loader
menu
© 2024 Eddyburg

Pubblichiamo la bella introduzione del libro Documenti su vent'anni di utopia urbanistica a Siracusa Tra neoilluminismo e neoromanticismo, (La casa del nespolo Roma 2013). E' anche un augurio, per il prossimo novantesimo compleanno del nostro giovane amico Cenzi

Il recente riconoscimento di Siracusa nella Heritage List del Patrimonio Unesco dell’Uma-nità è una conferma a posteriori della linea sostenuta fin dagli anni del concorso e del primo Piano Regolatore del primato dei Beni Culturali nella costruzione del piano, ed è con questa se-conda luce che può essere letta questa premessa ai documenti criticamente raccolti e ordinati a cura del dott. Giuseppe Palermo, a illustrazione delle vicende 1952-1972 della battaglia per Siracusa ed in particolare per un piano basato con rigore di imperativo categorico sul primato a livello mondiale dei suoi Beni Archeologici, Culturali e Ambientali di cui mi avvio a darVi alcuni cenni, a richiesta dello stesso curatore.

Ora Vi racconto come è nata questa pubblicazione.

È venuto a trovarmi a studio il dott. Giuseppe Palermo, impegnato defensor del patrimonio culturale di Siracusa. Mi ha detto che aveva in mente di dar vita, per distinguere i fatti dalle opinioni, ad una collana destinata a pubblicare documenti del dibattito pubblico (articoli di giornali e riviste, delibere di Enti Pubblici etc.) relativi alla prima grande guerra sul Piano Regolatore di Siracusa (1952-1972): una parte con i testi del Cabianca, una con quelli di Luigi Bernabò Brea, un’altra con quelli di Michele Liistro, documenti che affiancano ed integrano una importante letteratura storico-critica relativa agli stessi anni, a partire da I guasti di Siracusa di S. L. Agnello e C. V. Giuliano.

Mi ha chiesto se avessi qualche altro documento oltre a quelli già da lui accurata­mente raccolti e trascritti. Abbiamo verificato che, salvo l’introvabile re­lazione finale al primo Piano Regolatore Generale, lui aveva già tutto.

Mi ha chiesto di scrivergli una presentazione. Nell’accettare, mi sono ricordato dei versi studiati al liceo, la frase che Enea in riva al mare premette al racconto a Didone della caduta di Troia: “Infandum regina iubes renovare dolorem, troianas ut opes et lamentabile regnum eruerint Danai…”. Mi sono ricordato del disegno fatto da Enea con una canna sulla sabbia della topografia dell’antica Troia, degli accampamenti, degli Achei, dei luoghi delle battaglie e della frase finale, quando Enea dice a Didone: "Guarda, o regina, come un’onda del mare, in una volta sola, ha cancellato tutto, ha cancellato tanta gloria e tanta storia…”.

Questo pensiero mi ha richiamato al dovere e così ho molto ringraziato il dott. Palermo per il suo senso civico e ho scritto questa breve premessa ai documenti da lui raccolti.

La mia età si avvicina ai novant’anni. Ho vissuto, per quasi un secolo, illuministi­camente, una vita che si illuminava nella progettazione, nel pensare strutturalmente processi, nel disegnare spazialmente piani che configuravano il cammino verso traguardi di assetti spaziali che, a loro volta, cercavano di rappre­sentare olograficamente obiettivi di evoluzione, di organicità complessiva. La storia, la cultura umanistica e quella scientifica confluivano nei colori dello zo­ning e dei tessuti per armonizzarsi progressivamente nella vita in un processo di futuro coevolutivo dell’uomo nella sfera biologica, ecologica e psicosociale dell’umanità.

Una visione che configurava utopia di assetto e di rapporto e di strutture a tutte le scale, de-duttivamente, da quelle continentali a quelle nazionali, regionali, territoriali, comunali, particolari, in un paesaggio di scenari caratterizzato dal passaggio di Zeitgeist, dalle religioni ancora e sempre alla ricerca di scorciatoie fideiste inventate e di postulati di comodo, ad un nuovo mondo governato dalla filosofia del piacere e dalla religione della conoscenza e dell’etica del metodo scien-tifico.

Ricordo che attendevamo sempre con ansia l’uscita del nuovo numero della rivista Urbanistica, con le immagini degli scenari di frontiera culturale urbanistica sui quali contendere e, rispetto ai quali, non essere mai in posizione arretrata. Tutto questo è svanito e la società ha subìto, assistendovi quasi senza oppo­sizione, il compier-si lento di un tale tramonto dei valori del Pubblico, della Pianificazione, della Programmazione dell’Urbanistica, della Politica di Piano, in favore della navigazione a vista nello spazio finanziario, di rimedio in rimedio, in progressione negativa, che ora, nell’anno 2012, quasi debbo vin-cere un certo pudore che vorrebbe trattenermi mentre scrivo queste cose pensando alle certezze di allora. Oggi l’urbanistica è uscita dal calendario politico a tutti i livelli di governo, mentre l’economia è divenuta diseconomia che vive della deregulation generale.

Oggi la finanza ha contagiato e fortemente intaccato – se non ancora travolto – il mondo del lavoro e della ricerca dello Stato di diritto, delle certezze delle logiche dei piani che non hanno più quella meravigliosa centralità sulla quale si scrivevano e perseguivano le Costituzioni e le loro progressive attuazioni, mentre la specula­zione non ha più nulla da temere da parte dell’urbanistica perché ridotta a un set­tore tecnico, senza ambizioni di governo degli interessi generali, perché l’urbanistica è diventata una parola vana, un atto formale per legalizzare a poste­riori, con nuove denominazioni, nuove forme delle antiche “lottizzazioni convenzionate”.

L’urbanistica per me, allora, era un’urbanistica dello spazio e del tempo, era la componente e la proiezione territoriale di una pianificazione generale che cercava di essere come una sinfonia, un processo dialettico che aveva un traguardo di armonia spazio-temporale e socio-culturale generale indicato come riferimento al quale conformare gli interventi nel tempo.Era una dichiarazione d’amore per un territorio e per una società. Allora tutto in me era diverso.

L’incontro operativo con l’archeologia, la storia e, ad un tempo, con la geomorfologia significante della più vasta storia geologica, avvenuto subito dopo la laurea, in occasione della meravigliosa esperienza del concorso del 1952 per il Piano Regolatore di Siracusa, in un momento in cui cominciava a lievitare anche in Italia l’idea dell’advocacy planning, mi hanno acceso da allora nella mente un “epigenoma” particolare e determinante, un “genearchitetto” che mi fa gerarchizzare e privilegiare nel processo progettuale la matrice antica, il Dna storico-culturale, sotto le immagini delle città.

La partenza del ragionamento è questa: perché i Greci si erano insediati a Siracusa? Il Porto Grande era il miglior porto del Mediterraneo e in più aveva la preziosa “vasca di oscillazione” del Porto Piccolo, l’Ortigia e l’Epipoli erano la più difendibile fortezza naturale perimetrata dalle falesie marine sollevate dalla neotettonica pleistocenica, l’Epipoli era vasta e poteva, una volta fortificata, anche ospitare i pascoli per il bestiame per la popolazione in caso di assedio. Non c’era situazione migliore per un insediamento autarchico in caso di pericolo, il tutto al centro di un Mediterraneo, che era allora il grande mare centrale del mondo antico, al confine tra le aree d’influenza tra le due grandi civiltà in conflitto, tra l’impero persiano e il mondo greco con tutte le sue colonie che si sviluppavano fino oltre le Colonne d’Ercole.Vi erano poi altri motivi: la stratigrafia geologica portava l’acqua potabile a domicilio in forma artesiana fino all’Ortigia, un vero dono dagli Dei.

Queste fondamentali componenti hanno dato a Siracusa il ruolo straordinario che ha avuto nell’antichità, e ad un tempo costituiscono ancora le risorse dell’armatura culturale per un nuovo piano.

Un urbanista è un direttore d’orchestra o meglio un compositore che ha davanti a sé infiniti elementi da armonizzare tra la città di pietra, le città della storia e la città dell’uomo, con vincoli da trasformare in risorse, tra storia e progetto, e il piano disegnato è un’olografia nella quale la quarta dimensione del tempo, del futuro è olograficamente racchiusa nella semiologia bidimen-sionale della sua rappresentazione. Quell’epigenoma, quello spartito, quella ouverture sono stati un imprinting che ha generato una matrice da rappresentare subito, da evidenziare.

La morfologia del porto e del rapporto con il mare, da evidenziare con l’azzurro e i significati geomorfologici della geodinamica del territorio, a loro volta matrice della geostoria dell’insediamento umano. A terra, i “significanti” archeologici della città magnogreca, da evidenziare con il rosso, con il colore più evidente e semiologicamente più significativo della sua importanza gerarchica all’interno di un connettivo verde, di un fiume verde di distacco esaltante e gerarchizzante che ne indica una presenza a livello di alta sacralità, di uno “status” di santuario, di tesoro da custodire, di ritrovamento di tracce di un ordine superiore scritto dal comandamento fatale che si ripete: “antiquam exquirite matrem”.

Questa visione alla Winckelmann ha reso particolare il piano di Siracusa fin dalla sua prima formalizzazione. Nel piano di concorso aleggia uno Zeitgeist di neoclassicismo che il disincanto del tempo ha fortemente venato di romanticismo. Da questo discende il titolo, che vuole rappresentare la presenza nel piano di un neoromanticismo molto connotante con cui leggere il tutto e di un neoillu-minismo dal quale discende la forza di un imperativo categorico, etico ed estetico, del primato dei Beni Culturali nelle scelte del piano.

Un secondo elemento è infatti il neoilluminismo. Io sono un fanatico della semiologia e delle evocazioni simboliche delle forme urbane a tutte le scale. Come nel Castello dei destini incrociati di Calvino, vedo l’esistenza criptica di un secondo sistema sotto le cose, di segni simbolici forti e a volte configuranti; vedo nell’interpretazione la simbologia affiorante geomorfologica che anticipa i segni antropici dell’architettura e dell’urbanistica indotta dalla loro morfologia. Quindi il secondo elemento che sono portato ad enfatizzare in una terza dimensione è l’interpretazione geodinamica delle geomorfologie del paesaggio, alle quali si appoggia la morfologia del segno archeologico per via dell’economia dell’urbanistica antica sottostante. Un sistema insediativo molto coerente, molto appoggiato al sistema naturale, soprattutto nei sistemi difensivi. Sistemi difensivi che per la loro robustezza, estensione ed esposizione, sono spesso i segni archeologici più evidenti. Mi riferisco al sistema delle falesie di bordo dell’Ortigia, dell’Epipoli sollevate dall’uplift della neotettonica pleistocenica e del circuito delle mura dionigiane.

Nei lunghi periodi durante i quali sono arrivato a Siracusa e non più ripartito, ho vissuto nella foresteria del sottotetto della Soprintendenza, in una stanzetta con l’affaccio sul Porto Grande, con Erodoto e Tucidide sul comodino. Era la letteratura antica che mi dava la forza di combattere. L’ulteriore elemento è costituito dall’idea della democrazia di procedimento, di costruzione democratica del piano in dialogo con i cittadini attraverso la stampa, in colloquio continuo, con un invito al confronto e all’arricchimento delle idee e delle proposte.

Studiando Siracusa sotto tutti gli aspetti, integrati tra loro, da quelli storici a quelli geologici, da quelli fisici a quelli letterari ero divenuto Siracusano, profondamente, appassionatamente Siracusano.

Con queste tre dominanti, il modello di sviluppo urbano proposto dal P.R.G. – condizionato ulteriormente dal ruolo strategico molto rilevante del piano di industrializzazione del Mezzogiorno con fondi Casmez – ed il suo processo di formazione sono stati segnati dalla geomorfologia del porto e dalle falesie dell’Epipoli, dall’archeologia dell’impianto urbano classico al momento del suo massimo splendore – anch’esso fortemente coniugato con la base geomorfologica –, dalla convinta gestione della formazione del piano con un processo di confronto continuo col pubblico attraverso la stampa.

In quel primo periodo postbellico la risorsa più facile e la più diffusa per le economie locali era costituita dalle rendite edilizie parassitarie di posizione urbane in assenza dei piani regolatori da una parte e, dall’altra, e per la economia di livello superiore, dai grandi insediamenti industriali inquinanti dei semilavorati dell’industria del petrolio, con uno sviluppo basato sull’illusione dello sviluppo dei loro indotti, dalle industrie petrolchimiche, dalla mitologia di quelle siderurgiche e dalle fabbriche, molto concrete, del cemento. Tutto questo era un frattale della grande storia che avveniva nel mondo, e a livello nazionale era segnata dagli anni del Centrismo, e poi del Centro Sinistra e della politica di piano in un breve periodo di utopia della seconda metà del XX secolo.

È subito evidente quali fossero i termini delle conflittualità urbanistiche tenuto conto delle alleanze di sostegno politico-finanziarie fra proprietari dei suoli, partiti politici, Cassa per il Mezzogiorno; tra diversi supporti ideologici, guerra fredda, dominanza nazionale e locale della Dc, scelte politiche industriali sbagliate e molto influenzate dai finanziamenti ai partiti, assenza nel dibattito, fino all’inizio degli anni ‘70, della componente ecologica, dei Beni Culturali, ancora senza un proprio Ministero ed ancora legati a quello della Pubblica Istruzione, carenza di livelli di pianificazione strategica almeno sovracomunali etc., ministri che appena toccavano il tema della riforma urbanistica uscivano di scena come il povero Fiorentino Sullo.

Questa era la situazione nella quale il progetto di Piano Regolatore ha messo in campo negli anni ‘50, “spes contra spem”, una proposta di urbanistica basata sull’economia dei Beni Culturali, di armatura culturale del territorio, di difesa e sviluppo ecologico-culturale, di advocacy planning sulla stampa locale con invito alla popolazione ad esprimersi, valutare, proporre, per dare “gambe” al piano.

In quel periodo Astengo progettava il piano di Gubbio con la stessa matrice mentale, mentre la rivista “Urbanistica”, con valenza culturale e diffusione nazionale ed internazionale, supportava il nostro tentativo pubblicando ampiamente il piano, ambitissimo privilegio culturale per l’urbanistica di allora.

Non era ancora diffuso e all’ordine del giorno il concetto strutturale di “sostenibilità” tra fattibilità e automantenimento coevolutivo con il contesto, mentre il rischio di autodistruzione delle risorse era evidentissimo ed il progetto del Piano Regolatore era proprio volto prioritariamente ad un generale rafforzamento preventivo e permanente del sistema immunitario per una vasta tutela dei Beni Culturali di Siracusa.

I miei colleghi Lacava, Roscioli ed io avevamo la responsabilità, inizialmente collegiale, del piano di Siracusa, ma i tempi dei treni (a Catania finiva la trazione elettrica), i costi degli aerei, una situazione conflittuale nella quale per l’Amministrazione Comunale il Piano Regolatore era sostanzialmente un fastidioso obbligo di legge e un’occasione di contrattazione partitico-elettorale, ad un tempo altri importanti concorsi vinti, relativi ad altri Piani Regolatori, portarono alla decisione dello studio che fossi io ad assumere le responsabilità per Siracusa.

A Siracusa io avevo ricevuto l’incarico da parte della Soprintendenza alle Antichità e della Cassa per il Mezzogiorno – il sublime incarico – di sistemazione della Neapolis con il Teatro Greco, l’Ara di Jerone, l’Anfiteatro Romano, le favolose latomie, l’Orecchio di Dionigi… È chiaro che con simili presenze esemplari ed una tale occasione operativa, il modello generale del piano era ulteriormente volto alla centralità di ruolo e d’attenzione alla difesa dei Beni Culturali e Ambientali e, insieme, alla democrazia di procedimento per la sostenibilità dell’operazione che comportava grandi espropri, naturalmente osteggiati dalle forze politiche, dalla Cassa per il Mezzogiorno, da tutti.

Gli elementi di importanza ed interesse che si collocavano a livello mondiale erano per noi le carte da giocare. Il resto era importante ma subordinato a questi aspetti che contavano ancora di più. Da tutto ciò è nata la conflittualità con chi prevedeva insediamenti con localizzazioni che implicavano il coinvolgimento dell’Epipoli ancora intatta nella sua parte mediana e superiore. Conflittualità che ovviamente s’intrecciava fortemente con la storia politica di quegli anni, i rapporti politico-finanziari tra amministratori ed acquirenti della grande proprietà fondiaria periurbana lottizzata o lottizzabile e politici consorziati nelle due correnti della Dc e relativi clienti e satelliti.

Un piano era visto come un’immagine, una bussola sistemica, anche esteticamente valutabile, di una nuova città ideale divenuta sistema territoriale, armoniosa a tutte le scale, un mondo quale si vede in uno zoom, come in una ripresa multispettrale di un satellite che si allontana dalla terra, che legge ed interpreta realtà ed interazione nel fisico e nel sociale, con la semiologia dell’ordine e del disordine significante nelle immagini, nei colori e nella composizione di tessuto delle zonizzazioni, con zone omogenee sempre più frattali per ricchezza di disomogeneità integrate.

Il piano doveva essere leggibile come lo spartito di una musica di raggiunta integrazione funzionale in una variazione fatta sempre di nuovi stati di equilibrio, armonici potenziali; nel piano doveva essere leggibile la qualità di coerenza con la geomorfologia della natura, la quantità e la qualità e la accessibilità alle attrezzature di tutti i livelli, ai servizi, la loro quantità ed integrazione nei tessuti, le dominanti di produzione e le dominanti di civiltà, la qualità politica e la qualità sociale delle proposte, le qualità estetiche in armonia con i contesti di scenario am-bientale.

Ricordo che allora, soprattutto alla fine degli anni ‘60, nell’ultima nostra edizione del piano, quello redatto in collaborazione con gli architetti siracusani Liistro e Santuccio, – cooptati a mia richiesta nell’équipe del piano per garantire un rapporto qualificato, diretto con la città nel brevissimo tempo concesso –, pensavamo pienamente in termini di modelli europei e di modelli nazionali. Questo avveniva nell’enfasi della conoscenza del “Progetto ‘80” – alla cui costruzione io partecipavo proprio come responsabile del Mezzogiorno e del settore dei Beni Culturali e Ambientali –, del modello per l’Italia del futuro, degli anni ‘80, per conto del Ministero del Tesoro e della Programmazione Economica, nel quale il sistema Siracusa-Augusta era un modello “P”, cioè Modello Programmatico di Area metropolitana (cfr. “Progetto ‘80”) di grande rilevanza.

Pensavamo a modelli territorializzati dei sistemi urbani di insediamento territoriale storici, attuali, di tendenza, da interpretare e valutare, patologici da contrastare, programmatici da promuovere, pensavamo a modelli con gerarchie urbane, metropolitane e ad armature culturali del territorio, a sistemi del verde a tutti i livelli, dai parchi nazionali agli standard del verde comunale, a sistemi infrastrutturali intermodali, integrati, portuali, ferroviari, autostradali, aeroportuali, ai grandi nodi infrastrutturali di scambio. Ricordo il sistema portuale nazionale nel quale la rada di Augusta aveva un grandissimo ruolo perché era l’unico grande porto con fondali così alti da poter ospitare le megapetroliere che doppiavano allora il Capo di Buona Speranza, perché il Canale di Suez era chiuso per il conflitto arabo-israeliano.

Ricordo che Siracusa, con il grande quieto bacino del suo “Porto Grande”, diveniva il più grande porto per la navigazione sportiva a vela del Mediterraneo centrale. Si poneva il problema di far rivivere uno dei più grandi porti velistici dell’antichità, senza però consentire che le attrezzature dei marinas divenissero germi e cavalli di Troia per grandi complessi alberghieri e poli di attrazione economica per grandi capitali internazionali di riciclo in cerca di investimenti, di grandi avventure speculative fondiarie, legate al settore edilizio. Era un tema delicatissimo, tra integralismo culturale e giustificato timore di travolgimenti speculativi.

Avevamo nel nostro modello nazionale ridotto strutturalmente nel rapporto residenza-lavoro gli sprechi di tempo – di oltre un’ora al giorno in media per ogni unità lavorativa – dovuti a contraddizioni e disordine territoriali, il che avrebbe aiutato a mettere il Paese in condizioni competitive, risanato il mercato del lavoro, portato equità e giustizia sociale nel meccanismo social-produttivo, liberando fondi per la ricerca, l’innovazione, la produttività.

La cultura e la formazione, la ricerca scientifica erano in primissimo piano con il sistema di “Armatura Culturale del Territorio”. Ogni cosa aveva obiettivi territorializzati e peso ben definito nel bilancio generale.

Il sistema autostradale era tutto pedemontano e con un modello a pettine serviva le coste in modo da renderle tutte pubbliche e accessibili, con una precisa esclusione di litoranee costiere. Il sole del Mezzogiorno diveniva così una risorsa concreta per un’enorme offerta per il turismo europeo. Eravamo esaltati da queste idee che stavamo tutte inserendo anche territorialmente nel “Progetto ‘80”.

Ma tutto questo non trovava riscontro nella potente maggioranza politica dalla quale, per via del Concorso Nazionale vinto a suo tempo, avevamo ricevuto l’incarico.

Ora debbo fare una confessione laica. Di fronte al sonno, all’inerzia, all’opposizione miope e meschina degli interessi della classe democristiana che occupava tutto il potere e che però, a sua volta, non contava nulla a livello regionale dominato dalla Dc palermitana, alla fine, dopo la consegna dell’edizione finale del 1970, all’ostilità avvilente e inconcludente dell’Amministrazione committente, non ebbi la forza civile di proseguire. Avevo appena ottenuto l’incarico universitario a Palermo, ero impegnato nel Direttivo dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, ero all’opera per il “Progetto dell’Italia degli anni ‘80”, ero impegnato nella progettazione di tutti i musei della Libia, lasciai tutto nelle mani dei miei due valorosi colleghi Liistro e Santuccio, che nel frattempo stavano divenendo due importanti docenti nelle facoltà di Architettura di Roma nell’ambito dei gloriosi Istituti di due grandi maestri come Piccinato e Carbonara e si sentivano ancora in grado di fronteggiare eroicamente la situazione del 1970.

Cosicché quando l’ultima edizione del piano del 1970, dopo un lungo tempo dalla consegna, andò in Consiglio Comunale per l’adozione, c’era ancora la mia firma per lealtà e per riguardo verso i miei colleghi, ma in realtà non controllavo più la situazione. Ci fu persino impedito di fotografare l’edizione finale del piano, unica a colori (a quei tempi si usava l’acquarello) esposta al pubblico, che nell’ansia ed urgenza della consegna, anche per difficoltà di dimensioni, supporti etc., non avevamo fatto in tempo a fotografare a studio, prima dell’imballaggio!

Il sindaco Dc Giuliano era un ex magistrato, pieno di un grandissimo senso dell’umorismo, che utilizzava anche nell’affrontare i problemi più gravi. Ogni volta, travolgeva il contenuto delle nostre formulazioni delle norme tecniche dicendo con accento severo che l’interpretazione degli autori era un’interpretazione rispettabile, ma le sue tortuose e finissime interpretazioni alla rovescia erano altrettanto valide. L’Assessore all’Urbanistica, il dottor Rizza, fu addirittura invitato a ripudiare il piano sotto la minaccia di espulsione dal suo partito, dalla Dc.

