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il manifesto, 31 agosto 2018. Il sistema di potere veneto sostenitore delle grandi opere, per nulla scalfito persegue i suoi obiettivi: fare affari sulla pelle dei contribuenti e facendo scempio del territorio. Con riferimenti (m.p.r.)

«Summit leghista. Il ministro rassicura il governatore, anche sulle Grandi navi: "Non si possono mettere a rischio migliaia di posti di lavoro e centinaia di milioni di euro di indotto proveniente da milioni di turisti che portano ricchezza”»

Scuola Grande di San Rocco blindata per il “summit leghista” fra il governatore Luca Zaia e il vicepremier Matteo Salvini per la Pedemontana Veneta e per «dare un seguito al plebiscito per l’Autonomia». Gli attivisti dei centri sociali hanno srotolato un grande striscione («Salvini Not Welcome») dal ponte di Rialto e occupato il pontile di palazzo Balbi, dichiarandolo «chiuso al razzismo».

In diretta Fb, Zaia incassa la firma collettiva al nuovo Protocollo di legalità con cui anche imprese e sindacati si impegnano a garantire cantieri “trasparenti” per 2,2 miliardi di euro. La Pedemontana, un’altra delle Grandi Opere avversata dal M5S per l’impatto ambientale, attraversa in 94 chilometri e 16 caselli il territorio di 36 Comuni, dal Vicentino alla provincia di Treviso. Il primo tratto Breganze-Marostica potrebbe essere inaugurato già fra due mesi.

«È un accordo di responsabilità in modo da allinearsi alle direttive nazionali e anti-corruzione per una lotta vera all’infiltrazione mafiosa e alla corruzione» afferma il governatore del Veneto, che ha investito 300 milioni nel progetto. «Al concessionario (la spagnola Sis,ndr) non andranno i pedaggi, che saranno invece incamerati dalla Regione, ma un canone di 153 milioni all’anno, sulla base di un flusso stimato in 24mila auto giornaliere».

Il capitano di palazzo Chigi si è, invece, sbilanciato sul futuro di Venezia e delle Grandi Navi. «Come governo ragioneremo sulla possibilità di individuare poteri speciali da assegnare a qualcuno che riassuma le competenze attualmente sparse negli uffici e abbia la responsabilità di tutelare questo gioiello di città» dichiara Salvini, che sembra aver messo nel mirino la legge speciale del 1973 sulla salvaguardia di Venezia, poi aggiornata nel 1992. «Non va messa sotto una teca. Deve restare a disposizione di tutti, tutelando però un patrimonio non solo dei veneziani, ma dell’Italia e del mondo».

Ancor più abbottonato sulle città galleggianti da crociera lungo il Canal Grande [sic]: «È evidente che Venezia va messa in sicurezza, ma anche che non si possono mettere a rischio migliaia di posti di lavoro e centinaia di milioni di euro di indotto proveniente da milioni di turisti che portano ricchezza. La soluzione si troverà…».

Così Salvini dribbla le ultime dichiarazioni del collega Danilo Toninelli, “corrette” da un comunicato ufficiale del Ministero infrastrutture e trasporti che tuttavia non ha placato le polemiche con Comune e Porto di Venezia. Il 7 settembre in sala San Lorenzo a Castello è in programma l’assemblea del Comitato No Grandi Navi, in vista della manifestazione con “giochi d’acqua” in programma il 30 settembre nel canale della Giudecca.

A Venezia, però, resta tabù il Mose (che costerà 80-100 milioni all’anno di sola manutenzione…). Una cappa di silenzio è calata sul Consorzio Venezia Nuova, commissariato dopo l’inchiesta della Procura e “attenzionato” da Raffaele Cantone. Eppure Comar scarl, che tuttora segue i lavori nelle 78 paratoie mobili, si è già affidata all’ingegner Alberto Borghi: nome connesso con Hmr, società dell’ex direttore Cvn Hermes Redi.

E non basta, perché proprio Borghi – con l’amministratore straordinario Francesco Ossola e il direttore Giovanni Zarotti – a giugno ha perfezionato l’assunzione a tempo indeterminato di Marcello Zanonato, 61 anni, altro ingegnere padovano, come coordinatore della fase di avviamento del Mose. È il fratello di Flavio, padre-padrone del Pci-Pds-Ds padovano, per un ventennio sindaco, poi ministro dello sviluppo economico e attuale europarlamentare LeU. Nel curriculum dell’ingegner Zanonato spiccano i passaggi a Ecoware (società dell’economia green fallita nel 2013) e Milteni, sinonimo dell’inquinamento da Pfas dilagato da Trissino (Vicenza) fino alla pianura fra Verona e la Bassa padovana.

Coincidenze che alimentano l’allarme lanciato dalla petizione con cui si sollecita una Commissione parlamentare d’inchiesta sul Mose: «Nonostante le condanne dei processi per tangenti e l’intervento di Anac, permangono molte zone d’ombra che il sito ufficiale, che dovrebbe pubblicare tutti gli atti, non chiarisce. Il Consorzio Venezia Nuova pubblica solo 49 bandi di gara per un importo totale di poco più di 310 milioni a fronte dei 6.992.026.413 euro riportati nel bilancio 2017» denuncia l’imprenditore Giuliano Bastianello, che ha ricevuto il premio Giorgio Ambrosoli. È assegnato agli “esempi invisibili” di professionisti che si contraddistinguono nella difesa dello stato di diritto in contesti avversi.

riferimenti

Sulla stima ottimistica della Regione di 24.000 passaggi giornalieri si veda Pedemontana, il perchè delle stime sbagliate di Carlo Giacomini.
I comitati avevano tenacemente provato a contestare «l’iperviabilizzazione privata con soldi di noi tutti, devastatrice per il territorio e il bilancio», si legga a proposito Nuovo stop alla Pedemontana Veneta. 
“Resistere alla cementificazione di Federico Simonelli, e non erano mancate analisi di esperti che documentavano le distorsioni normative «al solo scopo di consentire al concessionario di ripagarsi l’opera che non regge con i soli ricavi da pedaggio» come quella di Anna Donati Grandi opere e consumo di suolo sempre su eddyburg, dove numerosi sono gli articoli sulla vicenda della Pedemontana raggiungibili facilmente con il "cerca".

1 settembre 2018. Il crollo della chiesa di San Giuseppe dei Falegnami e l'abbandono del patrimonio culturale italiano sono anche l'effetto dell'inefficacia di alcune recenti riforme. Con riferimenti (m.p.r.)

Era il 1957 quando Cesare Brandi, fondatore e per vent’anni direttore dell’Istituto Centrale del Restauro di Roma, denunciava in Parlamento «l’assoluta inadeguatezza, ma nell’ordine di uno ad un milione, dei fondi a disposizione per il patrimonio artistico; l’insufficienza quantitativa del personale; la mancanza di una coscienza politica dell’importanza della preservazione del patrimonio artistico». Sessant’anni dopo, il grido di dolore di Brandi è tanto più attuale: dal 2000 al 2008 gli stanziamenti del ministero per i Beni e le Attività Culturali ammontavano ad una quota pari allo 0,3% circa del bilancio dello Stato, riducendosi negli anni successivi fino allo 0,19% (2014-2015). Soltanto nel biennio 2016-2017 si è registrato un incremento rispettivamente dello 0,26% e dello 0,25% del bilancio dello Stato, nonostante ciò le percentuali rimangono incredibilmente basse sia per la diffusione capillare di opere d’arte ed edifici storici nel territorio nazionale sia rispetto a quanto gli altri paesi europei investono in questo settore.

Richiamare queste cifre a seguito dell’ennesimo disastro potrebbe sembrare la più semplice delle risposte. Eppure quando il Mibact nel 2016, sotto la direzione del ministro Franceschini, ha proceduto all’assunzione di 500 funzionari (architetti, archivisti, archeologi, restauratori, storici dell’arte, promotori ed esperti di comunicazione, bibliotecari, antropologi e demoetnoantropologi) era ben consapevole che il numero di posti vacanti nelle soprintendenze era tre volte superiore. Inoltre, soprattutto nel caso degli storici dell’arte, ai neoassunti è stata data la possibilità di scegliere come destinazione uno dei venti grandi musei autonomi appena creati dalla riforma voluta dallo stesso Franceschini. E se ci si aggira per i corridoi di qualsiasi soprintendenza territoriale si notano uffici vuoti, stanze chiuse e pratiche accumulate sopra le scrivanie.
La scissione tra musei nazionali e patrimonio artistico del territorio e la gerarchizzazione tra musei di serie A (venti grandi istituzioni dagli Uffizi a Capodimonte, da Brera all’Accademia di Venezia) e di serie B (i tanti e preziosi musei nazionali delle città di provincia) è indubbiamente il nodo più delicato della riforma Franceschini e spiega molte delle ragioni dell’estrema difficoltà in cui versano i nostri beni culturali. Tale criticità va di pari passo con la tendenza ormai decennale di privilegiare la valorizzazione a scapito della tutela. Ciò che nel Codice dei beni culturali del 2004 veniva strettamente collegato (conoscenza-tutela-valorizzazione), vede oggi l’assoluto predominio della commercializzazione e del marketing culturale, che genera un’attenzione compulsiva su poche eccellenze lasciando nel buio tutto il resto.
È stato giustamente sottolineato che la chiesa di San Giuseppe dei Falegnami era stata restaurata appena tre anni fa con un finanziamento pubblico (Lr 27/90) e assieme della Conferenza Episcopale Italiana di 747.621,40 euro, ma qualcosa non ha funzionato, anche nei controlli sui lavori eseguiti. Un po’ ovunque avremmo bisogno di restauratori esperti, cantieri seguiti da bravi funzionari di soprintendenza perché tanti sono i crolli o i disastri annunciati.
Non ha suscitato lo stesso clamore del caso romano, ma a Pisa nel 2015 è crollato parzialmente il tetto della duecentesca chiesa di San Francesco, che accoglieva, tra le altre, due tavole di Cimabue e Giotto oggi esposte al Louvre: incredibilmente a tre anni di distanza non sono ancora cominciati i lavori di restauro, la chiesa è puntellata, mentre anche il chiostro minaccia di andare in rovina.
Se oggi è la valorizzazione ad attirare la maggior parte dei finanziamenti, tutela e conservazione sono attività sempre più rare. Tutto il contrario di ciò che stabilisce il Codice dei beni culturali e del paesaggio secondo cui la tutela «è diretta a riconoscere, proteggere e conservare» un bene affinché possa essere offerto alla conoscenza e al godimento collettivi. Per tutelare un bene bisogna prima riconoscerlo come tale, operazione quanto mai difficile in un paese in cui la storia dell’arte, grazie alla riforma Gelmini del 2008 ed alla legge 107 del 2015, è quasi sparita dai programmi delle scuole secondarie. D’altronde, se si conoscono appena una decina di acclamati capolavori, quelli e quelli soltanto si vogliono vedere e dunque tutelare. Il resto può anche crollare.

riferimenti

Su eddyburg un'intera sezione dedicata ai problemi e al degrado dei Beni culturali.
Sulla riforma Franceschini si vedano, tra gli altri, di Maria Pia Guermandi Paesaggio: l'attacco convergente e l'appello lanciato da Emergenza Cultura Rottamiamo Franceschini, che ne illustra sinteticamente i danni provocati.

il manifesto, 23 agosto 2018. La politica ignorante usa il crollo di Genova per rilanciare le grandi opere. Neanche i fatti, dati e rapporti scientifici, che esortano a un cambiamento del modello di mobilità e sviluppo, fanno ragionare la politica. (i.b. e m.p.r)

Invece di discutere utilità e rischi delle Grandi opere, il crollo del ponte Morandi - uno dei tanti gigantismi che ha fatto del ‘900 “il secolo dell’automobile” - sembra averlo chiuso: per lo meno nel mondo politico e sui media: occorre farle tutte e subito, il Tav, il terzo Valico, il Tap, le autostrade, il ponte sullo stretto, prima di un altro ripensamento. «La competizione internazionale lo esige», «Il progresso non si può fermare», «Non ci si può opporre alla modernità», «Vogliamo tornare al medioevo?».

Difficilmente troverete sulla bocca dei politici o nei commenti della stampa qualche argomentazione meno vacua di queste. Ma siamo sicuri che la modernità, qualsiasi cosa si intenda con quel termine, sia proprio questo? Che il progresso debba portarci necessariamente verso la moltiplicazione dei disastri (e verso quello che li ricomprende tutti: un cambiamento climatico irreversibile)? E che l’unica regola che deve governare il mondo, e le nostre vite, sia la competizione e non la cooperazione?

Un recente saggio, chiaro e sintetico, di Sergio Bologna, uno dei pochi esperti capace di un approccio intermodale ai temi del trasporto - sul sito di Officina dei saperi - mette una pietra tombale su tutte le Grandi opere. L’Italia non ha bisogno di nuove grandi infrastrutture di trasporto; ne ha già persino troppe. Quello che manca è la capacità di utilizzarle a fondo; mancano le competenze logistiche e gli operatori per accorpare e smistare i carichi utilizzando al meglio i mezzi e le infrastrutture a disposizione. Oltre, ovviamente, agli interventi per rendere operative le interconnessioni modali.

Promuovere quelle competenze è un compito che dovrebbe tenere impegnati per anni Associazioni di categoria, Camere di commercio, Enti locali, Ministeri (non solo quello delle Infrastrutture), Università e Istituti di ricerca. E potrebbe creare decine, se non centinaia, di migliaia di posti di lavoro qualificati al posto delle poche migliaia di addetti impiegati nella costruzione delle tante Grandi opere inutili e dannose.

Sono le competenze necessarie anche per promuovere il passaggio del trasporto merci dalla strada alla ferrovia (o alle autostrade del mare). Un passaggio di cui Sergio Bologna riconosce le potenzialità, ma su cui rimane scettico, soprattutto perché un sistema produttivo frammentato come quello italiano ha mille motivi per preferire il trasporto su strada; motivi che non sono solo quelli indicati in quel saggio. Il trasporto su strada da impresa a impresa è più flessibile di quello su ferrovia o di cabotaggio perché non richiede la composizione e la scomposizione di carichi molto complessi (ma richiede comunque la rottura dei carichi quando le merci arrivano in città, dove i tir non possono entrare, e dove occorre comunque ricorrere a sistemi di city-logisticfinale più o meno organizzati). Ma è più flessibile anche perché si regge su una organizzazione del lavoro che sfrutta a fondo i trasportatori.

Difficilmente una piccola impresa si rivolge direttamente a un camionista per spedire il suo carico. C’è quasi sempre l’intermediazione di uno spedizioniere, che sono per lo più grandi imprese multinazionali, che a loro volta subappaltano il servizio a uno spedizioniere più piccolo, e questi a un altro, fino a raggiungere i “padroncini” proprietari di uno o di qualche camion e autisti loro stessi: operatori che spesso non rispettano gli standard sulla sicurezza del veicolo, né quelli sulle ore e le modalità di guida, né quelli tariffari (per di più, con un ingresso crescente di operatori e di autisti dell’est europeo, ancora meno controllabili, che lavorano però per spedizionieri italiani o dell’europa occidentale). Insomma, l’intermediazione dei carichi c’è già, ma la fanno i grandi spedizionieri che trovano più conveniente sfruttare a fondo il sistema attuale piuttosto che promuoverne il rinnovamento.

L’alternativa, in linea teorica, è semplice: bisognerebbe che sia gli utenti, cioè i produttori, che gli operatori del trasporto merci, cioè la moltitudine disperata dei trasportatori, si consorziassero, mettendo in piedi strutture in grado di organizzare i carichi complessi necessari all’utilizzo di un convoglio ferroviario. Non sarebbe, per i camionisti, un “tagliarsi l’erba sotto i piedi”; perché il trasporto ferroviario e il cabotaggio possono coprire solo alcuni, e solo una parte, dei tragitti che le merci devono compiere: molti itinerari e “l’ultimo miglio” (che per lo più di miglia ne include parecchie) dovrebbero comunque essere coperti con camion e furgoni. Invertire rotta richiederebbe un impegno politico e culturale che manca completamente a chi ha in mano le redini del paese: non solo le istituzioni pubbliche ma anche, e soprattutto, quelle imprenditoriali.

Si tratta in ogni caso di una prospettiva più realistica e praticabile dell’alternativa ventilata da Sergio Bologna: quella della riduzione dell’intensità di trasporto. Un obiettivo pienamente condivisibile, che costituisce un pilastro della conversione ecologica del sistema produttivo, ma che richiede ben più che il potenziamento delle competenze impegnate nella supply-chain, perché coincide con uno degli obiettivi centrali dell’approccio territorialista, anche se i suoi cultori si sono finora impegnati poco nell’affrontare la dimensione industriale del loro programma.

Per ridurre l'intensità di trasporto occorre rilocalizzare - e, quindi, spesso anche ridimensionare - una grande quantità di attività produttive oggi disperse ai quattro angoli del pianeta; ma anche promuovere, tra imprese e territori contigui, rapporti il più possibile diretti, fondati su accordi di programma che facciano da argine alle oscillazioni e alle turbolenze dei mercati. E per questo ci vuole un sistema di gestione delle imprese che veda coinvolti i rappresentanti degli enti locali, delle associazioni territoriali, delle università e dei centri di ricerca, oltre che, ovviamente, delle maestranze: cioè l’organizzazione della produzione come bene comune. insomma, un “socialismo” del ventunesimo secolo, ecologista e federalista; anche se il termine socialismo è sviante, perché è storicamente e culturalmente legato all’esatto opposto – produttivismo, gigantismo e centralismo – di ciò che oggi andrebbe perseguito.

il manifesto, 22 agosto 2018. «Disastro di Genova. La logica capitalistica è quella della remuneratività a breve degli investimenti». (m.p.r.)

Mi è parso strano, in questi giorni, che quasi nessuno si sia ricordato del disastro del Vajont (9 ottobre 1963; 1.910 morti). Anche quella era una meraviglia dell’italica genialità dell’ingegneria del cemento armato: la diga più alta del mondo, inaugurata pochi anni prima. Anche allora la società privata che la gestiva (la Sade) – e con lei tutte le autorità statali e le principali fonti di informazione – preferì ignorare gli allarmi pur di non interrompere la produzione e deprezzare i propri capitali. Ma potremmo citare centinaia di altri casi di tragedie provocate dal collasso di infrastrutture e impianti produttivi industriali.

Per non andare lontano da Genova pensiamo all’incendio della petroliera Haven (11 aprile 1991, 5 morti) e alla ThyssenKrupp (5 dicembre 2007; 5 morti). Certo, per ogni evento ci sono colpe soggettive rilevanti (anche se quasi mai davvero perseguite), ma c’è anche una logica comune che sottende il modus operandi di investitori, proprietari, gestori, autorità regolative e, più in generale, il pensiero moderno di sviluppo, progresso e prosperità. Pensiamoci per un istante.

E’ stato detto da un allievo dell’ing. Morandi, progettista del viadotto Polcevera, (intervista al docente Sylos Labini dell’Università La Sapienza, Il ponte Morandi è arte, il manifesto, 17 agosto) che il ponte è stato costruito in cemento armato tenendo conto «anche al rapporto costi-benefici (…). L’acciaio per l’economia italiana del periodo era proibitivo, i costi non avrebbero reso possibile la costruzione dei ponti». Ho letto e ascoltato basito che opere pubbliche come quelle in questione sono programmate per un tempo di vita predefinito di 50-60 anni. Ho pensato agli acquedotti romani e al ponte di Rialto e ho capito i differenti modi di concepire le attività umane delle diverse civiltà.

Ma pure ammettendo che la nostra civiltà super-accelerata, iperconsumistica e priva di senso del limite sia la più moderna e desiderata possibile, perché i suoi progettisti e i loro committenti e finanziatori non programmano anche le manutenzioni e il fine ciclo dell’opera preferendo invece spremere il limone fino a bucare la scorza? Mi è stato detto che per una grande impresa risarcire i danni di disastri è spesso più economico che modificare i propri piani produttivi. Non a caso uno dei motori di questo “sviluppo” sono le società di assicurazione. La logica che guida l’economia capitalistica è stata sempre quella della remuneratività a breve degli investimenti. Peccato che questi “utili” siano stati garantite ai Benetton e agli altri “capitani coraggiosi” dell’imprenditoria italiana dalle generose privatizzazioni e svendita del demanio dello Stato avviate dai governi dell’era iperliberista.

Permettetemi una antipatica autocitazione (Liberazione, 15 giugno 2006), quando Rifondazione Comunista tentò di bloccare le proroghe concesse dal ministro Di Pietro alle concessioni autostradali: «È del tutto evidente che le autostrade costituiscono un bene-servizio monopolistico naturale. Nessuno è libero di scegliere quale autostrada percorrere. Non è possibile creare alcuna concorrenza tra beni o servizi unici. Affidare a privati la loro gestione significa regalare una rendita di posizione. Per “controllarla” servirebbero regole, autorità di vigilanza, controlli… costosi, mai efficaci e, soprattutto, assolutamente inutili, solo se la loro proprietà rientrasse in uno schema di regole pubbliciste. È tempo di fare un bilancio “laico” delle privatizzazioni. È tempo di riproporre la ri-pubblicizzazione della proprietà di quei beni e di qui servizi che per ragioni di accessibilità universale garantita (quali l’acqua e l’energia) o per ragioni banalmente materiali, quali la scarsità e il posizionamento dei suoli, non potranno mai essere merce scambiabile in mercati davvero aperti e liberi…».

il Fatto Quotidiano, 19 agosto 2018. Il modo abile e spregiudicato in cui una potenza finanziaria si impadronisce di una città, di una regione e detta alcune importanti regole del paese. (a.b.)

