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La Repubblica, 24 settembre 2015 (m.p.r.)

Il ministro per i Beni culturali ha annunciato ieri un piano per tutelare il tracciato della strada e per percorrere i cinquecento chilometri che da Roma portano a Brindisi

Il viaggio di andata di Paolo Rumiz lungo le antiche basole dell’Appia Antica è servito a riscoprire la diagonale che attraversa l’Italia del Sud e il paesaggio dimenticato di questa strada che dal 312 a.C. unisce Roma a Brindisi. Ma è stato nel viaggio di ritorno che il giornalista ha potuto «raccogliere ciò che avevo seminato con gli articoli su Repubblica: un mandato da parte del popolo dell’Appia perché le venga restituita la dignità del titolo di Regina Viarum». La camminata di Rumiz e dei suoi quattro compagni ha avuto un primo, buon esito. Ieri il ministro dei Beni culturali e del turismo, Dario Franceschini - «rumiziano da sempre», ha confessato - ha annunciato il progetto per un “Cammino dell’Appia Antica”. E lo ha fatto nella sede dell’Archivio Antonio Cederna, il centro di Capo di Bove della Soprintendenza archeologica di Roma che raccoglie l’opera del giornalista e archeologo che nel 1953 iniziò a denunciare lo scempio edilizio dei Gangster dell’Appia Antica.

I tecnici del ministero hanno messo a punto un piano che prevede la pulizia dei tratti di strada supertistiti, il ripristino dei segmenti sepolti, la creazione di un logo e di una app perché sia riconoscibile il tracciato per i “pellegrini laici” disposti a riscoprire quei 533 chilometri di storia maltrattati dal sacco cementizio. «Metteremo a disposizione i beni demaniali che si trovano lungo l’Appia», ha spiegato Franceschini: «Stazioni abbandonate, case cantoniere in disuso, i fari non più operativi potranno diventare ostelli, ristoranti, officine per bici e moto».
Rumiz ha intrapreso un «viaggio d’andata monstre di 30 giorni, di quelli che i giornalisti non fanno più, armato di umiltà e di quello spirito indispensabile che chiede di andare, guardare e raccontare», ha sottolineato il direttore di Repubblica, Ezio Mauro. Il reportage ha messo in luce, anche attraverso il documentario in tre puntate realizzato con Alessandro Scillitani, lo stato di abbandono dell’Appia Antica: mausolei trasformati in pollai, cisterne cementificate, basole trasportate nelle ville, interi tratti interrati, abusi edilizi addosso ai resti, palazzi che sbarrano la strada. Ma anche «interi tratti di mura medievali del Castrum Caetani che, pur essendo dello Stato, si trovano in terreni privati, quindi invisibili come altri antichi sepolcri», ha detto l’archeologa Rita Paris, responsabile dell’area.
La competenza del cartografo Riccardo Carnovalini ha permesso a Rumiz di rintracciare la “retta via” smarrita. «Tre quarti dell’Appia Antica sono scomparsi, e pensare che nelle carte degli anni Cinquanta il percorso era praticamente integro. Eppure - aggiunge Rumiz - dietro a ogni scempio c’è una meraviglia da scoprire. «Oltre il mostro dell’Ilva, che a Taranto ha sommerso l’Appia, c’è il mare stupendo e uno dei musei archeologici più belli d’Europa».
Franceschini, che il 14 ottobre vedrà i presidenti delle quattro Regioni attraversate dall’Appia, punta sull’Art Bonus e «sui “Fondi di sviluppo e coesione” per il restauro dei beni archeologici e la riqualificazione delle strutture per l’accoglienza dei turisti». Uno degli interventi annunciati dal segretario generale del Mibact, Antonia Pasqua Recchia, oltre «all’anfiteatro di Capua, la città di Spartaco», è il molo del porto di Brindisi. Una delle due colonne nel punto in cui l’Appia si getta in Adriatico è sparita.
Riferimenti
Si vedano su eddyburg alcuni passi del reportage di Paolo Rumiz Io legionario tra Roma e Brindisi, alla ricerca dell'Appia perduta, Al bancone del bar che interrompe la via millenaria, Un uomo da marciapiede su quell’asse tra città e poderi

Una lucida analisi delle molteplici cause alla radice del dissesto territoriale del Bel Paese (m.p.g.)

Mai celia popolare è stata più attuale e veridica: il territorio frana, si allaga, degrada e le politiche pubbliche latitano - o se intervengono generano ancor più guasti quando, con perfida sistematicità, sconfinano nell’illegale. Un panorama dolente quello italiano, bersagliato da eventi calamitosi portatori di danni e lutti, di frequenza e portata eccezionale, etichettati come “naturali” e perciò fatalisticamente ascritti all’infausto destino di una geomorfologia fragile e di un regime climatico in mutamento. Catastrofi che una più saggia attenzione agli equilibri ecosistemici e alla prevenzione potrebbe nella maggior parte dei casi evitare o comunque mitigare. Ma una subdola assuefazione all’estetica del dramma, cifra semiotica del nostro tempo, allontana la riflessione sulle cause, in quest’epoca barocca che sopperisce alla mancanza di etica con la ridondanza delle narrazioni.

Non è mia intenzione affrontare il versante giudiziario del caos in cui versa il nostro territorio, benché ricchissimo di casi e di documenti processuali, anche se sarebbe interessante prima o poi tracciare una geografia dei riflessi spaziali del potere corruttivo, una perversa pianificazione a rovescio, implicita, i cui esiti appesantiscono le disfunzionalità e i disagi dei nostri sistemi urbani e infrastrutturali, che dovrebbero invece costituire la nervatura a supporto dell’efficienza, dello sviluppo e della qualità del vivere.Mi fermerò alle cause esplicite, ossia alle logiche che, negli ultimi trent’anni, hanno deciso la dilatazione insediativa e l’organizzazione del territorio. Anche così dovremo comunque constatare come si sia trattato di ragioni inquinate da scarsa lungimiranza, subalterne a un’idea di crescita sbilanciata verso il settore delle costruzioni e il consumo di suolo che ne è derivato, in cui la rendita immobiliare, per sua natura improduttiva, ha fatto da padrona.

Quando la bolla è esplosa, nel 2007 negli Stati Uniti e l’anno dopo in Europa, i migliori analisti (penso a Nomisma e Cresme) già avvertivano dell’esaurimento di un ciclo, della saturazione della domanda e dei pericoli insiti in un percorso speculativo che in Italia aveva visto aumentare i valori delle costruzioni di più del 60% soltanto nell’ultimo decennio. Ma l’euforia dell’investimento immobiliare aveva contagiato a tal punto la società italiana, per mentalità già orientata al “mattone”, che solo la stasi del mercato, ma siamo agli anni più recenti, ha fermato la corsa alle edificazioni – ora dirottata sulle Grandi Opere, nuovo vessillo della crescita, ennesimo capitolo dello sfruttamento del territorio. Opere intese unicamente come sbocco per capitali finanziari in cerca di remunerazione e non come momento di attrezzaggio ed efficientamento, le cui localizzazioni il più delle volte sono frutto di pressioni, corruzioni, cordate sotterranee incalzanti. In barba a qualsivoglia pianificazione.

Non a caso lo Sblocca Italia (decreto legge 12 settembre 2014, n. 133) si regge sul principio della deroga, che a sua volta, per escamotare la normativa vigente, poggia su un’interpretazione lasca e contorta del concetto di “interesse pubblico”, talmente dilatata da coprire ogni possibile opzione purché costruttivista. Dispositivi la cui ambiguità sembra fatta apposta per incentivare pratiche scorrette.Un contesto in cui lo spazio della nostra sussistenza è diventato terra di conquista, materia grezza da mettere in valore, un’appropriazione su cui gli abitanti non hanno voce – non c’è luogo che non abbia un comitato di cittadini che protesta per decisioni calate dall’alto che ledono gli ecosistemi o denuncia gli effetti negativi di opere inutili, sbagliate oppure iniziate e mai completate.

Un arrembaggio che calpesta la territorialità, quell’insieme composito e stratificato in cui culture locali, consuetudini di vita e modelli di sviluppo hanno sedimentato le combinazioni geografiche ed economiche su cui si fonda il nostro vivere. Frutto delle generazioni e delle loro dialettiche e dunque bene comune per eccellenza.Un processo di predazione dei patrimoni territoriali avviato con il boom industriale, ma che nell’ultimo trentennio, da quando la rendita immobiliare e finanziaria hanno predominato sugli investimenti produttivi, ha conosciuto ritmi e intensità straordinari. La cui responsabilità non sta in capo solo ai grandi speculatori avidi e corrotti, promotori delle operazioni immobiliari franate in crack colossali già prima dell’esplosione della bolla (i famosi “furbetti del quartierino”), ma vede coinvolta, per ragioni diverse, l’intera società.

Nell’immaginario collettivo italiano la casa di proprietà rappresenta un obiettivo, anche come espressione di status, perseguito a costo di sacrifici e indebitamenti. In Italia la maggior parte dei residenti ha la casa in proprietà, a cui si aggiungono seconde, terze, ennesime case acquistate come forma di investimento di fronte a rivalutazioni e rendimenti che, prima della crisi e dei recenti aggravi tributari, erano molto elevati.Una propensione favorita in quella fase dal facile accesso al credito, in cui le banche hanno svolto ruolo decisivo, sia a supporto e copertura delle grandi imprese, sia nei confronti dei piccoli investitori, a cui sono stati elargiti mutui anche quando le garanzie offerte non erano consone; al punto che nei bilanci degli istituti ora figura un patrimonio immobiliare svalutato e ingombrante esito di pignoramenti. Che si aggiunge al tanto nuovo invenduto inutilizzato.

Una mentalità rafforzata dalle politiche nazionali attraverso condoni, incentivi, premialità o anche indirettamente, com’è stato ad esempio con le misure fiscali di detassazione degli utili reinvestiti che hanno fatto spuntare come funghi i capannoni Tremonti, da subito inutilizzati. Tutto ciò in base all’assioma che l’edilizia sia la miglior leva della crescita, un pregiudizio che tuttora perdura benché smentito da una congiuntura che ne ha punito gli eccessi e mostrato i risvolti controproducenti.Una fiducia condivisa e con vigore applicata dagli enti locali che, stretti nelle morse dei tagli di bilancio, sono (stati?) paladini dell’urbanizzazione, i cui oneri rappresentavano un’entrata per le loro casse esangui, e tuttora faticano ad abbandonare la speranza che l’edilizia possa riprende ai vecchi ritmi e rimandano la revisione di previsioni fortemente sovrastimate oggi irrealistiche.

Un calderone di consensi che comprende anche i proprietari dei terreni, disposti a far carte false – e non è un’iperbole come ben sappiamo - pur di inserire i propri lotti nei piani di espansione e che ora, nella stasi del mercato, chiedono la cancellazione dell’edificabilità per evitare le imposte immobiliari. Un tira e molla poco dignitoso, mi pare, per l’ente pubblico ridotto a ruolo notarile di decisioni pilotate dai privati.Un insieme intrecciato di comportamenti che hanno proliferato nella generale atmosfera di rifiuto del congestionamento, dell’anomia e dei costi del vivere urbano che si diffonde nella società a partire dagli anni ’70 e propone come contraltare l’idealtipo di una campagna bucolica, paradiso ecologico e illusione di socialità. Un progetto destinato ad attualizzarsi nelle villette a schiera e nei palazzoni della periferia infinita, che hanno moltiplicato la mobilità, l’inquinamento e i costi - sociali ed economici, individuali e pubblici. Sicché il sogno agreste e le sue innocenti aspirazioni ecologiste, cavalcati dalle complicità speculative, figurano come paradossali correi dello sprawl e dello scempio perpetrato ai danni del mondo rurale.

Ora sotto il cielo frantumato dell’orgia edilizia regna grande confusione e benché da tutte le parti (finalmente) si gridi che bisogna fermare il consumo di suolo, non si va oltre gli slogan, le direzioni in cui muoversi non sono chiare mentre i cocci del disastro diventano più aguzzi ogni volta che piove. Il territorio, martoriato dal cemento e dall’asfalto, è entrato in squilibrio, non è più in grado di reggere le dinamiche naturali.

Una versione ampliata del testo è pubblicata sulla rivista il Mulino, 4/15, pp. 678-685.

postilla

Ahimè, la direzione di marcia sembra segnata. Sembra unanime l'accordo delle associazioni, delle corporazioni e dei partiti su un testo che non servirebbe affatto a ridurre il consumo di suolo. Anzi, fornirebbe un alibi a chi vuole continuare a praticarlo. Si tratta di quel disegno di legge intitolato "Legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo di suolo", derivante dalla proposta dell'allora ministro per l'agricoltura Catania. Sarebbe una legge priva assolutamente di efficacia, che nella ipotesi migliore condurrebbe alla scomparsa del consumo inutile di suolo al 2050 come ha limpidamente argomentato su queste pagine Ilaria Agostini nel suo articolo del maggio 2015, scritto per La città invisibile e ripreso da eddyburg.

Il Fatto Quotidiano, 24 settembre 2015 (m.p.r.)

Basilicata, Marche,Puglia e Molise. Eieri anche la Sardegna:il consiglio regionaleha votato in favoredel referendum controle trivellazioni per la ricercae l’estrazione di idrocarburinel sottosuoloe in mare, previstenel decreto Sblocca Italia.Con la Sardegna èstato quindi raggiunto ilnumero necessario perpresentare la richiestadel referendum: «Il 30settembre sarà depositatain Cassazione –spiega al Fatto QuotidianoEnzo Di Salvatore,docente di Dirittocostituzionaledell’UniversitàdiTeramo ecofondatoredel movimentoNoTriv - Ci sarà il controlloformale della richiesta etra il 20 gennaio e il 10febbraio si dovrebbe decideresulla sua ammissibilità.Se ammissibile,cinque giorni dopo ci saràil decreto del presidentedella Repubblica,previa deliberazione delConsiglio dei ministriche indirà il referendum.Insomma, seguendotutto l’iter, il voto dovrebbeesserci tra il 15 aprilee il 15 giugno».

Lo Sblocca Italia, difatto, esautora le regionidalle decisioni in materiadi energia, rende la ricercae le trivellazioni operazionistrategiche enon tiene conto dell'opinionedelle Regioni. Propriocome per gli inceneritori.Oggi, però, dovrebberoesprimersi infavore del referendumanche altri consigli regionali:Abruzzo, Veneto,Liguria. Solo la Sicilia,ieri, ha votato contro,inaspettatamente, perotto voti. Secondo i movimentiNo Triv, il consigliosi era detto inizialmented’accordo. Poi èarrivato il no del Pd e dellostesso governatoreRosario Crocetta. «È importante che ilreferendum si facciaquanto prima – spiegaancora Di Salvatore –perché le trivelle sono ritenutestrutture strategichee allo Sblocca Italiafa riferimento granparte delle richieste di esplorazione.Che potrebberoessere approvateanche nel giro di unanno”

«Berengo Gardin torna a parlare della mostra sulle grandi navi, la censura del Comune, le parole del sindaco. La mostra si inaugura il 22 ottobre in uno spazio gestito dal Fai: le Officine Olivetti». Il Fatto Quotidiano, 24 settembre 2015 (m.p.r.)

Non mi è simpatico, ma Luigi Brugnaro mi ha fatto un grande piacere. Grazie a lui della mia mostra si è parlato in tutto il mondo: Guardian, El Paìs, New York Times. Senza di lui, l’avrebbero vista al massimo duecento persone”. Il grande fotografo Gianni Berengo Gardin torna a parlare delle sua mostra Venezia e le grandi navi, della censura del Comune, delle parole del sindaco. Lo fa nel giorno in cui è stata ufficializzata la rinuncia a Palazzo Ducale, lo spazio pubblico cui aveva offerto i propri scatti. Una rottura dovuta proprio all’opposizione di Brugnaro. La mostra, che verrà inaugurata il 22 ottobre, si terrà in uno spazio poco distante gestito dal Fai: le Officine Olivetti [si tratta in realtà del negozio Olivetti in Piazza San Marco, l'eccezionale opera di Carlo Scarpa n.d.r.]. «Il sindaco - racconta Berengo Gardin - mi ha definito sfigato, intellettuale da strapazzo, perfino intoccabile. Quasi mi ha lusingato, non sapevo di essere un intoccabile. Dopo la sua opposizione alla mostra mi hanno chiamato in tanti, anche da fuori Venezia. Ringrazio chi, come Roberto Koch e Alessandra Mauro della Fondazione Forma, hanno affrontato questa situazione difficile. E tutti quelli che si sono spesi per la mia mostra: Adriano Celentano, certo, ma anche centinaia di cittadini”.


Perché ha scelto di raccontare le Grandi Navi?
La molla è scattata circa tre anni fa, quando ne ho vista una per la prima volta. Ero in Piazza San Marco di sera, al tramonto. Ho visto questa cosa enorme e sono inorridito: sembrava un cartone animato, Disneyland, tutto ma non Venezia. Anche se per caso sono nato in Liguria, mi sento veneziano. Il sindaco dice che ho denigrato la città, ma è lì che ho vissuto trent’anni e su Venezia ho fatto otto libri.
Come si fotografa una nave da 90 mila tonnellate?
Il sindaco ha detto pure che avrei usato un teleobiettivo (lente fotografica che fa apparire gli oggetti più grandi, ndr), ma non è vero. Al contrario, la maggior parte le ho scattate con un grandangolo: quelle navi sono talmente grandi che altrimenti non sarebbero entrate. In vita mia ho fatto 1,5 milioni di foto e non ho mai usato trucchi.
Intanto il Comune, con l’appoggio del Pd cittadino, sembra avere scelto un nuovo percorso: il canale Vittorio Emanuele. Così le navi da crociera non passeranno dal centro, ma resteranno in laguna.
Io ho fatto delle foto di denuncia, non sta a me trovare una soluzione. Non sono contro le navi in sé, ma l’inquinamento e il rischio che producono passando in centro, per il canale della Giudecca e San Marco, sono enormi. So però che tutti gli amici del comitato No grandi navi sono preoccupati delle ricadute per la laguna.
L’anno scorso Venezia è stata visitata da 27 milioni di turisti, eppure si continua a cercarne di nuovi. Che città è diventata?
Mi sembra evidente che c’è un inquinamento da eccesso di turismo. Ci sono troppi turisti che arrivano la mattina e ripartono la sera: alla città non portano nulla se non confusione. Ecco, ho un progetto un nuovo libro su Venezia, ma totalmente diverso rispetto a questa mostra. Non posso svelare molto, ma racconterà una Venezia positiva, bella. Una Venezia che non c’è più.
Se il sindaco la chiamasse, cosa gli direbbe?
Buongiorno, per educazione. Ma subito dopo dovrei aggiungere: “Non ho piacere di parlare con lei”.

