Pubblichiamo la bella introduzione del libro Documenti su vent'anni di utopia urbanistica a Siracusa Tra neoilluminismo e neoromanticismo, (La casa del nespolo Roma 2013). E' anche un augurio, per il prossimo novantesimo compleanno del nostro giovane amico Cenzi
Ora Vi racconto come è nata questa pubblicazione.
È venuto a trovarmi a studio il dott. Giuseppe Palermo, impegnato defensor del patrimonio culturale di Siracusa. Mi ha detto che aveva in mente di dar vita, per distinguere i fatti dalle opinioni, ad una collana destinata a pubblicare documenti del dibattito pubblico (articoli di giornali e riviste, delibere di Enti Pubblici etc.) relativi alla prima grande guerra sul Piano Regolatore di Siracusa (1952-1972): una parte con i testi del Cabianca, una con quelli di Luigi Bernabò Brea, un’altra con quelli di Michele Liistro, documenti che affiancano ed integrano una importante letteratura storico-critica relativa agli stessi anni, a partire da I guasti di Siracusa di S. L. Agnello e C. V. Giuliano.
Mi ha chiesto se avessi qualche altro documento oltre a quelli già da lui accuratamente raccolti e trascritti. Abbiamo verificato che, salvo l’introvabile relazione finale al primo Piano Regolatore Generale, lui aveva già tutto.
Mi ha chiesto di scrivergli una presentazione. Nell’accettare, mi sono ricordato dei versi studiati al liceo, la frase che Enea in riva al mare premette al racconto a Didone della caduta di Troia: “Infandum regina iubes renovare dolorem, troianas ut opes et lamentabile regnum eruerint Danai…”. Mi sono ricordato del disegno fatto da Enea con una canna sulla sabbia della topografia dell’antica Troia, degli accampamenti, degli Achei, dei luoghi delle battaglie e della frase finale, quando Enea dice a Didone: "Guarda, o regina, come un’onda del mare, in una volta sola, ha cancellato tutto, ha cancellato tanta gloria e tanta storia…”.
Questo pensiero mi ha richiamato al dovere e così ho molto ringraziato il dott. Palermo per il suo senso civico e ho scritto questa breve premessa ai documenti da lui raccolti.
La mia età si avvicina ai novant’anni. Ho vissuto, per quasi un secolo, illuministicamente, una vita che si illuminava nella progettazione, nel pensare strutturalmente processi, nel disegnare spazialmente piani che configuravano il cammino verso traguardi di assetti spaziali che, a loro volta, cercavano di rappresentare olograficamente obiettivi di evoluzione, di organicità complessiva. La storia, la cultura umanistica e quella scientifica confluivano nei colori dello zoning e dei tessuti per armonizzarsi progressivamente nella vita in un processo di futuro coevolutivo dell’uomo nella sfera biologica, ecologica e psicosociale dell’umanità.
Una visione che configurava utopia di assetto e di rapporto e di strutture a tutte le scale, de-duttivamente, da quelle continentali a quelle nazionali, regionali, territoriali, comunali, particolari, in un paesaggio di scenari caratterizzato dal passaggio di Zeitgeist, dalle religioni ancora e sempre alla ricerca di scorciatoie fideiste inventate e di postulati di comodo, ad un nuovo mondo governato dalla filosofia del piacere e dalla religione della conoscenza e dell’etica del metodo scien-tifico.
Ricordo che attendevamo sempre con ansia l’uscita del nuovo numero della rivista Urbanistica, con le immagini degli scenari di frontiera culturale urbanistica sui quali contendere e, rispetto ai quali, non essere mai in posizione arretrata. Tutto questo è svanito e la società ha subìto, assistendovi quasi senza opposizione, il compier-si lento di un tale tramonto dei valori del Pubblico, della Pianificazione, della Programmazione dell’Urbanistica, della Politica di Piano, in favore della navigazione a vista nello spazio finanziario, di rimedio in rimedio, in progressione negativa, che ora, nell’anno 2012, quasi debbo vin-cere un certo pudore che vorrebbe trattenermi mentre scrivo queste cose pensando alle certezze di allora. Oggi l’urbanistica è uscita dal calendario politico a tutti i livelli di governo, mentre l’economia è divenuta diseconomia che vive della deregulation generale.
Oggi la finanza ha contagiato e fortemente intaccato – se non ancora travolto – il mondo del lavoro e della ricerca dello Stato di diritto, delle certezze delle logiche dei piani che non hanno più quella meravigliosa centralità sulla quale si scrivevano e perseguivano le Costituzioni e le loro progressive attuazioni, mentre la speculazione non ha più nulla da temere da parte dell’urbanistica perché ridotta a un settore tecnico, senza ambizioni di governo degli interessi generali, perché l’urbanistica è diventata una parola vana, un atto formale per legalizzare a posteriori, con nuove denominazioni, nuove forme delle antiche “lottizzazioni convenzionate”.
L’urbanistica per me, allora, era un’urbanistica dello spazio e del tempo, era la componente e la proiezione territoriale di una pianificazione generale che cercava di essere come una sinfonia, un processo dialettico che aveva un traguardo di armonia spazio-temporale e socio-culturale generale indicato come riferimento al quale conformare gli interventi nel tempo.Era una dichiarazione d’amore per un territorio e per una società. Allora tutto in me era diverso.
L’incontro operativo con l’archeologia, la storia e, ad un tempo, con la geomorfologia significante della più vasta storia geologica, avvenuto subito dopo la laurea, in occasione della meravigliosa esperienza del concorso del 1952 per il Piano Regolatore di Siracusa, in un momento in cui cominciava a lievitare anche in Italia l’idea dell’advocacy planning, mi hanno acceso da allora nella mente un “epigenoma” particolare e determinante, un “genearchitetto” che mi fa gerarchizzare e privilegiare nel processo progettuale la matrice antica, il Dna storico-culturale, sotto le immagini delle città.
La partenza del ragionamento è questa: perché i Greci si erano insediati a Siracusa? Il Porto Grande era il miglior porto del Mediterraneo e in più aveva la preziosa “vasca di oscillazione” del Porto Piccolo, l’Ortigia e l’Epipoli erano la più difendibile fortezza naturale perimetrata dalle falesie marine sollevate dalla neotettonica pleistocenica, l’Epipoli era vasta e poteva, una volta fortificata, anche ospitare i pascoli per il bestiame per la popolazione in caso di assedio. Non c’era situazione migliore per un insediamento autarchico in caso di pericolo, il tutto al centro di un Mediterraneo, che era allora il grande mare centrale del mondo antico, al confine tra le aree d’influenza tra le due grandi civiltà in conflitto, tra l’impero persiano e il mondo greco con tutte le sue colonie che si sviluppavano fino oltre le Colonne d’Ercole.Vi erano poi altri motivi: la stratigrafia geologica portava l’acqua potabile a domicilio in forma artesiana fino all’Ortigia, un vero dono dagli Dei.
Queste fondamentali componenti hanno dato a Siracusa il ruolo straordinario che ha avuto nell’antichità, e ad un tempo costituiscono ancora le risorse dell’armatura culturale per un nuovo piano.
Un urbanista è un direttore d’orchestra o meglio un compositore che ha davanti a sé infiniti elementi da armonizzare tra la città di pietra, le città della storia e la città dell’uomo, con vincoli da trasformare in risorse, tra storia e progetto, e il piano disegnato è un’olografia nella quale la quarta dimensione del tempo, del futuro è olograficamente racchiusa nella semiologia bidimen-sionale della sua rappresentazione. Quell’epigenoma, quello spartito, quella ouverture sono stati un imprinting che ha generato una matrice da rappresentare subito, da evidenziare.
La morfologia del porto e del rapporto con il mare, da evidenziare con l’azzurro e i significati geomorfologici della geodinamica del territorio, a loro volta matrice della geostoria dell’insediamento umano. A terra, i “significanti” archeologici della città magnogreca, da evidenziare con il rosso, con il colore più evidente e semiologicamente più significativo della sua importanza gerarchica all’interno di un connettivo verde, di un fiume verde di distacco esaltante e gerarchizzante che ne indica una presenza a livello di alta sacralità, di uno “status” di santuario, di tesoro da custodire, di ritrovamento di tracce di un ordine superiore scritto dal comandamento fatale che si ripete: “antiquam exquirite matrem”.
Questa visione alla Winckelmann ha reso particolare il piano di Siracusa fin dalla sua prima formalizzazione. Nel piano di concorso aleggia uno Zeitgeist di neoclassicismo che il disincanto del tempo ha fortemente venato di romanticismo. Da questo discende il titolo, che vuole rappresentare la presenza nel piano di un neoromanticismo molto connotante con cui leggere il tutto e di un neoillu-minismo dal quale discende la forza di un imperativo categorico, etico ed estetico, del primato dei Beni Culturali nelle scelte del piano.
Un secondo elemento è infatti il neoilluminismo. Io sono un fanatico della semiologia e delle evocazioni simboliche delle forme urbane a tutte le scale. Come nel Castello dei destini incrociati di Calvino, vedo l’esistenza criptica di un secondo sistema sotto le cose, di segni simbolici forti e a volte configuranti; vedo nell’interpretazione la simbologia affiorante geomorfologica che anticipa i segni antropici dell’architettura e dell’urbanistica indotta dalla loro morfologia. Quindi il secondo elemento che sono portato ad enfatizzare in una terza dimensione è l’interpretazione geodinamica delle geomorfologie del paesaggio, alle quali si appoggia la morfologia del segno archeologico per via dell’economia dell’urbanistica antica sottostante. Un sistema insediativo molto coerente, molto appoggiato al sistema naturale, soprattutto nei sistemi difensivi. Sistemi difensivi che per la loro robustezza, estensione ed esposizione, sono spesso i segni archeologici più evidenti. Mi riferisco al sistema delle falesie di bordo dell’Ortigia, dell’Epipoli sollevate dall’uplift della neotettonica pleistocenica e del circuito delle mura dionigiane.
Nei lunghi periodi durante i quali sono arrivato a Siracusa e non più ripartito, ho vissuto nella foresteria del sottotetto della Soprintendenza, in una stanzetta con l’affaccio sul Porto Grande, con Erodoto e Tucidide sul comodino. Era la letteratura antica che mi dava la forza di combattere. L’ulteriore elemento è costituito dall’idea della democrazia di procedimento, di costruzione democratica del piano in dialogo con i cittadini attraverso la stampa, in colloquio continuo, con un invito al confronto e all’arricchimento delle idee e delle proposte.
Studiando Siracusa sotto tutti gli aspetti, integrati tra loro, da quelli storici a quelli geologici, da quelli fisici a quelli letterari ero divenuto Siracusano, profondamente, appassionatamente Siracusano.
Con queste tre dominanti, il modello di sviluppo urbano proposto dal P.R.G. – condizionato ulteriormente dal ruolo strategico molto rilevante del piano di industrializzazione del Mezzogiorno con fondi Casmez – ed il suo processo di formazione sono stati segnati dalla geomorfologia del porto e dalle falesie dell’Epipoli, dall’archeologia dell’impianto urbano classico al momento del suo massimo splendore – anch’esso fortemente coniugato con la base geomorfologica –, dalla convinta gestione della formazione del piano con un processo di confronto continuo col pubblico attraverso la stampa.
In quel primo periodo postbellico la risorsa più facile e la più diffusa per le economie locali era costituita dalle rendite edilizie parassitarie di posizione urbane in assenza dei piani regolatori da una parte e, dall’altra, e per la economia di livello superiore, dai grandi insediamenti industriali inquinanti dei semilavorati dell’industria del petrolio, con uno sviluppo basato sull’illusione dello sviluppo dei loro indotti, dalle industrie petrolchimiche, dalla mitologia di quelle siderurgiche e dalle fabbriche, molto concrete, del cemento. Tutto questo era un frattale della grande storia che avveniva nel mondo, e a livello nazionale era segnata dagli anni del Centrismo, e poi del Centro Sinistra e della politica di piano in un breve periodo di utopia della seconda metà del XX secolo.
È subito evidente quali fossero i termini delle conflittualità urbanistiche tenuto conto delle alleanze di sostegno politico-finanziarie fra proprietari dei suoli, partiti politici, Cassa per il Mezzogiorno; tra diversi supporti ideologici, guerra fredda, dominanza nazionale e locale della Dc, scelte politiche industriali sbagliate e molto influenzate dai finanziamenti ai partiti, assenza nel dibattito, fino all’inizio degli anni ‘70, della componente ecologica, dei Beni Culturali, ancora senza un proprio Ministero ed ancora legati a quello della Pubblica Istruzione, carenza di livelli di pianificazione strategica almeno sovracomunali etc., ministri che appena toccavano il tema della riforma urbanistica uscivano di scena come il povero Fiorentino Sullo.
Questa era la situazione nella quale il progetto di Piano Regolatore ha messo in campo negli anni ‘50, “spes contra spem”, una proposta di urbanistica basata sull’economia dei Beni Culturali, di armatura culturale del territorio, di difesa e sviluppo ecologico-culturale, di advocacy planning sulla stampa locale con invito alla popolazione ad esprimersi, valutare, proporre, per dare “gambe” al piano.
In quel periodo Astengo progettava il piano di Gubbio con la stessa matrice mentale, mentre la rivista “Urbanistica”, con valenza culturale e diffusione nazionale ed internazionale, supportava il nostro tentativo pubblicando ampiamente il piano, ambitissimo privilegio culturale per l’urbanistica di allora.
Non era ancora diffuso e all’ordine del giorno il concetto strutturale di “sostenibilità” tra fattibilità e automantenimento coevolutivo con il contesto, mentre il rischio di autodistruzione delle risorse era evidentissimo ed il progetto del Piano Regolatore era proprio volto prioritariamente ad un generale rafforzamento preventivo e permanente del sistema immunitario per una vasta tutela dei Beni Culturali di Siracusa.
I miei colleghi Lacava, Roscioli ed io avevamo la responsabilità, inizialmente collegiale, del piano di Siracusa, ma i tempi dei treni (a Catania finiva la trazione elettrica), i costi degli aerei, una situazione conflittuale nella quale per l’Amministrazione Comunale il Piano Regolatore era sostanzialmente un fastidioso obbligo di legge e un’occasione di contrattazione partitico-elettorale, ad un tempo altri importanti concorsi vinti, relativi ad altri Piani Regolatori, portarono alla decisione dello studio che fossi io ad assumere le responsabilità per Siracusa.
A Siracusa io avevo ricevuto l’incarico da parte della Soprintendenza alle Antichità e della Cassa per il Mezzogiorno – il sublime incarico – di sistemazione della Neapolis con il Teatro Greco, l’Ara di Jerone, l’Anfiteatro Romano, le favolose latomie, l’Orecchio di Dionigi… È chiaro che con simili presenze esemplari ed una tale occasione operativa, il modello generale del piano era ulteriormente volto alla centralità di ruolo e d’attenzione alla difesa dei Beni Culturali e Ambientali e, insieme, alla democrazia di procedimento per la sostenibilità dell’operazione che comportava grandi espropri, naturalmente osteggiati dalle forze politiche, dalla Cassa per il Mezzogiorno, da tutti.
Gli elementi di importanza ed interesse che si collocavano a livello mondiale erano per noi le carte da giocare. Il resto era importante ma subordinato a questi aspetti che contavano ancora di più. Da tutto ciò è nata la conflittualità con chi prevedeva insediamenti con localizzazioni che implicavano il coinvolgimento dell’Epipoli ancora intatta nella sua parte mediana e superiore. Conflittualità che ovviamente s’intrecciava fortemente con la storia politica di quegli anni, i rapporti politico-finanziari tra amministratori ed acquirenti della grande proprietà fondiaria periurbana lottizzata o lottizzabile e politici consorziati nelle due correnti della Dc e relativi clienti e satelliti.
Un piano era visto come un’immagine, una bussola sistemica, anche esteticamente valutabile, di una nuova città ideale divenuta sistema territoriale, armoniosa a tutte le scale, un mondo quale si vede in uno zoom, come in una ripresa multispettrale di un satellite che si allontana dalla terra, che legge ed interpreta realtà ed interazione nel fisico e nel sociale, con la semiologia dell’ordine e del disordine significante nelle immagini, nei colori e nella composizione di tessuto delle zonizzazioni, con zone omogenee sempre più frattali per ricchezza di disomogeneità integrate.
Il piano doveva essere leggibile come lo spartito di una musica di raggiunta integrazione funzionale in una variazione fatta sempre di nuovi stati di equilibrio, armonici potenziali; nel piano doveva essere leggibile la qualità di coerenza con la geomorfologia della natura, la quantità e la qualità e la accessibilità alle attrezzature di tutti i livelli, ai servizi, la loro quantità ed integrazione nei tessuti, le dominanti di produzione e le dominanti di civiltà, la qualità politica e la qualità sociale delle proposte, le qualità estetiche in armonia con i contesti di scenario am-bientale.
Ricordo che allora, soprattutto alla fine degli anni ‘60, nell’ultima nostra edizione del piano, quello redatto in collaborazione con gli architetti siracusani Liistro e Santuccio, – cooptati a mia richiesta nell’équipe del piano per garantire un rapporto qualificato, diretto con la città nel brevissimo tempo concesso –, pensavamo pienamente in termini di modelli europei e di modelli nazionali. Questo avveniva nell’enfasi della conoscenza del “Progetto ‘80” – alla cui costruzione io partecipavo proprio come responsabile del Mezzogiorno e del settore dei Beni Culturali e Ambientali –, del modello per l’Italia del futuro, degli anni ‘80, per conto del Ministero del Tesoro e della Programmazione Economica, nel quale il sistema Siracusa-Augusta era un modello “P”, cioè Modello Programmatico di Area metropolitana (cfr. “Progetto ‘80”) di grande rilevanza.
