Il professore è furibondo. E preoccupato per il futuro della sua terra.
«Se sarà approvato questo Piano del paesaggio, stravolto dalla raffica di emendamenti deleteri, tra qualche decennio il panorama toscano sarà sfigurato e banalizzato — denuncia — e la deregulation liberista, che è il pensiero dominante del partito della pietra e del mattone, trionferà sovrana».
Francesco Pardi, toscano di Pisa, detto Pancho, già docente di Analisi del Territorio alla facoltà di architettura dell’Università di Firenze e senatore dell’Idv, è convinto che sia iniziata una deriva pericolosa e che la Toscana sia uno degli ultimi baluardi di quella filosofia «del Bello e del Razionale» che ne ha fatto un esempio.
«Con amarezza, voglio avvertire che si sta distruggendo una delle cose più sensate fatte in Italia: il piano paesaggistico firmato dall’assessore Anna Marson. In commissione il Pd ha iniziato a votare una raffica di emenda-menti di Forza Italia. Gli stessi che i dem avevano presentato ma che, dopo essere stati frenati dal presidente Enrico Rossi, con grande ipocrisia hanno accantonato avallando però quelli dell’opposizione».
Il risultato, dice Pardi, rischia di provocare un effetto Attila.
«Si cede sull’estrazione del marmo delle Apuane, si arretra sul divieto di gettare cemento lungo la fascia costiera, si soccombe sulla gestione delle discariche, si indietreggia su identità geomorfologiche di assoluto valore mondiale come le Balze del Valdarno, depositi lacustri di straordinaria bellezza. E al grido “rottamiamo tutto” si rischia un effetto Liguria dove negli anni si è fatto scempio del territorio. Purtroppo il Pd è in prima fila a guidare questo processo suicida di abbatti-mento delle regole. Mi appello a Rossi perché intervenga ».
ccuse irrazionali?
«Perché, è ragionevole distruggere uno dei gruppi montagnosi più significativi d’Italia, quello delle Alpi Apuane, per estrarre carbonato di calcio per fare dentifrici e sbiancanti per la carta? Se aveste bisogno di un dentifricio andreste a scalpellare il Davide di Michelangelo? Per non parlare dei danni per le spiagge di Elba e Versilia, al litorale apuano, ai crinali, ai parchi»
chi lo accusa di appartenere alla categoria di blocca-sviluppo incapaci di trovare alternative alla disoccupazione, Pardi replica con i centinaia di milioni spesi per i danni provocati dal dissesto idro-geologico.
«Se quei soldi fossero stati investiti per mantenere gli argini di fiumi, torrenti e fossi, per evitare frane, smottamenti e alluvioni, lo Stato avrebbe risparmiato denaro e dato lavoro a tanti giovani».
Privati del patrimonio siamo stati e continuiamo a essere tutti noi, cittadini italiani, vittime per lo più distratte ma spesso cieche e consenzienti di quello che Tomaso Montanari definisce il “romanzo criminale” dei depositi pubblici della cultura e dell’arte. Che però non è un romanzo: è la storia dell’Italia nell’epoca della Grande Trasformazione. Nell’Italia povera e devastata del dopoguerra si entrava gratis agli Uffizi e negli altri grandi luoghi d’arte. E il restauro era un’attività di alta qualificazione soggetta a rigorose norme pubbliche.
Quando Totò voleva far ridere inventava lo sketch della vendita della fontana di Trevi. Oggi non c’è più niente da ridere: l’idea di vendere il patrimonio pubblico per ripianare i debiti del paese è l’opinione “mainstream”. Intanto le opere d’arte viaggiano freneticamente, qualche volta periscono in viaggio (vedi gesso del Canova): fanno lo spogliarello in sfilate di moda. Si è costituito un jet set dell’arte che vede in prima classe i Bronzi di Riace, Leonardo, Michelangelo, Caravaggio e pochi altri. ’ignoranza trionfa. Montanari racconta di mandrie di visitatori migranti verso la mostra strombazzata ignorando il grande capolavoro nella vicina chiesa. E chi fa ballare i burattini sono enti privati, fondazioni sedicenti “no profit” a cui gli enti pubblici — regioni, comuni, ministeri — pagano rimborsi a piè di lista o affittano la riscossione dei biglietti. Si fanno mostre assurde, culturalmente ignobili. Si fanno cose chiamate “eventi”: e si pronunzia con unzione devota la detestabile parola. Gli studi e il restauro non esistono quasi più.
Perché accade questo? Ce lo spiega molto bene Tomaso Montanari in Privati del patrimonio, che meriterebbe di essere letto come un manuale di storia contemporanea nelle scuole italiane. Chi ha giurato fedeltà alla Costituzione ne ha tradito e deformato il linguaggio. Alla “tutela” ha sostituito la “valorizzazione”. Nel contesto del liberismo selvaggio trionfante senza resistenze nel paese del più grande partito comunista d’Occidente , valorizzare ha significato privatizzare. ’arte e il paesaggio sono stati abbandonati ai privati. Un tradimento della Costituzione.
Chi è stato? Il suo nome è legione. Basta vedere nell’elenco di Montanari quanti hanno rivenduto la micidiale metafora inventata da un mediocrissimo ministro piduista della cultura, quella del patrimonio artistico come “petrolio italiano”. Si fa prima a dire chi non lo ha fatto, per esempio il presidente Ciampi. Sul lato opposto è d’obbligo la presenza dei ministri della cultura (tutti quelli succeduti a Pedini, fino a oggi). Qualcuno ha ricamato intorno all’immagine: così ad esempio tale Giovanna Melandri passata direttamente dalla politica al governo del Maxxi, che immaginò l’Italia come una bella signora femminilmente seduta sul suo tesoro. Più efficace e diretta nella sua rozzezza la definizione che il grande comunicatore Matteo Renzi ebbe a dare degli Uffizi: una macchina da soldi. Ma, come dimostra in maniera inappuntabile Montanari, quella macchina funziona a rovescio: prende soldi pubblici e li trasferisce a privati. Se al Colosseo ancora non si fanno le battaglie di gladiatori auspicate dal giornale della Confindustria, basterà la gestione ordinaria a garantire al privato capitalista che se n’è assunto il restauro di lucrare per anni in pubblicità e soldi. E intanto la Società Autostrade ha messo le mani sull’Appia Antica.
Roma e Firenze unite nel disastro: a Firenze, capitale del Rinascimento antico e della nuova controriforma, tutto si merca: ponti storici, sale di musei, Cappellone degli Spagnoli, saloni di Palazzo Vecchio. Il “bel San Giovanni” di Dante forse non arriverà al centenario della morte di Dante in mano pubblica. Intanto si è visto impennacchiare da una ditta di moda come il cavallo di una scuderia privata. E da Firenze la rete dell’associazione “no profit” Civita, presieduta da Gianni Letta, con la sua “Civita cultura”, dove spicca il nome di Paolucci, si allunga come una piovra.a verità è amara, la libertà d’opinione è a mal partito. Montanari si prepari a pagare per le sue campagne.
Come quella che in questi giorni lo oppone a un Pd toscano che sta preparandosi a espellere dal governo della Regione l’assessore Anna Marson, colpevole di aver tentato di difendere le Apuane dallo sfruttamento selvaggio favorito dal partito del mattone e delle pietre. E delle privatizzazioni. Nello Stato privatizzato e servile del “jobs act”, tutti coloro che vivono di lavoro, intellettuale o manuale, stanno imparando sulla loro pelle che non è dello Stato che debbono avere paura: del resto, lo scriveva profeticamente Giuseppe Dossetti, un padre della Costituzione nel cui nome Montanari chiude il suo libro.
«Bellezza, affari, arte, corruzione. Splendori e miserie dell’Italia minore, spiegata ai tedeschi. Un articolo scritto per l’edizione tedesca di Le Monde Diplomatique». Sbilanciamoci.info, newsletter n. 400, 12 marzo 2015
Urbino con i suoi 15.000 abitanti appartiene alle “cento città” del centro Italia che ancora oggi formano un tessuto unico nella cultura urbano-paesaggistica del paese. Bologna è la grande città più vicina che dista all’incirca tre ore (con i trasporti pubblici). Siamo in una profonda provincia quindi, ma in una provincia dall’altissimo livello culturale. Dal mio giardino riesco ad ammirare una delle più belle opere del Rinascimento, il Palazzo Ducale. Oggi il centro storico della città, dove anticamente il palazzo era il fulcro della vita cittadina, viene affittato a turisti e studenti universitari. Chi passeggia nelle vecchie stradine può rendersi conto della mancanza di bambini. Passerà sotto un potente platano piantato nel 1799 sotto il quale si trova un asilo infantile gestito da una cooperativa.
I servizi pubblici in Italia, ammesso che siano ancora considerati tali, sono in misura sempre maggiore privatizzati o affidati a cooperative sociali. In entrambi i casi si cerca di abbattere i costi ricorrendo a forme di lavoro precario di giovani e meno giovani. Le tanto elogiate riforme del mercato del lavoro volute dall’Unione Europea negli ultimi dieci anni hanno moltiplicato le forme di contratti precari così che ad occuparsi di bambini, malati, libri, musei, profughi e spazi verdi sono sempre più persone malpagate e in continuo ricambio. Tra questi troviamo sia eroici idealisti che molti ignoranti. Il loro lavoro precario provoca un nuovo tipo di alienazione e assomiglia a una tragicomica parodia di quello che Marx definiva il sogno di un’umanità dalle numerose e versatili capacità.
Solo pochi attenti osservatori hanno colto la relazione tra riforme del mercato del lavoro, politiche di austerità, concorrenza al ribasso nelle gare d’appalto pubbliche, impiego sempre maggiore del lavoro precario e degenerazione dell’apparato pubblico. Negli ultimi dieci anni si è assistito a un progressivo peggioramento dei servizi pubblici che nel frattempo sono diventati sensibilmente più costosi. “Mafia capitale”, il recente scandalo sulla corruzione a Roma, ha messo in luce un sistema in cui la gestione di vari servizi del sociale, in primis l’accoglienza degli immigrati, è stata trasformata in una gigantesca macchina per fare soldi e in un oliato meccanismo di corruzione e spartizione di potere. Per questo caso la procura di Roma ha richiesto perfino l’applicazione del reato di associazione mafiosa. Il ricorso all’utilizzo di tale strumento di accusa avrebbe il compito di facilitare il lavoro dei magistrati, ma dal punto di vista giuridico questa interpretazione resta molto discutibile. In maniera analoga, la magistratura di Torino aveva proposto l’applicazione del reato di terrorismo contro i leader delle proteste contro la costruzione della ferrovia ad alta velocità Torino-Lione. In questo modo gli accusati, per lo più giovani, avrebbero rischiato fino a 10 anni di prigione, ma per fortuna il tribunale si è opposto a questa strategia repressiva.
Sono le “grandi opere”, spesso inutili, antidemocratiche e perfino antieconomiche, che in Italia come in altri paesi rappresentano la vacca sacra delle politiche di crescita nazionali. Alle grandi opere crede la sinistra italiana ormai più della destra. Anche ad Urbino dove l’amministrazione locale è stata guidata da una giunta di sinistra per più di cinquant’anni.
La costruzione di una strada a scorrimento veloce che ha permesso l’accesso più rapido alla città ha richiesto l’apertura di una costosissima galleria. Una soluzione alternativa sarebbe stata l’ampliamento della strada già esistente alla quale in ogni caso la galleria si ricongiunge prima di arrivare in città. Questo pezzo finale di strada è rimasto nelle stesse condizioni ormai da dieci anni, tanto che una parte di strada è franata durante una delle abbondanti piogge degli ultimi anni. In questo modo, da mesi, gli automobilisti si trovano incolonnati per un cantiere fermo per mancanza di fondi e perdono così quello stesso tempo che hanno risparmiato con la galleria.
Un gioiello di Urbino, l’Oratorio di San Giovanni, doveva essere protetto dalla pressione dell’acqua che scende dalla collina adiacente. L’impresa che ha vinto l’appalto abbassando i prezzi è finita poco dopo in bancarotta lasciando sul posto un enorme cantiere. A ridosso delle mura della città sorgono ora due grandi centri commerciali. Per costruire uno di questi – parcheggio coperto con annesso supermercato e stazione dei bus – è stata letteralmente tagliata una delle colline sulle quali sorge la città per poi essere ricoperta da una colata di cemento nascosta da qualche albero. Per costruire il parcheggio sono stati bloccati numerosi canali d’acqua sotterranei che attraversano la collina, i quali con tutta probabilità si faranno rivedere con il prossimo smottamento del terreno.
Da circa una decina di anni ogni grande pioggia in Italia causa una vera e propria catastrofe. Nel cedimento fisico del territorio si rispecchia la decadenza morale del paese. La distruzione del territorio prosegue con gli scandali del Mose di Venezia, dell’alta velocità Torino-Lione, dell’Expo di Milano, della costruzione della nuova metro C a Roma (scandalo probabilmente più grande di quello “Mafia capitale”), tutti alimentati dal recente decreto “Sblocca Italia” del governo Renzi per il rilancio delle politiche di crescita. Dato che l’Italia non ha un apparato in grado di amministrare responsabilmente le grandi opere pubbliche, Renzi ha deciso di semplificare i processi decisionali e i meccanismi di controllo.
Quando Pasolini visitava le favolose città dell’oriente era solito paragonarle con città italiane quali Venezia e Urbino. Quale ruolo possono avere questi luoghi del passato nel mondo contemporaneo? Questa domanda esistenziale non si pone soltanto nel caso delle città italiane. L’unica soluzione fino ad oggi trovata e più che mai applicata è quella di dare il passato in pasto al presente, cioè al turismo. Quasi in una forma di cannibalismo. Ovviamente ci sono delle sfumature e varianti. La strategia sviluppata ad es. a Urbino in questi ultimi mesi può suscitare qualche interesse.
Dopo le elezioni comunali dello scorso anno, la città ha chiamato come assessore alla cultura Vittorio Sgarbi e negli ultimi mesi sono state organizzate numerose iniziative come non si vedeva da tempo. L’attrazione principale è un ritratto di una giovane principessa della famiglia Sforza attribuito a Leonardo da Vinci. Il ritratto, disegnato su una pergamena, è stato esposto a Palazzo Ducale. L’opera, acquistata inizialmente nel 1998 per 22.000 dollari come lavoro di artista sconosciuto, aumenterebbe il suo valore esponenzialmente qualora venisse riconosciuta la paternità di Leonardo. Dopo aver offerto il Palazzo Ducale come cornice espositiva, Sgarbi è entrato decisamente nel dibattito sull’opera essendo assolutamente convinto che l’autore sia Leonardo.
Un’operazione come questa – giocata sul piano del mercato dell’arte e della visibilità mediatica – punta a proporre Urbino come uno dei “centri” del mondo contemporaneo. Con toni meno enfatici e più sincero anni fa Paolo Volponi, scrittore e poeta originario di Urbino, aveva constatato: “In ogni grande museo del mondo si possono trovare tracce di Urbino”. Sgarbi ha mobilitato questo prestigio di Urbino, la sua storia, i suoi miti e i suoi enigmi e porta nella piccola città una cultura degli “eventi” fino ad oggi estranea ad Urbino.