“La società ha fatto un puro calcolo di investimento, dal quale si aspetta un ritorno, un beneficio”. I veneti avveduti sanno che questo principio, esposto dal direttore generale Giovanni Cantagalli nel 1995, si applica a tutte le attività della Benetton, a cominciare da quella cui Cantagalli si riferiva, investimenti immobiliari del gruppo a Venezia. Precisamente denunciate da un pamphlet di Paola Somma (Benettown, Corte del Fontego 2011), le speculazioni in Laguna hanno coinvolto i tre gangli vitali della città. La più antica (1992-97) coinvolgeva una vasta area di proprietà privata alle spalle di Piazza San Marco, nella ristrutturazione, a carattere prevalentemente alberghiero, erano previsti un cinema, un teatro e una libreria, ma i primi poi non si fecero e l’altra sopravvisse finché i locali non vennero affittati a Vuitton nel 2010. Le due più recenti invece hanno riguardato il patrimonio pubblico.

Si tratta del prezioso edificio del Fontego dei Tedeschi accanto al Ponte di Rialto, per anni sede delle Poste, e della stazione ferroviaria di Santa Lucia: il Fontego fu acquisito da Benetton nel 2008 per 53 milioni di euro, ed è stato trasformato in un megastore del lusso (ceduto in gestione nel 2013 per 110 milioni al gruppo Lvmh) secondo un progetto dell’archistar Rem Koolhaas, con tanto di rosse scale mobili interne e terrazza sul Canal Grande: tutte varianti prontamente approvate da una Soprintendenza compiacente e da un Comune supino.

La stazione è stata trasformata in un enorme centro commerciale: la superficie per ristorazione e negozi è aumentata da 2500 a 9000 metri quadri, secondo l’accordo del 2009 con Grandi Stazioni, dominata dal gruppo Benetton. Il tutto ai piedi del famigerato ponte di Calatrava e all’ombra dell’ex direzione compartimentale delle Ferrovie, comprata dagli stessi Benetton per 70 miliardi di lire nel 1999 e rivenduta sei anni dopo alla Regione Veneto (che vi alberga oggi i propri uffici) per 70 milioni di euro. Per non parlare dell’isola di San Clemente, acquistata dai Benetton e poi rivenduta subito dopo la trasformazione in albergo di lusso, o della partecipazione del gruppo nelle avventure speculative del Parco San Giuliano e del quadrante di Tessera. Tutte operazioni nate nell’alveo della missione di “privatizzare Venezia” (come recitava un profetico libro edito da Marsilio nel ‘95) portata avanti per anni dal sindaco Massimo Cacciari, allergico alla cultura “vetero-vincolista” e pronto a identificare proprio in Benetton l’imprenditore-guida, il mecenate di una città “proiettata nel futuro”. Il futuro – a posteriori – è quello di una città moribonda.

Al di là delle questioni estetiche o urbanistiche, la penetrazione del gruppo Benetton a Venezia ha seguito, nelle parole di Paola Somma, un iter che assomiglia a quello di cui oggi s’inizia a parlare in rapporto alle concessioni autostradali: “Ogni tappa della lunga contrattazione ha visto il prevalere delle richieste e delle pretese del privato; tale predominio si è trasformato da eccezione a regola di governo”. Il processo si è iscritto in quella mutazione genetica che – complici i rapporti con la politica e i salotti buoni da Generali a Mediobanca, e la prontezza nel rispondere ai governi (per esempio nella vicenda dei “capitani coraggiosi” di Alitalia) – ha trasformato il gruppo “da un’entità che operava su di un mercato competitivo in una, almeno parzialmente, legata al carro pubblico” (Vincenzo Comito); ma c’è da chiedersi se davvero, come sosteneva l’economista Francesco Giavazzi anni fa, questa evoluzione sia un sintomo di debolezza e di subalternità alle decisioni del governo centrale (come sulle tariffe), specialmente quando la si collochi in un contesto di aderenze bipartisan. Storicamente “progressisti” grazie alle provocatorie campagne di Oliviero Toscani e ai loro slogan di sostenibilità, ecologia, responsabilità sociale, pace e fratellanza, i Benetton hanno saputo mantenere buoni rapporti sul territorio anche con la Lega, nel 2010 hanno ideato – tramite la loro branca “artistica” di nome Fabrica – la campagna elettorale del candidato governatore Luca Zaia: talché le ultime scaramucce sul referendum per l’autonomia dell’ottobre 2017 (Luciano Benetton schierato contro, e Zaia a rimbrottarlo) o sulla recentissima pubblicità di Toscani con i migranti, molto sgradita al ministro Salvini, ma non realmente censurata dal governatore, scompaiono dinanzi a una comunanza d’intenti che passa per un posticcio recupero del mos maiorum (Zaia ha salutato con grande favore il “ritorno ai maglioni” annunciato dall’anziano patriarca Luciano nell’autunno scorso), e più concretamente, per una serie di cooperazioni e sponsorizzazioni; anche attraverso lo sci: Alessandro Benetton, marito di Deborah Compagnoni, è a capo del potente comitato organizzatore dei Mondiali di Cortina 2021. E siamo oggi in odore di Olimpiadi.

Le Olimpiadi i Benetton le conoscono bene, in quanto furono tra i principali fautori della candidatura di Venezia 2020 (degna erede di quella all’Expo 2000 voluta da Gianni De Michelis), poi fortunatamente naufragata. E tra una squadra di basket o di rugby in grado di vincere trofei, e una Fondazione culturale capace di ingaggiare una parte dell’intelligentsia accademica (la Storia del paesaggio, i Beni Culturali, la Storia del gioco, la Storia veneta), la famiglia ha saputo conquistarsi una centralità assoluta nel “modello veneto” a livello imprenditoriale e culturale, e ha saputo così occultare alcuni aspetti meno edificanti della propria ascesa, fatta anche di subappalti disinvolti dalla Sicilia al Pakistan, di decentramento della produzione e dei rischi, di inopinate delocalizzazioni, di rapporti poco amichevoli con i contoterzisti e i rivenditori monomarca. Di queste cose parla, con dovizia di esempi, Pericle Camuffo in United Business of Benetton (Stampalternativa 2008), un libro che racconta anche la fosca storia dell’espansione latifondistica del gruppo in Patagonia a spese del popolo Mapuche (chi oggi si sorprende dinanzi a certi comunicati di Atlantia dopo il crollo di Genova dovrebbe confrontare la protervia di altre note emesse dai Benetton in quella vicenda).

Ma la centralità non conosce confini, e vale anche nel senso più glocal, tra la spada e la tonaca: nell’antica Treviso, il vecchio colorato megastore degli United Colors ha presidiato per anni il fianco del Palazzo dei Trecento, antica sede del potere civile in Piazza dei Signori; e da pochi mesi gli headquarters della finanziaria Edizioni, che controlla tutte le attività del gruppo di Ponzano (comprese le concessioni autostradali), si sono trasferiti proprio davanti al Duomo, nell’edificio dell’ex tribunale, restaurato e riqualificato con tanto di galleria di arte contemporanea sul retro.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile.

il manifesto, 19 agosto 2018. Lucida analisi delle devastanti conseguenze territoriali che hanno gli interessi legati al cemento e all'automobile, alla base delle politiche pubbliche e la necessità di cambiare radicalmente rotta. (a.b.)

Ai sostenitori senza se e senza ma delle Grandi opere, che nel crollo del ponte Morandi vedono solo l’occasione per recriminare la mancata realizzazione della Gronda, passaggio complementare e non alternativo al ponte crollato, va ricordato che anche quel ponte è (era) una «Grande opera»: dannosa per l’ambiente e per le comunità tra cui sorge e pericolosa per la vita e la salute di tutti. L’idea di piantare dei pilastri di 90 metri in mezzo a edifici abitati da centinaia di persone e di farvi passare sopra milioni di veicoli era e resta demenziale; come lo era e resta la sopraelevata che ha cancellato e devastato uno dei fronte-mare più belli e pregiati (forse il più bello e pregiato) del mondo: non a vantaggio di Genova, ma per fluidificare il traffico del turismo automobilistico delle Riviera di Levante, così come il ponte Morandi serviva a quello della Riviera di Ponente, negli anni “gloriosi” (?) della moltiplicazione delle automobili. Con la conseguenza che quei nastri di asfalto sono stati presi in ostaggio dal trasporto merci su gomma, per il quale non erano stati pensati, lasciando languire la ferrovia, tanto che la linea Genova-Ventimiglia (principale collegamento tra Italia e Francia e, se vogliamo, con Spagna e Portogallo; altro che Torino-Lione!) è ancor oggi a binario unico.

Un’invasione di campo, quella dei Tir, moltiplicata dalla successiva produzione just-in-time che li ha trasformati in magazzini semoventi, cosa impossibile se le autostrade non fossero state messe a loro completa disposizione e la ferrovia avesse mantenuto il primato che le spetta.

Da almeno 30 anni si sa che il cemento armato, specie se sottoposto a forti sollecitazioni come il passaggio di milioni di Tir ed esposto alla pioggia, al gelo, ai veleni delle emissioni, al sale antigelo, non dura più di cinquant’anni o poco più; e forse anche meno; ma nessuno, e meno che mai i fautori della Gronda, avevano programmato una data certa per la demolizione di quel ponte che oggi richiede anche la demolizione delle case sottostanti. E oggi si scopre che i ponti autostradali nelle stesse condizioni pre-crollo sono almeno 10mila in Italia; e altrettanti in Francia, Germania e in qualsiasi altro paese. Perché la grande “esplosione” automobilistica del miracolo economico, che doveva aprire le porte al futuro, al futuro proprio non guardava: né in Italia, paese orograficamente disadatto a quel mezzo, né in paesi ad esso più consoni.

Chiunque abbia anche solo ristrutturato il bagno di casa sa che costruire è (relativamente) facile; demolire è più complicato, rimuovere (le macerie) è difficilissimo; anche se forse non sa che smaltirle è devastante, soprattutto in Italia dove scarseggiano gli impianti di recupero e mancano le leggi per promuovere l’utilizzo dei materiali di risulta. Così, del futuro di tutti quei manufatti stradali non ci si è mai occupati, nonostante che oggi, “cadendo dalle nuvole”, si scopra che la loro demolizione e sostituzione rientra nell’ordinaria, perché necessaria, manutenzione.

No. Il futuro del ponte Morandi non era la sua demolizione; era la Gronda: 70 e più chilometri di gallerie e viadotti (in cemento armato) lungo le alture di Genova: un’opera devastante in uno dei territori più fragili della penisola, come dimostrano gli smottamenti e le alluvioni sempre più gravi che ormai colpiscono la città quasi ogni anno. E cinque miliardi, ma probabilmente molti di più, regalati ai Benetton con l’aumento delle tariffe autostradali in tutta Italia invece di destinare quelle e altre risorse al risanamento di un territorio ormai vicino al tracollo; il tutto per liberare il ponte, se fosse rimasto in piedi, da non più del 20 per cento del suo traffico…

Non c’è esempio che spieghi meglio quanto le risorse destinate alle Grandi opere inutili e dannose siano sottratte al riassetto idrogeologico del territorio e alla manutenzione di ciò che già c’è, abbandonandolo a un degrado incontrollato: lo stesso vale per il Tav (Torino Lione, ma anche Genova-Tortona), il Mose; la Brebemi (che vuol dire Brescia-Bergamo-Milano, ma che stranamente non passa per Bergamo) le autostrade in costruzione in Lombardia e Veneto; il ponte sullo stretto (altro che ponte Morandi!) che ha già divorato più di 500 milioni; un gasdotto che attraversa territori in preda a eventi sismici quasi permanenti invece di ricostruire quei paesi crollati per incuria e puntare all’abbandono dei fossili. E così via. Con altrettante opportunità di creare lavoro finalmente utile.

E giù a dare del “troglodita”, del nemico del progresso, dell’oscurantista medioevale a chi, in nome della salvaguardia del territorio, della convivenza sociale, della necessità di mettere in sicurezza, e possibilmente di valorizzare, l’esistente, si oppone alle tante Grandi opere inutili e devastanti promuovendo l’unica vera modernità possibile, che è la cura e la manutenzione del proprio territorio, che è anche difesa di tutto il paese e dell’intero pianeta: da restituire alla cura di chi vi abita, vi lavora e lo conosce a fondo. Si discute di queste cose prigionieri di un eterno presente, senza passato né futuro, come se tutto dovesse continuare allo stesso modo; mentre si sa – o si dovrebbe sapere – che tra non più di due o tre decenni, se vorremo sopravvivere ai cambiamenti climatici che incombono, saremo costretti, volenti o nolenti, a cambiare radicalmente stili di vita, modi di coltivare la terra e di nutrirci, uso dei suoli, modalità di trasporto. Con tanti saluti sia al ponte Morandi, da non ricostruire, che alla Gronda, da non realizzare.

il manifesto, il Fatto Quotidiano, 19 e 17 agosto 2018. Articoli di Andrea Fabozzi e Peter Gomez. Autostrade non si scusa per il crollo del ponte. La sua strategia è quella di attendere i tempi della giustizia, forte di un contratto capestro, in parte ancora secretato. (m.p.r.)

il manifesto, 19 agosto 2018
AUTOSTRADE RISPONDE A CONTE

RESPONSABILITÀ DA PROVARE
di Andrea Fabozzi
«Genova. Per la decadenza della convenzione parte la battaglia legale, l'amministratore Castellucci può attendere i "tempi della giustizia" che il presidente del Consiglio ha detto di non voler aspettare. Il governo stanzia altri 28,5 milioni per l'emergenza. Il ministro Toninelli si prende altri otto giorni per informare il parlamento»

Per un governo che parla tanto, una controparte che misura le parole. Autostrade rifiuta di scusarsi per il crollo del ponte, lo fa solo per «essere apparsa distante» dopo, e si prepara a una lunga battaglia legale. La decadenza della concessione è più lontana di quanto Salvini, Di Maio e Conte sperano e raccontano. La lettera che il ministero delle infrastrutture ha spedito ad Autostrade, al di là dei toni drammatici imposti dalle dimensioni della tragedia, non è altro che l’attivazione della procedura, lunga ed eventuale, prevista dalla convenzione di concessione. La firma in calce alla lettera è quella del direttore del servizio di vigilanza sulle concessionarie autostradali, Vincenzo Cinelli. Il quale, fin dal decreto di nomina che è giusto di un anno fa, ha tra i suoi compiti quello di «vigilare sull’adozione da parte dei concessionari dei provvedimenti necessari ai fini della sicurezza».

La strategia di Autostrade, che ha messo in campo tre studi legali (civile, penale e amministrativo) e un consulente per la comunicazione, è chiaramente quella di affidarsi alle verifiche e ai tempi della giustizia. Cioè all’inchiesta penale già partita dove il governo ha detto di volersi costituire parte civile, quando però potrebbe essere tra gli indagati viste le responsabilità ministeriali. «È nostro interesse che la giustizia faccia il suo corso», ha affermato l’ad Castellucci che è sicuramente nella condizione – al contrario di quanto dichiarato dal premier Conte – di poter aspettare i tempi della giustizia. Se il presidente del Consiglio – da curriculum «esperto di diritto contrattuale» – ha spiegato ai colleghi di governo che la revoca può essere ottenuta anche fuori dalla convenzione, e quindi senza la clausola capestro che prevede l’obbligo per lo stato di indennizzare Autostrade per miliardi, del suo ottimismo c’è appena una traccia nella lettera ufficiale. Un inciso in cui il ministero «si fa riserva di esperire tutte le iniziative di tutela apprestate dall’ordinamento giuridico».

L’ipotesi allo studio è che, malgrado la convenzione, possa essere fatto valere l’articolo 1453 del codice civile che disciplina la risoluzione dei contratti per inadempimento (tra gli inadempimenti di Autostrade c’è, oltre a quello da dimostrare di avere tutta la responsabilità del crollo, quello certo di non garantire più il transito). Una causa civile però ha tempi molto più lunghi di quella penale. Ed è alternativa alla costituzione in giudizio come parte civile nel processo penale. Ben attento (e ben consigliato) a non concedere spazi sul versante dell’ammissione delle colpe, l’ad Castellucci ieri ha tenuto a precisare che il mezzo miliardo circa che Autostrade mette a disposizione è «totalmente indipendente da quello che verrà accertato». Malgrado Di Maio abbia subito detto che «lo stato non accetta elemosina», la disponibilità a costruire un altro ponte in acciaio (in otto mesi!) è precisamente quello che alla società è stato chiesto nella lettera del ministero, dove si parla di «iniziative di risarcimento anche in forma specifica».

Il governo intanto ha deciso di stanziare altri 28,5 milioni, prelevati dal fondo per le emergenze nazionali, per le prime necessità legate alla viabilità e all’accoglienza degli sfollati. Lo ha fatto al termine dei funerali di stato, in una riunione lampo del consiglio dei ministri in prefettura a Genova che era stata esclusa appena ieri da Di Maio. Ma che si è resa necessaria su pressione del presidente della regione Toti, visto che i 5 milioni del primo stanziamento erano del tutto insufficienti.
Anche il presidente della camera Fico ha convocato una riunione dei capigruppo a Genova, assai informale perché si sono riuniti i rappresentati dei partiti presenti in città. L’obiettivo era quello, richiesto da giorni dalle opposizioni, di portare il governo a riferire in parlamento oltre che sui social. Parzialmente centrato, visto che il ministro Toninelli ha respinto la richiesta di Pd, LeU, Fratelli d’Italia e Forza Italia di presentarsi subito alla camera, preferendo in questo caso prendersi più tempo «per l’istruttoria». È immaginabile che avrà bisogno di buoni argomenti per rispondere alle domande sulle responsabilità della vigilanza ministeriale, e così riferirà alle commissioni riunite il 27 agosto. E poi all’aula, ma a settembre.



il Fatto Quotidiano, 17 agosto 2018
AUTOSTRADE, UN CONTRATTO CAPESTRO

E LE OSCENE ACROBAZIE DEI MEDIA PER NASCONDERE IL COGNOME BENETTON
di Peter Gomez

C’è qualcosa di osceno nella protervia con cui Autostrade per l’Italia, davanti ai cadaveri, cita contratti e penali. L’idea che una società, miracolata da una concessione statale priva di senso economico e sociale, ricordi che in base ai documenti firmati avrebbe diritto a 20 miliardi di euro anche se venisse provata la sua responsabilità per i morti di Genova è un fatto che scuote le coscienze. Un accordo del genere (oltretutto in parte coperto da segreto di Stato) è un contratto capestro. Chiunque coltivi ancora in sé un minimo senso di giustizia può facilmente capire quale sia la truffa di quella concessione ultra decennale prolungata in tutta fretta.

Secondo il contratto anche in caso di accordo rescisso per colpa grave alla società controllata dalla famiglia Benetton spettano per anni versamenti miliardari. Non abbiamo idea del perché politici di diverso colore nel tempo abbiano accettato tutto questo. Sappiamo però che un accordo del genere autorizza le ipotesi peggiori. Che esulano dalla semplice incapacità e inettitudine di tanti governanti protagonisti dell’affare. Più volte in passato noi e altri giornalisti, a partire dai colleghi di Report, abbiamo denunciato e raccontato lo scandalo di queste concessioni. Ma quelle storie e notizie scomparivano presto dai media. Troppo potenti e ricchi i concessionari dello Stato, troppo importanti gli investimenti pubblicitari dei Benetton, perché editori e direttori ricordassero quale era il loro dovere.

Ora, dopo ridicoli tentativi di occultare la verità prendendosela con i No gronda (contrari a un’opera che quando sarà ultimata non porterà alla chiusura del ponte), la morte e la distruzione si occupano purtroppo di rimettere a posto le cose. Dal 2015 chi lavorava sotto il ponte era costretto a ripararsi dalla caduta di pezzi di ferro con delle reti. Le segnalazioni ad Autostrade erano rimaste senza seguito. E solo pochi mesi fa, con procedura d’urgenza, era stata indetta una gara per le riparazioni di piloni e tiranti. Questo basta per far comprendere che a Genova chi poteva e doveva intervenire non ha voluto farlo per tempo.

Ma non è tutto. Perché, mentre si scava ancora tra le macerie, Autostrade e i suoi azionisti comunicano che in 5 mesi sono in grado di rifare il ponte. Dimostrando che dietro alle loro passate scelte c’era solo la volontà di moltiplicare utili già scandalosamente alti.

