immediate.

Una piccola rassegna di progetti di riqualificazione urbana partecipativi dal basso, tutt'altra cosa rispetto a quelli variamente gestiti da animatori professionisti. Corriere della Sera Milano, 20 aprile 2014 (f.b.)

Nella Grande Milano non trova posto la distinzione tra centro e periferia e ogni zona ha «opportunità pari alle altre» ha dichiarato l’assessore alla Cultura, Filippo del Corno. Tuttavia, l’impressione è diversa: man mano che ci si allontana dal Duomo sono sempre di più le aree dove regnano disagio, miseria, marginalità. Eppure è proprio qui — tra muri imbrattati, sporcizia nei parchi e nelle strade, scarso rispetto per le regole e apatia da parte di molti — che le periferie stanno trovando una loro identità allegra e forte. Perché più che altrove si è fatto largo qualcosa di nuovo: una «magia» collettiva che rigenera il territorio e dà vita ad una Milano diversa.

«Davanti al degrado — spiega l’esperto di politiche urbane Paolo Cottino — la riqualificazione degli edifici da sola non basta a migliorare la vivibilità: gli abitanti devono fortemente volere le trasformazioni, attivarle e poi partecipare al rinnovamento, altrimenti non accade nulla». In diverse aree, come Giambellino e Ponte Lambro, l’impulso iniziale è arrivato dei Laboratori di quartiere. Altre volte sono stati comitati, scuole, associazioni a muoversi per primi. Gente che ha imparato a riunirsi in rete. Per fare e per chiedere. Ed è così che cambia la cultura: a colpi di solidarietà e voglia di agire.

Quasi un miracolo, per esempio, la rinascita del parco all’ex-sieroterapico, grande area dismessa tra i due Navigli: «Sta diventando un’enorme oasi naturalistica in città — spiega Stefano Guadagni del Comitato Segantini — con orti condivisi, nuove piante, animali da proteggere». Un entusiasmo che ha contagiato Italia Nostra, Lipu, Verdisegni e Naba. E ora il progetto è portato avanti con il Comune di Milano.

Allievi del Politecnico insieme con Tempo riuso e Baia del re onlus hanno riprogettato il mercato coperto al quartiere Stadera rilanciandolo come auspicabile luogo d’integrazione tra culture, in un contesto difficile. Gli allievi della media Rinascita sono arrivati in centro armati di vernici e rulli e con l’Associazione antigraffiti hanno ripulito i muri alle Officine Ansaldo. E gli inquilini della via Rilke, pieno degrado, hanno inaugurato nella portineria del civico 6 uno sportello d’ascolto che sta già dando frutti. Perché le idee di chi inventa nuovi usi per spazi abbandonati sono importanti.

Ancora: al Giambellino, piazza Odazio è risorta insieme con la sua Casetta verde con iniziative culturali legate alla tradizione e decine di associazioni capitanate da Dynamoscopio. Lo stesso è accaduto alla piazzetta del Murunasc, a Baggio, dove Share radio, che registra in uno scantinato, dà voce alle periferie e il microfono a giovani volontari che si rimboccano le maniche impegnati in palinsesti, interviste e dirette anche video. «La conoscenza del territorio alimenta il senso civico che insegna a dare valore alla città, dunque a rispettarla» spiega Filippo Gavazzeni ideatore di Milanofuoriclasse.it che ha radunato 30 studenti, l’Amsa e le Gev - Guardie ecologiche volontarie e in una mattina di passione ha tirato a lucido largo dei Gelsomini, al Lorenteggio.

Gente, questa, che forse senza rendersene conto neppure, o comunque senza chiedere nulla in cambio, abbatte nel bilancio di Milano il costo enorme di chi, apatico, si rassegna o, peggio, distrugge, offrendo la ricchezza di chi invece ripara e progetta intorno alle potenzialità del territorio che vive.

Con troppa poca enfasi sugli aspetti sociali e istituzionali (ma siamo nella sezione tempo libero del giornale) comunque qualche spunto interessante sul futuro urbano dell'Africa. Corriere della Sera, 19 aprile 2014 (f.b.)

