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Dopo aver sottoposto a giudizio le violenze commesse dalle dittature in America Latina, le estrazione del carbone in Canada, i rischi del fracking, e molte grandi opere il Tribunale Permanente dei Popoli esaminerà la il Tav TorinoLione. Il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2015

Un processo al Tav. Con l’accusa, la difesa (se si presenterà). E un verdetto finale. Sarà celebrato domani a Torino dal Tribunale Permanente dei Popoli. Tutto aperto al pubblico, un’occasione rara per capire le ragioni di chi è contrario alla grande opera e magari anche di chi la difende.

L’appuntamento è fissato presso la “Fabbrica delle E” del Gruppo Abele, mentre per la sentenza finale ci si troverà domenica ad Almese nella sede del Teatro Magnetto. I quattro giorni di incontri seguiranno il ritmo di un vero e proprio processo: la requisitoria dell’accusa, le deduzioni della difesa (sperando che si presenti); poi i testimoni delle parti. E infine la corte che si ritira in camera di consiglio e decide. Il ricorso è stato presentato da diversi comuni della valle e dal Controsservatorio Val Susa. Oggetto, appunto, il Tav della Valsusa. “La sentenza potrebbe portare a un’assoluzione, una condanna, ma anche a una dichiarazione di violazione dei diritti”, spiega il magistrato Livio Pepino che a Torino rappresenterà l’accusa. Una decisione che avrà un peso essenzialmente sull’opinione pubblica.

Il Tpp infatti è un Tribunale di opinione. Indipendente. È nato nel 1979 per occuparsi delle violenze commesse dalle dittature in America Latina, ma ha negli anni ampliato le sue competenze. Ecco così la sessione sull’estrazione del carbone in Canada, sui rischi del fracking, poi su grandi opere progettate in Germania, Olanda e Spagna.

Fa parte del tribunale una rete internazionale di esperti in discipline giuridiche, economiche, socio-politiche. Il loro compito è mettere a confronto le tesi dell’accusa e quelle della difesa. Come è successo in alcune sessioni,
dove multinazionali
e governi hanno
mandato i loro avvo-
cati a partecipare. Ma il timore è che a
Torino lo Stato, gli
enti locali e le imprese coinvolte nella realizzazione del
 Tav decidano di
snobbare la sessione: “Finora la segreteria del Tribunale non è stata ancora contattata dalla difesa.

Sarebbe un vero peccato, perché per i cittadini sarebbe un’occasione persa per mettere a confronto i due punti di vista sul progetto”, spiega Pepino. Il Tav – cioè la nuova Torino-Lione – è una linea ferroviaria della lunghezza complessiva di 235 chilometri. Correrà tra Francia e Italia. Indicato inizialmente come treno ad alta velocità, è poi stato definito piuttosto ad alta capacità. Voluto fortissimamente dai governi (soprattutto quello italiano) e dalle imprese, il Tav invece ha diviso l’opinione pubblica. I punti critici: l’impatto ambientale, la presenza di amianto, i costi reali dell’opera (che ormai sarebbero lievitati intorno ai 14 miliardi), fino alla sua effettiva utilità. Non bastava la linea attuale, magari con lavori di adeguamento?

Tante domande. Un bisogno di informarsi e di vedere confrontate le opposte posizioni. La sessione del Tribunale Permanente dei Popoli a Torino sarebbe una grande occasione. C’è ancora tempo. La giornata di sabato 7 novembre è stata riservata anche alla difesa. Verrà qualcuno?

Prospettive pesanti per l’area compromessa dall'evento Expo, se non si uscirà dal collage di interessi immobiliari piccoli e grandi e non si affronterà il tema della città e del territorio nella sua complessità

Conclusosi l'evento EXPO, non si è però ancora smaltita la solenne sbornia di compiaciuta autocelebrazione per l'inatteso successo di pubblico, che in alcuni ha portato a deliri assai sconvenienti (Milano capitale morale e modello per Roma, Giubileo e future EXPO, Sala commissario-consigliere Cassa Depositi e Prestiti-candidato a Sindaco e già che ci siamo “santo subito”, e via sorvolando sui mille lati oscuri delle inchieste e procedimenti giudiziari in corso e sul costo di costruzione di alcuni padiglioni (da 9.000 a 20.000 €/mq) che danno conto dell'orgia di vanagloria che nel suo piccolo (i problemi dell'alimentazione mondiale sono molto più grandi, seri e di lunga lena se si vuole davvero affrontarli) ha saputo essere l'evento semestrale EXPO e il suo successo di pubblico.

Rimangono invece aperti e irrisolti i dubbi sull'utilizzo futuro dell'area, oggi trasformata da area agricola (come ripetutamente previsto nei PRG succedutisi nel tempo: destinazione in sé discutibile, ma che ancor oggi è l'unica atta a garantire all'Ente pubblico l'inedificabilità permanente a causa del carattere intercluso tra autostrade e ferrovie, che ne sconsigliava l'uso edificatorio, soprattutto se residenziale) in area altamente infrastrutturata dall'accessibilità a medio-lungo raggio, ma ancora difficilmente connessa ai tessuti urbani circostanti.

L'ipotesi di realizzarvi un nuovo campus universitario delle Facoltà scientifiche avanzata dal Rettore della Statale deve accompagnarsi ad un progetto sensato di riutilizzo delle aree dismesse a Città Studi da cui (se non si vuole stravolgere la vivibilità dell'ex Città Studi, come già avvenuto a Citylife e Porta Nuova, nonostante l'incensamento che ora ne fa persino l'amministrazione Pisapia e le forze politiche che la sostengono), non si possono ricavare più di 200 Milioni di € a fronte dei 400-500 Milioni di € stimati necessari per il nuovo campus, e bisognerà, quindi, capire come reperire le risorse mancanti.