Pensavamo a modelli territorializzati dei sistemi urbani di insediamento territoriale storici, attuali, di tendenza, da interpretare e valutare, patologici da contrastare, programmatici da promuovere, pensavamo a modelli con gerarchie urbane, metropolitane e ad armature culturali del territorio, a sistemi del verde a tutti i livelli, dai parchi nazionali agli standard del verde comunale, a sistemi infrastrutturali intermodali, integrati, portuali, ferroviari, autostradali, aeroportuali, ai grandi nodi infrastrutturali di scambio. Ricordo il sistema portuale nazionale nel quale la rada di Augusta aveva un grandissimo ruolo perché era l’unico grande porto con fondali così alti da poter ospitare le megapetroliere che doppiavano allora il Capo di Buona Speranza, perché il Canale di Suez era chiuso per il conflitto arabo-israeliano.
Ricordo che Siracusa, con il grande quieto bacino del suo “Porto Grande”, diveniva il più grande porto per la navigazione sportiva a vela del Mediterraneo centrale. Si poneva il problema di far rivivere uno dei più grandi porti velistici dell’antichità, senza però consentire che le attrezzature dei marinas divenissero germi e cavalli di Troia per grandi complessi alberghieri e poli di attrazione economica per grandi capitali internazionali di riciclo in cerca di investimenti, di grandi avventure speculative fondiarie, legate al settore edilizio. Era un tema delicatissimo, tra integralismo culturale e giustificato timore di travolgimenti speculativi.
Avevamo nel nostro modello nazionale ridotto strutturalmente nel rapporto residenza-lavoro gli sprechi di tempo – di oltre un’ora al giorno in media per ogni unità lavorativa – dovuti a contraddizioni e disordine territoriali, il che avrebbe aiutato a mettere il Paese in condizioni competitive, risanato il mercato del lavoro, portato equità e giustizia sociale nel meccanismo social-produttivo, liberando fondi per la ricerca, l’innovazione, la produttività.
La cultura e la formazione, la ricerca scientifica erano in primissimo piano con il sistema di “Armatura Culturale del Territorio”. Ogni cosa aveva obiettivi territorializzati e peso ben definito nel bilancio generale.
Il sistema autostradale era tutto pedemontano e con un modello a pettine serviva le coste in modo da renderle tutte pubbliche e accessibili, con una precisa esclusione di litoranee costiere. Il sole del Mezzogiorno diveniva così una risorsa concreta per un’enorme offerta per il turismo europeo. Eravamo esaltati da queste idee che stavamo tutte inserendo anche territorialmente nel “Progetto ‘80”.
Ma tutto questo non trovava riscontro nella potente maggioranza politica dalla quale, per via del Concorso Nazionale vinto a suo tempo, avevamo ricevuto l’incarico.
Ora debbo fare una confessione laica. Di fronte al sonno, all’inerzia, all’opposizione miope e meschina degli interessi della classe democristiana che occupava tutto il potere e che però, a sua volta, non contava nulla a livello regionale dominato dalla Dc palermitana, alla fine, dopo la consegna dell’edizione finale del 1970, all’ostilità avvilente e inconcludente dell’Amministrazione committente, non ebbi la forza civile di proseguire. Avevo appena ottenuto l’incarico universitario a Palermo, ero impegnato nel Direttivo dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, ero all’opera per il “Progetto dell’Italia degli anni ‘80”, ero impegnato nella progettazione di tutti i musei della Libia, lasciai tutto nelle mani dei miei due valorosi colleghi Liistro e Santuccio, che nel frattempo stavano divenendo due importanti docenti nelle facoltà di Architettura di Roma nell’ambito dei gloriosi Istituti di due grandi maestri come Piccinato e Carbonara e si sentivano ancora in grado di fronteggiare eroicamente la situazione del 1970.
Cosicché quando l’ultima edizione del piano del 1970, dopo un lungo tempo dalla consegna, andò in Consiglio Comunale per l’adozione, c’era ancora la mia firma per lealtà e per riguardo verso i miei colleghi, ma in realtà non controllavo più la situazione. Ci fu persino impedito di fotografare l’edizione finale del piano, unica a colori (a quei tempi si usava l’acquarello) esposta al pubblico, che nell’ansia ed urgenza della consegna, anche per difficoltà di dimensioni, supporti etc., non avevamo fatto in tempo a fotografare a studio, prima dell’imballaggio!
Il sindaco Dc Giuliano era un ex magistrato, pieno di un grandissimo senso dell’umorismo, che utilizzava anche nell’affrontare i problemi più gravi. Ogni volta, travolgeva il contenuto delle nostre formulazioni delle norme tecniche dicendo con accento severo che l’interpretazione degli autori era un’interpretazione rispettabile, ma le sue tortuose e finissime interpretazioni alla rovescia erano altrettanto valide. L’Assessore all’Urbanistica, il dottor Rizza, fu addirittura invitato a ripudiare il piano sotto la minaccia di espulsione dal suo partito, dalla Dc.
Aveva sempre correttamente difeso l’autonomia del Piano Regolatore dai suoi colleghi di partito, dalla stessa Amministrazione – la quale esprimeva interessi tutt’altro che generali –, ma era in minoranza, isolato dalla corrente interna rivale e dominante.
Tutta la mia energia mentale di urbanista, come dicevo, si stava trasferendo sul livello nazionale e regionale, concentrandosi sugli studi per il “Progetto ‘80”. L’interesse locale della Giunta era tutto concentrato non sul piano in generale ma su operazioni edilizie ben rappresentate e leggibili chiaramente sulle varianti integrative che furono introdotte dalla Amministrazione stessa in sede di adozione, dando luogo ad una contemporanea adozione del piano e di un antipiano, per cui alla fine, leggendo le osservazioni di “Italia Nostra”, sentivo e manifestavo tutta la condivisione ed immedesimazione in quelle formulazioni, cosicché tutti conclusero che le avevo redatte io stesso.
Mi stupisco, dicevo, della forza di utopia che aveva preceduto e accompagnato quelle vicende, rischiando però alla fine di coinvolgermi in problemi di gestione e mediazione del piano, nel vano tentativo di salvarlo da continui tentativi e richieste da parte dell’Amministrazione di modifiche sconvolgenti.
Ma gli interessi locali erano tutti concentrati sulle integrazioni da adottare contestualmente al piano, che noi avevamo rifiutato di introdurre nei disegni di progetto e nella normativa, che l’Amministrazione presentava a tutti i costi sotto forma di urbanistica scritta poi rifiutata dalla Regione Siciliana in sede di esame per l’approvazione.
Ammiro ancora una volta i due valorosi colleghi e professori Liistro e Santuccio, che mantennero i rapporti con l’Amministrazione forse anche in virtù dei legami di sangue con la città, dato che entrambi erano Siracusani anche per nascita oltre che per amore e per cultura.
* * *
Ora che tutto questo è svanito, che i protagonisti della politica di allora sono divenuti consumati attori pieni di rancori e disillusioni, attori che si arrabattano sul palcoscenico politico ben consapevoli di essere ormai destinati a non essere ascoltati mai più, leggere questa raccolta di scritti mi lascia pieno di stupore.
È tutto talmente lontano – quest’avventura era iniziata nel ‘52 e per me è finita nel ‘70 circa – e d’altra parte è talmente oggi ridotto in campo urbanistico il livello di utopia accettabile al di sotto delle soglie dell’ironia, nelle istituzioni e nei loro piani – ridotti ad enunciazioni elettorali o a fascicoli di archivio o testi di letteratura urbanistica – che veramente ho difficoltà a ricordare come reale, sopportata e combattuta quella situazione incredibile. Forse si tratta di un rifiuto dell’inconscio.
L’urbanistica oggi è ridotta in generale al pensiero di come violare quel che resta delle sue ceneri o come dare veste giuridica al disimpegno in nome di strategie non vincolanti, o come sviluppare il sopravvento dell’urbanistica scritta trasformata in ginnastica orale.
Ho difficoltà a ricordare quello che leggo in questi vecchi articoli, che un treno a vapore portava da Siracusa a Catania dove si stampava il giornale “La Sicilia” che li ospitava, in una pagina destinata alle Cronache di Siracusa. Difficoltà a comprendere quale utopia – quale forza di utopia fosse in me e come una briciola di uomo e di urbanista potesse combattere, termopili dopo termopili, prima da solo, poi con i due giovani bravissimi appassionati colleghi di Siracusa, Michele Liistro e Concetto Santuccio, entrambi ora docenti alla facoltà di Architettura dell’Università di Roma, contro una sfera enorme e lentamente rotolante di organizzazioni partitiche con idoli così diversi, e con l’alleanza di così poche figure locali disposte ad esporsi.
Voglio aggiungere una cosa poco nota, che mi fa pensare come piccoli eventi di piccoli uomini possano cambiare addirittura la storia.
Penso, come sia potuto accadere che un minuscolo avvocato, consulente ad hoc del Comune, abbia potuto far cadere (parlo della prima edizione del piano, quando combattevo da solo) per rinuncia giuridicamente motivata, tutto un grande patrimonio di cessioni di aree vincolate e destinate dal piano a parchi archeologici (lungo i 20 km. delle mura dionigiane!), a parchi naturali e attrezzati. Si trattava di aree che in sede di esame delle osservazioni avevo ottenuto a favore del Comune in donazione da parte di pochissimi grandi proprietari di aree dell’Epipoli, in particolare dai marchesi Gargallo, proprietari di quasi tutte le aree di espansione di Siracusa. Questi infatti, assistiti nella redazione delle “osservazioni” al Piano Regolatore da un generoso intellettuale e professore di architettura, il prof. Carbonara, avevano accettato di donare al Comune vaste aree rocciose inedificabili da destinare a Parco Pubblico Archeologico, a fronte dell’accoglimento contrattuale da parte del Comune di alcune piccole ininfluenti varianti di cubatura in sede di esame delle osservazioni al P.R.G. relativamente ad aree edificabili. Una contrattazione urbanistica per fini pubblici ante litteram che, gestita da uomini onesti con indicazioni degli stessi progettisti, sarebbe stata certamente una via importantissima per l’attuazione del piano.
Penso che cosa sarebbe ora Siracusa, con tutte quelle aree archeologiche donate (e poi non accettate proprio dal Comune beneficiario), trasformata in una città scenario del suo passato, in una trama spaziale di un immenso parco di resti archeologici immersi nella continuità di un contestuale tessuto verde che ne avrebbe focalizzato il carattere e la continuità nel nuovo scenario urbano.
Di questo sogno solo una piccola parte è stata attuata ed è il parco della Neapolis. Ricordo che quando lo progettai dovetti combattere, veramente combattere con la Cassa per il Mezzogiorno che lo finanziava e che voleva spendere denaro in opere aggiuntive ed in occupazione, ma era contrarissima agli espropri, mentre per me era assolutamente prioritario assicurare la demanialità di tutte le grandi aree della Neapolis, del Teatro Greco, dell’Ara di Jerone, dell’Anfiteatro Ro-mano, delle latomie, della balza, oltre a quelle ristrette dei singoli monumenti già in possesso della Soprintendenza, per garantire le aree archeologiche dagli insediamenti edilizi che si sarebbero sviluppati ai suoi bordi.
Ricordo che l’Ingegnere Capo del Comune, quando lo incontrai per la prima volta nel ‘52, mi disse a proposito dell’area della Neapolis e delle necropoli: “Tutti cimiteri hannu a restari? Iu ci facissi un cinema supra u teatru grecu”.
Mi ricordo che l’ambizione come progettista di realizzare, musealizzare, etc., era grandissima, ma la coscienza di giovane urbanista mi accendeva un forte senso di responsabilità civile del ruolo pubblico nella progettazione di un Piano Regolatore di così grande importanza per cui la demanializzazione era il primo fondamentale obiettivo da perseguire, per il controllo del processo e dell’assetto strutturale del governo pubblico del territorio.
In quegli anni la speculazione edilizia infuriava a Viale Zecchino e l’avv. Panico era l’elemento trainante dell’opposizione in Consiglio Comunale. Ricordo che preparò un manifesto nel quale si descriveva l’Ingegnere Capo del Comune come una figura della zoologia fantastica di Borges, la katablefa, con il titolo “Chi è?”, in cui tutti ravvisarono il personaggio, dati i riferimenti alle operazioni immobiliari di Viale Zecchino.
Ricordo che arrivai persino ad una situazione di tensione con il Soprintendente, grande archeologo e mio idolo e maestro, il prof. Bernabò Brea, che temeva di non riuscire, con la burocrazia statale di mezzo, a gestire e coltivare le vaste aree di cui progettavo nel piano la demanializzazione ed in particolare tutte quelle della Neapolis nelle quali era importantissimo tenere in vita le colture a frutteti che, nello scenario generale, erano una componente essenziale perché formavano un tappeto di ridente natura magnogreca all’interno della quale sorgevano i monumenti. Io proponevo di demanializzare e poi concedere in “concessione d’uso” ad agrumeti le aree espropriate, ma chi doveva amministrare bene sapeva a quali rischi interpretativi, controlli, formalità burocratiche, si andava incontro con la Finanza ed il Catasto.
Ricordo le parole del Sindaco che ci ricordava di essere i progettisti dell’Amministrazione e non dell’opposizione e che comunque dovevamo ricordare che avrebbe sempre vinto, ovviamente, perché aveva la maggioranza, perché a mezzanotte la gente che assisteva al Consiglio Comunale se ne andava, perché senza il pubblico le opposizioni non erano più interessate, perché potevano recitare soltanto, protestare, opporsi, recitare senza platea. Erano minoranza e a mezzanotte la maggioranza al completo restava sola e compatta a deliberare e verbalizzare tutto quello che il partito aveva deciso e a volte anche di più, nell’ebbrezza solitaria di una autogestione di verbali e decisioni miliardarie.
Dolore e lontananza ieri come oggi si accompagnano ormai a questi pensieri.
Gli interlocutori, gli amici e i nemici della prima fase della battaglia in solitudine sono scomparsi. L’avvocato Caracciolo, prima Assessore all’Urbanistica e poi Sindaco e sostenitore del piano, non c’è più. L’onorevole Sgarlata, Presidente della Provincia, poi Sindaco di Siracusa, poi Sottosegretario al Turismo e leader della locale corrente morotea, caro e stimato amico, non c’è più. Il presidente Rizza, Assessore all’Urbanistica, che aveva sostenuto il piano addirittura sino a subire il ricatto del suo partito, la Dc, era stato posto di fronte all’alternativa o di disconoscere il piano o di essere escluso dal partito, non c’è più. Bernabò Brea, il grande famoso archeologo, allora Soprintendente di tutta la Sicilia Orientale, dopo aver lasciato Siracusa per le Eolie, divenute il suo regno scientifico, ed avere realizzato a Lipari quello che forse oggi deve essere considerato il più esemplare museo della protostoria del Mediterraneo, non c’è più. Il prof. Monaco, Direttore dell’Istituto del Dramma Antico, prof. emerito dell’Università di Palermo, grande amico, non c’è più.
Quelli che furono i grandi oppositori del piano sono di tempra più resistente, ma il tempo, l’abusivismo e una dinamica edilizia oramai spontanea hanno sostanzialmente travolto tutti, sconvolto valori, partiti, il territorio.
Tutto è ora diverso, anche se i limiti di consapevolezza di ciò che si sta distruggendo non sono mutati. La finanza ha travolto l’economia a livello globale, tutto quello che il piano voleva evitare è stato realizzato prioritariamente per timore che il piano fosse approvato ed eventualmente attuato, l’industrializzazione a Nord, tra Siracusa e Augusta, è divenuta una necropoli di scheletri di una concentrazione colossale di inquinamento ambientale, ha monopolizzato l’accessibilità alla costa per poche industrie ormai desuete, le aree costiere a Sud della città son divenute lottizzazioni con privatizzazione degli accessi al mare. I giacimenti di petrolio del Ragusano si sono esauriti, le opposte fazioni sono in lite su tutto, l’Ortigia ha perso tutto il tessuto artigiano e microcommerciale confluito nei supermercati, e la popolazione ha abbandonato lo “scogghiu”.
Il piano particolareggiato dell’Ortigia, un capolavoro di competenza, amore ed impegno del prof. Pagnano che la difendeva, è decaduto per eccesso di amore progettuale-urbanistico a scala architettonica, in quanto redatto e formalizzato giuridicamente in forma di Piano Particolareg-giato Esecutivo che comporta la attuazione in termini decennali o l’indennizzo e non consente il ripristino dei vincoli.
L’incarico dato di recente al prof. Liistro per il piano dell’Ortigia è stato conferito con carattere soltanto consultivo, sono venute meno le collaborazioni d’ufficio, l’insistenza a procedere sulla via di un piano particolareggiato ma generale, a priori, ha mantenuto in vita le stesse condizioni di insostenibilità operativa dal punto di vista giuridico ed ora è arenato e non ha tensione che ne sostenga una riformulazione.
La pianificazione territoriale e la pianificazione in generale sono uscite dal dizionario stesso della politica, ieri erano più un problema che una risorsa, oggi sono addirittura una parola vana, anzi ostile nello scenario dell’urbanistica contrattata.
L’immagine da satellite del territorio visibile oggi al computer con Google Earth non è solo sconvolgente: è come vedere l’equivalente di una grande biblioteca incendiata, di una Firenze al-lagata dall’Arno. Mi procura la disperazione di un medico che guarda la risonanza magnetica aggiornata di un figlio e si trova di fronte ad una metastasi raccapricciante diffusa a livello impensabile.
