La Repubblica, 6 agosto 2015
Avviata «una subdola campagna informativa in ordine al progetto del Deposito Nazionale finalizzata a convincere gli italiani ad accettare il materiale tossico nel proprio “giardino”». Ma sembra che abbiano già individuato i sito ideale in una ex miniera di salgemma nei pressi dei comuni di Agira, Leonforte e Nissoria, nel cuore della Sicilia. Un esposto di Italia Nostra Sicilia, 6 agosto 2015
Il processo entrerà nel vivo con la pubblicazione della Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee ad ospitare il Deposito Nazionale, che Sogin pubblicherà, assieme al progetto preliminare, sul sito appena riceverà il via libera dai ministeri. Presumibilmente a settembre di quest’anno (2015). Dunque, tra circa un mese dovrebbe essere resa pubblica tale Carta nazionale (Cnapi).Dopo un iter controverso, iniziato nel giugno2014,l’Ispra ha già consegnato ai ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente l’aggiornamento della relazione stilata dalla Sogin. La Sogin è incaricata anche di selezionare alcuni siti italiani, e tra questi individuare il Deposito nazionale di scorie nucleari. La mappa dei siti è ovviamente sconosciuta. Top secret. L’operazione prevederebbe investimenti per1,5 miliardi in 4 anni, 1.500 posti di lavoro all’anno per la costruzione e 700 per la gestione. Le regioni italiana individuate sarebbero la Puglia, la Basilicata, la Sardegna e ovviamente la Sicilia.
L’Isola (la Sicilia) sembrerebbe avere “buone, ottime possibilità”. Gli esperti della Sogin, infatti, avrebbero individuatoun’ex miniera di salgemma nei pressi dei comuni di Agira, Leonforte e Nissoria, nell’Ennese. L’indiscrezione arriva da Giuseppe Regalbuto, presidente della commissione Miniere dismesse dell’Urps: “Se la scelta di Agira sarà confermata come sembra, sarà necessario promuovere un’azione forte in Sicilia. Non costruire trazzere, ma ergere barricate contro i governi che usano la Sicilia come una pattumiera e che non solo ci impediscono di produrre, ma vogliono persino inquinare il nostro suolo e mettere a repentaglio la nostra salute. Le miniere vanno usate per rilanciare l’economia siciliana, non per contenere rifiuti” (http://www.siciliainformazioni.com, luglio-agosto 2015).
Ben 90 mila metri cubi di rifiuti nucleari italiani potrebbero arrivare presto in Sicilia. La scelta ricadrebbe su un’ex miniera di salgemma perché i depositi salini, per la loro bassa permeabilità, si prestano ad ospitare, a lungo termine, rifiuti nucleari. In una prima fase di ricerca, per le peculiari caratteristiche morfologiche dei giacimenti, sarebbero risultate idonee ad ospitare gli speciali rifiuti 11 località siciliane: Regalbuto, Assoro-Agira, Villapriolo, Salinella, Pasquasia, Resuttano, Bompensiere, Milena, Porto Empedocle, Realmonte, Monteallegro. Dopo la seconda fase dello studio, relativa ai requisiti d’isolamento dei giacimenti,sarebbero rimasti soltanto tre siti idonei: Assoro-Agira, Salinella e Resuttano. L’ex miniera di Pasquasia, su cui ancora pesano sospetti di precedenti depositi di rifiuti radioattivi, sarebbe stata esclusa perché non sufficientemente “isolata” (http://www.siciliainformazioni.com, luglio-agosto 2015).
A settembre la mappa sarà resa pubblica. Sapremo, dunque, se sarà proprio l’ex miniera nei pressi di Agira, al centro dell’Isola, la candidata siciliana che ospiterà i rifiuti radioattivi di tutta Italia. “Agira (Sicilia) capitale italiana dell’ambiente, del paesaggio e deigiardini”, insomma. Che dire – comunque?Saremo in grado, in Sicilia, di ergere barricate efficaci contro i governi che usano l'isola come pattumiera e base militare? Governi che non solo ci impediscono uno sviluppo auspicabile, sostenibile, ma che intenderebbero persino inquinare il nostro ambiente, il nostro spazio vitale, mettendo a repentaglio la nostra salute, la nostra sicurezza. Ecco, queste sono le questioni – imprescindibili – che noi poniamo al governo regionale e al governo nazionale. Alle forze sociali, culturali e politiche. Ai cittadini. Adesso.
La Nuova Venezia, 6 agosto 2015
Scoperta mercoledì 5 - dopo cinque anni di attesa e una serie infinita di polemiche sulla sua costruzione - la nuova ala dell'hotel Santa Chiara. con la facciata che dà sul Canal Grande, in attesa di togliere le copertura anche a quella che dà su Piazzale Roma.
Un grande cubo bianco in pietra, del tutto dissimile dalla parte storica dell'hotel di proprietà di Elio Dazzo e destinato a creare inevitabili polemiche per il suo impatto, con Italia Nostra che grida allo scandalo. "Spero che piaccia ai Veneziani - dichiara il proprietario - altrimenti me ne farò una ragione. Lo inaugureremo comunque entro settembre".
La nuova ala dell'albergo ospiterà 19 stanze e un parcheggio interrato da 16 posti-auto destinato ai clienti dell'albergo. L'edificio è stato progettato dagli architetti Antonio Gatto, Dario Lugato e Maurizio Varratta.
La Repubblica, 6 agosto 2015
«L’Italia spa esiste ancora. Il nostro patrimonio culturale rischia tuttora di essere svenduto. Le riforme non bastano, se mancano i fondi. Riempire l’arena del Colosseo non è una priorità. C’è una bella differenza tra restaurarlo e trasformarlo per ospitare spettacoli». Nell’estate dell’attesa per i nuovi super direttori dei venti grandi musei, mentre le soprintendenze – dopo la riforma della pubblica amministrazione appena approvata – vengono indebolite ulteriormente, Roma crolla e il Colosseo guadagna nuovi finanziamenti per trasformarsi in un’arena show, Salvatore Settis lancia l’allarme. «Questo Paese commette di nuovo l’errore di spostare l’attenzione sulla valorizzazione dei monumenti, rispetto alla loro tutela. Ma non ci può essere valorizzazione senza tutela», dice l’archeologo e storico dell’arte che nel 2009 si dimise dalla presidenza del Consiglio superiore dei beni culturali in contrasto con l’allora ministro Bondi.
Professore, partiamo dalla riforma Franceschini. Qualcosa si sta muovendo.
«Da Veltroni in qua ci sono stati dieci ministri e cinque riforme: un’overdose per il ministero dei Beni culturali. Di tutte, quella di Franceschini, che nasce da una commissione di studio voluta dal predecessore Bray, ha un’idea di base più chiara. Ma non vuol dire che vada tutto bene. Non sono tra quelli che dicono che sia meglio che nulla cambi. Il punto più preoccupante è che, se questa riforma ha al centro i musei – in particolare i venti scelti come più importanti – dall’altro lato impoverisce di personale le soprintendenze territoriali. Quelle di Roma, Firenze e Napoli hanno nove storici dell’arte in tutto: come faranno a tutelare l’immenso patrimonio a loro affidato? Il vero punto per capire se questo governo rispetterà l’articolo 9 della Costituzione è se verranno fatte nelle Soprintendenze territoriali le massicce assunzioni di cui c’è assolutamente bisogno. Di questo si parla troppo poco».
Con la nuova legge sulla pubblica amministrazione le soprintendenze, di fatto, si indeboliscono e vengono sottomesse alle prefetture. Vale il silenzio-assenso dopo 90 giorni anche in materia di tutela ambientale, paesaggistica e dei beni culturali. Lei è tra i sostenitori di un appello contro il provvedimento.
«L’estensione del silenzio-assenso nell’ambito della tutela del paesaggio è anticostituzionale. Ci sono cinque sentenze della Corte Costituzionale che parlano chiaro. Ma la sottomissione delle soprintendenze alle prefetture non può venire da Franceschini, perché sarebbe un’idea suicida per il suo Ministero. Oggi sembra quasi che si voglia distinguere una bad company (le soprintendenze e la cura del territorio, contro cui si schierava il premier Renzi quando era sindaco di Firenze) – e una good company che sono i musei, intesi come “valorizzazione”. E le bad companies sono fatte per essere liquidate».
I musei, appunto. In venti sono stati scelti dal ministro Franceschini come i più importanti, affidandoli ad altrettanti super direttori scelti attraverso un concorso internazionale. Cosa pensa di questo?«Il fatto di dotare i grandi musei di un’autonomia maggiore di per sé mi sembra un’idea interessante e positiva. Anche se nella lista mancano, per ragioni di spending review, musei importanti come il Museo Nazionale Romano o la Pinacoteca di Siena. Va dato atto al ministro che la commissione che sta scegliendo i direttori, presieduta da Paolo Baratta, è molto buona: ci sono nomi come Nicholas Penny della National Gallery di Londra e il grande archeologo Luca Giuliani. Però non è mai accaduto nella storia che venti direttori di musei diversi siano nominati con un’unica procedura. All’estero appare inconcepibile. Vedremo i risultati, ma la fretta è cattiva consigliera».
Ma di cosa avrebbe bisogno oggi il Ministero dei Beni culturali?
«Si continua a ignorare che le riforme a costo zero producono molto meno di zero. Nel 2008, Berlusconi e Bondi tagliarono in modo massiccio i finanziamenti alla cultura di un miliardo e 300 milioni euro. Se quella ferita non sarà sanata (e nessun governo lo ha fatto, nemmeno questo) e non si provvederà a nuove assunzioni, ogni riforma resterà vana. La primissima esigenza sono nuove assunzioni e nuovi fondi».
Però sono appena stati stanziati 80 milioni per alcune Grandi Opere…
L’“effetto Gladiator”.
«Finanziare un progetto che trasformi il Colosseo in un set per spettacoli è un vero spreco. Si trasmette ancora una volta il messaggio che i monumenti non servono a nulla, se non assumono un aspetto spettacolare. E si concentra di nuovo l’attenzione solo su alcuni luoghi simbolo, mentre altri, proprio a Roma, in questo momento, cadono a pezzi. La tradizione italiana della tutela, la più antica al mondo, attraversa una crisi gravissima».
A Pompei, però, i segnali sono diversi.
«Nell’ultimo anno e mezzo, con il direttore generale Giovanni Nistri e il soprintendente Massimo Osanna, la capacità di spesa è aumentata. I segnali di funzionamento sono positivi. Lo sciopero del 24 luglio è stato un brutto episodio, ma non il segno che va tutto a rotoli».
A tredici anni dal suo saggio, possiamo ancora parlare di “Italia spa”?