Aveva sempre correttamente difeso l’autonomia del Piano Regolatore dai suoi colleghi di partito, dalla stessa Amministrazione – la quale esprimeva interessi tutt’altro che generali –, ma era in minoranza, isolato dalla corrente interna rivale e dominante.

Tutta la mia energia mentale di urbanista, come dicevo, si stava trasferendo sul livello nazionale e regionale, concentrandosi sugli studi per il “Progetto ‘80”. L’interesse locale della Giunta era tutto concentrato non sul piano in generale ma su operazioni edilizie ben rappresentate e leggibili chiaramente sulle varianti integrative che furono introdotte dalla Amministrazione stessa in sede di adozione, dando luogo ad una contemporanea adozione del piano e di un antipiano, per cui alla fine, leggendo le osservazioni di “Italia Nostra”, sentivo e manifestavo tutta la condivisione ed immedesimazione in quelle formulazioni, cosicché tutti conclusero che le avevo redatte io stesso.

Mi stupisco, dicevo, della forza di utopia che aveva preceduto e accompagnato quelle vicende, rischiando però alla fine di coinvolgermi in problemi di gestione e mediazione del piano, nel vano tentativo di salvarlo da continui tentativi e richieste da parte dell’Amministrazione di modifiche sconvolgenti.

Ma gli interessi locali erano tutti concentrati sulle integrazioni da adottare contestualmente al piano, che noi avevamo rifiutato di introdurre nei disegni di progetto e nella normativa, che l’Amministrazione presentava a tutti i costi sotto forma di urbanistica scritta poi rifiutata dalla Regione Siciliana in sede di esame per l’approvazione.

Ammiro ancora una volta i due valorosi colleghi e professori Liistro e Santuccio, che mantennero i rapporti con l’Amministrazione forse anche in virtù dei legami di sangue con la città, dato che entrambi erano Siracusani anche per nascita oltre che per amore e per cultura.

* * *

Ora che tutto questo è svanito, che i protagonisti della politica di allora sono divenuti consumati attori pieni di rancori e disillusioni, attori che si arrabattano sul palcoscenico politico ben consapevoli di essere ormai destinati a non essere ascoltati mai più, leggere questa raccolta di scritti mi lascia pieno di stupore.

È tutto talmente lontano – quest’avventura era iniziata nel ‘52 e per me è finita nel ‘70 circa – e d’altra parte è talmente oggi ridotto in campo urbanistico il livello di utopia accettabile al di sotto delle soglie dell’ironia, nelle istituzioni e nei loro piani – ridotti ad enunciazioni elettorali o a fascicoli di archivio o testi di letteratura urbanistica – che veramente ho difficoltà a ricordare come reale, sopportata e combattuta quella situazione incredibile. Forse si tratta di un rifiuto dell’inconscio.

L’urbanistica oggi è ridotta in generale al pensiero di come violare quel che resta delle sue ceneri o come dare veste giuridica al disimpegno in nome di strategie non vincolanti, o come sviluppare il sopravvento dell’urbanistica scritta trasformata in ginnastica orale.

Ho difficoltà a ricordare quello che leggo in questi vecchi articoli, che un treno a vapore portava da Siracusa a Catania dove si stampava il giornale “La Sicilia” che li ospitava, in una pagina destinata alle Cronache di Siracusa. Difficoltà a comprendere quale utopia – quale forza di utopia fosse in me e come una briciola di uomo e di urbanista potesse combattere, termopili dopo termopili, prima da solo, poi con i due giovani bravissimi appassionati colleghi di Siracusa, Michele Liistro e Concetto Santuccio, entrambi ora docenti alla facoltà di Architettura dell’Università di Roma, contro una sfera enorme e lentamente rotolante di organizzazioni partitiche con idoli così diversi, e con l’alleanza di così poche figure locali disposte ad esporsi.

Voglio aggiungere una cosa poco nota, che mi fa pensare come piccoli eventi di piccoli uomini possano cambiare addirittura la storia.

Penso, come sia potuto accadere che un minuscolo avvocato, consulente ad hoc del Comune, abbia potuto far cadere (parlo della prima edizione del piano, quando combattevo da solo) per rinuncia giuridicamente motivata, tutto un grande patrimonio di cessioni di aree vincolate e destinate dal piano a parchi archeologici (lungo i 20 km. delle mura dionigiane!), a parchi naturali e attrezzati. Si trattava di aree che in sede di esame delle osservazioni avevo ottenuto a favore del Comune in donazione da parte di pochissimi grandi proprietari di aree dell’Epipoli, in particolare dai marchesi Gargallo, proprietari di quasi tutte le aree di espansione di Siracusa. Questi infatti, assistiti nella redazione delle “osservazioni” al Piano Regolatore da un generoso intellettuale e professore di architettura, il prof. Carbonara, avevano accettato di donare al Comune vaste aree rocciose inedificabili da destinare a Parco Pubblico Archeologico, a fronte dell’accoglimento contrattuale da parte del Comune di alcune piccole ininfluenti varianti di cubatura in sede di esame delle osservazioni al P.R.G. relativamente ad aree edificabili. Una contrattazione urbanistica per fini pubblici ante litteram che, gestita da uomini onesti con indicazioni degli stessi progettisti, sarebbe stata certamente una via importantissima per l’attuazione del piano.

Penso che cosa sarebbe ora Siracusa, con tutte quelle aree archeologiche donate (e poi non accettate proprio dal Comune beneficiario), trasformata in una città scenario del suo passato, in una trama spaziale di un immenso parco di resti archeologici immersi nella continuità di un contestuale tessuto verde che ne avrebbe focalizzato il carattere e la continuità nel nuovo scenario urbano.

Di questo sogno solo una piccola parte è stata attuata ed è il parco della Neapolis. Ricordo che quando lo progettai dovetti combattere, veramente combattere con la Cassa per il Mezzogiorno che lo finanziava e che voleva spendere denaro in opere aggiuntive ed in occupazione, ma era contrarissima agli espropri, mentre per me era assolutamente prioritario assicurare la demanialità di tutte le grandi aree della Neapolis, del Teatro Greco, dell’Ara di Jerone, dell’Anfiteatro Ro-mano, delle latomie, della balza, oltre a quelle ristrette dei singoli monumenti già in possesso della Soprintendenza, per garantire le aree archeologiche dagli insediamenti edilizi che si sarebbero sviluppati ai suoi bordi.

Ricordo che l’Ingegnere Capo del Comune, quando lo incontrai per la prima volta nel ‘52, mi disse a proposito dell’area della Neapolis e delle necropoli: “Tutti cimiteri hannu a restari? Iu ci facissi un cinema supra u teatru grecu”.

Mi ricordo che l’ambizione come progettista di realizzare, musealizzare, etc., era grandissima, ma la coscienza di giovane urbanista mi accendeva un forte senso di responsabilità civile del ruolo pubblico nella progettazione di un Piano Regolatore di così grande importanza per cui la demanializzazione era il primo fondamentale obiettivo da perseguire, per il controllo del processo e dell’assetto strutturale del governo pubblico del territorio.

In quegli anni la speculazione edilizia infuriava a Viale Zecchino e l’avv. Panico era l’elemento trainante dell’opposizione in Consiglio Comunale. Ricordo che preparò un manifesto nel quale si descriveva l’Ingegnere Capo del Comune come una figura della zoologia fantastica di Borges, la katablefa, con il titolo “Chi è?”, in cui tutti ravvisarono il personaggio, dati i riferimenti alle operazioni immobiliari di Viale Zecchino.

Ricordo che arrivai persino ad una situazione di tensione con il Soprintendente, grande archeologo e mio idolo e maestro, il prof. Bernabò Brea, che temeva di non riuscire, con la burocrazia statale di mezzo, a gestire e coltivare le vaste aree di cui progettavo nel piano la demanializzazione ed in particolare tutte quelle della Neapolis nelle quali era importantissimo tenere in vita le colture a frutteti che, nello scenario generale, erano una componente essenziale perché formavano un tappeto di ridente natura magnogreca all’interno della quale sorgevano i monumenti. Io proponevo di demanializzare e poi concedere in “concessione d’uso” ad agrumeti le aree espropriate, ma chi doveva amministrare bene sapeva a quali rischi interpretativi, controlli, formalità burocratiche, si andava incontro con la Finanza ed il Catasto.

Ricordo le parole del Sindaco che ci ricordava di essere i progettisti dell’Amministrazione e non dell’opposizione e che comunque dovevamo ricordare che avrebbe sempre vinto, ovviamente, perché aveva la maggioranza, perché a mezzanotte la gente che assisteva al Consiglio Comunale se ne andava, perché senza il pubblico le opposizioni non erano più interessate, perché potevano recitare soltanto, protestare, opporsi, recitare senza platea. Erano minoranza e a mezzanotte la maggioranza al completo restava sola e compatta a deliberare e verbalizzare tutto quello che il partito aveva deciso e a volte anche di più, nell’ebbrezza solitaria di una autogestione di verbali e decisioni miliardarie.

Dolore e lontananza ieri come oggi si accompagnano ormai a questi pensieri.

Gli interlocutori, gli amici e i nemici della prima fase della battaglia in solitudine sono scomparsi. L’avvocato Caracciolo, prima Assessore all’Urbanistica e poi Sindaco e sostenitore del piano, non c’è più. L’onorevole Sgarlata, Presidente della Provincia, poi Sindaco di Siracusa, poi Sottosegretario al Turismo e leader della locale corrente morotea, caro e stimato amico, non c’è più. Il presidente Rizza, Assessore all’Urbanistica, che aveva sostenuto il piano addirittura sino a subire il ricatto del suo partito, la Dc, era stato posto di fronte all’alternativa o di disconoscere il piano o di essere escluso dal partito, non c’è più. Bernabò Brea, il grande famoso archeologo, allora Soprintendente di tutta la Sicilia Orientale, dopo aver lasciato Siracusa per le Eolie, divenute il suo regno scientifico, ed avere realizzato a Lipari quello che forse oggi deve essere considerato il più esemplare museo della protostoria del Mediterraneo, non c’è più. Il prof. Monaco, Direttore dell’Istituto del Dramma Antico, prof. emerito dell’Università di Palermo, grande amico, non c’è più.

Quelli che furono i grandi oppositori del piano sono di tempra più resistente, ma il tempo, l’abusivismo e una dinamica edilizia oramai spontanea hanno sostanzialmente travolto tutti, sconvolto valori, partiti, il territorio.

Tutto è ora diverso, anche se i limiti di consapevolezza di ciò che si sta distruggendo non sono mutati. La finanza ha travolto l’economia a livello globale, tutto quello che il piano vo­leva evitare è stato realizzato prioritariamente per timore che il piano fosse approvato ed eventualmente attuato, l’industrializzazione a Nord, tra Siracusa e Augusta, è divenuta una necropoli di scheletri di una concentrazione colossale di inquinamento ambientale, ha monopolizzato l’accessibilità alla costa per poche in­dustrie ormai desuete, le aree costiere a Sud della città son divenute lottizzazioni con privatizzazione degli accessi al mare. I giacimenti di petrolio del Ragusano si sono esauriti, le opposte fazioni sono in lite su tutto, l’Ortigia ha perso tutto il tes­suto artigiano e microcommerciale confluito nei supermercati, e la popolazione ha abbandonato lo “scogghiu”.

Il piano particolareggiato dell’Ortigia, un capolavoro di competenza, amore ed impegno del prof. Pagnano che la difendeva, è decaduto per eccesso di amore progettuale-urbanistico a scala architettonica, in quanto re­datto e formalizzato giuridicamente in forma di Piano Particolareg-giato Esecutivo che comporta la attuazione in termini decennali o l’indennizzo e non consente il ripristino dei vincoli.

L’incarico dato di recente al prof. Liistro per il piano dell’Ortigia è stato conferito con carattere soltanto consultivo, sono venute meno le collaborazioni d’ufficio, l’insistenza a procedere sulla via di un piano particolareggiato ma generale, a priori, ha mantenuto in vita le stesse condizioni di insostenibilità operativa dal punto di vista giuridico ed ora è arenato e non ha tensione che ne sostenga una riformulazione.

La pianificazione territoriale e la pianificazione in generale sono uscite dal dizionario stesso della politica, ieri erano più un problema che una risorsa, oggi sono addirittura una parola vana, anzi ostile nello scenario dell’urbanistica contrattata.

L’immagine da satellite del territorio visibile oggi al computer con Google Earth non è solo sconvolgente: è come vedere l’equivalente di una grande biblioteca incendiata, di una Firenze al-lagata dall’Arno. Mi procura la disperazione di un medico che guarda la risonanza magnetica aggiornata di un figlio e si trova di fronte ad una metastasi raccapricciante diffusa a livello impensabile.

Il prof. Santi Agnello ha scritto e raccolto i primi importanti documenti sull’Archivio Storico, appena formato e inizialmente diretto da M. T. Gargallo, “Appunti di storia urbanistica siracusana”, vol. I (1955), ma, anche lui, non c’è più. Restano gli scritti.

Io stesso, per sbaglio, sono ancora vivo.

Assieme, il prof. Santi Luigi Agnello e l’avv. Corrado V. Giuliano hanno pubblicato un prezioso libro dal titolo: “I guasti di Siracusa: conversazioni sulle vicende dell’urbanistica siracusana” (Siracusa, 2001) di cui in questo libro si pubblicano diversi documenti citati assieme ad altri faticosamente recuperati in edizione integrale.

Il prof. Michele Liistro ha scritto uno stupendo libro su Ortigia, Ortigia: memoria e futuro (Roma, 2008), un testo che affianca la grande competenza urbanistica con la finezza psicologica e letteraria di un Thomas Mann e la saggezza cinese di un Confucio. Un libro veramente commovente per l’amore che esprime per l’antica patria, per l’amata Ortigia piena di storia, di sole e di miele della sua giovinezza. Ma la quieta saggezza espressa da questo libro non ha riflessi concreti nell’azione dell’Amministrazione.

Ma ora basta con il gelo di queste considerazioni e consolazioni letterarie.

Altra cosa è la gratitudine con cui comunque voglio ringraziare il valoroso curatore di questo libro-documento, il dott. Giuseppe Palermo, che ha raccolto tutti i documenti che raccontano una storia così complessa da invocare un nuovo Tolstoi per scrivere questo capitolo, di una nuova “Guerra e pace” del XX secolo. Grazie ancora, quindi, al dott. Palermo, che ha voluto recuperare e ordinare la documentazione di tutto l’advocacy planning, la partecipazione dei Siracusani attraverso i giornali e le risposte degli urbanisti, durante la lunga battaglia urbanistica dall’inizio degli anni ‘50 all’inizio degli anni ‘70. Battaglia di una guerra che ancora continua all’interno di un palcoscenico di una città, che in un palcoscenico ulteriore, quello del Teatro Greco, ospita ogni anno la recita di prototipi classici di tragedie che si ripetono in permanenza, tra storia e psicologia, nella storia dell’uomo.

Ritornando a Siracusa per assistere ancora una volta alle rappresentazioni classiche alla fine degli anni ‘90, sono tornato in quel Teatro Greco di cui avevo curato la sistemazione con la guida di due grandi archeologi, Stucchi e Bernabò Brea, nel 1954. Mi sono ricordato di quando ritrovavamo gli antichi tracciati sotterranei e recuperavamo gli antichi acquedotti, riportando l’acqua nel ninfeo sopra la cavea del Teatro Greco, demanializzavamo l’intera area monumentale della Neapolis, curando il vastissimo impianto arboreo di querce, lecci, carrubi, agrumi, allori, cipressi.

In quell’atmosfera, ho scritto una poesia che riporto, tenendo fede al titolo che parla di utopia neoilluminista e neoromanticismo.

COME UNA PANATENAICA
Aiutami fanciulla
discendo
col passo incerto
della nostalgia
le gradinate
che mille volte
un tempo
il mio giovane corpo
avea disceso
con orgogliosa sicurezza

aiutami fanciulla
a entrare tra la folla
che lenta defluisce
verso il mio bosco
e più non mi conosce

Il poeta descrive il fiume umano che defluisce lentamente dal Teatro Greco di Siracusa, si riversa nell'orchestra e scompare in un bosco sacro di ulivi e cipressi che lui stesso ha piantato negli anni della sua giovinezza tra la scena e il paesaggio del porto e del Plemmyrion deturpato dallo scalo ferroviario e da una fumosa vecchia zona industriale.

Successivamente, come dicevo all’inizio di questo scritto, Siracusa ha ottenuto il riconoscimento di Sito appartenente al Patrimonio straordinario, unico ed intangibile dell’Umanità. Ma la Siracusa di cui si parla, per me non è quella attuale di un’edilizia disordinata che ha deturpato il paesaggio, delle strade che hanno tagliato l’Epipoli e le balze e delle lottizzazioni che hanno privatizzato le coste e metastasizzato tutto il territorio. La Siracusa alla quale mi riferisco è quel capolavoro straordinario che il lontano progetto di concorso aveva sognato e proposto affidando alle maestose rovine ed al contestuale scenario paesistico il ruolo primario di elemento configurante nel piano, risuscitando, per il mondo intero, un polo di riferimento storico-semiologico a livello di Epidauro, di Delfi, di Efeso, di Cartagine, di Atene – sua eterna grande rivale nel mondo antico –, una reminiscenza primaria della grande storia della civiltà classica, matrice della nostra identità.

Roma, 11 maggio 2012

Per chi volesse acquistare il libro, qui il link alla casa editrice

«Sblocca Italia. Il presidente dell'Autorità anti corruzione, Raffaele Cantone, ha sottolineato le criticità del piano del governo per le opere pubbliche e private che nei prossimi anni dovrebbero asfaltare il Paese: "Appalti a rischio senza trasparenza". Anche Bankitalia "avvisa" la Commissione ambiente alla Camera». Il manifesto, 1 ottobre 2014 (m.p.r.)

Una piog­gia di miliardi pro­messi per com­ple­tare le opere fer­ro­via­rie, per moder­niz­zare gli aero­porti, per rilan­ciare i lavori pub­blici nelle aree urbane, per asfal­tare nuove o vec­chie auto­strade, per costruire varie infra­strut­ture, fra cui nuovi pozzi petro­li­feri. Que­sto è il mera­vi­glioso pro­gramma del cosid­detto decreto “Sblocca Ita­lia” (nome di fan­ta­sia, copy right Mat­teo Renzi).

E in più, tanto per essere svelti e con­vin­centi, ci sono anche nor­ma­tive pen­sate ad hoc per snel­lire le pro­ce­dure buro­cra­ti­che e velo­ciz­zare l’assegnazione degli appalti. In buona sostanza, si tratta delle opere pub­bli­che (e pri­vate) che nei pros­simi anni dovreb­bero asfal­tare l’Italia, con la pro­spet­tiva, dicono, di far ripar­tire l’economia.

La mate­ria è com­plessa e c’è chi ha già ribat­tez­zato “Sfa­scia Ita­lia” il decreto che andrà in aula alla Camera la pros­sima set­ti­mana (il Movi­mento 5 Stelle che sta pre­pa­rando una con­tro­pro­po­sta e una serie di ini­zia­tive nei ter­ri­tori per denun­ciare il bluff di un’operazione che non sta­rebbe in piedi — “non ci sono i soldi” — e che sarebbe “dan­nosa” e piena di insi­die — per il ter­ri­to­rio e per l’opacità di pro­ce­dure che potreb­bero favo­rire il malaffare.

Que­sta però volta i penta stel­lati non sono i soli a sot­to­li­neare alcune “cri­ti­cità”, se è vero che ieri nel corso di una lunga audi­zione alla Com­mis­sione ambiente alla Camera si sono levate altre voci auto­re­voli a sug­ge­rire una certa pru­denza. E’ stata una lunga teo­ria di pareri, dubbi e per­ples­sità, fra cui spic­cano i pareri di Ban­ki­ta­lia e di Raf­faele Can­tone, il pre­si­dente dell’Autorità anti­cor­ru­zione, quasi un ora­colo del nuovo corso.

Gli esperti di via Nazio­nale, col tono com­pas­sato che gli è pro­prio, que­sta volta sono stati abba­stanza espli­citi: alcune dero­ghe pre­vi­ste nel decreto potreb­bero favo­rire la cor­ru­zione, e ci sareb­bero anche “rischi in ter­mini di costi”. La parte del gua­sta­fe­ste è toc­cata al vice capo del ser­vi­zio strut­tura eco­no­mica di Ban­ki­ta­lia, Fabri­zio Balas­sone, pre­oc­cu­pata per le troppe dero­ghe alla disci­plina ordi­na­ria pre­vi­ste dal decreto per la rea­liz­za­zione delle opere pub­bli­che: “Si intro­duce un sistema di dero­ghe molto per­va­sivo al Codice di con­tratti pub­blici sulla base della mera cer­ti­fi­ca­zione del requi­sito di estrema urgenza da parte dell’ente inte­res­sato. Tale ricorso a mec­ca­ni­smi dero­ga­tori, pur moti­vato dal con­di­vi­si­bile obiet­tivo di ridurre i tempi in fase di aggiu­di­ca­zione, si è già rive­lato in pas­sato non sem­pre pie­na­mente effi­cace, con riper­cus­sioni nega­tive sui tempi e sui costi nella suc­ces­siva fase di ese­cu­zione dell’opera e di vul­ne­ra­bi­lità ai rischi di cor­ru­zione”. Invoca “tra­spa­renza” Bankitalia.

Raf­faele Can­tone è andato oltre. E’ entrato nei det­ta­gli per espri­mere «qual­che per­ples­sità». Per il ruolo che rico­pre è inu­tile dire che il suo è stato l’intervento più allar­mante ascol­tato ieri in Com­mis­sione. Per esem­pio: il decreto con­cen­tra troppi poteri in mano all’amministratore dele­gato di Fs Michele Elia, nomi­nato com­mis­sa­rio straor­di­na­rio per la Napoli-Bari. La scelta sarebbe pro­ble­ma­tica per­ché «è evi­dente che c’è un sog­getto che ha inte­resse al com­pi­mento delle atti­vità che è anche sog­getto attua­tore pub­blico degli appalti». Dicesi con­flitto di inte­ressi. Raf­faele Can­tone ha intra­vi­sto norme “non del tutto com­pren­si­bili” anche sulle con­ces­sioni auto­stra­dali, in par­ti­co­lare lad­dove esi­ste un mec­ca­ni­smo che affida alle aziende con­ces­sio­na­rie la pos­si­bi­lità di pre­sen­tare altri pro­getti nei tratti di inter­con­nes­sione tra le auto­strade anche dopo aver già vinto l’appalto.

L’affondo è pia­ciuto anche al pre­si­dente dell’Ance, Paolo Buz­zetti (costrut­tori edili): «Biso­gna man­dare in gara tutto quello che non è stato vinto tra­mite gara, dob­biamo fare chia­rezza sugli inter­venti che creano lavoro». Can­tone, inol­tre, ha rav­vi­sato un con­creto rischio rici­clag­gio a pro­po­sito dei pro­ject bond (sorta di azioni non nomi­na­tive e “de mate­ria­liz­zate”), e più in gene­rale ha chie­sto più chia­rezza su alcune figure chiave indi­vi­duate per faci­li­tare l’attuazione del decreto “Salva Ita­lia”. Per il pre­si­dente dell’Anac «va resa obbli­ga­to­ria la tra­spa­renza assoluta». Il suo inter­vento è stato apprez­zato da Ermete Rea­lacci, pre­si­dente della Com­mis­sione ambiente alla Camera: «Ha indi­cato con­cre­ta­mente vari spunti per miglio­rare il provvedimento».