Purtroppo i costi dell'errata localizzazione dell'evento EXPO, al netto del suo sbandierato successo di pubblico, non saranno così facilmente cancellabili dalla “città normale, con case e negozi” auspicata con tanta insistenza da Gregotti in svariati interventi sui principali quotidiani, che è invece quasi impossibile da realizzarsi in quel contesto localizzativo, se non a scapito della qualità della vita dei suoi abitanti: meglio, o molto meno peggio, pensare di mantenervi funzioni strategiche di livello metropolitano-regionale. A qualcuno potrà non piacere, ma è il costo ineliminabile dell'eredità del dopo Expo e dell'inconsulta trasformazione d'uso di quell'area interclusa.

Come uscirne?: non subendo il ricatto di chi dice ormai la frittata è fatta e qualcuno la deve mangiare! Se qualcuno deve risponderne è Fondazione Fiera che è ente di nomina pubblica, anche se di diritto privato (un po' come le Fondazioni bancarie altro ben noto bubbone corruttivo), e che deve essere richiamata alla propria responsabilità verso la città rinunciando all'enorme aspettativa immobiliaristica che pensava di aver incamerato col riuso del “dopo Expo”, avendone comprato le aree a prezzo agricolo dai proprietari originari con lo straordinario surplus di rendita ottenuto dalla vendita della vecchia sede a Citylife. Riportando quota edificatoria virtualmente sostenibile a non oltre 0,20 mq/mq e "perequandola" sul vasto plateau di aree pubbliche dismesse a dimensione metropolitana (a partire dagli ex scali Fs e dalle ex caserme in dismissione a Milano, ma anche su quelle industriali dismesse sulla direttrice da Rho a Sesto S.G.), sull'area del “dopo EXPO” potrebbero così permanentemente rimanere le funzioni di indirizzo pubblico delle politiche agroalimentari ed altre attività di interesse pubblico, un nuovo polo delle facoltà scientifiche dell'Università Statale, altre attività di innovazione e ricerca, facendone il nuovo Centro Direzionale metropolitano, e non funzioni residenziali, qui particolarmente inadatte.

Comune e grandi proprietà fondiarie (oggi non più agrarie, ma per lo più aree industriali, infrastrutturali e a pubblici servizi – vedi ex caserme e/o ospedali, ecc. - dismesse o dismettibili) si trovano, invece comunemente interessati a massimizzarne di volta in volta lo sfruttamento della rendita fondiaria derivante dal riuso delle aree centrali dismesse (come appunto aveva già fatto Fondazione Fiera all'epoca dei Sindaci Albertini e Moratti e degli assessori all'urbanistica ciellini Lupi e Masseroli) per finanziare gli investimenti nei propri obiettivi societari o istituzionali, il cui esito urbanistico-insediativo viene ritenuto secondario, residuale e spesso del tutto incontrollato.
Negli Accordi di Programma attualmente in corso di definizione con FS e Ministero della Difesa sul riuso di ex scali ed ex caserme, bisognerebbe, invece, far collocare i parchi territoriali e gli spazi per grandi funzioni urbane su aree di altre proprietà che si ritenga utile di non far edificare a case o negozi (come, ad esempio, oggi più d'uno propone sulle aree del dopo Expo pur di uscire in fretta dai guai di indebitamento), le quali in contraccambio acquisirebbero di una quota virtuale dell'indice edificatorio delle aree di FS e Ministero Difesa.

Invece, in questa urbanistica à la carte che è la sommatoria di PII e Accordi di Programma praticata dal machiavellismo perverso della dirigenza dell'urbanistica milanese passata indenne sotto Amministrazioni comunali di centro-destra prima e di centro-sinistra poi, non si allarga l'orizzonte al quadro complessivo della città (che è quello che dovrebbe “governare” il Piano di Governo del Territorio-PGT) e si continua, invece, senza alcune visione generale di quali altre aree potrebbero essere coinvolte in una logica di perequazione soprattutto nella localizzazione dei parchi urbani e grandi servizi territoriali (tanto sbandierata da urbanisti e amministratori di tendenza, ma quasi mai realmente praticata).

Senza di ciò, il prossimo PGT si troverebbe costretto in una visione monca e prefigurata dalla conclusione di accordi raggiunti su interessi parziali sia di FS sia dell'Amministrazione Comunale (e non della Città, in quanto tale). A meno che, come spesso è capitato, il nuovo PGT sia la riapertura a tutto campo di uno spazio per gli interessi particolaristici diffusi che non hanno avuto dimensione e forza per accreditarsi prima nei PII e Accordi di Programma o quelli ereditati dall'indebitamento delle acquisizioni fondiarie e e dell'esito gestionale del dopo EXPO. Temo sia la prospettiva più realistica e attendibile che ci attende una volta diradatisi i fumi autocelebrativi della sbornia da dopo Expo.

«Diritti. Grandi opere e territorio, lobby e democrazia. Il modello "coloniale" di decidere e costruire. I tre capi d’accusa di una sessione del Tribunale dedicata alla Torino-Lione». Il manifesto, 5 novembre 2015 (m.p.r.)

La ses­sione del Tri­bu­nale per­ma­nente dei popoli dedi­cata a Tav, grandi opere e diritti fon­da­men­tali dei cit­ta­dini e delle comu­nità locali che ini­zia oggi a Torino è un evento impor­tante, anche oltre il caso con­creto. Il tema cen­trale è, ovvia­mente, la nuova linea fer­ro­via­ria ad alta velo­cità Torino-Lione: un’opera ciclo­pica deva­stante, di grande impatto ambien­tale, di con­cla­mata inu­ti­lità tra­spor­ti­stica, inso­ste­ni­bile in ter­mini di spesa pub­blica, giu­sti­fi­cata solo da una cul­tura svi­lup­pi­sta ormai ana­cro­ni­stica, da inte­ressi eco­no­mici lob­bi­stici di breve periodo e dalla dispe­ra­zione di un sistema poli­tico ed eco­no­mico inca­pace di dare alla crisi vie di uscita razionali.