Noi non sappiamo come finirà questa storia. Sappiamo però che se vogliono avere ancora diritto di cittadinanza in questo Paese ex ministri, ex premier, ex sottosegretari protagonisti dell’affare e la famiglia Benetton devono presentarsi agli italiani per chiedere con umiltà perdono. Spetta invece al Parlamento il compito di trovare la strada legislativa e di diritto per annullare quella clausola sui soldi da versare ad Autostrade, in tutta evidenza vessatoria per i contribuenti. Sperando che questa volta i servi dei concessionari di Stato presenti in gran numero alla Camera e al Senato trovino la dignità di tacere. E che invece la stampa italiana ancora oggi impegnata in surreali acrobazie per non mettere nei titoli il cognome Benetton, trovi finalmente il coraggio di parlare.

il manifesto, il Fatto Quotidiano, la Repubblica, 18 agosto 2018. Articoli di Andrea Fabozzi, Stefano Feltri, Paolo Griseri. L'avvio dell'iter di revoca e il processo che ha portato alla privatizzazione. Con riferimenti. (m.p.r.)



il manifesto
IL GOVERNO
REVOCA DELLA CONCESSIONE MALGRADO I CODICILLI
di Andrea Fabozzi

«Strage di Genova. Il vicepremier Di Maio attacca «azzeccagarbugli e professoroni» che avvertono sui rischi del mancato rispetto delle procedure contro Autostrade per l'Italia, con il pericolo che lo stato debba pagare un indennizzo: «I 39 morti sono una giusta causa». Ma parte «formalmente» la lettera che avvia l'iter della decadenza»

Un’offensiva mediatica a 5 Stelle. Di fronte alle difficoltà della procedura di revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia, annunciata come cosa fatta il giorno dopo la strage di Genova e poi riportata tra le cose da fare, il governo riempie di annunci la vigilia dei funerali di stato. Ma cancella il consiglio dei ministri straordinario che avrebbe dovuto tenersi oggi a Genova per i primi provvedimenti.

In una gara interna all’esecutivo, il ministro delle infrastrutture e trasporti Toninelli brucia di qualche minuto il presidente del Consiglio, e alle 19.30 annuncia su facebook: «Ho una notizia importantissima da darvi». È la stessa già data con una nota stampa la sera prima, giovedì. La «comunicazione formale ad Autostrade per l’Italia chiedendo di far pervenire entro 15 giorni dalla data odierna una dettagliata relazione». L’avvio cioè della procedura di revoca come prevista dalla convenzione del 2007. Una lettera che solo ieri, informa subito dopo il presidente del Consiglio Conte, anche lui su facebook, è stata «formalmente inviata».

Anche i tempi sono indicati nella convenzione, e sono più lunghi di quelli che nel frattempo Salvini ha dato durante un comizio: «Alcune settimane, forse qualche mese». I mesi saranno cinque o sei. A meno che «il fatto non costituisca reato», e forse su questo inciso dell’articolo 7 lettera d) della convenzione che il governo intende far leva. Serve però una sentenza, servono «i tempi della giustizia». L’avvocato Giuseppe Conte, che ha detto di non poterli aspettare, scrive dunque che «il disastro è un fatto oggettivo e inoppugnabile e l’onere di prevenirlo era in capo al concessionario». Di Maio traduce: «La giusta causa per la revoca – scrive ai parlamentari M5S – non è da rintracciare in codicilli o commi da azzeccagarbugli, la giusta causa sono i 39 morti. E ogni volta che qualcuno come Consob o qualche professorone ci dirà che dobbiamo stare attenti ai mercati e agli iter burocratici, rispondetegli che se vogliono possono andarlo a dire alle famiglie delle vittime».

È evidente l’inseguimento nei toni alla comunicazione di Salvini. Nella sostanza il rispetto dell’iter burocratico è una garanzia che la procedura di revoca possa andare a buon segno. Evitando che si trasformi in un boomerang per lo stato, costretto a pagare penali. E non è da trascurare l’avvertimento dell’amministrativista Clarich, che ieri sul Sole 24 ore ricordava che la giustizia contabile può agire contro gli amministratori pubblici nel caso di danni all’erario. Ragionamenti da «professorone», secondo il lessico che Di Maio copia in questo caso a Renzi.

L’aggiotaggio invece non è un capriccio della Consob ma un reato previsto dal codice penale. Ieri in borsa la quotazione di Atlantia ha fatto ancora una volta su e giù al ritmo delle dichiarazioni dei ministri, chiudendo con un piccolo rimbalzo (+5,6%) dopo il tonfo di giovedì (-22%). Prima però degli annunci serali di Toninelli, Conte e Di Maio. Annunci accompagnati da impegni per i prossimi mesi, anzitutto «desecretare tutti i contratti dei concessionari autostradali», Di Maio lo ripete da tre giorni; di segreto ci sono alcuni allegati. Conte promette che sarà rafforzato il servizio ispettivo del ministero dei trasporti, impegno sacrosanto ma contraddittorio per chi ha già dato tutta la responsabilità dei mancati controlli ad Autostrade. Conte deve però constatare che «purtroppo arriviamo al governo un po’ tardi» e i contratti non si possono rivedere. «Man mano che scadono imposteremo queste operazioni sulla base di nuovi principi», peccato però che i principali contratti scadranno nel 2030, 2042 e 2050. Poi assicura che «d’ora in avanti tutti i concessionari saranno vincolati a reinvestire buona parte degli utili nell’ammodernamento delle infrastrutture». Sacrosanto, ma non è chiaro come.

Poi è Di Maio, non Conte, a scrivere che «se servirà» il Consiglio dei ministri (non oggi) farà un decreto legge speciale per Genova e la Liguria. Il vicepremier aggiunge un nuovo attacco al Pd anche se, non avendo trovato le prove, non insiste sui finanziamenti di Benetton al partito. «Molti dei personaggi politici che hanno permesso tutto questo oggi o lavorano per Autostrade per l’Italia o sono loro consulenti». Fa un solo nome «uno su tutti, Enrico Letta è passato per il cda delle autostrade spagnole comprate dai Benetton». Ieri lo aveva scritto questo giornale, alla disperata ricerca di appigli per le accuse del vicepremier, trascurando di precisare che Letta si è dimesso a maggio dal cda di Abertis.
L’operazione Atlantia-Abertis non è ancora perfezionata e non è escluso che, adesso, per il gruppo italiano sarà più difficile fronteggiare l’indebitamento necessario a concluderla.

il Fatto Quotidiano
COSÌ LA POLITICA HA REGALATO LE AUTOSTRADE AI BENETTON

ECCO CHI È STATO
di Stefano Feltri
«Conflitti d’interessi e veloci cambi di casacca da arbitro a giocatore: questa non è affatto una storia imprenditoriale, anche perché nessuno ha rischiato un euro. 25 anni dopo»




Ancora in questi giorni qualcuno prova a spacciare quella di Autostrade per l’Italia come una storia economica, perfino imprenditoriale. Non è così, è una vicenda tutta politica, anzi, di un establishment ristretto che ha avuto tutti i ruoli nella vicenda. Gian Maria Gros Pietro e Pietro Ciucci sono il presidente e il direttore dell’Iri, la holding pubblica delle partecipazioni, che nel 1999 vendono la quota di controllo delle Autostrade di Stato alla società della famiglia Benetton. Pochi anni dopo li ritroviamo come presidente delle Autostrade privatizzate (Gros Pietro) e presidente dell’Anas (Ciucci), cioè della società pubblica che affida le strade in concessione ai privati. Enrico Letta era sottosegretario nel governo Prodi che nel 2006 – su iniziativa del ministro Antonio Di Pietro – bloccò la fusione tra Autostrade e la spagnola Abertis, oggi è nel consiglio di amministrazione di Abertis, entrato un attimo prima che ripartisse, nel 2017, il progetto di fusione.

Con la parziale eccezione del governo Monti, ogni esecutivo degli ultimi 25 anni ha fatto di tutto per consegnare a una famiglia – nota per il suo abbigliamento democratico e per le campagne fotografiche di Oliviero Toscani – la più grande rendita pubblica, quella della gestione di autostrade costruite con fondi pubblici. Dalla cessione di Autostrade l’Iri incassa 7 miliardi circa. Nel 2002 i Benetton salgono dal 30 a oltre il 60 per cento: si indebitano per 7 miliardi che poi scaricano subito sulla società, fondendo il veicolo finanziario con Autostrade. Tradotto: non gli costa un euro. I Benetton non hanno mai fatto aumenti di capitale, non hanno mai immesso risorse fresche nell’azienda e questo rende difficile classificarli come imprenditori. Eppure il valore è cresciuto. Nonostante il titolo sia sceso del 22 per cento dopo il disastro di Genova, oggi Atlantia (il gruppo che contiene Autostrade) vale in Borsa ancora 15 miliardi, il doppio di quello che lo Stato incassò 25 anni fa.

La spiegazione si trova in un libro che ha avuto una circolazione semiclandestina, I signori delle autostrade (Il Mulino), dell’economista Giorgio Ragazzi, collaboratore del Fatto. Scrive Ragazzi: “Ripensando alla privatizzazione, si può immaginare perché fosse stato difficile trovare investitori disposti a pagare un prezzo elevato per la Autostrade, gli investitori, soprattutto quelli esteri, percepivano il rischio che lo Stato avrebbe potuto essere poco accondiscendente in futuro, nella determinazione delle tariffe”. Quel rischio i Benetton lo hanno disinnescato in modi che sarebbero stati impossibili per un investitore straniero. Hanno presidiato quell’intreccio di scambi ricambiati che è stato nobilitato dall’etichetta di “capitalismo di relazione”.

La prova è a disposizione di tutti: controllate quanti giornali hanno scritto del più grave incidente stradale della storia d’Italia, 40 persone muoiono per un bus che finisce fuori strada vicino ad Avellino. Finiscono a processo con varie accuse tra cui l’omicidio colposo plurimo vari dirigenti di Autostrade, incluso l’amministratore delegato di Atlantia Giovanni Castellucci. I grandi giornali ignorano la vicenda, ci sono più articoli sulle dichiarazioni di rito dei politici dopo la strage che di cronaca giudiziaria sul processo.

Le Autostrade hanno finanziato per anni i politici, poi sono passate a metodi più indiretti, dal sostegno a varie iniziative politiche o editoriali (non mancano mai come sponsor a iniziative sulla sicurezza o festival editoriali: i soldi sono graditi a tutti). Il loro soft power ottiene come risultato una sorta di mimetismo: nessuno sovrappone le campagne dei Benetton (l’ultima sui migranti) al capitalismo della rendita di cui sono protagonisti; il responsabile delle relazioni istituzionali Francesco Delzio fa l’editorialista di Avvenire dove spesso denuncia lo strapotere delle lobby, le associazioni dei consumatori invece di protestare per i rincari sono coinvolte dall’azienda in una “Consulta per la Sicurezza e la Qualità del Servizio” così vengono sedate. E da 25 anni, come ricostruiamo qui accanto, Atlantia e i Benetton ottengono rincari e leggi su misura senza che (quasi) nessuno protesti. Salassi accolti come calamità naturali. Almeno fino ai 38 morti di Genova.

la Repubblica
BLITZ, PRESSIONI E FAVORI

PER CONQUISTARE LE AUTOSTRADE
di Paolo Griseri
«I vent’anni di relazioni pericolose tra governi, partiti e grandi gruppi, da Benetton a Gavio, che hanno garantito alti guadagni ai concessionari»

Una lunga storia di blitz e pressioni, con un obiettivo principale: ridurre al minimo i bandi di gara. In sostanza trasferire il più possibile dal pubblico al privato il monopolio sulle autostrade che lo Stato aveva realizzato e gestito in proprio fino al 1999. In quasi vent'anni il sistema delle concessioni ha finito per rovesciare il rapporto fisiologico tra il proprietario di un'opera e chi ottiene il diritto allo sfruttamento. Con il secondo in grado (non sempre ma spesso) di dettare legge. Come se l’inquilino imponesse le sue condizioni al padrone di casa.

Tutto inizia con la privatizzazione della società Autostrade. Decisa da Romano Prodi quando guidava l’Iri e messa a punto dallo stesso Prodi come presidente del Consiglio. Nel ‘98 a Prodi succede D’Alema e tocca a lui gestire la fase finale e decisiva dell’operazione. Nel 99 l’Iri mette finalmene in vendita Autostrade. Il 70 per cento andrà sul mercato e il 30 per cento finirà ad un’azionista forte. Quale? Sul tavolo del consiglio di amministrazione del 22 ottobre arriva una sola offerta, quella dei Benetton e di un gruppo di veicoli finanziari che costituiscono la cordata. Il governo D’Alema dà il via libera definitivo. Benetton paga 5.000 miliardi di lire (circa 2,5 miliardi di euro) mentre altri 8 mila miliardi verranno dalla collocazione in Borsa del 56 per cento della società. All’epoca l’operazione viene giudicata positivamente dal governo. Si voleva evitare che una delle principali infrastrutture del Paese finisse in mani straniere. A quel momento l’unica offerta alternativa era quella di un gruppo australiano che si ritirò alla vigilia del consiglio di amministrazione decisivo.
Vinse così la logica della tutela dell’italianità della società, una logica che ha spesso trovato estimatori sia a destra che a sinistra e che tanti guai ha creato all’economia italiana (come dimostra la vicenda Alitalia). Anche in questo caso una parte della sinistra plaude ai capitani coraggiosi. Benetton si sarebbe presto ripagato dei 2,5 miliardi investiti nel ‘99: nei 12 anni successivi Autostrade ha realizzato utili complessivi per 7,7 miliardi restituendo all’azionista forte l’investimento iniziale.
Nel 2003 la politica deve di nuovo intervenire. Si tratta di autorizzare la fusione delle diverse società della cordata Benetton. Per evitare che il bilancio di quella che incassava i pedaggi non fosse allineato con il bilancio di chi si era indebitato per rilevare Autostrade. Operazione che i concessionari preferirebbero avvenisse con un semplice decreto interministeriale, così come prevedeva la legge. Il ministro dell’Economia dell’epoca, Giulio Tremonti, si oppose a questa strada perché, si disse allora, quella fusione non poteva essere considerata un’operazione di routine. Il governo Berlusconi fu così costretto dal suo ministro dell’Economia ad inserire un emendamento nella legge Finanziaria approvata in zona Cesarini il 24 dicembre 2003.
Ma il vero scontro con i signori del casello comincia alla fine del 2014. Quando Maurizio Lupi, ministro dei Trasporti del governo Renzi, inserisce un emendamento all’articolo 5 dello Sblocca Italia che consente alle società di prorogare le concessioni al 2038. Mantenendo il business senza partecipare a gare. Se ne avvantaggia, oltre a Benetton, anche il gruppo Gavio, che controlla il 20 per cento della rete autostradale italiana. La battaglia che la mossa di Lupi scatena ha strascichi ancora oggi. Dopo la tragedia di Genova Di Maio ha accusato il governo Renzi per quella mossa favorevole ai concessionari. Ma proprio il Pd nel 2016, approvando il nuovo codice degli appalti aveva proposto e approvato con i 5 stelle l’abolizione della norma. E aveva cercato di introdurre l’obbligo per le società concessionarie di mettere a gara l’80 per cento dei lavori di manutenzione riservando alle aziende satellite in house solo il 20 per cento. Un dimezzamento rispetto al 40 per cento assegnato prima alle aziende dei concessionari. È la rivolta.
I signori delle autostrade scatenano i sindacati e minacciano migliaia di licenziamenti. Una pressione fortissima. Stefano Esposito, Pd, relatore del codice appalti al Senato, ricorda così: «C’era un clima molto pesante. Una sera sulla terrazza dell’Hotel Cesari, nel cuore di Roma, incontrai Giovanni Castellucci. L’ad di Autostrade fu molto sgradevole e arrogante. Ma non fu l’unico. I sindacati credettero alla minaccia dei concessionari e organizzarono manifestazioni di piazza con cartelli che si scagliavano contro la mia persona. Alla fine, dopo mesi di battaglie, anche dentro il Pd ci fu chi preferì cedere e tornammo alla ripartizione degli appalti 60/40».
Una sconfitta. I signori del casello avevano vinto e hanno continuato a farlo fino al dramma di Genova. Se è vero che né Graziano Delrio, né Danilo Toninelli sono riusciti a pubblicare sul sito del ministero gli allegati finanziari delle concessioni. Perché i politici passano in fretta, il tempo di una legislatura. Chi deve realizzare un’autostrada, invece, resta per decenni. E, soprattutto, deve andare d’accordo con tutti e con tutti fare accordi.

Riferimenti


Ricordiamo un articolo del 2016 ripreso da eddyburg.it "Benetton, nelle carte segretate l’autostrada dalle uova d’oro" su come le concessioni autostradali siano sono state fonte inesauribile di trasferimento di ricchezza dai contribuenti alle società private.

il manifesto, la Nuova Venezia, 15 agosto 2018. Il crollo del ponte di Genova è effetto ed emblema delle politiche territoriali basate sul dominio del “blocco edilizio» in Italia. Articoli di Paolo Berdini e Andrea Fabozzi e l'intervista di Alberta Pierabon a Carmelo Maiorana.


il manifesto
CITTÀ E TERRITORIO. DA 7,3 A 2,2 EURO A KM LA SPESA PER LA MANUTENZIONE
di Paolo Berdini

«Infrastrutture. La manutenzione della rete capillare che fa vivere il sistema Italia è stata cancellata dalle politiche dei tagli di bilancio. Non c’è comune italiano che abbia le risorse per la cura ordinaria e straordinaria del proprio patrimonio infrastrutturale»

Le città e i territori costano. Bisogna costruire infrastrutture, ponti, servizi. Bisogna poi tenere in vita e in sicurezza quelle opere. Servono risorse umane ed economiche. Nella storia delle nostre città e dei territori questa legge ineludibile è stata sempre rispettata. Il sistema della manutenzione era un elemento prioritario della vita nazionale e c’erano le istituzioni pubbliche che presidiavano quella fondamentale funzione. L’Upi, Unione provincie italiane afferma che la spesa per chilometro (ci sono 152 mila chilometri di strade regionali e provinciali) in pochi anni è passata da 7,3 a 2,2 euro a chilometro. Nulla.

La manutenzione della rete capillare che fa vivere il sistema Italia è stata cancellata dalle politiche dei tagli di bilancio. Non c’è comune italiano – si può’ affermare con certezza – che abbia le risorse per la manutenzione ordinaria e straordinaria del proprio patrimonio infrastrutturale. Servirebbero somme imponenti. Lo sviluppo lineare della rete stradale comunale supera il milione di chilometri. Sicurezza e decoro della vita di tutti i cittadini necessiterebbero di alcune centinaia di miliardi di euro. Ci sono soltanto tagli.

Il ponte di Genova non era un’opera minore. Era un’infrastruttura nevralgica del sistema paese. Evidentemente la follia liberista non si è fermata alle opere minute. E’ dilagata in ogni settore, comprese le opere affidate in concessione, come il sistema autostradale italiano. E mentre l’imponente sistema nazionale va in rovina continua l’assedio per costruire altre opere stradali. Domina una cultura imprenditoriale che comprende solo i processi incrementali e non si occupa del tema della manutenzione gettando il paese intero in un pericolosissimo vicolo cieco. E’ la stessa logica perversa che sta facendo marcire un immenso patrimonio immobiliare pubblico in ogni luogo urbano poiché non ci sono risorse per rimetterlo in vita. Evidentemente qualche potentato immobiliare o finanziario vuole acquisirlo a poco prezzo impoverendo tutti i cittadini.

La manutenzione attiva viene disprezzata a confronto della cultura del “nuovo”. Un tragico errore. Non c’è giorno in cui un chiacchiericcio insopportabile ci dice che il futuro è in concetti fumosi come le smart city. Penso con dolore di fronte a tante vite umane distrutte, a quali prospettive per le più innovative aziende e per i giovani potrebbero diventare realtà avviando l’istallazione di sensori che tengano sotto osservazione tutti i ponti stradali esistenti ponendoli a sistema attraverso tecnologie satellitari. Anas ha in programma di realizzare un tale sistema sui suoi 12 mila viadotti ma bisogna passare all’immenso patrimonio diffuso di 50 mila viadotti, molti di vecchia concezione. Servono centinaia di miliardi.

Facile a dirsi. Difficile a farsi in tempi di scomparsa del concetto di Stato e di assenza di risorse pubbliche.

Solo tre esempi. Un decreto ministeriale del 2001 prevedeva la costituzione del catasto della rete stradale italiana, opera prioritaria per poter programmare. Non è stato fatto nulla e per sapere qualcosa dobbiamo ricorrere a studi di Unioncamere.

Dopo ogni terremoto si sentono le solite chiacchiere. Intanto non è ancora avviato un concreto piano di messa in sicurezza del patrimonio edilizio esistente e il recente terremoto dei monti Sibillini ha finanziamenti modesti. Un intero territorio montano è abbandonato da due anni. Frane e smottamenti sono una costante in un territorio giovane e tormentato come il nostro. Manca ancora di essere completata la carta geologica e il censimento delle frane e il loro monitoraggio.

Il tragico crollo di Genova può essere uno spartiacque per avviare il paese sull’unica prospettiva di crescita, quella della messa in sicurezza e della manutenzione specialistica che apra al settore produttivo italiano la prospettiva di un salto culturale e tecnologico. Spiace che di fronte a questo scenario ci siano importanti forze imprenditoriali che hanno preso a pretesto questa immane tragedia per portare acqua alla realizzazione di grandi opere.