«Salire sui treni è ancora troppo spesso complicato per le persone con ridotte capacità motorie. Peccato che anche il “Governo del fare” si sia fatto trascinare sul terreno delle grandi opere che fanno immagine, ma non producono ricadute sui territori attraversati e comportano vantaggi marginali per i potenziali utenti». Lavoce.info, 30 settembre 2014 (m.p.r.)

La doppia barriera di treni e marciapiedi
La normativa italiana sull’abbattimento delle barriere architettoniche (Dpr 503/1996, articoli 24 e 25) vorrebbe che le stazioni e i mezzi di trasporto pubblico su gomma e su ferro fossero accessibili alle persone con ridotte capacità motorie: per i veicoli sono cogenti le specifiche tecniche di interoperabilità previste dalla decisione della Commissione europea 2008/164 (emendata dalla 2012/464/EC), e si applicano inoltre le norme del regolamento Ce 1371/2007, capo V.

Nei mezzi su gomma, il pianale ribassato – ed eventualmente le piattaforme elevatrici – fanno a volte o’miracolo, soprattutto se l’autista accosta bene il mezzo a marciapiedi alti almeno 30 centimetri come spesso sono quelli alle fermate del tram su rotaie, però il combinato autista-autobus-marciapiede non sempre è collaborativo.

Per i treni, invece, il macchinista si accosta automaticamente al marciapiede, ma se questo è basso (la vecchia misura italiana è 25 centimetri sul piano del ferro) c’è poco da fare, la “scalata” è garantita anche se il treno ha il pianale basso. E pensare che le prime carrozze con le porte a 60 centimetri dal piano del ferro (le celeberrime pianale ribassato) furono ordinate nei primi anni Sessanta – una vera novità per l’epoca – e divennero di uso abbastanza comune negli anni Ottanta. In seguito, dopo vari lotti di carrozze ed elettromotrici più (o meno) indovinate e affidabili, tutte però con il pianale alto, da quasi venti anni il nuovo materiale rotabile del trasporto regionale, sia di Trenitalia che delle imprese “regionali”, ha una buona parte del pianale basso, con porte a 55-60 centimetri sul piano del ferro. Sono i tipi EtrY0530 di Fiat, Taf e Tsr di Ansaldo, Vivalto di Corifer, Flirt e Gtw di Stadler, Atr 220 di Pesa, Coradia di Alstom, Civity di Caf, Alfa2 di Firema.
I treni ad alta velocità, a cominciare da Etr 1000 (“Zefiro” di Bombardier) e Agv di Alstom, invece, hanno il pianale alto e la fretta con cui sono stati ordinati è sospetta: ci si è riforniti prima della entrata in vigore, all’inizio del 2013, delle specifiche tecniche di interoperabilità relative alle persone con ridotta mobilità? Parallelamente si vanno diffondendo (con molta lentezza) sia sulla rete in gestione a Rfi sia sulle reti “regionali” i marciapiedi alti 55 centimetri sul piano del ferro. Quando treni e marciapiedi “giusti” finalmente si incontrano, l’incarrozzamento è rapidissimo, come in metropolitana, e un eventuale cliente a ridotta capacità motoria può salire o scendere senza bisogno di assistenza.

Ascensori o rampe?
Certo tutto questo non basta, è bene che sul treno vi sia anche un’area dove si possano ancorare una o più sedie a rotelle, un bagno accessibile e, se si tratta di una stazione importante o comunque di località con sottopassaggio, dovrebbe esserci anche un ascensore o le rampe a pendenza adeguata. E qui il problema diventa spinoso. Rete ferroviaria italiana ha deciso unilateralmente di installare “elevatori” o ascensori solo a patto che il comune o un altro ente o società pubblica si accollino l’onere della manutenzione ordinaria e (soprattutto) del servizio di pronto intervento in caso di guasto e per liberare persone imprigionate. Dato che si tratta di circa 10mila euro all’anno per ascensore, è evidente che pochissimi comuni si sobbarcano la spesa, soprattutto ultimamente. In alcuni casi, sono stati installati dei “montascale”, vittima di vandalismo nel giro di poche settimane e che comunque richiedono spesso la presenza di un operatore terzo.

Gli elevatori hanno poi il brutto vizio di rompersi, e non sempre Rfi, che è titolare della manutenzione straordinaria, interviene rapidamente. Il marciapiede diventa così inaccessibile anche per settimane (per esempio, a Modena l’ascensore tra atrio e sottopassaggio è chiuso per lavori da oltre tre mesi). Talvolta, durante i lavori di costruzione del sottopassaggio, è stato predisposto il “pozzo” per l’ascensore, poi murato per mancanza di un accordo con l’ente locale. Eppure, nella maggior parte dei casi, basterebbe realizzare una rampa: con pendenza 8 per cento si tratta di solito di cinque tronchi da 10 metri e relative piazzole, in totale 60 metri. La rampa ha il vantaggio di non rompersi ed eventualmente permette di rinunciare alla scala. Il problema è che costa circa il triplo dell’ascensore (che viaggia sui 15-20mila euro).

Lavori in corso in poco tempo
In molte stazioni e fermate, tuttavia, l’ascensore c’è già o addirittura non serve, bisogna invece alzare il marciapiede. Le direzioni territoriali di Rfi hanno intrapreso azioni in tal senso, ma la scarsità di risorse (non è alta velocità…), la necessità di lavorare sotto esercizio e la “non visibilità mediatica” degli interventi non ne incoraggiano la diffusione. Sarebbero lavori facili, senza necessità di gara perché rientrano nella manutenzione straordinaria e realizzabili con il “global service” che le strutture di Rfi hanno sottoscritto con imprese di lavori edili opportunamente qualificate e selezionate. Il costo si aggira sui 250 euro al metro quadro e i lavori si possono avviare e concludere in meno di un mese.

Se ne è visto un esempio questa estate nella stazione centrale di Bologna dove un marciapiede lungo oltre 300 metri e largo 9 con tre sottopassaggi (cinque scale) e tre ascensori (due di servizio) è stato alzato in 15 giorni, interrompendo completamente i due binari adiacenti (10 e 11). Certo, non in tutte le stazioni si può chiudere per due settimane marciapiede e binario adiacente, ma in molte – medie e grandi – sì. E dunque quante centinaia di cantieri si possono aprire in poche settimane, oltretutto offrendo occasioni di lavoro ai relativi operai? Quante (centinaia di) migliaia di viaggiatori si possono agevolare? Quanti minuti di percorrenza si possono togliere ai treni regionali che per evitare le penali dei contratti di servizio hanno ormai velocità da sbadiglio? Quante ore di ritardo per servizio viaggiatori si possono risparmiare ogni giorno?
Negli ultimi tempi, in alcune stazioni sono stati alzati solo quei marciapiedi dove fermano i treni alta velocità, ma non gli altri: Rimini, Pesaro, Verona PN, Firenze SMN, Milano Centrale,Roma Termini, per citarne solo alcune, nonostante i treni alta velocità non abbiano il pianale ribassato. È una strategia per certi versi incomprensibile e anche un po’ odiosa.
Per le piccole stazioni su linee che chiudono in agosto (o per tutta l’estate) sarebbe facile da programmare un intervento a tappeto in quel periodo e forse permetterebbe anche qualche risparmio. In casi limite, si può anche chiedere un sacrificio agli utenti: per due-tre settimane i treni non fermano per i lavori, oppure non fermano dalle 9 alle 17, oppure si sale e scende solo dalla prima carrozza mentre sul resto del marciapiede si lavora, preferibilmente in periodi di “morbida” come ferie estive, Natale, Pasqua.
Sono lavori con una notevole parte manuale, che quindi darebbero lavoro a centinaia e forse migliaia di operai per qualche anno. Ed è anche improbabile che si formino comitati “anti-marciapiede”, che soprintendenze poco sensibili frenino, che qualche ricorso al Tar o ritrovamento archeologico blocchi tutto sul nascere. Peccato che anche il “Governo del fare” si sia fatto trascinare sul terreno delle grandi opere che fanno immagine (come l’alta velocità Napoli-Bari), ma non producono ricadute sui territori attraversati e comportano vantaggi marginali per i potenziali utenti.
Per quanto riguarda i treni del trasporto regionale, poi, una parte è prossima alla fine della vita utile, ma la parte (di Trenitalia come di altre imprese, sia chiaro) che ha più di 20 anni ma meno di 35 e quindi potrà servire per altri 15-30 anni, potrebbe essere adattata alle esigenze delle persone con mobilità ridotta con una spesa irrisoria, molta buona volontà e senza rischio di incorrere in procedure di infrazione UE, basterebbe aggiungere una carrozza a pianale ribassato.
Insomma, la domanda che rivolgiamo al presidente del Consiglio e al ministro dei Trasporti è semplice: è troppo difficile sbloccare treni e marciapiedi per le persone a ridotta mobilità? Ricordando che la categoria comprende genitori con passeggini, turisti con valige, bambini, persone attempate.

Alcune parzialmente condivisibili riflessioni sullo spazio urbano auspicabile del futuro, che però affrontano il problema a valle di nodi del tutto irrisolti. La Repubblica, 1 ottobre 2014, postilla (f.b.)

La città che smette di crescere. E che addirittura si contrae. Ne dibattono architetti e urbanisti che da tempo si misurano con l’espressione inglese shrinking city. La discussione fa tappa a Tokyo, quindici milioni di abitanti, trentaquattro considerando l’intero agglomerato: Hidetoshi Ohno, professore all’università della capitale giapponese, ha messo a punto uno studio che prefigura per il 2050 una Tokyo ridimensionata, con un terzo degli abitanti che ha oggi. Ohno è oggi a un convegno al Maxxi di Roma (organizzato dal Formedil) e domani alla Triennale di Milano. Il suo programma — «uno studio accademico», precisa, «non un piano urbanistico » — si chiama FiberCity: la città come un tessuto, un insieme di fibre, più compatta di come l’espansione tumultuosa degli ultimi decenni l’ha dispersa. Una città che riutilizza i suoi spazi, che porta il verde dove il cemento non serve più. «La città che cresce fa pensare a una macchina », spiega Ohno, «se si rompe un pezzo, la macchina non cammina. La città che non cresce è simile a un fazzoletto di stoffa: se una fibra si buca la si può riparare, ma intanto l’insieme continua a essere utilizzabile».

Il tema riguarda Tokyo, ma la musica si diffonde da Oriente a Occidente, sfiorando appena le immani megalopoli africane, sudamericane e asiatiche, dove l’urbanesimo non ha sosta. Prima negli Stati Uniti, poi in Europa e anche in Italia si è imposto nei decenni il modello della città diffusa: dispersione abitativa, consumo di suolo, trasporto privato, costi ambientali. Contemporaneamente la crisi industriale, prima di quella finanziaria, ha svuotato zone delle città. I dati nei quali si imbatte Ohno valgono per il Giappone, ma non solo: la riduzione di abitanti, dai centoventisette milioni di oggi agli ottanta previsti per il 2050, l’invecchiamento, i redditi bassi soprattutto del ceto medio. «La città compatta risponde alle esigenze della società cui andiamo incontro», insiste Ohno, «le strutture pubbliche, i servizi funzionano se concentrati in aree ristrette». La Tokyo del 2050 dovrebbe essere strutturata per agglomerati densi, intorno ai quali si distende una maglia di aree verdi ( green finger) e di reti del trasporto su rotaia. Le abitazioni di ogni agglomerato non possono distare più di ottocentometri da una stazione metropolitana. Inoltre al trasporto pesante deve affiancarsi una struttura molto piccola e leggera. Aggiunge Ohno: «Una società democratica deve assicurare accessibilità a tutti e dovunque ».

L’incubo che turba Ohno e molti suoi colleghi è l’aumento delle parti di città dismesse. Un tempo erano le fabbriche ad abbandonare aree periferiche esterne ai centri storici. Grandi stabilimenti venivano lasciati vuoti. La riconversione di questi luoghi, negli Stati Uniti e in Europa, è proceduta negli ultimi decenni scontando spesso la pressione di interessi speculativi che li trasformavano assecondando la rendita piuttosto che i bisogni della città. Ma con la crisi finanziaria, generata dall’esplosione di bolle immobiliari, sono stati svuotati anche quartieri residenziali. A Detroit prima la crisi dell’auto poi quella dei mercati finanziari hanno trasformato zone della città in luoghi morti, con le finestre sbarrate da assi di legno. E le case, tornate in mano alle banche, si vendevano a poche centinaia di dollari. A Baltimora il sindaco ha chiamato in giudizio la Wells Fargo, grande società erogatrice di mutui, perché con la sua politica di prestiti facili ha incentivato acquisti di case che i proprietari, a causa dei tassi divenuti insopportabili, hanno lasciato facendo degradare i quartieri.

La crisi consegna un altro insegnamento, conclude Ohno: non si possono affidare al solo mercato le trasformazioni nella città, la rigenerazione complessiva dell’organismo urbano. Devono intervenire sempre un’amministrazione pubblica efficiente e le comunità di cittadini. «Il rischio, altrimenti, è che aumentino i buchi, le sacche di degrado, come un pezzo di formaggio aggredito dai vermi».

postilla


Se non fosse che, ovviamente, quel modo di dire evoca inutili e vetusti sofismi da pianerottolo, qui sarebbe quasi spontaneo commentare: “ma il problema è un altro”. Ovvero che se non si supera l'idea della produzione di spazi privati come finalità economica a sé, della città merce le cui forme sono totalmente slegate da qualsiasi funzione, della stessa funzione ridotta a feticcio, ideologicamente contorta per cercare di darle un senso qualsivoglia, poi risulta esercizio accademico ragionare con tanto ampio respiro sulle specificità progettuali. La città ex industriale classica, e conseguentemente anche post-terziario-amministrativa, diventa “shrinking city” proprio anche grazie al fatto di escludere teoricamente dal campo le megalopoli africane e asiatiche marginalmente citate dall'articolo. E in questa città che si ritira, salvo pur vistosi esempi come la sempre stracitata Detroit, gli spazi dismessi non sono affatto tali, se non da una prospettiva funzionalista un pochino datata: lì dentro si concentrano comunque interessi, speculazioni, attese, indipendentemente dal riuso materiale o no. Che dire ad esempio della proliferazione incredibile di spazi a uffici, o delle chilometri che fasce produttivo-commerciali lungo le grandi arterie, la cui effimera vitalità, sempre che si manifesti prima o poi, corrisponde semplicemente alla strumentale dismissione di altre non lontanissime superfici e contenitori? Insomma, giusto timore, quello che lo spazio urbano, nella sua marcia trionfale alla conquista del pianeta, si sleghi da un rapporto lineare con le funzioni, ma forse la questione va affrontata a monte, ad esempio, come in parte si sta già facendo, attraverso varie riflessioni su tendenze demografiche, stili di vita, consumi, mobilità (f.b.)

Il Fatto Quotidiano, 30 settembre 2014

«La differenza tra idea e azione», cantava Fabrizio De André. Che è proprio la differenza che separa il titolo della Conferenza Internazionale sul «Patrimonio culturale come bene comune» (organizzata nel quadro del semestre di presidenza italiana dell’Unione europea) dallo svolgimento di quella stessa conferenza. Per cominciare, si è sbagliata la «location» (per usare la sconcertante definizione usata dal ministro Dario Franceschini): l’unico posto in Italia dove si sarebbe potuta organizzare una simile conferenza era il Teatro Valle Bene Comune, a Roma. Ma, accidenti, giusto un mese fa Franceschini e Ignazio Marino hanno ‘sgomberato’ il Valle dalla pericolosa filosofia dei Beni comuni.

E allora si è scelta Torino: ma, anche qua, sbagliando luogo. Perché quello giusto sarebbe stata la Cavallerizza Reale: un grande complesso, costruito tra Seicento e Ottocento come sede dell’Accademia militare, e protetto da un vincolo. Ceduta dal Demanio al Comune di Torino, la Cavallerizza è divenuta parte del Teatro Stabile, e nel 2001 si è aperta alla città come luogo di spettacolo, ottenendo un grande successo. Ma in seguito ai tagli selvaggi ai bilanci degli enti locali, l’amministrazione comunale ha rinunciato a raccogliere i frutti (sociali, ma anche economici) del suo investimento, e ha deciso di mettere in vendita il complesso: nel 2009 è stato affidato alla Cartolarizzazione Città di Torino srl, e nel 2013 sono state interrotte le rappresentazioni e sono iniziate le visite degli speculatori privati che vorrebbero acquistare il monumento (a prezzo di saldo: 12 milioni di euro). È per opporsi a tutto questo che la Cavallerizza è oggi occupata: e proprio da chi davvero crede al «Patrimonio culturale come bene comune».

Ma naturalmente la Conferenza non è stata fatta là, bensì nella Reggia di Venaria: «Tutti i ministri – ha dichiarato Franceschini – hanno apprezzato la straordinaria location». Nel 1998 Venaria fu strappata (per merito di Veltroni) ad un intollerabile degrado, venendo riaperta al pubblico nel 2007. La reggia e i suoi giardini furono conferiti ad un consorzio composto dal Ministero, dalla Regione Piemonte, dalla città di Venaria, dalla Compagnia di San Paolo e dalla Fondazione 1563. Ma a causa del dimezzamento del bilancio dei Beni culturali imposto da Tremonti nel 2008, Venaria iniziò a trovarsi in difficoltà. E così il presidente del Consorzio ipotizzò una soluzione a dir poco allucinante: «Se dallo Stato ci dessero temporaneamente opere significative, come i Bronzi di Riace o dipinti di grandi artisti, da Raffaello a Paolo Veronese, si potrebbe sopperire alla mancanza di fondi, creando forti attrattive per il pubblico».

La Venaria come un Luna Park dell’arte, insomma: e, d’altra parte, il presidente in questione è Fabrizio Del Noce, diventato direttore di Rai Uno dopo essere stato deputato di Forza Italia. Un curriculum che spiega molto, forse tutto. E, infatti, anche a questo giro Del Noce ha riproposto a Franceschini il baratto caldeggiato da Vittorio Sgarbi nello scorso agosto: gli Uffizi dovrebbero prestare per tre mesi la Venere di Botticelli a Venaria, in cambio di due milioni cash. Una transazione tipicamente da beni comuni, come ognun vede.

Dal canto suo, il direttore del Consorzio, Alberto Vanelli, ha proposto a Franceschini di realizzare a Venaria un Museo del Barocco «che occupi in maniera stabile alcune sale dell’immenso complesso»: «Una sorta di viaggio rappresentativo dello stile Barocco in Italia, alimentato da opere e contributi che potrebbero arrivare da tutto il Paese». Un’idea aberrante, che nasce per riempire un vuoto, e che vorrebbe trasformare in ‘museo’ permanente le antologiche di cassetta che tengono in piedi Venaria: un’idea che contraddice intimamente sia la natura storica e locale dei musei, sia l’essenza del nostro patrimonio, diffuso, radicato sul territorio e non antologizzabile. Il Barocco non è un’idea da illustrare attraverso un campione. Lo scrivo da studioso del Barocco: di tutto abbiamo bisogno tranne che dell’outlet nazionale del Barocco!

Un quotidiano torinese ha scritto che «vista la presenza dei 28 ministri, il centro e la zona della Reggia di Venaria, scelta da Franceschini come sede dell’incontro per la bellezza e per il modello di gestione, saranno blindati». Una blindatura forse capace di tener lontani i cittadini dalla riflessione sul bene comune: certo insufficiente a tener fuori l’ignoranza, l’improvvisazione, e la mercificazione. Gli unici ‘beni comuni’ su cui la politica culturale italiana non taglia mai.

Una vera e propria rassegna di ovvietà che pare presa di peso da certi supplementi illustrati patinati da anticamera del dentista, non si può fare di meglio? In fondo il materiale non mancherebbe: basta provare a capirlo, prima di scrivere. La Repubblica, 28 settembre 2014 (f.b.)

C’erano una volta i vecchi giardinetti. Ora quello che è stato per anni l’unico, striminzito, assediato presidio della natura nelle periferie delle città, si appresta a essere travolto da un’ondata di verde che trasformerà radicalmente i paesaggi cittadini. Boschi verticali e foreste, corridoi e tetti verdi, orti urbani e serre idroponiche. Le nuove politiche lanciate dalle amministrazioni comunali di mezzo mondo promettono di fare delle città luoghi dove la natura si intreccia sempre più col vecchio paesaggio di asfalto e cemento. C’è perfino chi vorrebbe nominare già oggi Londra “parco nazionale”, visto che il 47 per cento del suo territorio è verde. Ormai è chiaro non solo ai soliti ambientalisti, ma anche ad amministratori avveduti e imprenditori illuminati: sarà nelle metropoli che si combatterà la battaglia per la qualità della vita, che sarà scavata la trincea della resistenza ai cambiamenti climatici, che si lotterà per sfamare una popolazione mondiale che entro fine secolo potrebbe arrivare a tredici miliardi di persone.

Le città ospitano più della metà della popolazione mondiale, consumano due terzi dell’energia e producono oltre il 70 per cento delle emissioni di CO2 responsabili del riscaldamento globale. Bastano queste cifre a far capire la portata di una sfida che si gioca attraverso un ventaglio di iniziative: messa in efficienza del vecchio patrimonio edilizio (come ha appena ribadito di voler fare il sindaco di New York), costruzione di nuovi quartieri carbon neutral, diffusione delle energie alternative, sistemi di trasporto sostenibile a zero emissioni e, soprattutto, integrazione della natura nel tessuto urbano, compresa la diffusione di piccole aree paludose capaci di depurare le acque reflue. «Il verde in città significa maggiori capacità di assorbimento delle acque piovane e riduzione dei rischi di inondazione, temperature più basse e quindi minori esigenze di raffreddamento, oltre che maggiore vivibilità», ricorda Piero Pelizzaro, responsabile della cooperazione internazionale del Kyoto Club. Detto in altre parole, gli ecosistemi che si fanno spazio tra tangenziali e cavalcavia ci offrono quello che Yvonne Baskin in un saggio ha ribattezzato “Il pasto gratis”: una serie di preziosi servizi come la pulizia dell’aria, la depurazione dell’acqua, l’eliminazione di insetti fastidiosi. «Si pianta erba ovunque è possibile, persino, come in Germania, tra i binari dei tram», dice ancora Pelizzaro. «Dei tetti verdi e dei giardini verticali che assorbono acqua piovana e tengono freschi gli edifici si è parlato già molto», aggiunge. «Anche l’Italia, cronicamente in ritardo su questi temi, ha iniziato a muoversi con l’installazione voluta da Renzo Rosso per la nuova sede di Diesel a Breganze o con il bosco verticale creato con il Progetto Porta Nuova nel centro Direzionale di Milano. Ciò che è meno noto è il proliferare delle foreste e delle aree umide urbane.