Il mercato dell'arte e l'uso delle esposizioni ai suoi fini è estremamente attraente per attività finanziarie speculative (e anche criminali). Gli “eventi” sono diventati un gioco pericoloso della politica culturale, gestito da una tipologia molto particolare di manager del quale Sgarbi è un chiarissimo esempio, con la sua geniale quanto patologica figura di esperto dei mercati dell’arte, di uomo dei talkshow, di avventuriero della politica e della vita pubblica dell’era Berlusconi. Uno scrittore come Balzac avrebbe trovato molta eccitante raccontare il personaggio.
Se Urbino ritroverà o meno il successo grazie a lui rimane da vedere. Quello che è certo è che ha portato un “vento nuovo” in una città dal fascino addormentato e i visitatori ne sono entusiasti. “Vento nuovo” e “rottamare” sono le parole preferite del governo Renzi, un aspetto che unisce la politica di Renzi a quella di Berlusconi, senza soluzione di continuità: il “nuovo” come valore in sè.
Retoriche di questo tipo tendono a nascondere molte altre esperienze che tengono in piedi l’Italia migliore. Una, piccolissima, non lontana da Urbino, viene dal piccolo comune di Sant’Ippolito (1500 abitanti) che a dispetto di tutte le misure di austerità continua a permettersi una biblioteca locale. In uno degli incontri della biblioteca il priore di Fonte Avellana, monastero nascosto in mezzo all’Appennino, ha commentato il discorso che Papa Francesco il 28 ottobre scorso ha tenuto ai rappresentanti dei movimenti sociali di tutto il mondo. La discussione ha riguardato il tema della credibilità delle parole e si concentrava in particolare su due frasi pronunciate dal Papa. La prima è un monito: “È curioso come nel mondo delle ingiustizie abbondino gli eufemismi… Potrei sbagliarmi in qualche caso, ma in generale dietro un eufemismo c’è un delitto”. La seconda era rivolta al suo pubblico di attivisti: “Voi avete i piedi nel fango e le mani nella carne. Odorate di quartiere, di popolo, di lotta”. Una vera politica culturale, indivisibile dalla politica sociale, non significa altro che ridare credibilità alle parole e alle immagini.
Il Fatto Quotidiano, 12 marzo 2015
Il Nazareno del cemento. Ora tocca alla Toscana affrontare l’assalto che Pd e Forza Italia stanno cercando di portare al paesaggio: dalla Lunigiana alla Garfagnana, da Lucca al Valdarno passando per la costa, le dune. Fino alle Apuane con le cave dove Michelangelo andava a cercare il marmo per i suoi capolavori.
Il braccio di ferro va avanti da settimane, sempre più duro mano a mano che ci si avvicina alle elezioni regionali. Al centro il Piano Paesaggistico della Regione Toscana voluto da Anna Marson, assessore all’Urbanistica. Un modello di tutela ambientale.
A un passo dall’approvazione ecco spuntare un mare di emendamenti. Da destra e, inaspettatamente, dal centrosinistra che sostiene Marson. Sono praticamente la fotocopia gli uni degli altri: si prevede che le “direttive” indicate nel piano siano trasformate in semplici “indirizzi”. Termini tecnici, in pratica così si lascerebbe ai comuni mano libera per fare i fatti propri. Ancora: le criticità indicate dal Piano sarebbero da considerare semplici valutazioni. Non tassative.
Insomma, il Piano diventerebbe un colabrodo. Cominciano polemiche, lotte di corridoio, perché qui ballano interessi di centinaia di milioni. Il governatore Enrico Rossi (nella foto), che non si sa esattamente cosa pensi in proposito, ha tentato una mediazione: “Lodo Rossi”, lo ha chiamato qualcuno. Dopo pochi giorni tutto da capo. Ricompaiono gli emendamenti che passeranno in commissione in queste ore. E che rischiano di mettere in pericolo paesaggi tra i più belli e delicati della Toscana. Quindi d’Italia.
Il meccanismo è affinato con il cesello, ma un occhio esperto lo “sgama”. Proprio com’è avvenuto quando i tecnici della Regione Toscana hanno letto i nuovi emendamenti. Dove era scritto che bisogna “evitare” ecco invece “contenere”. Lo stesso discorso vale per le piattaforme turistico-ricettive, gli enormi complessi in riva al mare che potreste trovare a Dubai. Insidiate anche le splendide corti lucchesi costruite nel tardo Medioevo.
Il Piano Marson mirava a evitare che fossero inglobate nella periferia che si espande. Ma gli emendamenti del Nazareno non ci stanno. In Valdarno l’obiettivo sono le balze e i calanchi. Poi le cave delle Apuane. Che devono avere molti sponsor. Gli emendamenti prevedono la loro riapertura praticamente senza limiti. Il testo degli emendamenti merita di essere letto, tocca punte di vera poesia mentre vuole dare il via libera alle ruspe: “Sono anche i macchinari che tagliano la pietra e che spuntano tra il verde delle montagne a ricordare al tempo stesso la potenza della natura e la capacità dell’uomo di inserirvisi”. Roba che nemmeno Carducci!
Fino al capolavoro finale: l’assalto alla via Francigena – l’antica via dei pellegrini – che attraversa tutta la campagna Toscana più intatta. “Il piano – raccontano negli uffici regionali – prevedeva il divieto di nuove lottizzazioni che alterassero la “lettura”, cioè “la visione dei centri storici lungo i crinali”. Divieto cancellato, almeno nelle intenzioni. Ma ora si annuncia battaglia durissima. E Rossi dovrà dire da che parte sta.
«Vogliamo costruire una politica per far incontrare chi ha un progetto culturale di frontiera e non ha gli spazi, con chi ha spazi ma non un progetto per far tornare a rendere economicamente questi edifici, almeno un po’». Il manifesto, 12 marzo 2015
A Roma da lungo tempo mancano politiche urbane di contrasto al capitalismo egoista che ha impoverito il ceto medio. Anche per questo sono proliferate forme di resistenza e di autoaffermazione dei diritti in risposta alle crescenti diseguaglianze. Ma si sono affermate, anche, collusioni tra istanze “di diritti” e scelte politiche basate su “scambi”. Non si può rimpiangere ciò che è stato, né i suoi frutti piuttosto amari e in molti casi indigesti.
Cultura come fonte di cambiamento è quella di un’amministrazione che costruisce percorsi trasparenti per favorire gli usi temporanei di spazi dismessi. Lo abbiamo sperimentato nel terzo Municipio, per favorire la diffusione degli usi temporanei e, in prospettiva, realizzare l’agenzia comunale che agevoli l’affidamento a realtà culturali che fermentano dentro lo spazio abitato. Sì, come avviene a Berlino ora avviene anche a Roma, possiamo aggiornare le analisi.
Esperienze culturali come cuore della rigenerazione urbana. Sappiamo di realtà culturali in cerca di spazi a basso costo e di spazi vuoti in cerca di utilizzazioni, anche a basso rendimento. Come nel caso dei 42 ex cinema chiusi, 28 da oltre dieci anni. Un periodo in cui, con lenta erosione, sono diventati negozi di casalinghi o sale bingo, senza un solo “tweet” di denuncia. Vogliamo costruire un disposi
tivo amministrativo, una politica, per far incontrare chi ha un progetto culturale di frontiera e non ha gli spazi, con chi ha gli spazi ma non ha un progetto creativo per far tornare a rendere economicamente questi edifici, almeno un po’. Un po’ più di niente, e alcuni sono anche immobili di particolare valore storico e architettonico. Far incontrare queste due domande con il Municipio, per sancire il legame tra proposta e territorio. Restituire vita a luoghi morti, quelli sì “obitori culturali” da decenni, che oggi l’amministrazione rimette al centro. Altro che sacco di Roma o chiusura degli spazi sociali!
Città è polis ma è anche polemos, conflitto. E la politica si radica nella città per risolverlo e farlo avanzare oltre. Public policies non è allocare favori ma piuttosto favorire l’azione privata e i processi di simbolizzazione della realtà. La politica non trova soluzioni a chi urla di più. La politica pubblica costruisce percorsi di riscatto a vantaggio di tutti.
Ecco lo sforzo di cambiamento che è in atto a Roma, ecco perché i conflitti sono veri e profondi. Anche questa è bellezza civile. La coalizione che serve alla città, adesso, è quella che ci spinge ad essere ancora più rigorosi, uscendo da una ipocrisia della mediazione e della collusione.
Una città normale ci aspetta già oggi, si sta già realizzando. Una città che fa del suo corpo già costruito il solo luogo della trasformazione. Non un chicco di cemento in 20 mesi è stato autorizzato o anche solo pensato fuori dal costruito o dal costruibile. Ma una città più densa e compatta è anche una città che pone una sfida ai comitati: passare dall’essere contro all’essere per la qualità degli interventi. Abbiamo raccolto dai privati e stiamo disegnando 160 interventi di trasformazione nei tessuti della città produttiva, dentro la città costruita. Scelte urbanistiche fatte solo a sostegno di progetti di sviluppo economico e non mere quantità edificatorie.
Sessanta incontri nei quindici municipi, oltre 200 associazioni e quasi 2000 persone hanno partecipato alla costruzione delle “Carte dei valori del municipio”. Ascolto dal basso da cui è emersa la centralità dello spazio di prossimità e la necessità di risolvere conflitti e contraddizioni tra disegno della città ed esigenze degli abitanti.
Una città normale e responsabile è in vista già oggi. Da costruire in prospettiva, realizzando in pieno la Municipalizzazione e forse il contemporaneo superamento di Roma Capitale e della Regione per far emergere la Roma Metropoli; il territorio abitato di Roma nel suo divenire (Roma2025). E, infine, una politica culturale che dia respiro agli enzimi nella Roma Grande Formato, come sta facendo Giovanna Marinelli. Forse non è ancora percepibile una visione d’insieme, ci sono, però, percorsi da accompagnare, anche in un rapporto dialettico, certamente da non disconoscere. Un’opportunità anche per la sinistra critica, o no?
Tornerà la Politica, una policy diffusa nella città, se saprà ricercare il cambiamento profondo, altrimenti la città resterà vittima di finti conflitti o di armonie apparenti: nulla di vero e quindi nulla di buono.
Intanto, serve realizzare le corsie preferenziali per gli autobus, erano nel programma di Marino: è ora di farle.
* assessore alla programmazione e all’attuazione urbanistica del Comune di Roma
«Non è un proconsole berlusconiano, ma un governatore renziano a riportare l’incubo del cemento sulle coste della Sardegna. Nuove cubature potranno sorgere anche nei primi 300 metri dal mare». Sembra invincibile la forza corruttrice del renzismo. Il Fatto Quotidiano, 11 marzo 2015
Quella per i litorali non è l’unica minaccia contenuta nel testo di legge: le betoniere potrebbero tornare a farsi largo nei centri storici, anche questi blindati da Soru – patron di Tiscali, attuale segretario regionale del Pd ed europarlamentare. La discussione su – come vuole la dicitura esatta – “Norme per il miglioramento del patrimonio edilizio e per la semplificazione e il riordino di disposizioni in materia urbanistica ed edilizia” verrà avviata oggi. La prima versione del testo era stata varata dalla giunta il 23 ottobre dell’anno scorso, su proposta dell’assessore regionale agli Enti locali, Cristiano Erriu del Pd.
Dopo il vaglio della commissione Urbanistica del consiglio regionale la norma è stata modificata, ma la sostanza non cambia e lascia molti scontenti. Se nelle dichiarazioni l’obiettivo era – come si legge nella relazione – una regolamentazione improntata alla certezza delle norme, il contenimento del consumo del territorio e la riqualificazione del patrimonio esistente, il risultato sembra diverso. Con la minoranza di centrodestra che mostra il pollice verso (voleva un maggiore impulso al settore) e parte del Pd che storce il naso per il rischio di tradimento al Ppr. Così gli emendamenti, anche amici, sono dietro l’angolo. E, come sempre in Sardegna quando si parla di urbanistica e cubature, gli animi sono già infuocati.
Mentre Pigliaru, professore di economia, cita l’edilizia tra i motori della sua ricetta keynesiana per far uscire l’economia dell’isola da una crisi nerissima, gli ambientalisti lo accusano: “Il consiglio regionale della Sardegna si appresta a esaminare una proposta di legge che fa da coperchio alla più retriva speculazione immobiliare. Un salto indietro di 30 anni”, è l’attacco di Stefano Deliperi, leader delle associazioni Gruppo di intervento giuridico e Amici della Terra. Il cavallo di Troia per il grande ritorno del cemento nella fascia ultra tutelata dei 300 metri si chiama turismo. In nome dello sviluppo di quella che dovrebbe essere la maggiore industria sarda saranno permessi ampliamenti del 25 per cento di volumetria per le attività esistenti, anche a ridosso del mare: il tabù dell’intangibilità della battigia potrebbe dunque cadere. Il perché lo spiega un esponente del Pd, Antonio Solinas, relatore di maggioranza: “Si è ritenuto meritevole prevedere incrementi volumetrici maggiori, a condizione che tali incrementi diversifichino e riqualifichino le dotazioni e i servizi delle strutture ricettive al fine di promuovere la destagionalizzazione dell’offerta turistica”. Mentre ci si interroga sull’esistenza del cemento destagionalizzante, sul punto sono arrivate anche le critiche di segno opposto del centrodestra che non condivide il divieto, previsto dalla legge, di creare nuovi posti letto. Si fa invece notare il silenzio dell’ala del Pd legata a Soru, che tace anche sulla violazione di un caposaldo del suo piano paesistico regionale , l’intangibilità dei centri storici, finora vincolati. La nuova normativa consentirebbe incrementi volumetrici fino al venti per cento, anche se subordinati a un apposito piano particolareggiato delegato al Comune.
Il punto che più agita gli animi e su cui le associazioni ambientaliste vanno giù dure è quello delle cementificazioni zombie: “Pare un testo che punta a resuscitare i progetti edilizi morti e sepolti dal Ppr, e a render permanente la disciplina permissiva che era provvisoria nel pessimo piano del 2009 di Cappellacci”. Le lottizzazioni finora paralizzate sarebbero rimesse in corsa da norme transitorie, che consentono il completamento degli interventi già autorizzati prima dell’intervento anti-cemento di Soru: Arzachena, Costa Smeralda e Villasimius sono le tre zone a maggior rischio.
Le politiche urbane, anche se a ben vedere non paiono affatto integrate e orientate, sostengono stili di vita sostenibili. Che andrebbero sostenuti anche di più, in fondo non ci vuol molto a coordinare alcuni interventi. La Repubblica Milano, 11 marzo 2015, postilla (f.b.)