L’Italia ha certo bisogno di alcune opere che rendano moderno il sistema infrastrutturale. A patto di discuterne in modo maturo e trasparente con le comunità cittadine e – soprattutto – riversare ogni risorsa umana, progettuale e economica pubblica sulla prospettiva del salto tecnologico e culturale che il paese attende.

la Nuova Venezia
«LA MAGGIOR PARTE DEI NOSTRI PONTI STA MALE

E I CONTROLLI LI FANNO SOGGETTI INTERESSATI»
Intervista di Alberta Pierobon a Carmelo Maiorana

«Da quando l'ha saputo, ha passato ogni minuto della giornata a pensarci. Va da sé, la tragedia di Genova ha sconvolto tutti ma su di lui ha scavato un baratro. Perché nella sua testa, come in un film, si sono succedute le immagini della radiografia del ponte Morandi crollato e l'elenco delle responsabilità». Lui si chiama Carmelo Maiorana, ha 64 anni, non procede per ipotesi, piuttosto per analisi: è ingegnere strutturista, ordinario di Scienza delle costruzioni all'università di Padova. Ma prima delle questioni tecniche e delle relative spiegazioni, per forza si fa strada con angoscia un'analisi anche questa strutturale. Purtroppo strutturale, che riguarda un malcostume tutto italiano.

Come mai, professore, nessuno ha colto i segnali che hanno portato a questa tragedia?
«Questo è il problema. In Italia siamo indietro e tanto. La maggior parte dei nostri ponti ha necessità di un monitoraggio ininterrotto e di manutenzione costante. Operazioni che hanno dei costi».
Quindi è mancato il monitoraggio?
«Qui un altro problema. Io sostengo che chi si occupa dei controlli dovrebbero essere persone fuori dai giochi, persone che dicano la verità, libere di dire la verità. Invece spesso proprio chi è incaricato di monitorare, la verità non la dice: il perché è facile da spiegare. Perché dicendola teme di non avere più lavori di consulenza. E' semplice, ed è questo il malcostume».
Un malcostume che quando presenta il conto, lo presenta in vite, vite umane.
«Per questo sarebbe necessario, fondamentale, che chi si occupa del monitoraggio avesse il coraggio di mettere sotto accusa chi fa male i lavori, e senza paura. Sarebbe fondamentale che fossero persone fuori dai giochi».
In Italia com'è lo stato dei ponti, in generale?
«La maggior parte risale al Dopoguerra, e il calcestruzzo armato dopo 50-60 anni ha bisogno di essere un osservato speciale».
A cosa ha pensato appena sentita la notizia dello spaventoso crollo? A quale causa?
«Subito ho pensato a un cedimento di fondazione. Invece così non è stato. Si è visto chiaramente dalle prime immagini: il pilone centrale è rimasto lì, non è crollato. Ho scrutato immagini e foto, tutto quello che ho trovato».
Quindi qual è la sua spiegazione?
«Quel ponte era una struttura fortemente degradata. Dopo 50 anni gli attacchi chimici e atmosferici hanno fatto la loro parte, a maggior ragione vicino al mare. Solfati e cloruri causano l'erosione del copriferro, la parte esterna del calcestruzzo armato. Dunque le armature rimangono a nudo e l'azione corrosiva avanza. E il pericolo di crollo diventa enorme. Questo è successo. Altro elemento che emerge è l'apparente assenza di segni premonitori, quindi di rottura fragile o dovuta a instabilità: questo fa presumere che sia avvenuta una crisi instabile delle parti compresse delle strutture di sostegno. E il crollo per instabilità dell'equilibrio è improvviso a meno che il manufatto non sia stato monitorato per lungo tempo con apposita strumentazione, anche in grado di percepire le emissioni acustiche date da eventuali microfessurazioni in atto. Per questo sono fondamentali il monitoraggio e la manutenzione: la durabilità delle strutture è un tema di cui ci stiamo occupando, le tecnologie ci sono».

Se ne vedono tanti ponti in queste condizioni?
«Sì, tanti. Troppi. Li vedi, tutti arrugginiti, malconci».
Come si possono ripristinare?
«O si smontano e direi che è una soluzione improbabile oltre che estremanente costosa o si ripristinano con varie modalità, ripeto le tecnologie ci sono».

il manifesto
QUEI LAVORI URGENTI ATTESI DA VENT'ANNI

di Andrea Fabozzi

«Il mostro di Genova. La caccia alle responsabilità parte dal pessimo stato degli "stralli" denunciato da tempo. Il governo sembra puntare l'indice sul gestore Autostrtade per l'Italia. Che ai genovesi disse: il ponte Morandi è malato, ma non crolla. Per averlo ricordato, il movimento No Gronda finisce sotto accusa. Eppure la grande opera non prevede l'abbattimento del vecchio viadotto

Era prevedibile, previsto, annunciato. Come sempre nelle tragedie, ma qui si tratta di un ponte alto 90 metri, largo 18 e lungo oltre un chilometro le cui cattive condizioni erano impossibili da ignorare. Non le ignorava Autostrade per l’Italia, la società concessionaria, che parlava di «intenso degrado della struttura» già sette anni fa. Anche se ieri ha assicurato che «non c’era nessun elemento per considerare il ponte pericoloso». E invece non si contano i pareri di ingegneri, strutturisti e tecnici delle costruzioni in genere che da tempo lanciavano allarmi sullo stato di salute degli “stralli”, i tiranti di acciaio che in questo particolare tipo di ponte sono chiusi nel cemento armato precompresso. Tant’è che, non fosse crollato ieri, il pilone al centro della ponte sarebbe stato sottoposto a un colossale lavoro di ristrutturazione da oltre 20 milioni di euro. Un’opera di retrofitting, secondo la definizione della gara di appalto chiusa a giugno, in pratica il tentativo di ammodernare una struttura vecchia di cinquant’anni.

Era l’unico ponte “strallato” di tutta la rete autostradale italiana, e «la statica di un ponte di questo tipo dipende fondamentalmente dallo stato di salute degli stralli», ha spiegato ieri il direttore dell’Istituto della costruzioni del Cnr Occhiuzzi. I tiranti del Morandi si corrodevano e perdevano tensione più velocemente di quanto era stato previsto all’epoca della costruzione, quando oltretutto il volume di traffico attuale era inimmaginabile. Tant’è che negli anni Novanta i cavi di uno dei tre piloni da 90 metri erano già stati rinforzati e nel frattempo alcuni cavi esterni erano stati montati per contenere i pericoli. C’era stata anche l’immancabile interrogazione parlamentare, del senatore genovese Rossi, che nel 2016 chiedeva senza risposta cosa il governo intendesse fare di fronte al «preoccupante cedimento dei giunti».

Nel marzo di nove anni fa, nel corso di uno dei dibattiti pubblici che si tennero a Genova sul progetto della «Gronda autostradale» a ponente, che avrebbe sottratto parte del traffico al ponte Morandi, un rappresentante di Autostrade spiegò che il viadotto «costa 250mila euro l’anno di manutenzione straordinaria». E poi aggiunse: «Il ponte non sta benissimo, ma non è ancora morto. E non crolla». Due mesi dopo davanti alle commissioni consiliari di Genova, i rappresentanti di Autostrade fornirono altre rassicurazioni sulla sicurezza e stabilità dell’opera a seguito dell’intervento degli anni Novanta (come si legge nel documento conclusivo del dibattito pubblico). Le rassicurazioni sono state poi riprese dai «No Gronda», e ieri un vecchio post sul sito del Movimento 5 Stelle in cui si parlava della «favoletta dell’imminente crollo del ponte Marconi» è stato indicato come prova delle responsabilità di chi si è opposto alla nuova opera. Resta il fatto che l’ultimo progetto della Gronda non prevede l’abbattimento del ponte Marconi.

A spingere per la nuova grande opera è ovviamente Autostrade, la società il cui 90% del capitale è nelle mani del gruppo Atlantia, maggiore azionista Benetton – ieri in borsa ha bruciato oltre un miliardo di capitalizzazione perdendo oltre il 5%. Immediatamente dopo la tragedia, i ministri Salvini e Toninelli hanno aperto la caccia ai responsabili: «Pagheranno caro». Il ministro grillino delle infrastrutture ha avvertito che «la manutenzione a qualsiasi livello compete ad Autostrade mentre ai tecnici del ministero compete seguire gli interventi straordinari». Straordinario era appunto l’intervento che, più di vent’anni dopo, avrebbe dovuto completare la messa in sicurezza. Straordinario è pagato con fondi pubblici. Mentre i lavori in corso al momento del crollo, si è chiarito nel corso della giornata, non erano altro che un intervento per «riqualificare» le barriere di sicurezza, nulla a che vedere con la statica.

La società concessionaria Autostrade per l’Italia nel 2017 ha registrato ricavi per quasi quattro miliardi. Merito quasi esclusivo dei pedaggi al casello. Una sorta di tassa i cui ricavi però vanno solo in minima parte allo stato. Come spiega l’ultimo rapporto al parlamento dell’autorità di regolazione dei trasporti, sono cresciuti del 35% negli ultimi otto anni.

Internazionale, 6 agosto 2018. Si continua a sottovalutare il cambiamento climatico e le ripercussioni che questo avrà su risorse fondamentali come acqua e cibo. Dovremmo mirare a una riduzione drastica delle emissioni, ma andiamo avanti come se nulla fosse. Aspettiamo un miracolo o contiamo sul poterci comprare acqua, cibo ed energia a qualsiasi prezzo? (i.b.)

Nell’emisfero nord è un’estate apocalittica: incendi fuori controllo in tutto il circolo polare artico (per non parlare di California e Grecia), ondate di calore di varie settimane con temperature record, acquazzoni torrenziali e inondazioni bibliche. Eh già, si tratta di proprio di cambiamenti climatici.

Non è assurdo essere spaventati, poiché le estati saranno sempre peggiori nei prossimi dieci anni, e molto peggiori nei dieci anni successivi. Dei tagli drastici e immediati alle emissioni di gas serra oggi potrebbero evitare che le estati degli anni quaranta del duemila siano anche peggiori, ma non potrebbero comunque fare molto per alleviare la crescente sofferenza dei prossimi vent’anni. Buona parte di queste emissioni si trova già nell’atmosfera.

E la verità è che non assisteremo ad alcun “taglio drastico e immediato delle emissioni di gas serra” nel prossimo futuro. Le cose peggioreranno, e di molto, prima di migliorare, se mai miglioreranno. Ed è quindi probabilmente venuto il momento di porsi l’ovvia domanda: come andranno a finire le cose?

Sistematica sottovalutazione
La peggiore delle ipotesi non è l’unica ipotesi, e neppure la più probabile, ma potrebbe essere utile capire a che punto la situazione potrebbe diventare grave se ci lasceremo sfuggire tutte le scappatoie possibili nel nostro cammino verso l’inferno. Vorrei a questo punto citare un’intervista che ho realizzato dieci anni fa con il dottor Dennis Bushnell, scienziato capo del centro studi Langley della Nasa. Quel che ha detto vale ancora oggi.

Bushnell parlava degli “effetti di retroazione” (lo scioglimento del permafrost, il riscaldamento degli oceani, le grandi emissioni di diossido di carbone e di metano). Dal momento che non possono essere pienamente inclusi nei modelli informatici del clima, simili fenomeni portano a una sistematica sottovalutazione dei riscaldamenti futuri, diceva. Prima di venire al dunque.

“Se prendiamo in considerazione tutti questi effetti di retroazione, le stime prevedono che entro il 2100, invece di un aumento tra i due e i sei gradi (nella temperatura media globale), è possibile un aumento compreso tra i sei e i 12 gradi. Un simile cambiamento delle temperature modificherebbe l’andamento di circolazione degli oceani e li renderebbe in buona parte anossici, molto poveri d’ossigeno, il che poi farebbe proliferare i batteri che producono solfati d’idrogeno. Il loro aumento provocherebbe l’assottigliamento dello strato di ozono, rendendo difficile la respirazione. Questo avverrebbe entro il 2100”.

Un mondo senza ossigeno
Dennis Bushnell si riferiva al “modello oceanico di Canfield”, che oggi è seriamente sospettato di essere la causa di quattro delle cinque grandi estinzioni di massa. Tutti sono al corrente dell’enorme asteroide che ha colpito il golfo del Messico 65 milioni di anni fa, portando all’estinzione dei dinosauri. Meno persone sanno che non c’è alcuna traccia d’impatto con un asteroide nelle altre quattro “grandi morie”, avvenute rispettivamente 444, 360, 251 e 200 milioni di anni fa. Cosa è accaduto in questi casi?

Uno degli elementi comuni è che il pianeta era all’epoca insolitamente caldo, ma il vero motivo era l’anossia degli oceani profondi. Non c’era ossigeno e quindi nessuna forma vivente che utilizza ossigeno. Quando gli oceani sono molto caldi, si interrompe il capovolgimento meridionale della circolazione atlantica (come la corrente del Golfo), che porta negli abissi grandi quantità di acqua di superficie ricca di ossigeno, e gli oceani si si dividono in uno strato di superficie con ossigeno e in uno strato anossico nelle profondità.

Ma lì esistevano già forme viventi: solfobatteri che solitamente si nascondono nelle fessure, lontano dall’ossigeno che li distruggerebbe. In un oceano anossico, escono fuori e si moltiplicano per poi, con le giuste condizioni, risalire in superficie e uccidere tutta le forme di vita marine che vivono d’ossigeno.

Ma non solo: l’acido solfidrico, un prodotto di scarto del loro metabolismo, sale nell’atmosfera, distrugge lo strato d’ozono, e si diffonde sulla Terra dove distrugge a sua volta buona parte delle forme di vita. Questo è accaduto non una bensì almeno quattro volte in passato.

In teoria, riscaldando il pianeta stiamo creando le giuste condizioni perché questo accada di nuovo, ma in pratica le probabilità non sono così alte. Non ci sono stati eventi di “Canfield” negli ultimi duecento milioni di anni e, tanto per cominciare, quando sulla Terra si sono verificate in passato estinzioni di massa la temperatura era molto più alta.

Anche se eviteremo questo destino, potremmo essere comunque ben avviati verso una nuova strage, anche di essere umani. Il cibo è l’elemento chiave: mano a mano che il caldo rallenterà la produttività e trasformerà in deserti intere regioni, è ipotizzabile che ci saranno carestie di massa, anche se una vera e propria estinzione appare improbabile. C’è ancora una possibilità che reagiamo abbastanza velocemente da arrestare tutto questo molto prima che si verifichi una vera e propria carneficina. Quando ci si occupa del futuro, si può fare affidamento solo sulle probabilità, e anche queste sono molto scivolose.

La situazione è già abbastanza fosca. Le notizie sono cattive, naturalmente, ma quando il gioco si fa molto serio, è bene sapere qual è la posta in gioco.

(Traduzione di Federico Ferrone)


Tratto dalla pagina qui raggiungibile

4 agosto 2018. Rigenerazione per chi? Quando le parole smettono di cogliere la realtà dei fatti e rispondere alla sfide dei problemi reali, da quelli ambientali a quelli sociali, diventano utili solo alla propaganda dei poteri forti, che in Italia sono gli interessi immobiliari. (i.b.)

Ho letto con piacere l'intervista all'avv. Bruno Barel sulla Nuova Venezia di lunedì 23 luglio 2018. La materia della rigenerazione urbana non è di quelle che appassionano immediatamente, ma ignorarla significa risvegliarci in città diverse da quelle che abbiamo lasciato quando siamo andati a dormire.

La prospettiva è sicuramente interessante: demolizione e riqualificazione in terreni marginali (prevalentemente a Porto Marghera) mediante la realizzazione di edifici-torre dalla forte valenza iconoca (tall) e con punti di vista o di belvedere sulla più bella città del mondo (quindi facilmente commercializzabili). Lo stesso Piano Strategico metropolitano 2018-2020 approvato sempre lunedì 23 luglio dalla Città metropolitana porta in grembo il germe di una futura "città verticale". Quindi l'argomento è attuale!

Ma si tratta di un approccio corretto?
Quello che è stato fatto, o che è in progetto di fare, in città come Barcellona, Monaco, Beirut, ecc., può essere tranquillamente replicato a Venezia?

Troppo spesso ci dimentichiamo che le nostre due città (Venezia e Mestre) sono incastonate in un habitat unico: la laguna di Venezia, che avrebbe tutte le caratteristiche per diventare un parco nazionale (il parco nazionale per antonomasia dell'italianità, dove ambiente e opera dell'uomo si sposano in maniera incredibile!) ma che, per le piccolezze della prima e della seconda Repubblica, non ha nemmeno la dignità di parco regionale. Verrebbe mai in mente di costruire una muraglia di edifici-torre tutto attorno al parco della Camargue o al promontorio del Circeo?

E' questo il punto.

Per "gronda lagunare" intendiamo poche centinaia di metri dal bordo della laguna o tutto lo sky line che si può osservare dalla Città Antica?

Il Comitato per Patrimonio Mondiale dell'UNESCO non ha dubbi e relativamente al sito "Venezia e la sua Laguna", durante la sessione di lavori svoltasi a Istanbul nel 2016, ha chiaramente sentenziato: "di rivedere la Buffer Zone proposta per il sito in coerenza con la revisione tecnica dell'ICOMOS e di sottoporla al Centro del Patrimonio Mondiale quale modifica minore dei confini". In altri termini, attorno al sito "Venezia e la sua Laguna" (che sostanzialmente termina poche centinaia di metri a ovest della linea di gronda) l'UNESCO prevede una fascia di rispetto di alcuni chilometri ("Buffer Zone") dove non vigono le rigide regole di tutela del sito, ma dove i grandi progetti infrastrutturali e le modifiche del paesaggio devono essere sottoposte ad approvazione, proprio per non comprometterne l'Eccezionale Valore Universale.

Ma in realtà cosa sta succedendo?

Per il rischio che i grossi progetti infrastrutturali in programma alle spalle di Venezia possano essere rallentati da ulteriori procedure di approvazione, il Sindaco Brugnaro ha proposto, diciamo così, di "annacquare" la Buffer Zone rendendola talmente ampia da avere un'efficacia coercitiva praticamente inesistente: tutti si ricorderanno la proposta di farla arrivare fino alle Dolomiti; questo non è successo, anche se ora arriva fino ad Asolo e Montebelluna (ad insaputa degli ignari abitanti!).

Questa smisurata area cuscinetto (che così com'è non serve a nulla) va sicuramente ridimensionata, per fare in modo che le future edificazioni nell'entroterra veneziano si possano confrontare con il "patrimonio culturale paesaggio" (perché il paesaggio è patrimonio culturale ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio) e con il valore degli habitat circostanti.

Questo potrebbe essere fatto magari estendendo il vincolo paesaggistico (ex legge 1497/39) fino a ricomprendere tutte le porzioni di territorio visibili da Venezia, in modo che possa essere sondato l'impatto di futuri progetti come Venus Venice, Pili, Tessera City o il raddoppio dell'aeroporto, sulla città lagunare. E anche la terraferma ne avrebbe un vantaggio, perché, per esempio, sarebbe valutata la compatibilità paesaggistica dell'edificazione di grattacieli nell'area dell'ex ospedale, area su cui insisteva l'antico Castelvecchio di Mestre (tematica che come rappresentante dell'Istituto dei Castelli mi tocca in prima persona).

Questa sfida lancio all'avv. Barel: rigenerazione urbana non può voler dire solo riduzione di consumo di suolo e costruzione in altezza, ma deve poter significare anche qualcos'altro, per esempio il recupero del patrimonio edilizio esistente. Si pensi alle isole lagunari (San Giacomo in Paludo, S. Angelo della Polvere, S. Giorgio in Alga, Poveglia, ecc.) che potrebbero ospitare attività economiche innovative o all'immenso patrimonio immobiliare privato inutilizzato in centro storico. O forse l'utilizzo alberghiero di queste strutture è ormai assodato e sono ambiti urbani dove non si può più sperimentare?

E la stessa valorizzazione dell'area dell'Umberto I potrebbe essere l'occasione (magari osando qualche ricostruzione di edifici storici vista l'eccezionalità del caso) per ridare a Mestre quel centro a misura d'uomo che le è stato rubato dagli immobiliaristi degli anni Sessanta. Quegli stessi immobiliaristi i cui nipotini ora si preparano a tornare alla carica, questa volta non demolendo città, ma rubando paesaggio.

L'autore è il Consigliere Nazionale dell'Istituto Italiano dei Castelli.

Testo integrale inviato dall'autore a eddyburg dell'articolo pubblicato in forma ridotta sulla Nuova Venezia del 4 agosto 2018.

Time, 26 Luglio 2018. La rivista statunitense fa il punto sul sovraffollamento turistico di alcune tra le principali destinazioni europee, citando i provvedimenti presi dai governi locali per contenere il fenomeno. Con sintesi in italiano e commento. (c.z.)