Sempre più spesso il compito di recuperare le vecchie zone industriali o le infrastrutture dismesse, come la High Line di New York, è affidato al lavoro della natura, anche perché più economico rispetto alle costose demolizioni ». Da questo punto di vista uno progetti più interessanti già realizzato è quello di Vitoria-Gasteiz, nei Paesi Baschi spagnoli, European Green Capital 2-012 , dove è stata creata una “cintura verde” che abbraccia la città con tre fasce concentriche che mettono in comunicazione i parchi del centro con le foreste e le montagne dei dintorni, passando attraverso l’ex area industriale. Anche l’Epa, l’agenzia statunitense per l’ambiente, ha scelto di riqualificare nientemeno che Detroit, capitale della deindustrializzazione, attraverso il progetto Greenstreetscape che prevede il coinvolgimento dei cittadini nella creazione di nuovi spazi verdi «casa per casa». Un’operazione destinata a ripetersi in molte altre metropoli, conquistando il consenso, come hanno captato le attente antenne di quegli scopritori di nuove tendenze che sono i pubblicitari. Non a caso hanno scelto per uno degli ultimi spot per Tim un gruppo di guerrila gardening che notte tempo trasforma in aiuole fiorite i brulli e abbandonati ritagli di terra delle nostre città.

«Alla faccia dell’authority, del mercato, dell’Europa. Un film già visto al momento della privatizzazione della società Autostrade, quando la concessione venne prolungata ope legis di vent’anni senza colpo ferire». Corriere della Sera, 28 settembre 2014

Andrea Camanzi lo ha definito: «Un passo indietro». Anche la diplomazia vuole la sua parte. Ma il piatto che il decreto «sblocca Italia» sta servendo ai potentissimi concessionari autostradali va ben oltre una semplice retromarcia. Perché per l’authority dei Trasporti presieduta da Camanzi, a cui la legge affida il compito di regolare quel settore, è uno smacco duro da digerire.

Basta leggere l’articolo 5. Le società autostradali possono ottenere la proroga delle concessioni con «l’unificazione di tratte interconnesse» impegnandosi a fare investimenti e mantenendo «un regime tariffario più favorevole all’utenza». Senza gare, ovviamente. Alla faccia dell’authority, del mercato, dell’Europa. Un film già visto al momento della privatizzazione della società Autostrade, quando la concessione venne prolungata ope legis di vent’anni senza colpo ferire. Con qualche differenza. Allora non esisteva l’autorità dei Trasporti. E la proroga oggi proposta dal governo di Matteo Renzi riguarda solo di striscio il gruppo Autostrade. L’impronta digitale sembra di Fabrizio Palenzona, ex presidente margheritino della Provincia di Alessandria, vicepresidente di Unicredit e da ben undici anni presidente dell’Aiscat, l’associazione che riunisce le concessionarie autostradali. Un gruppo di pressione dalla forza irresistibile, come sta a dimostrare la frequenza incessante degli aumenti tariffari. Cascasse il mondo.

Dal 1999 al 2013 le tariffe sono salite mediamente del 65,9 per cento, contro un’inflazione del 37,4 per cento. E dietro Palenzona non è difficile intravedere il gruppo imprenditoriale che fa capo agli eredi di Marcellino Gavio. Ovvero uno dei principali concessionari privati. I legami fra Palenzona e i Gavio, che l’avrebbero anche voluto alla presidenza di Impregilo, non sono in discussione. Il presidente dell’Aiscat risulta essere fra l’altro uno degli azionisti di riferimento della società di autotrasportatori Unitra di Tortona: proprio insieme al gruppo Gavio. Certamente uno dei soggetti più interessati a una soluzione quale quella prevista dal decreto «sblocca Italia». La sua concessione della Torino-Piacenza dovrebbe essere infatti fra le prime a scadere. La data prevista, secondo i dati pubblicati lunedì 22 settembre da Alessandra Puato sul CorrierEconomia , è il giugno 2017. Dieci mesi prima, nell’agosto 2016, scadrà un’altra concessione nella quale è coinvolto Gavio, quella della Torino-Valle D’Aosta.

Ma dietro il rompighiaccio Palenzona nemmeno qualche concessionario pubblico ha rinunciato a far pesare le proprie ragioni. Come le Autovie Venete. La società è controllata all’88,8% dalla Regione Friuli-Venezia Giulia e al 4,8% dalla Regione Veneto. Dovrebbe realizzare la terza corsia, un’operache richiede investimenti per 1,7 miliardi. Ma le banche, argomentano, non sarebbero disposto a finanziarla se la concessione scadesse, com’è previsto, nel marzo 2017. Occorre quindi prolungarla.

La concessione dell’Autobrennero, società con un consiglio di amministrazione da 14 poltrone, è invece scaduta nell’aprile 2014 ed è in attesa di gara. Però i suoi azionisti preferirebbero la proroga. Sono la Regione Trentino Alto Adige, le Province autonome e i Comuni di Trento e Bolzano, le Province di Modena e Mantova, il Comune di Mantova... Nell’elenco, anche alcune banche finanziatrici che vantano diritti di pegno: fra queste la famosa Banca del Mezzogiorno di Poste Italiane, fortemente voluta dall’ex ministro Giulio Tremonti per sostenere l’economia del Sud (Tirolo?).

A dispetto del guard rail perennemente arrugginito, per le Province e i Comuni azionisti l’Autobrennero è una gallina dalle uova d’oro: 140 milioni di utili negli ultimi due anni. Senza considerare un tesoretto di 550 milioni investiti in titoli di Stato costituito dal prelievo sulle tariffe per finanziare il tunnel ferroviario del Brennero. Di sicuro la lobby autostradale ha lavorato di fino. Come dimostra il raffronto fra il testo entrato nel Consiglio dei ministri e quello pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Nel primo si stabiliva che la concessione venisse estesa al massimo a quella più lunga delle autostrade accorpate: poi questo limite è scomparso. Nella versione iniziale c’era pure come contropartita alla proroga un aumento del canone pagato allo Stato dai concessionari, dall’attuale 2,4% dei pedaggi netti al 3 o al 4%: scomparso anche questo.

Certo è che la stessa Authority, del tutto scavalcata in questo frangente, ha incontrato non poche difficoltà fin da subito quando ha cominciato a occuparsi di autostrade, nel gennaio scorso. Dice tutto una lettera del capo della Struttura di vigilanza sulle concessionarie autostradali del ministero delle Infrastrutture, in risposta alle richieste dell’Autorità per il passaggio di consegne. Che si concludeva così: «Si rappresenta l’impossibilità di trasmettere i relativi contenuti della banca dati della Struttura tenuto anche conto dei protocolli di riservatezza che caratterizzano l’accesso al sistema e l’obbligo da parte degli uffici di Struttura di attenersi a precisi vincoli di riservatezza».

Left, 27 settembre 2014

“Il provvedimento ministeriale Franceschini, pallidamente pubblicato soltanto ieri, 19 settembre, dopo un mese di latitanza inutile ed anticostituzionale, è indecente. Il testo demolisce, per esempio, l’Emilia, la Romagna e le Marche uccidendo le tradizioni storiche e artistiche di due regioni. Che spero protesteranno, se hanno dignità”. Questi giudizi pesanti come pietre sono stati calati nel dibattito promosso a Bologna per Artefiera del libro. E sono soltanto gli ultimi macigni di una fitta serie dedicati alle misure previste nel decreto del Presidente del Consiglio firmato da Dario Franceschini titolare del Collegio Romano. Parzialmente difeso da qualche docente universitario sentitosi gratificato dal fatto che il provvedimento governativo selezioni diciotto musei fra gli oltre 400 ed escluda (così il ministro in varie interviste) che tali “punti di eccellenza” possano essere diretti da storici dell’arte in carriera nelle Soprintendenze. Il provvedimento garantisce che saranno affidati /da chi?) a “persone che vengono da esperienze di gestione di altri musei all’estero o con una professionalità specifica”.

Si pensava che il governo Renzi aprisse decisamente ai privati nella gestione dei musei. Invece all’art. 35 essi rimangono “senza scopi di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo”. Ma senza “lucro”, addio privati che non siano mecenati puri. Di più: in una intervista a Francesco Erbani di “Repubblica” Franceschini ha escluso che i privati entrino nei grandi musei, semmai in quelli piccoli. Il livello della confusione sale.

La cosa più certa, in tanta nebbia istituzionale, è la netta scissione operata, sin dal vertice ministeriale, fra Belle Arti, centri storici, paesaggio, territorio da una parte e Musei dall’altra. Una scissione antistorica, disastrosa a partire dai Musei archeologici nati o cresciuti quali musei di scavo o comunque espressione di un’area storica, culturale prevalente. Che fine farà la Soprintendenza speciale per l’archeologia Roma e Ostia? Con o senza Colosseo-Palatino? Prevarrà la logica turistica? Rimarrà la gran pacchia delle società di servizi museali aggiuntivi? Questo macigno che da un quinquennio pesa sui maggiori musei non viene spostato di un millimetro.

Si doveva ridurre il testone centrale del MiBACT e restituire forza e autonomia alle sue indebolite articolazioni territoriali. Il testone centrale sostanzialmente rimane con 12 direzioni generali più la segreteria centrale e le segreterie regionali. Che prendono il posto delle direzioni generali regionali cambiando di nome e però mantenendo molte delle pesanti e criticate competenze sopra la testa (o le spalle) delle Soprintendenze. Queste ultime vengono accorpate: quelle ai Beni storici e artistici (fra le più “antiche”), di nuovo chiamate “Belle Arti”, ai Beni architettonici e paesaggistici, creando infiniti problemi per archivi, uffici, gabinetti fotografici e altro ancora. Modello che contraddice in modo frontale quello saggiamente adottato da personaggi che si chiamavano, agli inizi del ‘900, Corrado Ricci e Adolfo Venturi (giganti rispetto ai troppi nani in circolazione) i quali avevano definito per aree storiche i confini delle varie Soprintendenze.

Non basta. Nascono infatti i Poli Museali Regionali “articolazioni periferiche della Direzione Generale Musei”. Quindi nelle regioni si avranno due linee di comando riferite a due distinte direzioni generali: una per i beni storici e artistici che non stanno nei Musei statali, ma nei musei locali, laici ed ecclesiastici, in chiese, conventi, palazzi nobiliari e vescovili e un’altra per i beni facenti parte del circuito museale statale. Alla faccia della semplificazione. Ma poi chi coordina segretari regionali e direttori dei Poli Museali essi pure regionali? E pensare che i Poli Museali esistenti in talune città erano stati criticati a fondo perché, a Roma per esempio, erano serviti soprattutto a sottrarre fondi ai singoli grandi musei, per organizzare mostre su mostre (spesso di livello mediocre).

E’ il “nuovismo” renziano che passa in un provinciale trionfo e che in realtà tende - oggi con lo Sblocca Italia e col DPCM Franceschini, domani con la legge urbanistica Lupi - a ridurre i poteri e quindi i controlli, la tutela prevista dall’articolo 9 della Costituzione e realizzati sin qui dal Ministero per i Beni e le Attività culturali attraverso le Soprintendenze territoriali. Le quali hanno due torti fondamentali: a) essere state istituite “nell’Ottocento” (errore storico marchiano, furono create nel 1907, in pieno riformismo giolittiano) ed è noto che per Renzi ogni cosa del passato è vecchiume da rottamare, la storia in primo luogo; b) rappresentare organismi tecnico-scientifici “monocratici”, i quali decidono cioè in base a metodi non politici e pertanto risultano politicamente incontrollabili. Il che andava male per Berlusconi, ma ancora peggio - sono parole sue (presto ne pubblicheremo un’antologia) va per Matteo Renzi.

«Nonostante un’inflazione vicina allo zero, i pedaggi continuano ad aumentare. Il motivo sarebbe la necessità di remunerare gli investimenti. Ma spesso si tratta di investimenti utili solo alle concessionarie, che così ottengono proroghe ingiustificate». Lavoce.info, 26 settembre 2014

Pedaggi sempre più cari
Da qui a fine anno si deciderà il futuro della rete autostradale italiana. Con tre concessioni scadute e altre tre di prossima scadenza si potrebbe avviare un loro graduale ritorno allo Stato. Ma l’intenzione del Governo sembra tutt’altra: l’articolo 5 del decreto “sblocca Italia” prevede infatti che si possano accorpare concessioni prorogandole alle scadenze più lontane. Così, ad esempio, quattro delle concessioni del gruppo Gavio in prossima scadenza potrebbero essere prorogate sino al 2038: il futuro della rete sarebbe così cristallizzato per i prossimi due decenni e oltre, assicurando la perpetuazione delle ricche rendite del settore.

Nel 2012-13 il traffico è diminuito del 10 per cento, ma grazie agli aumenti tariffari gli introiti complessivi da pedaggi sono persino lievemente aumentati e i profitti pure. Dal 2010 i pedaggi (in media) sono cresciuti del 15 per cento, cioè il doppio dell’inflazione del periodo. Ci dicono che il motivo principale degli aumenti sia la necessità di remunerare gli investimenti. Dai dati risulta però che di investimenti le concessionarie ne hanno sempre fatti molto pochi e con ritardi addirittura di decenni rispetto ai piani concordati.
Nel 2013 le concessionarie hanno registrato introiti di 4.900 milioni per pedaggi e registrato utili di 1.100 milioni, ma gli investimenti ammontano a poco più di 900 milioni. Autostrade per l’Italia, la maggiore, ha avuto un flusso di cassa operativo di 1.230 milioni, ma ha investito solo 470 milioni (dato della Vigilanza). Paghiamo un altissimo scotto sulla mobilità a fronte di investimenti modestissimi.
Per remunerare gli investimenti la delibera Cipe del 2007 prevede che l’incremento di tariffa debba essere tale che “il valore attualizzato dei ricavi previsti sia pari al valore attualizzato dei costi ammessi (…) scontando gli importi al tasso di congrua remunerazione”. Il criterio è perfetto, ma la sua applicazione è largamente discrezionale. L’eventuale incremento del pedaggio dipende essenzialmente dalla redditività attesa dell’investimento nell’arco della sua vita utile. Dunque, il pedaggio dovrebbe aumentare solo se la redditività attesa dell’investimento fosse inferiore al tasso di rendimento che si intende assicurare al concessionario. Ma, in tal caso, perché l’Ispettorato autorizza investimenti non remunerativi?
Investimenti, proroghe e rendite
Quantificare i benefici degli investimenti è difficile e incerto. Le concessionarie (e l’Aspi in particolare) notoriamente sostengono che gli investimenti per la costruzione di nuove corsie (i più rilevanti) migliorano la qualità del servizio, ma non generano apprezzabili aumenti di proventi da maggior traffico e devono pertanto essere remunerati con incrementi di tariffa. Ma su una rete già tanto congestionata come quella italiana, l’aggiunta di corsie parrebbe invece essenziale per sostenere ulteriori incrementi di traffico i cui proventi andranno interamente a vantaggio della concessionaria: se si quantificasse questo beneficio potrebbe non esservi alcun bisogno di aumentare i pedaggi. Se il costo di una nuova corsia non è in grado di ripagarsi con maggior traffico nell’arco dei venticinque anni di vita residua di una concessione come quella dell’Aspi, perché realizzarla? E se è in grado di ripagarsi, perché concedere anche incrementi di tariffa?
Gli investimenti sono poi proposti dalle concessionarie e pertanto il sistema tende a selezionare quelli che, di volta in volta, sono più utili a loro e non al paese. Un tipico esempio è quello dell’autostrada Torino-Milano. Negli anni Novanta aveva tre corsie con piazzole d’emergenza ed era ampiamente sufficiente per il traffico. Allargare l’autostrada e costruire una corsia d’emergenza non era certo un investimento prioritario per il paese, lo era invece per la concessionaria che così è riuscita a ottenere una proroga della concessione in scadenza nel 1999, prima sino al 2014 e poi sino al 2026. Intanto, i lavori per la corsia di emergenza non sono ancora terminati, mentre i pedaggi negli ultimi anni sono addirittura raddoppiati. Parrebbe che, in questo caso come in altri, gli investimenti vengano pagati due volte: prima con le proroghe della concessione e poi con gli aumenti di tariffa.
Ogni concessionaria a rischio di scadenza individua nuovi lavori “urgentissimi” che giustifichino la proroga della concessione: nuove corsie o nuovi tratti, come il prolungamento da Parma a Nogarole Rocca che ha consentito alla Cisa di ottenerne il prolungamento dal 2010 al 2031 (oltre a forti aumenti di tariffa). Per la Serenissima (Brescia-Padova) è assolutamente necessario costruire il tratto Piovene Rocchette-Rovigo (Valdasticco nord), che di per sé non pare né essenziale né remunerativo, perché solo così potrebbe ottenere una bella proroga della concessione già scaduta ed evitare quindi il rischio più temuto, la gara per il rinnovo.
Per le concessionarie non esistono investimenti a rischio: la remunerazione in tariffa è garantita e c’è sempre la possibilità di richiedere il “riequilibrio” del piano economico finanziario. Anche quando si sbagliano di molto le previsioni di costo e di traffico, come nel caso della Asti-Cuneo, a evitare il rischio di perdite ecco che viene prospettata una soluzione facile e profittevole: accorparla ad altri due tronchi (Torino-Milano e Torino-Piacenza), ottenendo così pure una proroga di quelle due concessioni che altrimenti scadrebbero prima della Asti-Cuneo.
Se la convenzione di Autostrade per l’Italia prevede incrementi tariffari senza alcuna relazione col livello di profitto, la maggior parte delle altre concessionarie si è avvalsa della facoltà di richiedere il “riequilibrio del piano economico-finanziario”. In sostanza, all’inizio di ogni periodo regolatorio (ogni cinque anni), su proposta della concessionaria, si definisce un piano economico-finanziario che prevede incrementi di tariffa tali da assicurarle una “congrua remunerazione” sul capitale investito. Il rendimento assicurato è di 4 punti sopra quello medio dei buoni del tesoro decennali: davvero ottimo, per i tempi che corrono, considerato anche che si tratta di investimenti senza rischio.
Se però guardiamo alla storia, gli azionisti non hanno mai versato capitali nelle concessionarie, se non per importi irrisori: tutto è stato finanziato da debiti, poi rimborsati coi proventi dei pedaggi. Qual è dunque l’origine e come è determinato il capitale proprio da remunerare? Resta un mistero sepolto nella storia dei piani finanziari, rigorosamente secretati. Le rivalutazioni monetarie effettuate ancora pochi anni addietro da varie concessionarie vengono considerate come maggior capitale proprio investito? Con un’inflazione ormai prossima allo zero, i cospicui aumenti dei pedaggi (3,91 per cento nel 2013 e 3,9 per cento nel 2014) appaiono sempre più inaccettabili per gli utenti e imbarazzanti per il Governo. Per contenerli in futuro, è stato istituito un tavolo di lavoro tra Aiscat e Governo che si dice consideri interventi in quattro direzioni: 1) prolungamento delle concessioni; 2) accorpamenti di concessioni e proroghe alle scadenze più lontane; 3) maggiori indennizzi di subentro a fine concessione; 4) slittamenti, cioè riduzioni, degli investimenti previsti.
Tutte queste misure hanno in comune un chiaro obiettivo: prolungare sempre di più, verso un orizzonte infinito, la durata delle attuali concessioni, e quindi gli utili delle concessionarie e l’onere dei pedaggi, rendendo nello stesso tempo sempre più difficile l’effettuazione di gare a fine concessione per il crescere degli indennizzi richiesti all’eventuale subentrante. I pedaggi, introdotti per finanziare opere come l’Autostrada del sole, sono divenuti per le concessionarie una rendita pressoché perpetua, sulla quale poi lo Stato carica anche Iva e parte dei costi dell’Anas. L’elevato onere sulla mobilità non contribuisce certo alla crescita e alla competitività del paese.

La Nuova Sardegna, 24 settembre 2014

Basi militari in Sardegna. Gli incidenti sono almeno serviti a risvegliare e coalizzare le antipatie verso questa anormale occupazione di terre, oltre 200 kmq, il 60% del totale nel Paese. Buona occasione per fare finalmente caso all' accumulo di controsensi nell'uso del territorio sardo, non solo a Capo Frasca, Quirra, Teulada.

Capisco la ritrosia a guardarla tutta insieme la Sardegna, credo per l' imbarazzante fardello di domande connesse: rivolte a chi ha avuto il torto di decidere tante invasioni/trasformazioni insensate, e ai delusi che hanno sempre applaudito. Dai signorsì, in tanti anni di Autonomia, è venuto uno sviluppo improbabile, e a seguire la disperazione che vediamo. È questa accondiscendenza che ha reso l'isola brutta e insicura, compromessa in più parti: disgraziatamente per sempre, perché dalle bonifiche non c'è da aspettarsi la palingenesi.

Cliccando sulle mappe online è facile farsene un'idea. Nella realtà è diverso, la bassa densità di popolazione allontana dalla vista i guasti, con i quali ci siamo abituati a convivere. Con poca voglia di impedire il “logorio profondo e irrimediabile” – di cui ha scritto Salvatore Mannuzzu in un saggio del 1998, pensando ai luoghi e alle comunità della Sardegna.

Impressiona il prolungato s'afferra-afferra. Senza intralci, perché chi ha preso dall'isola – senza restituire nulla – ha sempre contato su complicità locali; e chi si è opposto, tra i politici, non ha avuto vita facile.

Un'aggressione cominciata nell'Ottocento, quando tre quarti del patrimonio boschivo sono diventati carburante per produrre energia in Continente. E proseguita nell'ultimo mezzo secolo: con le regalie di vaste aree a imprenditori inaffidabili, sovvenzionati con libertà d'inquinarle – nel Sulcis e nel golfo dell'Asinara i casi più eclatanti della disfatta industriale – e oggi 450mila ettari di territorio sono avvelenati. E con il ciclo edilizio, specialmente in danno di litorali sfigurati e sottratti all'uso pubblico (la Sardegna “innocente” è ai primi posti nelle graduatoria dell'abusivismo, dopo Campania e Sicilia che però hanno il quadruplo degli abitanti).

Negli ultimi anni vanno e vengono le minacce da progetti di energia “verde”, e a volte si realizzano in assenza di valutazioni sul fabbisogno locale. Nello sfondo il deserto: travolgente se gli incendi continueranno a farci compagnia ogni estate e lo spopolamento cancellerà indispensabili presidi per gli usi agropastorali.

Ha stravinto il “partito del sì a tutto” – per accelerare il metabolismo dell'isola, ci ripetono da decenni. Tornaconti veri pochissimi. Neppure quelli più plausibili – penso alla disfatta del sistema trasporti che ci assicuravano prestante, bastava accondiscendere, approvare tutto senza condizioni.
Ripensare il modello di sviluppo, si dice. Dopo la manifestazione “no basi”, gli organi di informazione che stanno sostenendo la vertenza potrebbero intanto aiutare l'opinione pubblica a considerare tutte le forme di occupazione di terre inutilmente devastate. La vocazione agricola/turistica, continuamente evocata, non ammette remissività ai business di usi aberranti, allo strapotere di speculatori dell'energia o dell'edilizia scambiati per benefattori.

Per questo occorrono la visione lungimirante, di cui ha parlato il presidente Pigliaru, e adeguati atti di governo per tutelare il territorio senza distrazioni. Un esempio. Se le trivelle non strazieranno le campagne di Arborea è grazie alle manifestazioni di dissenso. Ma non sappiamo come sarebbe andata la valutazione d'impatto (SAVI) senza la lungimiranza del Piano paesaggistico. È infatti il contrasto con il Ppr – tempestivamente rilevato dal Servizio regionale per la tutela paesaggistica di Oristano – che sottrae quelle terre ai disegni della Saras. Ma attenzione al decreto “Sblocca-Italia”, approvato dal governo Renzi: incombe per racimolare briciole di Pil. La ragion di Stato che potrebbe esigere altri umilianti signorsì dalla Regione Autonoma, contrastando gravemente con le attese locali.