Il prof. Santi Agnello ha scritto e raccolto i primi importanti documenti sull’Archivio Storico, appena formato e inizialmente diretto da M. T. Gargallo, “Appunti di storia urbanistica siracusana”, vol. I (1955), ma, anche lui, non c’è più. Restano gli scritti.
Io stesso, per sbaglio, sono ancora vivo.
Assieme, il prof. Santi Luigi Agnello e l’avv. Corrado V. Giuliano hanno pubblicato un prezioso libro dal titolo: “I guasti di Siracusa: conversazioni sulle vicende dell’urbanistica siracusana” (Siracusa, 2001) di cui in questo libro si pubblicano diversi documenti citati assieme ad altri faticosamente recuperati in edizione integrale.
Il prof. Michele Liistro ha scritto uno stupendo libro su Ortigia, Ortigia: memoria e futuro (Roma, 2008), un testo che affianca la grande competenza urbanistica con la finezza psicologica e letteraria di un Thomas Mann e la saggezza cinese di un Confucio. Un libro veramente commovente per l’amore che esprime per l’antica patria, per l’amata Ortigia piena di storia, di sole e di miele della sua giovinezza. Ma la quieta saggezza espressa da questo libro non ha riflessi concreti nell’azione dell’Amministrazione.
Ma ora basta con il gelo di queste considerazioni e consolazioni letterarie.
Altra cosa è la gratitudine con cui comunque voglio ringraziare il valoroso curatore di questo libro-documento, il dott. Giuseppe Palermo, che ha raccolto tutti i documenti che raccontano una storia così complessa da invocare un nuovo Tolstoi per scrivere questo capitolo, di una nuova “Guerra e pace” del XX secolo. Grazie ancora, quindi, al dott. Palermo, che ha voluto recuperare e ordinare la documentazione di tutto l’advocacy planning, la partecipazione dei Siracusani attraverso i giornali e le risposte degli urbanisti, durante la lunga battaglia urbanistica dall’inizio degli anni ‘50 all’inizio degli anni ‘70. Battaglia di una guerra che ancora continua all’interno di un palcoscenico di una città, che in un palcoscenico ulteriore, quello del Teatro Greco, ospita ogni anno la recita di prototipi classici di tragedie che si ripetono in permanenza, tra storia e psicologia, nella storia dell’uomo.
Ritornando a Siracusa per assistere ancora una volta alle rappresentazioni classiche alla fine degli anni ‘90, sono tornato in quel Teatro Greco di cui avevo curato la sistemazione con la guida di due grandi archeologi, Stucchi e Bernabò Brea, nel 1954. Mi sono ricordato di quando ritrovavamo gli antichi tracciati sotterranei e recuperavamo gli antichi acquedotti, riportando l’acqua nel ninfeo sopra la cavea del Teatro Greco, demanializzavamo l’intera area monumentale della Neapolis, curando il vastissimo impianto arboreo di querce, lecci, carrubi, agrumi, allori, cipressi.
In quell’atmosfera, ho scritto una poesia che riporto, tenendo fede al titolo che parla di utopia neoilluminista e neoromanticismo.
COME UNA PANATENAICA
Aiutami fanciulla
discendo
col passo incerto
della nostalgia
le gradinate
che mille volte
un tempo
il mio giovane corpo
avea disceso
con orgogliosa sicurezza
aiutami fanciulla
a entrare tra la folla
che lenta defluisce
verso il mio bosco
e più non mi conosce
Il poeta descrive il fiume umano che defluisce lentamente dal Teatro Greco di Siracusa, si riversa nell'orchestra e scompare in un bosco sacro di ulivi e cipressi che lui stesso ha piantato negli anni della sua giovinezza tra la scena e il paesaggio del porto e del Plemmyrion deturpato dallo scalo ferroviario e da una fumosa vecchia zona industriale.
Successivamente, come dicevo all’inizio di questo scritto, Siracusa ha ottenuto il riconoscimento di Sito appartenente al Patrimonio straordinario, unico ed intangibile dell’Umanità. Ma la Siracusa di cui si parla, per me non è quella attuale di un’edilizia disordinata che ha deturpato il paesaggio, delle strade che hanno tagliato l’Epipoli e le balze e delle lottizzazioni che hanno privatizzato le coste e metastasizzato tutto il territorio. La Siracusa alla quale mi riferisco è quel capolavoro straordinario che il lontano progetto di concorso aveva sognato e proposto affidando alle maestose rovine ed al contestuale scenario paesistico il ruolo primario di elemento configurante nel piano, risuscitando, per il mondo intero, un polo di riferimento storico-semiologico a livello di Epidauro, di Delfi, di Efeso, di Cartagine, di Atene – sua eterna grande rivale nel mondo antico –, una reminiscenza primaria della grande storia della civiltà classica, matrice della nostra identità.
Roma, 11 maggio 2012
Per chi volesse acquistare il libro, qui il link alla casa editrice
«Sblocca Italia. Il presidente dell'Autorità anti corruzione, Raffaele Cantone, ha sottolineato le criticità del piano del governo per le opere pubbliche e private che nei prossimi anni dovrebbero asfaltare il Paese: "Appalti a rischio senza trasparenza". Anche Bankitalia "avvisa" la Commissione ambiente alla Camera». Il manifesto, 1 ottobre 2014 (m.p.r.)
Una pioggia di miliardi promessi per completare le opere ferroviarie, per modernizzare gli aeroporti, per rilanciare i lavori pubblici nelle aree urbane, per asfaltare nuove o vecchie autostrade, per costruire varie infrastrutture, fra cui nuovi pozzi petroliferi. Questo è il meraviglioso programma del cosiddetto decreto “Sblocca Italia” (nome di fantasia, copy right Matteo Renzi).
E in più, tanto per essere svelti e convincenti, ci sono anche normative pensate ad hoc per snellire le procedure burocratiche e velocizzare l’assegnazione degli appalti. In buona sostanza, si tratta delle opere pubbliche (e private) che nei prossimi anni dovrebbero asfaltare l’Italia, con la prospettiva, dicono, di far ripartire l’economia.
La materia è complessa e c’è chi ha già ribattezzato “Sfascia Italia” il decreto che andrà in aula alla Camera la prossima settimana (il Movimento 5 Stelle che sta preparando una controproposta e una serie di iniziative nei territori per denunciare il bluff di un’operazione che non starebbe in piedi — “non ci sono i soldi” — e che sarebbe “dannosa” e piena di insidie — per il territorio e per l’opacità di procedure che potrebbero favorire il malaffare.
Questa però volta i penta stellati non sono i soli a sottolineare alcune “criticità”, se è vero che ieri nel corso di una lunga audizione alla Commissione ambiente alla Camera si sono levate altre voci autorevoli a suggerire una certa prudenza. E’ stata una lunga teoria di pareri, dubbi e perplessità, fra cui spiccano i pareri di Bankitalia e di Raffaele Cantone, il presidente dell’Autorità anticorruzione, quasi un oracolo del nuovo corso.
Gli esperti di via Nazionale, col tono compassato che gli è proprio, questa volta sono stati abbastanza espliciti: alcune deroghe previste nel decreto potrebbero favorire la corruzione, e ci sarebbero anche “rischi in termini di costi”. La parte del guastafeste è toccata al vice capo del servizio struttura economica di Bankitalia, Fabrizio Balassone, preoccupata per le troppe deroghe alla disciplina ordinaria previste dal decreto per la realizzazione delle opere pubbliche: “Si introduce un sistema di deroghe molto pervasivo al Codice di contratti pubblici sulla base della mera certificazione del requisito di estrema urgenza da parte dell’ente interessato. Tale ricorso a meccanismi derogatori, pur motivato dal condivisibile obiettivo di ridurre i tempi in fase di aggiudicazione, si è già rivelato in passato non sempre pienamente efficace, con ripercussioni negative sui tempi e sui costi nella successiva fase di esecuzione dell’opera e di vulnerabilità ai rischi di corruzione”. Invoca “trasparenza” Bankitalia.
Raffaele Cantone è andato oltre. E’ entrato nei dettagli per esprimere «qualche perplessità». Per il ruolo che ricopre è inutile dire che il suo è stato l’intervento più allarmante ascoltato ieri in Commissione. Per esempio: il decreto concentra troppi poteri in mano all’amministratore delegato di Fs Michele Elia, nominato commissario straordinario per la Napoli-Bari. La scelta sarebbe problematica perché «è evidente che c’è un soggetto che ha interesse al compimento delle attività che è anche soggetto attuatore pubblico degli appalti». Dicesi conflitto di interessi. Raffaele Cantone ha intravisto norme “non del tutto comprensibili” anche sulle concessioni autostradali, in particolare laddove esiste un meccanismo che affida alle aziende concessionarie la possibilità di presentare altri progetti nei tratti di interconnessione tra le autostrade anche dopo aver già vinto l’appalto.
L’affondo è piaciuto anche al presidente dell’Ance, Paolo Buzzetti (costruttori edili): «Bisogna mandare in gara tutto quello che non è stato vinto tramite gara, dobbiamo fare chiarezza sugli interventi che creano lavoro». Cantone, inoltre, ha ravvisato un concreto rischio riciclaggio a proposito dei project bond (sorta di azioni non nominative e “de materializzate”), e più in generale ha chiesto più chiarezza su alcune figure chiave individuate per facilitare l’attuazione del decreto “Salva Italia”. Per il presidente dell’Anac «va resa obbligatoria la trasparenza assoluta». Il suo intervento è stato apprezzato da Ermete Realacci, presidente della Commissione ambiente alla Camera: «Ha indicato concretamente vari spunti per migliorare il provvedimento».
«Salire sui treni è ancora troppo spesso complicato per le persone con ridotte capacità motorie. Peccato che anche il “Governo del fare” si sia fatto trascinare sul terreno delle grandi opere che fanno immagine, ma non producono ricadute sui territori attraversati e comportano vantaggi marginali per i potenziali utenti». Lavoce.info, 30 settembre 2014 (m.p.r.)
La doppia barriera di treni e marciapiedi
La normativa italiana sull’abbattimento delle barriere architettoniche (Dpr 503/1996, articoli 24 e 25) vorrebbe che le stazioni e i mezzi di trasporto pubblico su gomma e su ferro fossero accessibili alle persone con ridotte capacità motorie: per i veicoli sono cogenti le specifiche tecniche di interoperabilità previste dalla decisione della Commissione europea 2008/164 (emendata dalla 2012/464/EC), e si applicano inoltre le norme del regolamento Ce 1371/2007, capo V.
Ascensori o rampe?
Certo tutto questo non basta, è bene che sul treno vi sia anche un’area dove si possano ancorare una o più sedie a rotelle, un bagno accessibile e, se si tratta di una stazione importante o comunque di località con sottopassaggio, dovrebbe esserci anche un ascensore o le rampe a pendenza adeguata. E qui il problema diventa spinoso. Rete ferroviaria italiana ha deciso unilateralmente di installare “elevatori” o ascensori solo a patto che il comune o un altro ente o società pubblica si accollino l’onere della manutenzione ordinaria e (soprattutto) del servizio di pronto intervento in caso di guasto e per liberare persone imprigionate. Dato che si tratta di circa 10mila euro all’anno per ascensore, è evidente che pochissimi comuni si sobbarcano la spesa, soprattutto ultimamente. In alcuni casi, sono stati installati dei “montascale”, vittima di vandalismo nel giro di poche settimane e che comunque richiedono spesso la presenza di un operatore terzo.
Lavori in corso in poco tempo
In molte stazioni e fermate, tuttavia, l’ascensore c’è già o addirittura non serve, bisogna invece alzare il marciapiede. Le direzioni territoriali di Rfi hanno intrapreso azioni in tal senso, ma la scarsità di risorse (non è alta velocità…), la necessità di lavorare sotto esercizio e la “non visibilità mediatica” degli interventi non ne incoraggiano la diffusione. Sarebbero lavori facili, senza necessità di gara perché rientrano nella manutenzione straordinaria e realizzabili con il “global service” che le strutture di Rfi hanno sottoscritto con imprese di lavori edili opportunamente qualificate e selezionate. Il costo si aggira sui 250 euro al metro quadro e i lavori si possono avviare e concludere in meno di un mese.
Alcune parzialmente condivisibili riflessioni sullo spazio urbano auspicabile del futuro, che però affrontano il problema a valle di nodi del tutto irrisolti. La Repubblica, 1 ottobre 2014, postilla (f.b.)
La città che smette di crescere. E che addirittura si contrae. Ne dibattono architetti e urbanisti che da tempo si misurano con l’espressione inglese shrinking city. La discussione fa tappa a Tokyo, quindici milioni di abitanti, trentaquattro considerando l’intero agglomerato: Hidetoshi Ohno, professore all’università della capitale giapponese, ha messo a punto uno studio che prefigura per il 2050 una Tokyo ridimensionata, con un terzo degli abitanti che ha oggi. Ohno è oggi a un convegno al Maxxi di Roma (organizzato dal Formedil) e domani alla Triennale di Milano. Il suo programma — «uno studio accademico», precisa, «non un piano urbanistico » — si chiama FiberCity: la città come un tessuto, un insieme di fibre, più compatta di come l’espansione tumultuosa degli ultimi decenni l’ha dispersa. Una città che riutilizza i suoi spazi, che porta il verde dove il cemento non serve più. «La città che cresce fa pensare a una macchina », spiega Ohno, «se si rompe un pezzo, la macchina non cammina. La città che non cresce è simile a un fazzoletto di stoffa: se una fibra si buca la si può riparare, ma intanto l’insieme continua a essere utilizzabile».
Il tema riguarda Tokyo, ma la musica si diffonde da Oriente a Occidente, sfiorando appena le immani megalopoli africane, sudamericane e asiatiche, dove l’urbanesimo non ha sosta. Prima negli Stati Uniti, poi in Europa e anche in Italia si è imposto nei decenni il modello della città diffusa: dispersione abitativa, consumo di suolo, trasporto privato, costi ambientali. Contemporaneamente la crisi industriale, prima di quella finanziaria, ha svuotato zone delle città. I dati nei quali si imbatte Ohno valgono per il Giappone, ma non solo: la riduzione di abitanti, dai centoventisette milioni di oggi agli ottanta previsti per il 2050, l’invecchiamento, i redditi bassi soprattutto del ceto medio. «La città compatta risponde alle esigenze della società cui andiamo incontro», insiste Ohno, «le strutture pubbliche, i servizi funzionano se concentrati in aree ristrette». La Tokyo del 2050 dovrebbe essere strutturata per agglomerati densi, intorno ai quali si distende una maglia di aree verdi ( green finger) e di reti del trasporto su rotaia. Le abitazioni di ogni agglomerato non possono distare più di ottocentometri da una stazione metropolitana. Inoltre al trasporto pesante deve affiancarsi una struttura molto piccola e leggera. Aggiunge Ohno: «Una società democratica deve assicurare accessibilità a tutti e dovunque ».
L’incubo che turba Ohno e molti suoi colleghi è l’aumento delle parti di città dismesse. Un tempo erano le fabbriche ad abbandonare aree periferiche esterne ai centri storici. Grandi stabilimenti venivano lasciati vuoti. La riconversione di questi luoghi, negli Stati Uniti e in Europa, è proceduta negli ultimi decenni scontando spesso la pressione di interessi speculativi che li trasformavano assecondando la rendita piuttosto che i bisogni della città. Ma con la crisi finanziaria, generata dall’esplosione di bolle immobiliari, sono stati svuotati anche quartieri residenziali. A Detroit prima la crisi dell’auto poi quella dei mercati finanziari hanno trasformato zone della città in luoghi morti, con le finestre sbarrate da assi di legno. E le case, tornate in mano alle banche, si vendevano a poche centinaia di dollari. A Baltimora il sindaco ha chiamato in giudizio la Wells Fargo, grande società erogatrice di mutui, perché con la sua politica di prestiti facili ha incentivato acquisti di case che i proprietari, a causa dei tassi divenuti insopportabili, hanno lasciato facendo degradare i quartieri.
La crisi consegna un altro insegnamento, conclude Ohno: non si possono affidare al solo mercato le trasformazioni nella città, la rigenerazione complessiva dell’organismo urbano. Devono intervenire sempre un’amministrazione pubblica efficiente e le comunità di cittadini. «Il rischio, altrimenti, è che aumentino i buchi, le sacche di degrado, come un pezzo di formaggio aggredito dai vermi».
postilla
Se non fosse che, ovviamente, quel modo di dire evoca inutili e vetusti sofismi da pianerottolo, qui sarebbe quasi spontaneo commentare: “ma il problema è un altro”. Ovvero che se non si supera l'idea della produzione di spazi privati come finalità economica a sé, della città merce le cui forme sono totalmente slegate da qualsiasi funzione, della stessa funzione ridotta a feticcio, ideologicamente contorta per cercare di darle un senso qualsivoglia, poi risulta esercizio accademico ragionare con tanto ampio respiro sulle specificità progettuali. La città ex industriale classica, e conseguentemente anche post-terziario-amministrativa, diventa “shrinking city” proprio anche grazie al fatto di escludere teoricamente dal campo le megalopoli africane e asiatiche marginalmente citate dall'articolo. E in questa città che si ritira, salvo pur vistosi esempi come la sempre stracitata Detroit, gli spazi dismessi non sono affatto tali, se non da una prospettiva funzionalista un pochino datata: lì dentro si concentrano comunque interessi, speculazioni, attese, indipendentemente dal riuso materiale o no. Che dire ad esempio della proliferazione incredibile di spazi a uffici, o delle chilometri che fasce produttivo-commerciali lungo le grandi arterie, la cui effimera vitalità, sempre che si manifesti prima o poi, corrisponde semplicemente alla strumentale dismissione di altre non lontanissime superfici e contenitori? Insomma, giusto timore, quello che lo spazio urbano, nella sua marcia trionfale alla conquista del pianeta, si sleghi da un rapporto lineare con le funzioni, ma forse la questione va affrontata a monte, ad esempio, come in parte si sta già facendo, attraverso varie riflessioni su tendenze demografiche, stili di vita, consumi, mobilità (f.b.)