In Nigeria c’è una scuola galleggiante che può essere presa a simbolo del Rinascimento africano. Si spopolano i villaggi, avanzano le città: il 38% degli africani (300 milioni di persone) vive nelle aree urbane, con una crescita annua del 4%. Da qui al 2020 ci saranno 40 città africane più grandi di Roma o di Berlino. Il 70% della popolazione vive nelle caotiche periferie che, come nota l’Economist, Dickens e Balzac troverebbero familiari come i centri industriali nell’Europa dell’Ottocento. Non è una notazione neocolonialista, lo dicono gli africani stessi: il Continente che si espande a ritmi vertiginosi ha davvero un problema (e una straordinaria occasione) di sviluppo urbano sostenibile. Non è facile: per mettere ordine al caos di Addis Abeba in Etiopia, uno studio di architetti svizzeri ha consigliato alle autorità di prendere in considerazione il modello italiano, con strade che si dipartono a raggiera da un centro e di lasciar perdere le pareti di cristallo importato dall’estero per tornare alla più fresca ed economica pietra locale. L’Africa deve copiare l’Italia? Forse è più utile (anche per l’Italia) prendere a modello la scuola galleggiante di Makoko, incrocio impossibile (nella velenosa laguna di Lagos) tra una baraccopoli di palafitte e i canali di Venezia. Tre piani di materiali riciclabili che ospitano 100 studenti al giorno, la scuola di Makoko è uscita dalla testa di Kunlé Adeyemi, uno dei protagonisti della mostra «Together, le nuove comunità in Africa» aperta fino al 28 aprile allo SpazioFMGperl’Architettura di Milano.

Grandi architetti, grandi città africane: Lagos, Kigali, Cape Town. Quest’anno la capitale mondiale del design è proprio Città del Capo. Chi la considera «poco africana», non ha mai fatto la spola tra l’immacolata Marina e le polverose ex township di Cape Flats, dove i neri erano relegati al tempo dell’apartheid. Ci vivono ancora oggi, a 20 anni dalle prime elezioni dell’era Mandela, ma con un orgoglio e una carica diversi rispetto al passato. Carica e orgoglio: è questa la visione di Dayo Olopade, che nel suo nuovo libro intitolato «The Bright Continent» divide le società in grasse e magre. Le vecchie categorie (ricchi e poveri, sviluppati e in via di sviluppo) non bastano a spiegare la brillantezza dell’Africa attuale, magra e intelligente, contrapposta al ristagno soporifero dell’Europa.

Olopade, giornalista nigeriana-americana, spiega che «le società magre hanno un approccio alla produzione e al consumo tutto basato sul concetto di scarsità». Reddito medio 1.600 euro (all’anno!), popolazione al 70% sotto i trent’anni, gli africani «sanno che niente è scontato, niente può essere sprecato». Questo aguzza quella fondamentale (e poco conosciuta) forma di «know how» che nella lingua Yoruba (parlata in Nigeria) prende il nome di «kanju». Il fare che dribbla le difficoltà e le formalità, inventa nuovi modelli senza buttare niente, impastando praticità e fantasia, high tech e tradizione. L’Africa magra è il continente che cresce più veloce di tutti? È perché nel suo motore ha messo la giusta miscela di kanju che manca invece alle nostre «società grasse», che sprecano e vanno a rimorchio del passato.

Tra gli esempi di kanju applicato alla società (oltre che all’architettura), Olopade cita proprio la scuola di Makoko (è indicativo che gli amministratori di Lagos volessero abbatterla: troppo rivoluzionaria e al tempo tradizionale). Cita anche una clinica di Khayelitsha, una delle township di Cape Flats e una delle più povere del Sudafrica: lì alcuni container da trasporto navale sono state riciclati e riadattati fino a diventare lo spazio operativo della dottoressa Lynette Denny che li usa per gli screening e la prevenzione del cancro.
Naturalmente sarebbe auspicabile che le donne di Khayelitsha potessero fare gli esami in un ospedale vero. Ma anche Joe Noero, veterano degli architetti sudafricani che ha molto lavorato su progetti sostenibili proprio a Cape Town, si troverà in sintonia con il principio del Kanju applicato a Cape Flats. Le nuove comunità africane sono anche un monumento all’emergenza creativa. Noi grassi (ma sempre più deperiti) europei alla deriva dovremmo fare tesoro del Kanju pensiero. Mentre gli africani dovrebbero chiedere ai loro governanti di non perseguire una cementizia modernità pseudo occidentale (già superata). E tanto per cominciare fornire a tutti una rete elettrica decente (e non solo la rete dei telefonini). È la presa della corrente che, per esempio, meglio permette di conservare i cibi. Più kanju a noi, più frigoriferi agli africani.