Anomalia milanese. Mentre in tutta Italia il mercato dell’auto si riprende, con un +4,2 per cento delle immatricolazioni nel 2014 rispetto al 2013, qui gli acquisti delle nuove auto continuano a scendere di un -1,4 per cento. È la combinazione di vari fattori: dalle politiche contro la congestione e in favore della mobilità sostenibile, al mutamento delle abitudini dei milanesi dopo anni di crisi. Esultano gli ambientalisti: «Non ci aspettavamo un dato ancora in calo, era normale attendersi un rimbalzo. Adesso bisogna rendere i mezzi pubblici sempre più competitivi»
Come si spiega quindi la diversa tendenza? Gli ambientalisti non hanno dubbi: «Significa che a Milano sta succedendo qualcosa di importante — spiega Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia — non solo la gente rinvia sempre di più la sostituzione della vecchia auto, ma molti stanno andando verso la rottamazione definitiva delle quattro ruote». E se anche la riduzione si sta assottigliando, il numero è comunque una buona notizia per chi da anni chiede politiche per abbattere il tasso di motorizzazione in Lombardia, uno dei più alti d’Italia. «Dopo il lungo periodo di crisi del settore delle auto — aggiunge Di Simine — era legittimo aspettarsi una ripresa delle vendite o comunque un assestamento. Che però a Milano non c’è stato. E anche il dato regionale è ben al di sotto di quelle che erano le nostre aspettative».
Andando a vedere nel dettaglio le cifre che riguardano le immatricolazioni sulla base dell’alimentazione, si ha poi un altro indizio sui nuovi criteri che i milanesi usano nella scelta dei mezzi. Il calo più sensibile lo fanno registrare le immatricolazioni delle vetture più inquinanti a diesel (—1,5 per cento) e a benzina (—4,2 per cento), mentre sono in netta crescita — sebbene con numeri assoluti più contenuti — le ibride, in particolare quelle benzina+elettrico, passate dalle 1.130 vetture del 2013 alle 1.588 del 2014. Numeri che certificano quindi come il mercato delle auto a Milano sia particolarmente influenzato dalle misure anti-inquinamento, sia dei divieti regionali ai diesel, sia dalle restrizioni alla circolazione imposte dal Comune. Tra le cause del calo generale c’è poi anche l’esplosione dei servizi di car sharing che rendono per molte famiglie inutile l’acquisto della seconda auto.
Una vittoria, per i promotori della mobilità sostenibile, su cui però è bene non adagiarsi troppo. «Il modo per consolidare questa tendenza — aggiunge Di Simine — è far sì che i trasporti pubblici siano un’alternativa valida per il cittadino rispetto all’uso dell’auto. Per molti, purtroppo, questa è ancora un mezzo necessario per recarsi a lavoro, ad esempio. Bisogna avere un trasporto pubblico competitivo per l’utenza, ed è una competizione che deve essere fatta all’auto privata. Quindi bisogna avere il coraggio di dire basta agli appalti eterni: i servizi di Tpl si mettano a gara, e che sia una gara vera. Il problema del trasporto pubblico non è tanto il volume dei trasferimenti di risorse piuttosto la scarsa competitività degli operatori del settore».
“Il mercato cambierà ancora chi abita fuori non rinuncia”, intervista a Fabio Torta
Fabio Torta, già docente di economia dei trasporti al Politecnico, adesso direttore di Trt, società di consulenza sulla mobilità.
Lei cosa ne pensa di questi dati? Quali sono le cause di questa tendenza opposta rispetto al dato nazionale?
«A una prima valutazione, direi che possono esserci varie motivazioni. La prima è che il parco veicolare lombardo è alto in termini percentuali rispetto alla popolazione. Siamo in una delle regioni in cui il livello di motorizzazione è tra i più elevati d’Italia. E probabilmente è anche più recente e di qualità maggiore. Motivo per cui alcune famiglie magari hanno fatto il cambio auto in tempi pre-crisi, o comunque più recentemente rispetto al resto del paese».
Le misure anti inquinamento e per la mobilità sostenibile secondo lei c’entrano?
«Sicuramente sì. Le politiche contano. Non a caso a diminuire sono principalmente le vendite di auto a diesel che possono circolare sempre meno, mentre per le elettriche che sono in crescita, ad esempio, è rimasta la deroga in Area C. Infine c’è il car sharing che per molti è un incentivo a non acquistare una seconda autovettura».
Cosa ci dobbiamo aspettare per il futuro?
«Sicuramente ci saranno delle oscillazioni. Le grandi aziende stanno investendo miliardi nel settore delle auto, sia per renderle più tecnologiche sia concentrandosi su forme di alimentazione alternative alla benzina. Motivo per cui ci si potrà aspettare una ripresa del mercato, magari non da subito. Anche perché oltre a chi vive in città bisogna pensare a chi sta fuori, nell’hinterland. Se anche il Comune investe molto nei mezzi pubblici, per queste persone l’automobile resta un mezzo di trasporto fondamentale».
postilla
Forse vale la pena sottolineare ancora una volta quanto pesino, in questo relativo “stupore” per la mancata ripresa del mercato automobilistico, stili di vita e aspettative dei cittadini, oltre che naturalmente una serie di investimenti infrastrutturali che si vorrebbero quantomeno più coordinati di quanto non siano oggi. E quanto potrebbe pesare ciò che qui non si nomina, ma invece entra massicciamente nel conto, ovvero il ruolo delle telecomunicazioni che va ben oltre i messaggini tra amici o qualche email spedita col telefonino per avvisare del ritardo causa ingorgo. Se l'ambiente che ci circonda lo consente, ovvero se la metropoli e i suoi servizi la smettono di essere tarati su misura per l'auto, i suoi spazi, i suoi tempi (pensiamo alla spesa, alla scuola, al tempo libero, oltre che al lavoro) pare quasi naturale che l'istinto umano riprenda il sopravvento. E al tempo stesso, come ci ricorda l'intervista al trasportista, per il mondo della dispersione insediativa la soluzione sostenibile dovrà essere diversa, proprio perché si tratta di un universo cresciuto al 100% attorno all'auto, che ne può fare parzialmente a meno per alcuni aspetti, ma appunto solo per alcuni. Forse, se il governo delle dinamiche territoriali, e la promozione di quelle sociali virtuose, terrà conto in modo equilibrato delle possibilità offerte dalle tecnologie, alla scala dei bacini urbani di pendolarismo attuali e potenziali, emergeranno ulteriori “sorprendenti” comportamenti collettivi, visto che la sostenibilità o meno dipende esattamente dalla sommatoria di quegli aspetti, nessuno escluso (f.b.)
La Repubblica, ed. Palermo ed ed. Firenze, 11 marzo 2015
A scatenare le polemiche lo snellimento delle procedure che la nuova legge prevedeva, sostituendo ai piani particolareggiati le “tipologie edilizie”, una classificazione degli immobili fatta sempre dai Consigli comunali ma senza il successivo passaggio al Consiglio regionale urbanistica insediato all’assessorato Territorio. Sarebbe stata la Soprintendenza l’unico organo a esprimersi. «Riducendo enormemente le tutele», denunciavano gli esperti. L’Anci, la settimana scorsa, attraverso alcuni deputati del Pd, dal capogruppo Baldo Gucciardi a Giuseppe Lupo, aveva presentato alcuni emendamenti che escludevano dal raggio di esecutività della legge i Comuni che avevano già approvato piani particolareggiati, ma che in Sicilia sono appena una decina, da Palermo a Siracusa e Ragusa. «Qui a Catania — dice il sindaco Enzo Bianco — la legge avrebbe avuto piena efficacia nonostante il Comune stia da tempo lavorando a una variante generale per il centro storico».
Dopo il rinvio — votato su proposta del capogruppo di Sicilia democratica, Salvatore Lentini — Bianco tira un sospiro di sollievo, maprecisa:«La ratio dellaleggeègiusta,però va salvaguardato il ruolo decisionale dei Comuni ». Critico nei confronti del disegno di legge è anche Ermete Realacci, presidente pd della commissione Ambiente alla Camera: «Fermarsi è stato saggio, la ricetta per salvare i centri storici è quella di dotarli di piani seguendo le procedure già indicate dal dipartimento regionale dell’Urbanistica dal 2000 e prevedere agevolazioni economiche e fiscali per chi realizza interventi di recupero». «Giusto lo stop — gli fa eco il leader dei Verdi, Angelo Bonelli — la sburocratizzazione non può diventare un alibi per autorizzare uno scempio ».
In aula il presidente della commissione Territorio e Ambiente, Giampiero Trizzino, del Movimento 5Stelle, aveva difeso il lavoro preparatorio: «Personalmente avrei preferito trattare la legge insieme con la riforma del governo del territorio, ma questo non significa che l’istruttoria non sia stata fatta con attenzione: in un anno abbiamo sentito tutti, dagli Ordini professionali alle Soprintendenze».
Dopo il rinvio, Trizzino annuncia l’impegno a riportare il testo in aula entro due o tre settimane: «Predisporrò subito un calendario di incontri con le associazioni e i docenti universitari che ci hanno chiesto di fermarci». Ma resta la rabbia dei deputati proponenti. A cominciare da Antony Barbagallo, sindaco di Pedara, piccolo comune nel Catanese, che definisce il rinvio «una volgare imboscata». Sul testo il Pd si è spaccato. Gli emendamenti Anci portavano la firma di Lupo e Gucciardi, della stessa corrente di Barbagallo, mentre in aula si è schierato per il rinvio Antonello Cracolici: «Non credo che questo testo sguinzagli gli Unni — ha detto in aula — ma le polemiche che si sono scatenate rischiano di danneggiare la legge stessa e il Parlamento. Su una materia come questa serve una larga condivisione».
Se il primo firmatario del ddl, l’ex sindaco di Ragusa Nello Dipasquale, aveva chiesto all’aula di bocciare la proposta «piuttosto che mortificare il lavoro della commissione», nel suo accalorato intervento l’ex sindaco di Trapani Girolamo Fazio, relatore del testo, è sbottato: «I siciliani sono costretti a fare abusi da norme troppo rigide. Ma ogni tentativo di cambiare le cose è impossibile».
Favorevole al rinvio, invece, Lino Leanza di Sicilia democratica: «Uno stop di qualche giorno per ascoltare la società civile non può rappresentare un problema». Contro il disegno di legge trentacinque associazioni avevano firmato un appello. Tra queste, Italia Nostra: «Alla fine è prevalso il buonsenso», dice il presidente regionale Leandro Janni.
di Massimo Vanni
Piano del paesaggio, i consiglieri dem rimettono le mani sul testo in vigore. E se l’assessore all’urbanistica Anna Marson giudica inaccettabili le modifiche apportate, di nuovo il fronte ambientalista se la prende con il ‘partito del cemento’ che ritorna alla ribalta. Lo storico dell’arte Tomaso Montanari parla di «lenta morte del Piano». Solo che stavolta non ci sarà Enrico Rossi a fare da mediatore: «Il 99% di coloro che parlano del Piano del paesaggio non ne hanno letto una riga», taglia corto il governatore. Facendo intendere di non voler intervenire questa volta sul lavoro dei consiglieri regionali.
In compenso, il Consiglio dice sì al preludio del Piano, la legge sulle cave. Grazie a cui, dice Rossi, «poniamo le basi per un cambiamento reale delle Apuane». Una legge con alcuni obiettivi precisi, spiega il governatore: «Non scavare sopra 1200 metri, tutelare i crinali e il piano del paesaggio sono aspetti importanti ma Piano anche che la molla economica sia fondamentale per avere sulla realtà locale una ricaduta più positiva». Sul Piano però ancora si litiga.
«Nessuno può impedirci di dire la nostra, il Piano non è più una proposta della giunta», rivendica per il Pd Ardelio Pellegrinotti, protagonista della prima riscrittura poi mediata da Rossi e anche della seconda, arrivata adesso. Ma cambiare ora il testo non significa cambiare il ‘lodo Rossi’? «No, quello riguardava gli articoli 19 e 20 del Piano, quelli delle Apuane. Ora si è intervenuti in modo minimale altrove, sulle 20 schede d’ambito in cui è stata suddivisa la Toscana», dice Pellegrinotti. Che ieri è tornato ad incontrarsi con Rossi.
Secondo Montanari, sono state «stravolte le parti del piano che parlano ai Comuni e ai loro strumenti di pianificazione attraverso descrizioni, comprensive di valori e criticità, indirizzi, obiettivi di qualità e direttive: la parte che Enrico Rossi aveva provato a salvare dal maxi-emendamento iniziale del Pd. Tutto questo è avvenuto col sistematico voto Forza Italia– Pd: un ‘patto del Nazareno’ contro il paesaggio toscano». E Legambiente Arcipelago: «Con la scusa di non ingessare la Toscana si trasforma un Piano all’avanguardia nella solita marmellata di norme incoerenti per consentire di costruire ovunque ». Rossano Pazzagli della Società dei Territorialisti accusa invece il Pd di «tornare all’attacco dei litorali riaprendo alla cementificazione con la scusa del turismo». Mentre a nome di Sel Marco Sabatini ironizza sulla «nascita in Toscana del partito unico del cemento».
Niente di tutto ciò, ribatte Pellegrinotti: «Con Forza Italia non c’è accordo di nessun tipo, abbiamo accettato alcune loro proposte ma il grosso dei loro emendamenti l’abbiamo respinto ». Quanto alla cancellazione di parole come «evitare» o «limitare» e la loro sostituzione con «contenere» e «armonizzare », che per Montanari consegnerà un Piano fatto dei soli vincoli del ministero dei beni culturali, Pellegrinotti è netto: «Non sarà certo il ministero a dettarci cosa si può fare e cosa invece no in Toscana». (m. v.) © RIPRODUZIONE RISERVATA
L’assessore Marson giudica inaccettabili i ritocchi apportati Ok alla legge sulle cave
Estremo appello ai componenti dell'Assemblea regionale della Sicilia perché non approvino la proposta di crimine del governo regionale delle "larghissime intese". Articoli di Sara Scarafia e Teresa CannarozzoLa Repubblica ed. Palermo, 10 marzo 2015
Nelle ultime ore decine di movimenti da tutta Italia hanno scritto al presidente dell’Ars, Giovanni Ardizzone, per chiedergli di «stoppare il disegno di legge». Ma gli appelli non sono serviti: oggi il testo sarà in discussione. Cosa prevede? Di sostituire gli strumenti urbanistici finora utilizzati, cioè i piani particolareggiati, con le “tipologie edilizie”: la nuova legge classifica le costruzioni in “costruzioni di base”, “monumentali” e “moderne”, e per ogni tipologia individua gli interventi consentiti. Per restaurare immobili non vincolati basterà una comunicazione e sarà possibile, ottenuto il parere della Soprintendenza, pure abbattere intere palazzine non di pregio e ricostruirle. Le «tipologie edilizie» saranno individuate dai consigli comunali come i piani particolareggiati che, però, venivano valutati collegialmente da un comitato insediato all’assessorato al Territorio. «Mentre con la nuova legge basterà il parere monocratico della Soprintendenza e questo ridurrà le tutele», dicono gli urbanisti Teresa Cannarozzo e Giuseppe Trombino. «Facciamo appello alle persone di buon senso che speriamo si trovino ancora all’interno dell’Ars, affinché si fermino a riflettere prima di votare un ddl che potrebbe produrre effetti devastanti per la nostra memoria storica», dice il presidente di Legambiente Sicilia, Mimmo Fontana.