«Il progetto dell’allora ministro Tremonti di svendere il patrimonio demaniale è fallito. Ma non si può cantare vittoria, dato che si continua a svendere i beni pubblici, delegando l’iniziativa a Regioni e Comuni in modo che non si colga il disegno d’insieme. Inoltre, le regole per la tutela del paesaggio si allentano continuamente, e sarà ancor peggio quando i soprintendenti, esautorati, ubbidiranno ai prefetti. Ma il Paese resta ricco di anticorpi nella società e nelle istituzioni. Possiamo trovare ancora dei contravveleni al degrado che incombe”.
La Repubblica, blog "Articolo 9", 5 agosto 2015
Così da ieri «soprintendente è la parola più brutta del vocabolario della burocrazia»anche per legge: detto fatto, Matteo Renzi ha stroncato in pochi mesi una storia plurisecolare.
Grazie al micidiale articolo 8 della Legge Madia sulla Pubblica Amministrazione, le soprintendenze confluiranno nelle prefetture, e se non riusciranno a evadere una pratica entro 90 giorni, si intenderà che abbiano detto sì: qualunque cosa contenesse quella pratica.
Le slides della propaganda renziana pagata con i soldi pubblici sono ineffabili. Una dice: «È vero che i soprintendenti saranno sottoposti all'autorità dei prefetti? NO, sul territorio ci sarà un ufficio unico del territorio nel quale il prefetto avrà un ruolo di direzione (che non signfica funzioni di comando)». Manco i gesuiti del Seicento avrebbero saputo far meglio: se qualcuno dirige qualcosa, esercità un'autorità. Il fatto che non «comandi» attiene allo stile, non alla sostanza. E dunque, la risposta è: Sì, i prefeti dirigeranno i soprintendenti.
Un'altra slide sostiene che «la regola del silenzio assenso non favorirà la cementificazione selvaggia, ma significherà più responsabilità per le amministrazioni nell'assicurare maggior tutela del paesaggio, dei beni culturali e ambientali». Ma come si può avere la faccia tosta di prendere in giro gli italiani con enormità di cui si sarebbe vergognato perfino Silvio Berlusconi? Nelle soprintendenze non c'è più nessuno, per il blocco del turn over. Non hanno più mezzi: basta auto di servizio, non più cellulari, non c'è manco la carta. Se l'obiettivo fosse stata la maggior tutela, prima si sarebbero dovuti dare i mezzi per esercitarla, e poi si sarebbe potuti (anzi, dovuto) chiedere di esercitarla in tempi certi: ma così è solo un massacro. Quando un Renzi presidente della provincia di Firenze si trovò ad avere bisogno di un elicottero in pochi minuti, lo chiese in prestito al re del cemento fiorentino: ci si può ora stupire se – dallo Sblocca Italia alla Legge Madia – egli pone le basi per un nuova stagione di mani sulle città e sul paesaggio?
Ma – per l'ennesima volta – Renzi non è peggiore della classe dirigente di cui è espressione: appare più colpevole solo perché si presenta come nuovo, quando invece è anche lui un fossile. Un solo esempio: mentre Firenze veniva sconvolta da un ciclone tropicale, il presidente della Toscana Enrico Rossi invocava le Grandi Opere – carissime a Maurizio Lupi, o a Ercole Incalza – come l'unico mezzo per creare lavoro. Un suicidio: dettato dall'ignoranza – ancora prima che dalla mala fede – della classe politica italiana. Per trovare un'analisi pertinente del disastro fiorentino, bisogna invece leggere il discorso di qualcuno che non ne parlava affatto, ma parlava del quadro generale che lo ha provocato: «Siamo la prima generazione a sentire l'impatto del cambiamento climatico e l'ultima generazione che può fare qualcosa" per combatterlo». Sono parole di Barack Obama: le più alte e ispirate che da molto tempo in qua echeggino nella politica mondiale.Parole lontane anni luce da un'Italia fossile in cui si continua ad invocare le Grandi Opere, e a spianare ogni argine al loro dilagare.
E in tutto questo c'è un tradimento ancora più grande di quello dei politici: ed è quello dei professori, degli studiosi che dovrebbero costruire altre parole, altre idee, altre strade. Ieri il Consiglio Superiore dei Beni culturali, massimo organo tecnico del Ministero per i beni culturali, ha sì detto che la legge Madia può mettere «in pericolo l’esistenza stessa del MiBACT», ma poi ha proseguto i suoi lavori come se nulla fosse. Per una cosa gravissima (ma forse meno grave: il dimezzamento dei fondi del Ministero, inflitto da Tremonti a un passivo e complice Bondi nel 2008) l'allora presidente dello stesso organo protestò dimettendosi: ma quel presidente si chiamava Salvatore Settis, quello di oggi si chiama Giuliano Volpe. E Volpe non ci pensa neanche a dimettersi, con tutta la fatica che ha fatto a farsi nominare: preferisce celebrare la ricostruzione dell'arena del Colosseo, un'impresa kitsch e culturalmente aberrante cui dedicare oltre 18 milioni euro pubblici mentre le bibloteche e gli archivi chiudono. E così la massima espressione del sapere all'interno del Ministero per i Beni culturali è ridotta – come ha scritto oggi Francesco Merlo in un memorabile articolo – ad «una sorta di cerchio magico del ministro presieduto dall’ archeologo medievista Giulio Volpe, che di Franceschini è il piccolo Gianni Letta o, se preferite la modernità, è il Luca Lotti, ma in cattedra. “A nome del Consiglio esprimo grande apprezzamento per la destinazione di queste risorse … e per l’ operazione fortemente innovativa”, ha dichiarato ieri il professore Volpe lodando il ministro e lodandosi».
Così, quando si scriverà la storia dei danni inflitti al Paese dal breve regno di Matteo Renzi, una nota a piè di pagina documenterà che il giorno stesso in cui una legge della Repubblica uccideva l'articolo 9 della Costituzione, il ministro per i Beni culturali e la sua corte aprivano i giochi al Colosseo. Il diavolo, come è noto, si nasconde nel dettaglio.
La Repubblica, 5 agosto 2015
Non si trovano i soldi per la manutenzione ordinaria di Roma ma ci sono 21 milioni per cominciare a coprire l’arena gladiatoria del Colosseo a riprova che sempre il kitsch è il figlio ricco e storpio delle crisi economiche. Diciotto milioni e mezzo verranno stanziati dal ministero come “finanziamento di necessità e urgenza” e altri due e mezzo sottratti ai restauri dello stesso Colosseo pagati dalla Tods di Diego Della Valle.
Il Consiglio Superiore dei Beni Culturali ha così deciso di assecondare il famoso tweet con il quale Dario Franceschini nel novembre scorso comunicò all’Italia la sua voglia di ricostruire l’arena, ridare un suolo al sottosuolo e ricomporre la forma, l’ellissi perfetta che senza il pavimento non si percepirebbe più perché il fondo ruba la scena con i suoi corridoi, i suoi ruderi sbocconcellati, il suo mistero di labirinto. Con un ruggito da marketing nel comunicato di ieri Franceschini parla addirittura di «richiesta mondiale» e immagina sopra quell’arena-palcoscenico, quando sarà finita, «spettacoli di altissimo livello culturale». Il linguaggio, come si vede, ci porta già a Las Vegas.
Il Consiglio Superiore dei Beni Culturali, che ai tempi di Salvatore Settis fu il combattivo organo di controllo, una specie di assemblea di cani da guardia, oggi è una paludata consulta formata da otto presunti “supersaggi”’ e sette astuti funzionari, una sorta di cerchio magico del ministro presieduto dall’ archeologo Giulio Volpe, che di Franceschini è il piccolo Gianni Letta o ,se preferite la modernità, è il Luca Lotti, ma in cattedra. «A nome del Consiglio esprimo grande apprezzamento per la destinazione di queste risorse … e per l’ operazione fortemente innovativa», ha dichiarato ieri il professore Volpe lodandolo e lodandosi.
Il piano economico del ministro, che è nazionale, prevede 12 interventi per una spesa totale di 80 milioni. Ma l’intervento più “urgente” e costoso è la copertura dell’ arena del Colosseo, che non è un restauro ma un rifacimento, uno scenografare, il segno che Franceschini vuol lasciare a Roma, perché come dice il mitico Gracco nel Gladiatore di Ridley Scott «il cuore pulsante di Roma non è certo il marmo del Senato ma la sabbia del Colosseo».
Dunque Franceschini e i suoi professori prevedono che i primi due milioni e mezzo, quelli sottratti ai lavori finanziati dal mecenatismo di Della Valle, vengano impiegati «per le indagini conoscitive sullo stato idrogeologico e strutturale» perché, come gli fece notare la direttrice Rossella Rea, «sotto il Colosseo c’è l’acqua, il fosso di san Clemente: un fiume che ,quando piove, esonda, e in pochi minuti riempie tutto e dunque potrebbe far saltare l’eventuale nuova copertura dell’Arena come un tappo». Ecco perché ora il ministro ha stabilito, come primo intervento, «il risanamento idraulico e strutturale degli ambienti ipogei dell’anfiteatro ». Ma già «durante lo svolgimento di questi lavori conoscitivi e di risanamento sarà bandito un concorso internazionale per il progetto della nuova arena», gara di architetti per una struttura di materiali comunque pesanti di cemento sarebbe irreversibile - un ripristino creativo dell’antichità e del mito di Roma che nemmeno Mussolini aveva immaginato. E quanto costerebbe una struttura leggera e durissima, resistente al peso ma removibile? Esiste una struttura di questo genere? E questo Colosseo hi tech sarebbe un ritorno al passato o al futuro?
Nel Colosseo, che quest’anno sfonderà il record di 6 milioni di visitatori, con un ricavo di circa 50 milioni di euro, gli architetti si esibiranno in un accanimento progettuale, finanziato come urgente e necessario. Perché?
Il Colosseo è già il monumento più visitato e più lucroso d’Italia. Col bel restauro di Della Valle e con la cacciata dei puzzolenti carrettini di porchetta e i finti gladiatori con la scopa in testa, di urgente e necessario ci sarebbero i bagni per liberare i visitatori dall’incresciosa pratica di mingere ad murum . E forse urgenti e necessari sarebbero pure un elegante caffè ristoro e dei
book shop più dignitosi. Di sicuro sono urgenti e necessarie coscienza, responsabilità sindacale e punizioni severissime che impongano l’apertura anche durante le feste e le agitazioni di categoria. Scrisse Ermann Broch, che nulla sapeva di mafia-capitale e dell’attuale degrado: «Tutti i periodi storici in cui i valori subiscono un processo di disgregazione sono periodi di grande fioritura del kitsch. La fase terminale dell’Impero romano ha prodotto kitsch… Sempre il kitsch è destinato a imbellettare e falsificare le cose. Il kitsch è nevrosi da artista mancato».