«La ragione degli apparenti paradossi non è misteriosa. E’ nella propaganda con la quale l’autorità portuale e l’agenzia che gestisce le crociere (la Vtp) difendono l’indifendibile: le crociere creerebbero cinquemila posti di lavoro. Di fronte ai “posti di lavoro” tutti s’inchinano. Perfino il senatore Casson». Italianostravenezia.org, 23 settembre 2015 (m.p.r.)

Ecco l’opinione del vostro redattore sulla faccenda delle grandi navi da crociera dentro e fuori della Laguna.

Da una parte tutti sono d’accordo sul fatto che Venezia sta scoppiando sotto il peso di un turismo di massa che non è più ragionevole. Le proposte di modi per “gestire i flussi” si accumulano: tornelli a San Marco, tasse altissime per chi non prenota, sette “hub” per fermare gli arrivi in eccesso. Tutti lamentano la scomparsa dei negozi di vicinato, la chiusura di aziende artigiane, la trasformazione degli appartamenti in alberghi, l’intasamento di vaporetti, calli e campielli.

Dall’altra parte, nessuno, proprio nessuno, dei candidati al Consiglio comunale ha avuto il coraggio di inserire nel proprio programma il divieto di fermata a Venezia per le grandi navi da crociera. Se trenta milioni di turisti l’anno sono decisamente troppi (venti milioni di troppo secondo il professor van der Borg), non si vede perché si debba scavare un canale di cinque chilometri e allargarne uno di sedici per far entrare altri due milioni e mezzo di turisti. Non si vede perché si debba tollerare l’inquinamento atmosferico, acqueo, acustico, estetico oltre che di esseri umani che ne deriva. L’associazione Ambiente Venezia da una parte pubblica un prezioso “libro bianco” nel quale denuncia i mali provocati dalle grandi navi e dall’altra sostiene la creazione di un porto d’ormeggio per loro, di fronte alla riva del Cavallino, tra l’orrore degli abitanti di quel luogo.

La ragione degli apparenti paradossi non è misteriosa. E’ nella propaganda con la quale l’autorità portuale e l’agenzia che gestisce le crociere (la Vtp) difendono l’indifendibile: le crociere creerebbero cinquemila posti di lavoro. Di fronte ai “posti di lavoro” tutti s’inchinano. Perfino il senatore Casson, che pure vede bene i danni connessi alle crociere, non osa mettersi contro i portuali, i portabagagli, le agenzie turistiche che forniscono le hostess. Le considerazioni elettorali hanno la meglio su tutto. Si parla di un sano “realismo” che costringerebbe ad accettare i “compromessi”.

La politica, si ripete, deve saper mediare. Il risultato è che non si ha il coraggio di guardare in faccia la realtà. I “posti di lavoro” sono pochi e mal pagati: interinali, stagionali, a tempo parziale e molto meno numerosi di quanto si dica (forse cinquecento invece che cinquemila). Inoltre essi impediscono la creazione di altri posti, più duraturi e più specializzati, che non possono nascere in un ambiente tutto dedicato al turismo mordi e fuggi: dove c’è il turismo di massa non sorgono le start up né le aziende di ricerca e sviluppo. Dove si vendono mascherine a cinque euro spariscono gli indoradori, i remèri e i rilegatori di libri antichi. Dove arrivano i gruppi organizzati spariscono i residenti.

Accettare le crociere in nome dei posti di lavoro corrisponde a un suicidio a lungo termine. Corrisponde all’accettazione, una volta per tutte, del fatto che Venezia è destinata a diventare un parco turistico. L’arrivo delle grandi navi, sia in Marittima o a Marghera o al Cavallino, sigilla questa visione e la perpetua anche agli occhi dei media mondiali.

Ma in città rimane un gruppetto di abitanti, forse esiguo ma non estinto, che ancora combatte contro quella trasformazione. I residenti della Venezia insulare sono in gran parte con quel gruppetto. Sono persone che vedono lontano e che amano la loro città più di quanto amino il successo elettorale o la reputazione di essere “realistici” e di saper accettare i “compromessi”. La semplicità e la bellezza della loro visione sono evidenti e toccano il cuore di ognuno, a Venezia e nel mondo. Se riusciranno a emergere e a farsi ascoltare forse non tutto sarà perduto.

Dopo alcune generazioni sembra vedere la luce almeno l'inizio di una riqualificazione urbana fondamentale per gli effetti su tutta l'area metropolitana e i suoi assetti futuri. La Repubblica Milano, 23 settembre 2015

La giunta di Palazzo Marino dà il via libera all’accordo con Regione e Ferrovie dello Stato per la riqualificazione degli scali dismessi. Una città nella città che si estende complessivamente per un milione e 250mila metri quadrati. Sono sette le aree (da Lambrate a Porta Genova, da Farini a Romana) destinate a cambiare volto. «Questo - dice l’assessore all’Urbanistica Alessandro Balducci - è uno dei più grandi progetti di rigenerazione urbana presentati a Milano e in Italia da molti anni», che permetterà di ricucire parti della città «senza il consumo di suolo». Della superficie a disposizione, 525mila metri quadrati saranno destinati a verde, con 10 chilometri di piste ciclabili e pedonali. Si potrà costruire fino a un massimo di 674mila metri quadrati (meno del milione previsto nel precedente Piano di governo del territorio) e le nuove strutture includeranno 2.600 appartamenti di edilizia residenziale sociale. E poi negozi, case di lusso, attività produttive e servizi. In base all’intesa, 50 milioni di euro serviranno per fare interventi ferroviari, migliorare la rete e il collegamento con la zona metropolitana. Nelle zona di Lambrate, Rogoredo e Greco-Breda la funzione principale sarà soprattutto quella di edilizia sociale, mentre a Porta Genova, in considerazione della posizione, la priorità è data a funzioni legate a moda e design. A San Cristoforo un parco attrezzato.

Sono una città nella città che si estende per un milione e 250mila metri quadrati. Le ultime grande aree da ridisegnare insieme alle caserme. Sette scali ferroviari dismessi o che lo diventeranno presto, che abbracciano tutta Milano e sono destinati a trasformarsi in altrettanti nuovi quartieri con case, negozi, uffici, parchi. Perché è questo quello che prevede l’accordo di programma a tre (oltre al proprietario delle aree, Ferrovie dello Stato, l’altro protagonista è la Regione) che la giunta di Palazzo Marino ha approvato. Un primo via libera a quello che l’assessore all’Urbanistica Alessandro Balducci definisce «uno dei più grandi progetti di rigenerazione urbana presentati a Milano e in Italia da molti anni», che verrà realizzato «senza consumare suolo, attraverso il riuso e la riqualificazione di parti importanti del territorio con verde, servizi ed edilizia sociale». È così che riparte l’operazione scali. Dopo un primo tentativo fatto nel 2007 dalla giunta Moratti. E un nuovo percorso avviato dall’amministrazione Pisapia.

Adesso, dopo quasi quattro anni di lavoro seguiti dalla ex vicesindaco Ada Lucia De Cesaris, si arriva a un accordo. Prossimo passaggio: l’approvazione di Palazzo Lombardia. Poi inizierà la fase dei progetti che prevederanno anche concorsi. Una partita gigantesca che permetterà, secondo il Comune, di ricucire pezzi di città tagliati dai binari e di avere diversi benefici. Oltre ai cosiddetti oneri di urbanizzazione che verranno incassati da Palazzo Marino (le stime parlano di 130 milioni), 50 milioni saranno investiti da Fs per migliorare il sistema ferroviario e il collegamento metropolitano. Una cifra a cui si aggiungerà il 50 per cento delle pluslavenze delle dismissioni, 60 milioni per interventi di riqualificazione della zona attorno a Farini e 20 per Porta Romana. Su quel milione e 200mila metri quadrati si potrà costruire fino a un massimo di 674mila metri quadrati (il precedente Pgt ne prevedeva un milione); di questi 156mila saranno destinati a edilizia sociale con 2.600 alloggi a basso costo. E poi 590mila metri quadrati di spazi pubblici, di cui 525mila di verde e dieci chilometri di piste ciclabili e pedonali.

Al posto dei binari un mix di verde, case di lusso e low cost

Da sola, vale quasi la metà di tutte le aree che dovranno cambiare volto: oltre 500mila metri quadrati di binari abbandonati diventati sempre più strategici perché si snodano lì, all’ombra dei grattacieli di Porta Nuova. Ed è questo il futuro che potrebbe essere immaginato per lo Scalo Farini: un quartiere da far crescere anche puntando al cielo per garantire quel parco che si dovrà estendere per almeno la metà della superficie. Un altro skyline. E poi case di lusso, uffici, vetrine. Perché se un progetto preciso ancora non c’è e saranno il mercato e gli investitori a delineare il destino di questa zona, le linee guida dettate dal Pgt ci sono. E sono altrettanto precise. È lì che si potrà realizzare il mix di funzioni urbanistiche più completo tra tutte quelle possibili. Quello che accadrà anche per un altro pezzo di città sempre più centrale come lo Scalo Romana. Un’altra area in attesa di un futuro composito, con altre residenze, altri uffici, altri negozi. Che anche la vicinanza con l’arte della Fondazione Prada, però, potrebbe influenzare.

Sono tutti diversi, gli scali da riprogettare. E ognuno, ancora prima che gli architetti comincino a tradurre in disegni ed edifici i piani, ha una propria vocazione. C’è chi ha già scritto nella sua storia e nella parte di città che occupa il proprio destino. Come San Cristoforo che, con l’arrivo della metropolitana 4 sarà sempre più collegato: diventerà un parco attrezzato, ancora più unito ai Navigli. In questa parte non si costruirà. Per zone come Lambrate, Rogoredo e Greco-Breda, invece, la maggior parte delle nuove strutture saranno case di edilizia sociale e solo una percentuale minima si trasformerà in negozi e servizi per i nuovi quartieri. Un altro viaggio, si cambia scenario. Perché per Porta Genova è il ponte che oggi divide la stazione dalla Zona Tortona a fare la differenza: impossibile non prevedere un prolungamento naturale di quel polo della creatività e spazi - tra le poche case possibili - per la moda e il design. Con un effetto traino ulteriore. Perché tutti, dall’amministrazione agli esperti di Fs, concordano: l’apertura tra le mura abbandonate del Mercato metropolitano è riuscita a imprimere una spinta sulla strada già tracciata. Solo il nuovo acquirente dell’area, però, potrà decidere se locali e food truck potranno rimanere.

È un’operazione gigantesca, quella di trasformazione degli scali. Solo la parte immobiliare e quei 500mila metri quadrati di nuove costruzioni (al netto delle case low cost) secondo alcuni operatori del settore potrebbe valere 500 milioni di euro: quasi mille euro a metro quadrato. Non solo. Qualsiasi forma prenderanno Farini e Romana, nei quartieri dovranno essere progettate opere di “cucitura” con il resto della città e di riqualificazione dell’aspetto paesaggistico. Con un sogno che è stato accarezzato in passato e chis-sà se mai diventerà realtà: utilizzare parte dei binari tra Romana e San Cristoforo per fare una strada verde in stile High Line di New York. Un’oasi da riempire di vita e attività culturali, magari.

Comune e Regione, però, hanno individuato con Ferrovie anche le priorità per il trasporto ferroviario di tutta l’area metropolitana. I treni che non passeranno più da Porta Genova, ad esempio, prevedono alcuni passaggi già previsti dal progetto di raddoppio della linea Milano- Mortara e nuove fermate (i fondi sono extra rispetto ai 50 milioni dell’accordo) a Tibaldi e Romana. Anche la stazione di San Cristoforo sarà riqualificata e unita alla linea 4 del metrò. Qui si immaginano sottopassi e percorsi di accesso ai quartieri a Sud del Naviglio. Perché alcune stazioni, appunto, non saranno totalmente dismesse. Continueranno a funzionare in forma ridotta, liberando gli spazi. Accadrà anche a Greco, ad esempio. Altre tappe, invece, verranno create per altrettanti nuovi pezzi di Milano. Un esempio? Nascerà una fermata tra Certosa e Rho-Fiera per servire gli abitanti di Cascina Merlata e soprattutto i futuri frequentatori dell’area di Expo una volta che i padiglioni verranno abbattuti.

“Il futuro di Farini una seconda Porta Nuova” (intervista al dirigente Ferrovie)

Dice che per ripensare quelle aree, che rappresentano anche i pezzi più «pregiati del loro portafoglio», si sono mossi da tempo. E l’interesse del mercato, soprattutto per zone come Scalo Farini e Porta Romana c’è. Con un valore aggiunto: Milano. «Soprattutto in questo momento operazioni simili su Milano vengono guardate con un’attenzione sempre maggiore sia in Italia sia all’estero», spiega Carlo De Vito, l’amministratore delegato di Fs Sistemi Urbani, la società di Ferrovie che si occupa della valorizzazione del patrimonio immobiliare del gruppo.

Lei segue da anni questa partita. Quali sono i tempi di un’operazione del genere?
«All’inizio del 2016 l’accordo sarà effettivo e potremo partire con i primi masterplan per le aree più importanti come Farini, Romana e Genova. È un percorso che proseguirà in parallelo con la ricerca dei partner e dei futuri sviluppatori immobiliari. Tutto il prossimo anno sarà dedicato ai piani di intervento urbanistico e alla scelta di chi dovrà realizzarli. In ogni caso parliamo di un processo che guarda a un’orizzonte che supera i prossimi dieci anni».

Che cosa accadrà a questi pezzi di città?«Pensiamo a modelli diversi a seconda delle aree. Per quelle più piccole cercheremo di venderle direttamente, per quelle più grandi potrebbero essere create nuove società di sviluppo o i terreni con i relativi diritti edificatori potrebbero essere affidati a un fondo. Adesso dovranno essere i nostri Cda a decidere. Per la parte di housing sociale, invece, e in particolare per Rogoredo, Lambrate e Greco, utilizzeremo un accordo con Cassa depositi e prestiti che può garantirci finanziamenti e condizioni particolari».

Chi potrebbe prendere in mano e gestire la nascita di un nuovo quartiere così vasto come Farini?
«Abbiamo presentato in anticipo le operazioni al mercato e posso assicurarle che l’interesse di investitori italiani e internazionali è consistente e non solo di facciata. Parliamo di realtà europee, ma anche americane, orientali e australiane».

A differenza di altri scali, lì il futuro non è stato ancora disegnato: che cosa potrebbe diventare?«Sarà l’operazione più completa, quella con le maggiori costruzioni. Abbiamo preferito non prevedere niente di preciso per parlarne con i futuri operatori e per seguire le ultime tendenze del mercato. È una zona importante, collegata sia a Porta Nuova e alla stazione Garibaldi sia alla parte residenziale di via Valtellina. Potremmo prevedere un vero mix, che comprenda abitazioni, uffici, servizi e verde. Se ci saranno grattacieli? Sicuramente si può pensare a uno sviluppo verticale come ideale continuazione di piazza Gae Aulenti».

Quali sono le priorità che seguirete come gruppo Fs?«Trasformare queste aree con l’impegno che abbiamo assunto, abbastanza gravoso, di potenziare il sistema ferroviario della città. E sfruttare bene questi asset per tradurli in risorse finanziarie importanti per il gruppo».

La Repubblica, 20 settembre 2015

Di fronte all’enorme spirale di polemiche innescata da una breve chiusura del Colosseo è urgente porsi alcune domande.
Perché si ritiene inaccettabile che un monumento chiuda a causa di un’assemblea sindacale (regolare e regolarmente annunciata) e si trova normale che la stessa cosa accada per una cena privata di milionari (si rammenti il caso di Ponte Vecchio, chiuso dall’allora sindaco Renzi per un’intera notte), o per una manifestazione commerciale (la sala di lettura della Nazionale di Firenze chiuse per una sfilata di moda nel gennaio 2014)? I diritti del mercato ci appaiono evidentemente più importanti dei diritti dei lavoratori.

Ma in Europa non è così. L’anno scorso la Tour Eiffel chiuse per ben tre giorni, e la National Gallery di Londra è aperta a singhiozzo da mesi per una dura lotta sindacale: nessuno ha gridato che la Francia o l’Inghilterra sono ostaggio dei sindacati.

Il ministro Dario Franceschini ha detto che mentre i lavoratori erano in assemblea egli era impegnato al ministero dell’Economia proprio per riuscire a sbloccare il pagamento dei loro straordinari. E uno si chiede: ma l’Italia è ostaggio di coloro che, guadagnando circa 1000 euro al mese, chiedono di non aspettare mesi o anni per la retribuzione degli straordinari (che permettono le aperture domenicali e notturne), o è ostaggio della burocrazia che ha fatto sì che Franceschini non sia riuscito a risolvere il problema in un anno e mezzo di governo? E perché il decreto d’urgenza adottato venerdì non ha riguardato il pagamento dei lavoratori, ma invece il regime degli scioperi? Un noto documento programmatico della banca d’affari americana JP Morgan (giugno 2013) additava tra i problemi «dei sistemi politici della periferia meridionale dell’Europa» il fatto che «le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste »: bisognava dunque rimuovere, tra l’altro, le «tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori » e «la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo». Ebbene, crediamo davvero che sia questa la linea capace di far ripartire il Paese?