L’Anci Sicilia - attraverso il Pd – ha presentato un pacchetto di emendamenti che, se approvati, salvaguarderebbero i comuni che hanno già approvato i piani particolareggiati: ma in Sicilia sono appena una decina su 390 – tra i grandi ci sono Palermo, Siracusa, Ragusa – e resterebbero fuori, per esempio, i gioielli barocchi di Noto, Scicli e Modica, ma anche Catania. «Il disegno di legge va bloccato e ripensato», insistono le associazioni.
All’Ars il Pd è spaccato: se tra i deputati che hanno firmato la proposta di legge c’è Antony Barbagallo, sindaco del piccolo comune di Pedara nel Catanese, il capogruppo dei democratici Baldo Guicciardi ha firmato gli emendamenti dell’Anci. «La legge è uno scempio», attacca Manlio Mele, responsabile Beni culturali del Pd siciliano. In mezzo alla bagarre ci sono i 5stelle. Il presidente della commissione Territorio e Ambiente è Giampiero Trizzino, grillino: «Non condivido la proposta – dice – ma ci tengo a precisare che non vuole snaturare ma solo accelerare le procedure di recupero». In aula si annuncia battaglia.
Le regole immolate sull’altare della fretta
di Teresa Cannarozzo
Purtroppo, per incentivare gli interventi edilizi la proposta legislativa si fa portatrice di un’inquietante serie di “semplificazioni”, ricorrendo a regole generiche e sommarie, che consentiranno di omettere le analisi storiche e urbanistiche delle diverse realtà territoriali, dimenticando che i centri storici non sono la somma di case, di chiese e di palazzi, ma sono strutture urbane di antica formazione, che costituiscono la parte più pregiata della città contemporanea, il cuore e il palinsesto della memoria collettiva. Per essere più chiari questo significa che si dovrebbe conoscere quale è il ruolo che i centri storici svolgono oggi e di che cosa hanno bisogno per essere abitabili confortevolmente ed essere immersi nella contemporaneità. Quali funzioni devono essere inserite oltre quella residenziale? In che stato è l’accessibilità, la mobilità, i parcheggi, la rete idrica, le fognature, il consumo energetico, le reti immateriali? Questo significa che prima si deve fare un piano, anche quello semplificato, e poi si passa alla scala edilizia. Assumendo come prioritari la velocizzazione e la semplificazione, vero e proprio «mantra» di questi tempi fatui e mistificanti, si corre il rischio di evadere gli obiettivi della tutela sanciti dalla Costituzione, ma anche di mancare quelli di una valorizzazione «sostenibile».
In particolare il disegno di legge metterebbe il proprietario e il suo tecnico di fiducia nelle condizioni di trasformare un edificio a seguito di dichiarazione di inizio di attività, corredata semplicemente da una documentazione grafica e fotografica, in base alla quale attribuire motu proprio la tipologia di appartenenza all’edificio (?) ed i conseguenti tipi di intervento.
Si tratta di un gravissimo arretramento culturale e tecnico che non tiene conto dell’evoluzione della materia a partire dal 1960, anno in cui venne fondata a Gubbio l’Associazione Nazionale Centri Storici-Artistici (ANCSA) con la partecipazione del Comune di Erice, come socio fondatore, quando si sancì che i centri storici sono organismi da tutelare nell’insieme, quindi in termini «urbanistici » che integrano gli aspetti paesaggistici e i rapporti spaziali tra il costruito e le aree libere. La Corte Costituzionale, con sentenze 182/2006 e 367/2007, ha ribadito il principio costituzionale dell’interesse generale della tutela del passaggio, e dunque dei centri storici, affermando che essa è un «valore primario ed assoluto » che non può essere «subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici». Ma il ddl apporta anche una lesione alla partecipazione dei cittadini ai processi di trasformazione urbana, perché in assenza di un piano, manca la procedura di pubblicizzazione delle strategie progettuali.
La Repubblica online, blog "articolo ", 9 marzo 2015
Queste ore convulse vedono la lenta, ma apparentemente inesorabile, morte del Piano Paesaggistico della Toscana.
Oggi i voti della commissione consiliare hanno stravolto le schede d'ambito del Piano: le parti del piano che 'parlano' ai Comuni e ai loro strumenti di pianificazione attraverso descrizioni, comprensive di valori e criticità, indirizzi, obiettivi di qualità e direttive: la parte che Enrico Rossi aveva provato a salvare dal maxiemendamento iniziale del Pd. Tutto questo è avvenuto col sistematico voto Forza Italia - Pd: un Patto del Nazareno contro il paesaggio toscano.
L'esito complessivo degli emendamenti presentati sarà chiaro solo nei prossimi giorni (la commissione è stata riconvocata giovedì e venerdì, dunque il piano non andrà in aula dopodomani), ma alcuni punto sono già tragicamente chiari.
Le tre schede che riguardano le Alpi Apuane sono state stravolte fin dalla descrizione sintetica iniziale del profilo di ciascun ambito, reso omogeneo (Lunigiana eguale alla Versilia, e alla Garfagnana) con la ripetizione di un testo 'precotto' che sostituisce interamente i testi originali, esaltando l'attività di cava come unico tratto significativo del paesaggio di questi territori (da Zeri, a Pontremoli, da Forte dei Marmi a Viareggio, e così via). Ecco un esempio inquietante dei nuovi testi-tipo: «L'ambito apuano...è interessato da alcuni siti estrattivi... In tali siti, le attività di coltivazione sono svolte in base ad autorizzazioni che compendiano, da oltre 30 anni, valutazioni di compatibilità ambientale e paesaggistica, emesse dagli enti competenti...Prendere coscienza del valore identitario delle cave di marmo è un'operazione necessaria, volta a riconoscere l'importanza storica e artistica di questi luoghi dai quali i grandi artisti hanno tratto materia prima per le loro opere. D'altro canto il marmo è uno dei biglietti da visita della Toscana nel mondo».
E le modifiche non si sono limitate alle descrizioni, ma hanno interessato la descrizione delle criticità, nonché gli indirizzi, gli obiettivi e le direttive.
Sempre il PD ha fatto cancellare una serie di direttive finalizzate a salvaguardare ciò che resta della piana di Lucca, con particolare riferimento al sistema delle Corti lucchesi e alle relazioni tra queste, il centro storico e i beni architettonici presenti nel territorio.
Conseguentemente via libera a nuovi consumi di territorio agricolo: (dove il Piano si proponeva invece di evitarlo o limitarlo); via libera alle nuove espansioni che compromettono la leggibilità dei centri di crinale, via libera alle nuove espansioni lungo l'Arno, addirittura via libera alle discariche ed infrastrutturazioni edilizie nelle balze e nei calanchi del Valdarno.
E ovunque il Piano prevedesse di "evitare" o "limitare" i fenomeni di espansione dei centri, di frammentazione del territorio rurale, di saldatura delle urbanizzazioni, il testo è stato castrato sostituendo quei verbi con versioni inerti come "contenere" o "armonizzare".
Così i nuovi processi di artificializzazione della costa, delle dune, delle aree umide non vanno più evitate ma solo "contenute".
E via libera anche a nuove "piattaforme turistico-ricettive" sulla costa tra San Vincenzo e Follonica, nonché all'Elba: dove questi insediamenti erano invece segnalati come un modello da non ripetere.
Così sfigurata, la parte del Piano che si proponeva – senza prescrizioni ma soltanto con un quadro conoscitivo estremamente approfondito – con indirizzi e direttive, di 'qualificare' maggiormente la pianificazione locale perde gran parte della sua legittimità tecnico-scientifica, oltre alla sua efficacia normativa.
Paradossalmente il Piano che uscirà da questi emendamenti sarà un piano basato più sui vincoli del Ministero per i Beni culturali che sulla capacità della Toscana di darsi strumenti per un buon governo del territorio e del paesaggio.
È la vittoria della linea Renzi-Lupi-Pd toscano sul Piano Marson-Rossi? Sembra proprio di sì.
L'unico a poter ribaltare la situazione – in extremis, e ormai direttamente in Consiglio – sarebbe proprio Enrico Rossi.
Ma vorrà e potrà farlo?
Dalla Cavallerizza a Torino ai "Cantieri che vogliamo" a Palermo, dal Teatro Marinoni a Venezia al cinema Palazzo a Roma, rinasce forse in Italia un movimento, per decenni sopito, di riappropriazione degli spazi pubblici: una vicenda da ricordare. Micromega, newsletter 9 marzo 2015
A Torino gli spazi della Cavallerizza Reale sono stati occupati contro la minaccia di cartolarizzazione e privatizzazione. E sono diventati immediatamente un luogo di ritrovo e di cultura. Al termine di tre giorni di manifestazione, che segnano una tappa importante dopo nove mesi di occupazione, Angelo d’Orsi ha fatto questo intervento.
Ma soprattutto si sconvolse il volto di città già piagate dai bombardamenti: la ricostruzione fu selvaggia. E la scelta del trasporto su gomma, il privilegiamento del trasporto privato, la folgorazione dell’automobile velocizzò tutto, ma congestionò le città, e ne snaturò l’anima. Gli spazi dell’agorà, essenza della polis, furono vilipesi, maltrattati. E scendere in piazza, sulla base di un Codice penale che era ancora quello fascistissimo di Alfredo Rocco, fu comunque, a lungo, per tutti gli anni 50 un reato potenziale. Ci pensava la Celere, dopo le estenuanti attese per un’ “autorizzazione” della Questura. Si toccò con mano il divario tra la legge (la Costituzione) e la sua “applicazione ; sulla base di leggi subordinate, ma le sole in realtà in atto. I Codici! CP e il micidiale Testo Unico delle Leggi di PS.
Ma accanto gli squilibri interni, emergeva il divario tra centri e periferie urbane. La letteratura e l’arte si mostrarono quasi sempre più sensibili della politica: abbiamo scoperto la realtà drammatica delle borgate romane grazie ai primi due romanzi di Pasolini, delle periferie milanesi grazie a Rocco e i suoi fratelli di Visconti. Abbiamo capito la realtà della Speculazione edilizia grazie all’omonimo romanzo di Italo Calvino (1963) ambientato in Liguria, o al meraviglioso film denuncia su Napoli Le mani sulla città di Francesco Rosi, che è dello stesso anno. Esistevano, certamente, riviste accademiche che cominciavano a studiare quelle realtà, ma la classe di governo non le leggeva, e quando andava al cinema si accontentava del “divertimento”.
Il 1963 è pure l’anno in cui nasce il Centrosinistra, dopo il preludio dell’anno prima, il ‘62, che, nondimeno, è anche l’anno di Piazza Statuto a Torino: la più grande rivolta operaia dagli scioperi del ’43, nella città, probabilmente la più grande in Italia: una rivolta contro il sindacato padronale, una manifestazione di autonomia dei proletari che si riprendono gli spazi centrali della città, che riaffermano il proprio diritto a usarli, come palcoscenico, rivendicando l’identità tra polis e agorà; la città non può insomma essere considerata un mero spazio fisico, non è il dove abito, dove dormo, dove mangio, dove amo, dove soffro, 24 ore su 24; la città è, o deve essere, soprattutto il luogo politico, simbolico, culturale, antropologico, estetico che dà spessore e senso non tanto alla esistenza del singolo, quanto alla con-vivenza: che è la base della politica. Platone docet! Ma il singolo può vivere in solitudine? È così beata la solitudo?!
La città è la risposta. E l’elogio della solitudo viene sempre da chi non ha il problema dell’essere solo. La città che invece il capitalismo della Repubblica nata dalla Resistenza stava costruendo era un posto sempre più invivibile, sempre più caotico, sempre più deprivato di senso.
2. Ma esistevano eccezioni. Furono due ministri, “moderati”, il leader repubblicano Ugo La Malfa, ministro del Bilancio, che introdusse in concetto della Programmazione economica, che aveva come obiettivo ridisegnare lo sviluppo del Paese, e dunque anche delle aree urbane, superare gli squilibri (economici, demografici, culturali…), e il democristiano di sinistra Fiorentino Sullo, che si pose in testa, e cercò di far entrare in quella dei suoi compagni di partito, la necessità e l’urgenza di riformare il modello di crescita delle città; fu un politico intelligente e coraggioso che leggeva e che aveva capito l’importanza della questione, anche sulla base degli studi dell’INU, Istituto Nazionale di Urbanistica, dove operavano i maggiori intellettuali del settore. Ovviamente la sua riforma fu bocciata: si parlò di comunismo, naturalmente.
Ma da tanta parte la questione veniva riproposta, e se non venne accolta a livello nazionale cominciò ad essere accolta a livello territoriale, provinciale e comunale, e poi, dal 1970, regionale. La città non poteva essere la giungla, e occorreva cominciare se non a privilegiare, almeno a tener conto degli interessi generali, ma fu spesso, una lotta vana, anche se non mancarono risultati positivi,che non vanno sottovalutati.
Ma nel 1966, l’alluvione di Firenze (e una “anomala” acqua alta a Venezia, la più grave mai verificatasi, esattamente nello stesso giorno, il 4 novembre, paradossalmente “festa della vittoria”) resero drammatica l’urgenza di un cambio di rotta. Il ‘68 era alle porte, per fortuna, dobbiamo dire: anzi il ‘68/69. È un errore isolare il primo anno: in Italia, diversamente dal resto dei Paesi coinvolti dalla contestazione, ci fu una sostanziale, forte alleanza studenti/operai. E la città divenne il luogo dell’azione. Torino fu l’epicentro, grazie alla Fiat, e al suo bando per l’assunzione di trentamila nuovi operai, ovviamente provenienti dal Sud. Con tutti i problemi che al Nord come al Sud questo avrebbe procurato, e che in effetti procurò: perdita di energie giovanili, rinuncia a politiche di occupazione nel Mezzogiorno, costi sociali enormi per l’amministrazione cittadina, problemi di adattamento, situazioni abitative precarie, a Torino. Gli assunti andavano a vivere in baracche! O in forme di coabitazione allucinanti. Come i migranti non italiani di oggi. Nihil sub sole novi.
Soprattutto va notato che per la prima volta la lotta non richiamava solo obiettivi tradizionalmente, vorrei dire esanguamente“politici”, ma sostanzialmente, politici, riguardanti la polis in tutte le sue problematiche. Come ha scritto Edoardo Salzano:
«I fatti di Torino, gli altri scioperi in numerose province nei mesi successivi, le proteste degli abitanti delle baracche e negli altri insediamenti impropri, il ripetersi delle occupazioni di alloggi (e dall’altra parte, l’esistenza di numerosi alloggi i cui canoni d’affitto erano bloccati ai valori di prima della guerre) ponevano in primo piano la necessità di una nuova politica della casa. L’autunno del 1969 fu il momento più alto del conflitto: si trattava di affermare il diritto alla città come componente essenziale di una società riformata» (La città come bene comune, in Historia Magistra. Rivista di storia critica”, 8/2012).