«La differenza tra idea e azione», cantava Fabrizio De André. Che è proprio la differenza che separa il titolo della Conferenza Internazionale sul «Patrimonio culturale come bene comune» (organizzata nel quadro del semestre di presidenza italiana dell’Unione europea) dallo svolgimento di quella stessa conferenza. Per cominciare, si è sbagliata la «location» (per usare la sconcertante definizione usata dal ministro Dario Franceschini): l’unico posto in Italia dove si sarebbe potuta organizzare una simile conferenza era il Teatro Valle Bene Comune, a Roma. Ma, accidenti, giusto un mese fa Franceschini e Ignazio Marino hanno ‘sgomberato’ il Valle dalla pericolosa filosofia dei Beni comuni.
E allora si è scelta Torino: ma, anche qua, sbagliando luogo. Perché quello giusto sarebbe stata la Cavallerizza Reale: un grande complesso, costruito tra Seicento e Ottocento come sede dell’Accademia militare, e protetto da un vincolo. Ceduta dal Demanio al Comune di Torino, la Cavallerizza è divenuta parte del Teatro Stabile, e nel 2001 si è aperta alla città come luogo di spettacolo, ottenendo un grande successo. Ma in seguito ai tagli selvaggi ai bilanci degli enti locali, l’amministrazione comunale ha rinunciato a raccogliere i frutti (sociali, ma anche economici) del suo investimento, e ha deciso di mettere in vendita il complesso: nel 2009 è stato affidato alla Cartolarizzazione Città di Torino srl, e nel 2013 sono state interrotte le rappresentazioni e sono iniziate le visite degli speculatori privati che vorrebbero acquistare il monumento (a prezzo di saldo: 12 milioni di euro). È per opporsi a tutto questo che la Cavallerizza è oggi occupata: e proprio da chi davvero crede al «Patrimonio culturale come bene comune».
Ma naturalmente la Conferenza non è stata fatta là, bensì nella Reggia di Venaria: «Tutti i ministri – ha dichiarato Franceschini – hanno apprezzato la straordinaria location». Nel 1998 Venaria fu strappata (per merito di Veltroni) ad un intollerabile degrado, venendo riaperta al pubblico nel 2007. La reggia e i suoi giardini furono conferiti ad un consorzio composto dal Ministero, dalla Regione Piemonte, dalla città di Venaria, dalla Compagnia di San Paolo e dalla Fondazione 1563. Ma a causa del dimezzamento del bilancio dei Beni culturali imposto da Tremonti nel 2008, Venaria iniziò a trovarsi in difficoltà. E così il presidente del Consorzio ipotizzò una soluzione a dir poco allucinante: «Se dallo Stato ci dessero temporaneamente opere significative, come i Bronzi di Riace o dipinti di grandi artisti, da Raffaello a Paolo Veronese, si potrebbe sopperire alla mancanza di fondi, creando forti attrattive per il pubblico».
La Venaria come un Luna Park dell’arte, insomma: e, d’altra parte, il presidente in questione è Fabrizio Del Noce, diventato direttore di Rai Uno dopo essere stato deputato di Forza Italia. Un curriculum che spiega molto, forse tutto. E, infatti, anche a questo giro Del Noce ha riproposto a Franceschini il baratto caldeggiato da Vittorio Sgarbi nello scorso agosto: gli Uffizi dovrebbero prestare per tre mesi la Venere di Botticelli a Venaria, in cambio di due milioni cash. Una transazione tipicamente da beni comuni, come ognun vede.
Dal canto suo, il direttore del Consorzio, Alberto Vanelli, ha proposto a Franceschini di realizzare a Venaria un Museo del Barocco «che occupi in maniera stabile alcune sale dell’immenso complesso»: «Una sorta di viaggio rappresentativo dello stile Barocco in Italia, alimentato da opere e contributi che potrebbero arrivare da tutto il Paese». Un’idea aberrante, che nasce per riempire un vuoto, e che vorrebbe trasformare in ‘museo’ permanente le antologiche di cassetta che tengono in piedi Venaria: un’idea che contraddice intimamente sia la natura storica e locale dei musei, sia l’essenza del nostro patrimonio, diffuso, radicato sul territorio e non antologizzabile. Il Barocco non è un’idea da illustrare attraverso un campione. Lo scrivo da studioso del Barocco: di tutto abbiamo bisogno tranne che dell’outlet nazionale del Barocco!
Un quotidiano torinese ha scritto che «vista la presenza dei 28 ministri, il centro e la zona della Reggia di Venaria, scelta da Franceschini come sede dell’incontro per la bellezza e per il modello di gestione, saranno blindati». Una blindatura forse capace di tener lontani i cittadini dalla riflessione sul bene comune: certo insufficiente a tener fuori l’ignoranza, l’improvvisazione, e la mercificazione. Gli unici ‘beni comuni’ su cui la politica culturale italiana non taglia mai.
Una vera e propria rassegna di ovvietà che pare presa di peso da certi supplementi illustrati patinati da anticamera del dentista, non si può fare di meglio? In fondo il materiale non mancherebbe: basta provare a capirlo, prima di scrivere. La Repubblica, 28 settembre 2014 (f.b.)
C’erano una volta i vecchi giardinetti. Ora quello che è stato per anni l’unico, striminzito, assediato presidio della natura nelle periferie delle città, si appresta a essere travolto da un’ondata di verde che trasformerà radicalmente i paesaggi cittadini. Boschi verticali e foreste, corridoi e tetti verdi, orti urbani e serre idroponiche. Le nuove politiche lanciate dalle amministrazioni comunali di mezzo mondo promettono di fare delle città luoghi dove la natura si intreccia sempre più col vecchio paesaggio di asfalto e cemento. C’è perfino chi vorrebbe nominare già oggi Londra “parco nazionale”, visto che il 47 per cento del suo territorio è verde. Ormai è chiaro non solo ai soliti ambientalisti, ma anche ad amministratori avveduti e imprenditori illuminati: sarà nelle metropoli che si combatterà la battaglia per la qualità della vita, che sarà scavata la trincea della resistenza ai cambiamenti climatici, che si lotterà per sfamare una popolazione mondiale che entro fine secolo potrebbe arrivare a tredici miliardi di persone.
Le città ospitano più della metà della popolazione mondiale, consumano due terzi dell’energia e producono oltre il 70 per cento delle emissioni di CO2 responsabili del riscaldamento globale. Bastano queste cifre a far capire la portata di una sfida che si gioca attraverso un ventaglio di iniziative: messa in efficienza del vecchio patrimonio edilizio (come ha appena ribadito di voler fare il sindaco di New York), costruzione di nuovi quartieri carbon neutral, diffusione delle energie alternative, sistemi di trasporto sostenibile a zero emissioni e, soprattutto, integrazione della natura nel tessuto urbano, compresa la diffusione di piccole aree paludose capaci di depurare le acque reflue. «Il verde in città significa maggiori capacità di assorbimento delle acque piovane e riduzione dei rischi di inondazione, temperature più basse e quindi minori esigenze di raffreddamento, oltre che maggiore vivibilità», ricorda Piero Pelizzaro, responsabile della cooperazione internazionale del Kyoto Club. Detto in altre parole, gli ecosistemi che si fanno spazio tra tangenziali e cavalcavia ci offrono quello che Yvonne Baskin in un saggio ha ribattezzato “Il pasto gratis”: una serie di preziosi servizi come la pulizia dell’aria, la depurazione dell’acqua, l’eliminazione di insetti fastidiosi. «Si pianta erba ovunque è possibile, persino, come in Germania, tra i binari dei tram», dice ancora Pelizzaro. «Dei tetti verdi e dei giardini verticali che assorbono acqua piovana e tengono freschi gli edifici si è parlato già molto», aggiunge. «Anche l’Italia, cronicamente in ritardo su questi temi, ha iniziato a muoversi con l’installazione voluta da Renzo Rosso per la nuova sede di Diesel a Breganze o con il bosco verticale creato con il Progetto Porta Nuova nel centro Direzionale di Milano. Ciò che è meno noto è il proliferare delle foreste e delle aree umide urbane.
Sempre più spesso il compito di recuperare le vecchie zone industriali o le infrastrutture dismesse, come la High Line di New York, è affidato al lavoro della natura, anche perché più economico rispetto alle costose demolizioni ». Da questo punto di vista uno progetti più interessanti già realizzato è quello di Vitoria-Gasteiz, nei Paesi Baschi spagnoli, European Green Capital 2-012 , dove è stata creata una “cintura verde” che abbraccia la città con tre fasce concentriche che mettono in comunicazione i parchi del centro con le foreste e le montagne dei dintorni, passando attraverso l’ex area industriale. Anche l’Epa, l’agenzia statunitense per l’ambiente, ha scelto di riqualificare nientemeno che Detroit, capitale della deindustrializzazione, attraverso il progetto Greenstreetscape che prevede il coinvolgimento dei cittadini nella creazione di nuovi spazi verdi «casa per casa». Un’operazione destinata a ripetersi in molte altre metropoli, conquistando il consenso, come hanno captato le attente antenne di quegli scopritori di nuove tendenze che sono i pubblicitari. Non a caso hanno scelto per uno degli ultimi spot per Tim un gruppo di guerrila gardening che notte tempo trasforma in aiuole fiorite i brulli e abbandonati ritagli di terra delle nostre città.
«Alla faccia dell’authority, del mercato, dell’Europa. Un film già visto al momento della privatizzazione della società Autostrade, quando la concessione venne prolungata ope legis di vent’anni senza colpo ferire». Corriere della Sera, 28 settembre 2014
Andrea Camanzi lo ha definito: «Un passo indietro». Anche la diplomazia vuole la sua parte. Ma il piatto che il decreto «sblocca Italia» sta servendo ai potentissimi concessionari autostradali va ben oltre una semplice retromarcia. Perché per l’authority dei Trasporti presieduta da Camanzi, a cui la legge affida il compito di regolare quel settore, è uno smacco duro da digerire.
Basta leggere l’articolo 5. Le società autostradali possono ottenere la proroga delle concessioni con «l’unificazione di tratte interconnesse» impegnandosi a fare investimenti e mantenendo «un regime tariffario più favorevole all’utenza». Senza gare, ovviamente. Alla faccia dell’authority, del mercato, dell’Europa. Un film già visto al momento della privatizzazione della società Autostrade, quando la concessione venne prolungata ope legis di vent’anni senza colpo ferire. Con qualche differenza. Allora non esisteva l’autorità dei Trasporti. E la proroga oggi proposta dal governo di Matteo Renzi riguarda solo di striscio il gruppo Autostrade. L’impronta digitale sembra di Fabrizio Palenzona, ex presidente margheritino della Provincia di Alessandria, vicepresidente di Unicredit e da ben undici anni presidente dell’Aiscat, l’associazione che riunisce le concessionarie autostradali. Un gruppo di pressione dalla forza irresistibile, come sta a dimostrare la frequenza incessante degli aumenti tariffari. Cascasse il mondo.
Dal 1999 al 2013 le tariffe sono salite mediamente del 65,9 per cento, contro un’inflazione del 37,4 per cento. E dietro Palenzona non è difficile intravedere il gruppo imprenditoriale che fa capo agli eredi di Marcellino Gavio. Ovvero uno dei principali concessionari privati. I legami fra Palenzona e i Gavio, che l’avrebbero anche voluto alla presidenza di Impregilo, non sono in discussione. Il presidente dell’Aiscat risulta essere fra l’altro uno degli azionisti di riferimento della società di autotrasportatori Unitra di Tortona: proprio insieme al gruppo Gavio. Certamente uno dei soggetti più interessati a una soluzione quale quella prevista dal decreto «sblocca Italia». La sua concessione della Torino-Piacenza dovrebbe essere infatti fra le prime a scadere. La data prevista, secondo i dati pubblicati lunedì 22 settembre da Alessandra Puato sul CorrierEconomia , è il giugno 2017. Dieci mesi prima, nell’agosto 2016, scadrà un’altra concessione nella quale è coinvolto Gavio, quella della Torino-Valle D’Aosta.
Ma dietro il rompighiaccio Palenzona nemmeno qualche concessionario pubblico ha rinunciato a far pesare le proprie ragioni. Come le Autovie Venete. La società è controllata all’88,8% dalla Regione Friuli-Venezia Giulia e al 4,8% dalla Regione Veneto. Dovrebbe realizzare la terza corsia, un’operache richiede investimenti per 1,7 miliardi. Ma le banche, argomentano, non sarebbero disposto a finanziarla se la concessione scadesse, com’è previsto, nel marzo 2017. Occorre quindi prolungarla.
La concessione dell’Autobrennero, società con un consiglio di amministrazione da 14 poltrone, è invece scaduta nell’aprile 2014 ed è in attesa di gara. Però i suoi azionisti preferirebbero la proroga. Sono la Regione Trentino Alto Adige, le Province autonome e i Comuni di Trento e Bolzano, le Province di Modena e Mantova, il Comune di Mantova... Nell’elenco, anche alcune banche finanziatrici che vantano diritti di pegno: fra queste la famosa Banca del Mezzogiorno di Poste Italiane, fortemente voluta dall’ex ministro Giulio Tremonti per sostenere l’economia del Sud (Tirolo?).
A dispetto del guard rail perennemente arrugginito, per le Province e i Comuni azionisti l’Autobrennero è una gallina dalle uova d’oro: 140 milioni di utili negli ultimi due anni. Senza considerare un tesoretto di 550 milioni investiti in titoli di Stato costituito dal prelievo sulle tariffe per finanziare il tunnel ferroviario del Brennero. Di sicuro la lobby autostradale ha lavorato di fino. Come dimostra il raffronto fra il testo entrato nel Consiglio dei ministri e quello pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Nel primo si stabiliva che la concessione venisse estesa al massimo a quella più lunga delle autostrade accorpate: poi questo limite è scomparso. Nella versione iniziale c’era pure come contropartita alla proroga un aumento del canone pagato allo Stato dai concessionari, dall’attuale 2,4% dei pedaggi netti al 3 o al 4%: scomparso anche questo.
Certo è che la stessa Authority, del tutto scavalcata in questo frangente, ha incontrato non poche difficoltà fin da subito quando ha cominciato a occuparsi di autostrade, nel gennaio scorso. Dice tutto una lettera del capo della Struttura di vigilanza sulle concessionarie autostradali del ministero delle Infrastrutture, in risposta alle richieste dell’Autorità per il passaggio di consegne. Che si concludeva così: «Si rappresenta l’impossibilità di trasmettere i relativi contenuti della banca dati della Struttura tenuto anche conto dei protocolli di riservatezza che caratterizzano l’accesso al sistema e l’obbligo da parte degli uffici di Struttura di attenersi a precisi vincoli di riservatezza».
Left, 27 settembre 2014
“Il provvedimento ministeriale Franceschini, pallidamente pubblicato soltanto ieri, 19 settembre, dopo un mese di latitanza inutile ed anticostituzionale, è indecente. Il testo demolisce, per esempio, l’Emilia, la Romagna e le Marche uccidendo le tradizioni storiche e artistiche di due regioni. Che spero protesteranno, se hanno dignità”. Questi giudizi pesanti come pietre sono stati calati nel dibattito promosso a Bologna per Artefiera del libro. E sono soltanto gli ultimi macigni di una fitta serie dedicati alle misure previste nel decreto del Presidente del Consiglio firmato da Dario Franceschini titolare del Collegio Romano. Parzialmente difeso da qualche docente universitario sentitosi gratificato dal fatto che il provvedimento governativo selezioni diciotto musei fra gli oltre 400 ed escluda (così il ministro in varie interviste) che tali “punti di eccellenza” possano essere diretti da storici dell’arte in carriera nelle Soprintendenze. Il provvedimento garantisce che saranno affidati /da chi?) a “persone che vengono da esperienze di gestione di altri musei all’estero o con una professionalità specifica”.
Si pensava che il governo Renzi aprisse decisamente ai privati nella gestione dei musei. Invece all’art. 35 essi rimangono “senza scopi di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo”. Ma senza “lucro”, addio privati che non siano mecenati puri. Di più: in una intervista a Francesco Erbani di “Repubblica” Franceschini ha escluso che i privati entrino nei grandi musei, semmai in quelli piccoli. Il livello della confusione sale.
La cosa più certa, in tanta nebbia istituzionale, è la netta scissione operata, sin dal vertice ministeriale, fra Belle Arti, centri storici, paesaggio, territorio da una parte e Musei dall’altra. Una scissione antistorica, disastrosa a partire dai Musei archeologici nati o cresciuti quali musei di scavo o comunque espressione di un’area storica, culturale prevalente. Che fine farà la Soprintendenza speciale per l’archeologia Roma e Ostia? Con o senza Colosseo-Palatino? Prevarrà la logica turistica? Rimarrà la gran pacchia delle società di servizi museali aggiuntivi? Questo macigno che da un quinquennio pesa sui maggiori musei non viene spostato di un millimetro.