«Il summit di New York. "Bisogna invertire la rotta", tutti d’accordo al vertice Onu sul riscaldamento globale. Ma Obama ha le mani legate. Gli Usa, in pieno boom petrolifero, non firmeranno trattati internazionali». Il manifesto, 24 settembre 2014

Nella time line dei sum­mit ambien­tali quella di ieri a New York è stata una tappa più che altro sim­bo­lica in attesa del ver­tice «di lavoro» in pro­gramma a Parigi a fine 2015 da cui dovrebbe sca­tu­rire un vero pro­gramma. Dal quar­tiere gene­rale Onu, alla­gato durante l’uragano Sandy due anni fa, il segre­ta­rio gene­rale Ban Ki-Moon ha dichia­rato che è essen­ziale che il mondo diventi carbon-neutral entro la fine del secolo. Sul podio ieri si sono suc­ce­duti ora­tori come il sin­daco di New York Di Bla­sio, Al Gore e Leo­nardo di Caprio, ognuno ha par­lato degli effetti distrut­tivi ormai incon­tro­ver­ti­bili di un clima in uno sta­dio avan­zato di muta­mento e del tempo ormai in sca­denza per agire.

Ma il sum­mit sul clima ha visto il pre­si­dente degli Stati Uniti in una posi­zione fin troppo con­sueta. Obama ha esor­tato i 125 capi di stato che hanno accolto l’invito del segre­ta­rio Ban Ki-Moon, a «intra­pren­dere passi con­creti» per limi­tare le emis­sioni serra, riba­dendo che non agire oggi sul riscal­da­mento glo­bale equi­var­rebbe a un tra­di­mento delle gene­ra­zioni future. Pur­troppo anche que­sta volta, come in tanti pre­ce­denti con­sessi, i lea­der in pla­tea hanno leci­ta­mente potuto chie­dersi da che pul­pito è arri­vata la predica.

Il fatto è che dalla disfatta di Kyoto la posi­zione ame­ri­cana sul clima è stata segnata dall’impotenza se non dalla col­pe­vole iner­zia. Il pro­to­collo di Kyoto venne sottoscritto nel 1997 da Bill Clin­ton ma non fu mai rati­fi­cato da un con­gresso ostile e for­te­mente influen­zato dalle potenti lobby petro­li­fere Usa. A quella scon­fitta ne seguì una incas­sata per­so­nal­mente da Obama con il nulla di fatto a Cope­n­ha­gen nel 2009, all’inizio del suo mandato.

Le pro­spet­tive per Parigi non si pro­fi­lano migliori. La firma di un accordo inter­na­zio­nale vin­co­lante richiede una mag­gio­ranza di due terzi nel par­la­mento ame­ri­cano. Impen­sa­bile nell’attuale clima poli­tico che fra meno di due mesi potrebbe addi­rit­tura vedere entrambe le camere in mano a un par­tito che sposa uffi­cial­mente il nega­zio­ni­smo cli­ma­tico. Fra i prin­ci­pali osta­coli alle effet­tive riforme spicca quindi un sostan­ziale ecce­zio­na­li­smo ame­ri­cano per cui gli Usa non hanno ad esem­pio mai sot­to­scritto i trat­tati inter­na­zio­nali con­tro la discri­mi­na­zione delle donne e per l’eliminazione della tor­tura, delle mine anti-uomo e delle bombe a grap­polo. In ognuno di que­sti casi l’argomento uffi­ciale è stata la tutela della pre­ro­ga­tiva «indi­pen­dente» degli Stati Uniti.

Pre­ce­denti che non depon­gono certo a favore della bat­ta­glia con­tro le emis­sioni atmo­sfe­ri­che, dove sono in gioco miliardi di fat­tu­rati e pro­fitti indu­striali. Obama ha quindi avuto un bel esor­tare ma la realtà è che ha le mani legate. Eppure senza una piena par­te­ci­pa­zione ame­ri­cana non sono rea­li­sti­che le pro­spet­tive per inver­tire la rotta. Il pre­si­dente Usa ieri ha riman­dato l’annuncio di nuovi obiet­tivi a lungo ter­mine al 2015. John Pode­sta, segre­ta­rio per il clima e l’energia, ha con­fer­mato che biso­gnerà aspet­tare il primo tri­me­stre del pros­simo anno.

Obama si è dun­que limi­tato a dichia­ra­zioni di gene­rico intento e a ricor­dare le sue recenti riforme come le nor­ma­tive varate a giu­gno per il con­te­ni­mento delle emis­sioni e la ridu­zione del 30% entro il 2030 dell’inquinamento delle cen­trali ter­mi­che a car­bone rispetto ai livelli del 2005. Un passo con­creto che gli è valso l’aperta oppo­si­zione di molti espo­nenti, anche demo­cra­tici, degli stati in cui l’industria carboni­fera è più forte. E que­sto è il discorso emerso come cen­trale a New York. Tutti gli inter­ve­nuti hanno infatti ripe­tuto che una effi­cace poli­tica ambien­tale pre­sup­pone una effet­tiva riforma eco­no­mica, che non può esserci pro­gresso sul clima senza una fon­da­men­tale revi­sione delle pra­ti­che indu­striali. Nelle mani­fe­sta­zioni popo­lari orga­niz­zate alla vigi­lia del sum­mit Naomi Klein aveva riba­dito il con­cetto di sostan­ziale «incom­pa­ti­bi­lità ambien­tale» dell’imperante libe­ri­smo capi­ta­li­sta. Un con­cetto ripreso anche da molti rela­tori all’interno del palazzo di vetro, come Leo­nardo Di Caprio. «Dob­biamo smet­tere di dare agli inqui­na­tori la licenza che hanno avuto nel nome del libero mer­cato — ha detto l’attore rivolto ai capi di stato — non meri­tano i nostri con­tri­buti fiscali ma sem­mai il nostro attento scru­ti­nio». Un idea riba­dita anche dall’ex pre­si­dente mes­si­cano Felipe Cal­de­rón che ha ricor­dato che glo­bal­mente il com­parto ener­ge­tico gode ancora di 600 miliardi di dol­lari di sus­sidi e incen­tivi pub­blici rispetto ai soli 100 a favore delle ener­gie rinnovabili.

È una realtà par­ti­co­lar­mente evi­dente nel paese ospite. Nono­stante i nuovi limiti impo­sti al car­bone infatti, gli Stati Uniti sono nel pieno del mag­giore boom petro­li­fero dagli anni 40, un enorme revi­val degli idro­car­buri che ha il tacito appog­gio di un’amministrazione che ha auto­riz­zato un numero record di esplo­ra­zioni off shore. Gra­zie a nuove tec­ni­che di estra­zione super inqui­nanti come il frac­king, sono diven­tate acces­si­bili enormi riserve di gas e petro­lio. Acqua e agenti chi­mici iniet­tati ad alta pres­sione hanno «libe­rato» metano pro­fondo e petro­lio. Nuovi oleo­dotti si sno­dano dai pozzi del Dakota e dalle sab­bie bitu­mi­nose del Canada verso le raf­fi­ne­rie del Golfo del Messico.

Il boom sta tra­sfor­mando l’America da impor­ta­trice a espor­ta­trice netta di idro­car­buri. Le impor­ta­zioni infatti sono dimi­nuite del 50% solo negli ultimi 7 anni e il paese sarebbe pra­ti­ca­mente auto­suf­fi­ciente se non fos­sero le stesse com­pa­gnie petro­li­fere a non volerlo. È di gran lunga più lucroso gestire un mar­gine di scar­sità, non satu­rare il mer­cato interno e otti­miz­zare invece quote di gas e petro­lio su quello inter­na­zio­nale. In que­ste con­di­zioni si pre­vede un aumento del 60% della domanda di idro­car­buri nei pros­simi 20 anni — l’esatto oppo­sto di ciò che è stato auspi­cato nei discorsi di ieri.

In que­sta sbor­nia di car­bo­nio, il ruolo poli­tico è stato di col­pe­vole acquie­scenza nel nome di un'imprescin­di­bile ripresa eco­no­mica. Enne­sima con­ferma che forse solo quando i danni eco­no­mici del muta­mento cli­ma­tico - il calo dei con­sumi nel vor­tice artico dello scorso inverno, ad esem­pio, o la dram­ma­tica sic­cità nel paniere cali­for­niano - supe­re­ranno i rapidi pro­fitti petro­li­feri, i poli­tici ritro­ve­ranno la «lun­gi­mi­ranza». Salvo poi essere troppo tardi.



Il cosiddetto decreto “Sblocca-Italia” e - in itinere - il ddl Lupi rappresentano un attacco scomposto all'integrità del nostro territorio e quindi del nostro Paesaggio e dei Centri Storici nel loro insieme. In queste ultime settimane lo stesso MIBACT è stato investito da una vera controriforma che stravolge sostanzialmente la sua stessa ragione d’essere e che rischia di provocare la dissoluzione del nostro sistema di tutela.

Ispirati al mantra della "semplificazione" e della “lotta alla burocrazia”, i due provvedimenti rispondono alla medesima logica che si può sintetizzare nell'abolizione/riduzione generalizzata di procedure di controllo. Con il pretesto della rapidità, ogni decisione converge su un decisore unico, si annullano le verifiche democratiche (processi partecipativi), si opacizzano i passaggi e, più in generale, si abbandonano le pratiche di pianificazione di ogni tipo, a partire da quella territoriale.

Nello “Sblocca Italia” si ricorre alla costante rimozione di ogni verifica e controllo giungendo ad introdurre, in modo generalizzato, il silenzio assenso del MIBACT, annullando anche di fatto l’archeologia preventiva riducendo la funzione del Ministero a quella di mero osservatore. Il sospetto è che la cosiddetta “riforma del MIBACT” risulti come attestazione di una radicale trasformazione del Ministero confinato ad occuparsi, con poche risorse, solo di musei e monumenti considerati più rappresentativi, con esclusive finalità ludico-turistiche.

Di fronte alla gravità della minaccia rappresentata dallo “Sblocca-Italia” e dal ddl Lupi, Italia Nostra si rivolge al Presidente della Repubblica, al Parlamento, al Ministro dei Beni Culturali e al Ministro dell’Ambiente, a tutti gli uomini di cultura e soprattutto a tutti i cittadini che hanno a cuore le sorti del territorio in cui vivono, affinché tali provvedimenti siano cancellati e sostituiti con leggi ispirate alla tutela integrale del paesaggio e che rilancino l'occupazione anche e soprattutto attraverso quell'opera - urgentissima e indispensabile - di manutenzione territoriale e riqualificazione urbana da troppo temporimandata e la cui mancanza è causa di gravissimi danni economici e sociali, oltre che ambientali e culturali.

arrivi in un porto industriale, ma in un paradiso naturale: San Foca, provincia di Lecce. “Impensabile”, dichiara l’ex ministro Massimo Bray, appoggiando l’idea di farlo arrivare nell’inutilizzato Petrolchimico di Brindisi». Il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2014

Tra gli infiniti lutti che lo Sblocca Italia sta per addurre al già martoriato territorio italiano ce n’è uno che viene da lontano. Il Tap: il Trans Adriatic Pipeline, cioè il gasdotto trans-adriatico che deve portare in Italia il gas dell’Azerbaigian. Nel quadro dell’attuale (criticabile) politica energetica, l’Italia e soprattutto l’Unione europea hanno bisogno di quel gas. E Matteo Renzi ci tiene particolarmente, perché il superlobbista del consorzio industriale che realizza il Tap è quel Tony Blair che il nostro presidente del Consiglio ha eletto a icona personale.

Ma c’è un dettaglio: e cioè che il progetto prevede che il “tubone” azero arrivi sulla costa italiana non in un porto industriale, ma in un paradiso naturale: San Foca, sul litorale di Melendugno (in provincia di Lecce). «Impensabile», ha dichiarato l’ex ministro per i Beni culturali, il leccese Massimo Bray, appoggiando invece l’idea di far arrivare il gasdotto nell’area dell’inutilizzato Petrolchimico di Brindisi. Infatti, di fronte al comprensibile insorgere delle comunità locali e dei relativi amministratori, la Regione Puglia di Nichi Vendola ha sostanzialmente accolto l’alternativa di Brindisi, proposta in una lettera a Renzi da tre consiglieri comunali di quest’ultima città. Sabato scorso a Bari, Renzi ha risposto alle proteste “no-Tap” di 40 suoi ex-colleghi sindaci dicendo: «Trovate voi la soluzione alternativa».
Più una sfida mediatica (prontamente raccolta da Beppe Grillo) che un’apertura politica , visto che il giorno prima la Gazzetta Ufficiale aveva pubblicato lo Sblocca Italia, il cui articolo 37 segna la sorte di San Foca senza se e senza ma. Eppure la tutela dell’ambiente e della salute degli italiani dovrebbe essere un problema del governo italiano, non dei pugliesi di San Foca. Se il ministero dell’Ambiente dell’inesistente Galletti ha dato semaforo verde al Tap senza grossi problemi, il ministero per i Beni culturali del più solido Franceschini ha invece detto no, con un articolatissimo parere di 57 pagine che elenca tutti i problemi. Tra questi, il disboscamento di 26.000 mq e la realizzazione di impianti industriali e alte ciminiere in una zona ancora vergine e “di eccezionale importanza”: e una recente sentenza del Consiglio di Stato ha detto che “il paesaggio rappresenta un interesse prevalente rispetto a qualunque altro interesse, pubblico o privato”. E, d’altra parte, il parere del Mibact non dice solo no: prende in considerazione alcune alternative, e spiega perché sono preferibili.

Nei prossimi giorni vedremo se Renzi proverà a governare il problema, o se invece prevarrà la logica dello Sblocca Italia: che è quella di tradurre in legge i progetti industriali presentati dai privati. E la domanda è: cosa vuol dire governare? Vuol dire imporre il “fare”, comunque e a ogni costo, o capire invece come fare? Vuol dire assumere per buone le ragioni del consorzio industriale, e poi semmai gettare la palla nel campo dei sindaci che protestano? O non deve invece voler dire farsi carico di tutti gli interessi in gioco, e trovare una soluzione che vada incontro al bene comune? Sulla spiaggia di San Foca ci giochiamo molto più della spiaggia di San Foca.

«Il canale dei petroli aveva già provocato danni estesi e gravi, e proprio per questo si è approvata la legge 171, il Canale Contorta minaccia di moltiplicarli fino alla rovina della città e della sua laguna». Un parere autorevole, vi diremo perchè. Il Gazzettino di Venezia, 20 settembre 2014

Torno non senza qualche disagio sulla questione del Contorta. Ovviamente per ribadire con forza la mia opinione assolutamente contraria, ma anche per sottolineare gli svantaggi obiettivi della decisione. La Laguna - diceva qualche settimana fa Paolo Costa, presidente dell'Autorità portuale - è un ambiente naturale in cui però l'opera dell'uomo ha fatto e disfatto nei secoli fino a ridurla alla attuali condizioni.

Secondo questa impostazione i danni dello scavo del nuovo canale sarebbero limitati, se pure esistenti, e in ogni caso si tratterebbe di un ulteriore intervento tra i tanti del passato remoto e recente che sarebbe doveroso coniugare con gli innegabili vantaggi dell'opera. Non intendo affatto negare che il canale realizzerebbe una strada celere e diretta verso la Marittima, consentendo ai gestori del porto la possibilità di mantenere in attività e magari di aumentare ancora il traffico delle grandi navi.

E' un vantaggio? Forse sì sotto il profilo economico sempre importante e oggi praticamente preponderante. Posso del resto testimoniare da Consigliere Comunale di maggioranza (ma senza rinuncia all'autonomia personale, soprattutto con riferimento alle opere riguardanti la città) che tutte le volte che si è votato a CA Farsetti sulle grandi navi, il partito di maggioranza e ancora di più quelli dell'opposizione hanno sempre fatto pesare in modo determinante l'aspetto economico. Mai il Pd si è fatto promotore di una mozione contro il traffico delle grandi navi e addirittura una volta sono rimasto il solo su 46 a votare decisamente contro, soprattutto perché nel documento mancava - e non certo per caso o per errore - una data finale oltre la quale il transito doveva ritenersi bloccato.

Ancora oggi il profilo economico e occupazionale appare prioritario, e purtroppo non solo tra i poteri forti e le autorità. Ma basta questo a giustificare lo scavo? Certamente no. Malgrado le teorie di Costa sulla laguna, da decenni si sono compiuti studi importanti che hanno portato a risultati definitivi. La legge 171 del 1973 è appunto il frutto di quegli studi, e se quella normativa dice senza equivoci che l'unità della laguna deve essere garantita, e così il suo equilibrio idrodinamico, è necessario attenersi alle regole ivi dettate per evitare disastri ecologici che comprometterebbero per sempre la sopravvivenza della città e del bacino che la circonda. Forse il problema può essere espresso in modo più semplice.

La legge speciale è superata o è ancora oggi un irrinunciabile termine di riferimento? Se non è superata, e nessuno lo sostiene, a quanto mi consta basta probabilmente confrontare il canale con la legge e dedurne che l'opera è compatibile con le sue norme oppure che sicuramente il canale, così come progettato, rappresenta una clamorosa violazione delle sue direttive. Siccome la verità, del tutto incontestabile, è la seconda, non occorre altro per bocciare l'opera. E non occorre neppure verificare gli effetti dello scavo perché in termini giuridici questo controllo risulta già eseguito a monte, quando si è detto in sede di approvazione della legge che l'unità e l'equilibrio idrodinamico del bacino sono valori intoccabili, e che esigono il più assoluto rispetto.

Ora il Contorta taglia in due, brutalmente, la laguna sacrificandone l'unità, e certamente ne altera l'equilibrio idrodinamico, come risulta innegabile se si tengono presenti la sua lunghezza, larghezza e profondità. In pratica il Contorta porta o avvicina il mare alla laguna facendo o facilitando proprio quello che con la legge si è voluto impedire. Il canale dei petroli aveva già provocato danni estesi e gravi, e proprio per questo si è approvata la 171, ora il Canale Contorta minaccia di moltiplicarli fino alla rovina della città e della sua laguna. E' questo che si vuole? Personalmente trovo che c'è un solo modo per giustificare l'opera. Si riesamini la legge 171, e se questa risultasse superata o in qualche modo derogabile il canale potrà essere scavato. Ma in uno Stato di Diritto, che ha fatto con sofferenza le sue scelte, non si può procedere contro la legge, specie se si tratta di una legge essenziale e di vitale importanza; anzi di preminente importanza nazionale, come si è detto a suo tempo, proprio con riferimento ai principi che oggi si pretende di violare con disinvoltura o con colpevole leggerezza. Al contrario, se la legge viene abrogata o modificata sarà stato il Paese ad assumersi la responsabilità della deroga, sarà un grave errore (dal mio punto di vista), ma almeno tutto avverrà nel rispetto delle regole in vigore.

Costiera Amalfitana. Circa trent’anni fa un’accesa polemica divampò a proposito di un progetto da realizzare nello splendido scenario della Costiera Amalfitana. Per iniziativa del sindaco del comune di Furore, Raffaele Ferraioli, si voleva costruire due ascensori nel Fiordo di Furore. Il WWf. e gli ambientalisti si opposero e l’opera fu poi bocciata dalla Soprintendenza, dal Tar e dal Consiglio di Stato, perché l’iniziativa era in contrasto con le prescrizioni della pianificazione regionale, che sottoponeva l’intero Fiordo a tutela integrale e vietava in esso ogni intervento pubblico o privato, al fine di mantenere intatte le singolari caratteristiche ambientali e paesaggistiche. Il Fiordo di Furore è da sempre una meraviglia della Costa d’Amalfi ; dal 1997 è stato dichiarato patrimonio mondiale dell’Umanità, e perciò protetto dall’Unesco Tra le scalinate del borgo , nell’antico villaggio dei pescatori incastonato sul fianco della montagna, nel 1948 Roberto Rossellini girò il vero omaggio all’arte della bravissima Anna Magnani: l’episodio centrale del film “Amore”,

E proprio qui Anna Magnani e Roberto Rossellini, vissero la loro tormentata e intensa storia d’amore: si innamorarono del Fiordo tanto da comprare due “monazzeni”, case dei pescatori proprio sulla spiaggia, ironicamente ribattezzate con i loro soprannomi: “ la villa del Dottore” e “la villa della storta”. Finito l’idillio abbandonarono il loro nido d’amore. Anna Magnani non tornò mai più nel fiordo di Furore, regalò la sua casa al vecchio custode che ancora oggi la affitta a coloro che vogliono respirare questa strana atmosfera a metà tra mito e realtà. Lungo la statale tra Praiano e Conca dei Marini al km 23, c’è il ponte che scavalca il fiordo; da qui partono le scale, ripide, che scendono nella ria. Un’insenatura naturale strettissima con una spiaggetta deliziosa. Boccone da far gola a chiunque , particolarmente a chi è amante del bello e si diletta a poetare.

Tant’è vero che qualcuno il suo amore per il bello l’ha in passato espresso sbancando e distruggendo la parte esterna del fiordo ,edificando proprio in cima a esso una casa a forma di botte. Ora il Consiglio comunale di Furore capeggiato allora come oggi dal sindaco Raffaele Ferraioli ha programmato e fatto approvare la costruzione di un ascensore da infilare nel Fiordo. Nelle intenzioni dell’amministrazione comunale l’ascensore installato nella roccia dovrebbe servire a collegare il centro abitato sovrastante con la spiaggia del Fiordo , permettendo così anche il recupero dell’arenile. L’idea di realizzare un ascensore tra le rocce del Fiordo è quella – secondo quanto dichiarato dal sindaco Ferraioli, “ di ripristinare quell’equilibrio rotto dall’apertura dell’ottocentesca rotabile Positano-Vietri, che nel connettere alcune aree ne ha fatalmente emarginate delle altre” . Il progetto elaborato dal Comune prevede, oltre alla realizzazione di un ascensore che si svilupperà su un unico tracciato lungo trecento metri, di cui sessanta allo scoperto e duecentoquaranta in galleria, anche un parcheggio d’interscambio di oltre duecento posti macchina. Il costo preventivato dell’opera sembra che si aggiri tra i tre e sette milioni. Un progetto sicuramente ambizioso ma dai risvolti paesaggistici drammatici, per la creazione delle varie strutture previste per la realizzazione dei parcheggi, l'accoglienza dei cittadini e dei turisti : sarà come sbancare una montagna. Non si comprende perciò come l’amministrazione comunale, rappresentata allora come oggi dal sindaco Raffaele Ferraioli, possa non solo sostenere che l’attuale progetto sottoposto e approvato dal consiglio comunale abbia tutte le carte in regola per essere realizzato, ma ritenere anche che lo stesso possa essere un volano per lo sviluppo turistico di Furore

L’impiego di un ascensore per raggiungere il fiordo è invece esattamente il contrario di quanto richiederebbe una moderna concezione dell’attività turistica, che si qualifica culturalmente solo quando rispetta l’identità storica di un luogo e non quando lo appiattisce in un’ottica di frettoloso e banale consumo. Tra l’altro , l’ambiente eccezionale del Fiordo di Furore è da sempre raggiungibile, oltre che dal mare,anche attraverso una caratteristica scalinata, certo non vertiginosa poiché il centro abitato è appena a 300 metri sul livello del mare. Ormai lo sanno tutti : lo sviluppo non sta nel costruire su ogni angolo di costa rimasto intatto, ma al contrario nel preservare la bellezza , l’integrità dell’ambiente che oltre a proteggere il territorio da allagamenti, frane, da’ vita al turismo e quindi porta guadagni .I turisti cercano l’ombra degli alberi, la pace di una spiaggia pulita, un mare non inquinato e un territorio non manomesso. E la gente della Costa D’Amalfi lo sa, visto le tante scandalose manomissioni già compiute sul territorio che da Vietri sul Mare porta a Positano. Sono i “ saraceni “ del partito del cemento che fingono di non sapere. E gli amministratori pubblici che usano in modo distorto la parola “ sviluppo “.