Alcuni mesi fa, l’archeologo Daniele Manacorda, a cui si deva l’idea originale di «ricostruire il Colosseo così com’era », si spinse a ipotizzare sul rifacimento di quell’arena «ogni possibile evento della vita moderna, magari gare di lotta greco-romana, o una recita di poesie, o un volo di aquiloni». E James Pallotta, intervistato dalla Cnn , annunziò per l’inaugurazione «una partita della Roma contro il Bayern o il Barcellona: potremmo avere 300 milioni di persone che vogliono guardare da tutto il mondo il calcio nel Colosseo. Per loro faremo una pay-per-view: 25 dollari a testa ». Insomma l’arena, prima ancora d’essere finanziata e progettata, mostrò subito questa sua natura kitsch perché ,come ha spiegato Gillo Dorfles «il kitsch entra sempre in sintonia con il proprio tempo attraverso una forte empatia simbolica e culturale».
E infatti, come al solito, nell’Italia dei guelfi e ghibellini, archeologi e architetti si divisero in scuole ideologiche contrapposte, rifacitori contro restauratori, feticisti della pietra sacra contro fanatici dell’uso e del riuso, e l’Arena di Verona (abusata) venne contrapposta al Tempio di Selinunte (smozzicato e non toccato). Davvero sembrava di essere nell’Ottocento, da un lato il romanticismo conservativo di John Raskin e dall’altro il romanticismo creativo di Viollet-le-Duc, senza mai notare che nello stesso Colosseo convivono, ai due estremi del terzo anello, un muro di mattoni che “congela”’ le arcate, e all’opposto il rifacimento piramidale all’identique (sempre in mattoni) di Valadier. La direttrice Rossella Rea, che non ha paura del riuso e neppure della conservazione, mise in guardia il ministro: «Tutto si può fare, se ne vale la pena. Ma ne vale la pena? ».
Di sicuro sparisce dal piano di necessità e urgenza, che sono i requisiti previsti dall’articolo 7 della legge impropriamente chiamata Art Bonus, il completamento della Domus aurea, il cui parziale restauro sta già andando in malora. E sparisce tutto ciò che di urgente e necessario ci sarebbe da (ri)fare non solo a Roma dove le Mure Aureliane e gli scavi della Cripta Baldi sono ormai un’emergenza assoluta. Lo sono anche le Mura di Volterra. E la bellissima Caulonia che il mare si sta portando via. E le Basiliche precristiane di Cimitile. E il santuario di Ercole Curino. E il porto di Tarquinia. E Megara Hyblea. E le mura etrusche di Roselle. Ci sarebbero pure i sotterranei di Caracalla, il disastro idrogeologico di Ostia antica, i mille sbriciolamenti, Villa Adriana… Ma vuoi mettere Caulonia o Volterra con il Colosseo dove il Gladiatore di Ridley Scott Franceschini dice: «A un mio segnale, anzi a un mio tweet , scatenate l’inferno».
La Repubblica, 2 agosto 2015
Attenti, ci dicevano, dopo i colli la traccia si perde: sarà una fatica tremenda. Ma non potevamo rassegnarci all’idea che proprio l’Italia non avesse strade romane percorribili, fatte di pietra, sangue e sudore”
Quando, dopo il guado di un fiume, un roveto o un campo di grano, la via ridiventava visibile, ben allineata con la direttrice che avevamo perso chilometri prima in un intrico di sentieri, asfalto o canneti, e una ventina di satelliti sopra di noi confermavano quel fatidico allineamento sullo schermo del Gps, allora anche la parte svanita della strada si ricomponeva sulla mappa, evidenziando tracce giudicate di primo acchito trascurabili. Ma soprattutto qualcosa si rimetteva a posto anche dentro di noi, e una magnifica esultanza si diffondeva nel gruppo in cammino.
Non stavamo solo ripercorrendo l’Appia antica. La stavamo ritrovando. La riconsegnavamo al Paese dopo decenni di incuria e depredazione. Patrimonio non è merce in vendita, ornamento di sponsor, scusa per sdoganare cemento. Patrimonio è la terra dei padri. E noi questo cercavamo, non con la testa e forse nemmeno col cuore. Volevamo farlo coi piedi, che vivaddio non sono arti - parola orrenda - ma nobilissimi organi di senso. Erano quelli il sismografo, il metal detector, la bacchetta di rabdomante. Partiva così la nostra rivolta contro l’oblio. Essa aveva trovato un segno, un simbolo unico e forte in cui incarnarsi: la prima via di Roma, la madre dimenticata di tutte le strade europee.
CASTELLAMMARE DEL GOLFO. Un ombrellone a fiori, una sedia pieghevole in legno a uso e consumo di un addetto del Comune che disciplina la ressa dei bagnanti. E lì vicino un bagno chimico: l’unico a disposizione del pubblico nel raggio di diversi chilometri. Così, dall’alto, si presenta ai turisti la Tonnara di Scopello, un pezzo di storia della Sicilia a ridosso della Riserva dello Zingaro. Rifiuti ed escrementi fanno da cornice, nel parcheggio a monte come sui viali d’accesso, allo stabilimento che fu di proprietà della Compagnia di Gesù come della Famiglia Florio, di fronte ai faraglioni scelti dalla compagnia di bandiera canadese fra le quattro tappe obbligate di un immaginario giro del mondo.
E quelle immagini di incuria diventano un nuovo simbolo. Il simbolo di una battaglia che, chiunque sarà il vincitore, ha già mortificato quest’angolo di paradiso. La battaglia è quella fra i proprietari della Tonnara, una trentina di esponenti di note famiglie locali fra cui i Lanza di Scalea e i Foderà (con cui, nel secolo scorso, lavorò anche Santo Mattarella, nonno del Presidente della Repubblica), e il sindaco di Castellammare del Golfo Nicolò Coppola. Tutto ruota attorno a un’ordinanza, firmata da quest’ultimo il 9 luglio, che rende libero l’accesso al mare. «Perché il mare è di tutti», dice con sussulto democratico il sindaco. Ma i proprietari, che fino all’anno scorso facevano pagare un ticket di 3 euro per entrare, non ci stanno. E proprio ieri hanno inoltrato un ricorso al Tar. Oltre ad aver avviato una causa per risarcimento danni. In questa contesa le maggiori associazioni ambientaliste, fra cui Legambiente, si schierano a sorpresa con i privati, riuniti nella “Comunione della Tonnara di Scopello e Guzzo”. «La priorità va data alla salvaguardia di un bene monumentale unico. Bisogna preservarlo da un assalto scriteriato di bagnanti», dice Gianfranco Zanna, direttore regionale di Legambiente. Prima, quando si pagava c’erano i bagni anche vicino al mare, c’erano le sdraio monocolore e grandi “vele” sotto cui ristorarsi. Ora, la gente è ammassata sui teli, stretta alle pareti, nelle scarse zone d’ombra che quest’estate caldissima concede. Poi c’è la «sporcizia e il degrado» testimoniata dalle foto di Legambiente — bisogni fisiologici lasciati qua e là da turisti privati delle toilette — che hanno già fatto il giro del web. E attorno ai soci della “Comunione” si è consolidato un ampio fronte di intellettuali che hanno scritto a Corrado Augias: da Sheena Wagstaff e Leonard A.Lauder, responsabili della sezione di arte moderna e contemporanea del Metropolitan di New York a Giuseppe Cassini, già ambasciatore italiano in Libano. «Io non difendo i privati ma chiunque dimostri di saper conservare un luogo di pregio», dice Augias.
Il Comune, in realtà, sta cercando di disciplinare la fruizione del sito, consentendo duecento ingressi ogni due ore. Ma chi controlla? Quando, nell’assolata mattinata di Scopello, con il termometro a 38 gradi, un gruppo di bagnanti risale dalla baia, gli altri in fila per accedere applaudono stremati dall’attesa. «È giusto rispettare le regole e dare ad altri la possibilità di visitare un posto meraviglioso», dice Bruno Mongale, un turista romano in uscita. Che aggiunge: «Non so se tutti stanno venendo via allo scadere delle due ore. Che vuole, siamo italiani...». In ogni caso, 200 accessi ogni due ore, in un arco di 10 ore, fanno 1.000 accessi al giorno. Cifra che supererebbe, in proiezione, i 70mila ingressi dell’anno scorso, sotto la gestione privata. La Tonnara potrà reggere simile flusso?
Sarà un tribunale amministrativo a stabilire se la baia della Tonnara sia zona demaniale, e dunque a disposizione di tutti, o invece privata perché annessa a uno stabilimento di produzione. Intanto, come tante storie siciliane, non mancano sospetti e veleni. Il sindaco Coppola sbotta: «Immondizia? Fino alle 19 vigila il Comune. Poi non lo so. Non escludo che qualcuno, di notte, metta la spazzatura nei viali per creare il caso». È una battaglia anche politica: a festeggiare «la liberazione del mare », nei giorni scorsi, sono spuntati esponenti di Sel e 5stelle.
postilla
L'unica alternativa seria, se non fossimo in Italia, sarebbe quello della costituzione di una riserva accuratamente governata da una struttura pubblica altamente qualificata, attrezzata e motivata. Come sono ancor oggi alcune eroiche sovrintendenze ai beni culturali. Ma è noto che in Italia di di oggi questo è solo il sogno. Meglio allora che la conservazione vinca sulla demagogia. Qui l'appello che abbiamo pubblicato in eddyburg.
«Secondo il Comune di Venezia e l'Autorità portuale la decisione dei giudici rallenta la realizzazione del nuovo canale Contorta, ma spiana la strada alla proposta della stessa amministrazione» Una vittoria della ragione, ma gli interessi mercantili e l'abissale cecità dei governanti sono già al contrattacco. La Nuova Venezia, 30 luglio 2015, con postilla
La sentenza del Tar del Veneto che ha accolto, in primo grado, i ricorsi promossi da Comune di Venezia e Associazione ambiente Venezia contro il nuovo canale Contorta Sant'Angelo dove dirottare il passaggio delle grandi navi da San Marco ne rallenta il procedimento di realizzazione, ma spiana la strada alla proposta della stessa amministrazione, fatta propria anche dall'Autorità Portuale, per il Canale "Tresse Est - Vittorio Emanuele". Lo affermano, in due note distinte, il Comune di Venezia e l'Autorità portuale.
La sentenza va ad aggiungersi ai risultati delle due Conferenze dei servizi convocate dall'Autorità portuale che hanno riscontrato l'impraticabilità delle soluzioni proposte in Bocca di Porto di Lido (progetto di banchine denominato Venice 2.0) e a Marghera, oltre che alla recente dichiarazione di "non interesse pubblico" del Comune di Venezia rispetto al progetto Venice 2.0. Tutto ci fa sì che l'unica soluzione oggi percorribile per applicare il decreto Clini-Passera sarebbe, secondo Comune ed Autorità portuale, quella del Canale "Tresse Est - Vittorio Emanuele".