Eppure, malgrado la morte della sinistra, una nuova opposizione sociale, diffusa, fuori dai partiti, si è andata materializzando, nell’ultimo decennio, soprattutto, incentivata dalla crisi e dall’assenza di risposte ad essa, se non nell’interesse dei ceti privilegiati. Una opposizione che ci ripropone la piazza, non semplicemente come luogo di incontro e svago, dei traffici e del divertimento, dei commerci e delle esibizioni; ma come luogo di lotta. È il “ritorno dell’agorà”, ossia il ritorno della politica nel senso più alto e nobile, una politica dal basso, che rovescia le gerarchie, che rifiuta l’istituzionalizzazione, che vuole mettere insieme tutti i diritti, e dar vita a un progetto complessivo, “olistico”.
Talora il divertimento ha preso la mano alla politica, va detto: si pensi al “Concertone del Primo Maggio”, ma si pensi del reato alla stessa manifestazione ”ufficiale”. Talaltra si è costruito un vero progetto sociale complessivo, a partire, questo è un dato rilevantissimo, non sempre, tradizionalmente, dalle periferie, ma anche sovente dal centro, non sempre dalle fabbriche o dalle nostrane favelas, bensì dai luoghi della cultura: i teatri, i cinema, gli spazi dedicati alle forme artistiche.
In questo generale ritorno dell’agorà, che abbiamo salutato con entusiasmo non solo in Italia, anzi, specie altrove, dalla Spagna alla Grecia, e anche in talune situazioni mediterranee, prima che fossero inquinate da agenti esterni di varia provenienza, vanno sottolineate e sostenute esperienze sociali che sono esperimenti politici, come questo, La Cavallerizza occupata, e come la Verdi 15 prima, come il Teatro Valle di Roma, il Coppola di Catania, i “Cantieri che vogliamo” della Zisa, a Palermo, Il teatro Marinoni di Venezia, o le Sale DOCS sempre a Venezia, il Cinema Palazzo a Roma, l’Asilo di Milano eccetera…
Si tratta di una nuova primavera culturale che esprime il bisogno di una politica autentica, con la riappropriazione della essenza della parola e del concetto, connessi come si sa allo stare insieme nella polis. Nella città. Sono esperimenti di straordinario significato, al di là della loro durata, e dell’effettivo valore della proposta “culturale” che sono in grado di offrire. E sono esperienze che occorre moltiplicare, farle diventare, come si dice oggi, “virali”. E si tratta di un virus, quello della cultura, che non può essere fermato né con barriere fisiche, né con le forze di polizia, né con gli interventi della magistratura o gli ukaze dei sindaci.
La cultura non si mangia, ebbe a dire un tale, ebbene credo che tutti noi qui possiamo dire che senza cultura non v’è politica, non v’è umanità. E poiché sono convinto che la cultura non possa essere distaccata dalla realtà, sono qui a testimoniare con la mia presenza che la politica autentica ha bisogno di un fondamento culturale, ma anche che uno studioso, un professore, un artista se vuole essere un intellettuale deve abbracciare interamente la sua epoca, e farsi carico dei problemi che in essa si propongono, e individuarne le cause, denunciarne le responsabilità, e, sempre soprattutto, togliere il velo che nasconde la verità. Perché, dire la verità, arrivare insieme alla verità, come insegna Gramsci, è l’atto più profondamente rivoluzionario che si possa compiere. E anche il più necessario.
Venezia. «Patrimonio in svendita, doppio esposto. I comitati scrivono al Comune: "Illegittima la concessione alla Biennale di un'area che la Variante destina a uso collettivo: quello spazio deve restare al Comune". Carte in Procura e alla Corte dei Conti». La Nuova Venezia, 8 marzo 2015 (m.p.r.)
Un caso esemplare di antropofagiaculturale: una cultura e una civiltà, che per ignoranza sordida, perservilismo verso le parole vincenti del renzusconismo, e soprattuttoper compiacere i Mazzaró, distrugge se stessa. La Repubblica,ed Palermo, 3 marzo 2015
DEMOLIRE e ricostruire. Oggi pomeriggio approda all’Assemblea regionale un disegno di legge sui centri storici che, se approvato così com’è, darà la possibilità di abbattere e ricostruire nel cuore delle città siciliane, da Ortigia a Palermo, da Ragusa Ibla a Catania. Il ddl “Norme per favorire il recupero del patrimonio edilizio di base dei centri storici” è una proposta approvata al- l’unanimità in commissione Territorio e Ambiente che snellisce in modo sostanziale le procedure prevedendo la possibilità di intervenire, nella maggior parte dei casi, senza ricorrere a strumenti urbanistici ma con una semplice comunicazione seppur corredata di nullaosta e pareri. Una legge che prevede la «ristrutturazione totale mediante demolizione» finora non con- sentita nei centri storici. Prima di arrivare in aula il disegno di legge dovrà superare l’ultimo ostacolo:l’Anci ha chiesto una audizione last minute e l’ha ottenuta per oggi alle 10. «Incontreremo il presidente Leoluca Orlando», dice il presidente della commissione Giampiero Trizzino, Movimento cinque stelle.
L’Anci attraverso alcuni emendamenti presentati dal democratico Giuseppe Lupo – il termine per la presentazione è scaduto ieri a mezzogiorno, una cinquantina le proposte presentate – punta a non far valere le nuove regole nei centri storici della grandi città, quelli dotati di piani particolareggiati. Ma Trizzino avverte: «Il «Il ddl è stato già abbondantemente discusso, siamo pronti ad accogliere qualche suggerimento ma non a stravolgere lo spirito della legge». Del resto lo stesso Lupo assume una posizione morbida:«Èimportante che l’Anci venga ascoltata». Anche perché tra i firmatari del disegno di legge c’è il deputato del Pd Antony Barbagallo che milita nella sua stessa corrente. E che spiega: «La ratio è quella di sburocratizzare gli interventi nei centri storici per agevolarne il recupero. Nel nostro percorso in commissione abbiamo sentito tutti, dalle Soprintendenze alle asso- ciazioni e abbiamo ottenuto un largo consenso».
Ma cosa prevede in dettaglio il testo che arriva in aula? Anzitutto una classificazione minuziosa delle tipologie edilizie – di base, monumentale, moderna – ma anche un elenco dettagliato degli interventi ammessi. Ed è proprio all’articolo 3 che si prevede la possibilità di demolire il patrimonio edilizio non vincolato «previa acquisizione del permesso di costruire e del- l’autorizzazione della Soprintendenza». Gli edifici ricostruiti dovranno ricalcare quelli demoliti e dovranno essere «coerenti con il contesto». La legge prevede anche la possibilità di «accorpamenti edilizi» e di «ristrutturazione urbanistica con ridefinizione dell’assetto viario». «Significa – dice Barbagallo – che nei centri storici delle città, da Ortigia a Palermo, si potrà intervenire seriamente sui contesti edilizi fatiscenti attraverso piani particolareggiati che modifichino pure l’assetto viario». Un’altra importante novità riguarda la possibilità di presentare programmi costruttivi di edilizia residenziale pubblica. «L’edilizia convenzionata in tempi di crisi è una risposte alle giovani coppie», continua Barbagallo che difende il provvedimento. «È una legge che finalmente interviene sul serio sui centri storici finora rimasti nel degrado, bloccati da una eccessiva burocrazia».
Ma le polemiche sono dietro l’angolo: diverse associazioni nelle scorse settimane hanno attaccato il ddl denunciando il rischio di «rottamazione» dei centri storici. «La legge – dice Trizzino – non abbassa assolutamente le tutele, ma velocizza il recupero. Abbiamo fatto nostri tutti i suggerimenti di Italia Nostra, a esempio. L’iter della legge è stato lungo e ci ha permesso di ascoltare tutti. Stupisce che l’Anci si sia mossa soltanto adesso».
Scenari futuri di mobilità collettiva: l'auto senza pilota. Ma siamo proprio sicuri che l'unica innovazione sia quella di poter pasticciare col telefonino o leggere il giornale mentre si viaggia? Corriere della Sera, 7 marzo 2015, postilla (f.b.)
«Forse sarebbe meglio definirla passività del tempo libero». Chissà se il filosofo Eric Fromm, nell’anno 2023, riterrebbe ancora l’automobile una camicia di forza, un abito stretto, una sovrastruttura prodotta dalla società dei consumi. Tra meno di dieci anni l’uomo non dovrà più guidare la propria vettura. Ci penserà da sé, disintermediando le nostre abilità al volante e (anche) le nostre disattenzioni. Cinquanta minuti al giorno in più per noi — calcola un profetico studio della società di consulenza Mc Kinsey presentato in questi giorni al Salone internazionale di Ginevra —, noi guidatori per diletto o per imposizione, noi 1,2 miliardi di persone. Risparmio globale complessivo: 140 mila anni uomo.
Benvenuti nell’era della guida senza conducente. Procede a tappe forzate il progresso, spinto dagli investimenti dei colossi hi-tech come Google e dei grandi produttori automobilistici, consapevoli che quel differenziale di costo — circa 10mila euro a prototipo — sia il vero lusso del futuro. Immaginate che la vostra auto si converta in un moderno Frecciarossa. Amanti del libro o con il tablet di ordinanza, asserviti al vostro smartphone o tremendamente innamorati dei quotidiani avete davanti a voi almeno un’ora al giorno di consumi elettronici o culturali. Aggiuntivi. Al posto dei vostri occhi, delle vostre mani e dei vostri piedi troverete sofisticati sistemi radar, delicatissime camere per acquisizioni video in tempo reale per leggere la carreggiata senza patemi. In sintesi: sistemi di intelligenza artificiale utilizzati ora solo nella robotica industriale. Secondo Michele Bertoncello, associate partner di Mc Kinsey, curatore per l’Italia della ricerca, a fregarsi le mani saranno soprattutto i produttori di videogiochi. E le grandi major americane dell’intrattenimento, che presumibilmente amplieranno a dismisura il loro giro d’affari in un tempo ora giudicato inutilizzabile. L’ipotesi che è l’automobile a guida automatica possa persino incrementare la condivisione, i giochi di società e quelli di ruolo, la fruizione di talk-show e contenuti in streaming.
D’altronde finora il maggiore interrogativo riguardava l’individuazione di una sorta di «conducente a riposo», in grado di intervenire in caso di emergenze ripristinando la guida manuale. Rileva lo studio Mc Kinsey che le vetture in circolazione dal 2023 — dopo una prevista sperimentazione su camion e veicoli industriali da qui a quella data — saranno perfettamente in grado di fare autodiagnostica senza la necessità dell’intervento umano. Soprattutto perché gli investimenti dei produttori e delle società hi-tech saranno talmente ingenti da raggiungere straordinarie economie di scala in grado di raggiungere la cosiddetta «massa critica del mercato», cioè circa il 90% dei modelli di automobile ora in circolazione. Non sarà pertanto un servizio a valore aggiunto di nicchia. Tutt’altro. Perché sicuramente non interessa i marchi di lusso ed extra-lusso: le case automobilistiche eviteranno infatti di portare l’intelligenza artificiale su pochi prototipi. Al tempo stesso la guida automatica con buona approssimazione non riguarderà nemmeno il segmento low-cost delle utilitarie. Perché la clientela non sarebbe in grado di permetterselo. Gli osservatori concordano che la guida automatica sarà uno straordinario propulsore della sharing economy. Start-up come Uber, capaci di generare ricavi da capogiro in pochi anni, verranno emulati su larga scala, perché porterà a un importante risparmio sul costo del lavoro. Il (nuovo) tempo libero della guida senza conducente porterà però allo sparizione di posti di lavoro? O meglio: che fine faranno gli autisti di mezzi di linea e di operatori privati? Qui lo studio non contabilizza l’effetto in termini occupazionali, ma la sensazione è che l’avveniristica (e terrificante) analisi dell’università di Oxford secondo la quale il 47% dei lavoratori odierni potrebbe essere automatizzato nei prossimi due decenni, sembra calzare perfettamente a pennello. Presto per dire se ci troveremo di fronte alla cancellazione di un’intera filiera, certo è che l’auto a guida automatica porterà con sé anche la consacrazione definitiva dei veicoli elettrici. Ecco perché potremmo anche giocare comodi alla playstation davanti al volante, ma non dovremo sicuramente dimenticare di ricaricare la vettura prima di un lungo viaggio.
Nell’economia del tempo risparmiato rientra anche il guadagno in fase di parcheggio, incubo di molti alle prese con i centimetri da ricavare dopo infinite manovre perché noi saremo semplici osservatori di mosaici perfetti. Secondo Mc Kinsey ricalibreremo anche la toponomastica. Perchè le aree adibite alla sosta dei veicoli saranno sensibilmente ridotte, addirittura si risparmierà solo negli Stati Uniti circa 5,7 miliardi di metri quadri di suolo urbano. Tempo libero guadagnato anche in fase di manutenzione, perchè l’auto automatica andrà in officina da sola, al netto delle complicazioni riguardanti i pagamenti (qui sarà impossibile non essere presenti con la propria carta di credito). Resta il dubbio sulla responsabilità civile in caso di danni. Presumibilmente i colossi assicurativi, con l’abbattimento degli incidenti, riconvertiranno anche le loro strategie (e i loro massimali). Resta l’interrogativo sulla passività (o l’attività) del tempo. Non saremo più schiavi dell’auto ma dei videogiochi? E se Fromm fosse ancora contemporaneo?
postilla
Vorremmo, come l'autore dell'articolo, partire da una considerazione filosofica: non solo esiste ancora, e sempre, una distinzione tra destra e sinistra, tra conservazione e progresso collettivo, ma si tratta di una distinzione evidente anche nella fantascienza. Anzi, che distingue la fantascienza autentica dalla letteratura di evasione commerciale vagamente fantasy. Sostenevano infatti i critici del genere (in testa il leggendario Theodore Sturgeon) che fare davvero science fiction non potesse significare ambientare una storia in uno scenario artificiale, determinato da qualche genere di fatto tecnologico o ambientale, dove l'azione però si sviluppava secondo canoni del tutto classici. Ovvero, come per esempio succede nei cartoni animati dei Flintstones (gli Antenati) o dei Jetsons (i Pronipoti) girare un telefilm suburbano, dove le villette e i supermercati sono semplicemente fatti di pietra grezza, oppure a reazione atomica. Il vero futurologo racconta le eventuali conseguenze dell'innovazione, guardando davvero avanti, così come in fondo aveva fatto probabilmente anche l'innovatore stesso. L'automobile senza autista, con buona pace dei venditori di videogiochi e assimilati, apre scenari inediti per la mobilità, i produttori, e soprattutto la collettività, intesa sia come cittadini/consumatori che come le istituzioni che li rappresentano. A partire da una considerazione apparentemente banale, che però sfugge a tantissimi: con un mezzo che si muove senza pilota, si potrebbe eliminare in tutto o in parte (con una adeguata programmazione e intervento pubblico) la barriera storica fra mobilità individuale e collettiva. In pratica si potrebbe già oggi pensare a una sorta di fusione tra i sistemi attuali di car sharing e quelli di autobus, magari legandoli allo sviluppo parallelo di una rete di rifornimento da energie rinnovabili, e ovviamente allargando il sistema anche agli insediamenti a non altissima densità, oggi esclusi. Ma bisognerebbe appunto pensarci: alcuni produttori già lo fanno, parlando di progressiva demotorizzazione; lo fa anche qualcun altro? Speriamo proprio di si (f.b.)