Gli spazi verdi urbani non sono più da pensare solo come tratti aperti a interrompere la città densa, ma come sistema integrato. Va bene, ma forse c'è qualcosa in più da dire. La Repubblica Milano, 21 settembre 2014, postilla (f.b.)

Il comune guarda alla nascita della città metropolitana per disegnare la strategia futura del verde. È così che Palazzo Marino punterà sul “parco metropolitano”, un anello di vegetazione che circonda Milano e che dovrà “cucire” insieme i vari parchi che già esistono. Ogni area, però, dovrà anche mantenere la propria vocazione: dal Trenno pensato come parco dello sport al Forlanini da congiungere all’Idroscalo e trasformare in un parco urbano agricolo fino alle Cave, dove nascerà un’oasi naturalistica spontanea.

È un futuro che c’è già, quello del verde di Milano. Anzi, della “Grande Milano”. Perché è questa la strategia di Palazzo Marino. Che, guardando anche alla rivoluzione amministrativa che partirà dal 1 gennaio del 2015 con la nascita della Città metropolitana, adesso vuole puntare su quello che, ormai, chiamano il “parco metropolitano”: una sorta di unico anello di alberi, prati, vegetazione e aree agricole che, d’ora in poi, andranno collegati tra di loro sempre di più. Quattro grandi aree da gestire in una visione allargata: il Parco Nord e le sue estensioni a Bresso, Sesto San Giovanni e Cinisello; il fiume Lambro con la sua natura da ricucire in modo che da Monza si possa raggiungere Milano e oltre a piedi o in bicicletta; il Parco sud con le sue teste di ponte cittadine; il sistema di parchi dell’ovest. Anche se, in questo quadro generale, ogni grande distesa di verde avrà una sua vocazione. È così, ad esempio, che Trenno sarà il parco dello sport, che il Comune lavorerà sul Forlanini per trasformarlo in un parco urbano agricolo, che Bosco in città sarà pensato per le famiglie e che l’anima un po’ selvaggia del parco delle Cave sarà valorizzata con una speciale oasi naturalistica che rinascerà dalle ceneri di un incendio.

È un puzzle che, ricomposto, si estende per oltre 17 milioni di metri quadrati il verde di Milano. Una mappa che il Comune ha suddiviso a seconda delle dimensioni: replicando le taglie delle magliette, si va dall’extra large del Parco Nord all’extra small delle aiuole sotto casa che i cittadini possono adottare. In mezzo i parchi storici in versione large come il Sempione e i giardini Montanelli, quelli di quartiere come il parco Solari o i giardini di Pagano. Un patrimonio che Palazzo Marino vuole valorizzare guardando anche oltre i propri confini, in chiave metropolitana, appunto. Per i grandi parchi di cintura, infatti, in futuro verrà fatto soprattutto un lavoro di connessione. È la nuova filosofia che può essere raccontata attraverso un progetto: «L’area a ovest è già abbastanza collegata. Adesso vogliamo lavorare sulla parte est: è per questo che abbiamo firmato con altri Comuni una convenzione per il piano che riguarda la media valle del Lambro», spiega l’assessore al Verde, Chiara Bisconti. Che cosa è? L’obiettivo è quello di cucire insieme i parchi e anche, riqualificandole, le piccole aree verdi che corrono lungo il fiume per farne un percorso unico da Monza a Milano e ancora oltre verso altri Comuni. E uno speciale filo è anche quello che l’amministrazione vuole utilizzare per trasformare il Forlanini: «È il parco che in questo momento ancora manca di un’anima forte», dice ancora l’assessore. In questo caso, il piano punta a collegare lo spazio all’Idroscalo, costruendo un ponte sul fiume Lambro, migliorando la porta su viale Argonne, riportando alla luce sentieri interni, realizzando percorsi pedonali e ciclabili. E rilanciando l’agricoltura per fare in modo che quest’area possa diventare una sorta di parco agricolo urbano.

Dal generale al particolare: eccola un’altra linea di azione di Palazzo Marino. Perché ogni grande parco, nella strategia del Comune, dovrà anche mantenere caratteristiche differenti attorno a cui programmare gli interventi. Un esempio è il parco di Trenno, immaginato come una palestra a cielo aperto tra campi da calcio pubblici, beach volley, pallavolo, rugby, bocce, percorsi per i runner. Per il parco delle Cave, invece, il futuro è un ritorno ancora più forte alle origini. Nei prossimi mesi i tecnici dell’amministrazione concluderanno i lavori per riportare alla vita un’area bruciata in un incendio e la recinteranno: lì la natura potrà dominare in modo (quasi) indisturbato. «Vogliamo creare un’oasi naturalistica spontanea, lasciando che questa zona si “inselvatichisca”. Ci sarà un numero chiuso e si entrerà per partecipare a visite guidate», dice Bisconti.

I visitatori di Expo e i milanesi presto potranno entrare anche in un “museo botanico” che il Comune sta realizzando sui vivai che l’amministrazione ha già fatto sorgere tra via Zubiani e via Margaria: un percorso didattico che punterà a far conoscere la vegetazione locale. Questo è uno dei progetti per il verde e l’agricoltura che saranno sviluppati per lotti successivi. Con questa logica, ad esempio, si sta disegnando il parco agricolo del Ticinello, un sogno da 90 ettari atteso da decenni. La prima parte c’è già: sei ettari di verde e un bosco didattico con 10mila piante inaugurati lo scorso maggio, una pista ciclabile in costruzione. Si andrà avanti, anche dopo che la vicesindaco Ada Lucia De Cesaris ha festeggiato il passaggio al Comune della Cascina Campazzo, congelata finora da un contenzioso storico con il gruppo Ligresti. Ancora a sud della città c’è un altro pezzo del mosaico da inserire nel parco metropolitano: è il parco del Sieroterapico, da attrezzare e riqualificare per fasi successive. Anche se il prossimo anno, è la promessa, sarà in gran parte accessibile a tutti.

postilla

Complice forse il genere di comunicazione parziale che esce da settori e assessorati (e non dovrebbe, proprio nella prospettiva della città metropolitana) pare che si sovrappongano un po' alla rinfusa le informazioni su una strategia di spazi aperti che non appare consapevolmente tale. Giustissimo lavorare già oggi in prospettiva metropolitana, e pensando alle specificità del nucleo centrale necessariamente tematizzate e con un indirizzo diciamo così da laboratorio di metodo. Ma quando si parla, abbastanza esplicitamente, di quelle che ormai tutta la pubblicistica internazionale chiama infrastrutture verdi, restare all'interno del solito linguaggio un po' da animazione per bambini lascia lievemente perplessi. Siamo di fronte a un'opinione pubblica che deve essere formata e informata, resa consapevole delle sfide, e con una cultura urbana da terzo millennio ancora tutta da costruire, che oscilla fra gli stili di vita della città tradizionale e la nuova sensibilità per modelli alternativi di consumo, mobilità, separazione fra tempo di lavoro e tempo libero. La rete delle infrastrutture verdi è in buona sostanza la base su cui progettare la metropoli post moderna, così come quella delle infrastrutture grigie lo è stata per la città industriale del '900, traffico automobilistico in testa, ma non solo (pensiamo alla gestione naturale del ciclo delle acque piovane). Perché non esplicitare queste strategie? Impossibile pensare che, magari sparse fra i settori dell'amministrazione, non rappresentino una parte importante degli orientamenti. E allora se ne parli, magari iniziando a parlarsi fra assessorati, consulenti, cittadini (f.b.)

«Se per caso il Rottamatore, si facesse portare un po’ di documenti sul ponte sullo Stretto, magari scoprirebbe qualcosa. Se invece confermerà il suo mood attuale (le imprese, e i costruttori in particolare, non sbagliano mai), pagheremo caro, pagheremo tutto». Il Fatto Quotidiano, 21 settembre2014

Quella delle penali a carico dello Stato per la mancata costruzione del ponte sullo Stretto di Messina è una fiamma perenne che da quasi dieci anni apposite vestali tengono in vita. Fu accesa nell’autunno del 2005, quando la concessionaria pubblica Stretto di Messina spa mise in gara l’appalto, e il consorzio Eurolink, guidato dalla Impregilo, se l’aggiudicò con un ribasso del 17 per cento sulla base d'asta, del tutto anomalo per un prototipo senza precedenti.

Da subito sorse il sospetto che la vera posta in gioco fossero le penali che lo Stato si impegnava a pagare nell’eventualità che l’opera – di dubbia finanziabilità – restasse confinata al libro dei sogni del berlusconismo. E da allora un infinito gioco delle tre carte vede impegnati Impregilo, Stretto di Messina (con l'Anas che la controlla) e governi pro tempore. L’ultima mossa è del numero uno di Impregilo, Pietro Salini, che è andato a spiegare a Matteo Renzi che allo Stato conviene riaprire il dossier della costruzione del ponte, sia pur costosetta, piuttosto che pagare un miliardo circa di penali. “Si tratta di almeno 40 mila posti di lavoro in un’area a forte disoccupazione e di un’opera a basso contributo pubblico rispetto a quello privato: piuttosto che affrontare importanti spese per le penali, perché non fare il ponte?”, ha detto Salini nel suo spot di apparente saggezza.

Nessun governo, tra i quattro che si sono succeduti in questi nove anni ha mai affrontato davvero il problema. Ciò consente all’Impregilo di fare la sua audace avance con l’unico obiettivo di smuovere le acque e battere cassa. Si tratta infatti di una società quotata in Borsa che deve rendere conto ai mercati di 300 milioni messi in bilancio come entrata quasi certa. Mentre lo Stato dovrebbe fronteggiare una spesa tra i 700 e i 900 milioni, ma forse molti di più.

Renzi eredita una bomba innescata, nella sua ultima versione, dal governo Monti, e in particolare dall’allora ministro delle Infrastrutture Corrado Passera. Bisogna ricordare l’origine della storia. Nel contratto originario, che derivava dal disciplinare di gara, le penali sarebbero scattate, se la costruzione del ponte non fosse partita, solo dopo l’approvazione del progetto definitivo da parte del Cipe, organismo governativo. Ma nel 2009, mentre il governo Berlusconi cavalcava il ponte come occasione di propaganda, e il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli divideva equamente le sue energie tra il Mose (per il quale è oggi indagato) e l'imprescindibile completamento del corridoio europeo Helsinki-La Valletta (proprio così, non è uno scherzo), i costruttori di Eurolink ottennero un regalo favoloso.

L’allora presidente di Stretto di Messina, Giuseppe Zamberletti, con l'assenso di Ciucci, firmò un nuovo contratto che, al contrario di quello originario, stabiliva che le penali scattassero non dopo l'approvazione del Cipe, ma proprio se il Cipe non approvava il progetto.

Quel contratto, che oggi Impregilo impugna per imporre ai contribuenti l'esborso di circa un miliardo di euro, è secretato da cinque anni. Però Passera, che era l’unico membro del governo a conoscerlo, anziché indagare sulla sua misteriosa origine (dopo il caso Mose un po' di prudenza non guasterebbe), ha emesso un decreto per la messa in liquidazione della Stretto di Messina spa che di fatto determina la cancellazione di tutti gli impegni contrattuali. Una mossa apparentemente drastica che ha aperto un’autostrada per le azioni legali di Salini. Il quale adesso è andato a presentare il conto a Renzi.

Se per caso il Rottamatore, che pare ami fare tardi a palazzo Chigi chino sui dossier, si facesse portare un po’ di documenti sul ponte sullo Stretto, magari scoprirebbe qualcosa. Se invece il premier confermerà il suo mood attuale (le imprese, e i costruttori in particolare, non sbagliano mai), pagheremo caro, pagheremo tutto.

Riferimenti

Sulla vicenda del Pontone eddyburg ha un vasto archivio di documenti

Una piccola rassegna proposta dalla sezione di Venezia di Italia Nostra con articoli di Gloria Bertasi, Enrico Tantucci, e l'intervista a Lidia Fersuoch. Il Corriere del Veneto e La Nuova Venezia, 17 aprile 2014 (m.p.r.)

Premessa

Il destino di Venezia si profila in modo lampante in una giornata come quella di oggi 17 settembre
solo scorrendo gli organi di stampa. Il destino è quello di costituire un ambitissimo punto d'arrivo
per milioni di turisti di tutto il mondo, conteso in modo spettacolare tra due forme opposte di visita, inconciliabili tra loro ma per adesso coesistenti. Da una parte il turismo di massa, oggi
rinforzato dalle navi da crociera ma da sempre radicato nelle "escursioni" offerte in ogni pacchetto di viaggi in che si rispetti. Pernottamento a Jesolo o a Sirmione, gita di otto ore a San Marco, giro in gondola e acquisti di maschere e vetrini. Dall'altra il turismo di super-lusso, che per ora sgomita contro il primo nelle Mercerie e sul ponte dei Bareteri ma si rilassa e respira davanti alla piscina del Cipriani o nel giardino del Bauer Giudecca.


La prima forma di turismo si annuncia crescente con la scavo del canale Contorta (o con la creazione di un porto a Punta Sabbioni, che è la stessa cosa); la seconda proprio oggi suona le sue più potenti fanfare presentando il primo mega-store in Europa di super-extra lusso con terrazza sopra il ponte di Rialto e una previsione di otto milioni di visitatori extra-ricchi ogni anno, ansiosi di acquistare gli ultimi indispensabili prodotti dell'altissima moda. Al primo piano moda femminile con accessori, al secondo moda maschile, al terzo calzarure, profumi e tanto altro ben di Dio. Ma i gestori si preoccupano anche dei residenti: vogliono che "i veneziani sentano che il Fondaco è loro, che è una parte della città". E allora ci saranno manifestazioni culturali "unitamente a un'offerta commerciale di elevato standard".

Vi diamo qui sotto alcuni articoli di giornale che riguardano la prossima apertura del Fondaco e i
ricorsi presentati da Italia Nostra contro le presunte infrazioni ai vincoli architettonici e contro
l'esiguità delle somme che il Comune ha ricavato dalla vendita e concessione del palazzo. In un
altro articolo riferiamo sulle grandi navi.
Italia nostra, sezione Venezia
Il Corriere del Veneto

Louis Vuitton lancia a Venezia
il suo grande emporio del lusso.

di Gloria Bertasi

Venezia - Lo shopping di lusso incontra il gourmet e l'artigianato «made in Veneto». E si sposa alla cultura con musica, cinema e danza. Dfs Group, sigla di Moët Hennessy Louis Vuitton, il colosso francese del lusso Lvmh di Bernard Arnault, sbarca dal Pacifico all'Europa. E per aggredire il mercato del vecchio continente ha scelto come porta il Fontego dei Tedeschi di Venezia, lo storico immobile ai piedi del Ponte di Rialto, di proprietà di Edizione Property, il ramo immobiliare della holding della famiglia Benetton.
Sarà il primo test per il nuovo format in Europa. E così, dopo le acquisizioni delle aziende, alla Bottega Veneta, allo sbarco produttivo per le calzature sulla Riviera del Brenta, alla svolta nella gestione diretta delle griffe nell'occhialeria, i grandi colossi francesi del lusso iniziano dal Veneto un'altra delle loro sfide. Che potrebbero cambiare l'assetto di un altro pezzo del settore della moda e del lusso, così centrali anche per il made in Italy. Il modello è già consolidato in Asia e nel Pacifico: grandi magazzini sotto il logo «T Galleria» («T» sta per traveller, viaggiatore) con show room di brand internazionali d'alta moda, gioielleria, cosmetici e gastronomia. A Venezia però i punti vendita si arricchiscono di una nuova sperimentazione: la cultura.
«Il Fondaco dei Tedeschi nasce ottocento anni fa come spazio di commercio e di arte - ha spiegato ieri al teatro la Fenice Philippe Schaus, presidente e ad della divisione merchandising e marketing di Dfs -. Vogliamo restituire all'immobile la sua funzione originaria». I lavori per trasformare quello che per quasi settant'anni è stato l'Ufficio centrale delle Poste sono in corso. Ci vorrà ancora un anno e mezzo prima che il manufatto sia pronto; ma nell'estate del 2016 saranno inaugurati i 7.900 metri quadrati della prima «T Galleria» d'Europa. Finora, il gruppo che nel 1960 ha creato negli aeroporti i primi Duty free shop, (da cui la sigla Dfs), si era concentrato sul mercato asiatico e del Pacifico; ma dall'acquisizione, nel 1995, da parte di Vuitton è partita la sfida per l'espansione. «Abbiamo studiato quali fossero le mete più desiderate dai turisti - ha spiegato Schaus -. Sono la Francia e l'Italia».
Dfs sta lavorando per insediarsi a Parigi; in Italia invece aveva valutato quattro ipotesi: Milano, Roma, Firenze e Venezia. «Abbiamo scartato Milano, dove il nostro settore è già ricco e la città ha meno attrazioni storiche e culturali - ha continuato -, a Firenze e Venezia ci sembrava difficile trovare una sede. Stavamo trattando Roma». Poi però Edizione ha contattato Dfs; e alla vista del progetto dell'archistar olandese Rem Koolhaas, autore del restauro del Fondaco, il gruppo non ha avuto tentennamenti. «Abbiamo pensato: è l'occasione di una vita», ha aggiunto Schaus. Venezia, per Dfs, si riconferma la porta principale d'accesso da oriente a occidente, il passato torna d'attualità in una nuova chiave, il «travel retail», il commercio di lusso per viaggiatori.
«Non sarà solo un grande magazzino per turisti - ha spiegato Elenoire De Boysson, vicepresidente di Dfs -, ma uno spazio ricco di attività pensate anche per i veneziani. Il Fondaco tornerà ad essere cuore pulsante della città». Al piano terra, tra negozi di artigianato ci sarà un caffè dove organizzare anche proiezioni; al quarto e ultimo piano, dove ci sarà una terrazza-altana con vista su Rialto, è previsto uno spazio pubblico, per l'arte. La portata dell'investimento rimane top secret come il numero di clienti necessari per rientrare delle spese. «A Venezia ci sono più turisti di quanti ne abbiamo bisogno - ha scherzato Schaus -. Sappiamo che la città sta vivendo un momento difficile e che ritiene che i visitatori siano troppi; noi però investiamo sul segmento del lusso e vogliamo contribuire alla sua rinascita».
I colloqui per le 300 assunzioni sono iniziati, grazie anche alla collaborazione con l'Università Ca' Foscari. I selezionati frequenteranno corsi di formazione nell'Università di Dfs, come tutti i suoi novemila dipendenti. Da gennaio 2016 l'architetto inglese Jamie Fobert lavorerà agli arredi, quindi in estate l'apertura. Soddisfatto della partnership Gilberto Benetton, presidente di Edizione: «Siamo certi che Dfs sia il partner giusto per sviluppare l' obiettivo di ridare vitalità a Venezia con un centro dove tutti possano godere di arte, architettura e commercio».
La Nuova Venezia

Il Fontego colosso del lusso
Sbarca il colosso del lusso Dfs
«Sarà anche per i veneziani»

di Enrico Tantucci

Ritorno al passato per il Fontego dei Tedeschi perché la nuova destinazione commerciale è in linea con la sua storia e perché il nuovo gestore vuole coniugare al suo interno commercio e cultura, facendone uno spazio anche per i veneziani e non solo per i turisti. Hanno presentato così, ieri - nelle Sale Apollinee della Fenice - Philippe Schaus e Eleonore De Boysson, rispettivamente presidente e amministratore delegato e vicepresidente del gruppo Dfs, la trasformazione dell'edificio che la società che fa capo al gruppo Lvmh del miliardario Bernard Arnault, proprietario di Louis Vuitton, attuerà nel complesso cinquecentesco, con un'apertura prevista per l'estate 2016. Siglato infatti il contratto di lungo termine con Edizione, la società del gruppo Benetton proprietaria dell'edificio che sta attuando la trasformazione secondo il progetto - da molti contestato - di Rem Koolhaas e lo consegnerà all'inizio del 2016, per l'allestimento, al nuovo gestore francese, che sbarca così in Europa con il suo duty free multimarca legato al lusso.

"Catenaccio" sulla dimensione dell'investimento e sul numero di visitatori che dovrebbero essere necessari ogni anno, milioni secondo le stime precedenti, per rendere economicamente conveniente l'apertura del nuovo centro commerciale i per sostenere economicamente l'operazione. Ma a quanto risulta, l'offerta economica a Edizione sarebbe di 110 milioni di euro per la gestione pluriennale nel periodo contrattuale, oltre il doppio del prezzo d'acquisto pagato a suo tempo per l'edificio dalle Poste dal gruppo di Ponzano. E l'investimento non potrà essere inferiore ai 18 milioni di euro già annunciati dal precedente possibile gestore, il gruppo La Rinascente, che aveva previsto 6 milioni di clienti annui per reggere l'operazione.
Il mega spazio, quasi 8 mila metri quadrati su quattro piani complessivi più terrazza attorno al grande lucemaio, sarà riservato ai prodotti di brand di altissima gamma, compreso l'artigianato locale. Sul piano occupazionale, la ricaduta sarà pari a 300 nuovi posti di lavoro. L'annuncio dell'accordo «per ridare vita» al Fondaco dei Tedeschi, nel «pieno rispetto dei vincoli previsti», segna appunto anche lo sbarco del gruppo per la prima volta in Europa. «Vogliamo - ha detto Schaus - che i veneziani sentano che il Fondaco è loro, è parte della città», e uno specifico spazio sarà dedicato alla realizzazione di eventi culturali e di incontro. Il presidente ha espresso l'auspicio che l'iniziativa possa aiutare Venezia a superare le sue difficoltà e si è detto consapevole del problema dei tanti turisti, indicando che l'operazione vuole far sì che i potenziali frequentatori del luogo «siano portatori di valore per la città lagunare». «Vogliamo - ha rilevato Elonore De Boysson, - restituire al Fondaco il ruolo di centro di incontro e di emblema della città». I
Il perché della scelta di Venezia per lo sbarco in Europa del gruppo, sono chiari. Prima, sul fronte ipotesi un gioco a due tra Francia (Parigi) e Italia (Milano, Roma, Firenze e Venezia); poi, una scrematura e infine l'occasione inaspettata: la chiamata di Benetton e la disponibilità di un palazzo che aveva tutte le caratteristiche «per rendere questa esperienza unica e fantastica. Abbiamo trovato casa a Venezia». Gilberto Benetton, Presidente del gruppo Edizione, ha aggiunto: «Il nostro obiettivo è di infondere nuova vitalità al cuore storico di Venezia, creando un centro dove sia i veneziani sia i visitatori possano godere dell'architettura, delle arti e dell'ospitalità italiane, unitamente ad un'offerta commerciale di elevato standard. Siamo certi che la società Dfs, del gruppo Lvmh, sarà un affidabile garante di tale progetto e il giusto partner per gestire e sviluppare questo palazzo ricco di storia». I veneziani aspettano di giudicare se sarà davvero così.
La Nuova Venezia

Il Tar potrebbe bloccare il progetto

Enrico Tantucci intervista Lidia Fersuoch

Si deciderà a metà novembre, l'effettiva realizzazione della trasformazione del Fontego dei Tedeschi - nonostante i lavori già iniziati - quando sarà discusso il ricorso già presentato da Italia Nostra contro il progetto del gruppo Benetton curato da Rem Koolhaas e contro il via libera al cambio di destinazione d'uso concesso dal Comune di Venezia per consentire la realizzazione del centro commerciale. «Non possiamo consentire che un intervento così devastante contro un edificio storico dell'importanza del Fontego dei Tedeschi sia realizzato- commenta il presidente della sezione veneziana di Italia Nostra Lidia Fersuoch - e abbiamo rinunciato all'atto della presentazione del ricorso alla richiesta di sospensiva dei lavori, perché Edizione, la società del gruppo Benetton proprietaria dell'edificio, ha accettato di stralciare le parti più contestate dei lavori in attesa del giudizio di merito, come il grande foro previsto a piano terra, il nuovo piano ricavato dalla demolizione del lucernario e la nuova terrazza. Ora aspettiamo il giudizio del Tar».