Si doveva ridurre il testone centrale del MiBACT e restituire forza e autonomia alle sue indebolite articolazioni territoriali. Il testone centrale sostanzialmente rimane con 12 direzioni generali più la segreteria centrale e le segreterie regionali. Che prendono il posto delle direzioni generali regionali cambiando di nome e però mantenendo molte delle pesanti e criticate competenze sopra la testa (o le spalle) delle Soprintendenze. Queste ultime vengono accorpate: quelle ai Beni storici e artistici (fra le più “antiche”), di nuovo chiamate “Belle Arti”, ai Beni architettonici e paesaggistici, creando infiniti problemi per archivi, uffici, gabinetti fotografici e altro ancora. Modello che contraddice in modo frontale quello saggiamente adottato da personaggi che si chiamavano, agli inizi del ‘900, Corrado Ricci e Adolfo Venturi (giganti rispetto ai troppi nani in circolazione) i quali avevano definito per aree storiche i confini delle varie Soprintendenze.
Non basta. Nascono infatti i Poli Museali Regionali “articolazioni periferiche della Direzione Generale Musei”. Quindi nelle regioni si avranno due linee di comando riferite a due distinte direzioni generali: una per i beni storici e artistici che non stanno nei Musei statali, ma nei musei locali, laici ed ecclesiastici, in chiese, conventi, palazzi nobiliari e vescovili e un’altra per i beni facenti parte del circuito museale statale. Alla faccia della semplificazione. Ma poi chi coordina segretari regionali e direttori dei Poli Museali essi pure regionali? E pensare che i Poli Museali esistenti in talune città erano stati criticati a fondo perché, a Roma per esempio, erano serviti soprattutto a sottrarre fondi ai singoli grandi musei, per organizzare mostre su mostre (spesso di livello mediocre).
E’ il “nuovismo” renziano che passa in un provinciale trionfo e che in realtà tende - oggi con lo Sblocca Italia e col DPCM Franceschini, domani con la legge urbanistica Lupi - a ridurre i poteri e quindi i controlli, la tutela prevista dall’articolo 9 della Costituzione e realizzati sin qui dal Ministero per i Beni e le Attività culturali attraverso le Soprintendenze territoriali. Le quali hanno due torti fondamentali: a) essere state istituite “nell’Ottocento” (errore storico marchiano, furono create nel 1907, in pieno riformismo giolittiano) ed è noto che per Renzi ogni cosa del passato è vecchiume da rottamare, la storia in primo luogo; b) rappresentare organismi tecnico-scientifici “monocratici”, i quali decidono cioè in base a metodi non politici e pertanto risultano politicamente incontrollabili. Il che andava male per Berlusconi, ma ancora peggio - sono parole sue (presto ne pubblicheremo un’antologia) va per Matteo Renzi.
«Nonostante un’inflazione vicina allo zero, i pedaggi continuano ad aumentare. Il motivo sarebbe la necessità di remunerare gli investimenti. Ma spesso si tratta di investimenti utili solo alle concessionarie, che così ottengono proroghe ingiustificate». Lavoce.info, 26 settembre 2014
Pedaggi sempre più cari
Da qui a fine anno si deciderà il futuro della rete autostradale italiana. Con tre concessioni scadute e altre tre di prossima scadenza si potrebbe avviare un loro graduale ritorno allo Stato. Ma l’intenzione del Governo sembra tutt’altra: l’articolo 5 del decreto “sblocca Italia” prevede infatti che si possano accorpare concessioni prorogandole alle scadenze più lontane. Così, ad esempio, quattro delle concessioni del gruppo Gavio in prossima scadenza potrebbero essere prorogate sino al 2038: il futuro della rete sarebbe così cristallizzato per i prossimi due decenni e oltre, assicurando la perpetuazione delle ricche rendite del settore.
La Nuova Sardegna, 24 settembre 2014
Basi militari in Sardegna. Gli incidenti sono almeno serviti a risvegliare e coalizzare le antipatie verso questa anormale occupazione di terre, oltre 200 kmq, il 60% del totale nel Paese. Buona occasione per fare finalmente caso all' accumulo di controsensi nell'uso del territorio sardo, non solo a Capo Frasca, Quirra, Teulada.
Capisco la ritrosia a guardarla tutta insieme la Sardegna, credo per l' imbarazzante fardello di domande connesse: rivolte a chi ha avuto il torto di decidere tante invasioni/trasformazioni insensate, e ai delusi che hanno sempre applaudito. Dai signorsì, in tanti anni di Autonomia, è venuto uno sviluppo improbabile, e a seguire la disperazione che vediamo. È questa accondiscendenza che ha reso l'isola brutta e insicura, compromessa in più parti: disgraziatamente per sempre, perché dalle bonifiche non c'è da aspettarsi la palingenesi.
Cliccando sulle mappe online è facile farsene un'idea. Nella realtà è diverso, la bassa densità di popolazione allontana dalla vista i guasti, con i quali ci siamo abituati a convivere. Con poca voglia di impedire il “logorio profondo e irrimediabile” – di cui ha scritto Salvatore Mannuzzu in un saggio del 1998, pensando ai luoghi e alle comunità della Sardegna.
Impressiona il prolungato s'afferra-afferra. Senza intralci, perché chi ha preso dall'isola – senza restituire nulla – ha sempre contato su complicità locali; e chi si è opposto, tra i politici, non ha avuto vita facile.
Un'aggressione cominciata nell'Ottocento, quando tre quarti del patrimonio boschivo sono diventati carburante per produrre energia in Continente. E proseguita nell'ultimo mezzo secolo: con le regalie di vaste aree a imprenditori inaffidabili, sovvenzionati con libertà d'inquinarle – nel Sulcis e nel golfo dell'Asinara i casi più eclatanti della disfatta industriale – e oggi 450mila ettari di territorio sono avvelenati. E con il ciclo edilizio, specialmente in danno di litorali sfigurati e sottratti all'uso pubblico (la Sardegna “innocente” è ai primi posti nelle graduatoria dell'abusivismo, dopo Campania e Sicilia che però hanno il quadruplo degli abitanti).
Negli ultimi anni vanno e vengono le minacce da progetti di energia “verde”, e a volte si realizzano in assenza di valutazioni sul fabbisogno locale. Nello sfondo il deserto: travolgente se gli incendi continueranno a farci compagnia ogni estate e lo spopolamento cancellerà indispensabili presidi per gli usi agropastorali.
Ha stravinto il “partito del sì a tutto” – per accelerare il metabolismo dell'isola, ci ripetono da decenni. Tornaconti veri pochissimi. Neppure quelli più plausibili – penso alla disfatta del sistema trasporti che ci assicuravano prestante, bastava accondiscendere, approvare tutto senza condizioni.
Ripensare il modello di sviluppo, si dice. Dopo la manifestazione “no basi”, gli organi di informazione che stanno sostenendo la vertenza potrebbero intanto aiutare l'opinione pubblica a considerare tutte le forme di occupazione di terre inutilmente devastate. La vocazione agricola/turistica, continuamente evocata, non ammette remissività ai business di usi aberranti, allo strapotere di speculatori dell'energia o dell'edilizia scambiati per benefattori.
Per questo occorrono la visione lungimirante, di cui ha parlato il presidente Pigliaru, e adeguati atti di governo per tutelare il territorio senza distrazioni. Un esempio. Se le trivelle non strazieranno le campagne di Arborea è grazie alle manifestazioni di dissenso. Ma non sappiamo come sarebbe andata la valutazione d'impatto (SAVI) senza la lungimiranza del Piano paesaggistico. È infatti il contrasto con il Ppr – tempestivamente rilevato dal Servizio regionale per la tutela paesaggistica di Oristano – che sottrae quelle terre ai disegni della Saras. Ma attenzione al decreto “Sblocca-Italia”, approvato dal governo Renzi: incombe per racimolare briciole di Pil. La ragion di Stato che potrebbe esigere altri umilianti signorsì dalla Regione Autonoma, contrastando gravemente con le attese locali.
«Il summit di New York. "Bisogna invertire la rotta", tutti d’accordo al vertice Onu sul riscaldamento globale. Ma Obama ha le mani legate. Gli Usa, in pieno boom petrolifero, non firmeranno trattati internazionali». Il manifesto, 24 settembre 2014
Nella time line dei summit ambientali quella di ieri a New York è stata una tappa più che altro simbolica in attesa del vertice «di lavoro» in programma a Parigi a fine 2015 da cui dovrebbe scaturire un vero programma. Dal quartiere generale Onu, allagato durante l’uragano Sandy due anni fa, il segretario generale Ban Ki-Moon ha dichiarato che è essenziale che il mondo diventi carbon-neutral entro la fine del secolo. Sul podio ieri si sono succeduti oratori come il sindaco di New York Di Blasio, Al Gore e Leonardo di Caprio, ognuno ha parlato degli effetti distruttivi ormai incontrovertibili di un clima in uno stadio avanzato di mutamento e del tempo ormai in scadenza per agire.
Ma il summit sul clima ha visto il presidente degli Stati Uniti in una posizione fin troppo consueta. Obama ha esortato i 125 capi di stato che hanno accolto l’invito del segretario Ban Ki-Moon, a «intraprendere passi concreti» per limitare le emissioni serra, ribadendo che non agire oggi sul riscaldamento globale equivarrebbe a un tradimento delle generazioni future. Purtroppo anche questa volta, come in tanti precedenti consessi, i leader in platea hanno lecitamente potuto chiedersi da che pulpito è arrivata la predica.
Il fatto è che dalla disfatta di Kyoto la posizione americana sul clima è stata segnata dall’impotenza se non dalla colpevole inerzia. Il protocollo di Kyoto venne sottoscritto nel 1997 da Bill Clinton ma non fu mai ratificato da un congresso ostile e fortemente influenzato dalle potenti lobby petrolifere Usa. A quella sconfitta ne seguì una incassata personalmente da Obama con il nulla di fatto a Copenhagen nel 2009, all’inizio del suo mandato.
Le prospettive per Parigi non si profilano migliori. La firma di un accordo internazionale vincolante richiede una maggioranza di due terzi nel parlamento americano. Impensabile nell’attuale clima politico che fra meno di due mesi potrebbe addirittura vedere entrambe le camere in mano a un partito che sposa ufficialmente il negazionismo climatico. Fra i principali ostacoli alle effettive riforme spicca quindi un sostanziale eccezionalismo americano per cui gli Usa non hanno ad esempio mai sottoscritto i trattati internazionali contro la discriminazione delle donne e per l’eliminazione della tortura, delle mine anti-uomo e delle bombe a grappolo. In ognuno di questi casi l’argomento ufficiale è stata la tutela della prerogativa «indipendente» degli Stati Uniti.
Precedenti che non depongono certo a favore della battaglia contro le emissioni atmosferiche, dove sono in gioco miliardi di fatturati e profitti industriali. Obama ha quindi avuto un bel esortare ma la realtà è che ha le mani legate. Eppure senza una piena partecipazione americana non sono realistiche le prospettive per invertire la rotta. Il presidente Usa ieri ha rimandato l’annuncio di nuovi obiettivi a lungo termine al 2015. John Podesta, segretario per il clima e l’energia, ha confermato che bisognerà aspettare il primo trimestre del prossimo anno.
Obama si è dunque limitato a dichiarazioni di generico intento e a ricordare le sue recenti riforme come le normative varate a giugno per il contenimento delle emissioni e la riduzione del 30% entro il 2030 dell’inquinamento delle centrali termiche a carbone rispetto ai livelli del 2005. Un passo concreto che gli è valso l’aperta opposizione di molti esponenti, anche democratici, degli stati in cui l’industria carbonifera è più forte. E questo è il discorso emerso come centrale a New York. Tutti gli intervenuti hanno infatti ripetuto che una efficace politica ambientale presuppone una effettiva riforma economica, che non può esserci progresso sul clima senza una fondamentale revisione delle pratiche industriali. Nelle manifestazioni popolari organizzate alla vigilia del summit Naomi Klein aveva ribadito il concetto di sostanziale «incompatibilità ambientale» dell’imperante liberismo capitalista. Un concetto ripreso anche da molti relatori all’interno del palazzo di vetro, come Leonardo Di Caprio. «Dobbiamo smettere di dare agli inquinatori la licenza che hanno avuto nel nome del libero mercato — ha detto l’attore rivolto ai capi di stato — non meritano i nostri contributi fiscali ma semmai il nostro attento scrutinio». Un idea ribadita anche dall’ex presidente messicano Felipe Calderón che ha ricordato che globalmente il comparto energetico gode ancora di 600 miliardi di dollari di sussidi e incentivi pubblici rispetto ai soli 100 a favore delle energie rinnovabili.
È una realtà particolarmente evidente nel paese ospite. Nonostante i nuovi limiti imposti al carbone infatti, gli Stati Uniti sono nel pieno del maggiore boom petrolifero dagli anni 40, un enorme revival degli idrocarburi che ha il tacito appoggio di un’amministrazione che ha autorizzato un numero record di esplorazioni off shore. Grazie a nuove tecniche di estrazione super inquinanti come il fracking, sono diventate accessibili enormi riserve di gas e petrolio. Acqua e agenti chimici iniettati ad alta pressione hanno «liberato» metano profondo e petrolio. Nuovi oleodotti si snodano dai pozzi del Dakota e dalle sabbie bituminose del Canada verso le raffinerie del Golfo del Messico.
Il boom sta trasformando l’America da importatrice a esportatrice netta di idrocarburi. Le importazioni infatti sono diminuite del 50% solo negli ultimi 7 anni e il paese sarebbe praticamente autosufficiente se non fossero le stesse compagnie petrolifere a non volerlo. È di gran lunga più lucroso gestire un margine di scarsità, non saturare il mercato interno e ottimizzare invece quote di gas e petrolio su quello internazionale. In queste condizioni si prevede un aumento del 60% della domanda di idrocarburi nei prossimi 20 anni — l’esatto opposto di ciò che è stato auspicato nei discorsi di ieri.
In questa sbornia di carbonio, il ruolo politico è stato di colpevole acquiescenza nel nome di un'imprescindibile ripresa economica. Ennesima conferma che forse solo quando i danni economici del mutamento climatico - il calo dei consumi nel vortice artico dello scorso inverno, ad esempio, o la drammatica siccità nel paniere californiano - supereranno i rapidi profitti petroliferi, i politici ritroveranno la «lungimiranza». Salvo poi essere troppo tardi.
Il cosiddetto decreto “Sblocca-Italia” e - in itinere - il ddl Lupi rappresentano un attacco scomposto all'integrità del nostro territorio e quindi del nostro Paesaggio e dei Centri Storici nel loro insieme. In queste ultime settimane lo stesso MIBACT è stato investito da una vera controriforma che stravolge sostanzialmente la sua stessa ragione d’essere e che rischia di provocare la dissoluzione del nostro sistema di tutela.
Ispirati al mantra della "semplificazione" e della “lotta alla burocrazia”, i due provvedimenti rispondono alla medesima logica che si può sintetizzare nell'abolizione/riduzione generalizzata di procedure di controllo. Con il pretesto della rapidità, ogni decisione converge su un decisore unico, si annullano le verifiche democratiche (processi partecipativi), si opacizzano i passaggi e, più in generale, si abbandonano le pratiche di pianificazione di ogni tipo, a partire da quella territoriale.
Nello “Sblocca Italia” si ricorre alla costante rimozione di ogni verifica e controllo giungendo ad introdurre, in modo generalizzato, il silenzio assenso del MIBACT, annullando anche di fatto l’archeologia preventiva riducendo la funzione del Ministero a quella di mero osservatore. Il sospetto è che la cosiddetta “riforma del MIBACT” risulti come attestazione di una radicale trasformazione del Ministero confinato ad occuparsi, con poche risorse, solo di musei e monumenti considerati più rappresentativi, con esclusive finalità ludico-turistiche.
Di fronte alla gravità della minaccia rappresentata dallo “Sblocca-Italia” e dal ddl Lupi, Italia Nostra si rivolge al Presidente della Repubblica, al Parlamento, al Ministro dei Beni Culturali e al Ministro dell’Ambiente, a tutti gli uomini di cultura e soprattutto a tutti i cittadini che hanno a cuore le sorti del territorio in cui vivono, affinché tali provvedimenti siano cancellati e sostituiti con leggi ispirate alla tutela integrale del paesaggio e che rilancino l'occupazione anche e soprattutto attraverso quell'opera - urgentissima e indispensabile - di manutenzione territoriale e riqualificazione urbana da troppo temporimandata e la cui mancanza è causa di gravissimi danni economici e sociali, oltre che ambientali e culturali.
arrivi in un porto industriale, ma in un paradiso naturale: San Foca, provincia di Lecce. “Impensabile”, dichiara l’ex ministro Massimo Bray, appoggiando l’idea di farlo arrivare nell’inutilizzato Petrolchimico di Brindisi». Il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2014
Tra gli infiniti lutti che lo Sblocca Italia sta per addurre al già martoriato territorio italiano ce n’è uno che viene da lontano. Il Tap: il Trans Adriatic Pipeline, cioè il gasdotto trans-adriatico che deve portare in Italia il gas dell’Azerbaigian. Nel quadro dell’attuale (criticabile) politica energetica, l’Italia e soprattutto l’Unione europea hanno bisogno di quel gas. E Matteo Renzi ci tiene particolarmente, perché il superlobbista del consorzio industriale che realizza il Tap è quel Tony Blair che il nostro presidente del Consiglio ha eletto a icona personale.
