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La Repubblica, 6 agosto 2015

IL PRIMO sbarramento della direttrice millenaria non è la frana di un monte, il collasso di un muraglione o lo straripamento di un torrente. È un bar. Il bar Fly di Genzano laziale. Tutto è di una sconcertante evidenza. Sopravvissuta alla tangenziale, al traffico della Statale Sette, alle discariche edilizie e al pantano attorno a Ciampino, la linea indeflettibile, implacabile e inflessibile, capace di resistere imperterrita ai cambi di nome (corso Matteotti, via della Stella, via Alcide De Gasperi, via Remigio Belardi eccetera), si arresta davanti a una banconiera che ci chiede cosa vogliamo bere.
«Un succo di pomodoro, grazie ».
Dietro il bar, un blocco di condomini. Oltre, ad appena trecento metri, la doppia linea dei pini marittimi — segnale infallibile — ripristina la direzione. Ma a noi tocca deviare. Fronte sinist sinist, e via per una salita che ci porta in un altro film. Piazza Salvatore Buttaroni, ucciso dai fascisti. Effigie di Maria, benedetta da Pio VII «con concessione di giorni 300 di indulgenza da applicarsi alle anime del Purgatorio ». Palasport Gino Cesaroni, sindaco dal ‘69 al ‘97. Oltre il vialone dei pini, un bivio sconcertante fra Appia Antica e una sedicente Appia Vecchia. Come se già l’Appia Nuova non complicasse le cose.
...
Ed ecco che la prima strada d’Europa già si perde, mangiata da edifici, cancelli e poderi, certificando l’eclissi dello Stato e la restaurazione dei particolarismi contro cui Roma ha lottato per secoli. Ad Ariccia, la prima sopraelevata dell’antichità, un gigante di 230 metri per 13 del secondo secolo a. C., è nascosta alla vista per la vegetazione cresciuta a dismisura. Fra Genzano e Cisterna, il rettifilo dell’Appia lo puoi traguardare solo dall’aereo o nelle vecchie carte Igm dell’Italia post-unitaria. Lì esiste ancora, come mulattiera, carrereccia o sentiero, segnata da toponimi come Ponte di Mele, Casale San Mauro, Casa Troiani. Ma sul terreno cosa ci sarà? Gli archeologi segnalano tratti accessibili di basolato originale, ma la linea che li congiunge esiste ancora?

È qui che comincia l’avventura. Ed è qui che la diavoleria elettronica di Riccardo, collegata a venti e passa satelliti, inizia la sua danza. «Ti allontani dal tracciato e il Gps ti avverte. Ma attenti, non è lui che mi comanda — precisa marciando sotto il sole — sono io che gli ho detto dove dobbiamo andare». Significa che il nostro non è un viaggio teleguidato, ma una ricerca dove alla fine saremo noi, anzi i nostri piedi a decidere. «I piedi capiscono tutto, se li lasci liberi. Ricordate: il flusso va dalla terra alla testa, non viceversa». Siamo tutti d’accordo: viva i piedi. Coi piedi si può, anzi si deve scrivere se si vuol conoscere il mondo.
… Appena fuori dal paese, in uscita tangenziale sulla destra, ecco trecento metri di lastricato stupendo oltre una scritta gialla “SEGNALE TURISTICO APPIA ANTICA”, sotto una cascata di glicini e senza anima viva che lo percorra. Ed è merenda su un muretto, con brezza leggera e rondini impazzite, a discutere di Orazio Flacco con pecorino e una bottiglia di Nero di Manduria. Poi di nuovo in cammino, in leggera discesa sul declivio vulcanico, col mare lontano sulla destra e greggi al pascolo dall’altra parte. Terra grassa, nera come una torta Sacher, primi fichi d’India, annunci mortuari con Cristo e Padre Pio effigiati con pari evidenza.

Cominciano i branchi di cani liberi. «Ce n’è un milione almeno, a Sud di Roma», avverte Riccardo, che in Italia ha camminato per 20 mila chilometri e di cani s’è fatto un’esperienza. «Basta guardarli senza paura e raccogliere una pietra. Scappano sempre». Noi non abbiamo paura, sono semmai gli altri ad avere paura di noi. Oggi chi va a piedi è un’anomalia. Una Pantera della Polizia rallenta per indagarci. In un podere, oche incazzatissime ci puntano in formazione serrata, e con quelle, si sa, non ci ragioni. Al numero 97 di una via che si chiama finalmente “ Appia Antica”, segnata da infiniti divieti di accesso, una voce ansiosa al citofono chiede ripetutamente «Chi è?» senza che noi si abbia suonato alcun campanello. Ci eravamo fermati appena un attimo a consultare le mappe.

… Un’altra isola di basolato stupendo. Ma le auto ci passano sopra senza misericordia, traballando, e la faccia del driver esprime sempre lo stesso concetto: «Ste pietre di m... cosa aspettano a levarle». Poco oltre, una catenella all’italiana ci sbarra la via. In fondo, tre ragazzi con una carriola e un cane lupo. Vado avanti a parlamentare, ma quelli mi guardano impietriti senza richiamare il cane. Gli dico che vorremmo andare oltre. Uno risponde: «Ce sta ‘o fuoss». C’è da superare un fosso, sono cavoli vostri. E noi si scende guardinghi sotto gigantesche querce, spostando canne e rifiuti fino al guado.
Ma oltre il torrente rieccola, la linea maestra. Ci aspettava, come potevamo avere dubbi. Anche il lastricato riemerge. Chiedo a un vecchietto col bastone: «Ma la gente lo sa che questa è l’Appia antica?». Lui: «Quasi nessuno». Memoria finita. Sì, è proprio questo... il Paese che amo.
Ancora sbarramenti, sterpaglie, cani liberi. Peggio ancora è dopo la confluenza della Statale Sette sul tracciato antico. Sul rettifilo fino a Cisterna ecco camion, auto che sgommano, marciapiedi striminziti e spietati guard-rail. Altroché Santiago, questo è un percorso di guerra. Che rabbia. Che persino in Albania le strade romane siano più ben tenute non è solo bestiale. È stupido. È l’Appia la grande scommessa di Roma. Non il Colosseo o la Domus Aurea, già intasate di folla, ma la percorribilità ritrovata della prima via del Continente.

(5-continua)
E’ appena stato pubblicato il progetto di un “grattacielo del lusso”, che un gruppo di investitori immobiliari intende costruire a Marghera. Non si tratta di un’idea isolata, ma di un tassello... (continua a leggere)
E’appena stato pubblicato il progetto di un “grattacielo del lusso”, che ungruppo di investitori immobiliari intende costruire a Marghera. Non si tratta di un’idea isolata, ma diun tassello del disegno del territorio che sta prendendo forma nell’areaveneziana, grazie alla comunità di intenti e alla sinergia operativa fraspeculatori privati e pubbliche istituzioni.
Nel2010, quando venne presentata alla Biennale di architettura, l’immagine di una coronadi grattacieli attorno a Venezia, con vista sul campanile di San Marco, fuconsiderata poco più di una bizzarria, il prodotto di cattive scuole, dove manuali e libri di testo sembranoessere stati sostituiti dalle istruzioni di Sims City e dalle trame di TrueDetectives (nella serie televisiva, però, il city manager corrotto che trafficain terreni inquinati e soldi pubblici viene ammazzato e non se la cava conqualche giorno ai domiciliari).
Il Palais Lumière.

Poi,nel 2012, Cardin “regalò allacittà” il progetto per il Palais Lumière - 60 piani su una base a terra di 30mila metri quadrati- che con i suoi 250 metri (100 in più di quelli consentiti nella zona dalle normedell’ente di sicurezza aeroportuale) sarebbe dovuto diventare il grattacielopiù alto d’Italia, e fu chiaro che il partito della verticalizzazione dellagronda lagunare era agguerrito e intenzionato a vincere.
Il progetto fufortemente appoggiato dal sindaco Orsoni (“sarebbe folle perdere questaoccasione”) e dal governatore Zaia, che con spirito umanista non esitò aparagonare Cardin a Lorenzo il Magnifico. Anche l’ex sindaco Cacciari sidichiarò favorevole, perché sebbene l’edificio non gli piacesse, avrebbe portato vantaggi economici (“è brutto, ma a caval donato”). In verità, e come sempre avviene con isedicenti mecenati osannati dai nostri governanti, il dono non era gratis. Neimateriali di progetto, infatti, si spiegava chiaramente che la maggior parte degli oneri di costruzioneincassati dal comune avrebbe dovuto essere usata per far passare il tram ai piedi del Palais di Cardin.
Unapartita di giro fra lor signori, quindi, più che un’opera utile per Marghera e per il territorio veneziano,attorno alla quale, però, la propaganda del potere ha saputo organizzare un ampiomovimento contro i soliti professorie intellettuali, che per salvare il paesaggio vogliono affamare il popolo; edha usato cinicamente la disperazione di una comunità devastata dalla chiusura delle fabbriche e dalcolpevole abbandono da parte delle istituzioni, più interessate a far pagare aicontribuenti le bonifiche per rimediare al disastro ambientale provocato daipadroni lasciati scappare con la cassa, che al benessere degli abitanti. Si ècosì costituito un comitato di cittadini, esercenti, rappresentanti sindacali,che hanno visto nel grattacielo un “faro per il futuro”, per il miraggio di postidi lavoro che portava con sé, e solo un imprevisto diniego da parte del Ministerodei Beni Culturali ha provocato il blocco del progetto.

Mail blocco del Palais Lumière non ha fermato i piani per la rigenerazione delwaterfront di Marghera né l’intenzione di trasformarla nella sponda banchinatadella laguna destinata a diventare una replica della baia di Dubai, con attracchi per le grandi navi cariche di turisti diretti a “fare shopping” neipiani bassi dei grattacieli dai quali poi, esausti perla caccia ai buoni affari, potranno salire per rilassarsi nelle piscine e neiristoranti con vista mozzafiato su Venezia Vecchia. Non è escluso che quellipiù “colti”, i turisti di qualità cari al ministro Franceschini, vadano anche afarsi un selfie in Piazza San Marco, mentre per quelli più goderecci è consigliabile raggiungere rapidamente il casinò, chesi intende costruire in adiacenza all’aeroporto, e da qui, speriamo dopo essersigiocato tutto il denaro risparmiato al centro commerciale, reimbarcarsi. Ovviamentesi può fare anche il percorso inverso, sbarcare all’aeroporto e salpare in nave;che siano truppe aerotrasportate o scendano da mezzi da sbarco, quello che conta è che i turisti disposti a spendere sianotanti e sempre di più.

Il grattacielo della Nave de Vero.

Il grattacielo appena presentato sui giornali locali, oltre ad inquadrarsi perfettamente in questo scenario, offre alcuni altri interessanti elementi di riflessione, più che per il plauso scontatodelle istituzioni, per la forza degli investitori coinvolti.
Descrittodai progettisti con abbondanza di metafore che cercano negarne l’impatto, “una grande scultura di Venere più cheun edificio”, il grattacielo - 20 piani su 12 mila metri quadrati, alto 100metri come il campanile di San Marco con cui “dialoga”- dovrebbe sorgere inadiacenza al centro commerciale Nave de Vero (115 negozi e 15 punti di ristoro),così denominato perché la sua forma vorrebbe evocare la prua di una nave. La Nave de Vero è stata costruita eaperta nel 2014 dal gruppo olandese Corio, che di recente è stato acquisito daKlépierre, gigante dei centricommerciali in Europa e posseduto per il 30% da Simon Property Group che hasede a Indianapolis. Non un piccolo speculatore della campagna veneta, quindi,ma il più grande gruppo mondiale del real estate che ha interessi in 337immobili commerciali con una superficie complessiva di 245 milioni di metriquadrati e che realizza enormi profitti. Nel 2013, l’amministratore delegato,David Simon ha ricevuto come bonus oltre 137 milioni di dollari, cifra che èsembrata esagerata ad alcuni azionisti, tra cui il fondo pensioni del Delaware che gli hafatto causa.
Il signor David Simonè molto ricco, molto generoso ed ama molto Venezia. Così è diventato direttoredel Venetian Heritage Council, una delle tante organizzazioni benefiche chevogliono salvare la città, e che ha di recente destinato 12 milioni di dollariper il restauro e la valorizzazione del Museo ebraico e delle sinagoghe delghetto di Venezia. Un mecenate, quindi, del quale ancora poco si parla, ma chele autorità non mancheranno di ringraziare per i suoi doni, speriamo non concorsie speciali e procedure snelle per i suoi grattacieli.

Avviata «una subdola campagna informativa in ordine al progetto del Deposito Nazionale finalizzata a convincere gli italiani ad accettare il materiale tossico nel proprio “giardino”». Ma sembra che abbiano già individuato i sito ideale in una ex miniera di salgemma nei pressi dei comuni di Agira, Leonforte e Nissoria, nel cuore della Sicilia. Un esposto di Italia Nostra Sicilia, 6 agosto 2015

Le scorie radioattive arriveranno con un suadente, ineffabile spot? Si avvicina il momento in cui i ministeri dello Sviluppo economico e dell'Ambiente dovranno indicare le aree in cui realizzare il Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi italiani. La Sogin, la società di Stato responsabile della dismissione degli impianti nucleari italiani e della gestione dei rifiuti radioattivi, da alcuni giorni ha lanciato, sulle principali reti televisive nazionali, una subdola campagna informativa in ordine al progetto del Deposito Nazionale. La campagna è finalizzata a convincere gli italiani ad accettare il materiale tossico nel proprio “giardino” (vedi:https://www.youtube.com/watch?v=6bOg8rvKbzI).
Realizzata da Saatchi & Saatchi, la campagna mira dunque a far riflettere sulla necessità di risolvere, insieme, il problema della gestione dei rifiuti radioattivi che quotidianamente si producono negli ospedali, nelle industrie, nei laboratori di ricerca, o provenienti dai vecchi impianti nucleari dismessi, oggi in via di smantellamento. Nel comunicato stampa della Saatchi & Saatchi si sostiene inoltre che “sul problema dello smaltimento definitivo dei rifiuti radioattivi il nostro Paese non è andato avanti perché ancora non esiste un’infrastruttura unica per la loro messa in sicurezza finale, come avvenuto negli altri Paesi del nostro continente. Per la prima volta in Italia viene avviato un percorso condiviso e partecipato che porterà, attraverso un’ampia e approfondita consultazione pubblica, alla realizzazione del Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi, un’opera strategica per la sicurezza ambientale”.

Il processo entrerà nel vivo con la pubblicazione della Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee ad ospitare il Deposito Nazionale, che Sogin pubblicherà, assieme al progetto preliminare, sul sito appena riceverà il via libera dai ministeri. Presumibilmente a settembre di quest’anno (2015). Dunque, tra circa un mese dovrebbe essere resa pubblica tale Carta nazionale (Cnapi).Dopo un iter controverso, iniziato nel giugno2014,l’Ispra ha già consegnato ai ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente l’aggiornamento della relazione stilata dalla Sogin. La Sogin è incaricata anche di selezionare alcuni siti italiani, e tra questi individuare il Deposito nazionale di scorie nucleari. La mappa dei siti è ovviamente sconosciuta. Top secret. L’operazione prevederebbe investimenti per1,5 miliardi in 4 anni, 1.500 posti di lavoro all’anno per la costruzione e 700 per la gestione. Le regioni italiana individuate sarebbero la Puglia, la Basilicata, la Sardegna e ovviamente la Sicilia.

L’Isola (la Sicilia) sembrerebbe avere “buone, ottime possibilità”. Gli esperti della Sogin, infatti, avrebbero individuatoun’ex miniera di salgemma nei pressi dei comuni di Agira, Leonforte e Nissoria, nell’Ennese. L’indiscrezione arriva da Giuseppe Regalbuto, presidente della commissione Miniere dismesse dell’Urps: “Se la scelta di Agira sarà confermata come sembra, sarà necessario promuovere un’azione forte in Sicilia. Non costruire trazzere, ma ergere barricate contro i governi che usano la Sicilia come una pattumiera e che non solo ci impediscono di produrre, ma vogliono persino inquinare il nostro suolo e mettere a repentaglio la nostra salute. Le miniere vanno usate per rilanciare l’economia siciliana, non per contenere rifiuti” (http://www.siciliainformazioni.com, luglio-agosto 2015).