Il ricorso è contro la delibera approvata da Ca' Farsetti che, in base alla convenzione sottoscritta con il gruppo Benetton, ha concesso il cambio di trasformazione d'uso in deroga al complesso del Fontego dei Tedeschi, con un aumento di cubatura, giustificandolo con un beneficio pubblico derivante dalla nascita del grande magazzino che ora gestirà Dfs. Un'interpretazione contestata dal ricorso al Tar di Italia Nostra. Per l'associazione ambientalista, come per molte delle forze di opposizione e dei consiglieri che erano stati contrari al via libera alla convenzione Benetton, il beneficio pubblico - stime alla mano, partendo proprio dalle valutazioni fatte su quell'area di San Marco dall'Agenzia del Territorio e acquisite dalla Giunta al tempo della valutazione - sarebbe di poco meno di 30 milioni e non di 6, come invece ottenuto dal Comune nella convenzione stipulata dal sindaco e che aveva incorporato anche il sì preventivo del Consiglio comunale.
La Giunta avrebbe "forzato" lo stesso parere degli uffici, ad esempio nel conteggiare, con uno "sconto" di 15 milioni di euro dal beneficio pubblico, il costo dei lavori del gruppo Benetton nel trasformare il Fontego dei Tedeschi in centro commerciale. Contestato anche il grande foro circolare sulla muratura verso l'esterno di cinque metri di diametro vicino alla scala mobile al piano terra, voluto da Koolhaas come nuovo "segno" architettonico. «Tutte criticità sottolineate nel parere negativo del Comitato tecnico di Settore dei Beni culturali» - ricorda Lidia Fersuoch - «che sembravano recepite dalla Soprintendenza. Invece nell'ultimo parere si dice che l'edificio è stato "ricostruito" negli anni Trenta e che gli interventi sembrano compatibili con le esigenze di tutela monumentale. Dunque, sentito il direttore regionale, si dà il parere favorevole».

Il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2014

La direzione generale Ambiente della Commissione europea ha chiesto formalmente all'Italia chiarimenti sull’inquinamento delle acque della diga del Pertusillo (Potenza) e sul rischio sismico dell’attività estrattiva. Dopo la denuncia, fatta nel 2013 dal comitato ambientalista Mediterraneo No Triv, l’Europa chiede risposte. E lo fa a pochi giorni dall’annuncio del premier Matteo Renzi: “Se c’è il petrolio in Basilicata sarebbe assurdo, in questo momento, rinunciarvi”.

Il decreto sblocca Italia, che vorrebbe raddoppiare le estrazioni di greggio in territorio lucano, preoccupa le associazioni ambientaliste e i cittadini, i pochi rimasti. Dal dossier presentato alla Commissione, realizzato da Albina Colella, docente di Geologia all'università della Basilicata, si scopre che nelle acque della diga, che disseta Puglia e Basilicata, sono state rinvenute abbondanti quantità di fosforo, azoto e zolfo. Ma soprattutto una forte presenza di idrocarburi e metalli pesanti. “Le concentrazioni di idrocarburi superano sempre i limiti di riferimento – si legge nella relazione – in quantità fino a 646 volte superiori al limite di microgrammi per litro fissato dall’Istituto Superiore di Sanità per le acque potabili. È stato rinvenuto, ad esempio, il bario (un metallo pesante usato nei pozzi di petrolio per appesantire i fluidi di trivellazione, ndr) con una concentrazione fino a 3000 microgrammi per litro, cioè in quantità fino a tre volte superiore al limite consentito per l'acqua potabile”.

Lo studio fotografa un rischio per la salute e la sicurezza delle persone elevato: “Ci sono idrocarburi anche nel miele della Val d'Agri – si legge testimoniare che l'inquinamento è ormai entrato nella catena alimentare”. E non è tutto. Come spiega l’avvocato Giovanna Bellizzi, presidente del comitato Mediterraneo No Triv, “anche la situazione geologica della Val d’Agri risulta incompatibile con l’attività di ricerca e di estrazione del petrolio”. Secondo il dossier, infatti, la zona in cui si vorrebbero raddoppiare le estrazioni è a forte rischio sismico. “È un territorio caratterizzato da faglie attive e da terremoti di forte intensità. Molto fragile e vulnerabile rispetto alle attività petrolifere”, scrive la professoressa Colella.

Oggi in Val d’Agri ci sono 25 pozzi petroliferi attivi, l’oleodotto più grande d'Europa e un pozzo di reiniezione (che raccoglie i gas di scarto). L’attività petrolifera, secondo l'Agenzia per l’Ambiente degli Stati Uniti (EPA), vale un rischio inquinamento da 7 a 8 su una scala il cui massimo grado è 9. Ma Renzi ha idee diverse: «È impossibile andare a parlare di energia e ambiente in Europa se nel frattempo non sfrutti quello che hai in Sicilia e in Basilicata. Io mi vergogno di andare a parlare delle interconnessioni tra Francia e Spagna, dell’accordo Gazprom o di South Stream, quando potrei raddoppiare la percentuale del petrolio e del gas in Italia e dare lavoro a 40 mila persone e non lo si fa per paura delle reazioni di tre, quattro comitatini».

Ma per Stefano Prezioso della Svimez, il mito dell’occupazione portata dal petrolio è falso: “La Basilicata è una delle regioni con il più alto flusso migratorio d'Italia. E la causa principale per cui in tanti se ne vanno è la disoccupazione. L’industria estrattiva non può risolvere il problema: impiega poche persone, in gran parte inviato sul posto da [....]

Il paesaggio è larisorsa delle risorse:
chi si oppone al Piano Paesaggistico
fa una battaglia diretroguardia

In Toscana si è aperta sui media regionali la cosiddetta “guerra del vino”, che vede diverse associazioni di categoria del settore vitivinicolo unite in un attacco frontale contro il Piano Paesaggistico proposto dall’assessore all’Urbanistica Anna Marson. Quali sono le accuse mosse al Piano? Dirigismo, astrattezza, vincolismo, intenti punitivi nei confronti di una categoria agricola che ha bisogno invece di mani libere per procedere a innovazioni del settore che presupporrebbero elevata meccanizzazione, accorpamento dei fondi, semplificazione del paesaggio. Addirittura ci si spinge a dichiarare l’esistenza di una minaccia per l’intero settore vitivinicolo, con paventate ricadute socio economiche negative, se tale piano non verrà rivisto nella sua impostazione generale. A noi pare che la polemica scatenata da alcuni settori di vertice dell’imprenditoria agricola sia tesa a delegittimare un piano per molti versi avanzato, che farebbe onore alla Toscana intera e alla sua dimensione rurale costruita nel tempo dal lavoro sapiente degli agricoltori.

Non è a oggi chiaro in quale direzione si muoveranno le osservazioni agli elaborati di piano che le associazioni stanno elaborando, però sappiamo già che sul carro della lotta contro il Piano è salito pure una parte del partito di maggioranza in Regione oltre ad una parte del potere locale.

Alcuni interventi nel dibattito, pur provenendo dal mondo agricolo o comunque vitivinicolo, hanno con buon senso riportato al centro della discussione lo stato reale del settore, come nel caso di Alessandro Regoli, direttore di Wine News, che ha scritto in una sua lettera aperta ai media regionali: “ La Toscana è famosa nel mondo per l’armonia del paesaggio, che quindi va conservato, nell’interesse supremo di tutti. Questo non vuol dire non fare nulla: la programmazione territoriale non si crea mettendo regole, ma cercando di rimodellare bene, in maniera sostenibile, tenendo conto degli effetti idrogeologici e paesaggistici, ma anche senza speculazioni. Il Piano penso che avesse la finalità di “accompagnare” le trasformazioni e non bloccare gli investimenti nel settore agricolo in Toscana”. O come nel caso di Luca Brunelli, presidente Cia Toscana,che presentando un dossier sul Piano paesaggistico elaborato dalla sua associazione, sia pur criticabile e che riteniamo di non condividere (basato sulla antinomia tra l’ “agricoltura tradizionale” secondo loro privilegiata dal Piano e quella “innovativa e competitiva”) dichiara: “è un documento complesso e giustamente ambizioso, che condividiamo negli obiettivi fondamentali, perché mira al contrasto del consumo di suolo; riconosce l’agricoltura quale presidio paesaggistico essenziale; punta al recupero produttivo agricolo di superfici abbandonate. Emerge tuttavia la tendenza ad una visione statica dell’agricoltura […] che individua fra le minacce al paesaggio l’abbandono dell’agricoltura da una parte e i processi di intensificazione e specializzazione dall’altra [...].Per quanto riguarda, per esempio, i vigneti occorre evitare generici giudizi di “criticità” e conseguenti direttive di generalizzato contrasto allo sviluppo del settore. Suggeriamo di applicare l’art. 149 del codice con il metodo seguito in altre circostanze (es. fotovoltaico o biomasse): definendo in quali condizioni, e a partire da quali estensioni, si debba evitare la realizzazione di nuovi impianti o adottare norme tecniche di prevenzione del rischio idrogeologico”. Sono richieste di modifica del testo che, trasformando le raccomandazioni in regole agronomiche chiare e definite, possono dare anche maggior cogenza a quegli indirizzi, e quindi possono definire un terreno di mediazione possibile.

Ma il complesso degli interventi ha avuto un altro taglio, e può aver ingenerato in molti l’impressione che la normativa proposta sia un insieme di vincoli che un potere politico (e accademico) vuole imporre al dinamico e libero mondo di imprenditori agricoli, o per dirla con le parole di Giovanni Busi presidente del Consorzio Chianti «Non può essere un atto politico a dire dove io devo piantare viti o dove non posso farlo, deve essere il viticoltore a scegliere, perché conosce il vino e come lo si fa».Ma per non perdersi in un polverone di dichiarazioni che spesso sembrano estremizzare ed ideologizzare astrattamente, riteniamo utile sottolineare alcuni semplici dati di fatto:

1. Non esiste libero mercato nella viticoltura. È vero (come afferma la CIA nel suo dossier) che l’agricoltura specializzata copre nel suo insieme solo una superficie di 100mila ettari circa, suddivisi tra viticoltura (60mila), ortofrutticoltura (27mila), e florovivaismo (13mila), con una incidenza solo dell’11,7% sulla SAU toscana, e che l’incremento dei vigneti negli ultimi dieci anni (2000 – 2010) è stato soltanto del 2,5%. Non è però vero come sostiene la CIA che “tutti i pericoli paventati dal Piano e nella ‘guerra dei vigneti’ di questi giorni, sono davvero una ‘tempesta in un bicchiere di vino’, ben lontani dalla realtà”.In tutta la UE vige nei fatti il blocco dei nuovi impianti viticoli con un incremento massimo ammissibile nei singoli stati dell’1% della superficie vitata esistente e per normare in Italia (e in Toscana) la realizzazione di nuovi vigneti esiste una procedura basata sul “Diritto di impianto”, tale per cui l’agricoltore non può impiantare se non ha già una vigna da rinnovare con l’espianto, o se non acquisisce il titolo da un viticoltore che vendendo la sua quota di vigna si impegna ad estirparne una superficie equivalente. È un sistema che tutela fortemente le imprese esistenti, frutto delle pressioni delle associazioni del settore sul governo italiano, che ha resistito nelle negoziazioni europee agli indirizzi di “liberalizzazione” che ci venivano chiesti dalla UE. Il sistema al quale l’Italia si dovrà adeguare dal 31 dicembre 2015 prevede infatti che si passi in futuro al sistema delle “autorizzazioni”, che sono nominali alle aziende e che non possono essere commercializzate. Qual è allora il rischio possibile per la Toscana? Che nella fase di transizione al nuovo sistema, come è accaduto per il Prosecco che ha drenato 4000 ettari di diritti di impianto in 4 anni, si possano concentrare su porzioni del nostro territorio diritti di reimpianto derivanti dall’abbandono di vigneti in altre zone o parte di quei 50000 ettari di diritti “in portafoglio” alle aziende viticole nazionali (vigneti “di carta”), con fenomeni locali di riduzione della diversità della maglia agraria sia dove verrebbero espiantati vigneti sia dove verrebbero realizzate monocolture estensive. Il Piano Paesaggistico giustamente mette in guardia da questo rischio, appare anzi sin troppo blando nell’aspetto normativo perché non prevede esplicitamente norme cogenti sulla dimensione massima degli appezzamenti o sulla estensione massima in pendenza delle superfici vitate. Desta perciò perplessità che da parte di molti si ritenga ammissibile e legittimo porre limiti alla libera intrapresa dei singoli agricoltori (della cui autonoma capacità di giudizio e programmazione evidentemente poco si fidano le stesse associazioni di categoria …) con una normativa nazionale voluta dalle stesse lobby dei viticoltori per difendere il valore economico delle colture viticole e la redditività dei diritti acquisiti, ma lo stesso principio con regole peraltro abbastanza generali non valga per difendere interessi e diritti della collettività quali quello al paesaggio (art 9 della Costituzione) e all’ambiente. Il paesaggio agrario, frutto delle equilibrata combinazione tra rittochino e coltivazioni a traverso (tagliapoggio, cavalcapoggio e girapoggio, per non parlare delle più elaborate coltivazioni a spina), sedimentato nei secoli, è una risorsa in sé, ed è una risorsa che da valore alle produzioni di qualità, vino compreso.


2. Le grandi monocolture intensive e specializzate non sono l’agricoltura del futuro. Nel loro documento di contestazione del PP le associazioni vitivinicole dichiarano che il Piano ha una impostazione “anacronistica e sbagliata” perché “rilancia un modello di agricoltura vecchio e non competitivo” bloccando “l’agricoltura di qualità”. Qui c’è un equivoco da sciogliere: i vigneti a rittochino di grande estensione, realizzati accorpando colture o acquisendo diritti di impianto da altre zone, gestiti con la meccanizzazione spinta (macchine scavallatrici) non sono il futuro, ma un aspetto di quella “modernizzazione” che abbiamo visto all’opera nei decenni passati e di cui abbiamo già colto anche i limiti; come tutte le monocolture, hanno massima vulnerabilità a patogeni e richiedono forti interventi antiparassitari, semplificano il paesaggio riducendone l’attrattività turistica e la multifunzionalità ma anche la valenza ecosistemica, diminuiscono i tempi di corrivazione delle acque aumentando il grado di erosione, il rischio a valle e il pericolo localizzato di dissesto idrogeologico; per citare un caso recente, lo stilista Cavalli nel 2008 ha pagato più di 200000 euro al comune di Firenze per rimediare ai danni prodotti dall’impianto di un nuovo vigneto a rittochino che sgrondavano masse di acqua e fango sull’abitato sottostante. Questi aspetti sono ben chiari agli stessi viticoltori associati che, nel Chianti senese e fiorentino, hanno supportato e condiviso quella “Carta dell’uso sostenibile del territorio rurale” nella quale vengono indicate le buone pratiche agricole - ad esempio stabilendo la distanza fra filari di viti, o la necessità di intercalare alberi e siepi fra le varie colture – che coniugano norme estetiche e di salvaguardia idraulica, per tutelare il paesaggio, difendere la biodiversità. Ma la cosa ancor più eclatante (nessuno lo dice) è che la nuova PAC europea dal 1 gennaio 2015 farà entrare in vigore le procedure di “greening”, ossia condizionerà il pagamento del 30% dei contributi agli agricoltori alla introduzione di misure ambientali nelle superfici ammissibili a finanziamento, misure che sono sostanzialmente tre, diversificazione delle colture, mantenimento dei prati permanenti, presenza di aree di interesse ecologico quali boschetti e siepi. L’agricoltura del futuro è quindi quella sostenibile, biologica o biodinamica, a basso impatto, diversificata (che ben si sposa con la salvaguardia di alcuni elementi del paesaggio tradizionale toscano) e le estese monocolture a vite poco hanno a che vedere con questo anche se sul breve periodo possono risultare un grande affare per qualcuno. Chi si oppone oggi al piano paesaggistico appare dunque anacronistico.

3. Le monocolture dell’agroindustria non garantiranno nuova occupazione. In un articolo sempre il presidente del Consorzio vino Chianti Giovanni Busi ha dichiarato a proposito del Piano «Si mette a rischio un pilastro dell’economia e dell’occupazione, oltre che il più inflessibile custode del paesaggio». Fermo rimanendo che in realtà il Piano non impedisce nuovi impianti viticoli né la vivaistica e l’orticoltura in serre, ma cerca solo di influenzarne il modus realizzativo, occorre sfatare un altro “mito”, ossia quello che la “modernizzazione” agricola come la si è intesa negli ultimi 70 anni sia stata un ostacolo all’abbandono delle campagne e una garanzia di presidio del territorio; basti pensare che negli ultimi 30 anni in Italia dal 1980 al 2010 (dati ISTAT) si è passati da 3133118 aziende a 1620884, con un dimezzamento al quale ha fatto da corrispettivo l’incremento della SAU aziendale media, ed una perdita non proporzionale di soli 3 milioni di ettari coltivati (da quasi 16 milioni a circa 13). In tutto questo fenomeno di accorpamento delle superfici, di aumento delle grandi aziende, di “modernizzazione” agraria si passa da 600 milioni di giornate di lavoro (1980) a 250 milioni (2010) , con la riduzione di quasi due terzi del lavoro nel comparto agricolo. L’aumento della superficie aziendale, la rimozione di ostacoli alla meccanizzazione spinta, hanno diminuito in generale la necessità di lavoro umano e, al suo interno, di quello specializzato e qualificato dei contadini, sostituendovi il precariato rurale spesso dequalificato degli stagionali: sul totale di 49 milioni di giornate lavorative nazionali extrafamiliari (2010) 26 milioni di giornate sono quelle del lavoro a tempo determinato. La costruzione di un nuovo paesaggio agrario fondato su mosaici colturali, sull’agricoltura contadina delle piccole-medie aziende e sulla conversione in senso biologico e sostenibile delle grandi aziende, oltre a garantire bellezza e occasioni di reddito ad aziende multifunzionali e multiproduttive garantisce quindi anche più lavoro. Un bel paesaggio agrario è quindi anche un paesaggio sociale vivo e abitato, non un lusso per esteti sfaccendati.
4. L’agroindustria crea enormi problemi sia alla salute sia all’ambiente toscani. Fabrizio Bindocci (Consorzio Brunello di Montalcino) presentando il documento delle associazioni di viticoltori ha dichiarato che «non ci sono dissesti se c’è un agricoltore attento, perché usa pochi antiparassitari, regimenta le acque, tiene i fossi puliti perché l’acqua scorra…. ». È proprio quello a cui mira il piano; allora perché sono contro?È vero che abbiamo un trend di diminuzione dell’uso di fitofarmaci (-19,8% in dieci anni secondo gli ultimi dati nazionali ISTAT) ma restiamo con Olanda e Francia i paesi con più elevato uso di fitofarmaci per unità di superficie: 5,6 chili per ettaro, 350 sostanze tossiche diverse, 140.000 tonnellate all’anno, che fanno circa un terzo del totale usato in tutta l’Unione europea a 27, pur avendo noi una SAU che è il 7% di quella europea. Nella nostra regione l’intensivizzazione e specializzazione spinta portano a picchi di utilizzo di questi prodotti su superfici ridotte; le ultime analisi di monitoraggio dell’ARPAT sulle acque superficiali toscane destinate alla produzione di acque potabili (fiumi, laghetti e invasi) hanno riscontrato il 30% di campioni con presenza di residui di fitofarmaci (37 su 122 campioni), con 61 diverse sostanze attive da fitofarmaci trovati nel triennio 2010-2013, e tra queste “I casi più frequenti riguardano quattro fungicidi, dimetomorf, tebuconazolo, iprovalicarb e metalaxil, con spettro di azione molto simile fra di loro, presenti in prodotti commerciali di tre diverse ditte produttrici e utilizzati in viticoltura” (ARPAT toscana 2013). Il quadro che emerge è inquietante, con 15 diversi pesticidi trovati alla presa dell’Anconella a Firenze, 18 a Quarrata, 11 nel laghetto di Fabbrica a San Casciano. Si potrebbe aggiungere a questo che Mancozeb e Gliphosate (un fungicida e un erbicida) sono in quantità i prodotti più usati in Toscana dopo rame e zolfo e che il Mancozeb in particolare contiene etilenbisditiocarbammato di Manganese, un prodotto la cui manipolazione (secondo le nuove tabelle ministeriali per le malattie professionali in agricoltura) può produrre nel coltivatore l’insorgenza del morbo di Parkinson anche 10 anni dopo il contatto. La costruzione di un paesaggio agrario articolato e differenziato, nel quale le fasce di rispetto da fiumi e laghi tornino ad essere vegetate e protette da contaminazione, nel quale le colture abbiano maggiori difese endogame richiedendo meno trattamenti, è quindi un modo per difendere dall’avvelenamento tanto i pozzi della comunità quanto i contadini e i consumatori.

La posta in gioco nella discussione sul Piano Paesaggistico è a nostro avviso molto alta, si tratta di decidere qual è il modello di agricoltura che vogliamo per il nostro futuro e perciò auspichiamo che questa discussione non resti solo appannaggio di chi difende interessi particolari o peggio speculativi. Il territorio rurale toscano, e il paesaggio agrario che ne è la dimensione visibile, sono beni preziosi e comuni, di tutti. E le sue trasformazioni devono essere governate, non subite. L’interesse per il piano paesaggistico, dunque, non può rimanere limitato a pochi addetti ai lavori, ma deve coinvolgere tutti quei soggetti attivi in un possibile cambiamento di scenario, dai GAS alle associazioni di tutela dell’ambiente e del territorio, dalle associazioni di categoria più lungimiranti ai cittadini sui territori come in parte è già avvenuto con i momenti di partecipazione seguiti dalla Regione nella costruzione del piano.