Nei prossimi giorni vedremo se Renzi proverà a governare il problema, o se invece prevarrà la logica dello Sblocca Italia: che è quella di tradurre in legge i progetti industriali presentati dai privati. E la domanda è: cosa vuol dire governare? Vuol dire imporre il “fare”, comunque e a ogni costo, o capire invece come fare? Vuol dire assumere per buone le ragioni del consorzio industriale, e poi semmai gettare la palla nel campo dei sindaci che protestano? O non deve invece voler dire farsi carico di tutti gli interessi in gioco, e trovare una soluzione che vada incontro al bene comune? Sulla spiaggia di San Foca ci giochiamo molto più della spiaggia di San Foca.
«Il canale dei petroli aveva già provocato danni estesi e gravi, e proprio per questo si è approvata la legge 171, il Canale Contorta minaccia di moltiplicarli fino alla rovina della città e della sua laguna». Un parere autorevole, vi diremo perchè. Il Gazzettino di Venezia, 20 settembre 2014
Torno non senza qualche disagio sulla questione del Contorta. Ovviamente per ribadire con forza la mia opinione assolutamente contraria, ma anche per sottolineare gli svantaggi obiettivi della decisione. La Laguna - diceva qualche settimana fa Paolo Costa, presidente dell'Autorità portuale - è un ambiente naturale in cui però l'opera dell'uomo ha fatto e disfatto nei secoli fino a ridurla alla attuali condizioni.
Secondo questa impostazione i danni dello scavo del nuovo canale sarebbero limitati, se pure esistenti, e in ogni caso si tratterebbe di un ulteriore intervento tra i tanti del passato remoto e recente che sarebbe doveroso coniugare con gli innegabili vantaggi dell'opera. Non intendo affatto negare che il canale realizzerebbe una strada celere e diretta verso la Marittima, consentendo ai gestori del porto la possibilità di mantenere in attività e magari di aumentare ancora il traffico delle grandi navi.
E' un vantaggio? Forse sì sotto il profilo economico sempre importante e oggi praticamente preponderante. Posso del resto testimoniare da Consigliere Comunale di maggioranza (ma senza rinuncia all'autonomia personale, soprattutto con riferimento alle opere riguardanti la città) che tutte le volte che si è votato a CA Farsetti sulle grandi navi, il partito di maggioranza e ancora di più quelli dell'opposizione hanno sempre fatto pesare in modo determinante l'aspetto economico. Mai il Pd si è fatto promotore di una mozione contro il traffico delle grandi navi e addirittura una volta sono rimasto il solo su 46 a votare decisamente contro, soprattutto perché nel documento mancava - e non certo per caso o per errore - una data finale oltre la quale il transito doveva ritenersi bloccato.
Ancora oggi il profilo economico e occupazionale appare prioritario, e purtroppo non solo tra i poteri forti e le autorità. Ma basta questo a giustificare lo scavo? Certamente no. Malgrado le teorie di Costa sulla laguna, da decenni si sono compiuti studi importanti che hanno portato a risultati definitivi. La legge 171 del 1973 è appunto il frutto di quegli studi, e se quella normativa dice senza equivoci che l'unità della laguna deve essere garantita, e così il suo equilibrio idrodinamico, è necessario attenersi alle regole ivi dettate per evitare disastri ecologici che comprometterebbero per sempre la sopravvivenza della città e del bacino che la circonda. Forse il problema può essere espresso in modo più semplice.
La legge speciale è superata o è ancora oggi un irrinunciabile termine di riferimento? Se non è superata, e nessuno lo sostiene, a quanto mi consta basta probabilmente confrontare il canale con la legge e dedurne che l'opera è compatibile con le sue norme oppure che sicuramente il canale, così come progettato, rappresenta una clamorosa violazione delle sue direttive. Siccome la verità, del tutto incontestabile, è la seconda, non occorre altro per bocciare l'opera. E non occorre neppure verificare gli effetti dello scavo perché in termini giuridici questo controllo risulta già eseguito a monte, quando si è detto in sede di approvazione della legge che l'unità e l'equilibrio idrodinamico del bacino sono valori intoccabili, e che esigono il più assoluto rispetto.
Ora il Contorta taglia in due, brutalmente, la laguna sacrificandone l'unità, e certamente ne altera l'equilibrio idrodinamico, come risulta innegabile se si tengono presenti la sua lunghezza, larghezza e profondità. In pratica il Contorta porta o avvicina il mare alla laguna facendo o facilitando proprio quello che con la legge si è voluto impedire. Il canale dei petroli aveva già provocato danni estesi e gravi, e proprio per questo si è approvata la 171, ora il Canale Contorta minaccia di moltiplicarli fino alla rovina della città e della sua laguna. E' questo che si vuole? Personalmente trovo che c'è un solo modo per giustificare l'opera. Si riesamini la legge 171, e se questa risultasse superata o in qualche modo derogabile il canale potrà essere scavato. Ma in uno Stato di Diritto, che ha fatto con sofferenza le sue scelte, non si può procedere contro la legge, specie se si tratta di una legge essenziale e di vitale importanza; anzi di preminente importanza nazionale, come si è detto a suo tempo, proprio con riferimento ai principi che oggi si pretende di violare con disinvoltura o con colpevole leggerezza. Al contrario, se la legge viene abrogata o modificata sarà stato il Paese ad assumersi la responsabilità della deroga, sarà un grave errore (dal mio punto di vista), ma almeno tutto avverrà nel rispetto delle regole in vigore.
Costiera Amalfitana. Circa trent’anni fa un’accesa polemica divampò a proposito di un progetto da realizzare nello splendido scenario della Costiera Amalfitana. Per iniziativa del sindaco del comune di Furore, Raffaele Ferraioli, si voleva costruire due ascensori nel Fiordo di Furore. Il WWf. e gli ambientalisti si opposero e l’opera fu poi bocciata dalla Soprintendenza, dal Tar e dal Consiglio di Stato, perché l’iniziativa era in contrasto con le prescrizioni della pianificazione regionale, che sottoponeva l’intero Fiordo a tutela integrale e vietava in esso ogni intervento pubblico o privato, al fine di mantenere intatte le singolari caratteristiche ambientali e paesaggistiche. Il Fiordo di Furore è da sempre una meraviglia della Costa d’Amalfi ; dal 1997 è stato dichiarato patrimonio mondiale dell’Umanità, e perciò protetto dall’Unesco Tra le scalinate del borgo , nell’antico villaggio dei pescatori incastonato sul fianco della montagna, nel 1948 Roberto Rossellini girò il vero omaggio all’arte della bravissima Anna Magnani: l’episodio centrale del film “Amore”,
E proprio qui Anna Magnani e Roberto Rossellini, vissero la loro tormentata e intensa storia d’amore: si innamorarono del Fiordo tanto da comprare due “monazzeni”, case dei pescatori proprio sulla spiaggia, ironicamente ribattezzate con i loro soprannomi: “ la villa del Dottore” e “la villa della storta”. Finito l’idillio abbandonarono il loro nido d’amore. Anna Magnani non tornò mai più nel fiordo di Furore, regalò la sua casa al vecchio custode che ancora oggi la affitta a coloro che vogliono respirare questa strana atmosfera a metà tra mito e realtà. Lungo la statale tra Praiano e Conca dei Marini al km 23, c’è il ponte che scavalca il fiordo; da qui partono le scale, ripide, che scendono nella ria. Un’insenatura naturale strettissima con una spiaggetta deliziosa. Boccone da far gola a chiunque , particolarmente a chi è amante del bello e si diletta a poetare.
Tant’è vero che qualcuno il suo amore per il bello l’ha in passato espresso sbancando e distruggendo la parte esterna del fiordo ,edificando proprio in cima a esso una casa a forma di botte. Ora il Consiglio comunale di Furore capeggiato allora come oggi dal sindaco Raffaele Ferraioli ha programmato e fatto approvare la costruzione di un ascensore da infilare nel Fiordo. Nelle intenzioni dell’amministrazione comunale l’ascensore installato nella roccia dovrebbe servire a collegare il centro abitato sovrastante con la spiaggia del Fiordo , permettendo così anche il recupero dell’arenile. L’idea di realizzare un ascensore tra le rocce del Fiordo è quella – secondo quanto dichiarato dal sindaco Ferraioli, “ di ripristinare quell’equilibrio rotto dall’apertura dell’ottocentesca rotabile Positano-Vietri, che nel connettere alcune aree ne ha fatalmente emarginate delle altre” . Il progetto elaborato dal Comune prevede, oltre alla realizzazione di un ascensore che si svilupperà su un unico tracciato lungo trecento metri, di cui sessanta allo scoperto e duecentoquaranta in galleria, anche un parcheggio d’interscambio di oltre duecento posti macchina. Il costo preventivato dell’opera sembra che si aggiri tra i tre e sette milioni. Un progetto sicuramente ambizioso ma dai risvolti paesaggistici drammatici, per la creazione delle varie strutture previste per la realizzazione dei parcheggi, l'accoglienza dei cittadini e dei turisti : sarà come sbancare una montagna. Non si comprende perciò come l’amministrazione comunale, rappresentata allora come oggi dal sindaco Raffaele Ferraioli, possa non solo sostenere che l’attuale progetto sottoposto e approvato dal consiglio comunale abbia tutte le carte in regola per essere realizzato, ma ritenere anche che lo stesso possa essere un volano per lo sviluppo turistico di Furore
L’impiego di un ascensore per raggiungere il fiordo è invece esattamente il contrario di quanto richiederebbe una moderna concezione dell’attività turistica, che si qualifica culturalmente solo quando rispetta l’identità storica di un luogo e non quando lo appiattisce in un’ottica di frettoloso e banale consumo. Tra l’altro , l’ambiente eccezionale del Fiordo di Furore è da sempre raggiungibile, oltre che dal mare,anche attraverso una caratteristica scalinata, certo non vertiginosa poiché il centro abitato è appena a 300 metri sul livello del mare. Ormai lo sanno tutti : lo sviluppo non sta nel costruire su ogni angolo di costa rimasto intatto, ma al contrario nel preservare la bellezza , l’integrità dell’ambiente che oltre a proteggere il territorio da allagamenti, frane, da’ vita al turismo e quindi porta guadagni .I turisti cercano l’ombra degli alberi, la pace di una spiaggia pulita, un mare non inquinato e un territorio non manomesso. E la gente della Costa D’Amalfi lo sa, visto le tante scandalose manomissioni già compiute sul territorio che da Vietri sul Mare porta a Positano. Sono i “ saraceni “ del partito del cemento che fingono di non sapere. E gli amministratori pubblici che usano in modo distorto la parola “ sviluppo “.
Gli spazi verdi urbani non sono più da pensare solo come tratti aperti a interrompere la città densa, ma come sistema integrato. Va bene, ma forse c'è qualcosa in più da dire. La Repubblica Milano, 21 settembre 2014, postilla (f.b.)
Il comune guarda alla nascita della città metropolitana per disegnare la strategia futura del verde. È così che Palazzo Marino punterà sul “parco metropolitano”, un anello di vegetazione che circonda Milano e che dovrà “cucire” insieme i vari parchi che già esistono. Ogni area, però, dovrà anche mantenere la propria vocazione: dal Trenno pensato come parco dello sport al Forlanini da congiungere all’Idroscalo e trasformare in un parco urbano agricolo fino alle Cave, dove nascerà un’oasi naturalistica spontanea.
È un futuro che c’è già, quello del verde di Milano. Anzi, della “Grande Milano”. Perché è questa la strategia di Palazzo Marino. Che, guardando anche alla rivoluzione amministrativa che partirà dal 1 gennaio del 2015 con la nascita della Città metropolitana, adesso vuole puntare su quello che, ormai, chiamano il “parco metropolitano”: una sorta di unico anello di alberi, prati, vegetazione e aree agricole che, d’ora in poi, andranno collegati tra di loro sempre di più. Quattro grandi aree da gestire in una visione allargata: il Parco Nord e le sue estensioni a Bresso, Sesto San Giovanni e Cinisello; il fiume Lambro con la sua natura da ricucire in modo che da Monza si possa raggiungere Milano e oltre a piedi o in bicicletta; il Parco sud con le sue teste di ponte cittadine; il sistema di parchi dell’ovest. Anche se, in questo quadro generale, ogni grande distesa di verde avrà una sua vocazione. È così, ad esempio, che Trenno sarà il parco dello sport, che il Comune lavorerà sul Forlanini per trasformarlo in un parco urbano agricolo, che Bosco in città sarà pensato per le famiglie e che l’anima un po’ selvaggia del parco delle Cave sarà valorizzata con una speciale oasi naturalistica che rinascerà dalle ceneri di un incendio.
È un puzzle che, ricomposto, si estende per oltre 17 milioni di metri quadrati il verde di Milano. Una mappa che il Comune ha suddiviso a seconda delle dimensioni: replicando le taglie delle magliette, si va dall’extra large del Parco Nord all’extra small delle aiuole sotto casa che i cittadini possono adottare. In mezzo i parchi storici in versione large come il Sempione e i giardini Montanelli, quelli di quartiere come il parco Solari o i giardini di Pagano. Un patrimonio che Palazzo Marino vuole valorizzare guardando anche oltre i propri confini, in chiave metropolitana, appunto. Per i grandi parchi di cintura, infatti, in futuro verrà fatto soprattutto un lavoro di connessione. È la nuova filosofia che può essere raccontata attraverso un progetto: «L’area a ovest è già abbastanza collegata. Adesso vogliamo lavorare sulla parte est: è per questo che abbiamo firmato con altri Comuni una convenzione per il piano che riguarda la media valle del Lambro», spiega l’assessore al Verde, Chiara Bisconti. Che cosa è? L’obiettivo è quello di cucire insieme i parchi e anche, riqualificandole, le piccole aree verdi che corrono lungo il fiume per farne un percorso unico da Monza a Milano e ancora oltre verso altri Comuni. E uno speciale filo è anche quello che l’amministrazione vuole utilizzare per trasformare il Forlanini: «È il parco che in questo momento ancora manca di un’anima forte», dice ancora l’assessore. In questo caso, il piano punta a collegare lo spazio all’Idroscalo, costruendo un ponte sul fiume Lambro, migliorando la porta su viale Argonne, riportando alla luce sentieri interni, realizzando percorsi pedonali e ciclabili. E rilanciando l’agricoltura per fare in modo che quest’area possa diventare una sorta di parco agricolo urbano.
Dal generale al particolare: eccola un’altra linea di azione di Palazzo Marino. Perché ogni grande parco, nella strategia del Comune, dovrà anche mantenere caratteristiche differenti attorno a cui programmare gli interventi. Un esempio è il parco di Trenno, immaginato come una palestra a cielo aperto tra campi da calcio pubblici, beach volley, pallavolo, rugby, bocce, percorsi per i runner. Per il parco delle Cave, invece, il futuro è un ritorno ancora più forte alle origini. Nei prossimi mesi i tecnici dell’amministrazione concluderanno i lavori per riportare alla vita un’area bruciata in un incendio e la recinteranno: lì la natura potrà dominare in modo (quasi) indisturbato. «Vogliamo creare un’oasi naturalistica spontanea, lasciando che questa zona si “inselvatichisca”. Ci sarà un numero chiuso e si entrerà per partecipare a visite guidate», dice Bisconti.
I visitatori di Expo e i milanesi presto potranno entrare anche in un “museo botanico” che il Comune sta realizzando sui vivai che l’amministrazione ha già fatto sorgere tra via Zubiani e via Margaria: un percorso didattico che punterà a far conoscere la vegetazione locale. Questo è uno dei progetti per il verde e l’agricoltura che saranno sviluppati per lotti successivi. Con questa logica, ad esempio, si sta disegnando il parco agricolo del Ticinello, un sogno da 90 ettari atteso da decenni. La prima parte c’è già: sei ettari di verde e un bosco didattico con 10mila piante inaugurati lo scorso maggio, una pista ciclabile in costruzione. Si andrà avanti, anche dopo che la vicesindaco Ada Lucia De Cesaris ha festeggiato il passaggio al Comune della Cascina Campazzo, congelata finora da un contenzioso storico con il gruppo Ligresti. Ancora a sud della città c’è un altro pezzo del mosaico da inserire nel parco metropolitano: è il parco del Sieroterapico, da attrezzare e riqualificare per fasi successive. Anche se il prossimo anno, è la promessa, sarà in gran parte accessibile a tutti.
postilla
Complice forse il genere di comunicazione parziale che esce da settori e assessorati (e non dovrebbe, proprio nella prospettiva della città metropolitana) pare che si sovrappongano un po' alla rinfusa le informazioni su una strategia di spazi aperti che non appare consapevolmente tale. Giustissimo lavorare già oggi in prospettiva metropolitana, e pensando alle specificità del nucleo centrale necessariamente tematizzate e con un indirizzo diciamo così da laboratorio di metodo. Ma quando si parla, abbastanza esplicitamente, di quelle che ormai tutta la pubblicistica internazionale chiama infrastrutture verdi, restare all'interno del solito linguaggio un po' da animazione per bambini lascia lievemente perplessi. Siamo di fronte a un'opinione pubblica che deve essere formata e informata, resa consapevole delle sfide, e con una cultura urbana da terzo millennio ancora tutta da costruire, che oscilla fra gli stili di vita della città tradizionale e la nuova sensibilità per modelli alternativi di consumo, mobilità, separazione fra tempo di lavoro e tempo libero. La rete delle infrastrutture verdi è in buona sostanza la base su cui progettare la metropoli post moderna, così come quella delle infrastrutture grigie lo è stata per la città industriale del '900, traffico automobilistico in testa, ma non solo (pensiamo alla gestione naturale del ciclo delle acque piovane). Perché non esplicitare queste strategie? Impossibile pensare che, magari sparse fra i settori dell'amministrazione, non rappresentino una parte importante degli orientamenti. E allora se ne parli, magari iniziando a parlarsi fra assessorati, consulenti, cittadini (f.b.)