Ben 90 mila metri cubi di rifiuti nucleari italiani potrebbero arrivare presto in Sicilia. La scelta ricadrebbe su un’ex miniera di salgemma perché i depositi salini, per la loro bassa permeabilità, si prestano ad ospitare, a lungo termine, rifiuti nucleari. In una prima fase di ricerca, per le peculiari caratteristiche morfologiche dei giacimenti, sarebbero risultate idonee ad ospitare gli speciali rifiuti 11 località siciliane: Regalbuto, Assoro-Agira, Villapriolo, Salinella, Pasquasia, Resuttano, Bompensiere, Milena, Porto Empedocle, Realmonte, Monteallegro. Dopo la seconda fase dello studio, relativa ai requisiti d’isolamento dei giacimenti,sarebbero rimasti soltanto tre siti idonei: Assoro-Agira, Salinella e Resuttano. L’ex miniera di Pasquasia, su cui ancora pesano sospetti di precedenti depositi di rifiuti radioattivi, sarebbe stata esclusa perché non sufficientemente “isolata” (http://www.siciliainformazioni.com, luglio-agosto 2015).

A settembre la mappa sarà resa pubblica. Sapremo, dunque, se sarà proprio l’ex miniera nei pressi di Agira, al centro dell’Isola, la candidata siciliana che ospiterà i rifiuti radioattivi di tutta Italia. “Agira (Sicilia) capitale italiana dell’ambiente, del paesaggio e deigiardini”, insomma. Che dire – comunque?Saremo in grado, in Sicilia, di ergere barricate efficaci contro i governi che usano l'isola come pattumiera e base militare? Governi che non solo ci impediscono uno sviluppo auspicabile, sostenibile, ma che intenderebbero persino inquinare il nostro ambiente, il nostro spazio vitale, mettendo a repentaglio la nostra salute, la nostra sicurezza. Ecco, queste sono le questioni – imprescindibili – che noi poniamo al governo regionale e al governo nazionale. Alle forze sociali, culturali e politiche. Ai cittadini. Adesso.

Leandro Janni - Presidente regionale di Italia Nostra Sicilia

La Nuova Venezia, 6 agosto 2015

Scoperta mercoledì 5 - dopo cinque anni di attesa e una serie infinita di polemiche sulla sua costruzione - la nuova ala dell'hotel Santa Chiara. con la facciata che dà sul Canal Grande, in attesa di togliere le copertura anche a quella che dà su Piazzale Roma.

Un grande cubo bianco in pietra, del tutto dissimile dalla parte storica dell'hotel di proprietà di Elio Dazzo e destinato a creare inevitabili polemiche per il suo impatto, con Italia Nostra che grida allo scandalo. "Spero che piaccia ai Veneziani - dichiara il proprietario - altrimenti me ne farò una ragione. Lo inaugureremo comunque entro settembre".

La nuova ala dell'albergo ospiterà 19 stanze e un parcheggio interrato da 16 posti-auto destinato ai clienti dell'albergo. L'edificio è stato progettato dagli architetti Antonio Gatto, Dario Lugato e Maurizio Varratta.













Riferimenti

Vedi, in proposito, l'articolo di Gian Antonio Stella del 20 febbraio 2014

La Repubblica, 6 agosto 2015

«L’Italia spa esiste ancora. Il nostro patrimonio culturale rischia tuttora di essere svenduto. Le riforme non bastano, se mancano i fondi. Riempire l’arena del Colosseo non è una priorità. C’è una bella differenza tra restaurarlo e trasformarlo per ospitare spettacoli». Nell’estate dell’attesa per i nuovi super direttori dei venti grandi musei, mentre le soprintendenze – dopo la riforma della pubblica amministrazione appena approvata – vengono indebolite ulteriormente, Roma crolla e il Colosseo guadagna nuovi finanziamenti per trasformarsi in un’arena show, Salvatore Settis lancia l’allarme. «Questo Paese commette di nuovo l’errore di spostare l’attenzione sulla valorizzazione dei monumenti, rispetto alla loro tutela. Ma non ci può essere valorizzazione senza tutela», dice l’archeologo e storico dell’arte che nel 2009 si dimise dalla presidenza del Consiglio superiore dei beni culturali in contrasto con l’allora ministro Bondi.

Professore, partiamo dalla riforma Franceschini. Qualcosa si sta muovendo.
«Da Veltroni in qua ci sono stati dieci ministri e cinque riforme: un’overdose per il ministero dei Beni culturali. Di tutte, quella di Franceschini, che nasce da una commissione di studio voluta dal predecessore Bray, ha un’idea di base più chiara. Ma non vuol dire che vada tutto bene. Non sono tra quelli che dicono che sia meglio che nulla cambi. Il punto più preoccupante è che, se questa riforma ha al centro i musei – in particolare i venti scelti come più importanti – dall’altro lato impoverisce di personale le soprintendenze territoriali. Quelle di Roma, Firenze e Napoli hanno nove storici dell’arte in tutto: come faranno a tutelare l’immenso patrimonio a loro affidato? Il vero punto per capire se questo governo rispetterà l’articolo 9 della Costituzione è se verranno fatte nelle Soprintendenze territoriali le massicce assunzioni di cui c’è assolutamente bisogno. Di questo si parla troppo poco».

Con la nuova legge sulla pubblica amministrazione le soprintendenze, di fatto, si indeboliscono e vengono sottomesse alle prefetture. Vale il silenzio-assenso dopo 90 giorni anche in materia di tutela ambientale, paesaggistica e dei beni culturali. Lei è tra i sostenitori di un appello contro il provvedimento.
«L’estensione del silenzio-assenso nell’ambito della tutela del paesaggio è anticostituzionale. Ci sono cinque sentenze della Corte Costituzionale che parlano chiaro. Ma la sottomissione delle soprintendenze alle prefetture non può venire da Franceschini, perché sarebbe un’idea suicida per il suo Ministero. Oggi sembra quasi che si voglia distinguere una bad company (le soprintendenze e la cura del territorio, contro cui si schierava il premier Renzi quando era sindaco di Firenze) – e una good company che sono i musei, intesi come “valorizzazione”. E le bad companies sono fatte per essere liquidate».

I musei, appunto. In venti sono stati scelti dal ministro Franceschini come i più importanti, affidandoli ad altrettanti super direttori scelti attraverso un concorso internazionale. Cosa pensa di questo?«Il fatto di dotare i grandi musei di un’autonomia maggiore di per sé mi sembra un’idea interessante e positiva. Anche se nella lista mancano, per ragioni di spending review, musei importanti come il Museo Nazionale Romano o la Pinacoteca di Siena. Va dato atto al ministro che la commissione che sta scegliendo i direttori, presieduta da Paolo Baratta, è molto buona: ci sono nomi come Nicholas Penny della National Gallery di Londra e il grande archeologo Luca Giuliani. Però non è mai accaduto nella storia che venti direttori di musei diversi siano nominati con un’unica procedura. All’estero appare inconcepibile. Vedremo i risultati, ma la fretta è cattiva consigliera».

Ma di cosa avrebbe bisogno oggi il Ministero dei Beni culturali?
«Si continua a ignorare che le riforme a costo zero producono molto meno di zero. Nel 2008, Berlusconi e Bondi tagliarono in modo massiccio i finanziamenti alla cultura di un miliardo e 300 milioni euro. Se quella ferita non sarà sanata (e nessun governo lo ha fatto, nemmeno questo) e non si provvederà a nuove assunzioni, ogni riforma resterà vana. La primissima esigenza sono nuove assunzioni e nuovi fondi».

Però sono appena stati stanziati 80 milioni per alcune Grandi Opere…

«Ci si deve sempre rallegrare quando ci sono dei soldi destinati alla cultura. Ma questa cifra è ben poco di fronte a un patrimonio che crolla. Di milioni ne servirebbero 800 l’anno, non 80 una tantum. Vanno bene i fondi destinati alla Certosa di Pavia e agli altri monumenti. Ma il grande errore sono le spese per il Colosseo ».

L’“effetto Gladiator”.
«Finanziare un progetto che trasformi il Colosseo in un set per spettacoli è un vero spreco. Si trasmette ancora una volta il messaggio che i monumenti non servono a nulla, se non assumono un aspetto spettacolare. E si concentra di nuovo l’attenzione solo su alcuni luoghi simbolo, mentre altri, proprio a Roma, in questo momento, cadono a pezzi. La tradizione italiana della tutela, la più antica al mondo, attraversa una crisi gravissima».

A Pompei, però, i segnali sono diversi.
«Nell’ultimo anno e mezzo, con il direttore generale Giovanni Nistri e il soprintendente Massimo Osanna, la capacità di spesa è aumentata. I segnali di funzionamento sono positivi. Lo sciopero del 24 luglio è stato un brutto episodio, ma non il segno che va tutto a rotoli».

A tredici anni dal suo saggio, possiamo ancora parlare di “Italia spa”?
«Il progetto dell’allora ministro Tremonti di svendere il patrimonio demaniale è fallito. Ma non si può cantare vittoria, dato che si continua a svendere i beni pubblici, delegando l’iniziativa a Regioni e Comuni in modo che non si colga il disegno d’insieme. Inoltre, le regole per la tutela del paesaggio si allentano continuamente, e sarà ancor peggio quando i soprintendenti, esautorati, ubbidiranno ai prefetti. Ma il Paese resta ricco di anticorpi nella società e nelle istituzioni. Possiamo trovare ancora dei contravveleni al degrado che incombe”.

La Repubblica, blog "Articolo 9", 5 agosto 2015

Così da ieri «soprintendente è la parola più brutta del vocabolario della burocrazia»anche per legge: detto fatto, Matteo Renzi ha stroncato in pochi mesi una storia plurisecolare.

Grazie al micidiale articolo 8 della Legge Madia sulla Pubblica Amministrazione, le soprintendenze confluiranno nelle prefetture, e se non riusciranno a evadere una pratica entro 90 giorni, si intenderà che abbiano detto sì: qualunque cosa contenesse quella pratica.

Le slides della propaganda renziana pagata con i soldi pubblici sono ineffabili. Una dice: «È vero che i soprintendenti saranno sottoposti all'autorità dei prefetti? NO, sul territorio ci sarà un ufficio unico del territorio nel quale il prefetto avrà un ruolo di direzione (che non signfica funzioni di comando)». Manco i gesuiti del Seicento avrebbero saputo far meglio: se qualcuno dirige qualcosa, esercità un'autorità. Il fatto che non «comandi» attiene allo stile, non alla sostanza. E dunque, la risposta è: Sì, i prefeti dirigeranno i soprintendenti.

Un'altra slide sostiene che «la regola del silenzio assenso non favorirà la cementificazione selvaggia, ma significherà più responsabilità per le amministrazioni nell'assicurare maggior tutela del paesaggio, dei beni culturali e ambientali». Ma come si può avere la faccia tosta di prendere in giro gli italiani con enormità di cui si sarebbe vergognato perfino Silvio Berlusconi? Nelle soprintendenze non c'è più nessuno, per il blocco del turn over. Non hanno più mezzi: basta auto di servizio, non più cellulari, non c'è manco la carta. Se l'obiettivo fosse stata la maggior tutela, prima si sarebbero dovuti dare i mezzi per esercitarla, e poi si sarebbe potuti (anzi, dovuto) chiedere di esercitarla in tempi certi: ma così è solo un massacro. Quando un Renzi presidente della provincia di Firenze si trovò ad avere bisogno di un elicottero in pochi minuti, lo chiese in prestito al re del cemento fiorentino: ci si può ora stupire se – dallo Sblocca Italia alla Legge Madia – egli pone le basi per un nuova stagione di mani sulle città e sul paesaggio?

Ma – per l'ennesima volta – Renzi non è peggiore della classe dirigente di cui è espressione: appare più colpevole solo perché si presenta come nuovo, quando invece è anche lui un fossile. Un solo esempio: mentre Firenze veniva sconvolta da un ciclone tropicale, il presidente della Toscana Enrico Rossi invocava le Grandi Opere – carissime a Maurizio Lupi, o a Ercole Incalza – come l'unico mezzo per creare lavoro. Un suicidio: dettato dall'ignoranza – ancora prima che dalla mala fede – della classe politica italiana. Per trovare un'analisi pertinente del disastro fiorentino, bisogna invece leggere il discorso di qualcuno che non ne parlava affatto, ma parlava del quadro generale che lo ha provocato: «Siamo la prima generazione a sentire l'impatto del cambiamento climatico e l'ultima generazione che può fare qualcosa" per combatterlo». Sono parole di Barack Obama: le più alte e ispirate che da molto tempo in qua echeggino nella politica mondiale.Parole lontane anni luce da un'Italia fossile in cui si continua ad invocare le Grandi Opere, e a spianare ogni argine al loro dilagare.

E in tutto questo c'è un tradimento ancora più grande di quello dei politici: ed è quello dei professori, degli studiosi che dovrebbero costruire altre parole, altre idee, altre strade. Ieri il Consiglio Superiore dei Beni culturali, massimo organo tecnico del Ministero per i beni culturali, ha sì detto che la legge Madia può mettere «in pericolo l’esistenza stessa del MiBACT», ma poi ha proseguto i suoi lavori come se nulla fosse. Per una cosa gravissima (ma forse meno grave: il dimezzamento dei fondi del Ministero, inflitto da Tremonti a un passivo e complice Bondi nel 2008) l'allora presidente dello stesso organo protestò dimettendosi: ma quel presidente si chiamava Salvatore Settis, quello di oggi si chiama Giuliano Volpe. E Volpe non ci pensa neanche a dimettersi, con tutta la fatica che ha fatto a farsi nominare: preferisce celebrare la ricostruzione dell'arena del Colosseo, ­ un'impresa kitsch e culturalmente aberrante cui dedicare oltre 18 milioni euro pubblici mentre le bibloteche e gli archivi chiudono. E così la massima espressione del sapere all'interno del Ministero per i Beni culturali è ridotta – come ha scritto oggi Francesco Merlo in un memorabile articolo – ad «una sorta di cerchio magico del ministro presieduto dall’ archeologo medievista Giulio Volpe, che di Franceschini è il piccolo Gianni Letta o, se preferite la modernità, è il Luca Lotti, ma in cattedra. “A nome del Consiglio esprimo grande apprezzamento per la destinazione di queste risorse … e per l’ operazione fortemente innovativa”, ha dichiarato ieri il professore Volpe lodando il ministro e lodandosi».

Così, quando si scriverà la storia dei danni inflitti al Paese dal breve regno di Matteo Renzi, una nota a piè di pagina documenterà che il giorno stesso in cui una legge della Repubblica uccideva l'articolo 9 della Costituzione, il ministro per i Beni culturali e la sua corte aprivano i giochi al Colosseo. Il diavolo, come è noto, si nasconde nel dettaglio.

La Repubblica, 5 agosto 2015

Non si trovano i soldi per la manutenzione ordinaria di Roma ma ci sono 21 milioni per cominciare a coprire l’arena gladiatoria del Colosseo a riprova che sempre il kitsch è il figlio ricco e storpio delle crisi economiche. Diciotto milioni e mezzo verranno stanziati dal ministero come “finanziamento di necessità e urgenza” e altri due e mezzo sottratti ai restauri dello stesso Colosseo pagati dalla Tods di Diego Della Valle.

Il Consiglio Superiore dei Beni Culturali ha così deciso di assecondare il famoso tweet con il quale Dario Franceschini nel novembre scorso comunicò all’Italia la sua voglia di ricostruire l’arena, ridare un suolo al sottosuolo e ricomporre la forma, l’ellissi perfetta che senza il pavimento non si percepirebbe più perché il fondo ruba la scena con i suoi corridoi, i suoi ruderi sbocconcellati, il suo mistero di labirinto. Con un ruggito da marketing nel comunicato di ieri Franceschini parla addirittura di «richiesta mondiale» e immagina sopra quell’arena-palcoscenico, quando sarà finita, «spettacoli di altissimo livello culturale». Il linguaggio, come si vede, ci porta già a Las Vegas.

Il Consiglio Superiore dei Beni Culturali, che ai tempi di Salvatore Settis fu il combattivo organo di controllo, una specie di assemblea di cani da guardia, oggi è una paludata consulta formata da otto presunti “supersaggi”’ e sette astuti funzionari, una sorta di cerchio magico del ministro presieduto dall’ archeologo Giulio Volpe, che di Franceschini è il piccolo Gianni Letta o ,se preferite la modernità, è il Luca Lotti, ma in cattedra. «A nome del Consiglio esprimo grande apprezzamento per la destinazione di queste risorse … e per l’ operazione fortemente innovativa», ha dichiarato ieri il professore Volpe lodandolo e lodandosi.

Il piano economico del ministro, che è nazionale, prevede 12 interventi per una spesa totale di 80 milioni. Ma l’intervento più “urgente” e costoso è la copertura dell’ arena del Colosseo, che non è un restauro ma un rifacimento, uno scenografare, il segno che Franceschini vuol lasciare a Roma, perché come dice il mitico Gracco nel Gladiatore di Ridley Scott «il cuore pulsante di Roma non è certo il marmo del Senato ma la sabbia del Colosseo».