Non c’è alcun dubbio sul fatto che anche i sindacati abbiano le loro responsabilità nel pessimo funzionamento del ministero per i Beni culturali. Ma è davvero caricaturale dire che in Italia il diritto alla cultura sia negato per colpa dei sindacati. Le biblioteche e gli archivi sono in punto di morte a causa della mancanza di fondi ordinari e di personale, d’estate i grandi musei chiudono perché non c’è l’aria condizionata, nel centro di Napoli duecento chiese storiche sono chiuse dal 1980, due giorni fa è caduto per incuria il tetto della mirabile chiesa di San Francesco a Pisa, dov’era sepolto il Conte Ugolino... E si potrebbe continuare per pagine e pagine.

Questo immane sfascio non è colpa dei sindacati: ma dei governi degli ultimi trent’anni, nessuno escluso (neanche il presente, che ha appena tagliato di un terzo il personale del Mibact, già alla canna del gas).

Se davvero vogliamo che la cultura (e non solo il turismo più blockbuster) diventi un servizio essenziale, come vorrebbe la Costituzione, allora non c’è che una strada: investire, in termini di capitali finanziari e umani. Quando gli italiani potranno davvero entrare nelle loro chiese, nei loro musei e nelle loro biblioteche (magari gratuitamente, o pagando secondo il reddito), e quando chi ci lavora avrà una retribuzione equa e puntuale, allora avremo costruito un servizio pubblico essenziale. Un traguardo che pare molto lontano, impantanati come siamo in questo maledetto storytelling, che invece di cambiare la realtà, preferisce manipolare l’immaginario collettivo.

Riferimenti

Avete visto il padiglione di eatitaly alla Expo milanese e l'idea di cultura che la pervade? Lì c'è la cultura del renzismo. Guardate questo filmato su youtube:https://www.youtube.com/watch?v=u6Wf95pbG5Y


Sarà vero? Sarebbe bello se qualche barlume di ragionevolezza cominciasse ad affacciarsi là dove si decide. Ma l'affare è molto più grosso di quella Grande (e nefasta) opera. Il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2015, con postilla

Mentre Matteo Renzi prepara il funerale dell’Imu sulla prima casa, il suo ex braccio destro Graziano Delrio, nella attuale reincarnazione di ministro delle Infrastrutture, ha già celebrato le solenni esequie dellaOrte-Mestre, contanto di petali di asfalto lanciati dall’elicottero. Il promotore della più grande delle grandi opere, Vito Bonsignore, ancora non ci crede. Dopo dodici anni di pressioni lobbistiche, il sogno di costruire la grande arteria da 10 miliardi è definitivamente svanito.

Delrio ha deciso infatti di non riproporre al Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) il progetto dopo che per due volte la Corte dei Conti ha ricusato le delibere del Cipe, sponsorizzate nel 2013 e nel 2014 dall’ex ministro Maurizio Lupi e dal ministro ombra Ercole Incalza. Le delibere, senza il visto della Corte dei Conti, non sono perfezionate, quindi è come se non fossero mai esistite. La decisione di Delrio è un segnale inquietante per i tifosi del project financing, la geniale idea di Incalza: l’opera pubblica autofinanziata dal privato che poi si ripaga dei pedaggi. Le recenti traversie della Brebemi, la Brescia-Bergamo-Brescia tutta privata che a un anno dall’inaugurazione l Stato ha dovuto rifinanziare, hanno dimostrato al team di Delrio che il project financing all’italiana è un imbroglio. Nei contratti c’è sempre la clausola miracolosa: se per caso i conti non tornassero, toccherà allo Stato ripianare. Insomma, i guadagni ai privati, le perdite ai contribuenti. Una costosa usanza a cui Delrio mette fine almeno nel caso della Orte-Mestre grazie al privilegio di aver potuto leggere il piano economico-finanziario presentato da Bonsignore, che è segretato per legge ma che verosimilmente contiene la previsione di ampie garanzie statali sui profitti privati.

La Orte-Mestre doveva costare 9,7 miliardi, di cui 7,8 messi dai privati e 1,9 dallo Stato. Date le condizioni della casse pubbliche, nel 2013 il progetto fu cambiato, e il contributo statale convertito in esenzione fiscale per 9 miliardi complessivi per i futuri pedaggi. La Corte dei Conti bocciò la prima delibera Cipe. I magistrati fiorentini che indagavano su Incalza lo intercettarono al telefono con Bonsignore e altri mentre orchestrava una pressione sul Parlamento per un emendamento che sanasse la situazione. Con Bonsignore era in campo il presidente della società cui fa capo il progetto, Antonio Bargone, ex deputato Ds, ex sottosegretario ai Lavori pubblici, dalemiano di ferro nonché presidente della Sat, la società impegnata in un’altra autostrada che non si farà mai (la Livorno-Civitavecchia) ma da anni dà ugualmente lavoro e consulenze a numerosi soggetti. Per la Orte-Mestre Bonsignore e Bargone sono indagati a Firenze, l’accusa (seccamente respinta dagli interessati) è di aver promesso all’ingegnere Stefano Perotti la direzione dei lavori in cambio dei buoni uffici di Incalza per l’avanzamento dell’opera nella burocrazia.

La Orte-Mestre, per dirla renzianamente, rimarrà come museo delle grandi opere della Seconda repubblica nate sotto il cavolo della Legge Obiettivo, il mostro giuridico partorito nel 2002 da Silvio Berlusconi e dal suo ministro dei Lavori pubblici Pietro Lunardi. L’introduzione del general contractor e del project financing per velocizzare le opere contenendone i costi, ha fatto esplodere la spesa.

La Orte-Mestre è coeva della Legge Obiettivo. Se ne parlava da anni come della Nuova Romea, opera effettivamente necessaria che doveva collegare Mestre con la Romagna, propugnata da un’associazione presieduta da Pier Luigi Bersani. Nel 2003 Bonsignore, un centauro, politico e imprenditore insieme, si è preso tutto il banco lanciando il project financing per fare la Nuova Romea e rifare la Cesena-Orte,l’attuale E45.

In questi anni, passando dalla Dc all’Udc di Pierferdinando Casini, poi a Forza Italia e infine al Ncd di Angelino Alfano, ha finanziato tutto il finanziabile, compreso l’attuale sottosegretario Giuseppe Castiglione, oggi sotto inchiesta per il Cara di Mineo. Tutti soldi buttati. Ma almeno stavolta non li ha buttati lo Stato. Salvo penali e indennizzi che Bonsignore si appresta a chiedere.


postilla


Il problema non èBonsignore. I problemi (e gli scandali) che vengono allo scoperto sono due: (1)il carattere devastante dalla mega arteria proposta, combattuta da anni da unadelle più grandi e sapienti reti interregionali di comitati e associazioni (la Retenazionale stop Orte-Mestre), con centinaia di manifestazioni, convegni, analisie documenti; (2) la vera e propria truffa del “project financing
all’italiana",denunciato da anni da insigni studiosi della materia (più incalzante e lucido fra tutti Ivan Cicconi).

Il Tirreno, 19 settembre 2015

Le assemblee sindacali durante le ore di servizio - a cominciare da quelle storiche del personale di volo Alitalia - non sono mai state molto popolari. Giustamente. Quella tenutasi per due ore e mezza al Colosseo e in altri luoghi strategici del turismo di massa a Roma, pur essendo stata annunciata con cartelli non invisibili, si è attirata l'ira del ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, e del premier Matteo Renzi: è uno scandalo che deve finire, bisogna inserire i servizi museali fra quelli "essenziali", anzi lo faremo subito con decreto legge. Che peraltro non potrà vietare le assemblee regolarmente indette.

Ora, non v'è dubbio che qualunque chiusura, anche temporanea, di un monumento visitato al giorno da 6.000 persone e più, provochi malumori e proteste. E' successo nei giorni scorsi a Pompei, altro sito dei più visitati. "Facciamo la solita figuraccia con gli stranieri...", è il primo commento indignato che affiora alle labbra. Tuttavia occorre anche predisporre gli uomini e i mezzi necessari per poter garantire la fruizione di musei, aree di scavo, monumenti, ecc.

L'assemblea di Pompei come quella di ieri al Colosseo non aveva tuttavia motivazioni campate in aria. Difatti erano presenti anche funzionari e dirigenti della Soprintendenza: a pochi mesi dall'inizio del Giubileo nella enorme struttura romana dove ogni giorno entrano e sostano migliaia di turisti vi sono appena 27 custodi su tre turni. Il giorno che sono entrati, gratis, 9.000 visitatori, si sono corsi rischi molto seri sul piano della sicurezza. Ma è così in tutta Italia, la riduzione di personale di custodia è stata così incisiva negli ultimi anni che, ad esempio, nel polo museale statale fra Bologna e Ferrara da un'ottantina di custodi si è vertiginosamente scesi a meno di venti. Per la Pinacoteca Nazionale di Bologna ci sono appena tre custodi per turno, per cui la galleria apre a mezze giornate, e il pubblico assicurato da una compagnia aerea low cost rimane a guardare il portone chiuso. Lì come al vicino ed oggi ben allestito Musei dell'Università, la più antica del mondo.

Per ovviare a questa rarefazione di personale - che, va ricordato, guadagna mensilmente circa 1100 euro - si sono effettuate ore e ore di straordinari, anche per fare bella figura nelle aperture serali e nelle domeniche al museo. Purtroppo questi straordinari, che incrementano di un terzo circa i magri guadagni, da nove lunghi mesi non vengono pagati suscitando un malcontento crescente. I disagi sarebbe stati minori se anche i tour operator avessero provveduto ad avvertire i loro clienti e l'annuncio dei sindacati fosse stato più anticipato e meglio diffuso. E' innegabile.

Ma cosa si prevede per il personale? Alla Biblioteca Nazionale di Firenze (lo denunciano due interrogazioni parlamentari, una dell'ex ministro Maria Chiara Carrozza, citate da Tomaso Montanari su Repubblica) quello "addetto alla distribuzione e al funzionamento si è ridotto a 165 unità, mentre la pianta organica ne prevedrebbe 334". Ma sono le nuove piante organiche a sanzionare questi tagli devastanti. Secondo dati sindacali, i dipendenti del Ministero Beni Culturali e Turismo erano ad agosto 25.175. Con la pianta organica firmata da Franceschini in quel mese, devono scendere a 19.050. Se si vuole considerare Arte & Cultura un "servizio essenziale" a fini sindacali, bisogna che lo sia anche a fini economici: col governo Prodi 2006 l'incidenza della Cultura nel bilancio dello Stato era pari allo 0,40 % (ed eravamo ben sotto Francia e Spagna), ma alla fine dei governi Berlusconi essa era precipitata alla miseria dello 0,19 %. In tutta Italia ci sono appena 343 archeologi dello Stato, mediamente anziani, per oltre 700 siti e musei. Al concorso del 2008 per trenta posti si sono presentati 5.551 giovani archeologi. Più essenziali di così si muore. Magari di inedia.

Una ricerca di interfaccia anche urbanistico, oltre che politico-amministrativo, tra il nucleo centrale e la cintura esterna, con qualche precisazione. La Repubblica Milano, 19 settembre 2015, postilla (f.b.)

Dice che si potrebbe partire da lì. «Dalle aree attorno alle grandi stazioni di testa della metropolitana ». Come quelle di Molino Dorino sulla linea Rossa, San Donato sulla Gialla e Cascina Gobba sulla Verde. Luoghi di passaggio e di interscambio, dove Milano incontra il suo hinterland e dove, tra vagoni del metrò, parcheggi di corrispondenza e fermate degli autobus, ogni giorno passano milioni di persone. Zone che sono delle piccole terre di nessuno, dove passare e allontarsi in fretta. Ma che potrebbero invece dare alle persone servizi utili ad agevolare la loro vita che corre in fretta.

«Territori che - spiega l’assessore all’Urbanistica Alessandro Balducci - richiederebbero uno sforzo congiunto per riuscire a ripensarli. Perché oggi sono spesso zone non valorizzate, tra bancarelle, situazioni un po’ improvvisate, realtà che chiudono. E, invece, proprio per la loro grande accessibilità potrebbero diventare confortevoli, con tutti quei servizi e quelle attività di pregio utili a chi è di passaggio». Solo un esempio di quello che Palazzo Marino vuole riuscire a fare insieme con gli altri Comuni della prima fascia: curare i problemi di quei pezzi di città di confine che, spesso, rimangono sospesi nel nulla.

La riunione è stata convocata per martedì. E l’invito è stato raccolto da tutti i 21 sindaci dei centri che abbracciano la città, ma anche dal vicesindaco della Città metropolitana Eugenio Comincini e dai responsabili del Pim, il centro studi per la programmazione della grande Milano. L’idea: iniziare a costruire insieme, partendo dalle questioni urbanistiche, una sorta di “piano di cintura”. E cominciare anche a fare qualche prova tecnica di Città metropolitana. «Finora - continua Balducci – si è parlato della nuova istituzione più per le questioni burocratiche di statuto, per le difficoltà, per il bilancio. Mi sembra importante, invece, ragionare con i sindaci di tutto quello che riguarda confini amministrativi che non hanno più senso di esistere. E trasformare i problemi in opportunità».

Il modello è quello di Parigi che, in passato, ha fatto partire una collaborazione con i comuni vicini e messo a punto un piano per ridisegnare i propri margini. E, ancora, ha sfruttato la potenzialità delle zone attorno alle stazioni capolinea per riempirle di vita e servizi per i pendolari che, magari, trovano soltanto in quel modo l’occasione per sbrigare commissioni o fare la spesa senza doversi ritagliare spazi in orari impossibili all’interno di giornate già convulse. Anche a Milano sono queste di aree di confine a soffrire spesso «di degrado», o anche soltanto di «poca attenzione o cura», dice Balducci. E il motivo, a volte, è banale: nessuno dei Comuni che le condivide tende ad accendere una luce particolare su quei margini estremi. E, invece, Palazzo Marino è convinto che si possa invertire il rapporto: trasformare luoghi lontani dal punto di vista geografico in nuovi piccoli centri. Per l’assessore la riunione potrebbe servire ad avviare una doppia strategia, con un fronte più concreto e uno di programmazione futura: «Potremmo dare insieme un contributo alla redazione del piano strategico metropolitano segnalando problemi e opportunità. Ma anche studiare una serie di progetti puntuali su singole difficoltà».

Oltre alle zone attorno alle stazioni del metrò, gli esempi di collaborazione potrebbero riguardare il verde la lotta al degrado, l’arredo urbano e le piste ciclabili, e altre forme di connessione. Guardando Parigi, certo, ma anche un precedente più nostrano. «Se ci pensiamo il Parco Nord è un bell’esempio di una forma di collaborazione, che a partire dalle periferie di diversi Comuni, ha trasformato terre di nessuno in un magnifico spazio verde. Dovremmo lavorare in questa direzione».

postilla

Senz'altro positivo che si parta per una migliore integrazione, spaziale e non, fra le circoscrizioni amministrative municipali della città metropolitana, da quei nodi fondamentali che sono le stazioni. Vero e proprio simbolo e sostanza tangibile di separazione, e nel caso specifico (ma succede in vario modo in tantissimi casi italiani analoghi e non solo) di sviluppo suburbano automobilistico. Accade cioè che anche nei casi migliori, ovvero là dove nel tempo si è cercata qualche forma di soluzione dell'accessibilità collettiva ai centri metropolitani, si siano puntualmente concepite queste stazioni solo come nodi di trasporto, secondo il modello della fermata al centro di un lago di parcheggi. Effetto finale, una specie di replica di quei film western alla Mezzogiorno di Fuoco, dove la stazione invece di essere luogo vitale e di incontro sublima al peggio tutte le caratteristiche di una fascia smilitarizzata, che separa anziché unire. La questione non è però solo urbanistica, come si intuisce subito, ma anche trasportistica e organizzativa: cosa metterci, in quei luoghi, a garantire vitalità e migliore svolgimento di quel nuovo ruolo, al tempo stesso garantendo la funzionalità originaria? Ovvero evitando l'effetto centro commerciale di certe grandi stazioni ferroviarie, e magari diventando una pura scusa per realizzare nuovi volumi edificati dietro il paravento di una fantomatica «centralità». Come dice il poeta nazionalpopolare, lo scopriremo solo vivendo, e ovviamente seguendo gli sviluppi di questo TOD all'italiana (f.b.)

Il Fatto quotidiano online, 18 settembre 2015

La politica inveisce contro l'ennesimo "sciopero selvaggio". Un documento dimostra che in realtà l'assemblea era stata comunicata da una settimana e poi regolarmente autorizzata. Ma l'equivoco alimenta l'attacco frontale alla rappresentanza sindacale, anche se è la soprintendenza stessa a rivendicare la piena regolarità della riunione. Forse i fax e le affissioni in loco non bastano più.

E’ un copione che si ripete. La manifestazione che oggi al Colosseo ha lasciato una fila di turisti allibiti davanti a un cartello di chiusura era stata notificata per tempo e regolarmente autorizzata. Eppure i turisti sono rimasti spiazzati. E tanto è bastato alla politica per lanciare l’attacco frontale alla rappresentanza sindacale. Si ripete così la vicenda di Pompei che a luglio tenne banco per giorni, con l’assemblea spacciata per “selvaggia” quando non lo era affatto. A rivelare come sono andate le cose è la convocazione dell’assemblea (leggi il testo delle Rsu) che è stata diffusa e trasmessa all’amministrazione il 16 settembre scorso, due giorni prima che si svolgesse (come vuole la legge). In calce anche l’indicazione dell’avvenuta comunicazione, a termine di legge, già l’11 settembre, e cioé una settimana prima che l’assemblea si svolgesse. Ma bastano l’equivoco e le foto dei turisti in coda per prestare il fianco al “licenziamoli tutti” (pronunciato dalle fila di un partito che di nome fa Scelta Civica) al “la misura è colma”, detto dal ministro Franceschini che è poi il primo destinatario della protesta dei suoi dipendenti, cui non viene versato il salario accessorio da gennaio. Fino a Renzi, che ha sferrato un attacco frontale ai “sindacalisti contro l’Italia”. Resta allora la domanda, cosa non ha funzionato?