Caro Presidente Enrico Rossi,
le scrivo perché, per quello che conosco di lei, sia direttamente, sia per sue dichiarazioni politiche, mi sembra impossibile che lei possa avallare la disciplina del Pit-Piano paesaggistico relativa alle Alpi Apuane così come emerge dagli ultimi emendamenti licenziati dalla sesta commissione. Non voglio qui dilungarmi sui molti aspetti negativi. Voglio solo richiamare la sua attenzione su uno che mi sembra peggiore di tutti e, addirittura, paradossale. Si tratta della facoltà concessa, nelle cave attive o riattivabili, di continuare l'escavazione con il 'limite' del 30% di quanto estratto storicamente, a partire, cioè, dalla prima autorizzazione: un vero e proprio regalo alle ditte di escavazione che vanifica il ruolo regolativo dei piani attuativi d'ambito. In sintesi il Piano paesaggistico che ha come compito istituzionale la tutela del territorio consentirebbe di scavare dalla montagna il 30% di quanto estratto nel passato senza alcuna valutazione preventiva, in modo automatico, come un diritto acquisito. Coloro che mirano a soddisfare le imprese di escavazione oltre ogni loro speranza se ne assumano la responsabilità politica, ma non si nascondano nel Piano paesaggistico. Mi auguro vivamente che lei non sia fra questi.
Paolo Baldeschi
«La Capitale è una città infelice, individualista, caotica, con i trasporti inefficienti e i suoi spazi pubblici soffocati dalle auto private. Per uscire da questo buco nero occorre che la mano pubblica si imponga agli interessi particolari e disordinati dei singoli». Il manifesto, 6 marzo 2015, con postilla
La lingua latina possiede due termini sinonimi per indicare la città: urbs, riferito alla struttura, agli edifici, le strade, le piazze, e civitas. Quest’ultimo sta a indicare la comunità dei cittadini. Ma non semplicemente il loro insieme demografico, anche la loro soggettività, il loro essere consapevoli di appartenere a uno spazio speciale, con le sue regole, i suoi agi rispetto alla campagna, la sua bellezza. Non per niente da quella stessa radice viene il termine civiltà.
Parola scomparsa dal lessico corrente, troppo altisonante per le nostre società, dove governanti e governati si accontentano con modestia di qualche punto di Pil. Eppure alcuni vecchi termini della nostra civiltà linguistica – manipolati oggi dal servilismo anglofilo dei media — dovremmo disseppellirli, farli risplendere di nuovi significati. Lo scorso anno lo ha fatto suggestivamente Giancarlo Consonni (La bellezza civile. Splendore e crisi delle città, Maggioli) di cui ha discorso su questo stesso giornale Adriano Prosperi (4.7.2014). La bellezza civile, espressione coniata da Giambattista Vico, dovrebbe tornare in uso a significare una aspirazione delle nostre comunità cittadine, che l’hanno a lungo perseguito e realizzato. Lo stare insieme entro ordini e spazi in cui la bellezza delle forme urbane dovrebbe tendere ad armonizzarsi con le virtù civiche, l’osservanza delle leggi intesa come rispetto degli altri, il sentirsi comunità cooperante al fine di conseguire scopi superiori di prosperità comune, di umanità e cultura.
Se osserviamo oggi Roma sotto il profilo della civitas comprendiamo alcuni fenomeni importanti. Lo stile di vita dei cittadini, la loro condizione, influisce direttamente sull’urbs, ne oscura le forme, deturpa la sua bellezza. Consideriamo solo un aspetto, ma rilevante, della vita dei romani: il modo in cui si spostano nello spazio della città. Il traffico privato su gomma, l’uso dell’automobile è cresciuto di anno in anno, emarginando costantemente il trasporto pubblico. Il numero dei veicoli in città tende a superare quello dei cittadini: 978 ogni mille abitanti, compresi vecchi e bambini, ricordava l’anno scorso Francesco Erbani in Roma Il tramonto della città pubblica (Laterza). I km delle linee di metropolitana sono inferiori perfino a quelli di Atene, di Bucarest, di Teheran. Nella città che negli ultimi decenni è stata costruita secondo gli interessi di pochi, senza linee ferrate, accade che ognuno si sposta da sé, con la propria auto, con danno e svantaggio di tutti. Con svantaggio, perché il traffico cittadino è ormai ridotto a un ingorgo permanente, ci si muove a fatica, sempre più lentamente. Con danno, per la crescita dello smog e del particolato nell’aria che tutti respiriamo, per l’usura dei monumenti, la diffusione dello sporco sugli edifici, la cancellazione visiva del paesaggio urbano.
Chi gira per Roma scorge sempre meno le sue forme sontuose e sempre più le sue piazze e le sue strade e occupate da una fitta fila di auto in sosta. Ci sono quartieri dove la densità di quelle scatole metalliche, che satura lo spazio di ogni piazza, strada, marciapiede fa pensare a un assedio permanente. Dà al cittadino che passa un senso di soffocamento. Roma è ormai un unico, immenso parcheggio, un dormitorio, un cimitero di macchine all’aperto. Tale condizione dell’urbs a sua volta svuota la civitas dei romani, abbrutiti dentro un paesaggio di latta che li deprime, li spinge a cercare soluzione personali, a farsi orientare ancora più perversamente dall’ideologia individualistica dominante, la grande nemica della città. Si arrangiano e cercano di sopravvivere nel caos coi propri mezzi. E il circolo vizioso trascina tutti verso il buco nero del disagio collettivo crescente, dello spreco di tempo, dell’inagibilità dello spazio, dell’infelicità urbana. Dove può andare una città infelice? Quali fini di civiltà può assegnarsi?
E allora, tremenda domanda: come spezzare il circolo che strangola la capitale? Non è facile trovare la «formula che ci salvi» dopo decenni di occupazione caotica del territorio, dopo aver riempito i dintorni di Roma di centri commerciali che richiamano traffico veicolare da ogni punto della città. Si può indicare qualche stretto sentiero d’avvio. Oltre a quelli noti e costosi: la rete della metropolitana. Una ventina di anni fa tante strade di Roma, anche in quartieri periferici, erano state contrassegnate come corsie preferenziali. Riservate agli autobus e ai taxi. Ben presto sono diventate parcheggi permanenti di auto in sosta. Il tempo poi ha finito col cancellarle.
Infine sono state in gran parte trasformate, anch’esse, in strisce blu per le auto dei residenti. Ecco, una iniziativa importante potrebbe essere quella di ritornare indietro: cominciare, un quartiere alla volta, a ridisegnare le corsie preferenziali, almeno nelle strade di grande scorrimento. Occorre aprire un varco di convenienza ai cittadini che usano i mezzi pubblici, rendere i loro spostamenti più veloci , più economici, più agevoli rispetto alle auto.
Per una tale iniziativa bisogna essere consapevoli che la mano pubblica, il governo cittadino deve imporsi sugli interessi particolari e disordinati dei singoli. Occorre dare man forte al sentimento della civitas, al sentirsi membri di una stessa comunità con comuni bisogni, obbligati a regole collettive. Si rende insomma necessario ricreare un nuovo disciplinamento civico. Perciò il potere pubblico deve scoraggiare l’uso privato della macchina . Questo avviene ormai da decenni in gran parte delle le città d’Europa, sicché, con ogni evidenza, la civiltà urbana coincide apertamente, da Berlino ad Amsterdam, da Oslo a Stoccolma, con l’assenza di automobili dai suoi spazi.
Scoraggiare i cittadini dall’uso dell’auto privata non solo incoraggia il ricorso a nuove forme di trasporto, come il car sharing, ma incide in maniera rilevante sul bilancio delle famiglie. Il possesso dell’automobile, talora anche due e tre per famiglia, è sempre più costoso e altera lo stile di vita, la scelta dei consumi. Quanto danaro si spende per l’acquisto di un auto, per l’assicurazione, la tassa di circolazione, la manutenzione, le riparazioni periodiche, le multe, l’acquisto di carburante?
E quanto tale spesa spinge a risparmiare sull’acquisto di libri e giornali, accesso ai musei e ai concerti, sulla qualità del cibo, che dovrebbe essere invece al primo posto nella gerarchia dei consumi di un cittadino italiano del nostro tempo?
Così il governo cittadino potrebbe incoraggiare una svolta culturale importante, ridare vigore a una nuova civitas, anche marcando politicamente la propria condotta con un gesto di giustizia sociale. I mezzi pubblici servono soprattutto ai tanti cittadini che la macchina non la possiedono o non possono guidarla perché anziani. La città un tempo apriva le braccia a tutti e ha inventato istituzioni per i più deboli ed emarginati.
Occorre smettere di offrire i suoi spazi agli appetiti disordinati dei più forti. Anche partendo delle città si può cominciare a colpire le disuguaglianze sociali, la peste che spazza e annichilisce le società del nostro tempo.
postilla
Per risolvere i problemi (o meglio, il problema) posti da Bevilacqua, cioè rendere l'urbs adegiata a un futuro civile per la civitas il latino non basta: occorre ricorrere al greco e completare la triade di significati, e contenuti, che l'habitat dell'uomo deve possedere: questo deve tornare a essere , insieme, urbs, civitas, polis. I primi due termini esistono, benché entrambi molto malconci, il terzo, ossia la politica, manca del tutto. A meno che non si voglia definire "politica" il malgoverno dei partiti d'oggi
Un lieto fine per i basalti colonnari sommersi di Grotta delle Colombe, affioranti in una parte dell’imponente falesia basaltica nota come Timpa di Acireale, che si estende sulla costa orientale della Sicilia, circa 10 km a nord di Catania.
È stato infatti accantonato il progetto ideato dal Comune di Acireale che, come era stato riportato lo scorso 11 novembre qui su Eddyburg, col presunto scopo di evitare l’erosione costiera, avrebbe sepolto queste straordinarie formazioni geologiche.
L’amministrazione comunale di Acireale ha infatti riconosciuto l’enorme danno ambientale che sarebbe derivato dalla realizzazione dell’opera e si è attivata per promuovere, con le somme per essa previste, un intervento alternativo. Così l’impegno di Legambiente che, anche mediante il ricorso all’autorità giudiziaria e il sostegno di autorevoli studiosi, di amanti del mare e dei pescatori locali, si era posta l’obiettivo di evitare che quell’assurdo progetto si concretizzasse è stato alla fine premiato.
Questa assai travagliata vicenda, conclusasi, a differenza di tante altre, positivamente, consente di trarre alcune conclusioni e può fornire nuovi stimoli.
È sconfortante che in un periodo di crisi economica e in una regione come la Sicilia, nella quale, per vari motivi, sarebbe oltremodo opportuno realizzare progetti di risanamento ambientale, si seguiti invece a concepire opere inutili, mettendo a rischio beni di straordinario interesse scientifico. Nel caso di Grotta delle Colombe, formazioni geologiche rare nel bacino del Mediterraneo, soprattutto in ambiente sottomarino.
Quanto è avvenuto in questa parte della Sicilia dimostra però che non bisogna rassegnarsi all’idea che distruzione ambientale e spreco di pubblico denaro siano processi ineluttabili. Occorre anzi ripetere che alle illogiche consuetudini di consumo irreversibile del territorio e delle risorse naturali si possono e si devono contrapporre le ragioni della conservazione. Questa inversione di tendenza, in prospettiva, si rivela conveniente anche in termini economici, in quanto nel primo caso i benefici avvengono una sola volta e solo a vantaggio dei realizzatori dell’opera, mentre nel secondo diventano permanenti e diffusi, soprattutto a favore delle popolazioni locali.
Convinti di ciò non ci si è voluti limitare alla semplice gratificazione di aver impedito uno scempio ambientale è si è deciso di impegnarsi, in collaborazione con l’Università degli Studi di Catania, per pervenire alla rapida istituzione di un geosito nell’area in cui affiorano, sia a livello subaereo, sia a livello subacqueo, i basalti colonnari di Grotta delle Colombe.
L’istituzione del geosito consentirà di tutelare quest’area e di promuovere la conoscenza sia dei suoi aspetti geologici, sia di quelli culturali e naturalistici. Tale processo accrescerà la consapevolezza dell’importanza di questo luogo tra coloro che già lo conoscono e soprattutto genererà un nuovo, e qualificato, turismo. A trarne benefici saranno la popolazione locale e, in particolare, i pescatori di Santa Maria La Scala, giacché la visita dei luoghi, essendo le falesie, per le loro morfologie, difficilmente accessibili da terra, si presta ad essere effettuata via mare e quindi con l’inevitabile coinvolgimento dei pescatori stessi.
La difesa dei basalti colonnari di Grotta delle Colombe è servita, infine, a evidenziare, anche grazie al ripetuto intervento dei mezzi di informazione, l’elevata importanza di queste formazioni geologiche, che in Sicilia sono state, invece, a torto, ritenute finora di scarso interesse ai fini della conservazione.
È paradossale, infatti, che in questa regione, nella quale si registra la più elevata presenza di basalti colonnari del Mediterraneo, non si sia ritenuto di prevedere adeguate forme di protezione per la maggior parte di essi, omettendo persino di inserirli all’interno di aree protette anche quando le stesse si trovino a breve distanza dai siti (come nel caso dei basalti colonnari del fiume Simeto, il più grande della Sicilia, di contrada Barrili, privi di qualunque forma di protezione e pertanto non inseriti né nella vicina riserva naturale “Forre laviche del Simeto”, né nel contiguo Sito di Interesse Comunitario ITA070026 “Forre laviche del Simeto”). C’è dunque la speranza che quanto avvenuto per Grotta delle Colombe inneschi in Sicilia un processo che conduca finalmente alla tutela delle più importanti aree in cui affiorano questi particolari prodotti vulcanici.
Il capolavoro del nuovo regolamento urbanistico sta nell'aver accontentato tutti i portatori 'interesse (speculativo) spogliando al tempo stesso la pianificazione d'ogni senso pianificatorio. La città invisibile, 4 marzo 2015
L’approvazione del regolamento urbanistico di Firenze si approssima. Lo zelo con cui è stato redatto è strumentale – ma non ci meravigliamo – ad appetiti minori distribuiti qua e là sul territorio comunale. Il capolavoro consiste però nell’averlo spogliato di senso pianificatorio.
Da una parte, il sindaco arrampicatore aveva fatto partire nel 2011, in variante con piroetta, le grandi aree industriali dismesse sulle quali avrebbe dovuto concentrarsi il disegno condiviso della città futura (Manifattura tabacchi etc.). Dall’altra, i nodi cruciali del piano vengono semplicemente elusi: nessuna vincolante destinazione d’uso, nessun disegno organico per i grandi contenitori, tutti, o quasi, in vendita. Anzi, il sindaco in sedicesimo si arrabatta per trovare acquirenti dal potere taumaturgico. Ma, è bene ricordarlo, per ora solo la Cassa Depositi e Prestiti, società per azioni private con soldi pubblici – sai che bravura – ha comprato al banco della Renzi-Nardella, con puntualità svizzera a trarre in salvo i bilanci comunali.