Un’opera inol­tre – sarà que­sto il punto prin­ci­pale dell’analisi del Tri­bu­nale dei popoli – decisa in modo auto­ri­ta­rio, pro­vo­cando un movi­mento di oppo­si­zione pro­fon­da­mente radi­cato e capace di mani­fe­sta­zioni con decine di migliaia di per­sone. Orbene que­sto movi­mento, in tutte le sue arti­co­la­zioni (anche isti­tu­zio­nali), è stato siste­ma­ti­ca­mente escluso da ogni con­fronto reale e da ogni deci­sione. Esat­ta­mente come sta avve­nendo in diverse loca­lità della Fran­cia, del Regno Unito, della Spa­gna, della Ger­ma­nia, della Roma­nia e dell’Italia (per limi­tarsi alle realtà che saranno esa­mi­nate dal Tribunale).

L’esclusione delle comu­nità locali da deci­sioni cru­ciali riguar­danti il loro habi­tat, la loro salute, le stesse pro­spet­tive di vita attuali e delle gene­ra­zioni future, è avve­nuta e avviene in Val Susa in un modo esem­plare di un sistema che si ripete con sostan­ziale iden­tità per tutte le grandi opere inu­tili e impo­ste e che si arti­cola in tre fasi fondamentali:

la siste­ma­tica estro­mis­sione dei cit­ta­dini e delle isti­tu­zioni inte­res­sate dalle deci­sioni e dal con­trollo sulla effet­tiva uti­lità e sull’iter delle opere, rea­liz­zata esclu­dendo, di fatto e/o mediante prov­ve­di­menti legi­sla­tivi e ammi­ni­stra­tivi ad hoc (come la “legge obiet­tivo” o il decreto “sblocca Ita­lia”), ogni pro­ce­dura di infor­ma­zione, con­sul­ta­zione e con­fronto e/o adot­tando pro­ce­dure di con­sul­ta­zione pura­mente appa­renti (come quelle adom­brate con la costi­tu­zione, nel 2006, di un Osser­va­to­rio pre­sto rive­la­tosi un organo pro­pa­gan­di­stico a favore del Tav o con il nuovo tavolo pro­po­sto ai sin­daci della Valle, nei giorni scorsi, dal mini­stro delle infra­strut­ture Del Rio, fina­liz­zato a discu­tere di tutto, ma non della uti­lità della nuova linea…);
il con­di­zio­na­mento e lo svia­mento delle valu­ta­zioni delle comu­nità inte­res­sate, dell’opinione pub­blica e talora degli stessi deci­sori poli­tici mediante la ela­bo­ra­zione e la dif­fu­sione di dati inve­ri­tieri sulla satu­ra­zione della linea fer­ro­via­ria sto­rica e sulla con­se­guente neces­sità del nuovo col­le­ga­mento (a fronte dei quali il metodo Volk­swa­gen, recen­te­mente emerso alla ribalta, sem­bra opera di mal­de­stri dilet­tanti) e di pre­vi­sioni prive di ogni seria base scien­ti­fica, ampli­fi­cati in modo mar­tel­lante da organi di stampa spesso con­trol­lati da sog­getti inte­res­sati all’opera;
la per­ma­nente e totale imper­mea­bi­lità a richie­ste, appelli, sol­le­ci­ta­zioni ed espo­sti di isti­tu­zioni ter­ri­to­riali, comi­tati di cit­ta­dini, tec­nici e intel­let­tuali e la paral­lela gestione della pro­te­sta e dell’opposizione come pro­blemi di ordine pub­blico deman­dati al con­trollo mili­tare del ter­ri­to­rio (finan­che con truppe dell’esercito già uti­liz­zate in mis­sioni all’estero) e all’intervento mas­sic­cio degli appa­rati repres­sivi, addi­rit­tura con la con­te­sta­zione di fat­ti­spe­cie di ter­ro­ri­smo e la revi­vi­scenza di reati di opi­nione (come acca­duto con rife­ri­mento a Erri De Luca).

Tutto ciò – lo si è già accen­nato e sarà al cen­tro dell’esame del Tri­bu­nale – rea­lizza un vero e pro­prio sistema di governo di pezzi di società che ha a che fare con i diritti fon­da­men­tali delle per­sone e delle comu­nità e di par­te­ci­pa­zione. Di demo­cra­zia si potrebbe dire, se il ter­mine non fosse sem­pre più spesso uti­liz­zato a coper­tura di scelte che vanno in dire­zione esat­ta­mente oppo­sta e di isti­tu­zioni e regimi che tutto sono meno che demo­cra­tici. Per­ché la logica sot­tesa a que­sto sistema è – non sem­bri ecces­sivo il ter­mine – una logica neo­co­lo­niale, fon­data sulla pre­tesa di lobby eco­no­mi­che e finan­zia­rie nazio­nali e sovra­na­zio­nali e delle isti­tu­zioni con esse col­le­gate di disporre senza limiti e senza con­trolli delle risorse del ter­ri­to­rio estro­met­tendo le popo­la­zioni inte­res­sate (con­si­de­rate por­ta­trici di inte­ressi par­ti­co­la­ri­stici e non apprez­za­bili), tra­sfe­rita nel cuore dell’Europa.

Parlo di logica ovvia­mente, essendo ben con­sa­pe­vole che essa si mani­fe­sta in Occi­dente con moda­lità e carat­te­ri­sti­che incom­pa­ra­bili in ter­mini di uso della vio­lenza e di sopraf­fa­zione. Ma il segnale è chiaro. Nelle società con­tem­po­ra­nee, per­corse da derive deci­sio­ni­ste e auto­ri­ta­rie accade che la verità si intra­veda dai mar­gini, dalle peri­fe­rie, da vicende riguar­danti parti limi­tate della società che anti­ci­pano, peral­tro, feno­meni di carat­tere gene­rale. Come hanno dimo­strato – tra le altre – le ricer­che, ormai clas­si­che, di Enzo Tra­verso sul nazi­smo e la sua genesi, la man­cata per­ce­zione e l’omessa ana­lisi di molti segnali pre­mo­ni­tori pur facil­mente avver­ti­bili hanno pro­dotto nel secolo scorso lutti e disa­stri indicibili.