Il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2014
Trasformata nella Reggia del Pianeta Naboo in Guerre Stellari, umiliata a set della serie Elisa di Rivombrosa, candidata a location per le nozze di Naomi Campbell, promossa a finto Vaticano nella fiction della Rai sul papa polacco ma anche film Angeli e demoni, da Dan Brown: la Versailles casertana di Carlo di Borbone ha sbarcato il lunario nei modi più impensati. Ma l’associazione cinematografica più azzeccata è certo quella con Mission Impossible (il terzo episodio, in cui mima ancora il Vaticano): perché la Reggia di Caserta è davvero la “mission impossible” del patrimonio culturale italiano.

Esattamente un anno fa il Daily Telegraph descrisse con impietosa lucidità un sito monumentale abbandonato a se stesso: con i ladri che rubano il rame dal tetto, i ragazzi che fanno il bagno nelle mitiche fontane del giardino più importante d’Italia, le garitte dei custodi distrutte dalla ruggine e gli occupanti abusivi che vivono nelle foresterie. Per il giornale inglese, la Reggia è il “più clamoroso esempio dell’incapacità dell’Italia di governare il proprio straordinario patrimonio culturale, tra tagli al bilancio e recessione profonda”.

L’aveva scritto sul Corriere della Sera Alessandra Arachi, l’aveva mostrato a Rai Tre Stefania Battistini: ma le critiche estere fanno sempre più colpo, e così Maurizio Crozza si rivolse ai francesi, più serio che faceto: “Francesi, prendete in gestione la Reggia vanvitelliana, fatela diventare il sito più visitato in Europa come avete fatto con il Louvre, salvatela dal degrado”. Poi, a dicembre, il sindaco di Caserta pensò bene di piantare un corno rosso alto 13 metri (e dal modico prezzo di 70 mila euro) di fronte alla Reggia, a mo' di addobbo natalizio. E mentre Gian Antonio Stella osservava sarcastico che “non è detto che porti buono”, Dagospia coniò la più prosaica definizione di “sco-reggia di Caserta”.

Questa litania di cialtronerie impallidisce quando si apprende che il prefetto di Caserta ha “affettuosamente” (come ha scritto sulla busta) consegnato le chiavi della Reggia a Nicola Cosentino. E qui capisci che il degrado materiale è la conseguenza di quello morale. Il fatto che il patrimonio culturale che la Costituzione ha restituito ai cittadini sovrani non sia più una cosa pubblica, ma “cosa loro” è il segno dello slittamento del suo valore simbolico: da segno della presenza dello Stato-comunità a trofeo dell’antistato. Siamo solo a un passo da ciò che accadeva fino a pochi mesi fa in un’altra, vicina, reggia borbonica: Carditello. Sono stati sbarbati e rubati i cancelli, le acquasantiere della cappella, i gradini di marmo delle scale e perfino l’intero impianto elettrico. Quel che non si poteva asportare è stato distrutto, e nelle ali fatiscenti che un tempo ospitavano le attività agricole della tenuta è possibile rinvenire di tutto: da cumuli inquietanti di schede elettorali, a mappe e rilievi dell’area, gettati alla rinfusa sotto tetti sfondati. Il pavimento di cotto della terrazza sommitale è stato strappato e rubato, mattonella per mattonella, e così i balaustrini di marmo che reggevano i parapetti. La reggia si è, insomma, trasformata in una gigantesca cava di materiali pregiati, che non è difficile immaginare indirizzati verso le oscene ville dei ras della camorra.

Qualche mese fa, Massimo Bray è riuscito a ricomprare Carditello (da Banca Intesa), e ora si aspetta un piano per la sua salvezza: che potrebbe passare attraverso l’affidamento a Libera di don Ciotti, capace di rimettere in piedi la tenuta agricola che circonda il palazzo. Qualcosa di altrettanto radicale deve avvenire alla Reggia di Caserta, che non può rimanere uno scatolone vuoto, ma deve diventare un centro vivo di conoscenza. Potrebbe essere un centro nazionale di studio e tutela dei giardini storici, oppure ospitare la biblioteca senza casa dell’Istituto di studi filosofici di Napoli o un museo nazionale della migrazione. Qualunque cosa: purché le sue chiavi siano restituite – affettuosamente – ai cittadini, e negate, per sempre, ai signori dell’antistato.

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