Una soluzione che nel Comitato portuale dello scorso 16 luglio 2015 l'Autorità portuale ha deliberato di inserire nel proprio Piano operativo triennale 2015-17 su richiesta del Sindaco Brugnaro. "Va comunque evidenziato", rileva l'Autorità portuale, "invece il rischio che la sentenza del Tar mantenga o prolunghi, più di quanto necessario, il passaggio delle grandi navi crociera davanti a S.Marco. Esattamente come avvenuto con l'analoga sentenza che aveva fatto decadere le ordinanze di mitigazione temporanea per il 2014 e 2015".
postilla
Il lettore non veneziano forse non sa che il nuovo tracciato minacciato dal fecondo connubio tra il presidente dell'Ente porto, il noto Paolo Costa, e il sindaco di Venezia, l'ancora insufficientemente noto Luigi Brugnaro, comporterebbe anch'esso due gravissimi danni alla Laguna e alla città: l'ulteriore rafforzamento e allargamento del nefasto Canale dei petroli, che secondo la legislazione vigente dal 1977 si sarebbe già dovuto eliminare, e l'arrivo di torme di turisti "mordi e fuggi" nel cuore della città.
Finalmente un'analisi della vicenda romana che colloca le debolezze e gli errori di Ignazio Marino nel loro contesto, non facendone il capro espiatorio di colpe altrui. Il manifesto, 28 luglio 2015, con una lunga postilla
Questo non sgrava certamente Marino dalle sue responsabilità. Una su tutte: l'incapacità di far sentire Roma inserita in un grande progetto di rinascita di cui si stanno gettando le fondamenta e che chiama tutti i cittadini a fare la propria parte. Questa capacità Marino non l'ha espressa e forse non la possiede. Benché dalle interviste che rilascia si scorge un onesto e oscuro lavoro di cambiamento delle strutture profonde del potere romano. Tuttavia, le polemiche e le contestazioni anche violente subite dal sindaco a margine della questione “mafia capitale” sono molto rivelatrici di un modo errato e superficiale di concepire la politica e i poteri di un leader. Tramontata la concezione della politica come agire collettivo, oggi viene surrogata dalla visione demiurgica del leader che, così come vince le elezioni, trasforma la realtà e il destino delle persone con il suo agire solitario.Si è, ad esempio, rimproverato a Marino di non essersi accorto del malaffare che trescava attorno a lui. E in effetti una maggiore attenzione sarebbe stata benvenuta.Ma se ci son voluti mesi di intercettazioni e indagini della magistratura per scoperchiare la pentola, vuol dire che gli scantinati malavitosi sotto il Palazzo erano ben nascosti. Il groviglio di interessi che teneva sotto controllo la capitale mostra al contrario quante difficoltà e condizionamenti doveva e deve subire la politica democratica a Roma. E quindi le scoperte della magistratura militano a favore di Marino, mostrando i limiti storicamente sedimentati entro cui egli ha dovuto collocare in questi due anni la sua azione di primo cittadino.
E qui si dimentica un passaggio storico importante. Un tempo, quando esistevano i partiti di massa, i sindaci e gli assessori avevano un più ampio controllo di legalità sugli ambiti dell'economia pubblica, sulle pratiche amministrative, sulle persone. La partecipazione volontaria dei cittadini alla vita politica diventava essa stessa strumento di controllo e di trasparenza. Dunque l'azione di un leader non era isolata, ma era parte di un 'azione collettiva che operava assieme a lui, che trasformava le sue scelte in iniziativa politica.
Oggi i partiti, non più strumenti di emancipazione collettiva, ma al servizio di individui in competizione, sono un coacervo di comitati elettorali in reciproca contesa. E non stupisce che nella polemica di questi mesi non emerga, in alternativa alla giunta in carica, se non qualche nome di leader e mai una idea, che sia un'idea di Roma, un progetto visibile e condivisibile di città.
postilla
Finalmente qualcuno che colloca le debolezze e gli errori diIgnazio Marino nel loro contesto. Finalmente qualcuno che mostra di far propriala domanda che ponevamo nel “pensiero del giorno” di qualche giorno fa , eavvia una risposta utile ad andare avanti. Chiedevamo: «Come mai la colpa deldegrado della capitale è attribuita all'unico sindaco che sta tentando dirimuoverlo dopo che altri (non solo Alemanno, ma anche e prima di lui Veltroni)l'avevano provocato? Il PD storico e attuale è una palombella bianca?».
Ci fermiamo qui, e abbiamotoccato solo uno degli aspetti della continuità politica, economica e moraleche unisce il ventennio che è alle spalle di Ignazio Marino. Ma per cambiarerealmente le cose occorrerebbe lavorare su uno spettro di questioni più ampio.Solo da una corretta analisi del passato si può trarre la saggezza necessariaper andare aventi nella direzione giusta. (e.s.)
Non inganni il tono leggero, che illustra un caso locale di un problema universale: di burocrazia e ottusità istituzionale possono morire le persone e la vitalità urbana, altro che. Corriere della Sera Milano, 30 luglio 2015, postilla (f.b.)
Al primo conteggio erano 98, al secondo sono diventati 106, al terzo sono scesi a 102. Che è la media dei tre, quindi lo diamo per buono. Eccolo l’oggetto di metallo avente sezione tondeggiante e sviluppo prevalente nel senso della lunghezza, che piantato in terra per un estremo serve di sostegno. In sintesi, il palo: 102 ce ne sono, più o meno, nel solo largo Cairoli che sta rinnovando la viabilità e di conseguenza anche la segnaletica. Il che certifica due fatti. A) È certo che con tutte quelle indicazioni non ci si può perdere. B) La palite è la nuova malattia della burocrazia automobilistica urbana. Ormai c’è un palo per ogni cartello, o un cartello per ogni palo (sarà nato prima il palo o il cartello?, ah, saperlo!). Solo per i semafori ne svettano 36: possibile che ne servano così tanti in una piazza dal diametro di 50 metri? Tutti indispensabili? Pare di sì.
Poi ci sono tutti i piloni per le piste ciclabili: e via, altri segnali, di divieto, di consenso, di senso unico, di svolta a destra, di svolta a destra ma non a sinistra ma forse solo nei giorni pari. Poi c’è anche la versione nana con i mini pali a indicare gli spartitraffico. E le aste — appena due, tristi, solitarie y final — con gli specchi per i tram, che in realtà son già attrezzati di loro, ma non si sa mai: due specchi riflettono meglio di uno. E poi come non segnalare l’inizio della pista ciclabile e dell’area pedonale e poi la fine dell’area ciclabile e della pista pedonale? L’architetto dell’Expo Gate che guarda al Castello Sforzesco deve aver dato un occhio al paesaggio confinante e ha deciso che lì, in quello slargo, la fiera del palo era perfetta.
Via via che le piazze si rinnovano, l’aumento demografico dei pali cresce incontrollato. Basta fare uno slalom in piazza XXIV Maggio o una gimkana in largo Greppi, davanti allo Strehler. Sarà colpa delle nuove norme europee che spesso fanno a pugni con il buonsenso, ma è un fenomeno inarrestabile che disegna la nuova geografia dell’urbano palinsisto (in psichiatria il palinsisto è la coazione a ripetere nel piantare ogni tipo di palo, roba da Freud più che da assessore ai Lavori pubblici).
Un dedalo infinito di pali grigi, poi forse li dipingeranno — anche se pare che quel colore che sa di provvisorio sia quello definitivo. Intanto ne rimane pure qualcuno di quelli vecchi — giallo estinto tipo taxi — perché i pali nuovi sono quasi sempre un metro più a destra, 70 centimetri più avanti, mezzo metro più a nord di quelli precedenti. Con grande gaudio e soprattutto grande fatturazione per il Fornitore Unico di Pali che, immaginiamo, avrà vinto un appalto (chissà a quanto lo fa un palo, casomai servisse in casa).
La piazza è quasi terminata, con la sua nuova fisionomia a palafitta al contrario. Politicamente corretto e nel rispetto delle singole sensibilità poi che ogni palo sia così valorizzato, ognuno con il suo unico segnale stradale. Guardando meglio però — surprise — c’è un palo che regge due cartelli. Ma sarà di certo un errore.
postilla
Quanti casi analoghi possiamo citare, magari sperimentati di persona in qualche surreale percorso a slalom, di solito da pedoni, o in quelle foto «curiose» sul social che ritraggono la striscia bianca della carreggiata scostarsi rispettosa davanti a San Palo, per poi riprendere la corsa verso l’infinito? Il fatto è che si tratta di un problema serio, di qualità urbana e di sicurezza, se l’ex ministro per le aree urbane Tory, Eric Pickles, ne aveva desunto una vera e propria policy con tanto di rapporti e disegno di legge per l’abolizione delle «carabattole stradali» (street clutter). Non questione solo estetica, ma ostacolo a una autentica fruibilità degli spazi pubblici, ai flussi di traffico intermodale, alla stessa applicazione tecnica di qualche versione locale degli «spazi condivisi» di Hans Monderman, i pali ubiqui e autoreferenziali sono un problema serio. Da considerare seriamente, e non solo quando ci pestiamo contro la capoccia scendendo dal tram (f.b.)
Buone notizie per i romani, se le scelte di Marino saranno confermate. Marco Causi, Anna Donati, Marco Rossi Doria sono scelte più che affidabili per una giunta seria, se non si vogliono solo bandierine da sventolare nelle riunioni di partito. Il manifesto, 28 luglio 2015
Ieri pomeriggio l’incontro al Campidoglio fra il sindaco e i vertici vendoliani è finito male. Dopo le dimissioni del vicesindaco Nieri, Sel cercava garanzie su una svolta nel governo della città: punti qualificanti per il rilancio. Ma per Marino il punto era la poltrona di vicesindaco: che voleva tenere libero per un dem di fiducia del Pd romano, allo scopo di consolidare il sempre teso rapporto fra il sindaco ’marziano’ e il partito. A quel posto infatti oggi sarà chiamato Marco Causi, deputato dem che con ogni probabilità si terrà anche la delicata delega al bilancio. Sel invece aveva proposto Francesco Forgione, già presidente della commissione antimafia, vicino all’associazione Libera di don Ciotti e uomo di ottimi rapporti con la magistratura che indaga su Mafia Capitale. Per Marino l’ipotesi non esisteva. E così l’incontro finisce con la rottura. All’uscita il consigliere Gianluca Peciola parla di «appoggio esterno che passa da tecnico a politico». La traduzione che ne dà il più diretto Paolo Cento, nuovo responsabile della Sel romana, è: «Con il Pd si apre una fase di competizione. Con il sindaco Marino manterremo un rapporto di verifica delibera per delibera», insomma, «se il Pd vuol far saltare il centrosinistra a Roma se ne assume la responsabilità». Sel per ora sembra orientata a non far mancare i suoi voti alla maggioranza, almeno «per tutti quei provvedimenti che saranno davvero utili per la città e per i cittadini romani». Ma presto i nodi arriveranno al pettine. Anzi subito. Oggi stesso in aula inizia la maratona per approvare l’assestamento al bilancio 2015. Per il sì finale c’è tempo fino al 31 luglio. Nel provvedimento sono contenute iniziative alle quali Sel ha già detto no: per esempio sul capitolo Atac. Sel non è contraria alla ricapitalizzazione stabilita nel testo, ma lo è a far entrare «un partner industriale» privato nell’azienda. Marino potrebbe dover voti fuori dalla maggioranza, trasformando di fatto il monocolore Pd in «larghe intese» sul modello nazionale. Così i 5 stelle ora sfidano Sel a staccare la spina.