L’articolo del Time si sofferma sulla crescita del turismo internazionale in Europa e sulla “frustrazione” che essa comincia a generare nelle popolazioni locali, che ne devono sostenere le ripercussioni. La fede nel turismo come “salvavita economico” ha infatti indotto governi ed amministrazioni locali a promuovere ed incentivare per anni tale forma di sviluppo, competendo per attrarre navi da crociera, nuove linee aeree, nuovi hotels, senza porsi il problema delle conseguenze che ciò avrebbe comportato per i territori. Conseguenze che oggi, tramite singoli provvedimenti locali o misure fiscali, stentano ad essere effettivamente risolte. Tra i casi descritti dal giornale, ci sono Barcellona e i tentativi compiuti dal sindaco Ada Colau per porre delle limitazioni alla sua capacità ricettiva; Dubrovnik, Amsterdam, la Grecia, l’Islanda, le Lofoten Islands in Norvegia. E, naturalmente, Venezia.

Il ritratto che la giornalista fa della situazione in Laguna appare tuttavia poco approfondito e a tratti fuorviante. Si limita infatti a riportare senza una verifica fattuale le dichiarazioni dell’assessore al turismo, Paola Mar, e cita come interventi compiuti dall’amministrazione “la restrizione alla costruzione di nuovi hotels e ristoranti take-away, la costruzione di corsie preferenziali per i residenti sui mezzi pubblici, un piano per deviare i flussi nei giorni estivi più congestionati e l’assunzione di 22 stewards per educare il comportamento dei turisti”. Misure che in realtà, quando non rimaste esclusivamente sulla carta e contraddette in maniera sostanziale nella pratica (basti pensare alle migliaia di posti letto in costruzione a Mestre), si rivelano di scarso o nullo effetto sulla mitigazione dell’impatto turistico cittadino. L’articolo lascia inoltre intendere che l’installazione di tornelli negli accessi principali della città costituisca un effettivo tentativo di regolamentazione del fenomeno da parte dell’amministrazione, e che ad essa i residenti Veneziani si oppongano o perché contro-interessati economicamente o per un generico rifiuto della chiusura, senza alcuna riflessione critica circa il significato e l’efficacia di un simile provvedimento.

Nel complesso, quindi, un articolo più utile ad avere una prospettiva d’insieme sull’overtourism che non ad approfondire i singoli contesti, e la cui rilevanza consiste piuttosto nel contribuire a trasmettere al pubblico estero un’immagine meno patinata delle principali destinazioni europee. (c.z.)



EUROPE MADE BILLIONS FROM TOURISTS. NOW IT'S TURNING THEM AWAY
di Lisa Abend

In Giovanni Bonazzon’s paintings, Venice is a vision of serenity. Bridges arch gracefully over rippling canals, sunlight bounces off flower-filled balconies, and not a single human mars the tranquility. Bonazzon’s daily vista is not as tranquil, however. An artist who paints and sells watercolors from an easel set up near San Marco Square, he has a ringside seat to the selfie-posing, ice-cream-licking hordes who roil their way daily toward the Doge’s Palace, and he readily agrees that tourism is killing his hometown. Yet when he heard that Venice Mayor Luigi Brugnaro had, in the run-up to a busy weekend at the beginning of May, installed checkpoints intended to block arriving visitors from especially crowded thoroughfares (while allowing locals through), Bonazzon was dismayed. “Yes, they should control the tourists,” he says. “But they shouldn’t close Venice. We’re a city, not a theme park.”

That’s a refrain echoing in a growing number of European cities. The neoclassical gems that once made up the grand tour have been stops on package tours since the 19th century. But it’s only over the past decade or so that the number of travelers to these and other must-see destinations risks subsuming the places. Around 87 million tourists visited France in 2017, breaking records; 58.3 million went to Italy; and even the tiny Netherlands received 17.9 million visitors.

It’s happening nearly everywhere. Asia experienced a 9% increase in international visitors in 2016, and in Latin America the contribution of tourism to GDP is expected to rise by 3.4% this year. Even a devastating hurricane season couldn’t halt arrivals in the Caribbean, where tourism grew 1.7% in 2017. (The U.S., on the other hand, has seen foreign tourism drop, partly because of a strong dollar.)

But Europe is bearing the brunt. Of the 1.3 billion international arrivals counted by the U.N. worldwide last year, 51% were in Europe–an 8% increase over the year before. Americans, in particular, seem drawn to the perceived glamour and sophistication of the Old Continent (as well as the increased spending power of a strong currency). More than 15.7 million U.S. tourists crossed the Atlantic in 2017, a 16% jump in the space of a year.

With tourism in 2018 expected to surpass previous records, frustration in Europe is growing. This past spring witnessed antitourism demonstrations in many cities throughout Europe. On July 14, demonstrators in Mallorca, Spain, conducting a “summer of action” greeted passengers at the airport with signs reading tourism kills Mallorca.

Now, local governments are trying to curb or at least channel the surges that clog streets, diminish housing supplies, pollute waters, turn markets and monuments into no-go zones, and generally make life miserable for residents. Yet almost all of them are learning that it can be far more difficult to stem the tourist hordes than it was to attract them in the first place.

The reasons for this modern explosion in tourism are nearly as numerous as the guys selling selfie sticks in Piazza Navona. Low-cost airlines like easyJet, Ryanair and Vueling expanded dramatically in the 2000s, with competitive ticket prices driving up passenger numbers. From 2008 to 2016, the cruise-ship industry in Europe exploded, growing by 49%. Airbnb, which launched in 2008, made accommodations less expensive. Rising prosperity in countries like China and India has turned their burgeoning middle classes into avid travelers. Even climate change plays a role, as warmer temperatures extend summer seasons and open up previously inaccessible areas.

But the cities and local governments here also share responsibility for the boom, having attempted to stimulate tourism to raise money. In the decade since the financial crisis began, tourism has come to be seen by European countries as an economic lifesaver. The industry generated $321 billion for the E.U. in 2016 and now employs 12 million people. Governments in cities like Barcelona spent heavily to attract tourist dollars. “For decades, the government here was using tons of public money to attract cruise lines, new hotels, new airlines,” says Daniel Pardo, a member of the city’s Neighborhood Assembly for Sustainable Tourism. “But they didn’t think about the repercussions.”

Barcelona is one of the cities that got more than it bargained for. Every day in high season now, four or five cruise ships dock in the Catalan capital, spilling thousands of passengers at the base of the famous Rambla Boulevard. “You can’t walk there,” Pardo says. “You can’t shop at the Boquería market. You can’t get on a bus, because it’s packed with tourists.”

Over the past few years, Barcelona has begun taking action to improve tourist behavior, like fining visitors who walk around the city center in their bathing suits. The current mayor, Ada Colau, has dramatically intensified that action. In January 2017, her government prohibited the construction of new hotels in the city center and prevents their replacement when old ones close. Cruise ships that stop for the day may struggle to get docking licenses, as the city prioritizes those that begin or end their journey in Barcelona. Tour groups can now visit the Boquería market only at certain times, and the city is considering measures to ensure locals can still buy raw ingredients there–and not just smoothies and paper cones of ham.

“There is a risk that some areas of the city, like Sagrada Familia or the Boquería, will become amusement parks,” says Agustí Colom, the city councilman for tourism. “But we’re still in time to save them. We understand that Barcelona cannot become an economic monoculture.”

Other places are also turning to the law to reduce the number of globetrotters. Ever since its medieval center stood in for King’s Landing on Game of Thrones, the walled Croatian city of Dubrovnik has been overwhelmed by fans of the HBO series. In 2017, Dubrovnik limited the number of daily visitors to 8,000; its new mayor now seeks to halve that amount. Amsterdam, whose infamous drug culture and picturesque canals drew at least 6 million foreign visitors to the city in 2016, has adopted a carrot-and-stick approach. The Dutch capital has introduced fines for rowdy behavior and banned the mobile bars known as “beer bikes,” while simultaneously attempting to lure visitors to less congested sites like Zandvoort, a coastal town 17 miles from the city center that has been rebranded Amsterdam Beach, through apps and messaging systems.

The city has also raised its tourist tax to 6%, joining several other cities and some countries that aim to control visitor numbers with higher levies. At the start of 2018, Greece imposed its first tourist tax, which ranges from roughly 50 cents a night to four euros. In Iceland, which receives nearly seven times as many visitors as it has residents, lawmakers will consider a tax this fall on tourists coming from outside of Europe.

Yet even in liberal Europe, not every government is willing to raise taxes. Authorities in the Lofoten Islands in northern Norway beseeched the government to raise levies after more than a million tourists visited in 2017, thanks in part to the movie Frozen. The 25,000 inhabitants found their single main road and its sparse facilities completely overwhelmed.

When Norway said no to higher taxes, the locals were forced to take matters into their own hands. “We’ve organized community volunteers to build trails and haul trash,” says Flakstad Mayor Hans Fredrik Sordal. “In summer, we’re opening the school toilets to the public. And we’re asking tourists for volunteer contributions.”

For locals in these places, anger at the ever-expanding rates of tourism can be placated by the money there is to be made out of catering to them. The advent of Airbnb has created a revenue stream for city-center residents with spare bedrooms and second properties. The company sees itself as an answer to tourism overcrowding rather than a net contributor. “We are convinced our community can be a solution to mass tourism,” wrote company founder Nathan Blecharczyk in a May report, “and that it enables sustainable growth that benefits everyone.”

Yet some people benefit more than others. Canny investors buy up residential properties in desirable locations and convert them into tourist apartments, provoking housing shortages and pushing up prices. Again, some cities have taken action. Copenhagen, for example, has limited the number of days per year that owners can rent out their residences. Barcelona has targeted Airbnb itself, forcing it to share data about owners and remove listings for unlicensed apartments. It has also launched a website where visitors can check if a potential apartment is legally registered. But speculators are hard to deter, especially as Airbnb doesn’t require owners to reside in housing that is rented through the site.

Balancing the needs of locals with the demands of tourists is a challenge across Europe but perhaps nowhere more so than in Venice, where more than 20 million tourists crowd the piazzas and canals every year. When the city’s mayor attempted to install checkpoints to potentially shut main thoroughfares to tourists, the initiative was greeted by protests from locals, who saw the surprise measure as an attempt to close the city. “We tried to do something for the city, for the residents,” laments Paola Mar, Venice’s deputy mayor for tourism. “This measure was for them, for their safety. But in Italy, you’re only good if you do nothing.”

Venice has not done nothing. The local government has restricted the construction of new hotels and takeout restaurants, and created a fast lane for residents on public transport. It has a plan in place to ease congestion by diverting foot and boat traffic on exceptionally crowded days this summer, and now employs 22 stewards in vests that read #EnjoyRespectVenezia to prevent tourists sitting on monuments, jumping in the canal, or otherwise misbehaving.

But imposing too many restrictions risks alienating the residents who depend on access to tourist dollars; across the E.U., 1 in 10 nonfinancial enterprises now serves the industry. In Venice, a proposal to ticket the entrance to San Marco Square has run into resistance from shopkeepers. And the subject of restricting cruise-ship access is a touchy one. “You have to know, 5,000 people work with the cruise ships,” says Mar, who notes that the city council has asked the government to move large ships from the San Marco basin. “If we want people to stay in Venice, they have to have jobs.”

And therein lies a hint of what is at stake. Venice has been losing residents for decades, dropping from nearly 175,000 in 1951 to around 55,000 now. The city seems close to uninhabitable in certain areas–its streets too crowded to stroll down, its hardware shops and dentist offices replaced by souvenir stalls. The same cycle threatens Barcelona and Florence; tourism drives locals out of the center, which then leaves even more spaces to be colonized by restaurants and shops that cater to tourists. Annelies van der Vegt understands the sentiment. A musician, she lives in the center of Amsterdam but is tired of finding entire tour groups on her doorstep, gaping at her 17th century house. “I’m thinking of moving to Norway,” she says.

When the residents leave and the visitors take over, what is left behind can lose some of its charm. One day in May, Susana Alzate and Daniel Tobón from Colombia waited on Venice’s Rialto Bridge as first a gaggle of Israeli Orthodox Jews, then a tide of Indian Sufis jostled by. Finally, the couple found a slot on the railing, struck a pose and shot their Instagram story. “It’s beautiful,” said Alzate as she gazed out on the Grand Canal. “But I would never come back. Too many tourists.”

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

Venezia camb!a, 31 luglio, 2018. La giunta Brugnaro complice della speculazione immobiliare trasforma fraudolentemente le regole urbanistiche vigenti in strumenti per la valorizzazione immobiliare. Con riferimenti

La recente delibera della Giunta del Comune di Venezia (del 26 luglio) che avvia l’approvazione di una parte del nuovo Piano degli Interventi, sostanzialmente il nuovo Piano Regolatore, se approvata dal Consiglio Comunale creerebbe un gravissimo precedente di illegittimità.

Su un totale di 587 proposte presentate se ne estrapolano 110 che vengono ritenute prioritarie per accordi pubblico-privati, di queste solo 22 vengono ritenute “di interesse pubblico” e però 100 sono comunque avviate all’approvazione in base ad Accordi proprietari-Comune che consentono l’approvazione delle proposte in deroga alle norme urbanistiche vigenti.

Gli Accordi tra Comune e soggetti privati, in base alla legge urbanistica del Veneto del 2004 (art. 6), consentono di “assumere nella pianificazione progetti e iniziative di rilevante interesse pubblico”. Le approvazioni in deroga agli strumenti urbanistici sono sempre state casi eccezionali da votare prima in Consiglio Comunale e poi da ratificare in consiglio provinciale. Ma così l’ “Urbanistica Contrattata” caso per caso con i privati diventa un sistema di pianificazione generale di interessi privati approvati in deroga, in contrasto con norme e vincoli senza modificare i piani vigenti.

Peraltro, le proposte vengono sintetizzate in poche righe che non consentono minimamente ai consiglieri comunali – che dovrebbero avere comunque la possibilità di accedere agli originali delle proposte e delle istruttorie- di valutarne contenuti e l’ipotetico “rilevante interesse pubblico” che solo può consentire al Consiglio Comunale le singole approvazioni in deroga specifiche.

Già sulla stampa emergono numerosi i casi di progetti già negati negli anni scorsi perché clamorosamente in contrasto con le normative vigenti, progetti che ora vengono riproposti e giudicati “prioritari”.

Viceversa le proposte, come quelle del Forum Arsenale, di Venezia Cambia e dell’Ecoistituto del Veneto, dichiaratamente presentate con riguardo esclusivamente a interessi pubblici, e senza diretti interessi commerciali dei proponenti, pertinenti alla strumentazione urbanistica ora in discussione, vengono tutte classificate in una categoria ‘evanescente’ denominata IDEE che le confina in una sorta di limbo, posticipandone l’esame solo dopo l’esaurimento della procedure relative a tutte le altre proposte rispondenti a interessi economico-commerciali privati.

E’ da sperare e chiedere che ora (dopo un anno di ritardo), senza prima una ampia discussione di tutta la città e del consiglio comunale, la giunta non avvii l’elaborazione dei singoli Accordi con i privati.

Il Comune di Venezia ha avuto una lunga e meritoria storia nella elaborazione urbanistica che ha sempre coinvolto nella partecipazione e discussione, anche molto accesa, tutte le forze sociali, culturali, economiche, politiche e le municipalità.

Questa città non merita, rispetto alla sua storia urbanistica, un tale degrado di merito, di mancata partecipazione e di subordinazione dei veri interessi pubblici attinenti alla pianificazione urbanistica generale a quelli dei singoli privati.

riferimenti
Link al testo della delibera n.273 del 26 luglio 2018 della giunta comunale di Venezia.
Link all'Allegato 1 con la valutazione delle proposte intervenute e i progetti approvati con il Piano degli Interventi.

Proposta di micro progetto per scoprire il verde nascosto di Venezia, promuovere spazi pubblici per i residenti ed educare sull’importanza del verde per la salute, vivibilità e riduzione CO2. Vota il nostro video per aiutarci realizzarlo!

«Abitare il verde a Venezia» è una la proposta per un microprogetto per il bando «100.000 EURO PER LA SOSTENIBILITÀ», nell’ambito dell’iniziativa NOPLANETB. Sviluppata da eddyburg.it e Zoneonlus in collaborazione con AmbienteVenezia e il circolo culturale Peroni, due associazioni attive a Venezia, l’idea nasce dalla volontà di utilizzare “il verde” come strumento per restituire ai residenti degli spazi pubblici vivibili. I “campi”, gli spazi pubblici per eccellenza di Venezia, si presentano per la maggior parte come distese selciate, privi di verde e sempre di più sacrificati a plateatico a consumo dei turisti, sottraendo spazio vitale agli abitanti, una specie oramai in via di estinzione.

Se nel passato Venezia era circondata interamente da campi verdi e pascoli, nel corso dei secoli queste aree sono state gradualmente ricoperte dalla pavimentazione e le zone verdi sono concentrare nella zona dei Giardini e Sant’Elena, oppurre nelle corti private, inaccessibili ai più e nascoste dietro a muri e cancelli. Con l’aumento dei mezzi acquei a motore, dalle grandi Navi ai motoscafi e vaporetti, l’inquinamento a Venezia sta raggiungendo valori molto alti, nonostante sia una città sostanzialmente priva di automobili. Venezia, è la seconda città del Veneto per numero più alto di sforamenti dei limiti di legge di sostanze inquinanti l’aria e nessun provvedimento è stato ancora considerato. Nell'ambito di questo progetto si vuole anche sensibilizzare la cittadinanza a questo problema, in quanto il verde costituisce un importante deterrente all'inquinamento atmosferico.

Questo progetto vuole contrastare l’idea di una città irrimedialmente destinata al consumo turistico e allo sfruttamento delle risorse ambientali. Attraverso alcune piccole attività, si vuole contribuire a restituire dignità a Venezia, come la grande marcia del 10 giugno scorso invocava, sia con la promozione di spazi pubblici vivibili, sia attraverso incontri per comprendere meglio la città e promuovere azioni che la rendano più a misura di chi la vive e nel rispetto del suo ecosistema.

Queste le attività principali previste:

1. Verde nascosto: un concorso fotografico aperto a tutti per scoprire aree e angoli di vegetazione della città. Gli abitanti sono invitati a documentare con uno scatto fotografico, un luogo verde inacessibile o celato.

2. Campo verde: un laboratorio di progettazione partecipata aperta a residenti veneziani, in cui attraverso una serie di quattro incontri si progetterà la vegetazione di sei “campi” di Venezia, uno per sestiere. Si sperimenteranno diverse tipologie di verde, l’ orto urbano, il giardino verticale, il totem verde, l’ oasi o la foresta in vaso, sotto la guida di agronomi, etologi, ingegneri ambientali, architetti e giardinieri. In campo Santa Margherita, dove una volta di trovava un albero – ora tagliato - verrà realizzato uno piccolo giardino verticale dimostrativo per mettere in pratica le tecniche acquisite.

3. Venezia verde: una festa di primavera che concluderà il progetto e che si terrà in Campo Santa Margherita. In occasione della festa verranno esposti i progetti del laboratorio, verrà inaugurato il verde verticale realizzato in campo, sarà allestita una mostra-istallazione delle fotografie pervenute attraverso il concorso e saranno organizzati alcuni dibattiti sul rapport verde, salute, vivibilità e cambiamenti climatici. L’evento sarà all’insegna della convivialità, aperta a tutti gli abitanti e associazioni locali, che potranno partecipare con banchetti ed esposizioni.

Qui il link al video preparato per concorrere al finanziamento. L'assegnazione del finanziamento dipende in parte dal numero di voti ricevuti dal progetto. Se condividete le nostre idee e proposta votateci!

Internazionale, 3 agosto 2018. E' l'emblema del turismo di massa e del conflitto tra turisti e abitanti, sul quale si stanno concentrando molte critiche. Un suo controllo è certamente indispensabile, ma non è l'unico aspetto da rivedere se non si vuole lasciare le città in balia della turistificazione. (i.b.)

Svegliarsi in un appartamento affittato su Airbnb può dare un senso di smarrimento. Dove siete? L’acciaio satinato, le lampadine a vista, l’arredamento anni cinquanta. Le pareti vivaci e la libreria (una guida per padroni di casa raccomanda di aumentare “la personalità, non gli oggetti personali”). La cartina plastificata del quartiere, l’inglese non impeccabile e infarcito di punti esclamativi. Il wi-fi eccellente. Potreste essere a Lisbona, ma forse siete a San Pietroburgo.

La rivista online The Verge descrive l’estetica di Airbnb come l’“allucinazione della normalità”, una frase presa in prestito dall’architetto olandese Rem Koolhaas. È per questo che può anche offrire al viaggiatore stanco l’impressione di una casa autentica.

Non tutti gli europei la pensano allo stesso modo. Quest’anno i visitatori che si preparano alla stagione delle vacanze potrebbero ricevere uno spiacevole benvenuto. Le proteste contro i turisti sono diventate, in alcune città, un rituale estivo. Nell’agosto 2017 duecento abitanti hanno occupato una spiaggia di Barcellona per dire ai visitatori di sloggiare (o perlomeno di alloggiare in albergo).

In varie città è emerso un genere di protesta ricorrente. I viaggiatori che usano Airbnb stravolgono alcuni quartieri e fanno arrabbiare i residenti. Gli alimentari e le biblioteche sono stati trasformati in caffè tutti uguali tra loro e in negozi di affitto delle biciclette per turisti. Mano a mano che gli affitti di case colonizzano nuove zone, gli abitanti vengono cacciati via (il 18 per cento degli alloggi nel centro di Firenze è affittato su Airbnb, secondo uno studio). Gli “oligarchi” di Airbnb accumulano alloggi e profitti. Mercati immobiliari già di per sé saturi come Amsterdam sono ulteriormente soffocati quando i proprietari ritirano dalla vendita o dall’affitto a lungo termine le loro case, riservandole ai turisti.