1) L’assemblea improvvisa e selvaggia? Era autorizzata e il Ministero sapeva (da una settimana)
“Le Rappresentanze Sindacali Unitarie della SS-COL comunicano che in data 18 settembre p.v. dalle ore 8.30 alle 11, nella sala conferenze di Palazzo Massimo è stata indetta (secondo le norme contrattuali e regolarmente comunicata all’Amministrazione in data 11/09 u.s.)”.

Questa la comunicazione che taglia la testa al toro sulla bufala della “protesta selvaggia”. Il ministero sapeva e da una settimana, non lo ha scoperto all’ultimo. “Si certamente”, spiega il coordinatore nazionale della Uil Beni Culturali Enzo Feliciani, sigla che appoggia la giornata assembleare che non si è svolta solo al Colosseo. Ad autorizzare quella romana è stato proprio il funzionario della Soprintendenza speciale per il Colosseo e l’area Archeologica, che non poteva fare altrimenti.
Non a caso egli stesso ha poi tentato di ridimensionare la polemica, ormai fuori controllo: “Non si è trattato di chiusure ma di aperture ritardate”, precisano dagli uffici romani, “come previsto alle 11.30 hanno riaperto”. Di più. Lo stesso soprintendente di Roma, Francesco Prosperetti, precisa che “tutto si è svolto regolarmente l’assemblea non aveva come oggetto il Colosseo, il problema è nazionale e riguarda il mancato rinnovo del contratto e il mancato pagamento del salario accessorio: non ci sono rivendicazioni nei confronti della soprintendenza, ma del datore di lavoro generale che è Mibact”.

2) Perché farla proprio oggi e non in un’altra data?
“Ci era stato chiesto – spiega ancora Feliciani – di non fare assemblee nel periodo di luglio e agosto perché a maggior afflusso di turisti e così abbiamo fatto. Una volta terminato questo periodo e non ricevendo risposte ai problemi che abbiamo rappresentato in ogni sede l’abbiamo convocata, rispettando tutti i termini di legge”. Insomma, le due parti in causa concordano: nulla di illecito o di improvvisato. E’ solo la politica a parlare di “protesta scandalo” e di “danno irreparabile”.

3) Non si poteva svolgere in un orario extralavorativo

“No – risponde Feliciani – le norme stabiliscono che si possano fare massimo 12 ore di assemblea ma sempre in orario di lavoro. Al mattino o al pomeriggio, quindi a inizio o fine turno. Abbiamo optato per l’inizio perché era la soluzione più indolore, altrimenti avremmo dovuto far entrare i visitatori e farli uscire e sarebbe stato molto peggio”. Lo conferma il soprintendente: “Tutto si è svolto regolarmente”.

4) Chi ha l’obbligo di dar comunicazione della chisura?
“Sempre i funzionari della Soprintendenza. Non le rappresentanze sindacali che comunque lo fanno, coi loro mezzi e cioè cartelli e affissioni. Ma se i canali di comunicazione istituzionale delle Soprintendenze non sono efficaci nel raggiungere turisti e cittadini non è certo da imputare ai lavoratori che non possono farsi carico anche di questo”.

5) E allora, cosa non ha funzionato? Cosa bisognerebbe cambiare?
Tocca capire perché ci si stupisce. Perché quei turisti stavano in coda apprendendo solo da un cartello, ormai giunti ai piedi dell’anfiteatro, della chiusura in corso. Il soprintendente dice di aver diffuso la comunicazione, come prevede la legge, 24 ore prima che l’assemblea si svolgesse, perché l’informazione viaggiasse sugli organi di stampa. Farlo prima del resto non si può, perché l’assemblea comunicata con largo anticipo potrebbe essere anche sconvocata, innescando un falso allarme che manda deserti i musei. Nello specifico, su Repubblica Roma e altri quotidiani la notizia è stata riportata. E tuttavia si vede che non basta, perché va da sé che un turista tedesco non legga le pagine locali di un quotidiano. I cartelli non sono stati posizionati con giorni di anticipo, non sono stati attrezzati info-point, non c’è stato alcun avvertimento sui siti ufficiali, se non a ridosso dell’assemblea. Tutto affidato a un servizio di informazione in loco il giorno prima dell’assemblea.

La tortuosa vicenda, durata oltre mezzo secolo, che ha portato alla costruzione del nuovo edificio sul Canal grande ricostruita dall'urbanista Stefano Boato, già assessore all'urbanistica del comune di Venezia. Veneziacambia2015.org, 10 agosto 2016 (m.p.r.)

Lungo il corso terminale del Canal Grande a Venezia le bombe dell’ultima guerra hanno demolito il tratto degli edifici del fronte sud che delimitava da nord il piazzale degli automezzi denominato “Piazzale Roma” lasciando ai posteri la necessità di progettare e ricostruire “la volta del Canal”. Questo impegno di grande rilevanza non solo non è mai stato onorato ma alla fine è stato disatteso e stravolto.

Ha cominciato la giunta Tognazzi cedendo nel 1957 al proprietario dell’hotel S. Chiara un terreno pubblico a fianco dell’albergo con diritto privato a costruire.

Nel 1990 però la giunta rosso-verde, nel concludere il nuovo PRG (iniziato nel 1980), ha elaborato precise norme per i diversi Piani Particolareggiati prescrivendo in particolare (vedi norme specifiche per questo ambito) che il termine ultimo dei mezzi rotabili fosse il Piazzale Roma, separato dalla città d’acqua storica da un lato dal Canal Grande e dall’altro dal “prolungamento del Rio di S.Andrea a suo tempo interrato”. Le norme escludono “gli accessi carrabili agli edifici e agli spazi aperti”; la parte residua del piazzale viene “trasformata in giardino pubblico” . Alcuni automezzi dalla terraferma vengono vietati: una ordinanza del sindaco Casellati vieta dal giugno 1990, “con validità immediata”, l’accesso ai mezzi turistici che sono arretrati provvisoriamente al Tronchetto e in Terraferma. Altri automezzi vengono ridotti, attivando al massimo i trasporti pubblici in particolare con i mezzi F.S. alla stazione per i grandi eventi (in preparazione a un servizio navetta Mestre-Venezia poi divenuto Servizio Metropolitano Regionale di Superfice, SFMR) e con mezzi ACTV dai Terminal di interscambio terra-acqua, subito da Fusina e con programma operativo da Tessera.

I Piani dei due terminal vengono ri-progettati a parte e approvati ambedue all’unanimità del Consiglio Comunale sempre nel 1990. Contemporaneamente, dopo lunga elaborazione, viene indetto dalla Giunta comunale il bando del Concorso Internazionale per la progettazione di P.le Roma intitolato “Una porta per Venezia”. Concepito con il massimo rigore e realismo prescrive in particolare: “verde pubblico nella fascia prospicente il Rio Nuovo”, “sistemazione architettonica dell’area prospicente il Canal Grande sulla fondamenta di S.Chiara con un edificio che, occupando l’intero lotto, deve ospitare gli uffici ACTV (60 mq), il terminale per l’aeroporto (150/200 mq) , i vigili urbani i carabinieri e il pronto soccorso (tot. c.a 150 mq), bar, servizi igienici , uffici”, “permeabilità e passaggio di flussi esclusivamente pedonali”.

Ma negli ultimi vent’anni questa linea è stata prima evasa, poi rovesciata.

Già nel 1993 una prima sentenza del TAR riconosce il diritto del privato a costruire (in base agli accordi del 1957): la Giunta Comunale non ricorre e non tenta neppure una trattativa o un indennizzo. Nel 1997 viene presentato un progetto di raddoppio dell’albergo S.Chiara ma nel 1999 gli viene opposta dagli uffici comunali e dalla Commissione di Salvaguardia la norma con l’obbligo di un Piano Particolareggiato che progetti unitariamente le funzioni e le volumetrie di tutto l’ambito di P.le Roma.

Ma per primo l’assessore all’urbanistica D’Agostino aggira la norma per poter realizzare direttamente il progetto del ponte di Calatrava che contraddice la possibilità di “chiudere la volta del Canal”. Non interessa rapportarsi paesaggisticamente al Canal Grande e ricomporre la quinta edilizia di separazione tra l’acqua e i mezzi rotabili, ma collegare direttamente (camminando in quota dal primo piano su una passerella parallela al Garage) il colmo del nuovo ponte, verso l’altra sponda del Canale tagliato trasversalmente, per raggiungere in pochi minuti l’area dove si doveva insediare il Casinò.

E così una nuova sentenza del TAR nel 2003 decide che non è necessario fare il Piano Particolareggiato, il Comune non obietta e non ricorre.Tre dinieghi tecnici degli uffici comunali e le obiezioni della Commissione di Salvaguardia portano almeno a rispettare le norme edilizie e ad abbassare di un piano l’altezza dell’edificio solamente verso il C. Grande, dalla parte dell’acqua.

Ma il proprietario dell’albergo chiede anche di poter fare due piani sotterranei per 14 parcheggi privati (in contrasto con tutte le norme che vietano gli scavi e i parcheggi). Nel 2009 in Consiglio Comunale un emendamento, specifico ed esplicito, del consigliere Centenaro di Forza Italia che modifica le Norme di Attuazione di una Variante al PRG della Città Antica viene approvato con il voto determinante del sindaco M. Cacciari e di alcuni consiglieri del PD (il che provoca la rottura del centro sinistra e con la municipalità).

Il permesso di costruire non viene dato dal nuovo assessore all’urbanistica Vecchiato, ma dall’assessore Bortolussi attraverso lo Sportello Unico alle Attività Produttive (SUAP) che consente deroghe alle norme.mPer lungo tempo è continuato il rapporto tra i progettisti e la Soprintendenza sulla qualità architettonica in una posizione molto visibile: la porta della città.

L’albergo esistente è derivato dalla trasformazione di un antico convento del ‘500. Nessuno ovviamente ha mai chiesto, né in città né in Commissione di Salvaguardia di fare un “falso storico” o un “finto antico”.

La posizione è particolarmente impegnativa essendo a conclusione della via d’acqua forse più famosa del mondo. Ma vi sono alcuni ottimi esempi precedenti che da anni, volendolo, hanno offerto modi eccellenti di coniugare il nuovo linguaggio architettonico con gli edifici di qualità veneziani: con leggerezza, articolando verticalmente i volumi, le strutture portanti, le superfici e i materiali: vedi in particolare il progetto di Frank Lloyd Wright per la casa dello studente Iuav proprio ‘in volta de Canal’ (a fianco di pal. Balbi) e gli edifici di Carlo Scarpa.

Ma l’esistenza di vincoli architettonici e paesaggistici ha dato un potere giuridico monopolistico alla Sovrintendente Renata Codello (anche rispetto alla Commissione di Salvaguardia) che autorizza il grossolano scatolone; il proprietario Dazzo dichiara “ringrazio la Soprintendenza per l’assistenza che ci ha dato nella revisione del progetto”.

La discussione su questo terreno è difficile perché ogni giudizio viene ritenuto soggettivo e perché la difesa del progetto si fa forte delle peggiori recenti esperienze realizzate proprio nel piazzale retrostante: la nuova Cittadella della Giustizia e il rigido, incredibilmente invasivo, parallelepipedo scuro della lunga pensilina del tram.

Se si vuole, questa discussione sugli aspetti estetici, architettonici e paesaggistici si può fare ma con criteri oggettivi e argomentati, non soggettivi e beceri.

Intanto, con un minimo di coerenza urbanistica, si può e si deve impedire l’abbattimento della Torre di S.Andrea (già autorizzato dalla Soprintendenza per un ipotetico rischio) e il conseguente grande raddoppio del Garage S. Marco.

Stefano Boato è stato assessore all’urbanistica della giunta rosso-verde nel 1990
Sull'argomento vedi anche l'articolo di Paola Somma. Finalmente pronto il motel al casello Benettown

All’Expo di Milano, nel cele­brato Padi­glione Zero, ho fatto una sco­perta sor­pren­dente. Una delle tante imma­gini dedi­cate ai pro­blemi... (continua a leggere)

All’Expo di Milano, nel cele­brato Padi­glione Zero, ho fatto una sco­perta sor­pren­dente. Una delle tante imma­gini dedi­cate ai pro­blemi ali­men­tari e ambien­tali, mostrava una pian­ta­gione di palme da olio, men­tre la dida­sca­lia infor­mava che essa ser­viva a pro­teg­gere la fore­sta amaz­zo­nica. Chissà quante migliaia di per­sone si sono lasciate per­sua­dere da quel mes­sag­gio. Ma è accet­ta­bile que­sto modo di pro­teg­gere la più vasta fore­sta plu­viale rima­sta sulla Terra? Il fatto che si abbat­tano alberi non per costruire edi­fici, per aprire nuovi pascoli, per impian­tare lati­fondi di soia gm, ma altri alberi, le palme, è una ope­ra­zione ambien­tal­mente benefica?

Vec­chi alberi sosti­tuiti da nuovi alberi? Ma quando si abbat­tono i vec­chi alberi, in Amaz­zo­nia, si fanno spa­rire per sem­pre piante mil­le­na­rie. E non è solo que­sto il muta­mento e il danno più rile­vante. La fore­sta plu­viale costi­tui­sce il bacino più ricco di bio­di­ver­sità pre­sente sul pia­neta. Non si abbat­tono solo gli alberi, si distrugge un eco­si­stema di grande com­ples­sità e ric­chezza, com­pren­dente uno numero incal­co­la­bile di mam­mi­feri, ret­tili, uccelli, anfibi, insetti, e poi erbe, arbu­sti, piante, fiori molti dei quali ancora sco­no­sciuti alla scienza.

Ad essere scon­volta è poi la chi­mica del suolo, la pio­vo­sità locale, il regime delle acque, il clima. Dun­que si annienta un patri­mo­nio mil­le­na­rio con i suoi sco­no­sciuti equi­li­bri per impian­tare una mono­cul­tura indu­striale con­ci­mata chi­mi­ca­mente e difesa dai paras­siti attra­verso gli anti­pa­ras­si­tari. Si tutela così l’Amazzonia?

Que­sta espe­rienza mi induce a svol­gere qual­che rifles­sione su ciò che dovremmo inten­dere per natura e per ambiente, due realtà ben diverse, che richie­dono stra­te­gie e com­por­ta­menti umani fra loro differenziati.

Il ter­mine ambiente, quale sino­nimo di mondo natu­rale, ha assunto solo di recente tale signi­fi­cato. Nell’800 indi­cava un milieu sociale o cul­tu­rale e solo nella seconda metà del ‘900 il ter­mine è stato cur­vato (e infla­zio­nato) a signi­fi­care la natura vivente. In realtà, con la parola ambiente noi indi­chiamo nor­mal­mente la natura così come la espe­riamo in Ita­lia e in Europa, vale a dire in un’area del mondo antro­piz­zata da alcune migliaia di anni. Qui ogni cosa, dell’assetto natu­rale ori­gi­na­rio - foreste, mac­chie, per­fino laghi e fiumi - è stata pro­fon­da­mente rimo­del­lata dall’azione umana. Que­sto è quel che si chiama ambiente, men­tre è natura la Fore­sta amaz­zo­nica, prima che diventi ambiente con le mono­cul­ture di palma.

Occorre dire che la distin­zione non è sem­pre cosi sem­plice e così netta. Come defi­ni­remmo oggi la Savana afri­cana? Quella vasta distesa pia­neg­giante, pun­teg­giata di radi alberi e arbu­sti e popo­lata da leoni, zebre, ele­fanti, giraffe, ecc.? Che cosa c’è di più natu­rale nell’immaginario occi­den­tale? Eppure – lo hanno sco­perto i geo­grafi nel secolo scorso – la Savana è opera dell’uomo. E’ il risul­tato della distru­zione della fore­sta ori­gi­na­ria, ope­rata dalle popo­la­zioni col fuoco e i vasti dibo­sca­menti a fini di cac­cia, crea­zione di pascoli, col­ti­va­zioni. Quella che i turi­sti osser­vano come natura sono i relitti di una radi­cale distru­zione degli anti­chi eco­si­stemi. E’ com­pren­si­bile dun­que che allor­ché un nuovo ordine natu­rale si viene a creare a opera degli uomini occorra par­lare di ambiente e non di natura. E non certo per cap­ziose ragioni seman­ti­che, ma per le diverse stra­te­gie di umano com­por­ta­mento che essa richiede. La natura va con­ser­vata così com’è, l’ambiente, che costi­tui­sce un ordine arti­fi­ciale, va tenuto nel suo nuovo equi­li­brio dall’opera umana che l’ha creata.

Qual­che esem­pio ci con­duce ai pro­blemi dell’oggi. Que­sta estate ho com­piuto un’escursione sul Monte Reven­tino, nel Parco nazio­nale della Sila. Scen­dendo per i boschi verso il comune di Decol­la­tura, sono stato let­te­ral­mente asse­diato da uno spet­ta­colo che non poteva sfug­gire nep­pure a un occhio distratto. Cen­ti­naia e sicu­ra­mente migliaia di alberi erano rico­perti e sopraf­fatti da un ram­pi­cante, spesso bian­cheg­giante per i suoi fiori a cascata. Ho rico­no­sciuto la ter­ri­bile vitalba (Cle­ma­tis vitalba). Molte aree erano let­te­ral­mente som­merse, tanti alberi erano già sec­chi, sche­le­tri che si alza­vano al cielo in mezzo a una vege­ta­zione rigo­gliosa e cao­tica. La vitalba – che Colu­mella con­si­glia di uti­liz­zare in insa­lata, come sanno ancora i nostri con­ta­dini – è una infe­stante di ter­ri­bile vita­lità: si arram­pica sugli alberi for­mando lun­ghis­sime liane e ha radici sot­ter­ra­nee che cre­scono come la parte aerea della pianta.