Il sindaco non se ne preoccupa e punta tutto sul rimpasto di giunta che sarà varato oggi. Nonostante le aspettative, alla fine si va sull’usato sicuro: per i trasporti circola il nome di Anna Donati, già assessore alla mobilità sia a Bologna che a Napoli; per le periferie quello di Marco Rossi Doria, già sottosegretario all’Istruzione con i governi Monti e Letta.
Ma non è affatto detto che il sacrificio di Sel e il lifting all’esecutivo capitolino facciano cambiare disposizione d’animo a Palazzo Chigi, da dove non smette di filtrare una gelida ostilità all’indirizzo del Campidoglio. Stasera sarà la prova del nove: alle 21 il presidente Renzi parlerà alla festa dell’Unità della Capitale, un appuntamento attesissimo che il premier però avrebbe preferito disertare. Ci va, invece, per l’insistenza del commissario Orfini. A cui come condizione avrebbe chiesto l’assenza del sindaco.
Il quale comunque rischia grosso: non solo dal giudizio ’del suo segretario pronunciato di fronte ai militanti, ma anche da quello in arrivo da parte del ministro degli interni. D’accordo con Orfini, Marino procede al rimpasto prima che Alfano si sia pronunciato sullo scioglimento della città per mafia. La ’sentenza’ potrebbe arrivare a giorni. Il rischio è che la relazione del ministro renda necessarie nuove dimissioni dalla giunta. Tutto tornerebbe in ballo.
La questione dei grandi sistemi insediativi, di riconoscerne l’esistenza in quanto tali e poi eventualmente di programmarne lo sviluppo, è vecchia quanto l’uomo. Ma anche il vizio di confondere un po’ i termini. La Repubblica, 27 luglio 2015, postilla (f.b.)
La Cina vuole donare al mondo la nuova capitale del futuro. Sarà la megalopoli più vasta e popolata della storia e anche il suo nome sembra studiato su un pianeta alieno, dove è vietato perdere tempo: “JJJ”, ossia “Jing-Jin-Ji”, da pronunciare “tre gi”, o “gei-gei-gei”. Già la sigla rivela un progetto colossale: fondere Pechino (Beijing), con il porto di Tianjin e con l’intera regione dell’Hebei, che i cinesi chiamano rapidamente «Ji». Le dimensioni appaiono oggi disumane: oltre 100 mila chilometri quadrati e 130 milioni di abitanti. Per capire: la capitale cinese conta oggi 21,5 milioni di persone, New Delhi 14, Tokyo 13,3, Città del Messico 9,1, New York 8,4, Londra 8,3. La nuova mega- city globale avrà un po’ meno di un terzo degli abitanti degli Usa, quasi quanti l’intera popolazione russa, oltre il doppio di quelli in Italia. Roma ha 2,6 milioni di residenti, Milano 1,5: non rappresenteranno nemmeno un quartiere della metropoli con cui il presidente Xi Jinping è deciso a sconvolgere il profilo di quella che punta a diventare la prima super- potenza del secolo.
Pure l’obiettivo tradisce un’ambizione senza precedenti: creare un nuovo concetto di urbanizzazione, per chiudere l’era delle città industriali dell’Occidente, nate nell’Ottocento, e aprire quella delle regioni hi-tech, che segneranno il Duemila dell’Oriente. La spaventosa “Big-Bei”, appellativo con cui la propaganda di Stato cerca già di rendere simpatica la prossima capitale tra i cinesi, è investita della missione di dominare il pianeta, ma prima di salvare la Cina socialista, costretta a convertirsi realmente alle leggi del libero mercato. Pechino ha il problema di essere un innesto incompiuto e arretrato: la metropoli del potere maoista è cresciuta sulle rovine di quella imperiale, lo stile è quello squallido sovietico, la qualità della vita prossima allo zero, i residenti sempre più vecchi. L’antica bellezza di pietra è soffocata dai palazzoni di cemento, bunker del partito-Stato e delle sue “industrie del popolo”. Traffico, congestione e smog sono un incubo che gli stessi cinesi, dopo gli occidentali, si sono rassegnati a definire «condizioni inadatte alla vita umana».
Il “nuovo Mao”, deciso a non farsi schiacciare nella funzione burocratica del moralizzatore anti-corruzione, così ha deciso: il mondo ha bisogno di una capitale-simbolo del futuro, la Cina di una giovane metropoli- immagine del cambiamento e questa vetrina globale del “sogno cinese” sarà Pechino, rifondata come “JJJ”. La leva della rivoluzione, oltre agli affari, è la tecnologia. Per connettere una città-regione vasta come un terzo dell’Italia, entro dieci anni verranno ultimate decine di linee ferroviarie ad alta velocità, di autostrade, di canali fluviali e di ponti, di metropolitane, di aeroporti e di tunnel. L’attuale Pechino, ricostruita nei villaggi imperiali rasi al suolo dalle Guardie rosse, resterà uno spot di storia, arte e ambiente, consacrato al business del commercio e del turismo internazionale. La nuova metropoli, estesa tra il mare di Tianjin, le montagne che confinano con la Mongolia e le pianure dello Yangtze che conducono verso Shanghai, inghiottirà centinaia di villaggi rurali e di città di seconda fascia, trasformate in dormitori, distretti industriali, poli della ricerca e del potere, tutti satelliti del pianeta principale.
Già oggi è in parte così. Più del 60% dei pechinesi abita al di là del quinto anello delle circonvallazioni, muro ufficiale che divide il centro dalla periferia. Per questa massa di persone, costituita da 8,1 milioni di migranti interni, la vita quotidiana è un calvario. I vecchi si alzano all’alba e raggiungono le stazioni dei bus prima delle cinque, per fare la coda al posto dei figli che lavorano in città. Questi arrivano alle sei e grazie al sacrificio dei genitori pensionati possono sperare di raggiungere l’ufficio, o la fabbrica, dopo tre ore di viaggio. Il tragitto medio del pendolare metropolitano tocca in 50 chilometri, per coprire i quali si impiegano anche cinque ore, condanna da scontare due volte al giorno.
L’onnipotente Commissione per lo sviluppo e per la riforma (NDRC), ha ora annunciato che grazie all’alta velocità i futuri abitanti di “JJJ” non dovranno perdere oltre un’ora al giorno sui mezzi di trasporto, percorrendo al massimo 100 chilometri. Il segreto, secolare eredità nazionale, è la pianificazione forzata. Ad ogni area metropolitana il governo assegnerà un compito preciso: l’attuale Pechino punterà su cultura e terziario hi-tech, Tianjin su ricerca, distribuzione ed energia, l’Hebei sulla manifattura delle piccole e medie imprese. Anche i sobborghi riceveranno l’ordine di una vocazione. Il quartiere-fantasma di Tongzhou, una spianata con centinaia di prefabbricati tutti uguali alti venticinque piani, sarà trasformato nella nuova cittadella del potere rosso.
Dopo oltre mille anni il cuore dell’impero traslocherà dalla Città Proibita, affacciata su piazza Tiananmen, alla periferia nord, su cui sorgerà pure un secondo aeroporto, subito candidato ad essere «il più trafficato del pianeta». A Tongzhou verranno trasferiti i ministeri, il cosiddetto parlamento, la sconfinata burocrazia cinese, i colossi dell’economia di Stato, ma pure gli ospedali, le università, i tribunali e le caserme dell’armata di liberazione. L’obiettivo dichiarato è alleggerire il centro dal traffico e dall’inquinamento più terrorizzanti dell’Asia. Quello taciuto è circoscrivere la roccaforte del potere comunista, per renderla più controllabile, interconnessa e difendibile. Treni- missile e metrò, grazie a convogli da oltre 300 chilometri all’ora, faranno sì che entro il 2025 trasferimenti che oggi impegnano tre ore vengano ridotti a non più di 40 minuti.
Riordinare la Cina in un’unica megalopoli verde e hi-tech, con Pechino centro del Nord, Shanghai del Centro e Guangzhou del Sud, è la missione a cui la nuova generazione dei leader affida non solo il destino delle riforme economiche, ma anche la sopravvivenza dei cinesi e quella del partito. Una super-città da 130 milioni di abitanti, fondata su treni, auto elettriche, energie verdi e colletti bianchi, rappresenta una sfida titanica per i servizi, dall’acqua al cibo, dall’istruzione ai rifiuti. L’urto del boom immobiliare sfonda però anche i limiti conosciuti della convivenza sociale, mescolando un decimo della popolazione nazionale. «La mobilità veloce — dice Dong Zuoji, direttore dell’ufficio centrale di pianificazione territoriale — rivoluziona gli spazi politici, economici e vitali: ma prima di tutto apre prospettive inimmaginabili al sistema adottato dall’umanità per distribuirsi sulla terra. Il fenomeno dell’immigrazione ad esempio, presto sarà superato».
Per bruciare le tappe “JJJ” punta ancora una volta sulle Olimpiadi. Il 31 luglio il Cio assegnerà i Giochi invernali 2022 e Pechino contende alla kazakha Almaty l’opportunità di diventare la prima località al mondo ad aver ospitato le gare olimpiche sia estive (2008) che bianche. Il punto forte della candidatura cinese, oltre al low cost e agli sponsor, è proprio l’eco-compatibilità e la connessione rapida con i campi di gara, sulle montagne di Zhangjiakou, vicino alla Grande Muraglia. Da mesi, per vincere la sfida del cielo blu, le autorità hanno fermato fabbriche, centrali a carbone e traffico. Milioni di migranti, grazie a un sistema a punti, sperano di strappare i diritti di cittadinanza nella capitale, miraggio rurale dai tempi di Mao.