La spe­ranza è che il Tri­bu­nale per­ma­nente dei popoli, da sem­pre in anti­cipo sui tempi, sap­pia, anche in que­sto caso, assu­mere deci­sioni e chiavi di let­ture utili non solo per la Val Susa ma per le pro­spet­tive dell’intera Europa.

La Repubblica online, 4 novembre 2015 La procura di Vicenza ha sequestrato il cantiere di Borgo Berga, nella parte ancora in costruzione del gigantesco complesso edilizio sorto a pochi passi dalla Rotonda, la villa disegnata da Andrea Palladio. Giunge a uno sbocco l'inchiesta aperta dalla magistratura sulla base di numerosi esposti presentati da comitati di cittadini e dal Movimento 5 Stelle, che hanno denunciato non solo lo sfregio a una pregiata area paesaggistica, anche la violazione delle norme sulla sicurezza idrogeologica (il complesso è insediato alla confluenza dei fiumi Retrone e Bacchiglione, che in passato sono esondati).

I sigilli sono stati posti all'area in cui la società Cotorossi avrebbe dovuto costruire undici edifici. Il resto del complesso è già realizzato e comprende, per paradosso, lo stesso Tribunale dal quale sono partiti i provvedimenti richiesti dal procuratore capo Antonino Cappelleri e autorizzati dal Gip. Il sequestro segue di qualche mese un'altra iniziativa della Procura: l'iscrizione nel registro degli indagati di Antonio Bortoli, al tempo dirigente dell'urbanistica e poi direttore generale del Comune di Vicenza. L'accusa è abuso d'ufficio.
L'inchiesta dunque coinvolge anche l'amministrazione comunale che ha autorizzato l'intervento nonostante arrecasse, questa l'accusa, un danno economico al Comune avvantaggiando i privati e senza considerare il possibile rischio idrogeologico. "Ne discende un vizio che rende illegittimo il piano", scrivono i magistrati, "e giustifica la decisione di impedire che nuove costruzioni vengano realizzate in quella zona". Gli esposti riguardavano l'intera area, anche quella dove già svettano edifici altissimi e un centro commerciale. Ma l'intervento della procura interessa solo la zona in costruzione. Quanto già realizzato, sostengono gli inquirenti, coincide con il perimetro dello stabilimento Cotorossi, lo storico cotonificio demolito il quale è stata avviata l'operazione immobiliare.
La vicenda di Borgo Berga si trascina da anni. L'impatto delle costruzioni è imponente in una zona delicatissima. L'intervento fu deciso dall'amministrazione di centrodestra nei primi anni Duemila, ma fu proseguito con il centrosinistra di Achille Variati, attualmente sindaco di Vicenza. I comitati cittadini riuniti sotto la sigla di Out (Osservatorio urbano territoriale), le associazioni ambientaliste e il Movimento 5 Stelle si sono rivolti alla magistratura, alla Corte dei Conti (che ha messo in mora l'intero consiglio comunale che nel 2009 votò per Borgo Berga) e all'Autoritàanticorruzione di Raffaele Cantone. La Procura ha aperto il procedimento alcuni giorni dopo l'uscita di un'inchiesta su Repubblica.it.

Segnalazioni:
Si veda su eddyburg di Francesca Leder Borgo Berga a Vicenza: il grande inganno della riqualificazione urbana e Veneto 2014: il sacco del territorio e il silenzio della cultura; di Francesco Erbani Basta costruire gli architetti ora rigenerano e “Un tunnel sotto le ville del Palladio” Rivolta a Vicenza

Consideriamo una buona notizia ogni iniziativa volta a denunciare la rapina del project financing all'italiana, da anni denunciato da inascoltati studiosi e decine di comitati di cittadini. Questa volta viene dal Veneto, ne aspettiamo altre. La Nuova Venezia, 4 novembre 2015

L’offensiva parte da un dato: la maxi rata di 200 milioni di euro che la Regione corrisponde ogni anno a copertura delle opere realizzate in sanità con il progetto di finanza. Per questo, la Cgil del Veneto chiede al presidente della Regione di presentare una legge «per porre fine quanto sta accadendo».

La richiesta-denuncia arriva dal segretario generale Fp Cgil Veneto: «Apprendiamo che finalmente Zaia si dice pronto a rivedere i progetti di finanza in sanità e a mettere in discussione le scelte fatte fin qui. Finalmente, forse, dopo anni di inchieste, disservizi e denunce, la Regione ha deciso di affrontare, seppur con grave ritardo, questo argomento» dice Daniele Giordano «se il governatore del Veneto non vuole limitarsi a fare solo propaganda, ci aspettiamo che presenti subito una legge che ponga fine a quanto sta accadendo. Si scandalizza giustamente dei tagli che fa il Governo, ma sino ad oggi non ha fatto nulla di concreto su canoni che al 2010 valevano 154.667.352 di euro.
Parliamo di cifre al 2010 che vanno indicizzate secondo i contratti in essere di circa il 7%». Così si arriva a 200 milioni. L’obiettivo è portare alla rinegoziazione degli accordi che nel 2010 vedevano un contributo pubblico da 44.557.040 euro annui per l’ospedale dei Asolo, una rata da 30.472.733 euro per quello di Santorso, mentre l’ospedale dell’Angelo costava 54.677.579 euro l’anno e Schiavonia 24.960.000 euro. A fronte di questa situazione, e della profonda messa in discussione delle opere in project - non solo per quanto riguarda la sostenibilità economica - il governatore chiede che Roma si attivi per una legge nazionale in grado di mettere gli enti locali in condizione di difendere l’interesse pubblico.
«La revisione dei project in sanità andava affrontata insieme al provvedimento sul progetto di finanza per le infrastrutture portato in aula prima dell’estate - prosegue Giordano - se è stato possibile in quel caso, a maggior ragione valeva per gli ospedali. A questo punto Zaia farebbe bene a dire, chiaramente e una volta per tutte, se intende escludere definitivamente il project come strumento di finanziamento dalla sanità e rivedere, laddove possibile, i canoni debitori che pesano su tutti i veneti. Solo dopo, in caso, si può chiedere l’intervento normativo nazionale, ma adesso è troppo facile spostare a Roma una responsabilità che non appartiene al governo nazionale».
Il fronte più caldo in questo momento è quello padovano, con il destino del nuovo ospedale ancora tutto da scrivere: «Abbiamo chiesto ai gruppi in Consiglio regionale un’attenzione particolare su Padova - assicura il segretario regionale Fp Cgil - se Zaia non sarà conseguente alle sue parole, lascerà il dubbio che quando parliamo di sanità, e di tutto ciò che attorno ruota, ci siano interessi che questa Giunta non vuole toccare. Si potrebbe anche dubitare, se non si attuano scelte rapide, che forse qualcuno pensa ancora di utilizzare questo strumento per l’ospedale di Padova. Qualora dovesse passare la regola del project, ci mobiliteremo per opporci con tutte le nostre forze. Zaia si svegli, è ora che ponga fine a quanto sta accadendo e se lo farà realmente e non a parole, troverà il sindacato al suo fianco».