Abban­do­nato a se stesso, nel giro di un decen­nio quel bosco popo­lato da casta­gni, cerri, pioppi, ontani, e innu­me­re­voli arbu­sti sarà pro­ba­bil­mente distrutto. L’ambiente sarà defi­ni­ti­va­mente scon­volto, ma vin­cerà la natura, con il suo vitale e stra­ri­pante disor­dine. E’ auspi­ca­bile che ciò accada? Lasciamo che gli alberi, pian­tati dagli uomini, utili un tempo alle loro eco­no­mie, vadano in rovina? E se si vuole inter­ve­nire, che cosa occorre fare? Chie­dendo a un con­ta­dino del luogo ragione dell’invasione della vitalba, mi ha spie­gato che un tempo il pro­blema non si poneva, per­ché il bosco era bat­tuto dagli ani­mali. Ci pen­sa­vano le capre, le pecore, i maiali a tenere a bada quelle e altre infe­stanti. Sag­gia e per­sua­siva spie­ga­zione, per­ché il bosco è una crea­zione dell’uomo, ed è la sua pre­senza, la sua manu­ten­zione quo­ti­diana che man­tiene in un equi­li­brio eco­no­mi­ca­mente e ambien­tal­mente van­tag­gioso quell’ordine arti­fi­ciale da esso stesso creato.

Il caso del Monte Reven­tino è para­dig­ma­tico e denun­cia un defi­cit cul­tu­rale e poli­tico, una assenza di infor­ma­zione di rile­vante gra­vità. I nostri boschi sono in una con­di­zione di abban­dono e di insel­va­ti­chi­mento. Ho visi­tato l’Aspromonte di recente e ho tro­vato i suoi mae­stosi pini rico­perti da ster­mi­nate “nuvole” di nidi di pro­ces­sio­na­rie che ne deter­mi­ne­ranno la morte. Boschi immensi e un tempo mera­vi­gliosi sono asse­diati da eser­citi di paras­siti che avan­zano di anno in anno scac­ciando ogni pre­senza umana. I casta­gneti di tutto il nostro Appen­nino sono infe­stati da un ter­ri­bile paras­sita, il cini­pide, che impe­di­sce da anni ogni rac­colto. Men­tre ovun­que avanza, dall’Emilia in giù, la mac­chia sel­va­tica e i rovi.

Anche la que­stione dei cin­ghiali, emersa dram­ma­ti­ca­mente ad ago­sto, appar­tiene allo stesso ordine di pro­blemi. Que­sti ani­mali immessi nelle nostre selve per ripo­po­lare esem­plari da cac­cia, in virtù anche della loro cre­scita spon­ta­nea, si mol­ti­pli­cano sem­pre più nelle aree abban­do­nate della nostra Peni­sola. Il loro numero debor­dante li porta ad inva­dere le cam­pa­gne, a dan­neg­giare le col­ti­va­zioni ad arri­vare agli abi­tati in cerca di cibo. Ma anche i cin­ghiali come i nostri boschi denun­ciano che l’ordine arti­fi­ciale, l’ambiente creato dagli uomini, non è più curato, man­te­nuto nei suoi equi­li­bri ed è lasciato alla degra­da­zione. E que­sto avviene per­ché sono state abban­do­nate le anti­che eco­no­mie, svuo­tati gli abi­tati, scom­parsi i mestieri, per­duti gli umani pre­sidi che gover­na­vano il rap­porto con l’habitat locale. Così i pre­ce­denti van­taggi goduti dalle popo­la­zioni si tra­sfor­mano in danni e minacce per le nuove.

Non può dun­que non stu­pire (fino a un certo punto) il recente accor­pa­mento, voluto dal governo Renzi, del Corpo delle guar­die fore­stali con l’Arma dei cara­bi­nieri. Non che le guar­die fore­stali siano suf­fi­cienti ad affron­tare i pro­blemi accen­nati, ma inde­bo­lirne l’istituzione non è certo il modo migliore per fron­teg­giarli. In realtà l’iniziativa gover­na­tiva mostra indi­ret­ta­mente l’ignoranza grave e per­du­rante delle nostre classi diri­genti dei pro­blemi del ter­ri­to­rio nazionale.

Stiamo per­dendo patri­moni natu­rali immensi, interi paesi e bor­ghi, estesi pezzi di Peni­sola, poten­ziali luo­ghi di ric­chezza e umano benes­sere, luo­ghi in cui sono stati inve­stiti nei secoli e decenni illi­mi­tate risorse e lavoro e nes­suno, in Ita­lia, fiata. Che paese è mai que­sto dove si fa depe­rire la ric­chezza reale e stuoli di eco­no­mi­sti, truppe di diri­genti poli­tici e sin­da­cali ci assor­dano ogni giorno con le loro ricette di cre­scita senza nes­sun cenno al territorio?

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a il manifesto

Non ha senso difendere la bellezza senza rendersi conto che cosa la rende tale, poiché «non esiste una bellezza senza qualificazioni. E la bellezza delle città non è estenuata e vacua forma, è prima di tutto vita civile». La Repubblica, 16 ottobre 2015

LA BELLEZZA come medicina. La invochiamo sempre più spesso, contro la depressione o contro la crisi; ci consoliamo dei nostri mali ripetendo che “la bellezza salverà il mondo” (o l’Italia). Ma esiste una bellezza senza qualificazioni? Di quale bellezza, oggi, avremmo bisogno? La bellezza, si sa, è relativa. Per esempio, per il neosindaco di Venezia il bacino di San Marco è più bello se vi transita una mega-nave come la Divina.

Una nave alta 67 metri, il doppio di Palazzo Ducale, e lunga 333 metri, il doppio di Piazza San Marco. Non sono abbastanza belle, invece, le foto di Gianni Berengo Gardin, che presentano le grandi navi come Mostri a Venezia. Esposte dal Fai a Milano, le foto dovevano andare in mostra anche a Venezia, ma lo ha vietato un diktat del sindaco Brugnaro: i veneziani potranno vedere le foto (“immagine negativa di Venezia”) solo accanto al progetto di un nuovo canale per le mega-navi in Laguna (che sarebbe, dice lui, un’“immagine positiva”). Interessante idea: onde chi volesse fare una mostra fotografica sulla distruzione di Palmira dovrà affiancarla a un’altra con il punto di vista dell’Is; e una mostra di quadri sulla Strage degli innocenti non è ormai pensabile, a Venezia, senza un’altra che illustri le ragioni di Erode. Berengo Gardin è uno dei fotografi più famosi del mondo, e quelle sue foto piacciono a Ilaria Borletti-Buitoni (sottosegretario ai Beni Culturali), piacciono ai molti veneziani che il 6 settembre hanno inscenato a piazza San Marco un flash-mob coprendosi il volto con foto delle grandi navi. Ma il sindaco dice no. Quale bellezza salverà Venezia, quella dei mastodonti che incombono sul Canal Grande o quella delle foto che ne denunciano l’invadenza?

Nel suo impeccabile Liberi servi. Il Grande Inquisitore e l’enigma del potere (Einaudi), Gustavo Zagrebelsky smonta l’uso della frase “La bellezza salverà il mondo” (prelevata da Dostoevskij): essa «è palesemente una sentenza enigmatica, e invece è diventata un luogo comune, una sorta d’invocazione banale e consolatoria, una fuga dai problemi del presente». Nei nostri paesaggi e nelle nostre città, la bellezza non può darci nessuna salvazione in automatico, assolvendoci da ogni responsabilità. Al contrario, la bellezza non salverà nulla e nessuno, se noi non sapremo salvare la bellezza. Come scrive Iosif Brodskij, va evitato ad ogni costo «quel vecchio errore, inseguire la bellezza. Chi vive in Italia dovrebbe sapere che la bellezza non può essere programmata di per sé, anzi è sempre l’effetto secondario di qualcos’altro, spesso volto a fini quanto mai normali». Non fu per un’astratta bellezza, ma in funzione della cittadinanza, del potere o della fede, che si innalzarono palazzi e cattedrali; non fu per provocare estasi estetiche, ma per esprimere, in dialogo con i concittadini, pensieri sulla vita, sul mondo e sul divino, che Michelangelo o Caravaggio posero mano al pennello o allo scalpello. E se le nostre città sono belle (quando ancora lo sono), è perché sorsero per la vita civile, come uno spazio entro il quale lo scambio di esperienze, di culture e di emozioni avviene grazie al luogo e non grazie al prezzo.

Ma la bellezza “preter-intenzionale” delle città è devastata da una mercificazione dello spazio che ruota intorno a due feticci del nostro tempo, il grattacielo con la sua retorica verticale e la megalopoli in indefinita espansione orizzontale. Anche le piccole città “mimano” le megalopoli con quartieri-satellite, autostrade urbane e altri dispositivi di disorientamento. I centri storici si svuotano (il caso di scuola è Venezia), e fronteggiano un triste bivio: ora decadono a ghetto urbano riservato agli emarginati; ora, al contrario, subiscono una gentrification che li svilisce a festosi shopping centers o a enclaves riservate agli abbienti, e da centri di vita si trasformano in aree per il tempo libero, assediate da periferie informi e obese. Il paesaggio urbano diventa così un collage di suburbi, dove la distinzione fra quartieri segna una frontiera fra poveri e benestanti. Spariscono i confini della città (rispetto alla campagna), si moltiplicano i confini nella città. Il “centro storico” diventa un’area residuale, un luogo di conflitti la cui sorte dipende dagli sviluppi o dal ristagnare della speculazione edilizia, dall’andamento delle Borse, dal capriccioso insorgere di bolle immobiliari.

Eppure chi provoca tali devastazioni sbandiera invariabilmente la retorica della bellezza. Come ha scritto Brodskij (e proprio a proposito di Venezia), «tutti hanno qualche mira sulla città. Politici e grandi affaristi specialmente, dato che nulla ha più futuro del denaro. Al punto che il denaro si ritiene sinonimo del futuro e in diritto di determinarlo. Di qui l’abbondanza di frivole proposte sul rilancio della città, la promozione del Veneto a porta dell’Europa centrale, la crescita dell’industria, l’incremento del traffico in Laguna. Tali sciocchezze germogliano regolarmente sulle stesse bocche che blaterano di ecologia, tutela, restauro, beni culturali e quant’altro. Lo scopo di tutto questo è uno solo: lo stupro. Ma siccome nessuno stupratore confessa di esserlo, e meno ancora vuol farsi cogliere sul fatto, ecco che i capaci petti di deputati e commendatori si gonfiano di obiettivi e metafore, alta retorica e fervore lirico» ( Fondamenta degli incurabili, Adelphi).

La bellezza del passato è una perpetua sfida al futuro, scrive Brodskij. Ma la bellezza delle città non è estenuata e vacua forma, è prima di tutto vita civile. Perciò ha ragione papa Francesco a ricordare agli architetti che «non basta la ricerca della bellezza nel progetto, perché ha ancora più valore servire un altro tipo di bellezza: la qualità della vita delle persone, la loro armonia con l’ambiente, l’incontro e l’aiuto reciproco» ( Laudato si’ , § 150). Non c’è bellezza senza consapevolezza verso il passato e verso le generazioni future. La bellezza di cui abbiamo bisogno non è evasione dal presente: non c’è bellezza senza storia, senza una forte responsabilità collettiva.

Un incidente stradale grave, un «pirata» che fugge nella notte piovosa, questo almeno ci racconta la cronaca, ma non si accorge che il punto e il contesto di quell'incidente sono identici a un altro assai più noto e tragico di due anni fa: da allora non è stato fatto nulla, e tutti si sono dimenticati

La cronaca locale parrebbe quella triste ma prevedibile a cui siamo abituati da lustri: una bambina ansiosa di arrivare a casa, che cammina qualche passo più avanti della mamma e si arrischia a passare il semaforo quando verde non è ancora. In direzione perpendicolare l'auto che, visto il giallo, dà la prevedibile accelerata, e l'impatto è inevitabile: carambola della bambina sul cofano, e fuga nella notte del pirata, magari semplicemente scioccato e in attesa di ripresentarsi scortato da un legale. La notizia starebbe tutta qui, secondo il cronista, nella fuga e quindi nelle classiche indagini degli esperti sulle tracce lasciate dall'auto, di cui conosciamo marca e modello, magari controllo delle telecamere, testimonianze di qualche passante. La bambina se non altro, pur malconcia, non è in pericolo di vita, aspettiamo la conclusione dell'inchiesta ed eventuali sviluppi. Ma c'è un piccolo neo, quando il cronista sbaglia zona, pur azzeccando come da verbale i nomi delle vie, e così facendo fa suonare un campanello: quel posto non è vicinissimo a dove un paio d'anni fa è successa quella vera e propria strage?

a parte i pasticci grafici, a sinistra il primo, a destra quello di ieri

Rapida mente locale, e sì: il posto è a cento, centocinquanta metri da dove in una analoga sera di pioggia di un paio d'anni fa un'auto falciò mamma incinta e bambino che correvano verso la fermata dell'autobus, al terminale Famagosta della MM2 milanese. Ma c'è molto, molto di più, sfuggito al manierismo giornalistico così attento ad altri particolari, perché siamo esattamente nello stesso svincolo autostradale urbano, solo all'altra estremità, dove le auto arrivano in discesa da un sovrappasso anziché in salita da un sottopasso, e la via secondo l'uso toponomastico italiano cambia nome. Fossimo stati negli Usa, magari l'inghippo sarebbe stato più chiaro, svincolo tal dei tali sulla direttrice talaltra, e dinamica evidente. Uguali al caso di due anni fa, anche i particolari, che poi nell'immaginario collettivo possono fare la differenza: nazionalità delle vittime (non italiana, si sa che questi immigrati sono così mal adattati al nostro ambiente), e torto formale di chi sta attraversando in un punto dove non è consentito (l'uso obbligatorio del sottopasso pedonale nel primo caso, il semaforo ancora rosso nel secondo).

Ma quello svincolo autostradale sbattuto in mezzo a un quartiere urbano, o se vogliamo a fare da trait d'union fra due quartieri sulle sponde opposte del Naviglio, quello sembra apparire invece una presenza naturale, nulla da eccepire. Al massimo c'è la velocità eccessiva (che senza svincolo sarebbe meno probabile), o l'omissione di soccorso, a far notizia. Che salti invece all'occhio una lampante inadeguatezza della città costruita attorno all'auto, un'urbanistica che pare ispirata a Filippo Tommaso Marinetti, non lo nota nessuno. Sarebbe invece ora di cominciare a notarlo, invece di blaterare sciocchezze forcaiole sugli omicidi stradali, che intervengono (andrebbe sottolineato) dopo il fattaccio, anziché prevenirlo e evitarlo.

Qui il commento di due anni fa, alla Strage di via Famagosta - Di seguito l'articolo di cronaca locale

Simone Bianchin, «Accelera al semaforo travolge la ragazzina e scappa nella notte», la Repubblica Milano, 14 settembre 2015
Una Bmw di colore blu con un pirata della strada a bordo, che dopo aver investito una bambina è fuggito. L’incidente alle 21 di sabato in viale Giovanni da Cermenate, all’altezza del numero 19, zona Barona, all’incrocio con via Montegani, regolato da semafori.

La Bmw blu, che secondo alcuni testimoni oculari dell’incidente aveva accelerato in prossimità del semaforo all’incrocio per passare con il giallo prima che scattasse il rosso, probabilmente era da poco uscita dalla tangenziale. La bambina, cinese, che era accompagnata dalla mamma (rimasta poco più indietro rispetto a lei) per tornare a casa in via De Sanctis, stava attraversando in prossimità delle strisce pedonali. La macchina ha continuato la corsa diretta verso via Antonini «senza neanche una frenata», fa sapere la polizia locale intervenuta sul posto: «Non andava piano perché arrivava dalle autostrade, da un cavalcavia o da un sottopasso. I testimoni dicono che era in accelerazione e che poi ha pensato di andare via più veloce della luce».

Non escludendo che la persona che era alla guida possa aver cercato un avvocato e decida di presentarsi spontaneamente, è questa la macchina che la polizia locale sta cercando. L’auto, nell’impatto con il corpo della bambina centrata e caricata in parte sul cofano, ha perso per strada uno specchietto retrovisore che potrebbe risultare utilissimo alle indagini per risalire all’intestatario della vettura, senza contare che spesso, in aggiunta, le analisi dei materiali che rimangono sull’asfalto hanno consentito di ottenere anche il numero di telaio dell’auto.

Intanto, le immagini della Bmw i vigili le stanno cercando nei filmati di diverse telecamere, da quelle posizionate lungo le tangenziali a quelle ai caselli di uscita nella periferia sud, alle riprese delle telecamere di diverse banche. I vigili credono che i filmati possano essere utili anche per l’individuazione della targa, soprattutto le registrazioni di una telecamera comunale di via Montegani, da dove pare provenisse la Bmw.

La ragazzina, soccorsa dal 118, è stata trasportata in codice rosso all’Humanitas di Rozzano, dove le sono state riscontrate diverse fratture. Arrivata gravissima, era stata stabilizzata e ieri le sue condizioni destavano minor preoccupazione. Escluso il pericolo di vita, la prognosi riservata è stata sciolta e fissata in 90 giorni.

Piccolo caso da manuale di tutela della greenbelt: l'organismo (unico sul mercato sinora) sovracomunale fa il suo mestiere, ma senza poter proporre nulla. La Repubblica Milano, 10 settembre 2015, postilla (f.b.)