Dunque Franceschini e i suoi professori prevedono che i primi due milioni e mezzo, quelli sottratti ai lavori finanziati dal mecenatismo di Della Valle, vengano impiegati «per le indagini conoscitive sullo stato idrogeologico e strutturale» perché, come gli fece notare la direttrice Rossella Rea, «sotto il Colosseo c’è l’acqua, il fosso di san Clemente: un fiume che ,quando piove, esonda, e in pochi minuti riempie tutto e dunque potrebbe far saltare l’eventuale nuova copertura dell’Arena come un tappo». Ecco perché ora il ministro ha stabilito, come primo intervento, «il risanamento idraulico e strutturale degli ambienti ipogei dell’anfiteatro ». Ma già «durante lo svolgimento di questi lavori conoscitivi e di risanamento sarà bandito un concorso internazionale per il progetto della nuova arena», gara di architetti per una struttura di materiali comunque pesanti di cemento sarebbe irreversibile - un ripristino creativo dell’antichità e del mito di Roma che nemmeno Mussolini aveva immaginato. E quanto costerebbe una struttura leggera e durissima, resistente al peso ma removibile? Esiste una struttura di questo genere? E questo Colosseo hi tech sarebbe un ritorno al passato o al futuro?

Nel Colosseo, che quest’anno sfonderà il record di 6 milioni di visitatori, con un ricavo di circa 50 milioni di euro, gli architetti si esibiranno in un accanimento progettuale, finanziato come urgente e necessario. Perché?

Il Colosseo è già il monumento più visitato e più lucroso d’Italia. Col bel restauro di Della Valle e con la cacciata dei puzzolenti carrettini di porchetta e i finti gladiatori con la scopa in testa, di urgente e necessario ci sarebbero i bagni per liberare i visitatori dall’incresciosa pratica di mingere ad murum . E forse urgenti e necessari sarebbero pure un elegante caffè ristoro e dei

book shop più dignitosi. Di sicuro sono urgenti e necessarie coscienza, responsabilità sindacale e punizioni severissime che impongano l’apertura anche durante le feste e le agitazioni di categoria. Scrisse Ermann Broch, che nulla sapeva di mafia-capitale e dell’attuale degrado: «Tutti i periodi storici in cui i valori subiscono un processo di disgregazione sono periodi di grande fioritura del kitsch. La fase terminale dell’Impero romano ha prodotto kitsch… Sempre il kitsch è destinato a imbellettare e falsificare le cose. Il kitsch è nevrosi da artista mancato».

Alcuni mesi fa, l’archeologo Daniele Manacorda, a cui si deva l’idea originale di «ricostruire il Colosseo così com’era », si spinse a ipotizzare sul rifacimento di quell’arena «ogni possibile evento della vita moderna, magari gare di lotta greco-romana, o una recita di poesie, o un volo di aquiloni». E James Pallotta, intervistato dalla Cnn , annunziò per l’inaugurazione «una partita della Roma contro il Bayern o il Barcellona: potremmo avere 300 milioni di persone che vogliono guardare da tutto il mondo il calcio nel Colosseo. Per loro faremo una pay-per-view: 25 dollari a testa ». Insomma l’arena, prima ancora d’essere finanziata e progettata, mostrò subito questa sua natura kitsch perché ,come ha spiegato Gillo Dorfles «il kitsch entra sempre in sintonia con il proprio tempo attraverso una forte empatia simbolica e culturale».

E infatti, come al solito, nell’Italia dei guelfi e ghibellini, archeologi e architetti si divisero in scuole ideologiche contrapposte, rifacitori contro restauratori, feticisti della pietra sacra contro fanatici dell’uso e del riuso, e l’Arena di Verona (abusata) venne contrapposta al Tempio di Selinunte (smozzicato e non toccato). Davvero sembrava di essere nell’Ottocento, da un lato il romanticismo conservativo di John Raskin e dall’altro il romanticismo creativo di Viollet-le-Duc, senza mai notare che nello stesso Colosseo convivono, ai due estremi del terzo anello, un muro di mattoni che “congela”’ le arcate, e all’opposto il rifacimento piramidale all’identique (sempre in mattoni) di Valadier. La direttrice Rossella Rea, che non ha paura del riuso e neppure della conservazione, mise in guardia il ministro: «Tutto si può fare, se ne vale la pena. Ma ne vale la pena? ».

Di sicuro sparisce dal piano di necessità e urgenza, che sono i requisiti previsti dall’articolo 7 della legge impropriamente chiamata Art Bonus, il completamento della Domus aurea, il cui parziale restauro sta già andando in malora. E sparisce tutto ciò che di urgente e necessario ci sarebbe da (ri)fare non solo a Roma dove le Mure Aureliane e gli scavi della Cripta Baldi sono ormai un’emergenza assoluta. Lo sono anche le Mura di Volterra. E la bellissima Caulonia che il mare si sta portando via. E le Basiliche precristiane di Cimitile. E il santuario di Ercole Curino. E il porto di Tarquinia. E Megara Hyblea. E le mura etrusche di Roselle. Ci sarebbero pure i sotterranei di Caracalla, il disastro idrogeologico di Ostia antica, i mille sbriciolamenti, Villa Adriana… Ma vuoi mettere Caulonia o Volterra con il Colosseo dove il Gladiatore di Ridley Scott Franceschini dice: «A un mio segnale, anzi a un mio tweet , scatenate l’inferno».

La Repubblica, 2 agosto 2015

Attenti, ci dicevano, dopo i colli la traccia si perde: sarà una fatica tremenda. Ma non potevamo rassegnarci all’idea che proprio l’Italia non avesse strade romane percorribili, fatte di pietra, sangue e sudore”

Quando, dopo il guado di un fiume, un roveto o un campo di grano, la via ridiventava visibile, ben allineata con la direttrice che avevamo perso chilometri prima in un intrico di sentieri, asfalto o canneti, e una ventina di satelliti sopra di noi confermavano quel fatidico allineamento sullo schermo del Gps, allora anche la parte svanita della strada si ricomponeva sulla mappa, evidenziando tracce giudicate di primo acchito trascurabili. Ma soprattutto qualcosa si rimetteva a posto anche dentro di noi, e una magnifica esultanza si diffondeva nel gruppo in cammino.

Non stavamo solo ripercorrendo l’Appia antica. La stavamo ritrovando. La riconsegnavamo al Paese dopo decenni di incuria e depredazione. Patrimonio non è merce in vendita, ornamento di sponsor, scusa per sdoganare cemento. Patrimonio è la terra dei padri. E noi questo cercavamo, non con la testa e forse nemmeno col cuore. Volevamo farlo coi piedi, che vivaddio non sono arti - parola orrenda - ma nobilissimi organi di senso. Erano quelli il sismografo, il metal detector, la bacchetta di rabdomante. Partiva così la nostra rivolta contro l’oblio. Essa aveva trovato un segno, un simbolo unico e forte in cui incarnarsi: la prima via di Roma, la madre dimenticata di tutte le strade europee.


Ricordo che dopo giorni di cammino, non avevamo più bisogno di trovare noiose conferme nel selciato romano o nei marciapiedi chiamati crepidini. Ci bastava la potenza della direzione.
Era come se la strada che dovevamo raccontare non fosse quella riducibile alla sequenza dei monumenti e nemmeno quella annotata in fretta nel taccuino, ma l’idea di strada, la linea in sé, il filo rosso dell’altimetria, latitudine e longitudine, la direttrice che tagliava l’Appennino e fuori dalla quale ci sentivamo subito inquieti. La traccia che le nostre suole indovinavano, pestando un passo doppio ogni centoquarantotto centimetri, un millesimo di miglio romano, allo stesso ritmo delle legioni. In molti avevano cercato di dissuaderci.

Attenti, dicevano, dopo i colli romani la traccia si perde. Troverete cemento e tangenziali, recinti privati e cani liberi. Sarà una fatica tremenda. Se proprio volete farvi una strada romana, andate sulla Claudia Augusta, dal Po al Danubio in Baviera, che è segnata a meraviglia. Ma noi non ci lasciavamo tentare. Non potevamo rassegnarci all’idea che proprio l’Italia non avesse strade romane percorribili. Ci mandava in bestia che proprio la “Regina Viarum” si perdesse nel nulla. Più cercavano di farci desistere, e più ci convincevamo che l’idea era buona.
Ma quelli non mollavano. Fate piuttosto il Cammino di Santiago, era il refrain, almeno troverete compagnia. Per noi era come una puntura di vespa. Ma come? Ci proponete una riserva indiana? A noi che si muore dalla voglia di attraversare il Paese fuori dai sentieri segnati? E poi, basta Santiago. Che noia. Possibile che non ci sia altro? Basta pellegrini, basta Francigene. Noi eravamo solo viandanti, e volevamo una strada laica, italiana e tutta nostra. Non una moda, un’invenzione del marketing, ma una direttrice indiscutibile e solitaria, scolpita nella pietra, fatta di sangue e sudore, percorsa da legionari e camionisti, apostoli e puttane, pecorai e carri armati, mercanti e carrettieri. Una linea che ci possedesse.

E difatti, ora che l’abbiamo battuta metro per metro, ora che tutto è finito, non riusciamo a togliercela di testa. Sogniamo pale eoliche, serpenti nel grano, tarantole e istrici, il trillo delle rondini a Venosa e il canto dei sanniti negli antri fra Volturno e Ofanto. «L’Appia è una droga pesante» ghignava appena ieri uno dei compagni di viaggio con gli occhi arrossati dal computer dopo giorni di “Google street view”, a rifare a volo d’uccello la strada battuta a quota zero. Settimane dopo, ogni passo torna con nitidezza. La partenza da Roma con l’acqua a secchi giù da porta San Sebastiano, l’antico che diventa villa privata, ornamento per feste di ricchi. La solitaria guerra di posizione della Soprintendenza, il fiato della Camorra sulla Capitale. E avanti, il taglio obliquo dei Colli Albani, la segnaletica che muore, lo scavalco di recinti abusivi, poi la fucilata di cinquanta chilometri fino a Terracina, il rettilineo più lungo d’Italia.

E ancora Formia, e Mondragone, e Santa Maria Capua Vetere, dove i comitati “Appia Antica” non servono a difendere la via, ma a difendersi dalla via. Posti dove Roma abita in ogni giardino, ogni cantina e sottoscala, e dove l’archeologo — come lo Stato e le leggi — è più temuto della peste. Poi, la via che si smaterializza, sorvola le montagne irpine riducendosi a concetto astratto, ipotesi o puro fattore euclideo, avanti per una campagna che si è mangiata quasi tutto e dove da secoli la parola “riuso” è il primo comandamento dell’edilizia. Pezzi di lastricato romano graziosamente disposti nel prato inglese di un giardino, capitelli incastrati nei muri, reperti medievali a segnare il confine tra poderi. Un saliscendi dove il tracciato s’immerge sempre più a lungo, solo per ritornare sporadicamente in superficie con gobba di capodoglio tra le convessità ondose dell’oceano.
Nelle plaghe africane dell’Apulia, ecco la nostra marcia procedere verso il solstizio in una luce vitrea e rovente, con la Via Regina che per lunghi tratti diventa fatamorgana, si fa sogno e mitologia e sete, si perde tra uliveti, campi di papaveri e aglio selvatico, ma egualmente non ci molla, ci segue come un fantasma meridiano, in una stupefacente metamorfosi che ce la restituisce con nomi sempre diversi — paracarro, rudere, campo di frumento, strada provinciale, fontana, metanodotto, solco di carri sulla roccia viva, tiglio solitario, muretto a secco, greto, tratturo, fermata d’autobus, passaggio a livello, pelle di serpente — solo per gettarsi nelle fauci infuocate del drago, l’altoforno dell’Ilva tarantina.

Immagini. L’albergatore di Albano Laziale che ci vede arrivare fradici e chiede: «Ma chi ve l’ha inflitta questa galera?». Le mani grandi degli agricoltori campani, piene di fave fresche in regalo ai viandanti «nel nome del Padreterno». Il mitico “vaffa” di un pullmino di operai verso Latina, invidia di pendolari condannati alla galera dell’asfalto. Una macchina a San Giorgio Ionico, in piena controra, che rallenta in una rotonda e ci allunga una bottiglia di acqua fresca come al Tour de France. La tarantella dei campanacci al collo delle vacche di Itri che ci tagliano la strada all’inizio della transumanza. Un pastore dalle parti di Melfi che segue il gregge con un’auto sgangherata e chiede: «Ma chi vi paga?». Il canto degli assetati verso l’Adriatico, «Voglio ‘o maaaare», cui segue il grido «Jateme ‘a bbirra», fino all’arrivo col sole allo zenit, Brindisi trentasette all’ombra, e il tuffo vestiti ai piedi della colonna terminale. La malinconia della fine, la barba d’un mese, il sacco sfatto, l’attesa della sera in uno svolio di rondoni, ebbri di negramaro e finocchietto
.
Era aprile, ricordo. L’idea era già chiara in mente, e anche Alex il regista era d’accordo. Non esiste, diceva, copione migliore di una strada. Ero d’accordo anche come giornalista. Se non sai cosa scrivere, mi aveva insegnato anni fa Egisto Corradi, cammina e qualcosa troverai. E siccome alla mia storia mancava un grande viaggio a piedi, l’Appia sembrava perfetta. Ma sapevo che da solo non ce l’avrei fatta. Quel viaggio era roba tosta, esigeva un navigatore capace di decrittare ogni traccia e isoipsa. Uno l’avevo già conosciuto, si chiamava Riccardo Carnovalini, un ligure col radar sotto i piedi, un domatore di rovi e torrenti, forse il massimo camminatore italiano. Gli telefonai, e quello disse subito sì, perché l’Appia - quel nome come un do di petto - ti conquista già col nome.

Una settimana dopo lo rividi per uno “studio di fattibilità” nella hall di un albergo davanti alla stazione di Bologna. Ci venne incontro con un sorriso mite ma pieno di orgoglio. «Io il viaggio l’ho già fatto», disse, ed estrasse dal tascapane una diavoleria simile a un citofono. Era il suo Gps. Spiegò che ci aveva pigiato dentro montagne di dati. Le carte antiche, la tracciatura dell’archeologo Lorenzo Quilici, le tavolette al 25 mila dell’Igm («La magnifica serie 25 V — disse — degli anni Cinquanta»), la viabilità attuale, le ortofoto satellitari del ministero dell’Ambiente, le notizie racimolate da un sito di esploratori del territorio chiamato “Open street map” e da www.straderomane. it. Accese lo schermo. «La strada è già tutta qui», fece indicando una linea rossa che tagliava strade, città, linee ferroviarie, elettrodotti, navigando imperterrita verso Est-Sud-Est.

Era lei, la fantastica diagonale d’Oriente, aperta ventiquattro secoli prima, che andava senza deflettere, incurante dei dislivelli con la ricerca maniacale del rettilineo tipica di quelle teste dure dei Romani. Era il sogno, o forse il delirio, di un cieco di nome Appio Claudio, l’uomo che a partire dal 312 avanti Cristo ne aveva tracciato la prima parte fino a Capua. In tutto, trecentosessanta miglia di ghiaia e possenti selciati, pari a cinquecentotrentatré chilometri, che però sarebbero diventati seicentoundici per noi, a causa dei numerosi ostacoli messi in mezzo dai tempi moderni. Capannoni, tangenziali, proprietà private. Riccardo aveva studiato tutto, anche le tappe, in base ai punti di sosta reperibili e ricalcando ove possibile le stazioni romane ( mansiones e stationes ).

Era fatta. Saremmo partiti in quattro, a piedi come immigrati. Quattro matti a piede libero, senza prenotazioni di alberghi e senza auto d’appoggio. Con noi anche Irene, veneta mezza austriaca, architetto con passione per l’ambiente, un tipo silenzioso capace di render lieve la trasferta alla più rissosa delle compagnie. A Bologna, le sessantanove carte che Alex aveva comprato all’Istituto geografico Militare di Firenze vennero aperte una per una, esplorate, annusate, numerate e ripiegate. Vecchie di sessant’anni, contenevano una pazzesca quantità di informazioni e toponimi utili alla traversata. Al loro confronto, le mappe contemporanee denunciavano tutta la banalizzazione dei territori e la distanza degli Italiani dal loro Paese.

Celebrammo con un aperitivo, poi venne la notizia a ciel sereno. Un pezzo dell’antica via Emilia era stato appena ritrovato in via Ugo Bassi, proprio lì a Bologna, e corremmo a vedere. Sopra il basolato ancora sporco di fango, tra le benne, un gruppetto di politici e pubblici amministratori si faceva immortalare da un fotografo. Pensammo fosse per sancire una restituzione. Invece no: serviva solo a tombare a cuore più leggero la via appena ritrovata. Non seguì alcuna polemica. Bologna aveva una sola paura: che l’antico non bloccasse l’asfalto. Ricoprire, ricoprire in fretta. Era quello l’imperativo. Era già successo a Reggio Emilia, ci dissero. Anche per la sinistra l’antichità era un intralcio. Il Nord era come il Sud. Eravamo davanti all’amnesia di una nazione.