Non tutte queste affermazioni riguardano Airbnb, che però incanala più di tutti le paure delle città europee che si sentono assediate dal turismo di massa, e i politici hanno cominciato ad accorgersene. Nel 2015 Barcellona ha eletto una sindaca di sinistra che ha promesso di mettere un freno agli eccessi del turismo. Ha cominciato con Airbnb, multandola per aver messo in affitto proprietà immobiliari non registrate.

Se Uber è stato l’enfant terrible dell’economia della condivisione, Airbnb, che il prossimo mese festeggia il suo decimo anniversario, si è comportato come il suo fratello maggiore e più discreto. Uber ha predicato (e praticato) il cambiamento radicale e il caos, e ha generalmente perso la sua battaglia con le autorità in Europa. Ma Airbnb ha raccontato una storia più accettabile, parlando di turisti che rinunciavano all’anonimato degli alberghi a favore dell’autenticità dei quartieri oppure di padroni di casa che ricavavano qualche euro dai loro spazi vuoti.

L’improvvisata indagine effettuata su Facebook da parte di chi scrive ha rivelato un sorprendente grado di apprezzamento per Airbnb da parte sia dei padroni di casa sia dei visitatori.

Ma anche se la rivolta è iniziata negli Stati Uniti, dove è nato Airbnb, oggi è più forte in Europa, il suo principale mercato. Da Amsterdam a Berlino, passando per Madrid, le autorità cittadine stanno inasprendo le regole, limitando il numero di giorni nei quali un appartamento può essere affittato e comminando multe ai trasgressori.

Parigi, il gioiello europeo nella corona di Airbnb, gli ha fatto causa per non aver rimosso gli appartamenti non registrati dal suo sito (anche New York ha imposto l’obbligo di registrazione). La Commissione europea ha generalmente esitato a prendere posizione. Ma ha ordinato a Airbnb di rendere alcune delle sue tariffe più trasparenti minacciando azioni legali.

In parte si tratta di problemi che emergono quando le vecchie regole si scontrano con lo sviluppo di un’innovazione. Perfino il principale nemico di Airbnb, quel settore alberghiero gettato nello scompiglio dalla sua nascita, non ne auspica la scomparsa (almeno non in pubblico). Alcuni eccessi di severità da parte delle autorità si sono già ammorbiditi. Berlino, per esempio, non vieta più l’affitto di appartamenti su Airbnb tout court. Le autorità di Amsterdam hanno dichiarato che i loro limiti agli affitti hanno ridotto il numero di alberghi illegali in città.

Nuovi mercati

In pochi pensano che le tensioni siano finite. Residenti e turisti vivono infatti in orari diversi, spiega Fabiola Mancinelli dell’Università di Barcellona. La cosa era meno importante quando i turisti visitavano varie chiese e poi si ritiravano dentro i grandi alberghi. Ma è più difficile ignorare i visitatori che posano per un selfie nel mercato di quartiere, partecipano a gite in bicicletta di massa, occupano il nostro bar preferito o sbatacchiano le loro valigie sui sampietrini per raggiungere di buon’ora l’aeroporto. Paradossalmente, i visitatori che vogliono mescolarsi nel tessuto cittadino rischiano di dare più fastidio ai residenti di chi fa una visita mordi e fuggi.

Regole più dure non sembrano aver messo in ginocchio Airbnb, almeno a giudicare dalle offerte presenti sul suo sito. Le città europee hanno un posto importante nella sua più recente lista di destinazioni “alla moda”. Eppure per alimentare ulteriormente la crescita nei prossimi due anni, che si annunciano incerti, dovrà esplorare nuovi mercati, per esempio quello dei viaggi di lavoro. Airbnb permette già ai suoi padroni di casa di vendere “esperienze” (cose come la cerimonia di vestizione del kimono oppure corsi di fotografia tradizionale). Una presenza più forte potrebbe portare a tensioni con i residenti.

Eppure sarebbe ingiusto accusare questa piattaforma di tutti i difetti del turismo di massa. Al contrario delle orde di turisti in crociera che hanno reso insopportabili il centro di Venezia e Dubrovnik, gli utenti di Airbnb rimangono, per definizione, in città. Ci sono alcune prove del fatto che Airbnb favorisca nuovi viaggi o perlomeno che allunghi quelli esistenti, il che suggerisce che i turisti spendano denaro che altrimenti sarebbe rimasto nel loro luogo di residenza.

Gli abitanti di città dell’Europa orientale come Varsavia e Zagabria sostengono che i visitatori di Airbnb migliorano gli standard della permanenza e alimentano un clima di amicizia. E per ogni viaggiatore consumato secondo cui Airbnb ha perso la sua vera anima, altri dieci apprezzano la varietà di scelta, la convenienza e la concorrenza che esso fornisce.

“I grandi alberghi sono sempre stati degli specchi delle società in cui operano”, ha scritto Joan Didion. Airbnb evidenzia una stranezza della nostra epoca, in cui il desiderio di autenticità può danneggiare proprio quegli abitanti del posto che in teoria dovrebbero fornirla. Forse una stretta delle autorità potrebbe riportare Airbnb alle origini, quelle di un servizio di affitto di spazi vuoti in casa, come vorrebbero molti funzionari europei. Chi scrive è tra quanti hanno deciso di rinunciare al surrogato di autenticità di Airbnb, preferendogli alberghi che non aspirano a essere altro rispetto a quello che sono.

Traduzione di Federico Ferrone da settimanale britannico The Economist.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

La Superstrada Pedemontana Veneta (SPV) è un'arteria viaria a pagamento che si snoderà tra Montecchio Arzignano (VI) e Spresiano (TV) toccando 37 comuni. E' lunga circa 95 Km, a cui si aggiungono altri 53 km di viabilità connessa, conta due gallerie naturali e 33 artificiali, 16 caselli e costerà circa 2.258 milioni.
E' una tipica inutile grande opera italiana: in cantiere da moltissimi anni (era il 1990 quando la SPV fu inserita del piano regionale dei trasporti della regione Veneto); scandita da infinite varianti, ricorsi, scandali e migliaia di denunce ed esposti di comuni e comunità contrarie all sua realizzazione in quanto inutile e dannosa; sempre costosissima, con prevalenti costi e rischi a carico degli enti statali; strumentale agli interessi privati a danno dello Stato e della popolazione; caratterizzata da mancato rispetto delle regole italiane ed europee in materia di appalti e finanziamenti sottraendosi all'ordine democratico; inadeguata da un punto vista tecnico con molte incognite riguardanti il futuro funzionamento; devastante da un punto di vista ambientale a partire dall'alto consumo di suolo (la regione Veneto è risultata la regione a più alto incremento di consumo di suolo); basata su con presupposti di utilità falsi e bilancio tra costi e benefici negativo (i.b)

Lettera indirizzata a

Ministero delle infrastrutture e dei trasporti

Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare

SUPERSTRADA PEDEMONTANA VENETA (SPV):
OBIETTIVI PRIORITARI

Chiediamo alle istituzioni, e in particolare ai Ministri dei Trasporti e dell’Ambiente, di intervenire tempestivamente sulle procedure di competenza connesse alla SPV, per ripristinare la correttezza e la legalità, ad avviso di molti cittadini e associazioni ripetutamente violate su aspetti strutturali del progetto SPV, onde evitare complicazioni ancora più gravose e ingovernabili in un prossimo futuro.

Interventi Prioritari

1) Venga resa pubblica al più presto l’ANALISI COSTI BENEFICI (ACB) promessa dal ministro Toninelli, indispensabile per motivare la Pubblica Utilità o meno dell’opera, e permettere rapide decisioni consequenziali.
Seguendo la letteratura scientifica di settore, il saldo non può che risultare fortemente negativo: vengono spesi più di 13 miliardi di soldi pubblici (senza considerare le opere complementari) per un’infrastruttura che, se tutto va bene, farà risparmiare qualche manciata di minuti (unico o principale beneficio), e sarà scarsamente utilizzata (cfr. studio sui flussi di traffico commissionato da BEI e CDP). Includendo anche i notevoli costi ambientali (come obbligatoriamente previsto anche dagli Orientamenti europei in tema di ACB), la voce “costi” viene ulteriormente gravata, con un bilancio complessivo in fortissima perdita.

2) Verificare con urgenza il rispetto delle numerose Prescrizioni previste, conditio sine qua non per il proseguimento dei lavori.
Il progetto preliminare SPV è stato accolto dalla Commissione VIA e approvato dal CIPE nel 2006, a fronte di numerose Prescrizioni inderogabili, a carattere ambientale e non solo.

3) Verificare “le autorizzazioni e gli adempimenti previsti dalla normativa vigente, anche in sede europea” (v. Parere di Compatibilità Ambientale della Commissione VIA, febbraio 2006).

4) Sottoporre a VIA completa (con partecipazione popolare) il progetto definitivo, il quale doveva includere le Prescrizioni di cui al punto 2, così come previsto dalla Delibera del CIPE sul progetto preliminare (marzo 2006).

5) Verificare la corretta realizzazione dell’opera e i previsti monitoraggi ambientali, considerando che la relativa documentazione – incredibilmente - non è stata nemmeno trasmessa al Ministero dell’Ambiente (come denuncia la Corte dei Conti, Delibera di marzo 2018).

6) Ripristinare integralmente i Siti di Rete Natura 2000 devastati dai cantieri, con particolare riferimento al SIC Le Poscole, area di risorgiva in cui le normative comunitarie risultano violate in modo abnorme e plateale.

7) Operare per annullare il terzo Atto Convenzionale, che premia il capitale privato ma danneggia in modo clamoroso l’interesse pubblico (come denunciato anche dalla Corte dei Conti), lasciando profilare un ingente danno erariale.

Altri interventi richiesti

8) Garantire la partecipazione popolare alle procedure, a partire da quelle relative alla VIA e alla VINCA, secondo quanto previsto in generale dalla Convenzione di Aarhus (formalmente accolta dall’Italia, ma di fatto rigettata nel corso dell’iter della SPV).

9) Rivedere le deleghe alla Regione, e quindi all’Autorità Regionale per Rete Natura 2000, in tema di siti protetti dalla normativa comunitaria, considerando gli abusi e le manomissioni cui sono stati sottoposti alcuni di tali siti, nel silenzio delle istituzioni preposte.

10) Annullare la legislazione sui Project Bond, considerando che essa favorisce il capitale privato e gli investitori stranieri, danneggiando l’interesse pubblico.

11) Aprire un’indagine sulle irregolarità commesse e sulle responsabilità dei decisori coinvolti nelle procedure, considerato il configurarsi di ripetute anomalie con dinamiche che richiamano quanto avvenuto a proposito del Mose.

In attesa della obbligatoria messa a norma delle procedure relative alla SPV, indicate nei punti sopra citati (a partire da quelli indicati come prioritari), e considerando lo stato di incertezza e di grave irregolarità in cui versa il progetto SPV, si chiede l’immediata sospensione dei cantieri, onde evitare la prosecuzione dei lavori in un contesto altamente problematico, al fine di salvaguardare l’effettivo interesse pubblico, e di evitare l’irreversibilità di eventuali danni allo stesso.

Veneto, 5 luglio 2018

Riferimenti
Due articoli di storiAmestre che ripercorrono le vicessitudine dell'opera: “Paroni a casa nostra”. Costi e oneri della superstrada pedemontana e Quel pasticciaccio brutto. Una lettera sulla Superstrada Pedemontana Veneta. Sui danni arrecati dal project finanzing si legga: Pedemontana, per lo Stato una bomba da 20 miliardi; sull'introduzione del pedaggio per far fronte ai costi dell'opera: Pedemontana Veneta, una nuova tassa per coprire il fallimento del project financing. A proposito delle previsioni sbagliate sui flussi si legga l'articolo di Carlo Giacomini, dove si possono trovare altri riferimenti. Infine un articolo relativo alle tonnellate di immondizia portati alla luce dalla costruzione della superstrada: Pedemontana Veneta, la superstrada costruita sui rifiuti: “Bloccate i lavori e bonificate”.

Effimera, 27 luglio 2018. Questa recensione, è un utile introduzione al concetto di antropocene, una prospettiva utile e interessante per comprendere, interpretare e agire sul rapporto tra essere umano e natura. (i.b.)

Non è facile pubblicare un libro sull’Antropocene. Questo per due motivi: in primo luogo, in pochissimi luoghi (e questa piattaforma è uno di questi) si discute attivamente di questo tema (e in generale della crisi ecologica), che rimane quindi ai margini del dibattito politico-etico (sopratutto italiano); in secondo luogo, il concetto stesso è pervaso da una vaghezza che a tratti sfiora l’inconsistenza che lascia sconfortato chi prova ad avvicinarsi al tema per capirne qualcosa di più. Antropocene vuole dire una molteplicità di cose; è possibile parlarne in una molteplicità di sensi; spesso le critiche e le discussioni che vertono su questo concetto si strutturano intorno a specifiche concezioni dell’Antropocene che ne lasciano completamente da parte altri significati, altrettanto sensati (se non altrettanto comuni). Pubblicare un testo che ha come titolo Nell’Antropocene è dunque già di per sé azione meritoria, non fosse altro perché è un ammirevole tentativo di introdurre una parte del pubblico di lettori al problema.

Chi voglia leggere il libro di Gianfranco Pellegrino e Marcello di Paola si troverà un valido strumento introduttivo ad una serie di posizioni relative all’Antropocene, o meglio, che intendono questo “tempo della fine” (o dell’inizio) in sensi anche opposti. Questo compito introduttivo e didascalico è svolto dagli autori nella prima parte del testo, che riporta dunque, dopo aver spiegato in breve il significato del termine da un punto di vista più legato alle scienze del clima e della Terra, nel breve spazio di un’ottantina di pagine, le posizioni degli ecomodernisti, dei catastrofisti, dei difensori del Capitalocene, e dei naturalisti, per riprendere il lessico dei due studiosi. Emerge già in queste pagine l’idea degli autori a proposito dell’Antropocene. Esso è il tempo della “natura” ibrida, e cioè dello spazio di mescolanza tra natura e cultura, natura ed artificio, che si espande al Globo intero. Tale idea trova la sua esplicazione migliore nella lunga seconda parte, quella che gli autori dedicano all’etica, dove ha luogo una dettagliata e, a parere di chi scrive, originalissima analisi delle posizioni etiche che si possono assumere riguardo al rapporto tra uomo e natura. Ripercorrendo moltissime posizione, assunte ed assumibili, gli autori vanno alla ricerca di qualcosa che non sia antropocentrico, cioè che non faccia identificare il valore a partire dalla centralità dell’umano, ritenendo in questo modo di poter valorizzare il mondodell’Antropocene al di là del valore che attribuiamo o meno all’umano. Se il loro tentativo è senza dubbio interessante, vorrei però sottolineare che esiste tutta una parte dell’antropologia contemporanea (penso in particolare a Viveiros de Castro, ma anche a Philippe Descola) che ha identificato forse non morali, ma deleuzianamente-spinozianamente etiche, ovvero forme di vita che si costruiscono nella maniera più ecologica immaginabile proprio a partire dall’umanizzazione dell’universo. De Castro, in Esiste un mondo a venire descrive proprio queste società radicalmente antropomorfiche e proprio per questo non antropocentriche. Per questi amerindi, tutto ciò che esiste nel cosmo vede se stesso come umano.

In ogni caso, i nostri autori giungono ad affermare che l’unico modo per costruire quest’etica non antropocentrica che vanno ricercando è la valorizzazione della contingenza, tanto più presente nell’Antropocene, in forza dell’esistenza pervasiva di ibridi, di composizioni che nella loro assoluta contingenza e quindi fragilità sono da salvaguardare. Come le saline di Priolo o le tubature della Chevron al largo della California, elementi originariamente distruttivi di ecosistemi ma che poi hanno dato a loro volta vita a ricchissimi ecosistemi, brulicanti di vita, composizioni dell’Antropocene. Oppure, utilizzando un termine caro ai due studiosi: monumenti del rapporto tra uomo e natura. L’oggetto prodotto da tale ibridazione ha valore in sé, poiché nella sua contingenza è il datum da salvaguardare, che è che potrebbe non essere più. A questi ibridi si rivolge la proposta etica di Pellegrino e di Di Paola.

Mi pare ci sia un problema in questo tipo di prospettiva. Se la chiave di volta dell’argomentazione sta nella valorizzazione della contingenza in quanto tale, l’Antropocene non è forse il luogo ed il tempo in cui l’interezza delle composizioni naturali (oloceniche) si mostrano nella loro fragilità? La sesta estinzione di massa, in fondo, mostra la contingenza e la accidentalità del leone, del gorilla di montagna e dell’abete dei Nèbrodi. Non che gli autori non se ne rendano conto; solo, non si capisce bene perché questo non dovrebbe portare ad una difesa di tutto l’esistente in quanto tale, proprio perché è contingente. Come si concilia, insomma, questa posizione, con l’idea, spesso difesa dai due autori, che non si tratti di difendere spazi di natura wild o con ogni forma di esistenza in generale? D’altro lato, questo tipo di posizione, e questo è tanto più chiaro dagli esempi che abbiamo evidenziato (sono esempi riportati esplicitamente dai due autori), rischia di divenire, a posteriori, giustificativa di ogni forma di ibridazione. In fin dei conti, la Chevron devastò l’ambiente naturale in cui impiantò le sue tubature. Quale azione poteva essere meno raccomandabile di quella? Eppure, essa ha portato alla nascita di un ecosistema specifico, in quanto tale certamente da salvaguardare. Ma se la posizione diviene quella della valorizzazione di ogni possibile contingenza, non si rischia di avvallare simili azioni in forza della possibile nascita di composizioni così brulicanti di vita? Pare che la potenza del vivente di adattarsi e di proliferare anche dove alcuni umani fanno di tutto per eliminare la vita possa divenire l’arma giustificativa di una costruzione infinita, di un’azione senza limiti perché comunque portatrice di vita. Un’oscillazione, insomma, come sarà chiaro, tra due opposti, forse speculari: da un lato, la difesa di ogni elemento in quanto tale perché contingente, dall’altro il disinteresse verso ogni datum in quanto comunque superabile da nuove forme di contingenza. Non dico certo che questa sia la posizione dei due autori: mi chiedo solo se non possano verificarsi impasse di questo tipo quando si ponga al fulcro di tutto quello che è senza dubbio un valore fondamentale in un ragionamento che voglia mettere al centro l’ecologia, e cioè la contingenza.

Nella terza ed ultima parte gli autori passano alla politica, per tirare ancora in ballo il vecchio Deleuze. In prima battuta riconoscono la crisi della politica liberal-democratica di fronte alle sfide tipiche dell’Antropocene ed in generale della crisi ecologica, identificando diversi punti di caduta della difficoltà degli stati occidentali ad occuparsi di questa nostra crisi: responsabilità democratica, legittimità democratica, neutralità liberale. Senza l’ambizione di proporre soluzioni definitive a questa sfaccettata crisi Di Paola e Pellegrino propongono quello che secondo loro è un primo passaggio verso una “cittadinanza attiva” all’interno dell’Antropocene. Essi, ritenendo che, al fondo, grande spazio nella storia delle democrazie liberali abbia il “progresso morale” dei cittadini, i quali, se trasformati moralmente, possono imporre l’agenda ad una politica che per definizione segue i loro interessi manifesti e rivendicati, immaginano una “repubblica dei giardini”, nella quale un primissimo passo possa essere l’implementazione di quelle pratiche di orti urbani e di coltivazione interna agli spazi urbani (luoghi principe di quella dimensione ibrida da essi identificata come fondante l’Antropocene) che possano dare luogo ad un rinnovato interesse verso i temi ambientali. Una nuova forma di “cittadinanza attiva”, dunque, valida al tempo dell’Antropocene.

In questa ultima parte mi pare emergano con più forza alcune difficoltà inerenti all’approccio ed al tipo di “campo di azione” all’interno del quale il libro è pensato, nonché altri punti indubbiamente validi. Senza dubbio (e su questo è presente nel testo una valida critica a Bruno Latour) l’Antropocene impedisce di pensare la politica nella forma liberale, anche per i motivi identificati dagli autori. E’ quindi necessario porsi le domande che gli autori si pongono sul superamento di alcuni luoghi comuni delle liberal-democrazie. Allo stesso tempo, è certo che una politica all’interno dell’Antropocene non possa prescindere da una forma di etica, proprio nel senso di una forma di vita differente da quella generalmente moderna che (secondo una categorizzazione molto ampia e forse da rivedere nella sua genericità) ha abitato gli ultimi secoli. Torneremo su questo in conclusione.