Lo stop è definitivo. E perché l’operazione possa ripartire, sarà necessario che venga presentato un nuovo progetto, in sostituzione di quello firmato dall’archistar Mario Botta, pensato per occupare 132mila metri quadrati oggi destinati alle coltivazioni. Il Parco agricolo Sud dice no a Giorgio Squinzi, numero uno di Confindustria: l’imprenditore aveva progettato di spostare tra il verde del parco gli uffici e la sede principale della Mapei spa, la società specializzata nella produzione di materiali chimici per l’edilizia di cui è amministratore unico. A mettere il veto, con una delibera votata all’unanimità, è stato però ieri il Consiglio direttivo del Parco, espressione della Città metropolitana guidata da Giuliano Pisapia. Il Consiglio conta undici membri, di cui quattro della Città (tra cui il presidente Michela Palestra). E poi un componente per Palazzo Marino, uno per le associazioni ambientaliste e uno per gli agricoltori, e poi i sindaci di Opera, Cusago, Peschiera Borromeo e Pieve Emanuele.

Il progetto della Mapei risale a un anno fa, ed era stato approvato – due settimane prima della scadenza del mandato – dall’ex Provincia di Guido Podestà. Prevedeva la costruzione della nuova sede della società su tredici ettari dentro il parco, di cui una decina da edificare. Il no di ieri, che segue un primo orientamento espresso a luglio, impedisce la firma dell’accordo di programma, richiesto dal Comune di Mediglia nel cui territorio sarebbe ricaduta la nuova costruzione. Motivo, il fatto che «la proposta contrasta con tutti i livelli di pianificazione territoriale esistenti, e con la vocazione agricola e rurale del Parco Sud».

Non solo un no al cemento, quindi, ma soprattutto «alla realizzazione di un sito industriale all’interno di un’area agricola – spiega Michela Palestra, incaricata da Pisapia di presiedere il Consiglio direttivo, e sindaco di Arese – in aperto contrasto con la ragion d’essere del parco stesso, che è quella di tutelare l’agricoltura». A far valutare negativamente l’operazione, anche l’idea della Mapei di non assumere per il momento nuovi lavoratori, con ricadute positive in termini occupazionali sul territorio. Ma di limitarsi soltanto a usarli per riorganizzare le sue attuali risorse, nonostante la costruzione dei nuovi spazi. E adesso? «Il ruolo del Parco era quello di valutare la proposta così com’era – dice Palestra – . Se ci saranno delle riformulazioni al progetto, le valuteremo se ancora di nostra competenza». Tradotto: se ne potrà riparlare qualora il gruppo di Squinzi presenti un nuovo progetto. Con un impatto minore, se non nullo, sul Parco Sud.

postilla
Riassumendo: c'è un comune che pensando come spesso accade solo ai fatti propri gestisce (o meglio si fa gestire) la proposta di un grande operatore economico, davvero grande come il Mr. Vinavil Giorgio Squinzi al momento al vertice di Confindustria, con la griffe dell'archistar Mario Botta. Se guardiamo una mappa della zona, dal punto di vista comunale c'è una superficie del tutto residuale di fianco a un nucleo frazionale, di cui quell'intervento architettonicamente qualificato sarebbe una specie di logico completamento, tra margini oggi sfrangiati e una strada di collegamento intercomunale di una certa importanza. Ma se usciamo dalla microprospettiva municipale, vediamo che quella remota frazione lo è soltanto se osservata dalla sede del municipio titolare, visto che si infila a cuneo dentro altre circoscrizioni amministrative per nulla remote, tagliate da una quasi autostrada, e con un massiccio nastro a destinazione produttiva: perché non cercare di insediare il progetto di Mario Botta, con le adeguate modifiche, dentro quel consolidato (e attrezzato) contesto? Facile: perché all'impresa interessava anche speculare sui valori dei terreni, e aveva trovato un sindaco disponibile. Meno facile, è immaginare quale ruolo potrebbe avere una Città Metropolitana meno sospesa nel nulla, ad esempio con poteri urbanistici e di trattativa diversi da quelli di un ente parco, che non può andare molto oltre il si o il no. Per adesso accontentiamoci della tutela, ma proviamo a non dimenticare che esiste anche una cosa detta sviluppo, che andrebbe promosso e governato, alla dimensione adeguata come si ripete da parecchi lustri (f.b.)

Una delle maggiori aggressioni al nostro presente e al nostro futuro sono le Grandi opere. Per difendersi bisogna combattere, per combattere bisogna conoscere. Ecco un utile strumento di conoscenza, un'intelligente arma di difesa della salute, della bellezza, della funzionalità, dell'equità, delle risorse, per noi e per i posteri. La citta invisibile, 9 settembre 2015

Al Forum internazionale contro le Grandi Opere Inutili e Imposte – Bagnaria Arsa (UD) tra il 17 e 19 luglio scorso – si è tenuto un’intervento di Alberto Vannucci, autore dell'”Atlante della corruzione”, Edizioni Gruppo Abele (Torino 2012) di cui pubblichiamo una sintesi in 15 punti, a margine potrete ascoltare la registrazione video della relazione di Vannucci al TEDxFirenze.

1) Le nuove forme della corruzione sistemica in Italia: non più e non solo un’attività illecita, una violazione del codice penale, ma un meccanismo complesso, consolidatosi nel tempo, realizzato con modalità sofisticate frutto di un lungo processo di apprendimento, attraverso il quale un piccola minoranza di soggetti che appartengono alla classe dirigente (politici e burocrati corrotti, imprenditori, professionisti, faccendieri) e soggetti criminali (organizzazioni mafiose) si impossessano congiuntamente di beni comuni, attraverso una privatizzazione di fatto di risorse di proprietà collettiva: risorse di bilancio, ma anche ambientali, paesaggistiche (consumo di territorio), politiche (reinvestimento dei proventi per acquistare consenso), ecc.. La realizzazione della grande opera permette di accrescere considerevolmente la scala di questo processo di appropriazione criminale di rendite parassitarie, concentrando le opportunità di profitto illecito entro sedi istituzionali e processi decisionali circoscritti e più facilmente controllabili, minimizzando così i rischi delle corrispondenti attività illecite.

2) Corruzione e pressioni politiche per la realizzazione di grandi opere (denominate nella letteratura internazionale “white elephants” – elefanti bianchi – per la loro capacità di gravare con costi insostenibili su una comunità) si sviluppano in simbiosi. Grande opera è spesso sinonimo di grande corruzione, e viceversa. La presenza di un tessuto di corruzione capillare e le aspettative di guadagno illecito dirottano quote crescenti di bilancio verso i settori nei quali sono attesi maggiori profitti illeciti, come quello delle grandi opere (oltre a forniture militari, etc.). Le fasi di progettazione, finanziamento, realizzazione, etc. delle grandi opere presentano a loro volta molteplici passaggi particolarmente vulnerabili alla realizzazione di scambi occulti.

3) La natura intrinsecamente criminogena delle grandi opere. Nella letteratura scientifica sono stati individuati una serie di fattori (sintetizzabili in una “formula della corruzione”) che descrivono le condizioni nelle quali è più alta la probabilità che vi sia corruzione. Tutti questi fattori, senza eccezione, convergono nel rendere più redditizie e meno rischiose le opportunità di corruzione nel caso di grandi lavori pubblici. Molto brevemente, la probabilità che si realizzino scambi occulti crescono se:

4) Il soggetto che prende decisioni pubbliche opera in un regime di monopolio, e chi voglia conseguire quello specifico beneficio non ha altri cui rivolgersi. La grande opera non ha alternative, la sua realizzazione è programmata, progettata, deliberata, realizzata sotto la supervisione di un unico soggetto pubblico di fatto monopolista, che potrà “capitalizzare” in tangenti la sua posizione privilegiata rispetto agli imprenditori e agli altri soggetti privati che partecipano alla procedura di aggiudicazione dei corrispondenti contratti.

5) Le rendite create tramite le decisioni pubbliche sono consistenti. La grande opera permette per sua stessa natura la gestione di ingenti, talora estremamente ingenti, talora colossali quantità di risorse pubbliche, facile preda degli appetiti di corrotti e corruttori. Lo “spread etico” che separa i paesi più corrotti da quelli meno corrotti è quantificabile nel differenziale del costo medio delle opere nei paesi dove le tangenti sono la regola (vedi ad esempio linee Tav, passante ferroviario, Mose, etc., costati in Italia tra il doppio e sei volte tanto rispetto a equivalenti realizzazioni in altri paesi).

6) L’opacità dei processi decisionali, dalla fase della giustificazione e del finanziamento a quella della realizzazione, che si lega alla grande complessità degli aspetti tecnici, al fatto che molti di quei passaggi – stante la strutturale inefficienza delle strutture tecniche pubbliche che dovrebbero gestirli, particolarmente marcata nel caso italiano – sono di fatto delegati a soggetti privati, o utilizzano forme pseudo privatistiche (project financing, general contractor) che di fatto sottraggono alla trasparenza dei processi decisionali pubblici i corrispondenti passaggi decisionali. Informazioni confidenziali possono così diventare una risorsa di scambio nella corruzione. Particolarmente preoccupante è l’opacità che investe la fase di definizione delle stesse esigenze collettive e dei bisogni pubblici che la grande opera dovrebbe soddisfare, resa possibile dall’ambiguità che circonda molti parametri utilizzati nei calcoli dei “costi-benefici” dell’eventuale realizzazione, che permette ai decisori di accampare un qualche reale “interesse pubblico” come motivazione della decisione di investire ingenti risorse in quella specifica realizzazione, che appare invece di dubbia utilità (o nel peggiore dei casi di sicura nocività).

7) L’elevata discrezionalità dei processi decisionali, che spesso si associa alle condizioni di pseudo-emergenza costruite fittiziamente o a tavolino (emergenza legata anche alle vischiosità dei corrispondenti processi decisionali “ordinari”, che possono essere aggirati solo tramite ordinanze in deroga a tutte le disposizioni vigenti, secondo il modello “cricca della protezione civile”). Nella grande opera le iniziali decisioni di fondo sono altamente discrezionali – quali “grandi opere” siano meritevoli di finanziamento per la realizzazione – e un analogo livello di discrezionalità accompagna molti altri passaggi. Naturalmente la decisione discrezionale può essere più facilmente “venduta” dagli amministratori e dai politici corrotti in cambio di tangenti.

8) L’indebolirsi dei controlli, di tutti i meccanismi di supervisione e sanzione delle condotte devianti e della corruzione (non solo il controllo giudiziario, ma anche quello amministrativo, contabile, politico, sociale, concorrenziale). Nelle grandi opere spesso i controlli istituzionali sono largamente vanificati dalle caratteristiche “straordinarie” adottate in molte procedure di aggiudicazione e di gestione dei lavori, oltre che dalla estrema complessità dei contenuti tecnici dei corrispondenti atti e provvedimenti, dal moltiplicarsi di soggetti istituzionali e di attori pubblici coinvolti (che offusca le responsabilità individuali nella decisione finale). Il controllo politico (oltre che dal reinvestimento nella creazione di reti clientelari di consenso dei proventi degli scambi occulti) è vanificato dal cemento invisibile delle reti di corruzione: il reciproco potere di ricatto che fa sì che si formi un “partito unico degli affari”, avente natura bipartisan dato il coinvolgimento di soggetti di ogni colore politico, che protegge i corrotti, ne favorisce l’ascesa nelle rispettive carriere, si compatta assicurando un convergente appoggio quando occorre, ossia nelle diverse fasi dei processi decisionali che accompagnano la realizzazione delle grandi opere. Il controllo concorrenziale è vanificato dall’orientamento collusivo largamente prevalente tra gli imprenditori, specie tra i pochi di dimensioni tali da poter partecipare alle gare per la realizzazione di grandi opere: nessuno denuncia l’altrui corruzione, preferendo aspettare il proprio turno in una spartizione che assicura a tutti ingenti margini di profitto, irrealizzabili in un contesto economico aperto e concorrenziale.

9) L’utilizzo estensivo nel discorso pubblico di argomenti di ordine simbolico legati al un presunto valore intrinseco delle grandi opere, accompagnati spesso da una retorica giustificatrice che si accompagna al richiamo alle esigenze del “progresso” o all’”orgoglio di patria” nella loro realizzazione (vedi il caso della diga del Vajont, la più alta diga al mondo con quelle caratteristiche tecniche, “orgoglio dell’ingegneria italiana”) produce un duplice effetto: (a) crea un clima favorevole (ovvero non ostile) in settori dell’opinione pubblica in ordine alla sua realizzazione, attenuando ulteriormente il controllo sociale; (b) può attenuare nei partecipanti ai corrispondenti processi decisionali – tramite un meccanismo psicologico di auto-giustificazione – le barriere morali al coinvolgimento in attività illecite, che finiranno per essere ritenute in qualche modo funzionali al “bene superiore” per gli interessi collettivi della realizzazione dell’opera.

10) La grande opera si associa spesso a lunghi tempi di realizzazione. Si dilatano i tempi anche a seguito delle frequenti lacune progettuali (causate dalla debolezza dell’amministrazione) e del fatto che per sua stessa natura la realizzazione della grande opera espone a una probabilità più elevata – per la sua complessità progettuale, per l’alto impatto sui territori, etc. – di incorrere in difformità rispetto a quanto inizialmente previsto. Questi fattori costringono a interruzioni e ritardi legati all’esigenza di rinegoziare i termini contrattuali. La rinegoziazione espone di per sé a un ulteriore rischio corruzione, mentre l’allungamento dei tempi giustifica inefficienze nella realizzazione che diventano il “serbatoio” cui attingere per prelevarvi le risorse di scambio della corruzione.

11) Grande opera significa anche grande complessità e difficoltà tecniche nella gestione che si proiettano nei futuri lavori di manutenzione. Questo è un valore aggiunto nella prospettiva di corrotti e corruttori, i quali sanno che una volta completata la realizzazione della grande opera potranno comunque continuare a contare su un flusso ininterrotto e costante di tangenti grazie appunto alle successive forniture, opere di supporto, contratti per la manutenzione, etc. (vedi caso Mose).

12) L’inutilità della grande opera è un valore aggiunto quando la sua finalità è l’arricchimento di pochi. Infatti la grande opera utile, che risponde a un concreto bisogno sociale da soddisfare, crea aspettative e attese nella popolazione, e dunque un diffuso controllo sociale su tempi e costi della realizzazione. Ma la grande opera inutile, quando si siano vinte le resistenze degli (talora sparuti) oppositori che ne contestano le ragioni, diventa semplicemente un “bancomat” cui attingere per l’arricchimento illecito dei corrotti e dei corruttori, senza che vi siano pressioni dal basso per accelerarne e neppure completarne la realizzazione.

13) L’infiltrazione mafiosa è più facile nel corso della realizzazione di grandi opere, perché i soggetti criminali possono inserirsi facilmente in quei lavori in subappalto e forniture a bassa intensità tecnologica, riciclandovi capitali, sversandovi rifiuti tossici (vedi realizzazione dell’autostrada Bre-Be-Mi) e soprattutto possono fornire utili servizi di “regolazione interna” nelle transazioni illegali che coinvolgono un’estesa rete di corrotti e corruttori. I protagonisti delle estese reti di corruzione e di scambio illecito che si formano attorno alle grandi opere, in altri termini, formulano una “domanda di protezione” nei loro scambi occulti che può essere soddisfatta dalle organizzazioni mafiose, le quali si inseriscono stabilmente in quel tessuto criminali dandogli forza e stabilità – vedi i casi Mose (alcune piccole imprese subappaltanti confiscate per mafia), Salerno-Reggio Calabria, (irrealizzato) Ponte sullo stretto.

14) Grande opera significa grande rischio di disastro: disastro ambientale od ecologico (vedi Mose), ma anche catastrofe in termini di vite umane – si veda il caso della diga del Vajont.

15) Come spezzare il nesso simbiotico che lega grandi opere e grande rischio corruzione? Difficile credere nella palingenesi di soluzioni ed efficaci proposte anticorruzione calate dall’alto – nelle sedi istituzionali dove troppo spesso dominano lobbies, cricche, comitati d’affari che grazie alla corruzione hanno costruito le proprie fortune, e di quella realtà criminale sono partecipi, beneficiari o conniventi. Occorre piuttosto sostenere, promuovere e valorizzare tutte le esperienze di anticorruzione dal basso, a livello di comunità e di enti locali, attraverso la conoscenza della reale natura di questi fenomeni criminali, della zavorra insostenibile che essi rappresentano degradando la qualità della vita civile e dei servizi pubblici, cancellando opportunità di sviluppo economico, conducendo all’affievolirsi o all’espropriazione di fatto dei diritti politici e civili. Movimenti, gruppi, associazioni, comitati di cittadini possono e devono contribuire a riallacciare i circuiti di controllo democratico che li legano ai loro amministratori locali e ai decisori pubblici, elaborando insieme le migliori strategie di prevenzione e controllo delle distorsioni e delle degenerazioni nella gestione della cosa pubblica e del bene comune.

Alberto Vannucci insegna Scienza Politica presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa, dove dirige il Master in Analisi, prevenzione e contrasto della criminalità organizzata e della corruzione, organizzato insieme a Libera e Avviso pubblico. Tra le sue ultime pubblicazioni sulla corruzione: Atlante della corruzione (Ega 2012), The hidden order of corruption (Ashgate 2012, con D. della Porta), Mani impunite (Laterza 2007, con D. della Porta).