«Se per caso il Rottamatore, si facesse portare un po’ di documenti sul ponte sullo Stretto, magari scoprirebbe qualcosa. Se invece confermerà il suo mood attuale (le imprese, e i costruttori in particolare, non sbagliano mai), pagheremo caro, pagheremo tutto». Il Fatto Quotidiano, 21 settembre2014
Quella delle penali a carico dello Stato per la mancata costruzione del ponte sullo Stretto di Messina è una fiamma perenne che da quasi dieci anni apposite vestali tengono in vita. Fu accesa nell’autunno del 2005, quando la concessionaria pubblica Stretto di Messina spa mise in gara l’appalto, e il consorzio Eurolink, guidato dalla Impregilo, se l’aggiudicò con un ribasso del 17 per cento sulla base d'asta, del tutto anomalo per un prototipo senza precedenti.
Da subito sorse il sospetto che la vera posta in gioco fossero le penali che lo Stato si impegnava a pagare nell’eventualità che l’opera – di dubbia finanziabilità – restasse confinata al libro dei sogni del berlusconismo. E da allora un infinito gioco delle tre carte vede impegnati Impregilo, Stretto di Messina (con l'Anas che la controlla) e governi pro tempore. L’ultima mossa è del numero uno di Impregilo, Pietro Salini, che è andato a spiegare a Matteo Renzi che allo Stato conviene riaprire il dossier della costruzione del ponte, sia pur costosetta, piuttosto che pagare un miliardo circa di penali. “Si tratta di almeno 40 mila posti di lavoro in un’area a forte disoccupazione e di un’opera a basso contributo pubblico rispetto a quello privato: piuttosto che affrontare importanti spese per le penali, perché non fare il ponte?”, ha detto Salini nel suo spot di apparente saggezza.
Nessun governo, tra i quattro che si sono succeduti in questi nove anni ha mai affrontato davvero il problema. Ciò consente all’Impregilo di fare la sua audace avance con l’unico obiettivo di smuovere le acque e battere cassa. Si tratta infatti di una società quotata in Borsa che deve rendere conto ai mercati di 300 milioni messi in bilancio come entrata quasi certa. Mentre lo Stato dovrebbe fronteggiare una spesa tra i 700 e i 900 milioni, ma forse molti di più.
Renzi eredita una bomba innescata, nella sua ultima versione, dal governo Monti, e in particolare dall’allora ministro delle Infrastrutture Corrado Passera. Bisogna ricordare l’origine della storia. Nel contratto originario, che derivava dal disciplinare di gara, le penali sarebbero scattate, se la costruzione del ponte non fosse partita, solo dopo l’approvazione del progetto definitivo da parte del Cipe, organismo governativo. Ma nel 2009, mentre il governo Berlusconi cavalcava il ponte come occasione di propaganda, e il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli divideva equamente le sue energie tra il Mose (per il quale è oggi indagato) e l'imprescindibile completamento del corridoio europeo Helsinki-La Valletta (proprio così, non è uno scherzo), i costruttori di Eurolink ottennero un regalo favoloso.
L’allora presidente di Stretto di Messina, Giuseppe Zamberletti, con l'assenso di Ciucci, firmò un nuovo contratto che, al contrario di quello originario, stabiliva che le penali scattassero non dopo l'approvazione del Cipe, ma proprio se il Cipe non approvava il progetto.
Quel contratto, che oggi Impregilo impugna per imporre ai contribuenti l'esborso di circa un miliardo di euro, è secretato da cinque anni. Però Passera, che era l’unico membro del governo a conoscerlo, anziché indagare sulla sua misteriosa origine (dopo il caso Mose un po' di prudenza non guasterebbe), ha emesso un decreto per la messa in liquidazione della Stretto di Messina spa che di fatto determina la cancellazione di tutti gli impegni contrattuali. Una mossa apparentemente drastica che ha aperto un’autostrada per le azioni legali di Salini. Il quale adesso è andato a presentare il conto a Renzi.
Se per caso il Rottamatore, che pare ami fare tardi a palazzo Chigi chino sui dossier, si facesse portare un po’ di documenti sul ponte sullo Stretto, magari scoprirebbe qualcosa. Se invece il premier confermerà il suo mood attuale (le imprese, e i costruttori in particolare, non sbagliano mai), pagheremo caro, pagheremo tutto.
Una piccola rassegna proposta dalla sezione di Venezia di Italia Nostra con articoli di Gloria Bertasi, Enrico Tantucci, e l'intervista a Lidia Fersuoch. Il Corriere del Veneto e La Nuova Venezia, 17 aprile 2014 (m.p.r.)
Louis Vuitton lancia a Venezia
il suo grande emporio del lusso.
Il Fontego colosso del lusso
Sbarca il colosso del lusso Dfs
«Sarà anche per i veneziani»
Ritorno al passato per il Fontego dei Tedeschi perché la nuova destinazione commerciale è in linea con la sua storia e perché il nuovo gestore vuole coniugare al suo interno commercio e cultura, facendone uno spazio anche per i veneziani e non solo per i turisti. Hanno presentato così, ieri - nelle Sale Apollinee della Fenice - Philippe Schaus e Eleonore De Boysson, rispettivamente presidente e amministratore delegato e vicepresidente del gruppo Dfs, la trasformazione dell'edificio che la società che fa capo al gruppo Lvmh del miliardario Bernard Arnault, proprietario di Louis Vuitton, attuerà nel complesso cinquecentesco, con un'apertura prevista per l'estate 2016. Siglato infatti il contratto di lungo termine con Edizione, la società del gruppo Benetton proprietaria dell'edificio che sta attuando la trasformazione secondo il progetto - da molti contestato - di Rem Koolhaas e lo consegnerà all'inizio del 2016, per l'allestimento, al nuovo gestore francese, che sbarca così in Europa con il suo duty free multimarca legato al lusso.
Il Tar potrebbe bloccare il progetto
Si deciderà a metà novembre, l'effettiva realizzazione della trasformazione del Fontego dei Tedeschi - nonostante i lavori già iniziati - quando sarà discusso il ricorso già presentato da Italia Nostra contro il progetto del gruppo Benetton curato da Rem Koolhaas e contro il via libera al cambio di destinazione d'uso concesso dal Comune di Venezia per consentire la realizzazione del centro commerciale. «Non possiamo consentire che un intervento così devastante contro un edificio storico dell'importanza del Fontego dei Tedeschi sia realizzato- commenta il presidente della sezione veneziana di Italia Nostra Lidia Fersuoch - e abbiamo rinunciato all'atto della presentazione del ricorso alla richiesta di sospensiva dei lavori, perché Edizione, la società del gruppo Benetton proprietaria dell'edificio, ha accettato di stralciare le parti più contestate dei lavori in attesa del giudizio di merito, come il grande foro previsto a piano terra, il nuovo piano ricavato dalla demolizione del lucernario e la nuova terrazza. Ora aspettiamo il giudizio del Tar».
Il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2014
La direzione generale Ambiente della Commissione europea ha chiesto formalmente all'Italia chiarimenti sull’inquinamento delle acque della diga del Pertusillo (Potenza) e sul rischio sismico dell’attività estrattiva. Dopo la denuncia, fatta nel 2013 dal comitato ambientalista Mediterraneo No Triv, l’Europa chiede risposte. E lo fa a pochi giorni dall’annuncio del premier Matteo Renzi: “Se c’è il petrolio in Basilicata sarebbe assurdo, in questo momento, rinunciarvi”.
Il decreto sblocca Italia, che vorrebbe raddoppiare le estrazioni di greggio in territorio lucano, preoccupa le associazioni ambientaliste e i cittadini, i pochi rimasti. Dal dossier presentato alla Commissione, realizzato da Albina Colella, docente di Geologia all'università della Basilicata, si scopre che nelle acque della diga, che disseta Puglia e Basilicata, sono state rinvenute abbondanti quantità di fosforo, azoto e zolfo. Ma soprattutto una forte presenza di idrocarburi e metalli pesanti. “Le concentrazioni di idrocarburi superano sempre i limiti di riferimento – si legge nella relazione – in quantità fino a 646 volte superiori al limite di microgrammi per litro fissato dall’Istituto Superiore di Sanità per le acque potabili. È stato rinvenuto, ad esempio, il bario (un metallo pesante usato nei pozzi di petrolio per appesantire i fluidi di trivellazione, ndr) con una concentrazione fino a 3000 microgrammi per litro, cioè in quantità fino a tre volte superiore al limite consentito per l'acqua potabile”.
Lo studio fotografa un rischio per la salute e la sicurezza delle persone elevato: “Ci sono idrocarburi anche nel miele della Val d'Agri – si legge testimoniare che l'inquinamento è ormai entrato nella catena alimentare”. E non è tutto. Come spiega l’avvocato Giovanna Bellizzi, presidente del comitato Mediterraneo No Triv, “anche la situazione geologica della Val d’Agri risulta incompatibile con l’attività di ricerca e di estrazione del petrolio”. Secondo il dossier, infatti, la zona in cui si vorrebbero raddoppiare le estrazioni è a forte rischio sismico. “È un territorio caratterizzato da faglie attive e da terremoti di forte intensità. Molto fragile e vulnerabile rispetto alle attività petrolifere”, scrive la professoressa Colella.
Oggi in Val d’Agri ci sono 25 pozzi petroliferi attivi, l’oleodotto più grande d'Europa e un pozzo di reiniezione (che raccoglie i gas di scarto). L’attività petrolifera, secondo l'Agenzia per l’Ambiente degli Stati Uniti (EPA), vale un rischio inquinamento da 7 a 8 su una scala il cui massimo grado è 9. Ma Renzi ha idee diverse: «È impossibile andare a parlare di energia e ambiente in Europa se nel frattempo non sfrutti quello che hai in Sicilia e in Basilicata. Io mi vergogno di andare a parlare delle interconnessioni tra Francia e Spagna, dell’accordo Gazprom o di South Stream, quando potrei raddoppiare la percentuale del petrolio e del gas in Italia e dare lavoro a 40 mila persone e non lo si fa per paura delle reazioni di tre, quattro comitatini».
Ma per Stefano Prezioso della Svimez, il mito dell’occupazione portata dal petrolio è falso: “La Basilicata è una delle regioni con il più alto flusso migratorio d'Italia. E la causa principale per cui in tanti se ne vanno è la disoccupazione. L’industria estrattiva non può risolvere il problema: impiega poche persone, in gran parte inviato sul posto da [....]
In Toscana si è aperta sui media regionali la cosiddetta “guerra del vino”, che vede diverse associazioni di categoria del settore vitivinicolo unite in un attacco frontale contro il Piano Paesaggistico proposto dall’assessore all’Urbanistica Anna Marson. Quali sono le accuse mosse al Piano? Dirigismo, astrattezza, vincolismo, intenti punitivi nei confronti di una categoria agricola che ha bisogno invece di mani libere per procedere a innovazioni del settore che presupporrebbero elevata meccanizzazione, accorpamento dei fondi, semplificazione del paesaggio. Addirittura ci si spinge a dichiarare l’esistenza di una minaccia per l’intero settore vitivinicolo, con paventate ricadute socio economiche negative, se tale piano non verrà rivisto nella sua impostazione generale. A noi pare che la polemica scatenata da alcuni settori di vertice dell’imprenditoria agricola sia tesa a delegittimare un piano per molti versi avanzato, che farebbe onore alla Toscana intera e alla sua dimensione rurale costruita nel tempo dal lavoro sapiente degli agricoltori.
Non è a oggi chiaro in quale direzione si muoveranno le osservazioni agli elaborati di piano che le associazioni stanno elaborando, però sappiamo già che sul carro della lotta contro il Piano è salito pure una parte del partito di maggioranza in Regione oltre ad una parte del potere locale.
Alcuni interventi nel dibattito, pur provenendo dal mondo agricolo o comunque vitivinicolo, hanno con buon senso riportato al centro della discussione lo stato reale del settore, come nel caso di Alessandro Regoli, direttore di Wine News, che ha scritto in una sua lettera aperta ai media regionali: “ La Toscana è famosa nel mondo per l’armonia del paesaggio, che quindi va conservato, nell’interesse supremo di tutti. Questo non vuol dire non fare nulla: la programmazione territoriale non si crea mettendo regole, ma cercando di rimodellare bene, in maniera sostenibile, tenendo conto degli effetti idrogeologici e paesaggistici, ma anche senza speculazioni. Il Piano penso che avesse la finalità di “accompagnare” le trasformazioni e non bloccare gli investimenti nel settore agricolo in Toscana”. O come nel caso di Luca Brunelli, presidente Cia Toscana,che presentando un dossier sul Piano paesaggistico elaborato dalla sua associazione, sia pur criticabile e che riteniamo di non condividere (basato sulla antinomia tra l’ “agricoltura tradizionale” secondo loro privilegiata dal Piano e quella “innovativa e competitiva”) dichiara: “è un documento complesso e giustamente ambizioso, che condividiamo negli obiettivi fondamentali, perché mira al contrasto del consumo di suolo; riconosce l’agricoltura quale presidio paesaggistico essenziale; punta al recupero produttivo agricolo di superfici abbandonate. Emerge tuttavia la tendenza ad una visione statica dell’agricoltura […] che individua fra le minacce al paesaggio l’abbandono dell’agricoltura da una parte e i processi di intensificazione e specializzazione dall’altra [...].Per quanto riguarda, per esempio, i vigneti occorre evitare generici giudizi di “criticità” e conseguenti direttive di generalizzato contrasto allo sviluppo del settore. Suggeriamo di applicare l’art. 149 del codice con il metodo seguito in altre circostanze (es. fotovoltaico o biomasse): definendo in quali condizioni, e a partire da quali estensioni, si debba evitare la realizzazione di nuovi impianti o adottare norme tecniche di prevenzione del rischio idrogeologico”. Sono richieste di modifica del testo che, trasformando le raccomandazioni in regole agronomiche chiare e definite, possono dare anche maggior cogenza a quegli indirizzi, e quindi possono definire un terreno di mediazione possibile.
Ma il complesso degli interventi ha avuto un altro taglio, e può aver ingenerato in molti l’impressione che la normativa proposta sia un insieme di vincoli che un potere politico (e accademico) vuole imporre al dinamico e libero mondo di imprenditori agricoli, o per dirla con le parole di Giovanni Busi presidente del Consorzio Chianti «Non può essere un atto politico a dire dove io devo piantare viti o dove non posso farlo, deve essere il viticoltore a scegliere, perché conosce il vino e come lo si fa».Ma per non perdersi in un polverone di dichiarazioni che spesso sembrano estremizzare ed ideologizzare astrattamente, riteniamo utile sottolineare alcuni semplici dati di fatto:
La posta in gioco nella discussione sul Piano Paesaggistico è a nostro avviso molto alta, si tratta di decidere qual è il modello di agricoltura che vogliamo per il nostro futuro e perciò auspichiamo che questa discussione non resti solo appannaggio di chi difende interessi particolari o peggio speculativi. Il territorio rurale toscano, e il paesaggio agrario che ne è la dimensione visibile, sono beni preziosi e comuni, di tutti. E le sue trasformazioni devono essere governate, non subite. L’interesse per il piano paesaggistico, dunque, non può rimanere limitato a pochi addetti ai lavori, ma deve coinvolgere tutti quei soggetti attivi in un possibile cambiamento di scenario, dai GAS alle associazioni di tutela dell’ambiente e del territorio, dalle associazioni di categoria più lungimiranti ai cittadini sui territori come in parte è già avvenuto con i momenti di partecipazione seguiti dalla Regione nella costruzione del piano.
Questa “guerra del vino” ci pare una polemica scatenata ad arte per impedire – dilazionandola nel tempo – l’approvazione del piano, con il coinvolgimento anche di una parte del potere politicoregionale e locale (come sta avvenendo purtroppo per la nuova legge urbanistica), magari per aspettare la fine della legislatura regionale e poi avere le mani libere con un altro assessore all’urbanistica. Agricoltori e studiosi, Università e mondo rurale hanno l’interesse comune a ribadire il valore del piano e a denunciare il tentativo di poche lobby di ostacolare un equilibrato governo delle trasformazioni del paesaggio e quindi del mondo rurale. Quando qualcuno dice che non può essere la politica a decidere gli indirizzi delle trasformazioni, significa che secondo lui devono essere il mercato e gli affari a dettare le scelte. Stupisce che autorevoli associazioni di categoria si prestino a questo gioco e che in Regione molti invece di difendere il proprio piano cerchino di ritardarlo nella speranza di affossarlo. È solo il disperato tentativo di rilanciare un modello che ha prodotto guai, cioè un paesaggio più semplificato e banale, un suolo più fragile e un sistema economico che adesso è strutturalmente in crisi. Alla crisi si risponde mettendo il territorio e l’agricoltura, la buona agricoltura, al centro dell’attenzione culturale e politica, non riproponendo gli stessi paradigmi che l’hanno generata.
Novant'anni, e sembra ieri, soprattutto per quanto riguarda il modo di concepire e non governare le grandi arterie stradali alimentatrici di sprawl. Corriere della Sera Lombardia, 19 settembre 2014, postilla (f.b.)
«Uniforme, disadorna ma levigatissima, si dilunga come la guida di un corridoio d’albergo, evitando sino al possibile le curve ed ogni contatto, ogni intimità e ogni emozione, il pittoresco e il romantico; arida e muta come un’asta, precisa come una pagina di orario, obbediente a una disciplina, la brevità, e a uno scopo, l’utilitarismo». Doveva apparire davvero strabiliante agli occhi di cronisti dell’epoca, quel grande miracolo che in soli 15 mesi aveva portato un paese in miseria alla ribalta internazionale. L’apertura della Milano-Varese, prima autostrada del mondo, inaugurata il 21 settembre del 1924, proiettava di colpo l’Italia nel futuro in un momento in cui (era l’anno del delitto Matteotti) il regime aveva bisogno di consensi e di un rilancio dell’immagine.