Presentatazione "blindata" della nuova proposta di Comune e Porto. Cronaca e resoconti di Alberto Vitucci, lettere dei cittadini esclusi Maria Rosa Vittadini e Marco Zanetti. La Nuova Venezia, 4 novembre 2015, con postilla



GRANDI NAVI
IL PROGETTO BRUGNARO
di Alberto Vitucci

VENEZIA. Un canale lungo poco più di un chilometro. Profondo dieci metri e largo 90, 120 in curva. Spesa totale, 140 milioni di euro. Sarà pronto in venti mesi dal momento in cui arriverà il via libera dal ministero dei Trasporti e dalla commissione Via. Eccolo, il progetto “Tresse Nuovo”. Dopo l’addio al Contorta, bocciato dalla commissione e poi dal Tar, il Porto ha cominciato a progettare la variante proposta dal sindaco Luigi Brugnaro. Una “bretella” di 1200 metri che collegherà l’attuale canale Malamocco-Marghera (“dei Petroli”) con il Vittorio Emanuele. Tagliando l’isola delle Tresse, attuale ricovero dei fanghi inquinati. «Soluzione per niente invasiva», spiega con entusiasmo il presidente dell’Autorità portuale Paolo Costa, seduto in sala giunta a fianco del sindaco Luigi Brugnaro, «questo ci consente di togliere le grandi navi dal bacino San Marco e di mantenere la Marittima, come prevede il decreto Clini-Passera. E di scavare il meno possibile, ripulire dai fanghi inquinati i fondali tra Marghera e il ponte della Libertà».
Nessuna «grande opera», assicura Costa, «nessun allargamento del canale dei Petroli né del Vittorio Emanuele, nessun bacino di evoluzione». I fanghi da scavare saranno in tutto 2,7 milioni (circa la metà di quanto serviva per il Contorta), di cui buona parte di tipo C. Questi, inquinati, andranno avviati aL Moranzani e poi «sigillati». «Si potrà così completare il progetto del parco, come abbiamo fatto a San Giuliano», dice Costa. Il resto dei fanghi scavati sono di tipo “B” (da stoccare ai lati del canale, sulla stessa isola delle Tresse), e di tipo “A”, non inquinati, che serviranno per ricostruire le barene. Il presidente del Porto ha spiegato come in questo modo si possa salvaguardare il traffico del porto commerciale. Facendo entrare le grandi navi passeggeri da Malamocco e poi dal canale dei Petroli (a senso unico) in lunghi convogli. Le navi da crociera gireranno a destra all’altezza del Bacino di evoluzione 4, imboccando il nuovo canale scavato nell’isola. Poi arriveranno nel canale Vittorio Emanuele e dunque in Marittima.
Gli chiedono se ci saranno problemi di erosione e di inquinamento. «L’erosione non è provocata dalle 500 navi che aggiungiamo, ma da altri fattori, comprese le quattromila navi che transitano oggi in laguna», dice Costa, «quanto ai fumi, il nostro impegno è avviare gli interventi per il rifornimento dell’energìa da terra il giorno dopo che avremo avuto i permessi. E così potremo dare certezze agli operatori». Nel 2016, se il progetto sarà approvato dal governo, rimarrà a San Marco la limitazione per le navi fino a 96 mila tonnellate.
Perché il Porto ha scelto la proposta Brugnaro e scartato le altre? «Abbiamo confrontato dal punto di vista tecnico», dice Costa, «le quattro soluzioni disponibili. Il porto a San Nicolò della Duferco, il canale retro Giudecca, il Contorta, Marghera». Alla fine la scelta è caduta sulle Tresse. Idea lanciata da Brugnaro quand’era ai vertici di Unindustria. «Scavo meno invasivo ed efficace, costo globale circa 140 milioni, di cui 15 per interrare gli elettrodotti, 4,8 per le bonifiche». «Potrà essere l’occasione per rilanciare Marghera», dice Costa in questo in piena sintonia con Brugnaro. Le procedure? Ricominceremo daccapo, così non ci saranno polemiche sulle “Varianti” a un progetto bocciato. Da quattro anni discutiamo sulle alternative, ma adesso la soluzione giusta è a portata di mano. Attendiamo il via libera della Regione e del governo e poi naturalmente della commissione Via»

«RIPARTIAMO PER SALVARE VENEZIA»

dichiarazioni di Luigi Brugnaro riportate da Alberto Vitucci

VENEZIA «Dobbiamo ripartire. Abbiamo 800 milioni di debiti, e non ce n’è più. Questo è un grido di dolore per la nostra città: non abbiamo più soldi». Si parte delle grandi navi per arrivare a Renzi e al nuovo «appello al governo». Il sindaco Luigi Brugnaro rilancia il suo messaggio al premier Renzi. «Aspettiamo con fiducia la Legge di stabilità, abbiamo chiesto provvedimenti per camminare con le nostre gambe». Quali?