D’altra parte, se i due autori rimangono pienamente interni alla prospettiva delle democrazie liberali e dello Stato (sottolineando, a mio parere con acutezza, che non può esistere una politica dell’Antropocene che non coniughi locale e globale), in queste pagine essi parlano di resilienza contro conservazione propendendo per la prima, in virtù di quel paradigma dell’ibrido che abbiamo visto in precedenza. E’ noto come il concetto di resilienzasia quanto di più problematico possa esserci da un punto di vista ecologico e come esso, unito a quello di adattamento sia alla base di tutti i discorsi ecomodernisti in primo luogo e di quelli legati alla green economy (per una critica approfondita di queste forme concettuali si veda il testo di Romain Felli, La grande adaptation, Seuil, 2016 ). Sembra proprio, in questi ultimi passaggi, che quell’oscillazione che abbiamo visto poco sopra tenda pericolosamente verso un giustificazionismo della trasformazione e della costruzione infinita. Abbiamo la prova che questo composizionismo ha un rischio teorico, certo non inevitabile, di non poco conto: quello di divenire politicamente e concettualmente poco servibile per identificare una qualsivoglia (anche relativa, modulabile) forma del limite, concetto che, appunto, non sembra piacere molto ai due autori, che rifiutano senza remore tutto il discorso relativo alla decrescita. D’altronde, i due autori sono chiari nel sottolineare che non si può ridurre la crisi ecologica alla dinamica capitalistica, nonché che ogni discorso che voglia fare seriamente i conti con la crisi ecologica non possa che essere di fatto pro-capitalistico, cioè, dicono Di Paola e Pellegrino, perché gli investimenti per politiche energetiche alternative non possono che derivare da investimenti, le cui risorse sono estraibili solo attraverso un’opera di convincimento dei capitalisti stessi, con i quali quindi è necessario venire a patti. (p. 217) Non esattamente un’idea conflittuale di politica, possiamo dire. La politica non è un rapporto di forza, è un’operazione di convincimento. Da questo punto di vista, la “politica dell’Antropocene” non pare così diversa dalla politica tipica della Terza Via degli anni ’90.

Si possono identificare due problemi in queste posizioni, in un libro che comunque conserva intatta la sua validità analitica ed il suo interesse (nonché la sua originalità). Il primo lo definirei di natura politica. Da questo punto di vista sembra che per i due autori la “politica dell’Antropocene” non possa partire che in una cornice che è quella della cittadinanza attiva, in cui i cittadini prenderanno coscienza (ma c’è davvero il tempo per aspettare tanto, nell’Antropocene?) della necessità di conservare l’ibrido e faranno leva sui loro rappresentanti perché rispettino le loro richieste, a questo punto “ecologiche”. Non pare, va detto, una grande soluzione (per quanto i due autori relativizzino sempre la portata delle loro proposte). Il problema mi pare, in parte, legato alla modalità con cui i due autori concepiscono l’istituzione. Secondo loro, le istituzioni sono sostanzialmente quelle già esistenti e al massimo le loro idee a proposito di “nuove istituzioni” sono quelle di tavoli di studio dei problemi delle generazioni future o ministeri specifici. Non c’è traccia né delle discussioni su neo-municipalismo ed ecologia, né di quel pensiero dell’istituzione che sta nascendo in giro per il mondo. E’ forse il concetto di comune che manca in questo tipo di approcci. Naturalmente, però, parlare di comune, anche e sopratutto in senso ecologico, significa immediatamente prendere come punto di attacco il capitalismo. Se si parlasse di comune a proposito dell’Antropocene, non per forza si darebbe tutta la “colpa” dell’Antropocene al capitale; ma certamente se ne vedrebbe l’uscita in una critica radicale del capitalismo. Non ci si potrebbe certo rammaricare, come fanno di due autori, del fatto che spesso i movimenti ecologisti si fondono e si intersecano con quelli che criticano il capitalismo come sistema di sfruttamento. E dunque è ancora il comune che si affaccia qui alla prova della politica e del legame possibile tra ecologia e politica. E che si affaccia in una duplice veste, politico-etica (ma non nel senso che i due autori danno a quest’ultima parola): il comune sarebbe un’istituzione ma anche (anzi, proprio per questo) una forma di vita, un’etica (ma nel senso di Spinoza, e non di Kant), dunque immediatamente politica. Non si tratterebbe di convincersi per convincere, ma di divenire altri.

Il secondo problema, è di natura direi più filosofico-teorica. Come si è ripetutamente detto, il fulcro della proposta dei due autori sta nel riconoscimento della natura ibrida dell’Antropocene e nel conseguente obbligo morale di riconoscere la contingenza degli ibridi dell’Antropocene. Abbiamo visto i possibili problemi che questa posizione può suscitare, come l’oggettiva oscillazione verso il paradigma della resilienza che si trova alla fine del testo. Si tratta forse, da parte di chi scrive, di una fissazione, ma non si potrebbe identificare il problema proprio in questo modo di declinare il tema dell’ibridazione? E cioè, pensare la composizione come indefinitamente data a partire dall’incontro dell’infinità degli elementi che popolano il mondo (umani e non-umani), tutti interni alla natura e quindi tutti “natural-culturali” non porta forse a non dare gli strumenti per pensare un relativo limite, un confine modulabile, di questa composizione? In fondo, parlare di Antropocene, oltre che parlare di ibridi, non vuol dire anche parlare di ciò che non si può continuamente costruire?Forse il punto è proprio questo. Tracciare una linea si può fare solo se ci si ricorda che la contingenza di cui tanto e giustamente parlano i due autori, è davvero propria di tutto l’universo, almeno nelle sue forme specifiche (altri avrebbe detto, dei suoi modi). E dunque anche di quei particolari ecosistemi e vite che devono essere colte nella loro specificità, e non all’interno di un quadro che parli di una generica potenza della vita, in quanto tale sempre ibridabile e sempre in grado di adattarsi alle tubature della Chevron. Si tratta forse, e questo non nega certo una prospettiva che valorizza l’ibrido ma prova a completarla, di smettere di concentrarsi sempre sulla composizione indefinita, che non pone limiti alla costruzione, ma di pensare l’Antropocene a partire da quella parte incostruttibile della Terrache è forse la vera bandiera di chi combatte in una Valle, in un campo di ulivi, o in una foresta Amazzonica. Non certo una Terra originariamente data, non certo la wilderness: ma quello spazio di gioco tra Dato e Azione, tra Attivo e Passivo, tra un mondo con le sue regole e la sua autonomia e un essere umano parte di questo mondo, su cui ed in cui solo può darsi costruzione (inevitabilmente necessaria ed anche positiva, come lo è la tecnica). E senza il quale spazio, non potrà più esserci, in futuro, alcuna costruzione.

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La terra trema, 20 luglio 2018. Le riflessioni di un pescatore-urbanista a proposito delle nefaste conseguenze dell'attuale modello di sviluppo, predatorio e estrattivista, sul Mediterraneo.

Il Mediterraneo odierno è un mare geologicamente molto giovane, figlio della “crisi di salinità” del Messiniano, quando si chiuse il collegamento con l’Atlantico tramite lo Stretto di Gibilterra, che si riaprì definitivamente cinque milioni di anni fa a seguito di eventi sismici. Esso bagna ventitrè Stati con circa 450 milioni di abitanti.

Il significato etimologico del nome deriva dalla parola latina Mediterraneus, che significa in mezzo alle terre.
L’antichità del Mediterraneo è datata seimila anni, quando nei territori costieri si diffusero agricoltura e allevamento e cominciarono a fiorire le prime civiltà. Da quella Cretese Minoica ai Fenici fondatori di Cartagine. Dai Greci, con le loro propaggini siciliane e nel Sud Italia (la Magna Grecia), all’Impero Romano e poi Bisanzio sede di intensi scambi commerciali con l’oriente. Dagli Arabi musulmani che raggiunsero le coste spagnole alle Repubbliche marinare italiane di Venezia, Pisa, Amalfi e Genova che rinvigorirono la presenza cristiana nel vicino Oriente fino al XII secolo. E poi ancora, gli Aragonesi, i Turchi Ottomani e il declino derivante dalla scoperta dell’America e dalla perdita di peso da parte sia di Venezia che della Spagna a scapito, sempre in oriente, degli Ottomani. La Sicilia in oltre seimila anni ha avuto oltre quindici dominazioni e il mare Mediterraneo era l’autostrada su cui viaggiavano, si scontravano e poi si incontravano popoli, culture, storie, economie, abitudini alimentari ed alimenti stessi, dapprima diversi, poi patrimonio comune e di interscambio.

Nel lungo periodo del Medioevo, per più di mille anni, il Mediterraneo, luogo di conflitti ma anche di scambi e di incontro è stato sede del fiorire della lingua Sabir, altrimenti detta lingua franca-mediterranea, un peculiare linguaggio parlato in tutti i porti del Mediterraneo, un misto di italiano, francese, spagnolo ed arabo diventato indispensabile per chi lavorava sul mare o con il mare, che fossero pescatori o naviganti, commercianti o soldati. E nel 1830 viene pubblicato un dizionario di questa lingua del mare.

Da noi, in tempi recenti e contemporanei, i pescatori del Golfo vivevano e vivono in maggioranza nei borghi marinari delle lave etnee: Ognina, Acitrezza, Santa Maria La Scala, Pozzillo, Stazzo, Riposto. Gli altri, i rimanenti, erano e sono gli abitanti della Civita e della Sciara, i due quartieri catanesi che cingendolo come una cintura custodiscono il grande porto di Catania, divisi l’uno dall’altro dalla Piscaria, il mercato storico di Catania.

Nelle marinerie del Golfo di Catania e delle Lave Etnee, le varie comunità di pescatori praticavano da sempre alcuni mestieri e si specializzavano in altri.
Ognina e Catania, nel dopoguerra, si specializzavano nella pesca con il cianciolo a lampara e mantenevano a fatica quella della menaide (per la masculina da magghia).
Acitrezza si concentrava nella pesca del pesce spada. Santa Maria La Scala, Pozzillo, Stazzo e Riposto nella pesca dell’alalunga e del pesce spada.
In tutte le marinerie il resto della piccola pesca artigianale praticava anche la pesca con il tremaglio, il palangaro, le nasse e stagionalmente con altri sistemi di pesca storicamente praticate per pescare singole specie ittiche.

La genesi dell’attuale pesca prende avvio con la fine della Seconda Guerra Mondiale quando, con l’avvento del motore diesel, si passò dalla pesca removelica e quella meccanica. Da questo processo di “industrializzazione” nasce un rapido e, successivamente, feroce sviluppo. Si passa dalla pesca del territorio costiero e dei grandi saperi marinari a quello degli orizzonti marini illimitati e del sopravvento della tecnologia sempre più invasiva ed eticamente insostenibile. Il paesaggio costiero Etneo, dagli anni Ottanta, passa da una variopinta biodiversità “marinara” e biologica ad una specializzazione sempre più monotematica del mestiere del pescatore. Dalla stagionalità polivalente del piccolo pescatore costiero a quella sempre più unica e lunga del pescatore “mediterraneo”. Dalle barche in legno di piccolo tonnellaggio, ai grandi pescherecci di venti, trenta metri, a quelli grandissimi in ferro. E i grandi e grandissimi pescherecci sono quelli che, più di tutti, hanno distrutto e stanno continuando a distruggere importanti risorse ittiche quali il pescespada, il tonno, parte del pesce azzurro (alici, sarde e sgombro) e tutte le specie ittiche demersali vittime della pesca a strascico, specie nei fondali entro i cinquanta metri ed entro le tre miglia.

I grandi predatori dei nostri mari, negli ultimi quarant’anni hanno nomi precisi: lo strascico, specie quello sottocosta come avviene nel Golfo di Catania. Questa tipologia di pesca produce oltre l’80% del pescato in rigetti a mare perché sottotaglia e invendibile; rete a ciancioli con lampare, che avviene soprattutto in autunno e inverno quando il pesce azzurro è ancora piccolo e sottotaglia; le spadare, anche se ormai sono state abolite; a reti volanti, costituite da grandi reti a strascico trainate da due pescherecci che pescano il pesce azzurro; tonnare volanti a circuizione, un tempo libere da limiti di pesca oggi con quote molto più limitate di cattura, restano in attività tredici nobili lobby, salernitane (con dieci natanti) e siciliane (con tre natanti) al servizio di multinazionali per il mercato giapponese del tonno rosso. Forse il Ministero sta pensando di aumentarle di altre quattro unità, dopo averne fatte dismettere una trentina con un bel corrispettivo economico, pagato dalla collettività, appena dieci anni fa. Cancellate, invece, le poche storiche tonnare fisse esistenti.

A tutto questo dobbiamo aggiungere un’insensata gestione delle risorse giovanili di sarde e alici, il cosiddetto “bianchetto” o “neonato”, che fino a quattro anni fa è stato permesso di pescare, sia a natanti con autorizzazione che a moltissimi non autorizzati e perciò illegali. Questa volta sono piccole imbarcazioni, anch’esse dotate di potenti ecoscandagli, tutte localizzate nella regioni costiere del Sud Italia. Quella che potremmo indicare come “la strage degli innocenti”.

Tutta questa è storia dei pregi e dei difetti della pesca catanese e siciliana, ma anche di molte altre marinerie italiane, dove spesso le stesse istituzioni locali e nazionali preposte al governo e alla sicurezza del settore, hanno strizzato l’occhio ad interessi corporativi e settoriali, mancando nel loro ruolo istituzionale super partes ed omettendo i necessari controlli dovuti.

Insomma, il modello che si è affermato e che sostanzialmente continua ad essere perpetrato è tutto improntato alla soddisfazione immediata ed egoistica del bisogno individuale e/o di piccolo gruppo con la cancellazione assoluta di una prospettiva di equa distribuzione delle risorse e a una loro gestione che guarda al mantenimento futuro della risorsa ittica. E la risorsa ittica, specie quella pelagica e migratoria è un “bene comune universale” patrimonio dell’umanità.

In tal senso sono state decisive le politiche di implementazione che i fondi, inizialmente nazionali e poi quelli europei, hanno dato al sostegno del settore, dove l’idea di uno sviluppo illimitato durerà fino alla fine degli anni Novanta. Non c’è stata la consapevolezza, spesso in malafede, che le risorse ittiche, come tutte le risorse naturali, fossero limitate e quindi suscettibili di politiche di salvaguardia. E questo non solo in alcune fasce di pescatori, ma anche e direi soprattutto nelle istituzioni di governo del settore. è mancata la volontà di gestire il settore in maniera integrata, dando gli indirizzi e le regole giuste per governare un mondo complesso quale è quello dell’interazione tra l’uomo e il mare, nel senso più ampio che questa interazione può significare.

Sembrerò un nostalgico del mondo che fu, ma l’unica via che oggi ci può fare ritornare ad una pesca compatibile e rispettosa dei cicli biologici del pesce è il modello della piccola pesca costiera che i nostri padri praticavano ancora negli anni Sessanta. Lì per millenni, attraverso la trasmissione orale e quotidiana dei saperi, attraverso l’esperienza di ogni notte e di ogni giorno, il piccolo pescatore costiero diventava architetto del mare, costruendosi un atlante della memoria diveniva al tempo stesso meteorologo, biologo, astronomo, geografo ed economo del suo stesso destino. E qui “le mani e l’acqua salata”, diventano simbolo ed emblema di un mestiere limpido, trasparente e dolcemente pesante. Ma estremamente “Bello”. Le mani sono il mezzo che guida l’azione quando si cala e si tira la rete, quando si smaglia l’alice, una ad una e poi quando si salano le stesse alici che diventano acciughe. L’acqua salata è quella che, nel freddo inverno marino, ti sbuffa in faccia dall’impatto della barca con le onde agitate e ti gela le dita quando tiri la rete e smagli il pesce. Ma le mani sono dell’uomo e l’acqua salata dell’universo mondo, in un incontro ancestrale.

E di questo mondo fu degno interprete mio padre Carmelo. A ottantasei anni, lui che da quando aveva undici anni andava per mare, diceva così: «il nostro mestiere è ancora il più bello e affascinante fra quelli che si praticano nel Golfo di Catania. Perchè è un mestiere dove veramente le nostre conoscenze, quello che abbiamo imparato e che ci hanno trasmesso le generazioni di pescatori prima di noi, restano punti di riferimento di cui non si può fare a meno. Per chi usa la menaide (piccola rete per pescare le alici, “le masculine” come le chiamiamo nel catanese – n.d.a.) sono i cicli naturali di vita del pesce, in questo caso della masculina, a guidare il tempo delle attività di pesca. E più che l’ecoscandaglio contano e bisogna conoscere i venti, le correnti marine, i diversi fondali. Per fare una grande pescata di masculina è importante sapersi regolare con l’apparizione di alcune stelle nell’orizzonte durante le notti di primavera e d’estate, interpretare i movimenti della luna, cogliere i momenti giusti all’alba o al tramonto. Tutte queste cose non s’imparano sui manuali ma ogni giorno o notte che sia, di anno in anno. Così noi, piccoli pescatori costieri, ci costruiamo un libro della memoria che poi ci serve per il lavoro quotidiano e nel corso della vita».

Gaetano, detto Tano, Urzì, pescatore da generazioni, racconta di una scelta di vita drastica e faticosa, ma colma di felice poesia in una degustazione dei prodotti della tradizione marinara, con sott’oli e salati lavorati artigianalmente.

La Cooperativa del Golfo, porta avanti una lunga tradizione marinara che si svolge prevalentemente nel Golfo di Catania che va da Capo Mulini, sotto Acireale, a Capo Santa Croce in Provincia di Siracusa, con Pescherecci operanti nel pieno rispetto delle norme di tutela ambientale e con l’obiettivo di valorizzare il pescato locale, eseguono una rigorosa selezione del pesce fresco di volta in volta disponibile nelle diverse stagioni.


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Il 2017 è stato l'anno più luttuoso per l'attivismo in difesa dell'ambiente e della terra di comunità locali contro le espulsioni e lo sfruttamento delle grandi corporazioni, gruppi paramilitari e governi. Sono almeno 207 gli attivisti uccisi l'anno scorso, nella maggior parte associabili alle lotte contro l'agribusiness del caffè, olio di palma e piantagioni di banane. Non solo in Colombia, Filippine e Brazile, ma in tutto il mondo, è sempre più pericoloso mettersi contro i poteri dell'economia globale.

Fonte: Nell'immagine Maria do Socorro, che lotta contro la fabbrica di alluminio - la Hydro Alluminio di proprietà norvegese - ritenuta responsabile dell'avvelenamento dell'acqua di Barcarena, in Brazile. La foto è di Thom Pierce (Guardian, Global Witness) ed è tratta dal rapporto «At what cost» a cura di Global Witness, un' ente che conduce inchieste, ricerche e campagne sulla relazione tra distruzione ambientale da una parte e conflitti, corruzioni e affari dall'altra. (i.b.)

comune-info.net, 19 luglio 2018. Un atto d'accusa di Zanotelli contro Salvini e l'atavico razzismo italiano contro i Rom e Sinti, i popoli più maltrattati d'Europa. Per non rassegnarci a diventare barbari. (a.d.)

Non possiamo accettare questo razzismo di Stato così ben incarnato dal ministro degli interni, Matteo Salvini, contro i migranti. Ma Salvini si è scagliato con altrettanta forza contro i rom, che diventano il capro espiatorio per eccellenza. Le affermazioni del ministro a questo riguardo fanno veramente paura: ”Facciamo una ricognizione sui rom in Italia per vedere chi, come, quanti sono, ripetendo quello che fu definito il censimento”. E poi, come noto, ha aggiunto qualcosa di ancora più pesante: “Sto facendo preparare un dossier al Viminale sulla questione dei rom. Quelli che possiamo espellere, facendo degli accordi con gli Stati, li espelleremo. Gli altri purtroppo ce li dobbiamo tenere”.

Sono parole pesanti dette da un ministro degli interni, parole razziste che ci riportano ai tempi del nazi-fascismo. L’onda nera della xenofobia e del razzismo che sta dilagando in Europa ha invaso ora anche il nostro paese. È mai possibile che ci sentiamo minacciati dai rom che non hanno mai avuto né una patria, né un esercito, né hanno mai fatto una guerra? In Italia sono circa 180.000 i rom residenti, dei quali solo 26.000 potrebbero essere espulsi perché non italiani e neppure comunitari.

Eppure Salvini, come ha fatto con i migranti, passerà dalle parole ai fatti mandando, come ha promesso, i bulldozer contro i campi rom. Siamo davanti a una “pulizia etnica”? “Capro espiatorio da secoli fino allo sterminio razzista del secolo scorso – afferma monsignor Nosiglia, arcivescovo di Torino – i rom e i sinti rivelano la disumanità di una convivenza, la nostra, che vuol dirsi civile, ma lascia nella miseria più nera e nell’emarginazione più amara’, figli del popolo più giovane d’Europa”.

Ho potuto toccare con mano in questi anni a Napoli quanto questo popolo viva nella “miseria più nera” e nell’emarginazione più amara. Solo nelle baraccopoli d’Africa, dove sono vissuto a lungo, ho trovato un tale degrado come l’ho trovato nei campi rom della metropoli campana. Per questo appena arrivato a Napoli, ho sposato la loro causa, insieme a padre Domenico Pizzuti, con il comitato campano con i rom perché sono gli ‘ultimi’ della società. Ho fatto mia la loro sofferenza ed emarginazione. Ho toccato con mano il razzismo nei loro confronti soprattutto nell’incendio dei campi rom di Ponticelli (scene vergognose!) e poi nelle minacce e insulti contro il campo rom di Via del Riposo da dove un centinaio di loro sono dovuti fuggire.