Era esattamente ciò che non volevamo accadesse con l’Appia, e così, già prima di partire, giurammo che quella fatica non sarebbe rimasta senza esito. La nostra via era un giocattolo fantastico e bisognava a tutti i costi riaprirla ai viandanti. Lungo il cammino il proposito divenne ossessione: lasciare l’Appia in quello stato era un crimine. Per riattivarla bastava poco: un buon tagliaerba, qualche passerella, una segnaletica coerente e un coordinamento governativo che mettesse insieme i novanta comuni interessati. Era quanto bastava a far affluire centinaia se non migliaia di stranieri innamorati delle nostra storia. Il resto poteva arrivare anche dopo: ricupero come ospizi di caselli ferroviari e case cantoniere, monitoraggio, cartografia, restauro di cippi e monumenti, messa in sicurezza del basolato. L’importante era creare subito un flusso.

Non so dire cosa mi resti più impresso di questa avventura. Non so decidermi fra le facce e i paesaggi, le cose viste e quelle assaggiate o solo annusate. Di certo so che questo è stato il più terreno e insieme il più visionario dei miei viaggi. Il cibo mediterraneo ha fatto il suo, per impastare passato e presente. Melanzane fritte e Federico di Svevia. Aglianico e canti ebraici di Oria. Freselle al pomodoro condite con le Satire di Orazio Flacco. Vino flegreo e i canti tribali di Vinicio Capossela con la sua Banda della Posta. Lampascioni e Simon Pietro in viaggio verso Roma. Perché il viaggio, insegna Calvino, passa anche tra le labbra e l’esofago. E chi, viaggiando, non cambia dieta, non ha capito nulla.

(1 - continua)

CASTELLAMMARE DEL GOLFO. Un ombrellone a fiori, una sedia pieghevole in legno a uso e consumo di un addetto del Comune che disciplina la ressa dei bagnanti. E lì vicino un bagno chimico: l’unico a disposizione del pubblico nel raggio di diversi chilometri. Così, dall’alto, si presenta ai turisti la Tonnara di Scopello, un pezzo di storia della Sicilia a ridosso della Riserva dello Zingaro. Rifiuti ed escrementi fanno da cornice, nel parcheggio a monte come sui viali d’accesso, allo stabilimento che fu di proprietà della Compagnia di Gesù come della Famiglia Florio, di fronte ai faraglioni scelti dalla compagnia di bandiera canadese fra le quattro tappe obbligate di un immaginario giro del mondo.

E quelle immagini di incuria diventano un nuovo simbolo. Il simbolo di una battaglia che, chiunque sarà il vincitore, ha già mortificato quest’angolo di paradiso. La battaglia è quella fra i proprietari della Tonnara, una trentina di esponenti di note famiglie locali fra cui i Lanza di Scalea e i Foderà (con cui, nel secolo scorso, lavorò anche Santo Mattarella, nonno del Presidente della Repubblica), e il sindaco di Castellammare del Golfo Nicolò Coppola. Tutto ruota attorno a un’ordinanza, firmata da quest’ultimo il 9 luglio, che rende libero l’accesso al mare. «Perché il mare è di tutti», dice con sussulto democratico il sindaco. Ma i proprietari, che fino all’anno scorso facevano pagare un ticket di 3 euro per entrare, non ci stanno. E proprio ieri hanno inoltrato un ricorso al Tar. Oltre ad aver avviato una causa per risarcimento danni. In questa contesa le maggiori associazioni ambientaliste, fra cui Legambiente, si schierano a sorpresa con i privati, riuniti nella “Comunione della Tonnara di Scopello e Guzzo”. «La priorità va data alla salvaguardia di un bene monumentale unico. Bisogna preservarlo da un assalto scriteriato di bagnanti», dice Gianfranco Zanna, direttore regionale di Legambiente. Prima, quando si pagava c’erano i bagni anche vicino al mare, c’erano le sdraio monocolore e grandi “vele” sotto cui ristorarsi. Ora, la gente è ammassata sui teli, stretta alle pareti, nelle scarse zone d’ombra che quest’estate caldissima concede. Poi c’è la «sporcizia e il degrado» testimoniata dalle foto di Legambiente — bisogni fisiologici lasciati qua e là da turisti privati delle toilette — che hanno già fatto il giro del web. E attorno ai soci della “Comunione” si è consolidato un ampio fronte di intellettuali che hanno scritto a Corrado Augias: da Sheena Wagstaff e Leonard A.Lauder, responsabili della sezione di arte moderna e contemporanea del Metropolitan di New York a Giuseppe Cassini, già ambasciatore italiano in Libano. «Io non difendo i privati ma chiunque dimostri di saper conservare un luogo di pregio», dice Augias.

Il Comune, in realtà, sta cercando di disciplinare la fruizione del sito, consentendo duecento ingressi ogni due ore. Ma chi controlla? Quando, nell’assolata mattinata di Scopello, con il termometro a 38 gradi, un gruppo di bagnanti risale dalla baia, gli altri in fila per accedere applaudono stremati dall’attesa. «È giusto rispettare le regole e dare ad altri la possibilità di visitare un posto meraviglioso», dice Bruno Mongale, un turista romano in uscita. Che aggiunge: «Non so se tutti stanno venendo via allo scadere delle due ore. Che vuole, siamo italiani...». In ogni caso, 200 accessi ogni due ore, in un arco di 10 ore, fanno 1.000 accessi al giorno. Cifra che supererebbe, in proiezione, i 70mila ingressi dell’anno scorso, sotto la gestione privata. La Tonnara potrà reggere simile flusso?

Sarà un tribunale amministrativo a stabilire se la baia della Tonnara sia zona demaniale, e dunque a disposizione di tutti, o invece privata perché annessa a uno stabilimento di produzione. Intanto, come tante storie siciliane, non mancano sospetti e veleni. Il sindaco Coppola sbotta: «Immondizia? Fino alle 19 vigila il Comune. Poi non lo so. Non escludo che qualcuno, di notte, metta la spazzatura nei viali per creare il caso». È una battaglia anche politica: a festeggiare «la liberazione del mare », nei giorni scorsi, sono spuntati esponenti di Sel e 5stelle.

Ieri l’ultimo colpo di scena: il tribunale di Trapani ha accolto un reclamo di un gruppo di comproprietari e, ravvisando irregolarità fiscali, ha sospeso l’amministratore Leonardo Foderà e i consiglieri Vincenzo Vasile e Carlo Bargione. Nominando, al loro posto, tre amministratori giudiziari. «Visto? I proprietari della Tonnara non sono esattamente dei filantropi», dice il segretario regionale di Sel Massimo Fundarò. Ma la consigliera Maria Rosa Ruggieri parla di manovra: «Questa è un’ordinanza strumentale. Una parte della proprietà — dice la Ruggieri — si è già mesa d’accordo con il Comune. Gli amministratori giudiziari non difenderanno le nostre ragioni davanti al Tar e l’anno prossimo, vedrete, alla Tonnara sorgerà uno stabilimento balneare. In Sicilia prima si uccideva con le armi. Ora con questi metodi».

postilla


L'unica alternativa seria, se non fossimo in Italia, sarebbe quello della costituzione di una riserva accuratamente governata da una struttura pubblica altamente qualificata, attrezzata e motivata. Come sono ancor oggi alcune eroiche sovrintendenze ai beni culturali. Ma è noto che in Italia di di oggi questo è solo il sogno. Meglio allora che la conservazione vinca sulla demagogia. Qui l'appello che abbiamo pubblicato in eddyburg.

«Secondo il Comune di Venezia e l'Autorità portuale la decisione dei giudici rallenta la realizzazione del nuovo canale Contorta, ma spiana la strada alla proposta della stessa amministrazione» Una vittoria della ragione, ma gli interessi mercantili e l'abissale cecità dei governanti sono già al contrattacco. La Nuova Venezia, 30 luglio 2015, con postilla

La sentenza del Tar del Veneto che ha accolto, in primo grado, i ricorsi promossi da Comune di Venezia e Associazione ambiente Venezia contro il nuovo canale Contorta Sant'Angelo dove dirottare il passaggio delle grandi navi da San Marco ne rallenta il procedimento di realizzazione, ma spiana la strada alla proposta della stessa amministrazione, fatta propria anche dall'Autorità Portuale, per il Canale "Tresse Est - Vittorio Emanuele". Lo affermano, in due note distinte, il Comune di Venezia e l'Autorità portuale.

La sentenza va ad aggiungersi ai risultati delle due Conferenze dei servizi convocate dall'Autorità portuale che hanno riscontrato l'impraticabilità delle soluzioni proposte in Bocca di Porto di Lido (progetto di banchine denominato Venice 2.0) e a Marghera, oltre che alla recente dichiarazione di "non interesse pubblico" del Comune di Venezia rispetto al progetto Venice 2.0. Tutto ci fa sì che l'unica soluzione oggi percorribile per applicare il decreto Clini-Passera sarebbe, secondo Comune ed Autorità portuale, quella del Canale "Tresse Est - Vittorio Emanuele".

Una soluzione che nel Comitato portuale dello scorso 16 luglio 2015 l'Autorità portuale ha deliberato di inserire nel proprio Piano operativo triennale 2015-17 su richiesta del Sindaco Brugnaro. "Va comunque evidenziato", rileva l'Autorità portuale, "invece il rischio che la sentenza del Tar mantenga o prolunghi, più di quanto necessario, il passaggio delle grandi navi crociera davanti a S.Marco. Esattamente come avvenuto con l'analoga sentenza che aveva fatto decadere le ordinanze di mitigazione temporanea per il 2014 e 2015".

postilla

Il lettore non veneziano forse non sa che il nuovo tracciato minacciato dal fecondo connubio tra il presidente dell'Ente porto, il noto Paolo Costa, e il sindaco di Venezia, l'ancora insufficientemente noto Luigi Brugnaro, comporterebbe anch'esso due gravissimi danni alla Laguna e alla città: l'ulteriore rafforzamento e allargamento del nefasto Canale dei petroli, che secondo la legislazione vigente dal 1977 si sarebbe già dovuto eliminare, e l'arrivo di torme di turisti "mordi e fuggi" nel cuore della città.

Finalmente un'analisi della vicenda romana che colloca le debolezze e gli errori di Ignazio Marino nel loro contesto, non facendone il capro espiatorio di colpe altrui. Il manifesto, 28 luglio 2015, con una lunga postilla

Chi vive a Roma ha la possibilità di sperimentare tutti i giorni l'asprezza di una condizione urbana e civile che non mostra ormai da anni un barlume di miglioramento. La speranza che qualcosa sia progredito nella qualità dei servizi, nell'agibilità dei trasporti, nella pulizia e decoro dei luoghi. Tuttavia è proprio la lunga durata di questo degrado che dovrebbe mettere in sospetto sull' eccessivo carico di responsabilità che si fa ormai da mesi al sindaco Marino. Prima che le amministrazioni, occorrerebbe “inquisire”, nel senso etimologico del termine, i cittadini. Come ha fatto con una bella pagina Melania G. Mazzucco ( Se questo è il volto di una capitale, La Repubblica, 26/7/20159 ) La Mazzucco, opportunamente, estende a tutto il Paese l'analisi antropologica della cialtroneria civile degli italiani, su cui gravano non poche responsabilità dello stato presente delle nostre città. Oggi tuttavia alla lunga durata della nostra storia si aggiungono nuovi guasti, insieme alla devastante diminuzione di risorse destinate alle pubbliche amministrazioni. L'etica civile, che prevede il senso del bene comune e la condivisione, è corrosa dall'individualismo edonistico della cultura dominante. In un Paese che ha nella sua storia un debole disciplinamento civile – dipendente dalle scarse capacità egemoniche delle sue classi dirigenti – il veleno nichilistico del capitalismo attuale ha effetti dirompenti. Nessuno si sente cittadino, membro di una civitas, tutti individui che producono e consumano. Crescente è poi la sfiducia dei cittadini nei confronti di ogni potere istituzionale, e dunque langue il contratto sociale quotidiano che impegna ognuno a fare la propria parte.

Questo non sgrava certamente Marino dalle sue responsabilità. Una su tutte: l'incapacità di far sentire Roma inserita in un grande progetto di rinascita di cui si stanno gettando le fondamenta e che chiama tutti i cittadini a fare la propria parte. Questa capacità Marino non l'ha espressa e forse non la possiede. Benché dalle interviste che rilascia si scorge un onesto e oscuro lavoro di cambiamento delle strutture profonde del potere romano. Tuttavia, le polemiche e le contestazioni anche violente subite dal sindaco a margine della questione “mafia capitale” sono molto rivelatrici di un modo errato e superficiale di concepire la politica e i poteri di un leader. Tramontata la concezione della politica come agire collettivo, oggi viene surrogata dalla visione demiurgica del leader che, così come vince le elezioni, trasforma la realtà e il destino delle persone con il suo agire solitario.Si è, ad esempio, rimproverato a Marino di non essersi accorto del malaffare che trescava attorno a lui. E in effetti una maggiore attenzione sarebbe stata benvenuta.Ma se ci son voluti mesi di intercettazioni e indagini della magistratura per scoperchiare la pentola, vuol dire che gli scantinati malavitosi sotto il Palazzo erano ben nascosti. Il groviglio di interessi che teneva sotto controllo la capitale mostra al contrario quante difficoltà e condizionamenti doveva e deve subire la politica democratica a Roma. E quindi le scoperte della magistratura militano a favore di Marino, mostrando i limiti storicamente sedimentati entro cui egli ha dovuto collocare in questi due anni la sua azione di primo cittadino.

E qui si dimentica un passaggio storico importante. Un tempo, quando esistevano i partiti di massa, i sindaci e gli assessori avevano un più ampio controllo di legalità sugli ambiti dell'economia pubblica, sulle pratiche amministrative, sulle persone. La partecipazione volontaria dei cittadini alla vita politica diventava essa stessa strumento di controllo e di trasparenza. Dunque l'azione di un leader non era isolata, ma era parte di un 'azione collettiva che operava assieme a lui, che trasformava le sue scelte in iniziativa politica.

Oggi i partiti, non più strumenti di emancipazione collettiva, ma al servizio di individui in competizione, sono un coacervo di comitati elettorali in reciproca contesa. E non stupisce che nella polemica di questi mesi non emerga, in alternativa alla giunta in carica, se non qualche nome di leader e mai una idea, che sia un'idea di Roma, un progetto visibile e condivisibile di città.

L'indagine impietosa compiuta da Fabrizio Barca sul PD romano ha mostrato a quale grado erano giunti tanti circoli di quel partito. Ebbene, Marino non solo non ha più attorno a sé un partito di massa, ma non poteva contare neppure su quel PD, che gli era significativamente ostile. Molte delle opposizioni che oggi convergono contro il sindaco andrebbero in verità esaminate nelle loro segrete e innominabili motivazioni. Perché non bisogna dimenticare che il più potente dei poteri romani, accanto a quello del Vaticano, è stato quello dei costruttori. In subordine e spesso legato ai primi due, quello della più opaca macchina amministrativa d'Italia. Oggi tali poteri vengono colpiti e sono in difficoltà. E' su questi obiettivi che bisognerebbe richiamare l'attenzione dei romani e degli italiani, oltre che sul traffico soffocante e la sporcizia delle strade.

postilla

Finalmente qualcuno che colloca le debolezze e gli errori diIgnazio Marino nel loro contesto. Finalmente qualcuno che mostra di far propriala domanda che ponevamo nel “pensiero del giorno” di qualche giorno fa , eavvia una risposta utile ad andare avanti. Chiedevamo: «Come mai la colpa deldegrado della capitale è attribuita all'unico sindaco che sta tentando dirimuoverlo dopo che altri (non solo Alemanno, ma anche e prima di lui Veltroni)l'avevano provocato? Il PD storico e attuale è una palombella bianca?».

Chi, come noi, ha seguito e criticato passo per passol’urbanistica romana degli anni di Francesco Rutelli e di Walter Veltroni sa bene che ben prima ancora di GianniAlemanno il territorio romano era stato venduto alla speculazione dei padroni del cemento. Per chi volesse documentarsi,basterebbe digitare sul “cerca” di eddyburg le parole “pianificar facendo”, epoi magari quelle“dirittiedificatori” per rintracciare i numerosi articoli che raccontano in che modo la gestionedell’urbanistica romana sia stata appaltata agli “energumeni del cemento.Un’analisi appena un po’ più approfondita consentirebbe di comprendere in chemodo le consorterie poi battezzate “larghe intese” o “patto del Nazareno”abbiano dominato il governo del territorio nella Capitale, facendo diquest’ultima il laboratorio della peggiore stagione della città (urbs, civitas,polis) che la nostra Repubblica abbia conosciuto. Pretendere che un uomo, perdi più arrivato alla sindacatura con l’appoggio del partito descritto daFabrizio Barca (e partecipe del “governo del territorio” romano in tutta lafase che va da Rutelli ad Alemanno) è veramente incomprensibile.