Tutto era nato due anni prima dalla lungimiranza di un imprenditore lombardo, Piero Puricelli,che costruendo strade aveva costruito la propria fortuna. Il suo sogno era quello di realizzare la prima «via per sole automobili», intravedendo le grandi possibilità che lo sviluppo della motorizzazione avrebbe presto avuto. Una vera scommessa se si pensa che all’epoca in Italia circolavano solo 85 mila veicoli.
All’inizio del 1922 Puricelli, proprio mentre stava progettando l’autodromo di Monza (il terzo più vecchio impianto fisso dopo Indianapolis e Brooklands) che sarebbe stato inaugurato a luglio dopo soli 50 giorni di lavori, cominciò a dedicarsi a tempo pieno al suo sogno, quello di unire con un’autostrada Milano a Varese ma anche a Como e al Lago Maggiore. Preparò uno studio di fattibilità è trovò subito l’entusiastico appoggio dall’Aci e dal Touring Club. Il 18 novembre del 1922 costituì la «Società anonima autostrade» e, 5 giorni dopo, a meno di un mese dalla marcia su Roma, andò da Mussolini a illustrare il suo progetto.
Il capo del governo capì al volo che quella era un’occasione da non perdere («grandiosa anticipazione italiana, segno della nostra potenza costruttiva degna degli antichi figli di Roma», avrebbe detto a opera conclusa), anche perchè i costi per la realizzazione, 90 milioni, sarebbero stati a carico dell’imprenditore: un prototipo del tanto sbandierato project financing cui si fa ricorso oggi per costruire le nuove autostrade, ma che allora (come adesso) finì poi per mostrare tutti i suoi limiti. Il duce chiamò il ministro dei lavori pubblici ordinandogli di mettere a punto tutti gli atti necessari per autorizzare l’opera. Fissò il giorno dell’inizio lavori, a Lainate, in cui sarebbe intervenuto con il primo colpo di piccone, e quello dell’inaugurazione. Tra le due date c’erano soltanto 500 giorni per costruire 43 chilometri. Tempi pienamente rispettati.
Fu così un grandioso cantiere quello che si aprì nel maggio del 1923, considerate anche le tecnologie dell’epoca. Ci lavoravano a tempo pieno, 7 giorni su 7, quattromila operai che movimentarono due milioni di metri cubi di terra, costruendo 219 manufatti in cemento, tra cui 35 ponti e 71 sottopassi. Per la pavimentazione (spessa sino a 20 centimetri), realizzata mischiando sassi con sabbia e cemento, furono usati 120 mila metri cubi di pietrisco che venivano trasportati in treno dalle cave di Puricelli alle stazioni più vicine e poi, con vagoncini che si muovevano su appositi binari, sino al luogo di utilizzo.
Per il calcestruzzo Puricelli comprò nelle Stati Uniti cinque grosse betoniere che potevano produrre 1200 metri cubi di conglomerato al giorno. I progettisti trovarono soluzioni all’avanguardia anche per realizzare le opere più impegnative, come il cavalcavia sulla stazione di Milano Certosa (che ancora esiste), tre campate ad arco di 21 metri l’una, il ponte sull’Olona a Castellanza e la galleria di Olgiate Olona. L’autostrada (la prima al mondo, anche se i tedeschi ritengono che il primato vada alla loro Avus, un circuito di prova inaugurato a Berlino nel 1921)aveva solo una corsia per ogni senso di marcia ed era larga tra gli 11 e i 14 metri. A Milano il casello era in viale Certosa all’altezza di Musocco, i dipendenti erano in divisa e avevano l’obbligo di fare il saluto militare. La sbarra si alzava alle sei del mattino e si chiudeva a mezzanotte.
Alla cerimonia di inaugurazione intervenne il re, a bordo di una Lancia Trikappa guidata da Puricelli. Per l’ingegnere fu il coronamento di un sogno ma pure l’inizio di un’intensa attività che lo portò a costruire molte autostrade anche all’estero. Ricevette onoreficenze, lauree honoris causa, il titolo di «conte di Lomnago» e, nel 1929, fu pure nominato senatore.
postilla
Negli anni '20, come si è ricordato anche alla penultima edizione del Seminari di Eddyburg, dedicata alla dimensione metropolitana, insieme alle autostrade nascevano, o provavano a nascere, anche piani territoriali per affrontare l'emergere della nuova geografia urbana indotta dalla compressione spazio-temporale delle autostrade. Come ci spiegava poco dopo (1933) il sociologo Roderick McKenzie, la scala metropolitana si sostituiva in senso identitario, fisico, socioeconomico, a quella urbana così come la grande città industriale delle stazioni ferroviarie, e poi dei tram, aveva soppiantato la città murata della tradizione. Anche nell'area milanese si discuteva della possibilità di questi “piani regionali”, puntualmente sabotati da chi riteneva di sapersi regolare benissimo da solo, ed è continuata così nel dopoguerra facendo saltare i modelli virtuosi del Pim, fino ai nostri giorni della cosiddetta città infinita, che si allarga ad archi concentrici principalmente (guarda un po') dal vecchio asse dell'Autolaghi, all'altrettanto storica Milano-Brescia, via Pedemontana Lombarda. Di piani territoriali, neppure l'ombra, salvo quelli che “recepiscono” passivi un nuovo segmento della mega lottizzazione in corso. C'è un'alternativa? Lo chiediamo spesso (f.b.)
«Allo sblocca Italia bisogna poi aggiungere il disegno di legge in materia urbanistica del ministro Lupi dove si evita furbescamente di compiere il bilancio della crisi edilizia provocata da venti anni di deregulation». Il Manifesto, 18 settembre 2014
I dati Osce affermano che la crisi economica italiana è la più grave tra i paesi del G7. Martedì scorso il presidente del consiglio ha ripetuto in Parlamento che servono mille giorni per vedere i risultati delle riforme annunciate. Ma nel campo della città e delle grandi opere Renzi ha già legiferato accettando il punto di vista della grande proprietà edilizia, delle imprese e dalla finanza speculativa. Tutte le riforme verranno in futuro, ma il cemento ha evidentemente la priorità su tutto e si perpetuano le politiche che hanno provocato la crisi che attraversiamo.
Molti articoli sono infatti indirizzati alla costruzione di strumenti finanziari come i project bond, alla defiscalizzazione del project financing, al potenziamento del braccio operativo della grande svendita del patrimonio immobiliare, e cioè Cassa depositi e prestiti. Una serie impressionante di commi scritti su misura dei tanti appetiti speculativi. Il decreto contiene, tra tanti, cinque errori catastrofici. Il primo di aver ulteriormente semplificato (art. 17) le modalità per eseguire i lavori edilizi. Storia vecchia. Nel 2009 quando approvò il Piano casa che si basava sulla stessa filosofia di abolizione di tutti i controlli, Berlusconi affermò che il provvedimento avrebbe fatto aumentare il Pil di 4 o 5 punti. Da allora è iniziata la crisi del settore. Non è dunque questione di semplificazioni: siamo dentro una crisi strutturale e continuare sulla stessa strada significa illudere il paese.
Seconda questione. Pur di permettere nuove speculazioni nel decreto (sempre art. 17) si permette a chi realizza un nuovo quartiere di realizzare le opere di urbanizzazione per “stralci”. Un pezzo di strada, forse. O mezzo marciapiede. Chi ha scritto quella vergogna dovrebbe vedere come operano le pubbliche amministrazioni nelle città europee: prima si completano le urbanizzazioni e poi si costruiscono le case. In Italia ci sono le periferie più oscene d’Europa ed ora si premiano i responsabili.
C’è poi la ulteriore semplificazione delle procedure di valorizzazione e di vendita degli immobili dello Stato (art. 26). In questo caso la novità è che i comuni possono individuare gli edifici pubblici da valorizzare di qualsiasi amministrazione statale. Il patrimonio di tutti gli italiani viene messo in mano alle lobby locali: a venderlo ci penserà CDP e la sua società immobiliare Sgr, emanazione della cultura di JP Morgan.
L’ultimo pilastro del decreto è, inutile dirlo, l’ulteriore cancellazione della tutela paesaggistica: la cementificazione del paese deve continuare ad ogni costo.
Allo sblocca Italia bisogna poi aggiungere il disegno di legge in materia urbanistica del ministro Lupi dove si evita furbescamente di compiere il bilancio della crisi edilizia provocata da venti anni di deregulation. Ma Nomisma ha stimato che esistono 700 mila alloggi nuovi invenduti: siamo in sovraproduzione e da questo elemento deriva la crisi. La proposta cerca invece di favorire la costruzione di nuovi quartieri. Non è un caso. Vezio De Lucia insiste sul nodo del 1963, quando l’inaudita campagna di stampa contro la riforma urbanistica di Fiorentino Sullo combattuta con lo slogan «vogliono togliere la casa a otto milioni di capifamiglia», impedì all’Italia di diventare un paese moderno. Quel blocco di potere continua a tenere in ostaggio l’Italia: costruire altri quartieri provocherebbe una ulteriore svalutazione delle case degli italiani. Sono Lupi, Renzi e la grande proprietà fondiaria che vogliono vendere davvero le case ai 18 milioni di capifamiglia.
I provvedimenti sulla città e sulle grandi opere sono l’unico caso in cui Renzi non ha fatto promesse ma ha sposato la cultura Berlusconiana, altro che cambiare verso. La maglia nera che l’Ocse ci ha assegnato deriva dall’anomalia storica italiana di non aver regolato i conti con la rendita immobiliare. È ora di cancellare questo ritardo, solo così potremo pensare di liberare risorse economiche oggi bloccate nella speculazione immobiliare. E, soprattutto, difendere dalla svendita il patrimonio immobiliare di tutti gli italiani.
«Venezia. Contro il "Comitatone" che in agosto ha dato via libera al progetto che spiana 5 km a beneficio delle mega-crociere, domenica 21 torna la protesta No Grandi Navi con corteo acqueo lungo il canale Contorta Sant’Angelo». Il manifesto, 17 settembre 2014
Galleggia sul pelo dell’Adriatico e sul filo dell’acqua alta. Dal 1987 patrimonio mondiale Unesco, la laguna è specchio della città-cartolina e insieme approdo di interessi senza scrupoli. A fine estate Venezia archivia il tappeto rosso del cinema, scruta l’inabissamento dei mega-cassoni del Mose, osserva l’ingovernabilità di Ca’ Farsetti e lo spettro dei «cannibali» inchiodati dalla Procura della Repubblica.
È in gioco, come sempre, il futuro dei 64.676 residenti. La città-palafitta (che dall’alto sembra un pesce…) rischia di venir intrappolata nelle reti di «pirati» vecchi, nuovi e riciclati. Venezia formato Disneyland: turismo da mungere con le crociere. O piattaforma logistica del business che incrocia cemento, asfalto, petrolio e chimica. Ma anche «porto delle lobby» inossidabili, perché i veri affari si consumano in nome della salvaguardia come specchio per le allodole e dell’Expo quotidiana che va all’incasso.
Eppure, c’è chi si ostina a voler finalmente invertire la rotta. Domenica 21 settembre torna, in acqua, il Comitato No Grandi Navi-Laguna Bene Comune. Lunedì sera in sala san Leonardo l’ultima assemblea organizzativa in vista del corteo acqueo lungo il canale Contorta Sant’Angelo. È trascorso un anno dal tuffo collettivo dalle Zattere per fermare la processione di una dozzina di «città galleggianti» in Canal Grande. Anticipa Silvio Testa: «Sarà una grande manifestazione nel Canale Contorta per dire no al suo scavo. Ci andremo con le nostre barche, che è il modo migliore per fare vedere qual è la laguna che vogliamo. Per questo ho lanciato un appello: sono sicuro che è compito statutario di tutte le società di canottaggio, remiere e veliche veneziane promuovere la difesa della nostra cultura acquea e dell’ambiente che l’ha prodotta».
È la risposta al blitz del «Comitatone» che in pieno agosto ha dato via libera al progetto sponsorizzato da Paolo Costa (Pd), presidente del Porto di Venezia: con il pretesto dell’applicazione in ritardo del decreto Clini-Passera che stoppava le Grandi Navi, si spiana la laguna per 4,8 chilometri a beneficio delle mega-crociere. Ruspe al lavoro con l’obbiettivo di espandere il canale da 6 a 190 metri di larghezza e da 1,80 a 10 metri di profondità.
Ipotesi già bocciata dalla Commissione Via del ministero per l’Ambiente (presieduta dall’ingegnere Guido Monteforte Specchi) il 27 settembre 2013: dragare 8 milioni di metri cubi di fanghi comporta conseguenze tutt’altro che reversibili. Sarebbe una vera e propria «autostrada» senza nessuna seria garanzia tecnica, secondo il professor Luigi D’Alpaos che è il massimo esperto di idraulica per il bacino lagunare fin dall’alluvione 1966. Ma con l’asse sussidiario fra il ministro ciellino Maurizio Lupi, il governatore leghista Luca Zaia e i monopolisti veneti il «nuovo canale» d’improvviso è diventato panacea. Sulla carta, comporta tre anni di lavori, 157 milioni di spesa e l’interramento dell’oleodotto. Di fatto, è quanto disegnato da tempo dal «giro» dei professionisti legati al Consorzio Venezia Nuova a beneficio delle imprese di fiducia. In attesa di procedere, sempre grazie al governo Renzi, con il project financing da 2,5 miliardi del teminal portuale d’altura.
L’estate era cominciata con il terremoto dei 35 arresti dello scandalo Mose, la più Grande Opera del dopoguerra (5,5 miliardi in concessione unica al CVn) che ha prodotto la simbiosi illegale di imprese, coop, politici, tecnici e burocrati. Il vero «modello veneto» spiegato nelle 711 pagine dell’ordinanza dei pm. Nel canale giudiziario di Venezia si profila una sfilza di patteggiamenti. Hanno già scelto il rito abbreviato l’ex consigliere regionale Pd Giampietro Marchese, il responsabile del Coveco Franco Morbiolo, gli ingegneri e i tecnici del CVn, il commercialista svizzero Cristiano Cortella e tre «imprenditori» di Chioggia. Processo fissato il 16 ottobre, mentre l’ex magistrato alle acque Patrizio Cuccioletta e Stefano Tomarelli (Condotte d’Acqua Spa) stanno ancora «trattando» pena e risarcimento.
In parallelo, si consuma il «caso umanitario» dell’ex assessore regionale Renato Chisso detenuto a Pisa. «È a rischio ischemia ed è sconvolto dopo il suicidio del vicino di cella» sintetizza l’avvocato Antonio Forza. Da qui la «campagna» per la scarcerazione supportata da Forza Italia. La Procura però insiste a cercare il «tesoretto» maturato in tre mandati di governo berlusconiano della Regione: sono in corso rogatorie e verifiche che spaziano dalla Moldavia alla Svizzera, dalla Croazia al Canada fino a Dubai e all’Indonesia.
Chisso appare meno solo di Giancarlo Galan, detenuto ad Opera. Per l’ex «doge» e ministro sussiste il rischio di reiterazione e le condizioni che il 9 agosto impedivano qualunque ammorbidimento delle condizioni detentive. Secondo Angelo Risi, presidente del Riesame di Venezia, non è possibile far scontare a Galan gli arresti nella villa sui Colli Euganei (è provento di reato) né domiciliare la pena a casa della madre o del fratello: «L’intero gruppo familiare risulta in qualche modo coinvolto in situazioni di scarsa trasparenza con Giovanni Mazzacurati». L’anziano ingegnere dominus del Mose risulta ancora negli Usa, ufficialmente per motivi di salute. Dovrebbe rientrare (il visto del passaporto è in scadenza), ma potrebbe essere ascoltato per rogatoria. È ai domiciliari nella villa di Vicenza l’ex europarlamentare forzista Lia Sartori. Ha riguadagnato la libertà dal 3 settembre Maria Piva, ex magistrato alle Acque a libro paga del CVn.
Il «sistema Mose» è davvero il paradigma delle larghe intese che in tutto il Veneto hanno espropriato la gestione di urbanistica, finanziamenti e lavori pubblici. Galan resta il bersaglio grosso: adesso arrivano anche i dettagli della compravendita con don Pierino Gelmini della tenuta di 400 ettari a Casola Valsenio sull’Appennino tosco-emiliano, mentre la Guardia di Finanza scandaglia il business del gas nelle scatole cinesi architettate nello studio commercialisti Penso & Venuti…
Intanto la Corte dei Conti ha appena spedito l’avviso di messa in mora a una quarantina di dirigenti, che devono restituire 12,6 milioni di euro. A cominciare dall’ex dg dell’Azienda ospedaliera di Padova Adriano Cestrone e da quello attuale dell’Usl 16 Urbano Brazzale sono chiamati a rispondere delle irregolarità del maxi-appalto per il centro di cottura di Serenissima Ristorazione, l’azienda vicentina che fornisce anche i pasti ai pellegrini del Vaticano.
E come a Venezia («connessa» con Chisso nell’inchiesta Mose), l’impresa edile Carron lavora a pieno regime con l’Università di Padova. Ha appena realizzato l’ampliamento dell’Orto Botanico che permette di «coltivare» il fronte Expo 2015. E già pensa al cantiere dell’appalto da 25 milioni per la rigenerazione dell’ex ospedale geriatrico come «polo umanistico» dell’Ateneo.