Le navi. «Per la prima volta», attacca solenne, «il porto e la città presentano una proposta unitaria. Si deve andare avanti, per far capire che possiamo salvare cinquemila posti di lavoro senza far danni alla laguna. Dove passa il nuovo canale non ci sono velme, c’è solo acqua. E vi sfido a vedere la differenze fra le Tresse prima e dopo lo scavo. Questo progetto è stato votato dai cittadini veneziani. E adesso si farà».

Gli ambientalisti. «Le navi danneggiano la laguna? Sono balle che vi siete inventati e siete convinti di questo», risponde Brugnaro a Cristiano Gasparetto di Italia Nostra. «Eravate in cinque, adesso siete in quattro. Basta! Siete partiti sbagliati, avete paura di tutto. I veneziani non avevano paura, andavano per mare».
Muccino. Gli chiedono se ha visto la petizione lanciata da Gabriele Muccino per escludere le grandi navi dai canali di Venezia. «Ancora... Ma ’sto Muccino dove abita? perché lui e Celentano non fanno un appello per salvare Venezia?
Il lavoro. «La vera emergenza di questa città è il lavoro». Il sindaco batte su uno dei suoi temi forti. Rilancio di Marghera, occupazione. «A Marghera c’erano 40 mila operai, le fabbriche. Adesso non c’è più niente. Sono decenni che si chiude e non si apre mai niente. Ma gavi fioi voialtri? Cosa promettiamo ai nostri figli? Le navi sono un inizio. Cinquemila posti di lavoro da mantenere. E l’avvio della bonifica e del rilancio di Marghera».
L’Unesco. «L’Unesco contraria agli scavi? Ma è Venezia che può dare qualcosa all’Unesco, non il contrario. Gliel’ho detto quando sono venuti qua. Parliamo di progetti, di rilancio».
Expo. Tutti a dire che l’Expo è stata un successo... te credo, con i milioni che ha dato lo Stato. Hanno avuto venti milioni di visitatori, noi ne abbiamo trenta e ci dobbiamo arrangiare. Lo sapete che abbiamo un delta di costi di 30 milioni solo perché la spazzatura a Venezia si raccoglie in un certo modo? Venezia è un Expo vivente, può dare tanto all’Italia»
Le risorse. Brugnaro ricorda che Renzi si è impegnato a dare una mano alla città. Uno dei provvedimenti attesi potrebbe essere il «contributo volontario» per i crocieristi. Altri, la possibilità per la città di ricavare risorse dalle sue attività, a cominciare dal turismo. «Abbiamo chiesto di poter dirigere il Magistrato alle Acque, di essere noi a guidare la gestone del Mose. Il Mose non c’entra niente con il resto, è stato pensato per combattere gli effetti dei cambiamenti climatici. Ma questa città non ha più risorse per la manutenzione. Avanza un miliardo e 250 milioni di mancati finanziamenti, lo abbiamo scritto a Renzi».
La stampa. Ce n’è anche per i giornali. «Quelli con la G maiuscola dovrebbero darci una mano, spiegare come siamo messi. Invece cercano solo le polemiche. Mi attaccano sui tutto, sui quadri e sui libretti».
CÀ FARSETTI BLINDATA DA VIGILI E POLIZIOTTI.
FUORI ANCHE I CONSIGLIERI DI QUARTIERE.
di Alberto Vitucci

VENEZIA. Ca’ Farsetti blindata. Come e peggio di quando sono annunciati scontri e manifestazioni. Venti poliziotti davanti al cancello, vigili urbani in forze all’entrata a impedire l’ingresso a tutti. Giornalisti compresi. «Ordini superiori», allarga le braccia un funzionario. Vietato l’accesso anche agli uffici del piano terra, ai gruppi. Per entrare bisogna dare un documento. Decisione ai limiti dell’illegittimità. Chi può impedire l’ingresso nel palazzo municipale? Oltretutto giornalisti e fotografi sono stati convocati per la conferenza stampa, che inizia con 45 minuti di ritardo. Dentro, una decina di vigili urbani blocca le entrate, altri prendono il “documento” di persone che conoscono da anni.
Il sindaco nega di aver dato disposizioni di quel genere. Ma uscieri, vigili e portavoce ribadiscono: non si entra. Una volta saliti, giornalisti e fotografi e ospiti vengono riuniti in fondo alla sala consiliare. Molti protestano, qualcuno minaccia di andarsene. Poco rispetto per il lavoro della stampa. Ma l’ordine evidentemente da qualche parte è arrivato. Restano fuori anche consiglieri di Quartiere ed esponenti di associazioni. «Il sindaco poteva mandare i vigili a controllare la Piazza invece di impegnarli a tener fuori i cittadini dal municipio», protesta Marco Zanetti di Venezia cambia. «Di cosa hanno paura? dei cittadini? Non è un bel segnale», dice Maria Rosa Vittadini, esperta di Trasporti, docente Iuav, anche lei tenuta fuori dei cancelli. Come i giovani del Morion, che appendono due bandiere sopra la testa dei poliziotti.
Tensione anche al primo piano. Un paio di consiglieri di Quartiere si vedono respinti. «Ingresso solo per la stampa», spiegano adesso i solerti funzionari. Cristiano Gasparetto (Italia Nostra) se la prende con il sindaco in arrivo. «Sindaco, lei non può impedirci di entrare». «Vuoi entrare? Entra, basta che te staghi bon», risponde Brugnaro, smorzando con abilità ogni inizio di polemica. Ma altri non l’hanno presa bene. «Un sistema davvero brutto», protestano due signore del comitato. Ci illustrano un nuovo progetto e non vogliono che noi ascoltiamo. Perché?» Qualcuno intanto annuncia iniziative sulla «chiusura» del Palazzo, mai avvenuta prima nella storia, che dura a fasi alterne da mesi. «È illegittima», dicono.