Se tra dieci giorni Pechino coronerà il secondo sogno olimpico in un quindicennio, il segnale sarà inequivocabile per tutti: il conto alla rovescia della megalopoli-Paese del futuro è cominciato, il mondo ha trovato la sua prossima capitale.
postilla
In fondo la verità pura e semplice ce la racconta nei fatti anche l’articolo: centomila chilometri quadrati sono un terzo del totale della superficie italiana, e anche quei 130 milioni di abitanti (specie se non si concede troppo al caso o allo sprawl «di mercato») organizzati per nuclei di grandi e medie dimensioni ci stanno relativamente comodi, lasciando spazio a ottime e pure visivamente abbastanza «a perdita d’occhio» distese verdi. Insomma l’idea originaria e autentica di megalopoli, complice l’urbanizzazione planetaria e i problemi creati dalla crescita a casaccio, pare stia iniziando a uscire dal cosiddetto «libro dei sogni», così come si chiamava da noi in Italia con linguaggio sprezzante esattamente qualcosa del genere, circa mezzo secolo fa. Sarebbe ora che qualcuno, come auspicano ogni tanto geografi o urbanisti in qualche estemporanea intervista sulla vita e dintorni, si accorgesse che nominarla, la megalopoli, non significa fare paura ai bambini, ma iniziare a riconoscere il problema, e magari affrontarlo per tempo coi criteri adeguati. Invece a volte dobbiamo sorbirci sequele di sciocchezze, come quelle pubblicate tempo fa da un noto architetto e ascoltato maître à penser locale, riportate nello Stupidario (f.b.)
Ecco perché un'ora e un quarto di ritardo dell'apertura di Pompei al pubblico è diventato un caso internazionale, che ha sputtanato l'Italia ma coperto le magagne del governo. La Repubblica, blog "Articolo 9", 26 luglio 2015
Una brava urbanista, Paola Viganò, e un buon episodio di progettazione urbana, mediante una procedura corretta. Intervista a risposte intelligenti e spesso condivisibili: con una contraddizione (TAV) e uno scivolone (art. 9). Corriere della Sera, suppl. «Sette» 24 luglio 2015
A un certo punto le soffio addosso il venticello malizioso che circola tra alcuni suoi colleghi sul perché abbia vinto il concorso per ridisegnare il quartiere Flaminio, a Roma: la presidentessa della Giuria era un’allieva del suo ex socio Bernardo Secchi, archistar dell’urbanistica italiana, venuto a mancare nel settembre 2014. Lei replica: «Il tempo e la storia ci diranno se è così». Il tono è decisamente indifferente. Tipo: «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa». Poi, dopo una pausa, mette una pietra tombale sulla polemica: «Lo sa che sono l’unica donna e l’unica non francese ad aver vinto il Grand Prix de l’Urbanisme?».
In Italia si ha paura del futuro?
«Sì. Da noi non c’è una classe politica all’altezza. Non c’è una classe dirigente che voglia costruire il futuro. In Nord Europa, oggi, fioriscono studi sull’invecchiamento della popolazione e su come affrontarlo. Noi italiani, che siamo più vecchi di loro, non ci poniamo nemmeno il problema di come riprogettare il Paese e le città. Ci sono grandi questioni di lungo periodo su cui si dovrebbe riflettere a fondo: i cambiamenti climatici, l’invecchiamento della popolazione, le migrazioni, la crisi e i nuovi lavori. Secchi nel suo ultimo libro lo dice chiaramente: “Emerge con forza una nuova questione urbana”».
Se potesse bisbigliare a Renzi un suggerimento…
«Si concentri su questi temi e ridia voce a chi si occupa del progetto della città e del territorio. Non siamo privi di senno e siamo ascoltati in tutta Europa. In Italia c’è una tradizione nobilissima di urbanisti».
Gli urbanisti in Italia hanno creato anche sfaceli: Scampia, lo Zen, il Corviale… Palazzi/quartiere in cui è cresciuto solo il degrado.
«Non dica così. In Francia le periferie sono in condizioni ben peggiori. Le zone che lei ha citato sono monumenti a un pensiero. Se li accettiamo come tali, restauriamoli. Se invece davvero non riconosciamo loro, collettivamente, alcun valore e se gli abitanti sono d’accordo, abbattiamoli. Ma ricordiamoci che è la concentrazione del disagio e della povertà a creare i problemi, non l’architettura».
Non è che con il Progetto Flaminio realizzerete un mostro che fra trent’anni avremo tutti voglia di abbattere? C’è chi protesta perché ci sono troppi metri quadri abitativi e perché alcuni palazzi sono troppo alti…
«Le altezze sono quelle che troviamo in questa parte di Roma. I metri quadri sono quelli richiesti e non sono incoerenti. Cassa Depositi e Prestiti, dopo aver visto i disegni, ci ha pure chiesto se li avevamo messi tutti, perché il progetto mantiene una certa leggerezza: abbiamo aumentato gli spazi pubblici, oltre ad aver accolto l’atlante botanico suggerito dalla cittadinanza e conservato alcuni segni e la memoria di quel che c’era prima. Piuttosto, vorrei avere rassicurazioni sul fatto che il piano verrà rispettato».
C’è già chi sostiene che la Città della Scienza non verrà mai realizzata. Per assenza di soldi, di volontà politica, di utilità…
«Nella nostra relazione noi abbiamo scritto “Città della Scienza o un’attrezzatura metropolitana analoga…”. A Roma non si sente la necessità pressante di costruire una Città della Scienza. Magari sarebbe più utile uno spazio che completi il Maxxi, il Museo delle Arti del XXI secolo. Credo che alla fine saranno lo spazio, la galleria esistente e le grandi luci libere a generare ipotesi per una loro funzione e utilità. Succede spesso. Quel che eviterei, e che invece è previsto, è la costruzione di un grande parcheggio sotterraneo».
Non potrebbe essere utile? In una città come Roma…
«A Roma, come in tutta Italia, dovremmo ripensare i trasporti pubblici: far funzionare l’Alta velocità, riutilizzare alcune tratte su rotaia dismesse».
Lei è Pro Tav o No Tav?
«Uso l’Alta velocità, ma non amo questo tipo di domande. E non ho una conoscenza adeguata della situazione per parlarne».
Expottimista o Exposcettica?
«Le cose sono più complicate. Expo2015 è stata costruita in un’area che, a differenza di altre zone disponibili della città, come Rogoredo, non era urbanizzata. Così si sono costruiti svincoli, strade e infrastrutture che hanno frammentato ancora di più il territorio. Un errore grande. Puro spirito speculativo. Chi ci va dice: “Carino”. E sì, si è risvegliato qualche interesse nei confronti della città. Ma la qualità degli spazi è quella che è. Ed è imperdonabile aver sacrificato tutto quel terreno agricolo lombardo».
Lei è nata lombarda, ma è cresciuta a Firenze.
«Sono di Sondrio. Mio padre è stato un piccolo imprenditore della pietra con un forte spirito artistico. Sono arrivata a Firenze negli anni Settanta. Da adolescente. I miei genitori, anche per tenermi al riparo dai venti della contestazione, mi misero nel Collegio di Poggio Imperiale, quello dove era stata Maria José…».
… l’ultima regina d’Italia…
«Esatto. Vestivamo con abiti ottocenteschi. Eravamo tagliate fuori dal mondo. È stata un’esperienza molto formativa, da cui sono uscita con una certa robustezza psicologica».
E con la voglia di fare l’urbanista?
«No, amavo disegnare. Il disegno è uno strumento di costruzione del pensiero. Mi iscrissi ad Architettura. Leggendo gli editoriali di Bernardo Secchi sulla rivista Casabella, cominciai ad appassionarmi all’Urbanistica. Conobbi lo stesso Secchi lavorando a un progetto nella periferia di Prato».
I primi lavori…
«Secchi chiedeva ai suoi collaboratori di stare sul campo e di fare i rilievi. Si trattava di camminare ore e ore per capire gli spazi di una città o di un quartiere. Un esercizio lento, durante il quale ci si immerge nelle realtà sociali e si educa lo sguardo a capire la densità dello spazio su cui si deve intervenire. Nel 1990 decidemmo di fondare insieme uno studio. Per 24 anni abbiamo cambiato nome ogni anno. Ora si chiama Studio 015».
A cena col nemico?
«Con Nicolas Sarkozy. Criticabile come politico di destra, ma ha lanciato lo studio su “La grande Parigi”. I successivi governi di sinistra non hanno sostenuto il progetto con lo stesso impegno».
Qual è la scelta che le ha cambiato la vita?
«Iniziare a lavorare con Secchi. Quando mi sono laureata non pensavo che avrei fatto l’urbanista. La vocazione è cresciuta discutendo con lo stesso Secchi le teorie di Giuseppe Samonà sull’unione tra architettura e urbanistica».
Che cosa guarda in tv?
«Ne guardo poca. La Bbc e qualche fiction terribile per scaricare la testa dai pensieri».
Il film preferito?
«Tra i recenti… Mommy del canadese Xavier Dolan».
La canzone?
«Canzone? Ascolto molta musica barocca».
Il libro?
«Ho appena fatto un’immersione nei romanzi del Nobel francese Patrick Modiano».
Lei non è su Twitter.
«Perché non mi piace quest’idea di comunicazione totale».
Sa quanto costa un pacco di pasta?
«Un euro o poco più».
Conosce i confini di Israele?
«Ci sono stata recentemente. Ho trovato scioccante che i miei colleghi architetti e urbanisti a tavola parlassero amabilmente di armi».
L’articolo 9 della Costituzione?
«Non lo ricordo in questo momento, mi aiuti».
Dice che la Repubblica sviluppa la cultura e tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico.
«È chiaro che ciò non accade. E quindi c’è molto lavoro da fare».
nota
A differenza del solito il titolo è nostro. Non abbiamo trovato a Venezia il settimanale Sette.
Gli operatori privati iniziano con il dovuto anticipo a mettere in campo strategie territoriali di area vasta, mentre la politica metropolitana annaspa e i cittadini non ci capiscono nulla. Corriere della Sera Milano, 26 luglio 2015, postilla (f.b.)
La Sea presenta al sindaco Giuliano Pisapia un progetto che trasformerebbe l’Idroscalo in una sorta di Central Park milanese. Un rilancio in vista della ristrutturazione di Linate e, soprattutto dell’arrivo della linea 4 della metropolitana. Chi ha avuto modo di vederlo ne è rimasto colpito: il rendering, cioè la rappresentazione grafica del progetto di come potrà diventare l’Idroscalo si presenta davvero bene. Chi non ha dubbi è Pietro Modiano, presidente di Sea — la società aeroportuale milanese a cui fanno capo gli scali di Linate e Malpensa — che ha trovato modo di presentarlo al sindaco di Milano, Giuliano Pisapia.
postilla
In attesa di rientrare anche noi comuni mortali nel novero degli eletti, di « Chi ha avuto modo di vederlo – il progetto, e - ne è rimasto colpito», possiamo solo sottolineare l’assurdità, in parte sottolineata anche dall’articolo, di interessi particolari che si muovono alla coerente scala metropolitana, mentre sia le amministrazioni che i cittadini continuano, con varie motivazioni e colpe specifiche, a guardare coi paraocchi di confini municipali e non solo. Così si scopre che quanto già cantato da Jannacci cinquant’anni fa come zona periferica di Milano continua ad apparire lontana e misteriosa landa, che con un rendering (sic) qualcuno può tranquillamente trasformare in Central Park, termine che a Milano suona a dir poco sinistro se si ricorda che a usarlo fu il famigerato sindaco Albertini a proposito di un praticello spelacchiato e semiprivatizzato in mezzo all’orgia di metri cubi detta City Life. L’Idroscalo è invece un magnifico parco, che si inserisce in una fascia intermedia fra zone aeroportuali, altre zone compromesse da un confuso sviluppo suburbano (i tre grossi cul-de-sac residenziali all’americana contigui ma disposti su tre comuni diversi e gli office park Mondadori e IBM), e importanti superfici oggi agricole e a cave, il cui governo è indubbiamente strategico se si vuole evitare la saldatura autostradale e suburbana definitiva del nord metropolitano. E invece ci ritroviamo con un rendering, per giunta sconosciuto e visibile solo a qualche gruppo di privilegiati. Che diavolo sarà quel Central Park? Un Luna Park? L’ennesima trasformazione urbana con la scusa delle «strutture per il tempo libero attrezzate»? Vorremmo saperlo, ma a quanto pare le terze file della politica a cui è stato dato l’onere del «governo metropolitano» non possono o magari non vogliono dircelo (f.b.)