Ci fermiamo qui, e abbiamotoccato solo uno degli aspetti della continuità politica, economica e moraleche unisce il ventennio che è alle spalle di Ignazio Marino. Ma per cambiarerealmente le cose occorrerebbe lavorare su uno spettro di questioni più ampio.Solo da una corretta analisi del passato si può trarre la saggezza necessariaper andare aventi nella direzione giusta. (e.s.)


Non inganni il tono leggero, che illustra un caso locale di un problema universale: di burocrazia e ottusità istituzionale possono morire le persone e la vitalità urbana, altro che. Corriere della Sera Milano, 30 luglio 2015, postilla (f.b.)

Al primo conteggio erano 98, al secondo sono diventati 106, al terzo sono scesi a 102. Che è la media dei tre, quindi lo diamo per buono. Eccolo l’oggetto di metallo avente sezione tondeggiante e sviluppo prevalente nel senso della lunghezza, che piantato in terra per un estremo serve di sostegno. In sintesi, il palo: 102 ce ne sono, più o meno, nel solo largo Cairoli che sta rinnovando la viabilità e di conseguenza anche la segnaletica. Il che certifica due fatti. A) È certo che con tutte quelle indicazioni non ci si può perdere. B) La palite è la nuova malattia della burocrazia automobilistica urbana. Ormai c’è un palo per ogni cartello, o un cartello per ogni palo (sarà nato prima il palo o il cartello?, ah, saperlo!). Solo per i semafori ne svettano 36: possibile che ne servano così tanti in una piazza dal diametro di 50 metri? Tutti indispensabili? Pare di sì.

Poi ci sono tutti i piloni per le piste ciclabili: e via, altri segnali, di divieto, di consenso, di senso unico, di svolta a destra, di svolta a destra ma non a sinistra ma forse solo nei giorni pari. Poi c’è anche la versione nana con i mini pali a indicare gli spartitraffico. E le aste — appena due, tristi, solitarie y final — con gli specchi per i tram, che in realtà son già attrezzati di loro, ma non si sa mai: due specchi riflettono meglio di uno. E poi come non segnalare l’inizio della pista ciclabile e dell’area pedonale e poi la fine dell’area ciclabile e della pista pedonale? L’architetto dell’Expo Gate che guarda al Castello Sforzesco deve aver dato un occhio al paesaggio confinante e ha deciso che lì, in quello slargo, la fiera del palo era perfetta.

Via via che le piazze si rinnovano, l’aumento demografico dei pali cresce incontrollato. Basta fare uno slalom in piazza XXIV Maggio o una gimkana in largo Greppi, davanti allo Strehler. Sarà colpa delle nuove norme europee che spesso fanno a pugni con il buonsenso, ma è un fenomeno inarrestabile che disegna la nuova geografia dell’urbano palinsisto (in psichiatria il palinsisto è la coazione a ripetere nel piantare ogni tipo di palo, roba da Freud più che da assessore ai Lavori pubblici).

Un dedalo infinito di pali grigi, poi forse li dipingeranno — anche se pare che quel colore che sa di provvisorio sia quello definitivo. Intanto ne rimane pure qualcuno di quelli vecchi — giallo estinto tipo taxi — perché i pali nuovi sono quasi sempre un metro più a destra, 70 centimetri più avanti, mezzo metro più a nord di quelli precedenti. Con grande gaudio e soprattutto grande fatturazione per il Fornitore Unico di Pali che, immaginiamo, avrà vinto un appalto (chissà a quanto lo fa un palo, casomai servisse in casa).

La piazza è quasi terminata, con la sua nuova fisionomia a palafitta al contrario. Politicamente corretto e nel rispetto delle singole sensibilità poi che ogni palo sia così valorizzato, ognuno con il suo unico segnale stradale. Guardando meglio però — surprise — c’è un palo che regge due cartelli. Ma sarà di certo un errore.

postilla
Quanti casi analoghi possiamo citare, magari sperimentati di persona in qualche surreale percorso a slalom, di solito da pedoni, o in quelle foto «curiose» sul social che ritraggono la striscia bianca della carreggiata scostarsi rispettosa davanti a San Palo, per poi riprendere la corsa verso l’infinito? Il fatto è che si tratta di un problema serio, di qualità urbana e di sicurezza, se l’ex ministro per le aree urbane Tory, Eric Pickles, ne aveva desunto una vera e propria policy con tanto di rapporti e disegno di legge per l’abolizione delle «carabattole stradali» (street clutter). Non questione solo estetica, ma ostacolo a una autentica fruibilità degli spazi pubblici, ai flussi di traffico intermodale, alla stessa applicazione tecnica di qualche versione locale degli «
spazi condivisi» di Hans Monderman, i pali ubiqui e autoreferenziali sono un problema serio. Da considerare seriamente, e non solo quando ci pestiamo contro la capoccia scendendo dal tram (f.b.)

Buone notizie per i romani, se le scelte di Marino saranno confermate. Marco Causi, Anna Donati, Marco Rossi Doria sono scelte più che affidabili per una giunta seria, se non si vogliono solo bandierine da sventolare nelle riunioni di partito. Il manifesto, 28 luglio 2015

La nuova giunta di Igna­zio Marino sarà varata oggi, la giran­dola dei nomi dei papa­bili al posto dei tre asses­sori dimissionari/dimissionati (Improta, tra­sporti, Scoz­zese, bilan­cio, Nieri, vice­sin­daco) si fer­merà, forse solo tem­po­ra­nea­mente. Ma intanto una cer­tezza c’è: il cen­tro­si­ni­stra che ha gover­nato fin qui la Capi­tale è finito. Sel lascia la giunta. È un nuovo improv­viso ’cam­bio di verso’ del sin­daco, con buona pace dei mille gor­gheggi che aveva fatto al ’fedele’ alleato. Sel fini­sce immo­lata sull’altare del ren­zi­smo, nell’ipotesi tutt’altro che pro­ba­bile che lo stesso Renzi se ne compiaccia.

Ieri pome­rig­gio l’incontro al Cam­pi­do­glio fra il sin­daco e i ver­tici ven­do­liani è finito male. Dopo le dimis­sioni del vice­sin­daco Nieri, Sel cer­cava garan­zie su una svolta nel governo della città: punti qua­li­fi­canti per il rilan­cio. Ma per Marino il punto era la pol­trona di vice­sin­daco: che voleva tenere libero per un dem di fidu­cia del Pd romano, allo scopo di con­so­li­dare il sem­pre teso rap­porto fra il sin­daco ’mar­ziano’ e il par­tito. A quel posto infatti oggi sarà chia­mato Marco Causi, depu­tato dem che con ogni pro­ba­bi­lità si terrà anche la deli­cata delega al bilan­cio. Sel invece aveva pro­po­sto Fran­ce­sco For­gione, già pre­si­dente della com­mis­sione anti­ma­fia, vicino all’associazione Libera di don Ciotti e uomo di ottimi rap­porti con la magi­stra­tura che indaga su Mafia Capi­tale. Per Marino l’ipotesi non esi­steva. E così l’incontro fini­sce con la rot­tura. All’uscita il con­si­gliere Gian­luca Peciola parla di «appog­gio esterno che passa da tec­nico a poli­tico». La tra­du­zione che ne dà il più diretto Paolo Cento, nuovo respon­sa­bile della Sel romana, è: «Con il Pd si apre una fase di com­pe­ti­zione. Con il sin­daco Marino man­ter­remo un rap­porto di veri­fica deli­bera per deli­bera», insomma, «se il Pd vuol far sal­tare il cen­tro­si­ni­stra a Roma se ne assume la respon­sa­bi­lità». Sel per ora sem­bra orien­tata a non far man­care i suoi voti alla mag­gio­ranza, almeno «per tutti quei prov­ve­di­menti che saranno dav­vero utili per la città e per i cit­ta­dini romani». Ma pre­sto i nodi arri­ve­ranno al pet­tine. Anzi subito. Oggi stesso in aula ini­zia la mara­tona per appro­vare l’assestamento al bilan­cio 2015. Per il sì finale c’è tempo fino al 31 luglio. Nel prov­ve­di­mento sono con­te­nute ini­zia­tive alle quali Sel ha già detto no: per esem­pio sul capi­tolo Atac. Sel non è con­tra­ria alla rica­pi­ta­liz­za­zione sta­bi­lita nel testo, ma lo è a far entrare «un part­ner indu­striale» pri­vato nell’azienda. Marino potrebbe dover voti fuori dalla mag­gio­ranza, tra­sfor­mando di fatto il mono­co­lore Pd in «lar­ghe intese» sul modello nazio­nale. Così i 5 stelle ora sfi­dano Sel a stac­care la spina.

Il sin­daco non se ne pre­oc­cupa e punta tutto sul rim­pa­sto di giunta che sarà varato oggi. Nono­stante le aspet­ta­tive, alla fine si va sull’usato sicuro: per i tra­sporti cir­cola il nome di Anna Donati, già asses­sore alla mobi­lità sia a Bolo­gna che a Napoli; per le peri­fe­rie quello di Marco Rossi Doria, già sot­to­se­gre­ta­rio all’Istruzione con i governi Monti e Letta.

Ma non è affatto detto che il sacri­fi­cio di Sel e il lif­ting all’esecutivo capi­to­lino fac­ciano cam­biare dispo­si­zione d’animo a Palazzo Chigi, da dove non smette di fil­trare una gelida osti­lità all’indirizzo del Cam­pi­do­glio. Sta­sera sarà la prova del nove: alle 21 il pre­si­dente Renzi par­lerà alla festa dell’Unità della Capi­tale, un appun­ta­mento atte­sis­simo che il pre­mier però avrebbe pre­fe­rito diser­tare. Ci va, invece, per l’insistenza del com­mis­sa­rio Orfini. A cui come con­di­zione avrebbe chie­sto l’assenza del sindaco.

Il quale comun­que rischia grosso: non solo dal giu­di­zio ’del suo segre­ta­rio pro­nun­ciato di fronte ai mili­tanti, ma anche da quello in arrivo da parte del mini­stro degli interni. D’accordo con Orfini, Marino pro­cede al rim­pa­sto prima che Alfano si sia pro­nun­ciato sullo scio­gli­mento della città per mafia. La ’sen­tenza’ potrebbe arri­vare a giorni. Il rischio è che la rela­zione del mini­stro renda neces­sa­rie nuove dimis­sioni dalla giunta. Tutto tor­ne­rebbe in ballo.

La questione dei grandi sistemi insediativi, di riconoscerne l’esistenza in quanto tali e poi eventualmente di programmarne lo sviluppo, è vecchia quanto l’uomo. Ma anche il vizio di confondere un po’ i termini. La Repubblica, 27 luglio 2015, postilla (f.b.)

La Cina vuole donare al mondo la nuova capitale del futuro. Sarà la megalopoli più vasta e popolata della storia e anche il suo nome sembra studiato su un pianeta alieno, dove è vietato perdere tempo: “JJJ”, ossia “Jing-Jin-Ji”, da pronunciare “tre gi”, o “gei-gei-gei”. Già la sigla rivela un progetto colossale: fondere Pechino (Beijing), con il porto di Tianjin e con l’intera regione dell’Hebei, che i cinesi chiamano rapidamente «Ji». Le dimensioni appaiono oggi disumane: oltre 100 mila chilometri quadrati e 130 milioni di abitanti. Per capire: la capitale cinese conta oggi 21,5 milioni di persone, New Delhi 14, Tokyo 13,3, Città del Messico 9,1, New York 8,4, Londra 8,3. La nuova mega- city globale avrà un po’ meno di un terzo degli abitanti degli Usa, quasi quanti l’intera popolazione russa, oltre il doppio di quelli in Italia. Roma ha 2,6 milioni di residenti, Milano 1,5: non rappresenteranno nemmeno un quartiere della metropoli con cui il presidente Xi Jinping è deciso a sconvolgere il profilo di quella che punta a diventare la prima super- potenza del secolo.

Pure l’obiettivo tradisce un’ambizione senza precedenti: creare un nuovo concetto di urbanizzazione, per chiudere l’era delle città industriali dell’Occidente, nate nell’Ottocento, e aprire quella delle regioni hi-tech, che segneranno il Duemila dell’Oriente. La spaventosa “Big-Bei”, appellativo con cui la propaganda di Stato cerca già di rendere simpatica la prossima capitale tra i cinesi, è investita della missione di dominare il pianeta, ma prima di salvare la Cina socialista, costretta a convertirsi realmente alle leggi del libero mercato. Pechino ha il problema di essere un innesto incompiuto e arretrato: la metropoli del potere maoista è cresciuta sulle rovine di quella imperiale, lo stile è quello squallido sovietico, la qualità della vita prossima allo zero, i residenti sempre più vecchi. L’antica bellezza di pietra è soffocata dai palazzoni di cemento, bunker del partito-Stato e delle sue “industrie del popolo”. Traffico, congestione e smog sono un incubo che gli stessi cinesi, dopo gli occidentali, si sono rassegnati a definire «condizioni inadatte alla vita umana».

Il “nuovo Mao”, deciso a non farsi schiacciare nella funzione burocratica del moralizzatore anti-corruzione, così ha deciso: il mondo ha bisogno di una capitale-simbolo del futuro, la Cina di una giovane metropoli- immagine del cambiamento e questa vetrina globale del “sogno cinese” sarà Pechino, rifondata come “JJJ”. La leva della rivoluzione, oltre agli affari, è la tecnologia. Per connettere una città-regione vasta come un terzo dell’Italia, entro dieci anni verranno ultimate decine di linee ferroviarie ad alta velocità, di autostrade, di canali fluviali e di ponti, di metropolitane, di aeroporti e di tunnel. L’attuale Pechino, ricostruita nei villaggi imperiali rasi al suolo dalle Guardie rosse, resterà uno spot di storia, arte e ambiente, consacrato al business del commercio e del turismo internazionale. La nuova metropoli, estesa tra il mare di Tianjin, le montagne che confinano con la Mongolia e le pianure dello Yangtze che conducono verso Shanghai, inghiottirà centinaia di villaggi rurali e di città di seconda fascia, trasformate in dormitori, distretti industriali, poli della ricerca e del potere, tutti satelliti del pianeta principale.

Già oggi è in parte così. Più del 60% dei pechinesi abita al di là del quinto anello delle circonvallazioni, muro ufficiale che divide il centro dalla periferia. Per questa massa di persone, costituita da 8,1 milioni di migranti interni, la vita quotidiana è un calvario. I vecchi si alzano all’alba e raggiungono le stazioni dei bus prima delle cinque, per fare la coda al posto dei figli che lavorano in città. Questi arrivano alle sei e grazie al sacrificio dei genitori pensionati possono sperare di raggiungere l’ufficio, o la fabbrica, dopo tre ore di viaggio. Il tragitto medio del pendolare metropolitano tocca in 50 chilometri, per coprire i quali si impiegano anche cinque ore, condanna da scontare due volte al giorno.

L’onnipotente Commissione per lo sviluppo e per la riforma (NDRC), ha ora annunciato che grazie all’alta velocità i futuri abitanti di “JJJ” non dovranno perdere oltre un’ora al giorno sui mezzi di trasporto, percorrendo al massimo 100 chilometri. Il segreto, secolare eredità nazionale, è la pianificazione forzata. Ad ogni area metropolitana il governo assegnerà un compito preciso: l’attuale Pechino punterà su cultura e terziario hi-tech, Tianjin su ricerca, distribuzione ed energia, l’Hebei sulla manifattura delle piccole e medie imprese. Anche i sobborghi riceveranno l’ordine di una vocazione. Il quartiere-fantasma di Tongzhou, una spianata con centinaia di prefabbricati tutti uguali alti venticinque piani, sarà trasformato nella nuova cittadella del potere rosso.

Dopo oltre mille anni il cuore dell’impero traslocherà dalla Città Proibita, affacciata su piazza Tiananmen, alla periferia nord, su cui sorgerà pure un secondo aeroporto, subito candidato ad essere «il più trafficato del pianeta». A Tongzhou verranno trasferiti i ministeri, il cosiddetto parlamento, la sconfinata burocrazia cinese, i colossi dell’economia di Stato, ma pure gli ospedali, le università, i tribunali e le caserme dell’armata di liberazione. L’obiettivo dichiarato è alleggerire il centro dal traffico e dall’inquinamento più terrorizzanti dell’Asia. Quello taciuto è circoscrivere la roccaforte del potere comunista, per renderla più controllabile, interconnessa e difendibile. Treni- missile e metrò, grazie a convogli da oltre 300 chilometri all’ora, faranno sì che entro il 2025 trasferimenti che oggi impegnano tre ore vengano ridotti a non più di 40 minuti.