CÀ FARSETTI BLINDATA E CHIUSA AI CITTADINIa’
Lettera di Maria Rosa Vittadini - Associazione VeneziaCambia

Sono andata a Ca’ Farsetti perché volevo assistere alla conferenza stampa del nostro sindaco Brugnaro, che insieme al presidente dell’Autorità portuale Paolo Costa presentava per la prima volta in pubblico il progetto di arrivo delle grandi navi alla Marittima, attraverso l’isola delle Tresse e il canale Vittorio Emanuele. Un progetto che considero di fondamentale interesse per i cittadini veneziani, qualunque sia la loro posizione in proposito. Un gentile usciere mi ha spiegato che nessun semplice cittadino poteva entrare, ma solo i giornalisti accreditati come tali presso qualche testata.

Sono ancora qui a chiedermi perché tanta opacità, tanta renitenza a permettere che i cittadini si facciano una loro idea senza la mediazione, rispettabilissima ma pur sempre mediazione, degli organi di stampa. Non mi pare questo lo stile di governo promesso in campagna elettorale. E ancora mi chiedo: di che cosa hanno paura i nostri governanti? Se, come sembra, hanno paura della presenza dei cittadini davvero non siamo in buone mani.

Lettera di Marco Zanetti - Associazione VeneziaCambia
Ieri Brugnaro e Costa hanno dimostrato di avere in comune autoritarismo e autosufficienza. Che ragione c’era di impedire ai cittadini presenti di assistere alla conferenza stampa di presentazione del progetto di un nuovo - e devastante - canale in laguna per le grandi navi? Non poteva il sindaco mandare i vigili urbani a controllare piazza San Marco piuttosto che impedire ai cittadini l’ingresso nella casa municipale? A che titolo quel progetto, e non altri, viene presentato come un progetto dell’amministrazione comunale? Se effettivamente lo è, in quanto corrispondente al programma elettorale del sindaco, perché non viene messo a disposizione, cioè esposto nella casa comunale (a Venezia e Mestre), per tutta la durata del suo procedimento di valutazione ambientale, perché i cittadini possano tranquillamente esaminarlo e comprenderne portata ed effetti? I cittadini veneziani e i cittadini del mondo che amano questa Città esigono che le decisioni che riguardano i beni comuni e la salvezza di Venezia siano chiare e trasparenti. Basta con opacità, collusioni e sotterfugi!

postilla

Questo è il sindaco della disgraziata città "patrimonio dell'umanità" .Vale la pena di ricordare che è un sindaco che si è proclamato renziano", al quale si sta platealmente avvicinando il parlamentare del partito renziano Davide Zoggia il quale ha scritto: «non dividiamoci su che atteggiamento tenere nei confronti del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, è un tema che rischia di fuorviarci rispetto agli enormi problemi di cui soffre la città». Ha l'apparenza un po' più feroce del ragazzo di Rignano, ma l'atteggiamento è lo stesso: io decido, gli altri stiano fuori ...

Il Mulino, 3 novembre 2015

«Ansa - Roma, 28 ottobre: “Venti grandi imprese italiane adottino ognuna uno dei venti musei che abbiamo reso autonomi”. È l’appello del ministro di Beni culturali e Turismo, Dario Franceschini, che spiega: “Vorrei che venti grandi imprese italiane scegliessero uno dei venti musei autonomi, da aiutare e su cui lavorare, diventandone main partner. Siamo pronti anche a coinvolgerli nella governance del museo”».
Con questo appello all’impresa privata, il registro retorico del ministro per i Beni culturali del Governo Renzi conosce una brusca virata autunnale. Cadono le ormai ingiallite foglie delle corone trionfali esibite nel cuore dell’estate, quando Franceschini presentò i venti superdirettori dei venti supermusei nazionali annunciando all’Italia e al mondo «un passo storico per l’Italia e i suoi musei che colma anni di ritardi, che completa il percorso di riforma del ministero e che pone le basi per una modernizzazione del nostro sistema museale», assicurando e promettendo nientemeno che «l’Italia volta pagina. Grazie a questo significativo cambiamento dell’organizzazione del sistema museale e al forte investimento sulla valorizzazione che ne consegue, il patrimonio culturale torna ad essere al centro delle scelte di governo».

Ai primi freddi, invece, Franceschini dismette le vesti trionfali, reindossa il sacco del supplice (d’ordinanza per qualunque titolare dei Beni culturali), e si prostra: non ai piedi del suo presidente del Consiglio dei ministri, per chiedergli magari di riallineare la spesa pubblica per la cultura (e segnatamente per i musei) almeno alla media europea (siamo sotto la sua metà), ma invece ai piedi dell’impresa privata, implorandola di «adottare» i nostri più importanti musei, dagli Uffizi a Brera, dall’Accademia di Venezia a Capodimonte.

È utile riflettere sulla scelta delle parole. Franceschini parla di «adozione»: egli, cioè, invita le imprese – il mercato – a «riconoscere come proprio il figlio d’altri, mediante un atto giuridico» col quale «si creano rapporti di famiglia» fra cose «che non sono legate da un corrispondente vincolo naturale». È, questa, la piana definizione del Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia. Ed è perfettamente, direi capillarmente, adeguata anche a dar conto dell’uso metaforico che di “adottare” e di “adozione” ha fatto Dario Franceschini. Il ministro prende formalmente atto del fatto che lo Stato – per mano del suo governo – ha definitivamente collocato sulla ruota degli esposti, o degli innocenti, i massimi musei italiani. Si potrebbe qui sottilizzare, discutere: forse non è un’adozione per abbandono, ma per morte dei genitori, giacché lo Stato nell’epoca della modernizzazione à la Blair (o, per dirla altrimenti, à la Reagan) – come ha scritto Luciano Gallino – «provvede da sé a eliminare il proprio intervento o quantomeno a ridurlo al minimo, in ogni settore della società: finanza, economia, previdenza sociale, scuola, istruzione superiore, uso del territorio». La fattispecie è dunque quella di un genitore che si suicida: segue, inevitabile, l’adozione.