Una lettera al ministro della Cultura Franceschini: «Gesto diresponsabilità sul Giardino dei Giusti».Corriere dellaSera, 24 luglio 2015. In calce il testo integrale della lettera e il link all'appello su eddyburg
Un altro scandalo minaccia (per noi "promette") di fermare l'attraversamento sotterraneo del centro di Firenze. Ma il toscano padrone d'Italia non si lascerà fermare da leggi, burocrazie, soprintendenze e così via...La Repubblica, ed. Firenze, 24 luglio 2015
La stessa autorizzazione che è costata qualche guaio giudiziario aggiuntivo a Ercole Incalza, l’ex top manager delle infrastrutture arrestato per ordine della procura di Firenze: attestò che l’autorizzazione paesaggistica non era scaduta, mentre invece lo era già. Secondo i No Tav fiorentini, che con Massimo Perini e Tiziano Cardosi hanno pure scritto al Comune di Firenze per chiedere lumi, l’autorizzazione paesaggistica sarebbe scaduta addirittura nel 2005.
Certo, in teoria si può sempre rinnovare. Solo che non è una cosa che si può fare dalla sera al mattino. Occorrono certificazioni, elaborati progettuali. E occorre che si esprima il ministero dei Beni culturali: il bello è che dal primo gennaio 2010, a seguito di un decreto legislativo, è cambiata l’intera procedura di autorizzazione. E se prima il parere del ministero arrivava a seguito dell’esclusiva valutazione e verifica della domanda e della relativa documentazione, dal 2010 in poi è diventato centrale il ruolo della soprintendenza. Con quale normativa si dovrebbe rinnovare adesso l’autorizzazione ambientale?
«A settembre il Cnr avrà classificato le terre di scavo e bisognerà solo vedere se le autorizzazioni valgano ancora». È lo stesso Ad di Rfi Maurizio Gentile ad ammettere che le autorizzazioni potrebbero diventare un problema. Un’altra ‘spada di Damocle’ che pende sul tunnel fiorentino. Non l’unica. Perché quando il Cnr, dopo ormai un anno e mezzo di meditazione, avrà stabilito se i materiali prodotti dalla ‘talpa’ siano rifiuti o semplicemente terre, anche il Put, il Piano di utilizzo delle terre dovrà essere rivisto.
Quello esistente, elaborato dal vecchio consorzio Nodavia (in mano alla Coopsette mentre oggi è di Condotte) nel 2012, fu approvato dal ministero dell’ambiente. Pochi mesi dopo però saltò fuori l’inchiesta della procura di Firenze e, prudententemente, il ministero provvide a sospenderlo. Adesso quel Piano dovrà essere rivisto sulla base delle conclusioni del Cnr e di nuovo valutato. Quanto tempo richiederà? Difficile fare previsioni. Altrettanto difficile prevedere l’avvio dello scavo nel prossimo autunno. Anche se Condotte ci crede: «La nuova fresa ultimata in Germania è già in viaggio per l’Italia e per fine ottobre sarà montata e pronta ad iniziare», annuncia l’impresa. Quanto al rinnovo dell’autorizzazione paesaggistica, fa sapere Condotte con uno slancio di ottimismo, «dovrebbe pervenire in tempo utile per l’avvio degli scavi». Appunto, dovrebbe.
«La documentazione di valutazione di impatto ambientale prodotta da Enac, braccio armato della Toscana Aeroporti di Marco Carrai, non convince il ministero dell'ambiente. Entro 45 giorni Enac deve rispondere a numerose, e gravi, criticità del Masterplan del futuro scalo». Il manifesto, 24 luglio 2015
L’assoluto nonsenso di un nuovo scalo intercontinentale in un’area densamente urbanizzata, e ambientalmente già congestionata, convince anche il ministero dell’ambiente a dare un pesante colpo di freno al progetto del nuovo aeroporto Vespucci. Se ne farà una ragione Toscana Aeroporti, guidata da Marco Carrai. Il cui vicepresidente Roberto Naldi, intervistato nei giorni scorsi dal Tg3 toscano, assicurava l’inizio delle opere propedeutiche già a fine agosto. In tempo per non perdere i 50 milioni inseriti nello Sblocca Italia dal governo di Matteo Renzi, principale fan dell’opera.
Nelle sedici pagine di richieste di integrazione alla documentazione di valutazione di impatto ambientale prodotta dall’Enac, braccio armato di Toscana Aeroporti, il ministero impallina il Masterplan aeroportuale. Il Masterplan, perché del progetto definitivo – sui cui in teoria dovrebbero essere fatte le Via – non c’è traccia. Una procedura così anomala da far scrivere all’arrabbiatissima Università di Firenze, il cui prestigioso Polo scientifico finirebbe viicinissimo allo scalo: “Si ritiene che, già sin d’ora, nella procedura di Via, siano rilevabili evidenti profili di illegittimità, tali da giustificare un parere negativo”.
Su questo tema, per ora, i tecnici del ministero non si esprimono. Lo fanno invece su quanto prodotto da Enac, l’Ente nazionale aviazione civile, che da tempo lavora per far realizzare, per “motivi di sicurezza”, la nuova pista parallela all’autostrada A11 Firenze-Mare lunga ben 2.400 metri. Più altre centinaia di metri per vie di fuga e altri “accorgimenti tecnici”. Ben oltre quanto deciso dalla stessa Regione Toscana, che nel suo Piano di indirizzo territoriale sull’area ha posto come limite massimo una pista di 2.000 metri. Fatto che porta subito il ministero a chiedere: “Il proponente (cioè Enac, ndr) provvederà a chiarire quali sono le modalità previste per la risoluzione dell’incongruenza rilevata con le previsioni del Pit”.
Pagina dopo pagina, i tecnici proseguono nel loro lavoro di demolizione: “Il proponente non esplicita in modo chiaro e dettagliato le interazioni, le correlazioni e la coerenza delle opere idrauliche previste nel Masterplan, con i progetti di altre pianificazioni e e programmazioni che insistono sull’area di influenza dell’aeroporto. In particolare si evidenzia di chiarire, da un punto di vista progettuale e quindi sugli impatti ambientali attesi, in primo luogo le relazioni con la terza corsia autostradale dell’A11 (Firenze-Mare) da Firenze a Pistoia. Con l’inceneritore e la discarica di Case Passerini. Con la pianificazione dei Comuni interessati. Con il Pit della Regione Toscana sulle opere di gestione delle problematiche del sistema idrico”.
Un sistema assai complesso, visto nella Piana fiorentina incidono numerosi corsi d’acqua e in particolare quel vero e proprio mini-fiume che è il Fosso Reale. Di qui l’osservazione: “La scelta di deviare il Fosso Reale secondo il tracciato presentato, e le soluzioni scelte per superare l’interferenza con l’autostrada A11, non risultano dettagliatamente motivate”. Quanto alla pianificazione dei Comuni interessati, basta chiedere ai “ribelli” di Sesto Fiorentino, che hanno defenestrato la sindaca renziana Sara Biagiotti anche per la sua inazione sul tema.
Non è finita: sulla qualità dell’aria nella zona, già oggi al limite, si scopre che Enac ha portato solo i dati dell’anno 2010: “Le analisi vanno fatte su un arco di tempo di almeno dieci anni – replica il ministero – sullo scenario futuro di traffico aeroportuale più gravoso, e gli effetti vanno considerati su una distanza minima di tre chilometri”. A seguire la risposta a un’altra furberia di Enac: “Le concentrazioni degli inquinanti vengono simulate senza considerare i livelli di fondo dell’area. Che vanno mostrati, e poi separati da quelli che saranno propri dell’aeroporto”. Tanto basta perché i consiglieri della sinistra cittadina Tommaso Grassi, Giacomo Trombi e Donella Verdi, così come l’urbanista Ilaria Agostini di Perunaltracittà, tirino le somme: “I tecnici del ministero ridicolizzano il Masterplan”. Per giunta le risposte di Enac devono arrivare, al massimo, entro 45 giorni.
Riferimenti
Vedi su eddyburg gli articoli di Ilaria Agostini e di Paolo Baldeschi. Numerosi altri nella cartella muoversi accedere spostarsi
Non si uccide così l'art. 9 della CostituzioneIl disegno di legge Madia sulla riorganizzazione dell'amministrazione statale prevede la confluenza delle Soprintendenze nelle Prefetture (ddl 1577/2015, art. 8 comma 1e). Si tratta del più grave attacco al sistema della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale mai perpetrato da un Governo della Repubblica italiana.
Anzi, l’attacco finale e definitivo.
Chiediamo al Presidente della Repubblica di vigilare su questa e ogni altra violazione dell'art. 9 della Costituzione; ai Presidenti del Senato e della Camera di garantire un'adeguata discussione parlamentare; al ministro Dario Franceschini, attuale titolare del Mibact, di opporsi con ogni mezzo a tale disegno politico.
O questo governo sarà per sempre ricordato come il becchino di una delle più gloriose strutture di civiltà e democrazia della cultura europea.
Roma-Bologna, 23 luglio 2015
Alberto Asor Rosa
Paolo Baldeschi
Alessandro Bedini
Paolo Berdini
Irene Berlingò
Anna Maria Bianchi
Giovanna Borgese
Licia Borrelli Vlad
Massimo Bray
Francesco Caglioti
Mario Canti
Giuliana Cavalieri Manasse
Pier Luigi Cervellati
Giovannella Cresci
Nino Criscenti
Angelina De Laurenzi
Anna Donati
Dario Fo
Andrea Emiliani
Vittorio Emiliani
Fernando Ferrigno
Maria Teresa Filieri
Domenico Finiguerra
Fabio Isman
Donata Levi
Costanza Gialanella
Daniela Giampaola
Piero Gianfrotta
Carlo Ginzburg
Maria Pia Guermandi
Giovanni Losavio
Paolo Maddalena
Concetta Masseria
Maria Grazia Messina
Tomaso Montanari
Alessandro Nova
Rita Paris
Desideria Pasolini dall'Onda
Carlo Pavolini
Giovanni Pieraccini
Maria Luisa Polichetti
Luciana Prati
Adriano Prosperi
Valeria Sampaolo
Edoardo Salzano
Salvatore Settis
Sergio Staino
Corrado Stajano
Simonetta Stopponi
Roby Stuani
Mario Torelli
Bruno Toscano
Carlo Troilo
Sauro Turroni
Monique Veaute
Paola Ventura
Serena Vitri
Fausto Zevi
Sottoscrivono inoltre il Comitato per la Bellezza, l'Associazione Altreconomia e Laboratorio Carteinregola Roma
La Repubblica, 20 luglio 2015 (m.p.r.)