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La Repubblica, 7 settembre 2015C’è da giurare che se Sesto Fiorentino non sorgesse, appunto, al sesto miglio a nord di Firenze, il Museo di Doccia Richard Ginori sarebbe già stato riaperto. E invece la sovrabbondanza museale fiorentina (ben 3 sui famosi 20 supermusei di Franceschini sono qua) ha fatto passare sotto silenzio un danno di prima grandezza per il patrimonio storico e artistico nazionale. Il Museo Ginori, infatti, è uno dei più antichi musei industriali del mondo. Quando nacque, nel 1754, consisteva nella Galleria della Villa di Doccia (frazione di Sesto) in cui il marchese Carlo Ginori aveva deciso di esporre i migliori prodotti della sua miracolosa fornace, che era in breve tempo diventata uno degli epicentri europei dell’arte della porcellana. La capacità chimiche di Carlo, quelle imprenditoriali del figlio Lorenzo e la possibilità di attingere allo sconfinato repertorio artistico e decorativo fiorentino resero quella della Ginori una storia di successo: quando, nel 1893, essa fu acquistata dalla milanese Richard, la produzione annua ascendeva alla quota strepitosa di otto milioni di pezzi. Il museo (che di pezzi ne ha invece ottomila, e dal 1965 è ospitato in edificio costruito ad hoc da Pier Niccolò Berardi, architetto del Gruppo Toscano di Giovanni Michelucci) racconta passo a passo questa vicenda, partendo dalle vere e proprie sculture tardobarocche prodotte ai tempi di Carlo, e seguendo l’evoluzione del gusto italiano ed europeo fino ai capolavori di Giò Ponti.

In qualunque paese d’Europa un simile luogo sarebbe l’epicentro di un’intensa attività di ricerca, divulgazione e produzione culturale. Invece, il museo è chiuso ormai da un anno e mezzo. Il museo — tuttora proprietà privata dell’azienda — è rimasto vittima del brutto fallimento della Richard Ginori, in seguito al quale l’ex amministratore delegato e sei membri del cda sono stati rinviati a giudizio per bancarotta fraudolenta. L’attività produttiva è stata rilevata dalla Gucci, che ha rinnovato il negozio di Firenze e ha dato nuovo impulso alle esportazioni. Ma — smentendo la retorica del privato che salva il patrimonio culturale — né Gucci né alcun altro si sta facendo avanti per comprare, e dunque riaprire, il museo.

Poche sere fa, in un’assemblea pubblica i sestesi hanno “gridato” che rivogliono il “loro” museo: un modo per dire che Sesto non si rassegna a farsi ridurre alla pattumiera in cui Firenze scarica i suoi servizi ingombranti, dall’aeroporto all’inceneritore. Si è sentito affermare con lucidità che il Museo Ginori non è solo un deposito d’arte, ma è l’unico luogo cittadino che racconta l’epopea di una comunità di lavoratori, orgogliosamente legati a una sapienza manuale tramandata di generazione in generazione.

È straordinario che, in tempi come questo, i cittadini vadano in piazza a chiedere un museo: e, in un paese normale, a questo punto si farebbero avanti il Comune, o il Ministero per i Beni culturali. Perché il museo si compra con sei o sette milioni, cioè con la cifra che buttiamo per un paio di mostre stagionali, meno della metà di quanto costerà l’arena kitsch del Colosseo. Non sarebbe difficile riaprirlo, né dotarlo di una giovane comunità di ricercatori capace di farlo funzionare come polmone civile. La sfida è aperta: c’è qualcuno che ha un progetto per Sesto Fiorentino?

Un esempio che va oltre il valore locale, di obsolescenza non programmata della città costruita attorno alle automobili: investimenti che al mutare della situazione si rivelano una vera e propria tara per l'efficienza e l'abitabilità. La Repubblica Milano, 7 settembre 2015, con postilla (f.b.)

I collaudi e gli ultimi passaggi burocratici stanno per finire. Poi, tutto sarà pronto per il taglio del nastro. Il tunnel di Gattamelata aprirà entro la fine del mese. Nessuno immagina, però, feste e sfarzi per l’inaugurazione della galleria di quasi un chilometro che collega via De Gasperi a casa Milan e via Gattamelata. L’opera è la tra le più controverse che si siano realizzate in città, per il rapporto tra costi, altissimi e raddoppiati, e utilità, molto dubbia dato il trasloco della Fiera a Rho-Pero. Immaginato da Formentini, il tunnel degli sprechi è stato ereditato dalla giunta Pisapia. La zona è contrarissima.

I collaudi sono agli sgoccioli e la fase attuale, l’ultima, è quella della presa in carico e della gestione degli impianti. Il tunnel di Gattamelata è pronto per essere aperto. La data ufficiale ancora non c’è, si parla del 20 o del 27 settembre come possibili giornate di inaugurazione che comunque, assicurano tutti, avverrà entro fine mese.

Il taglio del nastro non sarà tra feste e sfarzi. La galleria lunga quasi un chilometro che collega via Alcide De Gasperi a via Gattamelata è l’opera più controversa che si sta ultimando in città, tra costi altissimi, e utilità molto dubbia. Pensata da Formentini, decisa da Albertini, portata avanti dalla Moratti ed ereditata da Pisapia: i lavori sono iniziati nel 2006, nonostante fosse già avvenuto il trasloco della Fiera a Rho-Pero e quindi drenare traffico dalla A4 e dalla A8 non fosse una priorità. Si pensò comunque che il tunnel avrebbe potuto alleggerire il nuovo quartiere di Citylife. E oggi, se si facesse davvero lo stadio del Milan al Portello (cosa davvero difficile), potrebbe comunque dare il suo contributo durante le partite. In ogni caso il tunnel — che ha Mm come stazione appaltante — è costato 115 milioni di soldi pubblici, quasi il doppio dei 62 iniziali.

Sbocco del tunnel Gattamelata in quartiere (foto F. Bottini)

Più le bonifiche, un percorso tortuoso durato tre anni e lievitato a oltre 50 milioni. E oggetto di annosi contenziosi (proprio sugli extra costi) con i costruttori (la Claudio Salini), una vicenda che ha tenuto bloccato il cantiere per tre anni spingendo in là la fine dei lavori prevista nel 2009. La giunta Pisapia se l’è ritrovato, il tunnel della discordia e degli sprechi. Il quartiere è sempre stato contrario. Lo ribadisce ancora oggi il presidente di Zona 8, Simone Zambelli: «È uno spreco incredibile, anche aprirlo, non ha alcuna utilità — dice — se non quella di intasare alcune strade intorno a via Gattamelata dove ci sono case e scuole. Chiediamo al Comune di ripensarci e di trovare una destinazione alternativa».

Palazzo Marino assicura che entro settembre si inaugurerà. E che, dalle stime, non ci dovrebbero essere particolari impatti negativi sul quartiere in termini di traffico. «È un’opera che non avremmo mai avviato e che abbiamo ereditato e sicuramente tutti quei milioni sarebbero stati più utili investirli in opere di trasporto pubblico — dice l’assessore alla Mobilità, Pierfrancesco Maran — . Una volta terminata, però, ha senso comunque aprirla». Resterà chiuso invece il tratto di galleria che avrebbe dovuto sbucare ai parcheggi del Portello quando era polo fieristico, oggi a fondo cieco. Qui negli anni si sono pensate varie destinazioni, dal parcheggio di auto sequestrate a un museo. Oggi l’area è in cerca di una destinazione, probabilmente legata al futuro del Portello, che sia lo stadio (poco probabile) o qualcosa d’altro.

postilla
Anche senza citare il curioso simbolismo/coincidenza del titolare dell'impresa Claudio Salini, appena scomparso proprio in un incidente automobilistico a Roma, dovrebbe saltare all'occhio ormai evidente la discrasia fra l'idea novecentesca di città (e relative norme, pratiche, aspettative) tutta concepita e costruita attorno all'auto e all'umanità stipata dentro quelle auto, e le nuove dinamiche così come abbastanza faticosamente ma decisamente si stanno delineando. Accade in tutto il mondo che le enormi arterie urbane dette freeway o expressway, di raccordo tra la rete autostradale e i punti nevralgici dei centri direzionali, vengano poco cerimoniosamente liquidate con le cariche di dinamite, o riciclate in viali a percorrenza condivisa e velocità assai più contenute di quelle sognate all'epoca di Marinetti e dei razionalisti che ne condividevano il mito dell'azione fulminea. Eppure, nonostante tutto ciò, nonostante il mondo si stia orientando volente o nolente in altre direzioni, vediamo i nostri nuovi o rinnovati quartieri continuare ad avvoltolarsi su quella tara ingestibile, o quasi, di certa accessibilità, certi calcoli sui parcheggi, certi diritti che paiono divini, certe infrastrutturazioni obsolete. Il quartiere descritto dall'articolo è paradigmatico del tema, attraversato da una delle prime sopraelevate italiane, e in genere legato con un solido cordone ombelicale all'anello delle Tangenziali. Ma la cosa si può replicare anche per tanti altri casi milanesi e italiani (la leggendaria sopraelevata genovese tanto per fare un nome), di infrastrutture il cui senso è tutto da pensare, e soprattutto di città da ripensare attorno a quelle infrastrutture, coi loro nuovi flussi, nuovi diritti, e nuove modalità di relazione, fuori dagli abitacoli a motore privati (f.b.)

Politici e imprenditori corrotti,controlli inesistenti, qualità, sicurezza e patrimonio comune sistematicamentesacrificati al maggior lucro di chi è vicino al potere. Cosí va l’Italia furbafoggiata da Craxi, Berlusconi, Renzi. Il Fatto quotidiano, 6 settembre 2015

Mafia, politici corrotti, tecnici venduti, società fittizie, scavi abusivi, ripetuti passaggi illegali di appalti e subappalti, carenza e omissioni nella vigilanza, sindaci inefficienti: tutte le zavorre dell’arretratezza d’Italia sono racchiusi in appena trenta pagine di relazione sull’alta velocità di Firenze stilata dall’autorità nazionale anticorruzione e firmata da Raffaele Cantone lo scorso 4 agosto 2015. E su ogni macigno di quella zavorra c’è un nome. Da quello dell’ex presidente dell’Umbria, Maria Rita Lorenzetti – arrestata nel settembre 2013 – al dominus delle infrastrutture Ercole Incalza, in manette lo scorso marzo, che ha trascinato alle dimissioni l’ex mini
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in carcere i suoi vertici – alla Nodavia e a Condotte, coinvolta anche nell’inchiesta di Venezia sul Mose. Politica, imprenditori. Tangenti, affari. Il Tav di Firenze sembra una Cornice nel Purgatorio del malaffare nazionale: non esiste l’Inferno e il Paradiso è sempre (e di nuovo) a portata di mano.

L’OPERA è stata assegnata nel 1999 e doveva essere interamente conclusa nel maggio 2015. “Termini che evidentemente non risultano più perseguibili – scrive Cantone – per cui si appalesano rilevanti ritardi nell’esecuzione”. Esecuzione che è al momento ferma: sono scaduti i permessi, i vertici delle società sono stati arrestati, chi per corruzione chi per associazione a delinquere, chi per abuso d’ufficio, chi per tutti e tre i reati e per altri ancora. L’opera doveva costare poco più di 500 milioni, è lievitata fino a 750 prima di essere bloccata e “registrerà ulteriori incrementi”.

Ma il dato più allarmante tra i tanti indicati da Cantone è riferito alla sicurezza dell’opera: il materiale utilizzato è “privo della qualità richiesta”. E, ricorda il presidente dell’anticorruzione, l’opera “sottoattraversa il centro cittadino, interferendo con la falda idrica” e ha già causato “dissesti che hanno interessato la scuola Rosai (chiusa a causa di crepe e smottamenti subiti dai lavori sotterranei-ndr) confermando la delicatezza del contesto”.

È evidente che i “comportamenti dei soggetti preposti all’esecuzione sono finalizzati a conseguire maggiori utili a discapito di una minore qualità dell’opera”. Certo i lavori al momento sono fermi. Ma le aziende interessate vorrebbero portarli a termine, per questo l’autorità presieduta da Cantone è dovuta intervenire. Ha sentito Rete Ferrovie Italiane – che ha affidato l’appalto – e le società coinvolte: Italferr e Nodavia in particolare.

LA PRIMA era quella guidata dalla Lorenzetti, la seconda è rimasta coinvolta in almeno tre inchieste giudiziarie. Per carità, ha sempre rinnovato i propri vertici e allontanato i “beccati”, come scrive Cantone ripercorrendo l’iter complessivo dell’opera. La magistratura interviene già nel 2010 per smaltimenti illeciti dei materiali provenienti dagli scavi. Nel 2013 di nuovo. Nodavia, riporta Cantone, “avrebbe attuato lo smaltimento in modo illecito, con accordi occulti con soggetti formalmente incaricati dello smaltimento, finalizzati a corrispondere agli stessi somme inferiori a quanto stabilito dai contratti stipulati, con retrocessione in nero a favore di Nodavia di ingenti somme di denaro”. Il classico schema. Ma non basta. Prosegue la relazione: “In realtà tali ditte non avrebbero provveduto allo smaltimento in quanto l’attività sarebbe stata gestita da una ditta, da quanto indicato dalla procura, legata ad ambienti della criminalità”.

E dove saranno andati i quintali di rifiuti speciali? E una volta individuata l’attività illecita si è interrotta? No. “è perdurata la gestione abusiva” svolta, fra l’altro, “senza alcuna autorizzazione e con modalità tipiche riconducibili a un trattamento di rifiuto con scarichi non autorizzati, stoccaggi in piscine e dispersione dei fanghi sui piazzali e in falda”.

Le 30 pagine di relazione sono un epitaffio all’opera pubblica. Cantone scrive, fra le altre cose, che sono mancati gli “adeguati controlli”, che le “criticità emerse dalle indagini della Procura non possono ritenersi del tutto superate” ancora oggi, che ci saranno “ulteriori richieste economiche” e molto altro ancora.

Appare dunque una buona notizia scoprire l’inefficienza amministrativa di Palazzo Vecchio. Le società hanno fretta di riprendere i lavori, l’opera è ritenuta fondamentale da Rfi (che, scrive Cantone, potrebbe essere l’unica parte lesa: oltre il Paese) e per questo serve una nuova autorizzazione, chiesta il 2 dicembre 2013. Ma per il via libera servono numerosi pareri tra cui quello del Comune di Firenze oggi guidato da Dario Nardella. Questo è “ad oggi non ancora pervenuto”.

Parla Daniel Libeskind «Saranno le città i luoghi chiamati a realizzare politiche d’integrazione». Le idee di un architetto famoso sulla citta e sul tema delle migrazioni. Buone intenzioni e qualche piccola verità in in mare di ovvietà: e un malinteso di fondo. La Repubblica, 3 settembre 2015, con postilla

Lodz, Tel Aviv, New York, Milano. Ma anche Berlino, Sao Paulo, Seul, Singapore, Londra, Gerusalemme, Las Vegas. E tutte le altre città in cui Daniel Libeskind — architetto nato 69 anni fa in Polonia e cresciuto tra Israele e Stati Uniti — ha vissuto e progettato. Fino a Roma dove, nell’ambito del Festival internazionale della cultura e della letteratura ebraica, Libeskind domani sera sarà protagonista dell’incontro: “La linea del fuoco: città tra memoria e futuro”. «Perché innovazione e tradizione non si possono separare », spiega l’architetto a Repubblica. «Solo la trasformazione è in grado di introdurre qualcosa di nuovo. In architettura, per esempio : se fai qualcosa di astratto,
senza riferimenti al passato, il risultato non avrà senso. Devi guardarti indietro per comprendere dove andare».

A proposito di presente, quanto e come il web influenza la progettazione?«Internet ha rivoluzionato il nostro modo di pensare e analizzare le cose, rappresenta una sfida e un’opportunità continua. Possiamo scoprire in pochi minuti informazioni che un tempo erano prodotto di mesi di ricerca. Il progresso tecnologico ha innovato l’architettura. Ma va ricordato che si tratta di strumenti, che dobbiamo saper utilizzare».

C’è un progetto a cui è particolarmente legato?
«Non puoi mai innamorarti troppo di qualcosa che hai fatto. Ogni progetto è come un figlio: avrà la sua vita e la sua evoluzione, devi volergli bene, averne cura e rispettarlo. Quando immagini qualcosa devi essere pronto ad accettarne le conseguenze: non conta quel che vedi oggi, ma quello che diventerà».

Ci fa degli esempi?
«Il Museo ebraico di Berlino: non avevo mai fatto niente del genere, fu il mio primo vero progetto. Non posso che definire emozionante quell’esperienza».

E poi?
«Il progetto di Ground Zero, ovviamente. Che è ancora in sviluppo ed è stato la prova più complicata che abbia affrontato. Professionalmente e umanamente ».

New York: è quella la città a cui è più legato?
«Ci vivo e la amo: è la capitale dell’immaginazione, ma...».

Ma?
«Ci sono altre città importanti per me. Come Milano: adoro quel suo essere europea, internazionale. E poi Tel Aviv, una metropoli in miniatura».

Cosa cerca in una città appena arriva?
«Le persone. I loro occhi, i loro gesti. Osservo come e dove guardano, il modo in cui camminano. Sono elementi che ti fanno capire dove ti trovi, come le persone vivono quel luogo e quindi ti permettono di trovare una connessione. L’empatia. E poi, ogni città ha la sua luce e la sua personalità, un corpo e un’anima, con cui devi saperti relazionare se vuoi viverla, lavorarci o progettare qualcosa di importante».

Spesso le metropoli crescono a dismisura, oltre i propri limiti. Esistono limiti?
«Io privilegio un’altra lettura. Prendiamo Sao Paulo, città infinita che amo e dove ho lavorato: può sembrare esagerata, disperata, eccessiva, una giungla di cemento da venti milioni di abitanti preda del caos architettonico. E invece...».

Invece?
«Quel che consideriamo disordine si può rivelare un altro ordine, differente. Le città si sviluppano anche così ed è fantastico comprenderne energia e creatività. La vita ci insegna sempre qualcosa: dobbiamo imparare a non lamentarci e capire, ascoltare. Ogni luogo del mondo, Italia compresa, ha conosciuto sviluppi improvvisi, contrasti drammatici ».

Intanto l’Europa è scossa dagli effetti di un’ondata migratoria senza precedenti: cosa succederà alle nostre città? Come cambieranno?
«Il fenomeno della migrazione è epocale e ci sono nazioni che stanno mostrando la loro inadeguatezza nell’accoglienza. Ma dovranno inevitabilmente adattarsi. E le città saranno protagoniste di questo processo. Perché senza capacità di integrazione e accoglienza il futuro sarà triste e diviso: le metropoli non possono che diversificarsi, diventando più interessanti anche per i più poveri. La disperazione deve trovare accoglienza, la segregazione sarebbe l’ennesimo errore».