Riordinare la Cina in un’unica megalopoli verde e hi-tech, con Pechino centro del Nord, Shanghai del Centro e Guangzhou del Sud, è la missione a cui la nuova generazione dei leader affida non solo il destino delle riforme economiche, ma anche la sopravvivenza dei cinesi e quella del partito. Una super-città da 130 milioni di abitanti, fondata su treni, auto elettriche, energie verdi e colletti bianchi, rappresenta una sfida titanica per i servizi, dall’acqua al cibo, dall’istruzione ai rifiuti. L’urto del boom immobiliare sfonda però anche i limiti conosciuti della convivenza sociale, mescolando un decimo della popolazione nazionale. «La mobilità veloce — dice Dong Zuoji, direttore dell’ufficio centrale di pianificazione territoriale — rivoluziona gli spazi politici, economici e vitali: ma prima di tutto apre prospettive inimmaginabili al sistema adottato dall’umanità per distribuirsi sulla terra. Il fenomeno dell’immigrazione ad esempio, presto sarà superato».

Per bruciare le tappe “JJJ” punta ancora una volta sulle Olimpiadi. Il 31 luglio il Cio assegnerà i Giochi invernali 2022 e Pechino contende alla kazakha Almaty l’opportunità di diventare la prima località al mondo ad aver ospitato le gare olimpiche sia estive (2008) che bianche. Il punto forte della candidatura cinese, oltre al low cost e agli sponsor, è proprio l’eco-compatibilità e la connessione rapida con i campi di gara, sulle montagne di Zhangjiakou, vicino alla Grande Muraglia. Da mesi, per vincere la sfida del cielo blu, le autorità hanno fermato fabbriche, centrali a carbone e traffico. Milioni di migranti, grazie a un sistema a punti, sperano di strappare i diritti di cittadinanza nella capitale, miraggio rurale dai tempi di Mao.

Se tra dieci giorni Pechino coronerà il secondo sogno olimpico in un quindicennio, il segnale sarà inequivocabile per tutti: il conto alla rovescia della megalopoli-Paese del futuro è cominciato, il mondo ha trovato la sua prossima capitale.

postilla
In fondo la verità pura e semplice ce la racconta nei fatti anche l’articolo: centomila chilometri quadrati sono un terzo del totale della superficie italiana, e anche quei 130 milioni di abitanti (specie se non si concede troppo al caso o allo sprawl «di mercato») organizzati per nuclei di grandi e medie dimensioni ci stanno relativamente comodi, lasciando spazio a ottime e pure visivamente abbastanza «a perdita d’occhio» distese verdi. Insomma l’idea originaria e autentica di megalopoli, complice l’urbanizzazione planetaria e i problemi creati dalla crescita a casaccio, pare stia iniziando a uscire dal cosiddetto «libro dei sogni», così come si chiamava da noi in Italia con linguaggio sprezzante esattamente qualcosa del genere, circa mezzo secolo fa. Sarebbe ora che qualcuno, come auspicano ogni tanto geografi o urbanisti in qualche estemporanea intervista sulla vita e dintorni, si accorgesse che nominarla, la megalopoli, non significa fare paura ai bambini, ma iniziare a riconoscere il problema, e magari affrontarlo per tempo coi criteri adeguati. Invece a volte dobbiamo sorbirci sequele di sciocchezze, come quelle pubblicate tempo fa da un noto architetto e ascoltato maître à penser locale, riportate nello Stupidario (f.b.)

Ecco perché un'ora e un quarto di ritardo dell'apertura di Pompei al pubblico è diventato un caso internazionale, che ha sputtanato l'Italia ma coperto le magagne del governo. La Repubblica, blog "Articolo 9", 26 luglio 2015

«Franceschini sta facendo un buon lavoro e la cultura è la chiave del nostro futuro. Anche per questo mi viene una rabbia incontenibile quando vedo le scene di ieri a Pompei»: così il compagno segretario e presidente Matteo Renzi annota (sotto l'eloquente titolo Il nostro petrolio culturale e la rabbia per Pompei) nella fluviale rubrica riservatagli dalla neosovietica Unità diretta dal suo ex sottosegretario Erasmo De Angelis (tanto fedele alla linea da aver scritto che lo Sblocca Italia è di sinistra: anche se forse voleva dire 'sinistro').

È la ciliegina su una colossale torta di disinformazione e propaganda che merita di essere tagliata a fette e analizzata per quello che è.
Venerdì mattina un gruppo di lavoratori di Pompei indice un'assemblea senza preavviso e lascia i visitatori fuori dalla porta. Condotta inqualificabile, giustissimo censurarli: cosa che Cgil e Uil fanno immediatamente. Grazie all'encomiabile sollecitudine del soprintendente Massimo Osanna la cosa si traduce nel ritardo di un'ora e un quarto nell'apertura dei cancelli. Grave, certo. Ma forse non il «danno incalcolabile» di cui parla il ministro Dario Franceschini, che trasforma così un evento secondario in un dramma nazionale capace di tenere banco per ore come prima notizia dei siti dei quotidiani, e di stare all'indomani in prima pagina: producendo articoli che descrivono, per ignoranza e forza d'inerzia, una Pompei allo sfascio che non esiste più da due anni.
E cosa si dovrebbe dire del fatto che – giusto per rimanere in Campania – il supermuseo di Capodimonte, uno di quelli in attesa del superdirettore, ha due piani (quelli dove si trovano Caravaggio e Tiziano) chiusi da settimane per un guasto all'aria condizionata: che non dipende da sindacati selvaggi, ma dalle scelte irresponsabili del Ministero guidato da Franceschini? Questo non è forse «un danno incalcolabile»? E questo è solo uno fra decine di esempi possibili.
Domanda: perché Franceschini coglie la palla al balzo e alza un polverone che (oggettivamente) danneggia la reputazione del Paese e di Pompei molto più della stessa assemblea sindacale? Ecco una possibile risposta.
Quel polverone ha completamente coperto, sui media, la concomitante manifestazione nazionale indetta dai sindacati confederali a livello nazionale, con sit in davanti alle sedi del ministero dell'Economia, per protestare contro il mancato pagamento del salario accessorio maturato da novembre scorso per le prestazioni che i lavoratori svolgono a tutela del patrimonio, e contro i tagli pesanti che il governo sta programmando sul salario di produttività: quello che consente le aperture prolungate tanto citate nella propaganda di Franceschini.
Così una accorta regia ha pensato bene di buttare i sindacati in pasto all'opinione pubblica, approfittando di un gesto sconsiderato a cui il 99,9% dei lavoratori del Mibact era estraneo. Una regia che soffia su pregiudizi di classe (i custodi fannulloni, quintessenza del dipendente pubblico fancazzista) e su pregiudizi antimeridionali (nascondendo il fatto che i problemi di Pompei si potrebbero, anzi si dovrebbero, risolvere a Roma).
Incontrando ieri i sindacati, Franceschini ha detto che è inutile mantenere le aperture di 11 ore in tutti i siti, e che quindi saranno diminuite le aperture nei siti 'minori': quelli affossati dalla spettacolarizzazione che punta tutto su Pompei, Uffizi e Colosseo. E ha detto anche che potrà assumere solo tramite la società in house del Ministero: che diventerebbe il vero serbatoio occupazionale, aggirando (e non contestando e superando, come si dovrebbe fare) i blocchi del turn over. Con costi maggiorati, ma nascosti nelle pieghe del bilancio e applicando il contratto del commercio: invece di fare i concorsi pubblici che vorrebbe la Costituzione.
Perché, invece di arrabbiarsi incontenibilmente per quel che avviene a Pompei (un posto dove, fino a qualche mese fa, egli non era mai stato), il compagno segretario e presidente non prende atto del fatto che se il patrimonio culturale è una priorità (economica, come direbbe lui), allora bisogna assumere i lavoratori necessari a farlo funzionare?
Infine: tutto il Mibact e il mondo della cultura si stanno sollevando contro la norma della 'riforma' Madia che prevede di far confluire le soprintendenze nelle prefetture (comportando con ciò la fine pianificata della tutela del paesaggio e del patrimonio disposta dall'articolo 9 della Costitituzione) e Franceschini grida che il danno incalcolabile al patrimonio è l'ora e un quarto di ritardo nell'apertura dei cancelli di Pompei?!? Spiace dirlo, ma davvero di questo passo rischiamo di ridurci a rimpiangere Sandro Bondi.

Una brava urbanista, Paola Viganò, e un buon episodio di progettazione urbana, mediante una procedura corretta. Intervista a risposte intelligenti e spesso condivisibili: con una contraddizione (TAV) e uno scivolone (art. 9). Corriere della Sera, suppl. «Sette» 24 luglio 2015

A un certo punto le soffio addosso il venticello malizioso che circola tra alcuni suoi colleghi sul perché abbia vinto il concorso per ridisegnare il quartiere Flaminio, a Roma: la presidentessa della Giuria era un’allieva del suo ex socio Bernardo Secchi, archistar dell’urbanistica italiana, venuto a mancare nel settembre 2014. Lei replica: «Il tempo e la storia ci diranno se è così». Il tono è decisamente indifferente. Tipo: «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa». Poi, dopo una pausa, mette una pietra tombale sulla polemica: «Lo sa che sono l’unica donna e l’unica non francese ad aver vinto il Grand Prix de l’Urbanisme?».

Paola Viganò, 54 anni, urbanista e professoressa allo Iuav di Venezia e all’Epfl di Losanna, è portatrice fiera di piani regolatori e di progetti territoriali, di piazze e di parchi. Dice: «Progettare spazi produce conoscenza. Rivendico un ruolo sociale e intellettuale per gli urbanisti e per gli architetti».
Nella Roma devastata da Mafia Capitale e affetta da degrado debordante, la notizia che a pochi passi dal centro storico qualcuno abbia ideato un piano, approvato dall’amministrazione, per sostituire cinque ettari di caserme con abitazioni, case popolari, giardini, negozi e uno spazio museale, è passata quasi inosservata, tra il legittimo scetticismo di chi ha visto tanti disegni i mai edificati e chi pensa che il sindaco Marino non resti in Campidoglio più di tanto. «I proprietari dell’area (cioè Cassa Depositi e Prestiti) e la città di Roma sembrano determinati. Certo, potrebbero insorgere le tradizionali complicazioni italiane». Complicazioni. Partiamo da qui.
In Italia si progetta molto, si realizza poco e quando si costruisce spesso lo si fa in modo non legale: appalti truccati, mazzette, infiltrazioni mafiose…
«Negli anni Novanta con Bernardo Secchi abbiamo lavorato per ridisegnare alcune città italiane: Prato, Pesaro, Brescia. Luoghi simbolo del made in Italy che si evolvevano e avevano bisogno di una maggiore qualità dello spazio pubblico e di nuove infrastrutture. Quei piani hanno vissuto storie drammatiche».

Non sono mai stati realizzati?
«Mai, o in modi contorti. A causa di veti campanilistici o di bassissime strategie politiche. Alla fine abbiamo concluso che in Italia non c’era speranza. E che non esistevano le condizioni di dignità per andare avanti. Abbiamo cominciato a lavorare soprattutto nelle Fiandre. Lì, come in altre parti d’Europa, si affronta il futuro».

In Italia si ha paura del futuro?
«Sì. Da noi non c’è una classe politica all’altezza. Non c’è una classe dirigente che voglia costruire il futuro. In Nord Europa, oggi, fioriscono studi sull’invecchiamento della popolazione e su come affrontarlo. Noi italiani, che siamo più vecchi di loro, non ci poniamo nemmeno il problema di come riprogettare il Paese e le città. Ci sono grandi questioni di lungo periodo su cui si dovrebbe riflettere a fondo: i cambiamenti climatici, l’invecchiamento della popolazione, le migrazioni, la crisi e i nuovi lavori. Secchi nel suo ultimo libro lo dice chiaramente: “Emerge con forza una nuova questione urbana”».

Se potesse bisbigliare a Renzi un suggerimento…
«Si concentri su questi temi e ridia voce a chi si occupa del progetto della città e del territorio. Non siamo privi di senno e siamo ascoltati in tutta Europa. In Italia c’è una tradizione nobilissima di urbanisti».

Gli urbanisti in Italia hanno creato anche sfaceli: Scampia, lo Zen, il Corviale… Palazzi/quartiere in cui è cresciuto solo il degrado.
«Non dica così. In Francia le periferie sono in condizioni ben peggiori. Le zone che lei ha citato sono monumenti a un pensiero. Se li accettiamo come tali, restauriamoli. Se invece davvero non riconosciamo loro, collettivamente, alcun valore e se gli abitanti sono d’accordo, abbattiamoli. Ma ricordiamoci che è la concentrazione del disagio e della povertà a creare i problemi, non l’architettura».
Non è che con il Progetto Flaminio realizzerete un mostro che fra trent’anni avremo tutti voglia di abbattere? C’è chi protesta perché ci sono troppi metri quadri abitativi e perché alcuni palazzi sono troppo alti…
«Le altezze sono quelle che troviamo in questa parte di Roma. I metri quadri sono quelli richiesti e non sono incoerenti. Cassa Depositi e Prestiti, dopo aver visto i disegni, ci ha pure chiesto se li avevamo messi tutti, perché il progetto mantiene una certa leggerezza: abbiamo aumentato gli spazi pubblici, oltre ad aver accolto l’atlante botanico suggerito dalla cittadinanza e conservato alcuni segni e la memoria di quel che c’era prima. Piuttosto, vorrei avere rassicurazioni sul fatto che il piano verrà rispettato».
C’è già chi sostiene che la Città della Scienza non verrà mai realizzata. Per assenza di soldi, di volontà politica, di utilità…
«Nella nostra relazione noi abbiamo scritto “Città della Scienza o un’attrezzatura metropolitana analoga…”. A Roma non si sente la necessità pressante di costruire una Città della Scienza. Magari sarebbe più utile uno spazio che completi il Maxxi, il Museo delle Arti del XXI secolo. Credo che alla fine saranno lo spazio, la galleria esistente e le grandi luci libere a generare ipotesi per una loro funzione e utilità. Succede spesso. Quel che eviterei, e che invece è previsto, è la costruzione di un grande parcheggio sotterraneo».

Non potrebbe essere utile? In una città come Roma…
«A Roma, come in tutta Italia, dovremmo ripensare i trasporti pubblici: far funzionare l’Alta velocità, riutilizzare alcune tratte su rotaia dismesse».

Lei è Pro Tav o No Tav?
«Uso l’Alta velocità, ma non amo questo tipo di domande. E non ho una conoscenza adeguata della situazione per parlarne».

Expottimista o Exposcettica?
«Le cose sono più complicate. Expo2015 è stata costruita in un’area che, a differenza di altre zone disponibili della città, come Rogoredo, non era urbanizzata. Così si sono costruiti svincoli, strade e infrastrutture che hanno frammentato ancora di più il territorio. Un errore grande. Puro spirito speculativo. Chi ci va dice: “Carino”. E sì, si è risvegliato qualche interesse nei confronti della città. Ma la qualità degli spazi è quella che è. Ed è imperdonabile aver sacrificato tutto quel terreno agricolo lombardo».

Lei è nata lombarda, ma è cresciuta a Firenze.
«Sono di Sondrio. Mio padre è stato un piccolo imprenditore della pietra con un forte spirito artistico. Sono arrivata a Firenze negli anni Settanta. Da adolescente. I miei genitori, anche per tenermi al riparo dai venti della contestazione, mi misero nel Collegio di Poggio Imperiale, quello dove era stata Maria José…».

… l’ultima regina d’Italia…
«Esatto. Vestivamo con abiti ottocenteschi. Eravamo tagliate fuori dal mondo. È stata un’esperienza molto formativa, da cui sono uscita con una certa robustezza psicologica».

E con la voglia di fare l’urbanista?
«No, amavo disegnare. Il disegno è uno strumento di costruzione del pensiero. Mi iscrissi ad Architettura. Leggendo gli editoriali di Bernardo Secchi sulla rivista Casabella, cominciai ad appassionarmi all’Urbanistica. Conobbi lo stesso Secchi lavorando a un progetto nella periferia di Prato».