Che poi il regolamento sia a indici edificatori zero sulle aree rurali (le poche rimaste…) è merito della legge urbanistica regionale di nuovo varo, la 65/2014 che impedisce ogni ulteriore impegno di suolo fuori dalle aree urbanizzate. Dentro alle aree urbanizzate invece gli indici salgono: una coriandolata di concessioni, di edifici che volano e atterrano (i posteri potranno giudicare che risultati darà poi questa norma cervellotica), di premialità fino al 30% sul volume, di parcheggi interrati e a raso, di impianti sportivi.
Avremmo voluto vedere invece un piano a indici edificatori negativi, che annullava vecchie concessioni (area Castello) o nuove inutili edificazioni in luogo di volumi dismessi: chi mai ha sancito che una volumetria concessa a fini produttivo-sociali (fabbriche, opifici etc.) debba trasformarsi automaticamente in appartamenti o in supermercati? Dove sta scritto che, nell’interesse comune, il Panificio militare ad esempio debba mutarsi in centro commerciale anziché in giardino pubblico?
Ma l’interesse comune viene dopo quello particolare: è questo il senso precipuo dell’approvando regolamento, utile forse alla sola normale amministrazione. Per i grossi appetiti le regole evidentemente stanno altrove.
Ilaria Agostini, urbanista, è attivista del laboratorio politico perUnaltracittà
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«Un'altra città. Nella Capitale vanno valorizzate tutte quelle realtà che lottano per i beni comuni. E creare con esse una nuova cultura del cambiamento». Il manifesto, 5 marzo 2015
I contenuti dell’articolo di Sandro Medici sul progressivo degrado culturale della città (Il Sindaco Marino e l’obitorio culturale della Capitale, il manifesto del 28 febbraio) trovano oggettivamente riscontro nell’osservazione quotidiana di tanti cittadini, giornalisti, turisti che provano la sensazione che i noti problemi che già conosciamo e viviamo anziché risolversi sprofondano sempre più in una condizione di cronica e «tranquilla normalità».
Roma, a parte la sua bellezza, è città invivibile; per il traffico, per lo stato delle sue strade, per la sporcizia, l’incuria del suo patrimonio, l’abbandono delle sue periferie, l’assenza di una politica organizzata dell’accoglienza. E’ quanto si sente dire da amici e conoscenti: «vorrei andare a vivere in un’altra città». Restano, a far invidia a queste altre città, il clima mite, il bel cielo azzurro e la bellezza (questa un po’ decaduta per la verità), ovvero tutti quegli elementi che abbiamo ereditato o dalla natura o dalla grandezza della storia. Per il resto nessuna amministrazione riesce più nemmeno a mantenere in salute questi beni preziosi; di valorizzarli nemmeno se ne parla. Manca un progetto complessivo della città (quello dei Fori non può essere l’unico), una visione sistemica dei problemi, una passione dei governanti che sappia saper fare un salto di qualità a questa sonnolenta e pigra (e spesso inefficiente) gestione del quotidiano; serve riaprire la porta del futuro rispetto al quale canalizzare le risorse, gli sforzi e le speranze deluse dei cittadini che hanno giustamente scommesso sulla nuova amministrazione.
Una Capitale non può limitarsi a sopravvivere sulla rendita dei gioielli della nonna: Roma vive in una condizione di perenne sovraesposizione delle proprie condizioni (Roma è una bugia è il titolo di un bel libro di Filippo La Porta), come quel tale pieno di debiti e di toppe che gira su una lussuosa auto tanta da farlo ritenere ad una vista non ravvicinata, un ricco signore benestante. Essa deve rinnovarsi a partire, certo, dalla propria tradizione ma per incontrare un futuro possibile che non siano le vecchie risposte come quella di una città cartolina, di una grande scenografia da aggiungersi ad altre nelle guide del touring. Perché succede sempre che ogni Sindaco che si alterna alla guida di questa città mette nel proprio programma elettorale una qualche grande opera che dovrebbe invertire il suo decadente destino. Opera e opere che poi si vanno ad aggiungere a quelle (promesse) dal suo predecessore fino a formare quel cimitero incompiuto, fatto con lo stadio del nuoto a Tor Vergata, le torri all’Eur, l’interminabile nuvola di Fuksas, l’improbabile nuova stazione Tiburtina, il fantasma della metro C che si nota solo per i crateri a cielo aperto che emergono sulle strade della capitale, formando alla fine quasi una seconda città di rovine. Vie semplici ed indolori per il cambiamento non esistono, ma le difficoltà si possono affrontare a partire da quello che già c’è senza farsi tentare da sensazionalismi o da miracolose ricette di marketing (Rome& you ci ha declassato al ruolo di Las Vegas). E quello che già c’è è abbastanza a Roma per avviare una cultura forte del cambiamento.
Ci sono centinaia di esperienze in corso di gruppi, associazioni libere di cittadini, organizzazioni di quartiere, iniziative culturali, di nuove economie, di recupero di orti urbani, di sperimentazioni di forme di autoconsumo e di progetti (tra cui quello dei Fori), come non se ne vedono facilmente in altre città d’Italia e del mondo. Basterebbe allora, anziché vanificarle, per indolenza, pigrizia o negligenza — o addirittura reprimerle -, valorizzarle, inserirle in un progetto culturale e politico che ne moltiplichi la virtuosità; incoraggiarle allargando il loro campo di azione e di consenso e producendo via via comunità attive ed operose di cittadini come risposta anche alla crescente frammentazione sociale e alla mancanza di risorse economiche, oltreché alla tiepida partecipazione alla cosa pubblica. Si può fare? Si può avviare una cultura e una pratica del cambiamento? Per farlo è necessario abbandonare le vecchie risposte della modernizzazione a tutti i costi, dell’innovazione continua, della pratica sciocca dell’imitazione, della facile propaganda, del puntare a un’opera salvifica, per cercare invece risposte nuove a partire da quella della crescente disuguaglianza urbana che vede i cittadini classificati in gironi, gli uni contrapposti agli altri, gli uni nemici degli altri, come fossimo in una guerra continua a difendere invisibili trincee dentro la stessa città. Così come va interrotta quella narrazione che ci parla di una città disincantata e indifferente; narrazione che in realtà costituisce il supporto ideologico per legittimare pratiche e politiche decisioniste e autoritarie.
Per battere la frantumazione degli interessi divergenti che compongono la ragnatela dei conflitti urbani a bassa intensità (si pensi ai recenti episodi di Tor Sapienza, ai Rom, ai senza casa) e quella delle categorie sociali oppresse da una solitudine che si fa sempre più individuale, serve un progetto culturale forte che costruisca una nuova “coalizione sociale” fatta di tutte quelle figure e soggettività disperse e frantumate che vanno dai precari a vario titolo, ai disoccupati, alle associazioni che lottano per il diritto alla città e per i beni comuni, alle associazioni sindacali, agli studenti e a chi il lavoro nemmeno più lo cerca. Un progetto che restituisca lo status di cittadini legittimi a chi, nei fatti, non lo è già più. Un progetto di nuovo welfare urbano basato sulla solidarietà e la reciprocità tra chi gode ancora delle conquiste del vecchio welfare e chi, nei fatti, ne rimane ormai escluso. Non è facile, tantomeno automatico fare questo, ma è quanto ci si aspetta dal Sindaco Marino e la sua Giunta: molti romani già lo fanno spontaneamente e aspettano, per ora ancora fiduciosi, segnali di incoraggiamento.
Rifondazione comunista al compromesso che Enrico Rossi sta tentando trovare tra il PD toscano, fervido alleato dei proprietari delle miniere passate, presenti e potenziali delle Alpi apuane e i difensori della tutela dei beni comuni e delle prospettive d'un futuro migliore per tutti. Comunicato stampa del 3 marzo 2015
Firenze, 3 marzo. Gli emendamenti presentati da Pd e FI, e a quanto ci pare di capire ripresi sostanzialmente nel cosiddetto Lodo Rossi, stravolgono il piano del paesaggio toscano, lo svuotano nei punti qualificanti e aprono di fatto a una liberalizzazione delle attività estrattive sulle Alpi Apuane.
Oggi più che in millenni di storia si aprono prospettive funeste per tutte le Apuane e il paesaggio toscano. Il nostro impegno principale sarà dunque quello provare ad di azzerare gli emendamenti e con lo stesso spirito parteciperemo convintamente al presidio organizzato sabato prossimo a Firenze a difesa del piano paesaggistico e del paesaggio toscano.
Così Monica Sgherri – esponente di Rifondazione Comunista e capogruppo in Consiglio Regionale. Il divieto – prosegue Sgherri - di nuove estrazioni al di sopra dei 1200 metri di fatto non sarà altro che un mero paravento, una foglia di fico con cui farsi belli a livello nazionale senza però intaccare gli interessi locali che stanno dietro alle attività estrattive.
Infatti il combinato disposto che salva tutte le cave esistenti e quelle dismesse (cancellando il limite temporale -"da non oltre 20 anni"-) liberalizza di fatto l'attività estrattiva sopra i 1200 metri. E sia chiaro non è certo in nome della salvaguardia dei posti di lavoro perché le cave dismesse non occupano un lavoratore!
E' una rendita di posizione inventata e offerta su un piatto d'argento ai proprietari delle cave in nome del "profitto", e aggiungo del profitto “parassitario”. Una rendita di posizione che fa diventare oro una cava dismessa da decenni proprio perché è sopra i 1200 metri.
A questo inoltre si aggiungerà - per baypassare la norma che dal 2020 impone di vincolare il 50% del marmo estratto alla sua lavorazione in loco (unica norma che tutela la risorsa e il lavoro qualificato) -, la possibilità di aumentare del 30% l’attività estrattiva rispetto a quella autorizzata.
Gli emendamenti posti in essere allentano anche le prescrizioni per le cave situate nei parchi e le riserve nazionali e regionali, anche se riguardano vette e crinali. Per concludere, un ultimo appunto sulla filosofia degli emendamenti presentati.
Non contenti della differenza tra prescrizioni e direttive, tra obiettivi generali, di qualità o specifici, si vorrebbe ridurre a niente il valore conoscitivo delle schede di ambito al fine dei raggiungimento degli obiettivi e per questo un emendamento proporrebbe un piccolo comma aggiuntivo che recita “le criticità contenute nelle schede di ambito costituiscono valutazioni scientifiche non vincolanti a cui gli enti territoriali non sono tenuti a fare riferimento nell’elaborazione degli strumenti di pianificazione territorio e urbanistica”.
Questo comma è esemplificativo della filosofia a cui si ispirano gli emendamenti presentati, potremmo dire che si tratta di una farsa ma in effetti è più propriamente una tragedia, perché si mira a ridurre e vanificare il piano del paesaggio.
La gigantesca migrazione incrociata dei soprintendenti italiani, che è in corso in queste ore, assomiglia più ad un massacro delle competenze che non ad un vero rinnovamento. La Uil parla di «palesi scorrettezze e arbitri»: e se forse è presto per dare un giudizio complessivo, colpiscono (negativamente) scelte come quella di rimuovere da Napoli Giorgio Cozzolino (colpevole forse di essersi opposto alla commercializzazione delle piazze di Napoli), e più in generale di gettare al vento comprovate esperienze virtuose.
Ma la scelta più incomprensibile appare quella di affidare la Soprintendenza più importante d'Italia – quella di Roma – a Renata Codello, fino a ieri soprintendente ai monumenti di Venezia.
Con questa decisione il Ministero sembra aver voluto «onorare e riconoscere ai livelli più alti» – come ha subito notato, elegantemente, l'interessata – il lavoro veneziano della Codello.
Un lavoro, in questi anni, al centro di pesantissime e fondatissime critiche da parte dell'opinione pubblica veneziana, delle associazioni di tutela, del migliore giornalismo italiano: che hanno rimproverato alla Codello nientemeno che i «silenzi sul raddoppio dell’hotel Santa Chiara (vetro, cemento e acciaio: sul Canal Grande) e sulle immense navi da crociera che sfilano davanti a San Marco». Italia Nostra ha messo in file le prove della Soprintendente Codello: la «distruttiva lottizzazione di Ca’ Roman», lo «scandaloso progetto di “restauro” del Fontego dei Tedeschi», il raddoppio del Santa Chiara, «i progetti al Lido che hanno ridotto l’isola a spettro di se stessa».
Per tutta risposta, la Codello ha querelato Italia Nostra e Gian Antonio Stella. Scelta che non certifica esattamente un attitudine ad un aperto e franco confronto con i cittadini.
Insomma, proprio ciò di cui ha bisogno la già provatissima Capitale. E uno si chiede: ma il ministro Dario Franceschini, il Segretario Generale del Ministero e il Direttore delle Belle arti lo leggono il «Corriere della sera»? La scelta di premiare la Codello con la Soprintendenza di Roma sembra così incredibilmente inopportuna da far quasi pensare che lo leggano eccome, e che l'abbiano fatto apposta. Il Presidente del Consiglio ha scritto - come è noto - che «sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia». Si sa, Matteo Renzi non ama che i fatti lo contraddicano: ed eccolo accontentato.
La capitale globale della finanza e della speculazione immobiliare che le è tanto organica, dovrebbe suonare un campanello d'allarme, sul crescere di una certa idea di città, ma l'informazione forse non lo coglie. La Repubblica, 5 marzo 2015, postilla (f.b.)
Date un’occhiata all’orizzonte, la prossima volta che vi trovate sul Tamigi: vedrete una foresta di alberi meccanici. Non è un’illusione ottica: la riva meridionale del fiume somiglia a un gigantesco cantiere. Sono già stati approvati piani per costruirci, nei prossimi dieci anni, duecentocinquanta grattacieli o perlomeno edifici di oltre venti piani l’uno. Un’esagerazione, dirà chi ama la Londra di casette vittoriane; ma intanto l’industria edilizia festeggia e ci sono all’opera più gru qui che in tutto il Regno Unito. Un’altra esagerazione. Ma è questa, ormai, la misura standard della capitale britannica. Sotto qualunque aspetto la si esamini, la città all’ombra (si fa per dire) del Big Ben sommerge il resto della nazione che le sta intorno. E pure, a spingere lo sguardo più in là, il resto d’Europa. E forse, a ben rifletterci, il resto del mondo. Nemmeno New York, scrive questa settimana il Financial Times, rappresenta la globalizzazione quanto Londra. In America, comunque, esistono altre grandi città: Los Angeles, Chicago. Il gigantismo di Londra divora e fa scomparire tutti.
Nei giorni scorsi ha raggiunto il suo record storico di popolazione: 8 milioni e 615 mila abitanti. Quarant’anni fa erano 6 milioni e mezzo. Tra dieci anni si stima che saranno ancora di più: 10 milioni (e sono già 12 milioni adesso, in effetti, contando gli sterminati sobborghi). Ancora più significativa del totale, tuttavia, è la composizione della popolazione: il 40 per cento degli abitanti sono nati all’estero, percentuale destinata a diventare maggioranza entro un decennio. Nelle sue strade si parlano 300 lingue. Ci sono almeno 50 comunità etniche di 50 mila o più persone: come dire 50 piccole città straniere racchiuse in una sola. L’etnia più numerosa? I polacchi. Noi italiani siamo al sesto posto.