Tutto questo fa pensare a un ruolo attivo dell’architettura.
«Lo definirei indispensabile, in accordo con le politiche di accoglienza. L’architettura deve essere il modo creativo e innovativo con cui le nostre società, i nostri governi possono rispondere alle domande più profonde così come a quelle più urgenti».

Ovvero?
«Creare quartieri accessibili, offrire soluzioni abitative innovative e alla portata anche dei più poveri è una missione irrinunciabile per la politica e una nuova sfida per architetti e urbanisti ».

Anche a discapito della sostenibilità ecologica?
«No, questo è il punto. La soluzione è sempre e comunque green . Un recente studio spiega come il consumo di asfalto in Cina negli ultimi tre anni abbia superato ogni record delle epoche precedenti. Non possiamo più permetterci questo tipo di inquinamento, l’architettura verde e sostenibile non è più un’opzione ma una via obbligata. Il riscaldamento globale è una drammatica realtà. E non risolveremo il problema mettendo un po’ di verde sui balconi dei palazzi, dobbiamo ripensare le nostre città. La sostenibilità è un dovere del presente, se vogliamo avere un futuro».

Come lo immagina il futuro?
«Sarà ovunque riusciremo a sviluppare e difendere un’idea di società aperta e democratica. Perché il futuro è un concetto che appartiene alle persone, non alle cose. E le idee, architettura compresa, devono aiutarci ad andare in quella direzione. Pace e amore può sembrare uno slogan retorico, eppure sono proprio quelli i valori di una convivenza pacifica da sviluppare e difendere. Questo intendo per democrazia: tolleranza, giustizia sociale, salute, benessere. E libertà ».

La luce è sinonimo di libertà?«La luce è un simbolo, da sempre. E non solo perché le grandi religioni ne parlano in modo simbolico. Ma perché è ciò che ci serve per vivere, per sapere dove andare. E per aiutarci a trovare il futuro ».

postilla

La lunga intervista che la Repubblica ha riservatoa Libeskind ci ha molto colpito. In primo luogo, per la grande distanza checorre ptra le idee che esprime a proposito del rapporto tra architettura e città e il contribute che ha dato con leoperazioni immobiliari delle quali è stato, se non ideatore e promotore, certo volenteroso partner: bastipensare all’area ex Fiera a Milano. Masoprattutto per il modo pone un problema indubbiamente centrale per il nostrosecolo (la grande migrazione dal Sud al Nord del mondo) e ne indica la soluzione, individuandola nella trasformazionedelle città perché esse diventino accoglienti per i nuovi arrivati.

Certo, seun intervistatore chiede a un architetto che cosa bisogna fare per affrontareun determinato problema quel signore risponderà sulla base del suo sapere e delsuo mestiere. Il vizio di certo giornalismo italiano d’oggi è quello di privilegiare, nella sceltadegli interlocutori, non l’esperto o gli esperti capaci, per il loro sapere emestiere, di dare risposte congruenti con quel determinato tema,ma semplicemente l’interlocutore più famoso in relazione a un qualsiasi tema che abbia una pur vaga attinenza all’argomento.
E il tema dell’accoglienza dimilioni di persone appartenenti ad etnie e popoli di cultura, modo di vita,necessità e bisogni, esigenze, aspettative radicalmente diverse da quelle deipaesi ospitanti pone problemi certo più ricchi e complessi di quelli cui sembrariferirsi Libeskind. Intanto, nel quadrodi una vision globale del fenomeno occorre comprendere, e decidere, quale partedei profughi dalle guerre e dalle carestie endemiche sarebbe disposta atornare sulle proprie terre, e a quali condizioni, e quale parte invece èdisposta a trasferirsi stabilmente. Poi bisognerebbe definire (ovviamente in modoconsensuale con i diretti interessati) se questi preferiscano la propriaintegrazione nella cultura e nei modi di vita della loro nuova patria, oppure sepreferiscano mantenere la propria identità. Una volta compiute queste scelte(che appartengono ovviamente a una Politica divenuta tutt’altro di quella oggipraticata) bisognerebbe programmare i luoghi, le attività, le risorse daattribuire a questi nuovi cittadini, e di conseguenza I modi nei quali disegnare e costruire gli habitat a offrire loro. Questioni, tutte, un po' più complesse di quella di disegnare nuove costruzioni nelle vecchie città, magarisecondo il modello Milanese di Residence Libeskind a Milano, che riportiamo qui sotto.


Una Biennale di architettura molto promettente, anche perché molto lontane dal mainstream. Non tanto per ciò che si propone di escludere, ma per ciò che vuole includere: l'architettura che serve a chi abita la città, non a chi ha più soldi degli altri. La Repubblica, 1 settembre 2015

Quarantotto anni, camicia beige e pantaloni color castagna, mani in tasca e capelli sapientemente disordinati, il cileno Alejandro Aravena ha anticipato ieri qualcosa della sua Biennale Architettura, la quindicesima della serie. L’ha intitolata Reporting From the Front . Inizierà nel maggio e si chiuderà nel novembre del 2016. Sarà assai diversa dalle Biennali che l’hanno preceduta e sarà per molti aspetti una proiezione non solo delle proprie scelte culturali e di curatore, ma anche della propria attività di progettista. Non ancora un nome di primissimo piano, Aravena è però un capofila dei tanti professionisti sudamericani che si cimentano con un’architettura dal marcato accento sociale, attiva nelle sterminate periferie urbane e sperimentatrice di dispositivi che possono attenuare, anche di poco o poco per volta, terribili disuguaglianze.

Un’architettura di frontiera, dunque, per una rassegna di frontiera. Che corrisponde anche ai precetti indicati da Paolo Baratta, presidente della Biennale: basta con l’architettura magniloquente, che innalza spettacoli tecnologici a uso di una committenza, pubblica o privata, che vuol esibire successo e potere. Basta anche con l’accettazione un po’ passiva di quel che capita nel mondo. «Andiamo oltre lo status quo», rimarca a più riprese Aravena, «vogliamo capire le domande che interessano i cittadini e che superano il “ma a me che me ne frega?” E, insieme, vogliamo capire le condizioni politiche, economiche, persino estetiche che si vorrebbe far credere insormontabili, un dato di realtà, e cercare vie diverse».

La Biennale di Aravena, si può intuire, vorrebbe mostrare una carrellata di buone pratiche che hanno migliorato l’abitare, il muoversi, il vivere in comunità. «Proporre, fare qualcosa e non solo diagnosticare», aggiunge. E il riferimento corre alle esperienze da lui maturate in quindici anni di housing sociale (quello vero, non quello dietro cui si camuffa certa speculazione).

Nel 2000 Aravena ha fondato Elemental, una società no profit che, con il sostegno dell’Università Cattolica del Cile e di un potente gruppo petrolifero, interviene in baraccopoli e periferie degradate realizzando abitazioni a basso costo, infrastrutture e spazi pubblici. Alla prima iniziativa (2001-2004) ha fatto riferimento ieri: ad Iquique ha progettato un complesso edilizio per un centinaio di famiglie, ma essendo la dotazione pubblica molto scarsa – 10mila dollari per famiglia – ha costruito solo metà di un alloggio, 40 metri quadrati (la struttura portante, la copertura, gli impianti) lasciando che i singoli proprietari completassero l’appartamento, esercitando il loro gusto, la loro creatività. «Abbiamo sfatato un’altra delle condizioni che si ritenevano immodificabili», insiste, «quella per cui una casa sociale non è soggetta a valorizzazione. Ora il valore di quelle case è cresciuto». Quel quartiere è stato intitolato a Violeta Parra, la cantante simbolo della sinistra cilena.
Aravena non è solo questo. Da tempo le sue quotazioni sono in crescita. Progetta negli Stati Uniti (ha insegnato ad Harvard), a Mosca, a Teheran, in Cina. Colleziona premi e ha partecipato già due volte alla Biennale. Dice delle archistar: «In alcuni casi la soluzione iconica di certa architettura può anche andar bene. In altre no». Ma, aggiunge, «vorremmo imparare da quelle architetture che, nonostante la scarsità di mezzi, esaltano ciò che è disponibile, invece di protestare per ciò che manca; vorremmo capire quali strumenti di progettazione servono per sovvertire le forze che privilegiano l’interesse individuale sul bene collettivo».

IL CURATORE

«Dello scandalo non si discute più, ma è costato 280 mila euro al giorno per dieci anni. A voler fare un confronto, per i migranti stiamo pagando molto meno: 100 mila euro. La Nuova Venezia, 26 agosto 2015 (m.p.r.)

VENEZIA. La parola Mose è sparita da molto tempo dai giornali e dalle tv e di conseguenza dai discorsi delle persone, sostituita dalla parola profughi. Era già successo in campagna elettorale, quando lo scandalo più grosso degli ultimi vent’anni è stato surclassato, oltre che dal problema profughi, anche dai referendum per l’autonomia e l’indipendenza del Veneto. Con il bel risultato che si è visto: un nobile argomento di cui nessuno parla più, esclusi l’avvocato Mario Bertolissi che se ne occupa per lavoro e il suo collega Alessio Morosin per vocazione. Una meteora.

Peggio: una foglia di fico, che la classe politica veneta tira fuori ogni volta che deve coprire realtà scomode. Aiuta a scantonare. Perfino di Mafia Capitale si parla molto più che dello scandalo Mose. Non a Roma, dove si spiegherebbe, ma in tutta Italia, dove si spiega meno. Il «fatturato criminale» di Mafia Capitale con annessi e connessi va poco oltre 100 milioni di euro, se non abbiamo capito male: il Consorzio Venezia Nuova ne distribuiva 100 all’anno in tangenti, sovrafatturazioni, finanziamenti ingiustificati, sprechi. Ed è andato avanti per dieci anni. Un miliardo in totale.

Curioso che Confindustria nazionale si sia costituita parte civile nei confronti di Mafia Capitale mentre Confindustria Veneto non ha fatto altrettanto per lo scandalo Mose. Un’altra foglia di fico? La cosa andrebbe approfondita. Tutto invece resta nascosto dalla parola profughi, l’unica che tiene banco. Non solo per la paura ancestrale del diverso, per l’ingenua assurda pretesa di fermare un fenomeno epocale vietandolo. O anche sparando. I profughi arrivano perché altri sparano loro addosso, non hanno niente da perdere e continueranno a venire. Ma più di tanti, in condizioni decenti, non ce ne potranno stare. C’è l’impenetrabilità dei corpi, c’è l’insopportabilità ambientale. E ci sono i costi che il sistema Paese deve sopportare per ospitare, anche solo provvisoriamente, questa umanità allo sbando.

Questioni concrete, la demonizzazione non c’entra. L’Italia paga fino a 35 euro al giorno per profugo ospitato. Ne è nata una canea, come se i 35 euro finissero nelle tasche dei profughi, mentre in realtà vanno agli italiani che siglano la convenzione per ospitarli, dunque tornano in circolo nell’economia spicciola del Paese. Al profugo restano due euro e mezzo al giorno. Non sono neanche tutti soldi italiani. In gran parte provengono da un fondo europeo. Resta il fatto che nel maggio 2011, in un momento di massima pressione migratoria, la Fondazione Moressa di Mestre aveva stimato un costo-profughi nel Veneto pari a 100.000 euro al giorno (base 40 euro a persona).

Siete impressionati? Facciamo un confronto con lo scandalo Mose: in 10 anni il Consorzio Venezia Nuova ha fatto sparire un miliardo di euro, destinandolo al «fabbisogno sistemico», come lo chiamava l’ingegner Piergiorgio Baita. Significa 280.000 euro al giorno, sottratti incessantemente, per dieci anni, non all’Unione europea ma alle tasche dei veneti. E non solo da Piergiorgio Baita ma da una compagnia di giro imperniata sull’ingegner Giovanni Mazzacurati che arrivava ai ministeri romani, coinvolgeva magistrati, avvocati, commercialisti, grandi manager, ex ministri, personaggi dell’alta finanza, militari. La crema delle professioni liberali. L’ossatura dell’organizzazione sociale del nostro Paese. Quelli che ci dicono che dobbiamo rispettare le leggi, i primi corrotti.

Quel denaro non è tornato in circolo nell’economia spicciola del Paese. Per la maggior parte è finito su conti privati. Ecco perché 280.000 euro al giorno, rubati per 10 anni tutte le mattine, all’insaputa dei contribuenti, fanno meno rumore di 35 euro stanziati alla luce del sole per ogni profugo. Una gigantesca operazione amnesia avvolge la vicenda Mose. Conviene a troppi.

A rompere il silenzio arrivano solo le interviste negazioniste di Giancarlo Galan, che rinchiuso a Villa Rodella non ce la fa a stare zitto. Bisognerebbe ringraziarlo per i rischi che corre ogni volta che parla. Già si è dato la zappa sui piedi con la Cassazione, che gli ha anticipato l’udienza sul ricorso contro il patteggiamento vanificando i termini della carcerazione preventiva. Così è rimasto agli arresti. Non contento, ha fatto sapere che con i 5.000 euro che la Repubblica continua a passargli, al posto dello stipendio intero di 12.000 da parlamentare, non riesce a pagare la bolletta dell’Enel e deve tener spento il condizionatore. Per fortuna che s’è messo a piovere. Il tempo, almeno quello, si è rotto.

Luigi Brugnaro, sindaco di Venezia, intervistato da Alessandra Longo. Ecco, descritto da se stesso, l'uomo che la minoranza di veneziani ha scelto come sindaco. La Repubblica, 26 agosto 2015

ROMA . Il mattino comincia male per Luigi Brugnaro. Legge sulla Nuova Venezia un’intervista al sottosegretario Ilaria Borletti Buitoni che chiede di arginare l’invasione dei turisti a San Marco e subito si agita sulla sedia: «Come si permette questa signora con i due cognomi, che certo non ha mai lavorato in miniera, di disquisire su dove devono passare o non passare le Grandi Navi? Prima parli con me, con il sindaco di Venezia, e poi dica la sua! Noi, le navi bianche, le vogliamo, non passeranno più dalla Giudecca ma faranno un percorso diverso. Qui si tratta di salvare 5000 posti di lavoro! Non ce ne facciamo niente delle idee balzane del sottosegretario con i due cognomi. Attenti che porto tutti in piazza. Mi sono rotto le scatole dei Soloni, basta con le gente che parla senza conoscere».

Ecco: Brugnaro il doge imprenditore è così. Diplomazia zero. Non gli piacciono i libri sul gender, non gli piacciono le immagini sui «mostri del mare» di Berengo Gardin, non gli piacciono «gli intellettuali da strapazzo » (salva Cacciari), non gli piacciono i comunisti, gli piace Renzi.
«Il popolo ha scelto me, la musica è cambiata», dice.

Sindaco, lei sostiene di non essere né di destra né di sinistra... Però le sue prime polemiche sono tutte contro un certo mondo, da Celentano a Elton John, da Muccino a Toscani.
«Sono loro che polemizzano con me, non io con loro. Usano Venezia per avere un titolo sul giornale. Io sto dalla parte di chi lavora e produce, delle famiglie con figli che tirano avanti a fatica. Nei salotti e sui divani non si crea reddito. Quanti giornalisti ci sono rispetto ai lavoratori? ».

Ci considera dei parassiti?
«Non ho detto questo, non giudico per categorie, tranne che in un caso. Le posso dire che non sono comunista».

Lei da che parte sta nell’attuale amletica incertezza del centrodestra. Primarie o non primarie?
«Non sono un politico, penso trasversale. Berlusconi può essere ancora di stimolo. Io dico che ci vogliono tutte le intelligenze migliori per risollevare questo Paese. Obiettivo: tornare a crescere e creare lavoro. Non facciamo riforme da trent’anni. Adesso c’è un ragazzo che cerca di farle. Io tifo Renzi, tifo perché ci riesca».

Ha buoni rapporti con il governo?
«Ottimi con i ministri, pessimi con la gentaglia del sottogoverno ».

Elton John l’ha definita “bigotto e bifolco” dopo la sua decisione di togliere dalla scuola i libretti per bambini che descrivono le nuove famiglie.
«È un arrogante che da tre anni non mette piede a Venezia. Se permette, ai nostri figli ci pensano i genitori. La famiglia con due donne e il bambinetto è innaturale».

Omofobo?
«Si figuri. Ho amici gay».

Allora il prossimo anno Gaypride a Venezia?
«Quella è una buffonata, il massimo del kitsch. Vadano a farla a Milano oppure sotto casa sua».

Grazie.
«Prego. Tutti sono bravi fintanto che le cose non li riguardano ».

La sua ricetta sull’immigrazione?
«Qui non sono d’accordo con il governo. Non vedo come si possa andare avanti così. A Renzi, Juncker, alla Chiesa cattolica e al governatore Zaia, propongo di fare una grande convention pubblico-privata per decidere cosa fare. I confini vanno controllati. La Marina, l’Esercito, hanno giurato di difendere la frontiera sulla bandiera».

Se in una barca ci sono donne e bambini che rischiano di annegare cosa fa? Non li aiuta?
«La barca la tiro su, ma le ricordo che l’80 per cento dei migranti sono tunisini, nigeriani e maschi. I siriani sono veri profughi, non loro. E’ impensabile organizzare nuovi lager nelle città, con troppi maschi nullafacenti in giro, con le donne a rischio di essere violentate. Bisogna distinguere, trovare soluzioni umane ma soprattutto pensare a noi, all’Italia, convincere i nostri giovani in fuga, a credere ancora nel Paese».

A proposito di futuro di cosa ha bisogno Venezia?
«Di soldi. E’ una città che costa. Siamo fuori di 62 milioni di euro dal patto di stabilità e ci conteggiano ancora gli introiti nulli del Casino. E’ una città in mutande, è il momento di tirare fuori gli attributi».

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