I primi lavori…
«Secchi chiedeva ai suoi collaboratori di stare sul campo e di fare i rilievi. Si trattava di camminare ore e ore per capire gli spazi di una città o di un quartiere. Un esercizio lento, durante il quale ci si immerge nelle realtà sociali e si educa lo sguardo a capire la densità dello spazio su cui si deve intervenire. Nel 1990 decidemmo di fondare insieme uno studio. Per 24 anni abbiamo cambiato nome ogni anno. Ora si chiama Studio 015».
A cena col nemico?
«Con Nicolas Sarkozy. Criticabile come politico di destra, ma ha lanciato lo studio su “La grande Parigi”. I successivi governi di sinistra non hanno sostenuto il progetto con lo stesso impegno».

Qual è la scelta che le ha cambiato la vita?
«Iniziare a lavorare con Secchi. Quando mi sono laureata non pensavo che avrei fatto l’urbanista. La vocazione è cresciuta discutendo con lo stesso Secchi le teorie di Giuseppe Samonà sull’unione tra architettura e urbanistica».

Che cosa guarda in tv?
«Ne guardo poca. La Bbc e qualche fiction terribile per scaricare la testa dai pensieri».

Il film preferito?
«Tra i recenti… Mommy del canadese Xavier Dolan».

La canzone?
«Canzone? Ascolto molta musica barocca».

Il libro?
«Ho appena fatto un’immersione nei romanzi del Nobel francese Patrick Modiano».

Lei non è su Twitter.
«Perché non mi piace quest’idea di comunicazione totale».

Sa quanto costa un pacco di pasta?
«Un euro o poco più».

Conosce i confini di Israele?
«Ci sono stata recentemente. Ho trovato scioccante che i miei colleghi architetti e urbanisti a tavola parlassero amabilmente di armi».

L’articolo 9 della Costituzione?
«Non lo ricordo in questo momento, mi aiuti».

Dice che la Repubblica sviluppa la cultura e tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico.
«È chiaro che ciò non accade. E quindi c’è molto lavoro da fare».

nota

A differenza del solito il titolo è nostro. Non abbiamo trovato a Venezia il settimanale Sette.

Gli operatori privati iniziano con il dovuto anticipo a mettere in campo strategie territoriali di area vasta, mentre la politica metropolitana annaspa e i cittadini non ci capiscono nulla. Corriere della Sera Milano, 26 luglio 2015, postilla (f.b.)

La Sea presenta al sindaco Giuliano Pisapia un progetto che trasformerebbe l’Idroscalo in una sorta di Central Park milanese. Un rilancio in vista della ristrutturazione di Linate e, soprattutto dell’arrivo della linea 4 della metropolitana. Chi ha avuto modo di vederlo ne è rimasto colpito: il rendering, cioè la rappresentazione grafica del progetto di come potrà diventare l’Idroscalo si presenta davvero bene. Chi non ha dubbi è Pietro Modiano, presidente di Sea — la società aeroportuale milanese a cui fanno capo gli scali di Linate e Malpensa — che ha trovato modo di presentarlo al sindaco di Milano, Giuliano Pisapia.

Linate sarà stazione della linea metropolitana 4, in costruzione, di colore azzurro, che arriverà poco distante dal lago e lo renderà facilmente raggiungibile dal centro di Milano e dall’intera città in tempi brevi. Così Modiano ha preso a cuore la faccenda, arrivando a sognare una sorta di Idroscalo formato Central Park, il polmone verde di New York, uno dei parchi cittadini più famosi al mondo.
Certo Central Park è in pieno centro, nella Uptown, circondato dai quartieri residenziali dei grattacieli, mentre l’Idroscalo è in periferia, subito a ridosso dei confini della città. Ma la linea 4 del metrò farà il miracolo creando le premesse per la trasformazione. L’Idroscalo è, da sempre, punto di riferimento per chi cerca tregua dal caldo estivo e per gli appassionati di sport acquatici. Ma è apprezzato soprattutto da un pubblico ristretto e, tutto sommato, resta poco condiviso dall’intera città di Milano. Anche perché è poco raggiungibile, confinato nella zona Est, riservato a chi vi arriva in auto.

Grazie alla nuova linea della metropolitana sarà così ancora per poco e il progetto, tenuto riservato, punta a una operazione di rilancio dell’intera area. Sulla carta, per la verità, Sea è coinvolta solo marginalmente perché gestisce una piccola parte dei terreni interessati, tra l’altro ottenuti in concessione perché di pertinenza aeroportuale. Le aree fanno capo soprattutto ai Comuni di Segrate e Peschiera Borromeo, ma sono parte integrante della nuova Città metropolitana, di cui il sindaco di Milano è primus inter pares , primo tra pari. È chiaro che il futuro di l’Idroscalo non riguarda la gestione Pisapia, avviato verso fine mandato. Ma è facile prevedere che sarà terreno di confronto per la campagna elettorale e può rappresentare l’occasione per un grande progetto di sviluppo.

Di sicuro s’intreccerà con la ristrutturazione di Linate, molto amato e molto frequentato dai milanesi ma bisognoso d’interventi di manutenzione e miglioramento. Naturalmente sono opere costose, anche se gli investimenti non risultano ancora quantificati. Una possibilità, che piacerebbe molto a Modiano, è cogliere l’occasione per procedere in entrambe le direzioni. Milano, in fondo, si merita sia un aeroporto cittadino più attraente, sia un lago formato Central Park per la città. Speculazione permettendo.

postilla
In attesa di rientrare anche noi comuni mortali nel novero degli eletti, di « Chi ha avuto modo di vederlo – il progetto, e - ne è rimasto colpito», possiamo solo sottolineare l’assurdità, in parte sottolineata anche dall’articolo, di interessi particolari che si muovono alla coerente scala metropolitana, mentre sia le amministrazioni che i cittadini continuano, con varie motivazioni e colpe specifiche, a guardare coi paraocchi di confini municipali e non solo. Così si scopre che quanto già cantato da Jannacci cinquant’anni fa come zona periferica di Milano continua ad apparire lontana e misteriosa landa, che con un rendering (sic) qualcuno può tranquillamente trasformare in Central Park, termine che a Milano suona a dir poco sinistro se si ricorda che a usarlo fu il famigerato sindaco Albertini a proposito di un praticello spelacchiato e semiprivatizzato in mezzo all’orgia di metri cubi detta City Life. L’Idroscalo è invece un magnifico parco, che si inserisce in una fascia intermedia fra zone aeroportuali, altre zone compromesse da un confuso sviluppo suburbano (i tre grossi cul-de-sac residenziali all’americana contigui ma disposti su tre comuni diversi e gli office park Mondadori e IBM), e importanti superfici oggi agricole e a cave, il cui governo è indubbiamente strategico se si vuole evitare la saldatura autostradale e suburbana definitiva del nord metropolitano. E invece ci ritroviamo con un rendering, per giunta sconosciuto e visibile solo a qualche gruppo di privilegiati. Che diavolo sarà quel Central Park? Un Luna Park? L’ennesima trasformazione urbana con la scusa delle «strutture per il tempo libero attrezzate»? Vorremmo saperlo, ma a quanto pare le terze file della politica a cui è stato dato l’onere del «governo metropolitano» non possono o magari non vogliono dircelo (f.b.)

Una lettera al ministro della Cultura Franceschini: «Gesto diresponsabilità sul Giardino dei Giusti».Corriere dellaSera, 24 luglio 2015. In calce il testo integrale della lettera e il link all'appello su eddyburg

Il caso delGiardino dei Giusti al Monte Stella arriva sul tavolo del ministro dellaCultura, Dario Franceschini. È a lui che Giancarlo Consonni e Graziella Tonon,dell’Archivio Bottoni del Politecnico, indirizzano una lettera per chiedere un«gesto di responsabilità» in difesa della collinetta di San Siro, minacciata daun’operazione dell’associazione Gariwo (che ha ricevuto il via libera dalComune) che rischia di comprometterla «irreparabilmente», attraverso larealizzazioni di muri, totem e di un teatro per 340 posti. «Nella splendidaconcezione originaria del Giardino dei Giusti, al centro del messaggio c’eral’albero; il che — sostengono — ha fin qui assicurato la perfetta compatibilitàcon il parco urbano in cui è inserito», mentre il nuovo progetto cambierebbe«radicalmente la nozione stessa di “Giardino”». I firmatari, a nome di 260intellettuali e architetti e di oltre 2.500 cittadini che hanno aderito a variappelli, propongono invece che «ai Giusti venga dedicata l’intera Bibliotecadegli Alberi in progetto a Porta Nuova. Lì il Giardino sarebbe posto incontinuità con la Casa della Memoria e avrebbe tutto lo spazio e la visibilitàche si merita».

Riferimenti
Il testo della lettera, con le illustrazioni e le note, è scaricabile qui. Qui invece l'appello su eddyburg

Un altro scandalo minaccia (per noi "promette") di fermare l'attraversamento sotterraneo del centro di Firenze. Ma il toscano padrone d'Italia non si lascerà fermare da leggi, burocrazie, soprintendenze e così via...La Repubblica, ed. Firenze, 24 luglio 2015

Tav, non solo soldi dietro i ripensamenti di Ferrovie. A 17 anni dall’approvazione del progetto dell’Alta velocità, il vero rischio si chiama adesso ‘autorizzazioni’. Perché il tempo consuma le carte: via via che le tabelle dei tempi venivano gettate al macero e aggiornate con date sempre più futuribili, le autorizzazioni completavano il loro corso di validità. Per cominciare l’autorizzazione paesaggistica, senza la quale non si può neppure avviare lo scavo sotto il ponte al Pino, sotto piazza della Libertà, i viali e sotto (quasi) la Fortezza Da Basso.

La stessa autorizzazione che è costata qualche guaio giudiziario aggiuntivo a Ercole Incalza, l’ex top manager delle infrastrutture arrestato per ordine della procura di Firenze: attestò che l’autorizzazione paesaggistica non era scaduta, mentre invece lo era già. Secondo i No Tav fiorentini, che con Massimo Perini e Tiziano Cardosi hanno pure scritto al Comune di Firenze per chiedere lumi, l’autorizzazione paesaggistica sarebbe scaduta addirittura nel 2005.

Certo, in teoria si può sempre rinnovare. Solo che non è una cosa che si può fare dalla sera al mattino. Occorrono certificazioni, elaborati progettuali. E occorre che si esprima il ministero dei Beni culturali: il bello è che dal primo gennaio 2010, a seguito di un decreto legislativo, è cambiata l’intera procedura di autorizzazione. E se prima il parere del ministero arrivava a seguito dell’esclusiva valutazione e verifica della domanda e della relativa documentazione, dal 2010 in poi è diventato centrale il ruolo della soprintendenza. Con quale normativa si dovrebbe rinnovare adesso l’autorizzazione ambientale?

«A settembre il Cnr avrà classificato le terre di scavo e bisognerà solo vedere se le autorizzazioni valgano ancora». È lo stesso Ad di Rfi Maurizio Gentile ad ammettere che le autorizzazioni potrebbero diventare un problema. Un’altra ‘spada di Damocle’ che pende sul tunnel fiorentino. Non l’unica. Perché quando il Cnr, dopo ormai un anno e mezzo di meditazione, avrà stabilito se i materiali prodotti dalla ‘talpa’ siano rifiuti o semplicemente terre, anche il Put, il Piano di utilizzo delle terre dovrà essere rivisto.

Quello esistente, elaborato dal vecchio consorzio Nodavia (in mano alla Coopsette mentre oggi è di Condotte) nel 2012, fu approvato dal ministero dell’ambiente. Pochi mesi dopo però saltò fuori l’inchiesta della procura di Firenze e, prudententemente, il ministero provvide a sospenderlo. Adesso quel Piano dovrà essere rivisto sulla base delle conclusioni del Cnr e di nuovo valutato. Quanto tempo richiederà? Difficile fare previsioni. Altrettanto difficile prevedere l’avvio dello scavo nel prossimo autunno. Anche se Condotte ci crede: «La nuova fresa ultimata in Germania è già in viaggio per l’Italia e per fine ottobre sarà montata e pronta ad iniziare», annuncia l’impresa. Quanto al rinnovo dell’autorizzazione paesaggistica, fa sapere Condotte con uno slancio di ottimismo, «dovrebbe pervenire in tempo utile per l’avvio degli scavi». Appunto, dovrebbe.

«La documentazione di valutazione di impatto ambientale prodotta da Enac, braccio armato della Toscana Aeroporti di Marco Carrai, non convince il ministero dell'ambiente. Entro 45 giorni Enac deve rispondere a numerose, e gravi, criticità del Masterplan del futuro scalo». Il manifesto, 24 luglio 2015

L’assoluto non­senso di un nuovo scalo inter­con­ti­nen­tale in un’area den­sa­mente urba­niz­zata, e ambien­tal­mente già con­ge­stio­nata, con­vince anche il mini­stero dell’ambiente a dare un pesante colpo di freno al pro­getto del nuovo aero­porto Vespucci. Se ne farà una ragione Toscana Aero­porti, gui­data da Marco Car­rai. Il cui vice­pre­si­dente Roberto Naldi, inter­vi­stato nei giorni scorsi dal Tg3 toscano, assi­cu­rava l’inizio delle opere pro­pe­deu­ti­che già a fine ago­sto. In tempo per non per­dere i 50 milioni inse­riti nello Sblocca Ita­lia dal governo di Mat­teo Renzi, prin­ci­pale fan dell’opera.

Nelle sedici pagine di richie­ste di inte­gra­zione alla docu­men­ta­zione di valu­ta­zione di impatto ambien­tale pro­dotta dall’Enac, brac­cio armato di Toscana Aero­porti, il mini­stero impal­lina il Master­plan aero­por­tuale. Il Master­plan, per­ché del pro­getto defi­ni­tivo – sui cui in teo­ria dovreb­bero essere fatte le Via – non c’è trac­cia. Una pro­ce­dura così ano­mala da far scri­vere all’arrabbiatissima Uni­ver­sità di Firenze, il cui pre­sti­gioso Polo scien­ti­fico fini­rebbe vii­ci­nis­simo allo scalo: “Si ritiene che, già sin d’ora, nella pro­ce­dura di Via, siano rile­va­bili evi­denti pro­fili di ille­git­ti­mità, tali da giu­sti­fi­care un parere nega­tivo”.

Su que­sto tema, per ora, i tec­nici del mini­stero non si espri­mono. Lo fanno invece su quanto pro­dotto da Enac, l’Ente nazio­nale avia­zione civile, che da tempo lavora per far rea­liz­zare, per “motivi di sicu­rezza”, la nuova pista paral­lela all’autostrada A11 Firenze-Mare lunga ben 2.400 metri. Più altre cen­ti­naia di metri per vie di fuga e altri “accor­gi­menti tec­nici”. Ben oltre quanto deciso dalla stessa Regione Toscana, che nel suo Piano di indi­rizzo ter­ri­to­riale sull’area ha posto come limite mas­simo una pista di 2.000 metri. Fatto che porta subito il mini­stero a chie­dere: “Il pro­po­nente (cioè Enac, ndr) prov­ve­derà a chia­rire quali sono le moda­lità pre­vi­ste per la riso­lu­zione dell’incongruenza rile­vata con le pre­vi­sioni del Pit”.

Pagina dopo pagina, i tec­nici pro­se­guono nel loro lavoro di demo­li­zione: “Il pro­po­nente non espli­cita in modo chiaro e det­ta­gliato le inte­ra­zioni, le cor­re­la­zioni e la coe­renza delle opere idrau­li­che pre­vi­ste nel Master­plan, con i pro­getti di altre pia­ni­fi­ca­zioni e e pro­gram­ma­zioni che insi­stono sull’area di influenza dell’aeroporto. In par­ti­co­lare si evi­den­zia di chia­rire, da un punto di vista pro­get­tuale e quindi sugli impatti ambien­tali attesi, in primo luogo le rela­zioni con la terza cor­sia auto­stra­dale dell’A11 (Firenze-Mare) da Firenze a Pistoia. Con l’inceneritore e la disca­rica di Case Pas­se­rini. Con la pia­ni­fi­ca­zione dei Comuni inte­res­sati. Con il Pit della Regione Toscana sulle opere di gestione delle pro­ble­ma­ti­che del sistema idrico”.

Un sistema assai com­plesso, visto nella Piana fio­ren­tina inci­dono nume­rosi corsi d’acqua e in par­ti­co­lare quel vero e pro­prio mini-fiume che è il Fosso Reale. Di qui l’osservazione: “La scelta di deviare il Fosso Reale secondo il trac­ciato pre­sen­tato, e le solu­zioni scelte per supe­rare l’interferenza con l’autostrada A11, non risul­tano det­ta­glia­ta­mente moti­vate”. Quanto alla pia­ni­fi­ca­zione dei Comuni inte­res­sati, basta chie­dere ai “ribelli” di Sesto Fio­ren­tino, che hanno defe­ne­strato la sin­daca ren­ziana Sara Bia­giotti anche per la sua ina­zione sul tema.