Questa “guerra del vino” ci pare una polemica scatenata ad arte per impedire – dilazionandola nel tempo – l’approvazione del piano, con il coinvolgimento anche di una parte del potere politicoregionale e locale (come sta avvenendo purtroppo per la nuova legge urbanistica), magari per aspettare la fine della legislatura regionale e poi avere le mani libere con un altro assessore all’urbanistica. Agricoltori e studiosi, Università e mondo rurale hanno l’interesse comune a ribadire il valore del piano e a denunciare il tentativo di poche lobby di ostacolare un equilibrato governo delle trasformazioni del paesaggio e quindi del mondo rurale. Quando qualcuno dice che non può essere la politica a decidere gli indirizzi delle trasformazioni, significa che secondo lui devono essere il mercato e gli affari a dettare le scelte. Stupisce che autorevoli associazioni di categoria si prestino a questo gioco e che in Regione molti invece di difendere il proprio piano cerchino di ritardarlo nella speranza di affossarlo. È solo il disperato tentativo di rilanciare un modello che ha prodotto guai, cioè un paesaggio più semplificato e banale, un suolo più fragile e un sistema economico che adesso è strutturalmente in crisi. Alla crisi si risponde mettendo il territorio e l’agricoltura, la buona agricoltura, al centro dell’attenzione culturale e politica, non riproponendo gli stessi paradigmi che l’hanno generata.

Novant'anni, e sembra ieri, soprattutto per quanto riguarda il modo di concepire e non governare le grandi arterie stradali alimentatrici di sprawl. Corriere della Sera Lombardia, 19 settembre 2014, postilla (f.b.)

«Uniforme, disadorna ma levigatissima, si dilunga come la guida di un corridoio d’albergo, evitando sino al possibile le curve ed ogni contatto, ogni intimità e ogni emozione, il pittoresco e il romantico; arida e muta come un’asta, precisa come una pagina di orario, obbediente a una disciplina, la brevità, e a uno scopo, l’utilitarismo». Doveva apparire davvero strabiliante agli occhi di cronisti dell’epoca, quel grande miracolo che in soli 15 mesi aveva portato un paese in miseria alla ribalta internazionale. L’apertura della Milano-Varese, prima autostrada del mondo, inaugurata il 21 settembre del 1924, proiettava di colpo l’Italia nel futuro in un momento in cui (era l’anno del delitto Matteotti) il regime aveva bisogno di consensi e di un rilancio dell’immagine.
Tutto era nato due anni prima dalla lungimiranza di un imprenditore lombardo, Piero Puricelli,che costruendo strade aveva costruito la propria fortuna. Il suo sogno era quello di realizzare la prima «via per sole automobili», intravedendo le grandi possibilità che lo sviluppo della motorizzazione avrebbe presto avuto. Una vera scommessa se si pensa che all’epoca in Italia circolavano solo 85 mila veicoli.

All’inizio del 1922 Puricelli, proprio mentre stava progettando l’autodromo di Monza (il terzo più vecchio impianto fisso dopo Indianapolis e Brooklands) che sarebbe stato inaugurato a luglio dopo soli 50 giorni di lavori, cominciò a dedicarsi a tempo pieno al suo sogno, quello di unire con un’autostrada Milano a Varese ma anche a Como e al Lago Maggiore. Preparò uno studio di fattibilità è trovò subito l’entusiastico appoggio dall’Aci e dal Touring Club. Il 18 novembre del 1922 costituì la «Società anonima autostrade» e, 5 giorni dopo, a meno di un mese dalla marcia su Roma, andò da Mussolini a illustrare il suo progetto.

Il capo del governo capì al volo che quella era un’occasione da non perdere («grandiosa anticipazione italiana, segno della nostra potenza costruttiva degna degli antichi figli di Roma», avrebbe detto a opera conclusa), anche perchè i costi per la realizzazione, 90 milioni, sarebbero stati a carico dell’imprenditore: un prototipo del tanto sbandierato project financing cui si fa ricorso oggi per costruire le nuove autostrade, ma che allora (come adesso) finì poi per mostrare tutti i suoi limiti. Il duce chiamò il ministro dei lavori pubblici ordinandogli di mettere a punto tutti gli atti necessari per autorizzare l’opera. Fissò il giorno dell’inizio lavori, a Lainate, in cui sarebbe intervenuto con il primo colpo di piccone, e quello dell’inaugurazione. Tra le due date c’erano soltanto 500 giorni per costruire 43 chilometri. Tempi pienamente rispettati.

Fu così un grandioso cantiere quello che si aprì nel maggio del 1923, considerate anche le tecnologie dell’epoca. Ci lavoravano a tempo pieno, 7 giorni su 7, quattromila operai che movimentarono due milioni di metri cubi di terra, costruendo 219 manufatti in cemento, tra cui 35 ponti e 71 sottopassi. Per la pavimentazione (spessa sino a 20 centimetri), realizzata mischiando sassi con sabbia e cemento, furono usati 120 mila metri cubi di pietrisco che venivano trasportati in treno dalle cave di Puricelli alle stazioni più vicine e poi, con vagoncini che si muovevano su appositi binari, sino al luogo di utilizzo.

Per il calcestruzzo Puricelli comprò nelle Stati Uniti cinque grosse betoniere che potevano produrre 1200 metri cubi di conglomerato al giorno. I progettisti trovarono soluzioni all’avanguardia anche per realizzare le opere più impegnative, come il cavalcavia sulla stazione di Milano Certosa (che ancora esiste), tre campate ad arco di 21 metri l’una, il ponte sull’Olona a Castellanza e la galleria di Olgiate Olona. L’autostrada (la prima al mondo, anche se i tedeschi ritengono che il primato vada alla loro Avus, un circuito di prova inaugurato a Berlino nel 1921)aveva solo una corsia per ogni senso di marcia ed era larga tra gli 11 e i 14 metri. A Milano il casello era in viale Certosa all’altezza di Musocco, i dipendenti erano in divisa e avevano l’obbligo di fare il saluto militare. La sbarra si alzava alle sei del mattino e si chiudeva a mezzanotte.

Alla cerimonia di inaugurazione intervenne il re, a bordo di una Lancia Trikappa guidata da Puricelli. Per l’ingegnere fu il coronamento di un sogno ma pure l’inizio di un’intensa attività che lo portò a costruire molte autostrade anche all’estero. Ricevette onoreficenze, lauree honoris causa, il titolo di «conte di Lomnago» e, nel 1929, fu pure nominato senatore.

postilla
Negli anni '20, come si è ricordato anche alla penultima edizione del Seminari di Eddyburg, dedicata alla dimensione metropolitana, insieme alle autostrade nascevano, o provavano a nascere, anche piani territoriali per affrontare l'emergere della nuova geografia urbana indotta dalla compressione spazio-temporale delle autostrade. Come ci spiegava poco dopo (1933) il sociologo Roderick McKenzie, la scala metropolitana si sostituiva in senso identitario, fisico, socioeconomico, a quella urbana così come la grande città industriale delle stazioni ferroviarie, e poi dei tram, aveva soppiantato la città murata della tradizione. Anche nell'area milanese si discuteva della possibilità di questi “piani regionali”, puntualmente sabotati da chi riteneva di sapersi regolare benissimo da solo, ed è continuata così nel dopoguerra facendo saltare i modelli virtuosi del Pim, fino ai nostri giorni della cosiddetta città infinita, che si allarga ad archi concentrici principalmente (guarda un po') dal vecchio asse dell'Autolaghi, all'altrettanto storica Milano-Brescia, via Pedemontana Lombarda. Di piani territoriali, neppure l'ombra, salvo quelli che “recepiscono” passivi un nuovo segmento della mega lottizzazione in corso. C'è un'alternativa? Lo chiediamo spesso (f.b.)

«Allo sblocca Ita­lia biso­gna poi aggiun­gere il dise­gno di legge in mate­ria urba­ni­stica del mini­stro Lupi dove si evita fur­be­sca­mente di com­piere il bilan­cio della crisi edi­li­zia pro­vo­cata da venti anni di dere­gu­la­tion». Il Manifesto, 18 settembre 2014

I dati Osce affer­mano che la crisi eco­no­mica ita­liana è la più grave tra i paesi del G7. Mar­tedì scorso il pre­si­dente del con­si­glio ha ripe­tuto in Par­la­mento che ser­vono mille giorni per vedere i risul­tati delle riforme annun­ciate. Ma nel campo della città e delle grandi opere Renzi ha già legi­fe­rato accet­tando il punto di vista della grande pro­prietà edi­li­zia, delle imprese e dalla finanza spe­cu­la­tiva. Tutte le riforme ver­ranno in futuro, ma il cemento ha evi­den­te­mente la prio­rità su tutto e si per­pe­tuano le poli­ti­che che hanno pro­vo­cato la crisi che attraversiamo.

Molti arti­coli sono infatti indi­riz­zati alla costru­zione di stru­menti finan­ziari come i pro­ject bond, alla defi­sca­liz­za­zione del pro­ject finan­cing, al poten­zia­mento del brac­cio ope­ra­tivo della grande sven­dita del patri­mo­nio immo­bi­liare, e cioè Cassa depo­siti e pre­stiti. Una serie impres­sio­nante di commi scritti su misura dei tanti appe­titi spe­cu­la­tivi. Il decreto con­tiene, tra tanti, cin­que errori cata­stro­fici. Il primo di aver ulte­rior­mente sem­pli­fi­cato (art. 17) le moda­lità per ese­guire i lavori edi­lizi. Sto­ria vec­chia. Nel 2009 quando approvò il Piano casa che si basava sulla stessa filo­so­fia di abo­li­zione di tutti i con­trolli, Ber­lu­sconi affermò che il prov­ve­di­mento avrebbe fatto aumen­tare il Pil di 4 o 5 punti. Da allora è ini­ziata la crisi del set­tore. Non è dun­que que­stione di sem­pli­fi­ca­zioni: siamo den­tro una crisi strut­tu­rale e con­ti­nuare sulla stessa strada signi­fica illu­dere il paese.

Seconda que­stione. Pur di per­met­tere nuove spe­cu­la­zioni nel decreto (sem­pre art. 17) si per­mette a chi rea­lizza un nuovo quar­tiere di rea­liz­zare le opere di urba­niz­za­zione per “stralci”. Un pezzo di strada, forse. O mezzo mar­cia­piede. Chi ha scritto quella ver­go­gna dovrebbe vedere come ope­rano le pub­bli­che ammi­ni­stra­zioni nelle città euro­pee: prima si com­ple­tano le urba­niz­za­zioni e poi si costrui­scono le case. In Ita­lia ci sono le peri­fe­rie più oscene d’Europa ed ora si pre­miano i responsabili.

C’è poi la ulte­riore sem­pli­fi­ca­zione delle pro­ce­dure di valo­riz­za­zione e di ven­dita degli immo­bili dello Stato (art. 26). In que­sto caso la novità è che i comuni pos­sono indi­vi­duare gli edi­fici pub­blici da valo­riz­zare di qual­siasi ammi­ni­stra­zione sta­tale. Il patri­mo­nio di tutti gli ita­liani viene messo in mano alle lobby locali: a ven­derlo ci pen­serà CDP e la sua società immo­bi­liare Sgr, ema­na­zione della cul­tura di JP Mor­gan.

Il quarto errore è di non aver ridotto l’elenco delle grandi opere. Molte di esse sono state inse­rite per le pres­sioni di mini­stri, di ammi­ni­stra­tori locali e lobby: basta leg­gere le istrut­to­rie del Mose e degli altri scan­dali per com­pren­dere come fun­zio­nava il sistema. Con que­sto sistema le opere «di inte­resse nazio­nale» sono diven­tate 348 e non è certo colpa della «buro­cra­zia» se non si rea­liz­zano. Sono troppe, e spe­cie in un periodo di crisi occor­re­rebbe con­cen­trarsi su quelle dav­vero impor­tanti e can­cel­lare opere utili solo agli affa­ri­sti che le hanno inven­tate. Il decreto Renzi non mette mano a que­sta esi­genza di mora­liz­za­zione e con­ti­nue­remo a sve­narci per ali­men­tare il ver­mi­naio che ha distrutto l’Italia.

L’ultimo pila­stro del decreto è, inu­tile dirlo, l’ulteriore can­cel­la­zione della tutela pae­sag­gi­stica: la cemen­ti­fi­ca­zione del paese deve con­ti­nuare ad ogni costo.

Allo sblocca Ita­lia biso­gna poi aggiun­gere il dise­gno di legge in mate­ria urba­ni­stica del mini­stro Lupi dove si evita fur­be­sca­mente di com­piere il bilan­cio della crisi edi­li­zia pro­vo­cata da venti anni di dere­gu­la­tion. Ma Nomi­sma ha sti­mato che esi­stono 700 mila alloggi nuovi inven­duti: siamo in sovra­pro­du­zione e da que­sto ele­mento deriva la crisi. La pro­po­sta cerca invece di favo­rire la costru­zione di nuovi quar­tieri. Non è un caso. Vezio De Lucia insi­ste sul nodo del 1963, quando l’inaudita cam­pa­gna di stampa con­tro la riforma urba­ni­stica di Fio­ren­tino Sullo com­bat­tuta con lo slo­gan «vogliono togliere la casa a otto milioni di capi­fa­mi­glia», impedì all’Italia di diven­tare un paese moderno. Quel blocco di potere con­ti­nua a tenere in ostag­gio l’Italia: costruire altri quar­tieri pro­vo­che­rebbe una ulte­riore sva­lu­ta­zione delle case degli ita­liani. Sono Lupi, Renzi e la grande pro­prietà fon­dia­ria che vogliono ven­dere dav­vero le case ai 18 milioni di capifamiglia.

I prov­ve­di­menti sulla città e sulle grandi opere sono l’unico caso in cui Renzi non ha fatto pro­messe ma ha spo­sato la cul­tura Ber­lu­sco­niana, altro che cam­biare verso. La maglia nera che l’Ocse ci ha asse­gnato deriva dall’anomalia sto­rica ita­liana di non aver rego­lato i conti con la ren­dita immo­bi­liare. È ora di can­cel­lare que­sto ritardo, solo così potremo pen­sare di libe­rare risorse eco­no­mi­che oggi bloc­cate nella spe­cu­la­zione immo­bi­liare. E, soprat­tutto, difen­dere dalla sven­dita il patri­mo­nio immo­bi­liare di tutti gli italiani.

«Venezia. Contro il "Comitatone" che in agosto ha dato via libera al progetto che spiana 5 km a beneficio delle mega-crociere, domenica 21 torna la protesta No Grandi Navi con corteo acqueo lungo il canale Contorta Sant’Angelo». Il manifesto, 17 settembre 2014

Gal­leg­gia sul pelo dell’Adriatico e sul filo dell’acqua alta. Dal 1987 patri­mo­nio mon­diale Une­sco, la laguna è spec­chio della città-cartolina e insieme approdo di inte­ressi senza scru­poli. A fine estate Vene­zia archi­via il tap­peto rosso del cinema, scruta l’inabissamento dei mega-cassoni del Mose, osserva l’ingovernabilità di Ca’ Far­setti e lo spet­tro dei «can­ni­bali» inchio­dati dalla Pro­cura della Repubblica.

È in gioco, come sem­pre, il futuro dei 64.676 resi­denti. La città-palafitta (che dall’alto sem­bra un pesce…) rischia di venir intrap­po­lata nelle reti di «pirati» vec­chi, nuovi e rici­clati. Vene­zia for­mato Disney­land: turi­smo da mun­gere con le cro­ciere. O piat­ta­forma logi­stica del busi­ness che incro­cia cemento, asfalto, petro­lio e chi­mica. Ma anche «porto delle lobby» inos­si­da­bili, per­ché i veri affari si con­su­mano in nome della sal­va­guar­dia come spec­chio per le allo­dole e dell’Expo quo­ti­diana che va all’incasso.

Eppure, c’è chi si ostina a voler final­mente inver­tire la rotta. Dome­nica 21 set­tem­bre torna, in acqua, il Comi­tato No Grandi Navi-Laguna Bene Comune. Lunedì sera in sala san Leo­nardo l’ultima assem­blea orga­niz­za­tiva in vista del cor­teo acqueo lungo il canale Con­torta Sant’Angelo. È tra­scorso un anno dal tuffo col­let­tivo dalle Zat­tere per fer­mare la pro­ces­sione di una doz­zina di «città gal­leg­gianti» in Canal Grande. Anti­cipa Sil­vio Testa: «Sarà una grande mani­fe­sta­zione nel Canale Con­torta per dire no al suo scavo. Ci andremo con le nostre bar­che, che è il modo migliore per fare vedere qual è la laguna che vogliamo. Per que­sto ho lan­ciato un appello: sono sicuro che è com­pito sta­tu­ta­rio di tutte le società di canot­tag­gio, remiere e veli­che vene­ziane pro­muo­vere la difesa della nostra cul­tura acquea e dell’ambiente che l’ha prodotta».

È la rispo­sta al blitz del «Comi­ta­tone» che in pieno ago­sto ha dato via libera al pro­getto spon­so­riz­zato da Paolo Costa (Pd), pre­si­dente del Porto di Vene­zia: con il pre­te­sto dell’applicazione in ritardo del decreto Clini-Passera che stop­pava le Grandi Navi, si spiana la laguna per 4,8 chi­lo­me­tri a bene­fi­cio delle mega-crociere. Ruspe al lavoro con l’obbiettivo di espan­dere il canale da 6 a 190 metri di lar­ghezza e da 1,80 a 10 metri di profondità.

Ipo­tesi già boc­ciata dalla Com­mis­sione Via del mini­stero per l’Ambiente (pre­sie­duta dall’ingegnere Guido Mon­te­forte Spec­chi) il 27 set­tem­bre 2013: dra­gare 8 milioni di metri cubi di fan­ghi com­porta con­se­guenze tutt’altro che rever­si­bili. Sarebbe una vera e pro­pria «auto­strada» senza nes­suna seria garan­zia tec­nica, secondo il pro­fes­sor Luigi D’Alpaos che è il mas­simo esperto di idrau­lica per il bacino lagu­nare fin dall’alluvione 1966. Ma con l’asse sus­si­dia­rio fra il mini­stro ciel­lino Mau­ri­zio Lupi, il gover­na­tore leghi­sta Luca Zaia e i mono­po­li­sti veneti il «nuovo canale» d’improvviso è diven­tato pana­cea. Sulla carta, com­porta tre anni di lavori, 157 milioni di spesa e l’interramento dell’oleodotto. Di fatto, è quanto dise­gnato da tempo dal «giro» dei pro­fes­sio­ni­sti legati al Con­sor­zio Vene­zia Nuova a bene­fi­cio delle imprese di fidu­cia. In attesa di pro­ce­dere, sem­pre gra­zie al governo Renzi, con il pro­ject finan­cing da 2,5 miliardi del temi­nal por­tuale d’altura.

L’estate era comin­ciata con il ter­re­moto dei 35 arre­sti dello scan­dalo Mose, la più Grande Opera del dopo­guerra (5,5 miliardi in con­ces­sione unica al CVn) che ha pro­dotto la sim­biosi ille­gale di imprese, coop, poli­tici, tec­nici e buro­crati. Il vero «modello veneto» spie­gato nelle 711 pagine dell’ordinanza dei pm. Nel canale giu­di­zia­rio di Vene­zia si pro­fila una sfilza di pat­teg­gia­menti. Hanno già scelto il rito abbre­viato l’ex con­si­gliere regio­nale Pd Giam­pie­tro Mar­chese, il respon­sa­bile del Coveco Franco Mor­biolo, gli inge­gneri e i tec­nici del CVn, il com­mer­cia­li­sta sviz­zero Cri­stiano Cor­tella e tre «impren­di­tori» di Chiog­gia. Pro­cesso fis­sato il 16 otto­bre, men­tre l’ex magi­strato alle acque Patri­zio Cuc­cio­letta e Ste­fano Toma­relli (Con­dotte d’Acqua Spa) stanno ancora «trat­tando» pena e risarcimento.

In paral­lelo, si con­suma il «caso uma­ni­ta­rio» dell’ex asses­sore regio­nale Renato Chisso dete­nuto a Pisa. «È a rischio ische­mia ed è scon­volto dopo il sui­ci­dio del vicino di cella» sin­te­tizza l’avvocato Anto­nio Forza. Da qui la «cam­pa­gna» per la scar­ce­ra­zione sup­por­tata da Forza Ita­lia. La Pro­cura però insi­ste a cer­care il «teso­retto» matu­rato in tre man­dati di governo ber­lu­sco­niano della Regione: sono in corso roga­to­rie e veri­fi­che che spa­ziano dalla Mol­da­via alla Sviz­zera, dalla Croa­zia al Canada fino a Dubai e all’Indonesia.

Chisso appare meno solo di Gian­carlo Galan, dete­nuto ad Opera. Per l’ex «doge» e mini­stro sus­si­ste il rischio di rei­te­ra­zione e le con­di­zioni che il 9 ago­sto impe­di­vano qua­lun­que ammor­bi­di­mento delle con­di­zioni deten­tive. Secondo Angelo Risi, pre­si­dente del Rie­same di Vene­zia, non è pos­si­bile far scon­tare a Galan gli arre­sti nella villa sui Colli Euga­nei (è pro­vento di reato) né domi­ci­liare la pena a casa della madre o del fra­tello: «L’intero gruppo fami­liare risulta in qual­che modo coin­volto in situa­zioni di scarsa tra­spa­renza con Gio­vanni Maz­za­cu­rati». L’anziano inge­gnere domi­nus del Mose risulta ancora negli Usa, uffi­cial­mente per motivi di salute. Dovrebbe rien­trare (il visto del pas­sa­porto è in sca­denza), ma potrebbe essere ascol­tato per roga­to­ria. È ai domi­ci­liari nella villa di Vicenza l’ex euro­par­la­men­tare for­zi­sta Lia Sar­tori. Ha rigua­da­gnato la libertà dal 3 set­tem­bre Maria Piva, ex magi­strato alle Acque a libro paga del CVn.

Il «sistema Mose» è dav­vero il para­digma delle lar­ghe intese che in tutto il Veneto hanno espro­priato la gestione di urba­ni­stica, finan­zia­menti e lavori pub­blici. Galan resta il ber­sa­glio grosso: adesso arri­vano anche i det­ta­gli della com­pra­ven­dita con don Pie­rino Gel­mini della tenuta di 400 ettari a Casola Val­se­nio sull’Appennino tosco-emiliano, men­tre la Guar­dia di Finanza scan­da­glia il busi­ness del gas nelle sca­tole cinesi archi­tet­tate nello stu­dio com­mer­cia­li­sti Penso & Venuti…

Intanto la Corte dei Conti ha appena spe­dito l’avviso di messa in mora a una qua­ran­tina di diri­genti, che devono resti­tuire 12,6 milioni di euro. A comin­ciare dall’ex dg dell’Azienda ospe­da­liera di Padova Adriano Cestrone e da quello attuale dell’Usl 16 Urbano Braz­zale sono chia­mati a rispon­dere delle irre­go­la­rità del maxi-appalto per il cen­tro di cot­tura di Sere­nis­sima Risto­ra­zione, l’azienda vicen­tina che for­ni­sce anche i pasti ai pel­le­grini del Vaticano.

E come a Vene­zia («con­nessa» con Chisso nell’inchiesta Mose), l’impresa edile Car­ron lavora a pieno regime con l’Università di Padova. Ha appena rea­liz­zato l’ampliamento dell’Orto Bota­nico che per­mette di «col­ti­vare» il fronte Expo 2015. E già pensa al can­tiere dell’appalto da 25 milioni per la rige­ne­ra­zione dell’ex ospe­dale geria­trico come «polo uma­ni­stico» dell’Ateneo.

© 2024 Eddyburg