Lo strapotere di Londra ha ucciso le altre città del regno. La seconda maggiore è Birmingham, 1 milione di abitanti: alzi la mano chi l’ha visitata. Manchester e Liverpool non decollano. Edimburgo vive del festival estivo e comunque ambisce a diventare capitale di uno stato indipendente – la Scozia. A proposito: il valore di tutti gli immobili di Scozia, Galles e Irlanda del Nord, le tre regioni autonome del Regno Unito, è pari ai dieci quartieri più posh di Londra (che di quartieri, in tutto, ne ha 88). Il valore medio di una casa, nel resto del paese, è 220 mila sterline (270 mila euro). A Londra è più del doppio, mezzo milione di sterline. Nelle zone più chic come Chelsea e South Kensington è due milioni. Il boom del mattone è finanziato dai ricchi: tutti quelli della terra vogliono un pied-a-terre da queste parti e proprio ieri l’Independent ha rivelato un giro di paradisi fiscali e riciclaggio di denaro dietro gli investimenti immobiliari. Ma a Londra circolano più soldi anche per gli altri. Il reddito medio britannico è 25 mila sterline, quello di Londra 50 mila. Se Londra fosse una nazione, negli ultimi quattro anni il suo pil sarebbe cresciuto del 12 per cento, più del doppio di quello britannico.
E’ anche una città di forti diseguaglianze, con sacche di profonda miseria e costi proibitivi: in questi giorni una campagna di poster denuncia il caro- vita con lo slogan «sono costretto ad andarmene». E’ pure più violenta dell’immagine che se ne fanno i turisti a spasso per il centro: nel 2014 ci sono stati 93 omicidi (ma nel 2001 erano 200), le gang giovanili fanno stragi di adolescenti, l’ultimo un 15enne ucciso da una coltellata a Islington, quartiere alla moda dove un tempo viveva Tony Blair, per rubargli la bici. Eppure frotte di immigrati ci sbarcano da tutto il mondo, attirati come da una calamita che offre di più: più opportunità, più cultura, più tutto. Un columnist propone che diventi una città-nazione, suggerendo come confine l’M25, la circonvallazione che le gira intorno: lunga 275 chilometri, per avere un’idea delle dimensioni. Londra potrebbe perfino avere il proprio campionato di calcio e sarebbe di ottimo livello: ha 6 squadre di Premier League e altrettante in B. Due sono agli ottavi di Champions: più di quante ne ha l’Italia.
postilla
Come ci racconta localmente, ad esempio, il blog del cronista Dave Hill sul Guardian, presumibilmente ignorato dal corrispondente italiano, questi due mondi delle scintillanti torri di Central London e delle diseguaglianze sociali e urbane, non sono solo due facce di una medaglia, ma hanno un vero e proprio rapporto di causa ed effetto: da un lato la consegna nelle mani delle finanziarie internazionali di quella enorme fetta di metropoli in via di trasformazione e speculazione, dall'altro la conseguente espulsione (a volte ai limiti della violenza) di tutto ciò che le è incompatibile, vale a dire le fasce di reddito basse, medie, a volte anche medio-alte. Così l'emergenza casa, nella mente un po' perversa dei Conservatori più liberisti, si traduce anche in emergenza all'italiana, da sfruttare a proprio piacimento per allentare i vincoli ambientali della greenbelt. Ovvero allarghiamo l'area metropolitana in quanto area costruita (più o meno come succede a Milano con le Tangenziali esterne del centrodestra) per dare nuove case agli espulsi dal centro. Mentre il sindaco Boris Johnson, grande sponsor di queste forme di investimento finanziario colonizzatore e micidiale, si fa bello per la sua idea di “mobilità sostenibile”, con un po' di biciclette e le piste sospese che piacciono tanto a certi disattenti ambientalisti di maniera. Con la devolution delle maggiori autonomie, richiesta per questa specie di città-stato moderna, il ciclo si chiuderebbe: speriamo in un rivolgimento delle maggioranze politiche, locali e nazionali (f.b.)
Molti misteri, ma soprattutto molti affari immobiliari e infinito cemento dietro la verniciatura green del giovane archistar. Altreconomia.info, febbraio 2015
Sono alte 80 e 112 metri le torri che compongono il "Bosco verticale" di Milano, e che due classi di un asilo sono venute ad ammirare in gita in via de Castilla, nel quartiere Isola, a due passi dalla stazione Fs Garibaldi. Dopo le fotografie, i bambini ascoltano la spiegazione dell’insegnante: “Noi il bosco lo abbiamo così” dice lei muovendo il braccio in orizzontale, “loro invece ce l’hanno così” aggiunge, e con la mano traccia una linea su fino all’ultimo piano del grattacielo più alto. Il “Bosco” è un marchio, rafforzato dal riconoscimento di “grattacielo più innovativo del mondo” -l’International Highrise Award- ricevuto nel novembre 2014 e promosso dalla città di Francoforte, dal Museo d’architettura tedesco (DAM) e dalla branca immobiliare della compagnia d’investimento DekaBank. Alla notizia del premio anche l’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, volle unirsi alle celebrazioni del “Bosco” -progettato dallo studio di architettura di Stefano Boeri e sviluppato dalla succursale italiana del colosso immobiliare texano Hines, proprietario dell’intero complesso di residenze e uffici chiamato “Porta Nuova”, come la zona in cui ricade- esprimendo in una nota il suo “vivo compiacimento”.
All’epoca, però, nessuno ha evidenziato il nesso (del tutto legittimo) che legava il finanziatore del titolo -DekaBank- all’operatore immobiliare insignito -Hines, nella persona del suo amministratore delegato Manfredi Catella- e che prende il nome di Coima Srl. Fondata nel 1974 dalla famiglia Catella e presieduta dallo stesso Manfredi, Coima -oltre ad essersi occupata dell’arredo interno degli appartamenti del “Bosco”- è da sempre “specializzata nelle attività di gestione di patrimoni istituzionali e di co-investimento in operazioni immobiliari nel settore terziario e residenziale” per oltre 4 milioni di metri quadrati.
Compresi -come riporta la società sul proprio sito (www.coima.it)- quelli del “cliente” Deka Immobilien Investment (del gruppo DekaBank). Né Hines né Catella hanno voluto rispondere alle domande di Altreconomia, né hanno accettato di mostrare il piano economico e finanziario dell’operazione -irraggiungibile anche attraverso il Comune di Milano- e dei dati di vendita dello stock di uffici (217mila metri quadrati di superficie), residenze (68mila) e spazi commerciali (20mila) distribuiti tra l’area Garibaldi e quelle delle ex Varesine e dell’Isola. Dall’ufficio stampa si limitano a dar conto di un mero dato cumulativo sulle sole torri del “Bosco”, “vendute per oltre il 60%”.
Sono solo alcuni dettagli della rinnovata rincorsa urbana (e mediatica) al “modello verticale”, anche nel nostro Paese. Salvatore Settis, nel libro “Se Venezia muore” (Einaudi, 2014), l’ha misurata nel paragrafo intitolato “La retorica dei grattacieli”: sono 28 gli edifici di grande altezza ultimati tra il 2000 e il 2014 in Italia, poco meno dei 30 realizzati tra il 1932 (il primo è il Torrione Ina del Piacentini a Brescia, 57 metri) e l’inizio del nuovo millennio. “La tendenza a crescere in altezza è datata -ragiona Antonello Boatti, che insegna Urbanistica al Politecnico di Milano-. Poteva ritenersi un’avanguardia ai tempi di Chicago, nei primi del 1900, per tecnologia e tecnica costruttiva. Ma oggi non è che una contorsione estetica di un modello vecchio”.
Chi, ogni anno, conta i grattacieli è il “Council on Tall Buildings and Urban Habitat” di Chicago (www.ctbuh.org). Il 2014 ha battuto ogni record, con 97 edifici oltre i 200 metri d’altezza ultimati, il 60% dei quali solo in Cina (58), seguita dalle Filippine (4) e dal Qatar (4). L’Europa si è “fermata” a 3. Ed è questa nuova geografia dell’altezza a contraddistinguere quella che Settis definisce una pretesa “modernità d’accatto”. “È molto interessante notare come la rinascita e il rilancio del grattacielo non avvenga negli Stati Uniti, dove la forma è nata più di cento anni fa, -spiega Settis- ma in Cina e negli Emirati del Golfo Persico. Cioè in Paesi senza democrazia”.
Stefano Boeri, che abbiamo intervistato al 22esimo piano della torre più alta del “Bosco” affacciato sul “Parco di Porta Nuova” tutt’ora in costruzione e sul palazzo Unicredit di Cesar Pelli (217 metri), è convinto del contrario. Per lui, costruire in altezza è una sfida ineludibile: “Nei prossimi anni noi non ‘potremo’, ‘dovremo’ pensare a città che crescono in altezza, anche perché il tasso di consumo di suolo ha raggiunto livelli insopportabili”. L’appartamento (ancora vuoto) in cui stiamo videoregistrando, però, è sul mercato per un valore di 14mila euro al metro quadrato. Il prezzo medio dei locali in vendita nelle due torri è di 9mila euro. In una città che, stando alla ricerca “L’offerta e il fabbisogno di abitazioni al 2018 nella regione Lombardia” curata nel 2013 dal Dipartimento di architettura e pianificazione (Diap) del Politecnico di Milano, sarà chiamata tra tre anni ad affrontare un fabbisogno abitativo di sola edilizia pubblica residenziale “pura” (non convenzionata) pari a 238mila alloggi (vedi Ae 150). Servono case popolari, insomma, ma la “risposta” del modello verticale milanese ha assunto la forma di 10 alloggi di edilizia “convenzionata” compresi nel programma integrato d’intervento di via Confalonieri, dietro al “Bosco”. Una soluzione che non è accessibile a tutti: “In data 17 dicembre 2013 -si legge infatti nel bando redatto da Hines- il Comune di Milano [...] ha approvato il piano finanziario finale fissando in 3.123,48 euro per metro quadrato il prezzo definitivo medio di prima cessione”.
L’equazione “grattacielo-tutela del suolo” lascia perplesso Paolo Pileri, professore di Pianificazione territoriale ambientale del Politecnico di Milano: “In questo momento le proposte di densificazione non sono ancora in grado di ‘spegnere’ i consumi di suolo che avvengono sui margini dei contesti urbani. Come Dipartimento -prosegue Pileri- ci siamo occupati di 15 Comuni della Brianza, e di parte dell’area metropoliana, accorgendoci che le aree edificabili previste nei piani di governo del territorio, che dipendono dalle previsioni insediative, sono completamente assorbibili già dalle cubature, dai volumi e dalle case che oggi sono sul mercato. La questione centrale quindi è la rigenerazione della città esistente, senza alcuna previsione di nuova volumetria, che andrebbe altrimenti a bloccare quel capitale già immobilizzato”.
Come fosse un derby dell’altezza, allo sviluppo milanese ha risposto anche Torino. Il 20 gennaio 2015 è stato infatti inaugurato il grattacielo di proprietà di Intesa Sanpaolo -che così ha risposto iconicamente a Unicredit-, progettato da Renzo Piano, costato 500 milioni di euro, sorto su un’area che fu delle Ferrovie dello Stato e alto 167,3 metri, poco meno della Mole Antonelliana. Chiamato, in teoria, ad accogliere gli uffici direzionali dell’istituto, l’edificio di Piano “ha interrotto il rapporto visuale e simbolico tra la città e le montagne -è l’opinione di Guido Montanari, che insegna Storia dell’architettura al Politecnico di Torino ed è stato tra le anime del comitato civico No Grat che dal 2005 ha contestato l’operazione immobiliare-. Il grattacielo non è un’innovazione tecnologica, specie se confrontato con la Mole, che è la più alta costruzione in laterizio mai fatta al mondo, sulla quale è andato a incidere”. Convinta del contrario, Intesa Sanpaolo ha deciso di “condividere” il patrimonio scientifico messo da parte in materia di edifici alti, finanziando per l’anno accademico 2013-2014 un master di secondo livello in “Progettazione e costruzione di edifici di grande altezza” del Politecnico di Torino. Il noto architetto Vittorio Gregotti, che nel 1995 disegnò il piano regolatore di Torino, sorride all’ipotesi di un conflitto d’interessi: “Intesa, avendolo commesso, ha interesse a far sì che il ‘peccato’ non diventi più tale ma una condizione condivisa”. Nel comitato scientifico del corso, oltre al “padre” del grattacielo Renzo Piano, sedeva anche il professor Andrea Rolando, del Dipartimento di architettura e studi urbani del Politecnico di Milano, che difende l’iniziativa didattica di Intesa: “La banca attraverso il master ha sicuramente raggiunto un obiettivo in termini di creazione di consenso -riconosce Rolando-, ma l’ha fatto perché fosse un’occasione per alcuni giovani per capire come questo edificio era realizzato e per far sì che venisse disseminata questa conoscenza, divenendo patrimonio di un’istituzione come il Politecnico”. Al centro direzionale di Intesa si affiancherà il nuovo palazzo della Regione Piemonte, ben più alto della Mole (209 metri) e progettato dall’architetto Massimiliano Fuksas.
A Venezia sembra del tutto tramontata l’ipotesi del grattacielo dello stilista Pierre Cardin (Palais Lumiére), che avrebbe dovuto puntare i piedi del suo robusto corpo alto 250 metri nell’area ex industriale di Marghera.
Il viaggio del “modello verticale” riporta a Milano, nello studio dell’architetto Jacopo Muzio, nei pressi dell’Arco della pace. Da una finestra si intravvede la Torre di proprietà di Allianz (207 metri), bandiera dell’operazione immobiliare “City-Life”, a Nord-ovest della città. Dovrebbe chiamarsi “il dritto” ma qui è amichevolmente detta il “materasso”.
“Il modello economico del grattacielo - ragiona Muzio - è quello del maggior sfruttamento possibile dell’area a disposizione, e cioè la massimizzazione del profitto. I prezzi al metro quadro, inoltre, creano il cosidettto fenomeno di ‘gentrificazione’, che avviene quando, mettendo sul mercato appartamenti che hanno una soglia accessibile solamente dal 5% della popolazione cittadina, si fa in modo che tutti gli altri siano portati a cercare casa altrove”. Il contrario del modello di città “come spazio di dialogo e non come fulcro gerarchizzato” che ha in mente Salvatore Settis.
Accanto a uno dei computer nello studio di Muzio c’è una fotografia incorniciata. Ritrae la “resistente” casa verde di via Bellani, rimasta alla base del nuovo palazzo della Regione Lombardia (161,3 metri), sorto su un vero bosco, posto accanto a via Melchiorre Gioia. I raggi del sole riflessi dalle vetrate a doppia pelle del grattacielo voluto fortemente dall’ex governatore Roberto Formigoni ne surriscaldavano le pareti, portando a fusione le tapparelle. Era arrivata la modernità.