Non è finita: sulla qua­lità dell’aria nella zona, già oggi al limite, si sco­pre che Enac ha por­tato solo i dati dell’anno 2010: “Le ana­lisi vanno fatte su un arco di tempo di almeno dieci anni – replica il mini­stero – sullo sce­na­rio futuro di traf­fico aero­por­tuale più gra­voso, e gli effetti vanno con­si­de­rati su una distanza minima di tre chi­lo­me­tri”. A seguire la rispo­sta a un’altra fur­be­ria di Enac: “Le con­cen­tra­zioni degli inqui­nanti ven­gono simu­late senza con­si­de­rare i livelli di fondo dell’area. Che vanno mostrati, e poi sepa­rati da quelli che saranno pro­pri dell’aeroporto”. Tanto basta per­ché i con­si­glieri della sini­stra cit­ta­dina Tom­maso Grassi, Gia­como Trombi e Donella Verdi, così come l’urbanista Ila­ria Ago­stini di Peru­nal­tra­città, tirino le somme: “I tec­nici del mini­stero ridi­co­liz­zano il Master­plan”. Per giunta le rispo­ste di Enac devono arri­vare, al mas­simo, entro 45 giorni.

Riferimenti
Vedi su eddyburg gli articoli di Ilaria Agostini e di Paolo Baldeschi. Numerosi altri nella cartella muoversi accedere spostarsi

Non si uccide così l'art. 9 della CostituzioneIl disegno di legge Madia sulla riorganizzazione dell'amministrazione statale prevede la confluenza delle Soprintendenze nelle Prefetture (ddl 1577/2015, art. 8 comma 1e). Si tratta del più grave attacco al sistema della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale mai perpetrato da un Governo della Repubblica italiana.
Anzi, l’attacco finale e definitivo.

Chiediamo al Presidente della Repubblica di vigilare su questa e ogni altra violazione dell'art. 9 della Costituzione; ai Presidenti del Senato e della Camera di garantire un'adeguata discussione parlamentare; al ministro Dario Franceschini, attuale titolare del Mibact, di opporsi con ogni mezzo a tale disegno politico.
O questo governo sarà per sempre ricordato come il becchino di una delle più gloriose strutture di civiltà e democrazia della cultura europea.

Roma-Bologna, 23 luglio 2015

Per aderire usare questo link

Alberto Asor Rosa
Paolo Baldeschi
Alessandro Bedini
Paolo Berdini
Irene Berlingò
Anna Maria Bianchi
Giovanna Borgese
Licia Borrelli Vlad
Massimo Bray
Francesco Caglioti
Mario Canti
Giuliana Cavalieri Manasse
Pier Luigi Cervellati
Giovannella Cresci
Nino Criscenti
Angelina De Laurenzi
Anna Donati
Dario Fo
Andrea Emiliani
Vittorio Emiliani
Fernando Ferrigno
Maria Teresa Filieri
Domenico Finiguerra
Fabio Isman
Donata Levi
Costanza Gialanella
Daniela Giampaola
Piero Gianfrotta
Carlo Ginzburg
Maria Pia Guermandi
Giovanni Losavio
Paolo Maddalena
Concetta Masseria
Maria Grazia Messina
Tomaso Montanari
Alessandro Nova
Rita Paris
Desideria Pasolini dall'Onda
Carlo Pavolini
Giovanni Pieraccini
Maria Luisa Polichetti
Luciana Prati
Adriano Prosperi
Valeria Sampaolo
Edoardo Salzano
Salvatore Settis
Sergio Staino
Corrado Stajano
Simonetta Stopponi
Roby Stuani
Mario Torelli
Bruno Toscano
Carlo Troilo
Sauro Turroni
Monique Veaute
Paola Ventura
Serena Vitri
Fausto Zevi

Sottoscrivono inoltre il Comitato per la Bellezza, l'Associazione Altreconomia e Laboratorio Carteinregola Roma

La Repubblica, 20 luglio 2015 (m.p.r.)

Il disegno di legge Madia sulla riorganizzazione dell’amministrazione dello Stato contiene un pericolo per la tutela del «paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione » (art. 9 Cost.) anche più grave del già grave silenzio-assenso. La legge decide (all’articolo 7) la trasformazione delle prefetture in «uffici territoriali dello Stato, quale punto di contatto unico tra amministrazione periferica dello Stato e cittadini» sotto la direzione del prefetto.

E quindi delega il governo a disporre la «confluenza nell’Ufficio territoriale dello Stato di tutti gli uffici periferici delle amministrazioni civili dello Stato». Tradotto in pratica, vuol dire che anche le soprintendenze confluiranno nelle prefetture, e che i soprintendenti saranno sottoposti ai prefetti, gerarchicamente superiori. Di fronte alla levata di scudi delle associazioni di tutela e dei sindacati, la Camera ha approvato un ordine del giorno che «impegna il Governo a prevedere che le funzioni dirette di tutela, conservazione, valorizzazione e fruizione dei beni culturali rimangano di competenza esclusiva ed autonoma dell’amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali». E dunque cosa scriverà il Governo? Avremo la paradossale situazione di soprintendenze che confluiranno nelle prefetture (emendamenti ed ordini del giorno tesi ad impedirlo sono stati rigettati), ma conservando una competenza autonoma ed esclusiva?
Questa contraddizione è il frutto di uno scontro ideologico che meriterebbe di emergere alla luce del sole. La ratio del ddl Madia è ufficialmente quella di semplificare e accelerare le decisioni (per esempio sulle opere pubbliche) abbassando al livello territoriale delle prefetture la possibilità del governo (ora riservata alla Presidenza del Consiglio) di passare sopra i ‘no’ delle soprintendenze. Una simile svolta significa far saltare un altro contrappeso costituzionale al potere esecutivo, e dunque va letta nel quadro di quell’efficientismo che ispira il governo Renzi. Ora, il punto è: siamo disposti a sacrificare sull’altare dell’efficienza un bene insostituibile come la tutela del nostro territorio?
Nell’immaginario collettivo (anche per loro colpa) i soprintendenti sono percepiti come coloro che si occupano dei musei e delle mostre, o al massimo come coloro che rompono le scatole a chi decida di aprire una finestra sul tetto. Ma questa sorta di magistratura del paesaggio e del patrimonio culturale – che dovrebbe rispondere non al potere esecutivo, ma solo alla legge, alla scienza e alla coscienza – è il presidio fondamentale di beni che, come dice un proverbio dei nativi americani, non abbiamo ereditato dai nostri nonni, ma abbiamo in prestito dai nostri nipoti. E quel che c’è in gioco non è (solo) l’estetica delle città, delle coste o delle colline italiane: ma la tutela della stessa salute umana, così strettamente connessa alla salvaguardia del territorio.
Le soprintendenze non funzionano? Si finanzino adeguatamente (rimediando finalmente al gigantesco taglio inflitto da Berlusconi, Tremonti e Bondi nel 2008). I soprintendenti non funzionano? Li si rimuova, con decisione e trasparenza. Ma con la confluenza nelle prefetture non si risolverà nessun problema, e di fatto le soprintendenze semplicemente spariranno: il che rende legittimi i dubbi di chi pensa che il problema non sia l’inefficienza delle soprintendenze, ma anzi la residuale, e spesso eroica, forza con la quale, nonostante tutto, si oppongono alle speculazioni che continuano ad affogarci nel cemento.

La Repubblica, 19 luglio 2015
Che cosa ne direste se all’interno di Villa Borghese, a Roma; del Parco Sempione, a Milano; o di qualsiasi altra villa o parco di una qualsiasi altra città, fosse autorizzata l’apertura della caccia oppure la costruzione di un traforo o di un tunnel ferroviario? Non è poi un’ipotesi tanto peregrina. E anzi, secondo gli ambientalisti, riguarda proprio il Parco nazionale dello Stelvio e potrebbe coinvolgere anche gli altri quattro Parchi “storici”: quello del Gran Paradiso, quello del Circeo, fino a quelli della Sila e dell’Aspromonte.

Con una lettera urgente inviata in queste ore al ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, la presidente del Wwf Italia Donatella Bianchi e il presidente di Federparchi Giampiero Sammuri lanciano l’allarme sullo Stelvio, richiamando il governo a rispettare la Costituzione e la legislazione vigente in materia. La denuncia parte dalla lettura dell’Intesa siglata tra lo Stato, la Regione Lombardia e le Province autonome di Trento e Bolzano. A studiare bene quel testo, e comparandolo con la legge quadro sulle aree protette (6 dicembre 1991 - n. 394), i dirigenti del Wwf e della Federparchi si sono accorti ora che – in forza di un accordo tra forze politiche nazionali e locali – si prevede di fatto la “de-nazionalizzazione” del Parco dello Stelvio: cioè un “trasferimento tout court delle competenze statali prima alle Province autonome di Trento e Bolzano e poi alla Regione Lombardia”.

Si tratterebbe, insomma, della dismissione progressiva e automatica di quello che è dal 1935 il Parco nazionale dello Stelvio, arrivato proprio quest’anno a compiere 80 anni, uno dei più antichi d’Europa e dei più estesi di tutto l’arco alpino. Un un patrimonio collettivo, destinato finora a tutelare le specie animali e vegetali, a proteggere gli habitat, a difendere la biodiversità. Qui, su una superficie di oltre 130mila ettari, sopravvivono il camoscio, lo stambecco, l’aquila, l’orso bruno, il gipeto, il gallo cedrone, la pernice bianca.

È vero che spesso gli ambientalisti peccano di allarmismo, pagandone a volte le conseguenze in termini di credibilità e di efficacia. Ma in questo caso il Wwf e Federparchi documentano la loro denuncia con una serie di elementi tratti dal confronto testuale fra l’Intesa, il Regolamento dello Stelvio e la legge quadro sulle aree protette. E su questa base, appunto, contestano lo smembramento del Parco e la sua spartizione, quasi fosse un’Asl o un’azienda municipalizzata, fra tre enti distinti: la Regione Lombardia e le due Province autonome che dovrebbero essere coordinate da un fantomatico Comitato, secondo il principio “ciascuno padrone a casa propria” che rischia di risultare quantomai nefasto.

Scrivono al primo punto della loro lettera Donatella Bianchi e Giampiero Sammuri al ministro dell’Ambiente: “Non esiste di fatto una gestione autonoma, affidata a un ente, a un centro di imputazione giuridica soggettiva con personalità di diritto pubblico, né tantomeno una governance unitaria esercitata dal Comitato di coordinamento”. Secondo punto: “Nel Comitato di coordinamento c’è l’assoluta prevalenza degli interessi locali e regionali su quelli nazionali”. E infine: “Non c’è alcuna dipendenza funzionale dal ministero dell’Ambiente che non ha alcun potere di vigilanza sul Comitato”.

Non è, dunque, una questione puramente burocratica o di lana caprina. Tanto più che, secondo il Wwf e Federparchi, “l’accordo politico sullo Stelvio costituisce un gravissimo precedente per altri parchi nazionali storici, come quello del Gran Paradiso, il cui territorio insiste in larga parte in una Regione a statuto speciale”. Da qui, una conclusione che equivale a un ultimatum: “Riteniamo che il ministero dell’Ambiente si trovi di fronte a una scelta inequivocabile: o si torna all’assetto normativo precedente o in alcun modo, purtroppo, il Parco dello Stelvio potrà essere classificato come Parco nazionale”. Di conseguenza, cesserebbero i finanziamenti attuali (circa 4,5 milioni all’anno di trasferimenti dallo Stato). A quel punto, per fare cassa, si potrà anche riaprire la caccia che è vietata nei Parchi nazionali, come ipotizza già l’assessore regionale alto-atesino Richard Theiner. Oppure, realizzare un tunnel o un traforo per collegare l’Alto Adige e la Lombardia e far passare magari il “trenino dello Stelvio”, di cui parla la Comunità montana Alta Valtellina. Poi, via via, toccherà eventualmente agli altri 19 Parchi distribuiti sul territorio a salvaguardia della natura e dell’ambiente.

L’offensiva era già iniziata nel 2012. Ma tre anni fa - per nostra fortuna – l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, non firmò il decreto che avrebbe sancito la spartizione dello Stelvio. C’è da augurarsi perciò che, anche questa volta, la storia si ripeta.

I sostenitori del nuovo aeroporto di Firenze chiedono che le contestazioni siano fatte su solide basi scientifiche. Perché no? Ma non si sono ...(continua a leggere)

I sostenitori del nuovo aeroporto di Firenze chiedono che le contestazioni siano fatte su solide basi scientifiche. Perché no? Ma non si sono accorti della mole di dati e osservazioni scientifiche che il mondo accademico ha già prodotto e messo a disposizione. Ricordiamoli allora questi dati, perché il nuovo aeroporto di Firenze non è un intervento qualsiasi: inciderà infatti fortemente sulla salute e la sicurezza degli abitanti e modificherà le condizioni di vita nella Piana e nei comuni limitrofi. Ecco alcune delle numerose osservazioni al progetto:

1) non è definitivo, come richiede la legge, ma solo un Master Plan;
2) la pista di 2400 è difforme rispetto ai 2000 metri previsti dalla pianificazione regionale, e perciò sono altrettanto difformi le modifiche al reticolo idraulico e alla viabilità;
3) il progetto non valuta adeguatamente l'efficienza del nuovo sistema di smaltimento delle acque alte e basse ed è da dimostrare il non aggravio delle attuali condizioni di rischio idraulico;
4) non sono stati valutati gli effetti cumulativi dell'inquinamento provocati dall'esercizio contemporaneo dell'aeroporto e del termovalorizzatore di Case Passerini, altra opera di cui si prevede tra breve la realizzazione.

Sono solo alcune delle segnalazioni di criticità e carenze del progetto che provengono non da 'comitatini' o da 'gufi', ma dal Nucleo di valutazione di impatto ambientale della Regione Toscana e dall'Università di Firenze. È bene riportare le conclusioni del documento dell’Ateneo fiorentino: "Si ritiene che, già sin d’ora, nella procedura di valutazione dell’impatto ambientale relativa al progetto siano rilevabili evidenti profili di illegittimità tali da giustificare un parere negativo da parte dell’Autorità competente". Evidenti profili di illegittimità: non si tratta di bazzecole, se dall'Università, quindi in sede scientifica, viene segnalata addirittura “la carenza degli elaborati rispetto al rischio di catastrofe aerea”.

In un paese normale, in cui leggi e procedure fossero rispettate, la Commissione VIA chiederebbe integrazioni al progetto, sospendendone l'iter autorizzativo fino a che non fossero superate le criticità evidenziate. Viceversa, sembra che la strategia sia di approvare il progetto così come è, rimandando le eventuali modifiche alla fase esecutiva dove i controlli sono praticamente impossibili. Così è stato fatto per la Tav nel Mugello, con le conseguenze che tutti conosciamo: sarebbe una vera iattura se altrettanto si facesse per il nuovo aeroporto di Firenze. È doveroso, perciò, che il progetto, in questa fase non definitiva, sia portato a conoscenza delle popolazioni interessate da un soggetto 'super partes' e sottoposto a dibattito pubblico o a una forma ampia ed effettiva di partecipazione: così si era impegnata la Regione Toscana che ora sembra dimenticare quanto prescritto nella variante al Pit che ha dato il via all'aeroporto (con pista – ricordiamolo - di 2000 metri). Un comportamento che non ispira fiducia nelle istituzioni rappresentative e cui, si spera, il Presidente Rossi vorrà ovviare mantenendo fede alle proprie determinazioni.

Infine, un'ultima considerazione: nella mole dei documenti, ancorché incompleti, presentati dal proponente ne manca uno fondamentale: uno studio serio e approfondito sui vantaggi e i costi del nuovo aeroporto. Finora sono stati prodotti dall'IRPET due documenti: uno contiene un algoritmo, mutuato dalla letteratura internazionale, che correla passeggeri con occupazione diretta e indotta per l’area interessata, come se tutte le situazioni, New York o Peretola, fossero uguali! L'altro si limita a dire che, col nuovo aeroporto vi sarà un risparmio di tempo per i viaggiatori diretti a Firenze (circa 20 minuti rispetto a Pisa). Veramente troppo poco! Ma cosa importa. Adf conosce benissimo i propri vantaggi e perciò, insieme alla maggior parte della stampa, a tutti i politici o quasi, ripete che il nuovo aeroporto porterà "lo sviluppo". Quale e per chi non viene detto. Ma noi lo sappiamo benissimo: soldi per il privato, magari con qualcosa che finirà in tasca ai politici. Sviluppo del rischio idraulico, dell'inquinamento, del rumore e dei sorvoli su Firenze. Ma cosa importa! Basta per mettere a tacere i gufi, l'Università e qualche Comune dissidente. E se poi il progetto incompleto e sbagliato costerà il doppio, cari contribuenti preparatevi a contribuire.

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