Il disegno di legge Madia sulla riorganizzazione dell’amministrazione dello Stato contiene un pericolo per la tutela del «paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione » (art. 9 Cost.) anche più grave del già grave silenzio-assenso. La legge decide (all’articolo 7) la trasformazione delle prefetture in «uffici territoriali dello Stato, quale punto di contatto unico tra amministrazione periferica dello Stato e cittadini» sotto la direzione del prefetto.
La Repubblica, 19 luglio 2015
Che cosa ne direste se all’interno di Villa Borghese, a Roma; del Parco Sempione, a Milano; o di qualsiasi altra villa o parco di una qualsiasi altra città, fosse autorizzata l’apertura della caccia oppure la costruzione di un traforo o di un tunnel ferroviario? Non è poi un’ipotesi tanto peregrina. E anzi, secondo gli ambientalisti, riguarda proprio il Parco nazionale dello Stelvio e potrebbe coinvolgere anche gli altri quattro Parchi “storici”: quello del Gran Paradiso, quello del Circeo, fino a quelli della Sila e dell’Aspromonte.
Con una lettera urgente inviata in queste ore al ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, la presidente del Wwf Italia Donatella Bianchi e il presidente di Federparchi Giampiero Sammuri lanciano l’allarme sullo Stelvio, richiamando il governo a rispettare la Costituzione e la legislazione vigente in materia. La denuncia parte dalla lettura dell’Intesa siglata tra lo Stato, la Regione Lombardia e le Province autonome di Trento e Bolzano. A studiare bene quel testo, e comparandolo con la legge quadro sulle aree protette (6 dicembre 1991 - n. 394), i dirigenti del Wwf e della Federparchi si sono accorti ora che – in forza di un accordo tra forze politiche nazionali e locali – si prevede di fatto la “de-nazionalizzazione” del Parco dello Stelvio: cioè un “trasferimento tout court delle competenze statali prima alle Province autonome di Trento e Bolzano e poi alla Regione Lombardia”.
Si tratterebbe, insomma, della dismissione progressiva e automatica di quello che è dal 1935 il Parco nazionale dello Stelvio, arrivato proprio quest’anno a compiere 80 anni, uno dei più antichi d’Europa e dei più estesi di tutto l’arco alpino. Un un patrimonio collettivo, destinato finora a tutelare le specie animali e vegetali, a proteggere gli habitat, a difendere la biodiversità. Qui, su una superficie di oltre 130mila ettari, sopravvivono il camoscio, lo stambecco, l’aquila, l’orso bruno, il gipeto, il gallo cedrone, la pernice bianca.
È vero che spesso gli ambientalisti peccano di allarmismo, pagandone a volte le conseguenze in termini di credibilità e di efficacia. Ma in questo caso il Wwf e Federparchi documentano la loro denuncia con una serie di elementi tratti dal confronto testuale fra l’Intesa, il Regolamento dello Stelvio e la legge quadro sulle aree protette. E su questa base, appunto, contestano lo smembramento del Parco e la sua spartizione, quasi fosse un’Asl o un’azienda municipalizzata, fra tre enti distinti: la Regione Lombardia e le due Province autonome che dovrebbero essere coordinate da un fantomatico Comitato, secondo il principio “ciascuno padrone a casa propria” che rischia di risultare quantomai nefasto.
Scrivono al primo punto della loro lettera Donatella Bianchi e Giampiero Sammuri al ministro dell’Ambiente: “Non esiste di fatto una gestione autonoma, affidata a un ente, a un centro di imputazione giuridica soggettiva con personalità di diritto pubblico, né tantomeno una governance unitaria esercitata dal Comitato di coordinamento”. Secondo punto: “Nel Comitato di coordinamento c’è l’assoluta prevalenza degli interessi locali e regionali su quelli nazionali”. E infine: “Non c’è alcuna dipendenza funzionale dal ministero dell’Ambiente che non ha alcun potere di vigilanza sul Comitato”.
Non è, dunque, una questione puramente burocratica o di lana caprina. Tanto più che, secondo il Wwf e Federparchi, “l’accordo politico sullo Stelvio costituisce un gravissimo precedente per altri parchi nazionali storici, come quello del Gran Paradiso, il cui territorio insiste in larga parte in una Regione a statuto speciale”. Da qui, una conclusione che equivale a un ultimatum: “Riteniamo che il ministero dell’Ambiente si trovi di fronte a una scelta inequivocabile: o si torna all’assetto normativo precedente o in alcun modo, purtroppo, il Parco dello Stelvio potrà essere classificato come Parco nazionale”. Di conseguenza, cesserebbero i finanziamenti attuali (circa 4,5 milioni all’anno di trasferimenti dallo Stato). A quel punto, per fare cassa, si potrà anche riaprire la caccia che è vietata nei Parchi nazionali, come ipotizza già l’assessore regionale alto-atesino Richard Theiner. Oppure, realizzare un tunnel o un traforo per collegare l’Alto Adige e la Lombardia e far passare magari il “trenino dello Stelvio”, di cui parla la Comunità montana Alta Valtellina. Poi, via via, toccherà eventualmente agli altri 19 Parchi distribuiti sul territorio a salvaguardia della natura e dell’ambiente.
L’offensiva era già iniziata nel 2012. Ma tre anni fa - per nostra fortuna – l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, non firmò il decreto che avrebbe sancito la spartizione dello Stelvio. C’è da augurarsi perciò che, anche questa volta, la storia si ripeta.
I sostenitori del nuovo aeroporto di Firenze chiedono che le contestazioni siano fatte su solide basi scientifiche. Perché no? Ma non si sono ...(continua a leggere)
I sostenitori del nuovo aeroporto di Firenze chiedono che le contestazioni siano fatte su solide basi scientifiche. Perché no? Ma non si sono accorti della mole di dati e osservazioni scientifiche che il mondo accademico ha già prodotto e messo a disposizione. Ricordiamoli allora questi dati, perché il nuovo aeroporto di Firenze non è un intervento qualsiasi: inciderà infatti fortemente sulla salute e la sicurezza degli abitanti e modificherà le condizioni di vita nella Piana e nei comuni limitrofi. Ecco alcune delle numerose osservazioni al progetto:
1) non è definitivo, come richiede la legge, ma solo un Master Plan;
2) la pista di 2400 è difforme rispetto ai 2000 metri previsti dalla pianificazione regionale, e perciò sono altrettanto difformi le modifiche al reticolo idraulico e alla viabilità;
3) il progetto non valuta adeguatamente l'efficienza del nuovo sistema di smaltimento delle acque alte e basse ed è da dimostrare il non aggravio delle attuali condizioni di rischio idraulico;
4) non sono stati valutati gli effetti cumulativi dell'inquinamento provocati dall'esercizio contemporaneo dell'aeroporto e del termovalorizzatore di Case Passerini, altra opera di cui si prevede tra breve la realizzazione.
Sono solo alcune delle segnalazioni di criticità e carenze del progetto che provengono non da 'comitatini' o da 'gufi', ma dal Nucleo di valutazione di impatto ambientale della Regione Toscana e dall'Università di Firenze. È bene riportare le conclusioni del documento dell’Ateneo fiorentino: "Si ritiene che, già sin d’ora, nella procedura di valutazione dell’impatto ambientale relativa al progetto siano rilevabili evidenti profili di illegittimità tali da giustificare un parere negativo da parte dell’Autorità competente". Evidenti profili di illegittimità: non si tratta di bazzecole, se dall'Università, quindi in sede scientifica, viene segnalata addirittura “la carenza degli elaborati rispetto al rischio di catastrofe aerea”.
In un paese normale, in cui leggi e procedure fossero rispettate, la Commissione VIA chiederebbe integrazioni al progetto, sospendendone l'iter autorizzativo fino a che non fossero superate le criticità evidenziate. Viceversa, sembra che la strategia sia di approvare il progetto così come è, rimandando le eventuali modifiche alla fase esecutiva dove i controlli sono praticamente impossibili. Così è stato fatto per la Tav nel Mugello, con le conseguenze che tutti conosciamo: sarebbe una vera iattura se altrettanto si facesse per il nuovo aeroporto di Firenze. È doveroso, perciò, che il progetto, in questa fase non definitiva, sia portato a conoscenza delle popolazioni interessate da un soggetto 'super partes' e sottoposto a dibattito pubblico o a una forma ampia ed effettiva di partecipazione: così si era impegnata la Regione Toscana che ora sembra dimenticare quanto prescritto nella variante al Pit che ha dato il via all'aeroporto (con pista – ricordiamolo - di 2000 metri). Un comportamento che non ispira fiducia nelle istituzioni rappresentative e cui, si spera, il Presidente Rossi vorrà ovviare mantenendo fede alle proprie determinazioni.
Infine, un'ultima considerazione: nella mole dei documenti, ancorché incompleti, presentati dal proponente ne manca uno fondamentale: uno studio serio e approfondito sui vantaggi e i costi del nuovo aeroporto. Finora sono stati prodotti dall'IRPET due documenti: uno contiene un algoritmo, mutuato dalla letteratura internazionale, che correla passeggeri con occupazione diretta e indotta per l’area interessata, come se tutte le situazioni, New York o Peretola, fossero uguali! L'altro si limita a dire che, col nuovo aeroporto vi sarà un risparmio di tempo per i viaggiatori diretti a Firenze (circa 20 minuti rispetto a Pisa). Veramente troppo poco! Ma cosa importa. Adf conosce benissimo i propri vantaggi e perciò, insieme alla maggior parte della stampa, a tutti i politici o quasi, ripete che il nuovo aeroporto porterà "lo sviluppo". Quale e per chi non viene detto. Ma noi lo sappiamo benissimo: soldi per il privato, magari con qualcosa che finirà in tasca ai politici. Sviluppo del rischio idraulico, dell'inquinamento, del rumore e dei sorvoli su Firenze. Ma cosa importa! Basta per mettere a tacere i gufi, l'Università e qualche Comune dissidente. E se poi il progetto incompleto e sbagliato costerà il doppio, cari contribuenti preparatevi a contribuire.