Tanti gli incendi dolosi come nell’insediamento di Viale Maddalena e di Casoria. Sono rimasto scioccato dallo sgombero, ordinato dalla Procura di Napoli, del campo di Gianturco, nel cuore di Napoli, dove vivevano oltre 1.300 rom, senza offrire loro un’alternativa. Abbiamo seguito poi il calvario di un gruppo di 250 di loro che hanno trovato rifugio nell’ex-Manifattura Tabacchi. Sgomberati da lì hanno trovato uno spazio nell’ex-Mercato Ortofrutticolo da dove oggi sono nuovamente minacciati di essere cacciati.

Stessa tragedia con i rom di Cupa Perillo a Scampia il cui campo è stato distrutto da un incendio doloso . Dopo tante dimostrazioni e proteste, dopo tante promesse del Comune, i rom di Cupa Perillo non hanno ancora trovato una soluzione. E ancora più drammatica per me è stata l’odissea dei rom di Giugliano: si tratta di oltre un migliaio di persone fuggite dalla guerra di Jugoslavia. Sono stati sgomberati dal loro insediamento dalla Procura di Napoli senza un’alternativa. Per anni hanno soggiornato per le campagne in uno squallore unico. Alla fine il Comune li ha posti nella zona ex-Resit, piena di rifiuti tossici! (Tanti deputati e senatori che hanno visitato quel luogo sono rimasti inorriditi, ma nessuno ha dato una mano!). Alla fine, il Comune li ha ricollocati in una conca fangosa e maleodorante indegna perfino per gli animali. E sono ancora lì. La tragica storia dei rom di Giugliano merita di essere portata in tribunale. La risposta a questa drammatica storia dei rom non può essere quella di Salvini, quella delle ruspe, dell’espulsione, ma quella di un serio esame di coscienza di come abbiamo trattato questo popolo, ma poi di serie politiche di inclusione, per far uscire questo popolo dalla miseria e dall’emarginazione.

Dobbiamo prima di tutto rimettere in discussione un razzismo atavico contro i rom che abbiamo tutti interiorizzato da secoli ed ora è cavalcato così abilmente da Salvini. Eppure il ministro degli interni ha giurato sulla Costituzione che obbliga lo Stato repubblicano a riconoscere e a garantire i diritti inviolabili dell’uomo (articolo 2). Non dimentichiamo che le politiche contro i rom sono state uno dei pilastri del fascismo. Per questo la senatrice Liliana Segre, che ha visto tanti rom cremati ad Aushwitz, nel suo primo intervento in Senato, ha detto che sarà sua priorità la difesa della minoranza rom in quanto è compito di ogni persona far sentire la propria voce per fermare questa onda nera che minaccia di travolgerci tutti. È compito di tutti noi alzare la voce in difesa degli ultimi della nostra società in questo preciso momento in cui il razzismo della gente contro i rom è diventato razzismo di Stato.

Repubblica Ed. Roma, 24 luglio 2018. La deriva xenofoba della sindaca di Roma, che ben interpreta quello che sembra essere diventato un razzismo di stato. (a.b.)

Con un Ordinanza della sindaca Virginia Raggi del 13 luglio scorso l'amministrazione romana aveva predisposto lo sgombro di circa 350 persone rom, tra cui 150 bambini, residenti da 13 anni all’interno del Camping River di Roma. Questo è l'ultimo di una serie di provvedimenti presi dall'amministrazione che violano i diritti umani. Il 22 giugno scorso sono state distrutte 50 unità abitative, obbligando gli abitanti a sistemarsi alla belle e meglio all' aperto e senza l'accesso a servizi primari come acqua e servizi igienici. Erano state precedentemente offerte agli abitanti soluzioni alternative, ma economicamente impraticabili o imponendo tempi troppo ridotti.
L'associazione 21 luglio, ha lanciato il 18 luglio scorso un appello e sostenuto l'azione di ricorso di tre abitanti, che ha sortito l'intervento della Corte Europea dei diritti dell'uomo, che ha sollecitato il Governo Italiano a sospendere lo sgombro sino al 27 luglio e nel frattempo a presentare misure alternative. (a.b.)


Roma, la Corte Europea sospende lo sgombero del Camping River
Sgombero nuovamente sospeso al camping River. A fermare le operazioni, previste per questa mattina presto, è stata la Corte europea dei diritti dell'uomo dopo il ricorso dell'associazione 21 luglio. Lo sgombero dell'insediamento era previsto oggi dopo la notifica dell'ordinanza 122 del 13 luglio firmata dalla sindaca Virginia Raggi.

La decisione della Corte è giunta in seguito al ricorso presentato da tre abitanti del campo supportati dall'associazione 21 luglio. La corte "ha deciso nell'interesse della parti e del corretto svolgimento del procedimento dinnanzi ad essa, di indicare al governo italiano, a norma dell'articolo 39 di sospendere lo sgombero previsto fino a venerdì 27 luglio 2018" e, nell'attesa, ha chiesto al governo italiano di indicare nelle prossime ore le misure alloggiative previste per i richiedenti, la data prevista per lo sgombero esecutivo e qualsiasi sviluppo significativo dello sgombero del Camping River.

Il Campidoglio ha offerto ai residenti del Camping River che si fossero presentati con un regolare contratto di locazione, un contributo mensile di 800 euro per l'affitto per la durata di due anni. Ma, sostanzialmente, nessun locatore si è rivelato disposto ad affittare a nuclei familiari ampi, spesso composti da disoccupati e nullatenenti. Altra soluzione proposta è stata il rimpatrio volontario nei Paesi di origine, dietro pagamento di una somma fino a 3 mila euro, formula accettata da appena 14 persone nel campo. Mentre nei casi di famiglie con minorenni sono state offerte soluzioni di accoglienza per le madri con i figli, a costo però di separare i nuclei familiari.

A prescindere dalle operazioni di sgombero di domani la questione rom nella Capitale sembra destinata a tenere banco per tutta l'estate, nonostante si tratti di un tema che riguarda 4500 persone, tante ne ha censite il Campidoglio all'inizio dello scorso anno, e che anche contando sacche di irregolari non sembra arrivare nemmeno al doppio delle persone. Proprio per parlare della situazione domani è atteso l'incontro tra la sindaca e il ministro dell'Interno Matteo Salvini, che ha confermato la sua intenzione di "arrivare a zero campi rom, con le buone maniere, educatamente, rispettosamente, ma arrivare a quota zero". Il vicepremier ha anche definito la situazione dei rom nella Capitale "un casino totale".

Quella di oggi "è una vittoria pratica ma soprattutto politica. Questa risposta della Corte Europea di Strasburgo dice che il piano rom della giunta Raggi e nello specifico il Camping River, sta violando i diritti umani. Inizia oggi un contenzioso e vedremo dove ci porterà" dichiara il presidente dell'associazione 21 luglio, Carlo Stasolla, che oggi si recherà in Campidoglio per consegnare alla segreteria della sindaca Raggi la risposta della corte di Strasburgo e le centinaia di firme raccolte per chiedere la sospensione dello sgombero. "Ora Roma Capitale - ha aggiunto Stasolla - dovrà spiegare alla corte in poche ore, visto che la scadenza è domani alle 12, quale sarà la soluzione abitativa per queste persone".

Nell'attesa del vertice di domattina, intanto, oggi alle 15.30, una delegazione di Associazione 21 luglio si recherà in Campidoglio per consegnare, presso la segreteria della Raggi, la risposta della Corte e le centinaia di firme raccolte in questi giorni nella mobilitazione on line organizzata per chiedere la sospensione delle azioni di sgombero.

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Ispra ambiente, 17 luglio 2018. E’ uscito il rapporto ISPRA 2018 sul consumo di suolo. Il documento ci informa sul fenomeno attraverso dati e una serie di approfondimenti, dedicati a casi e temi particolari, predisposti da ricercatori delle università e delle istituzioni locali. Con riferimenti (m.b.)

Il rapporto, pubblicato con cadenza annule, da cinque anni, offre un panorama completo e dettagliato dove, volendo, si possono trovare tutte le informazioni che servono per decidere. E qui sta il punto. Quanto tempo occorre per decidere, e che cosa vogliamo fare? Della legge sul consumo di suolo si discute da più di un lustro, e questo problema fu sollevato pubblicamente - anche grazie al contributo di eddyburg - da più di un decennio. Qui un articolo "Eddyburg e le norme del consumo di suolo" che riassume le posizioni e le proposte di eddyburg sulla questione.

Finora il Parlamento ha scelto di non decidere nulla e, di fatto, ha lasciato l’iniziativa alle regioni. Ma se anche si approvasse il disegno di legge attualmente in discussione (ci riferiamo alla proposta a firma di quattro illustri esponenti di Liberi e uguali: Loredana De Petris, Vasco Errani, Pietro Grasso e Francesco Laforgia) nulla cambierebbe, per le ragioni che abbiamo ampiamente spiegato, per esempio nell'articolo "Vogliamo fermare davvero il consumo del suolo" di Vezio de Lucia.

Vogliamo invece portare l'attenzione su una proposta di legge seria "Norme per l’arresto del consumo di suolo e per il riuso dei suoli urbanizzati" del 31 gennaio 2018, promossa dal Forum Salviamo il paesaggio, con la quale si potrebbe davvero salvare ancora qualche pezzo del territorio italiano. Vi rimandiamo all'articolo recentemente pubblicato "La legge di iniziativa popolare per arrestare il consumo di suolo" di Vezio De Lucia e Edoardo Salzano.

Qui il link al rapporto dell'ISPRA.

Acquabenecomune.org, 17 luglio 2018. Altro attacco alla acqua come bene comune. Nonostante le promesse di escludere dall'accordo i servizi idrosanitari e il trattamento delle acque reflue, nel CETA è inclusa l'acqua, aprendo questa risorsa alle multinazionali (i.b.)

In questi giorni vengono riportate diverse mistificazioni da alcuni organi di stampa in merito al CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement), il trattato di liberalizzazione del commercio tra Canada e Europa, già entrato a settembre scorso in applicazione provvisoria, per cui ci sembra opportuno ribadire che questo mette a rischio le risorse di acqua dolce e i servizi idrici su ambedue le sponde dell'Atlantico.

Infatti, alcune disposizioni di questo trattato pongono serie minacce all'acqua come risorsa naturale e ne favoriscono la definitiva mercificazione.

Innanzitutto, intendiamo ribadire che l'acqua è inclusa nel CETA a dispetto di tutte le promesse che questa sarebbe stata esclusa dalle trattative e nonostante il parere del Parlamento Europeo espresso nella risoluzione dell'8 settembre 2015 a seguito dell'Iniziativa dei Cittadini Europei Right2Water (2014/2239 (INI), no. 22), in cui il Parlamento “richiede alla Commissione di escludere in via permanente i servizi idrosanitari e il trattamento/smaltimento delle acque reflue dalle regole del mercato interno e da qualsiasi trattato commerciale”.

Le clausole dell'Art. 1.9 del CETA potrebbero portare ad una ulteriore mercificazione dell'acqua e ad un accaparramento da parte delle multinazionali. L'articolo afferma: “Se una delle parti permette l'utilizzo commerciale di una specifica risorsa idrica, ciò verrà fatto in conformità al presente accordo”, senza definire cosa si intende per “utilizzo commerciale” o “risorsa idrica”. Nel caso di “utilizzo commerciale” i diritti sull'acqua sono soggetti alle regole del CETA sul commercio e gli investimenti.

Le riserve all'Accesso al Mercato ed al Trattamento Nazionale adottate per i servizi di “raccolta, trattamento e distribuzione dell'acqua” non sono sufficienti a garantire una completa protezione. Sarebbe stato necessario introdurre le riserve sulla Nazione Maggiormente Favorita e sui Requisiti sui Livelli di Prestazione.

La cooperazione regolatoria e la protezione degli investimenti blinderebbero la privatizzazione dei servizi idrici e renderebbero impossibile ai governi di richiedere di ricondurre i servizi idrici sotto gestione pubblica, tendenza che sta crescendo in Europa.

Il CETA potrebbe limitare la capacità operativa delle aziende pubbliche in quanto i diritti sull'acqua sono trattati come investimenti e le riserve non coprono tutte le attuali e future attività che gli operatori pubblici devono espletare in accordo alla legislazione nazionale

Nel CETA è assente un approccio basato sul principio di precauzione, che è un componente inerente alla legislazione UE. La cooperazione regolatoria potrebbe potenzialmente restringere lo spazio politico degli stati membri della UE. Ciò potrebbe avere grosse ripercussioni sulla salute, l'ambiente e la tutela delle risorse idriche.

Il CETA ignora la natura unitaria del ciclo dell'acqua, la limitatezza delle risorse idriche del pianeta e la natura multifunzionale dell'acqua negli ecosistemi.

L'Unione Europea e lo Stato Italiano devono considerare l'acqua come un bene comune, e l'accesso all'acqua ed ai servizi idrosanitari come un diritto umano.

Per queste ragioni chiediamo al Governo Italiano e al Parlamento di non ratificare il CETA e di approvare subito la legge per l'acqua pubblica nella versione aggiornata e depositata nella scorsa legislatura dall'intergruppo parlamentare per “l'acqua bene comune”.

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Sembrerebbe (il condizionale è necessario) che il governo, con il ministro Toninelli, voglia riconsiderare il progetto del nuovo aeroporto di Firenze che sarà esaminato nella Conferenza di servizi convocata per il 7 settembre cui parteciperanno 32 enti interessati.

Sembrerebbe (il condizionale è necessario) che il governo, con il ministro Toninelli, voglia riconsiderare il progetto del nuovo aeroporto di Firenze che sarà esaminato nella Conferenza di servizi convocata per il 7 settembre cui parteciperanno 32 enti interessati. Atto finale che chiude le procedure e dà il via libera il progetto, secondo i vertici di Toscana Aeroporti, atto dovuto, ma di valore puramente procedurale secondo il Ministro, che invece vuole attendere i risultati di un’analisi costi e benefici, per l’aeroporto come per altri progetti di grandi opere.

Questo atteggiamento che sembra sensato (qui non voglio entrare in merito di altri comportamenti insensati del Ministro e del governo di cui fa parte) ha scatenato la reazione bipartisan del Pd e di FI, uniti come sempre nella lotta, in gara a chi fa da migliore supporto al miope, oltre che colluso, establishment locale. Miope perché non ha una minima idea di cosa significhi lo sviluppo di cui parla in continuazione e senza cognizione, supportato da una stampa locale che cade nel ridicolo quando propone (intelligente provocazione, secondo i sodali) addirittura un referendum sull’opera, dopo che Enac, Toscana Aeroporti e Regione Toscana hanno negato pervicacemente il dibattito pubblico, prescritto per legge. Niente dibattito, nessuna partecipazione, ma un referendum tra cittadini ignari cui sarebbe chiesto se vogliono il nuovo aeroporto che porta sviluppo e occupazione o preferiscono la situazione attuale che significa arrendersi alla nemica Bologna: questo sì che è autentico populismo!

Vediamo di riassumere per gli ignari cittadini, in attesa del referendum, solo alcuni punti cruciali che rendono illegittimo e non vantaggioso (se non per Toscana Aeroporti) il nuovo aeroporto, che non è un modesto ampliamento di quello esistente come continua a ripetere il Presidente Enrico Rossi.

Primo punto: l’iter precedente e seguente la Valutazione di impatto ambientale del progetto è stato illegittimo già a partire dalla variante del Pit di previsione della nuova pista annullata dal Tar della Toscana, per proseguire con la presentazione a Via da parte di Enac e Toscana Aeroporti di un Masterplan e non di un progetto definitivo come prescriveva la legge. Per sanare alcuni dei molti provvedimenti illegali, già segnalati in altri articoli su eddyburg, il governo Gentiloni ha approvato, ad hoc, nel 2017 il Decreto legislativo 104 che ha comportato la decadenza di non poche delle 142 prescrizioni cui era condizionato il parere favorevole alla Via. Ma non basta: come ciliegina finale, la Regione Toscana ha già annunciato per bocca del suo Presidente l’intenzione di utilizzare la Conferenza di servizi per provvedere a una variante automatica del Pit che vanifichi la sentenza del Tar, anche se la legge urbanistica regionale non lo consente, essendo in gioco beni paesaggistici e culturali: non solo erranti, ma anche perseveranti.

Secondo punto: tra le modifiche alle prescrizioni permesse dal DL 104 vi è stata anche la composizione di un osservatorio preposto a controllare la realizzazione dell’aeroporto, dove sono stati eliminati i sindaci dei Comuni coinvolti, a favore di un unico “rappresentante locale”, Dario Nardella, Sindaco della Città metropolitana, strenuo sostenitore del progetto.

Il terzo punto è una balla: sono stati concessi 150 milioni pubblici per la realizzazione dell’aeroporto che andrebbero perduti. In realtà 50 milioni sono stati stanziati (non concessi), gli altri solo promessi. Poiché la normativa dell’Unione Europea non permette aiuti statali, sia per la tipologia dell’aeroporto di Firenze, sia per la sua prossimità a Pisa e Bologna, si è inventato l’escamotage di finanziamenti che andrebbero a opere complementari. Spacciando come complementare o di mitigazione la costruzione del nuovo Fosso Reale e di altre opere che solo la nuova pista rende necessarie, ma che attualmente funzionano egregiamente.

Quarto punto: il nuovo aeroporto migliorerà la situazione ambientale della piana: non si vede come, dal momento che sono previsti il raddoppio dei voli e vettori di maggiore dimensione (è noto che l’aereo è il mezzo di trasporto di gran lunga più inquinante a parità di chilometri percorsi).

Infine c’è la favola che sta alla base delle infinite lamentazioni, polemiche e invettive che da ogni parte vengono rivolte a chi mette in dubbio l’utilità pubblica di un nuovo aeroporto e preferirebbe il potenziamento di Pisa, già aeroporto internazionale, e un rapido collegamento tra questo e Firenze: la favola è “chi è contro il nuovo aeroporto è contro lo sviluppo di Firenze e della Toscana”. Questo mantra viene ripetuto quotidianamente dai politici del Pd e di FI in attività, dal sottobosco politico che ruota attorno ai partiti, dagli amministratori regionali, da Confindustria, dal Presidente di Firenze Fiera (“se non si fa l’aeroporto io non investo”, come se si trattasse di soldi suoi), un ritornello amplificato dalla stampa locale, pronta a raccogliere ogni esternazione in proposito, da personaggi conosciuti e sconosciuti.

Lo sviluppo, che sarebbe il grande beneficio dell’aeroporto di Firenze, è stimato dall’Irpet in 2.500 posti lavoro. Ammesso che questa stima sia credibile, al netto dei progressi tecnologici che intercorreranno nei prossimi anni, si tratterà per lo più di addetti ai bagagli, baristi, commessi, camerieri, taxisti e simili. E’ questo il lavoro qualificato di cui ha bisogno Firenze come l’Italia? E quale sarà l’impatto sull’economia fiorentina di masse di turisti che arriveranno con i voli low cost consentiti dalla nuova pista? Firenze ha realmente bisogno di gonfiare un’economia basata sulla rendita medicea? Di incrementare il turismo mordi e fuggi? Si vuole ulteriormente penalizzare i residenti dal centro storico a favore degli affitti turistici? E’ questo il conclamato sviluppo?

Se i fautori dell’aeroporto si informassero, dovrebbero sapere che in tutti i paesi di capitalismo avanzato (il nostro è tristemente arretrato), il capitale intangibile - fatto di ricerca e sviluppo, di informazione, di conoscenza tacita e formalizzata, di condizioni favorevoli alla creazione cluster tecnologici - ha ormai da più di 25 anni superato nello stock degli investimenti il capitale materiale, fatto di edifici, macchine, infrastrutture; che capitale intangibile e occupazione qualificata sono strettamente legati; che la spesa pubblica italiana per l’istruzione come quella privata per ricerca e sviluppo è la metà di quella europea con una modestissima crescita annuale; che siamo penultimi nell’UE per numero di laureati seguiti solo dalla Romania; che alla base di uno sviluppo che produce lavoro di qualità, vi è l’economia della conoscenza. E se non leggono e non si informano, per lo meno dovrebbero comprendere le ragioni della vitalità dell’economia dei distretti che pure hanno sotto il naso. Non si tratta solo di flessibilità, decentramento, capacità di adattarsi ai cambiamenti della domanda. I distretti, sono stati storicamente e sono tuttora formidabili produttori di ciò che gli economisti definiscono “conoscenza tacita”. Un processo cumulativo, aperto, socialmente, condiviso, che ha portato a risultati di eccellenza. Ma i nostri preferiscono le infrastrutture pesanti e gli sconvolgimenti territoriali e ambientali, perché così vogliono i politici e le banche. Si preoccupano dei migranti in entrata e non dei 50.000 giovani, di cui 10.000 laureati che ogni anno lasciano l’Italia: perché sono choosy, vale a dire che non vorrebbero per tutta la vita trasportare pizze a domicilio e fare i camerieri stagionali. E purtroppo non hanno la fortuna di fare parte dell’establishment e di goderne eredità e rendita politica.

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