Ma, come in un racconto dickensiano (ed è proprio a quella giungla sociale della Londra ottocentesca, che velocemente stiamo tornando), l’orfano non trova una famiglia amorosa e disinteressata. No, finisce tra le mani avide di chi vuol farlo lavorare: e sia pure a vendere fiammiferi per la strada. Lo sa bene il responsabile pro tempore dell’orfanotrofio del patrimonio culturale italiano, che si affretta a far balenare la prospettiva di un guadagno: i nuovi, orgogliosi genitori avranno l’esclusiva (si potrà diventare main partner degli Uffizi), e soprattutto una sedia nei consigli d’amministrazione – secondo l’aurea regola del «pago-comando». E dunque il messaggio renzian-dickensiano suona così: adottate i poveri musei italiani, sono pieni di braccia per il vostro brand. La Venere di Botticelli laverà i pavimenti, la Tempesta di Giorgione ospiterà picnic, la Dafne di Bernini diventerà più disponibile.

Tecnicamente, si tratta di un altro decisivo passo verso la trasformazione dei musei nazionali in fondazioni di partecipazione, sul modello – a torto celebratissimo, come ho provato a spiegare nel mio ultimo libro – del Museo Egizio di Torino. Dando a Comuni e Regioni la possibilità di nominare una parte del consiglio scientifico dei musei, si è avviato una sorta di federalismo demaniale del patrimonio: una devoluzione dal sapore leghista, palesemente incostituzionale (il patrimonio è «della nazione», art. 9 Cost.) e gravida di conseguenze nefaste. Ora segue a ruota la promessa di mettere le grandi imprese nella governance, cioè nei consigli di amministrazione.

Qualche giorno fa il notista politico più lucido e progressista del Paese – Maurizio Crozza – ha constatato, partendo da un articolo di chi scrive dedicato al noleggio del patrimonio pubblico, che «la cultura è diventata una mignotta che si offre a tutti, basta pagare».

Ma no, caro Crozza, ha capito male: adozione, non prostituzione. Andiamo avanti tranquillamente.

[I temi di questo intervento sono ripresi e ampliati nell’articolo di Tomaso Montanari in uscita sul numero 6/2016 della rivista: La notte dei musei e l’eclissi dell’articolo 9, pp. 1084-1092]

«Questione romana. Defenestrazione dall’alto di un sindaco inviso al potere. Marino, ostacolo democraticamente rappresentativo, viene sostituito con la figura del commissario. E il Vaticano scarica sulla città la sua forza. Senza misericordia». Il manifesto, 3 novembre 2015

Adesso basta. Roma ha più del dop­pio degli abi­tanti di Milano (2.869.169 con­tro 1.342.385). Quanto ad esten­sione, il con­fronto non è nean­che pen­sa­bile (1.287,36 kmq con­tro 181,67; se si parla delle due città metro­po­li­tane, il diva­rio si allarga a dismi­sura: 5.363,28 kmq, con­tro 1.575). Se caliamo la mappa di Milano su quella di Roma, Milano parte dal Quar­tic­ciolo e arriva a Porta San Gio­vanni: non entra nean­che nella por­zione sto­rica e monu­men­tale della Capi­tale. Non si capi­sce quale senso abbia la vana chiac­chiera di tra­sfe­rire il modello dell’una (se c’è) sull’altra.

Natu­ral­mente, si può gover­nare bene una città di medie dimen­sioni (come Milano) e male una metro­poli (come Roma), come anche vice­versa. Le dimen­sioni e i rap­porti, però, sono incom­men­su­ra­bili. Roma è al quarto posto fra le grandi città euro­pee, dopo Lon­dra, Ber­lino e Madrid, non a caso tutte capi­tali dei rispet­tivi Stati. Milano si col­loca nel campo delle città di medie dimen­sioni (al tre­di­ce­simo posto al livello euro­peo, credo). Se si deve ipo­tiz­zare un rap­porto a livello mon­diale, l’unica città ita­liana degna d’esser presa in con­si­de­ra­zione è Roma (per que­sti, e soprat­tutto per altri motivi, sui quali tor­nerò più avanti).

Milano “capi­tale morale”? Qual­che anno fa apparve un bel libro, Il mito della capi­tale morale, forse recen­te­mente ristam­pato, di Gio­vanna Rosa (non ci sono paren­tele, nean­che a metà, fra me e l’autrice): libro che nes­suno cita, e nes­suno mostra di aver letto. Il “mito”, appunto: non “la capi­tale morale”. Un lungo per­corso dal Risor­gi­mento a oggi, fatto di fatti, illu­sioni e disil­lu­sioni, cadute e riprese, riprese e cadute.

Del resto, se pren­des­simo alla let­tera per Milano la defi­ni­zione di “capi­tale morale”, dovremmo chie­derci sul piano sto­rico come sia stato pos­si­bile che da sif­fatta realtà politico-urbanistico-civile siano pre­ci­pi­tate sull’Italia le due scia­gure politico-istituzionali ed etico-politiche più ter­ri­fi­canti dell’ultimo secolo e mezzo, Benito Mus­so­lini e Sil­vio Ber­lu­sconi. Che Torino, culla della nostra unità nazio­nale, per que­sto e per altri motivi, sia più degna di tale definizione?

Su Roma, la Capi­tale, l’unica città ita­liana in grado di entrare in una com­pe­ti­zione e clas­si­fi­ca­zione inter­na­zio­nale, sono pre­ci­pi­tate nel tempo tutte le con­trad­di­zioni e tutto il degrado di cui è stato capace (o inca­pace) que­sto disgra­ziato paese, — l’Italia.

Roma è, ahimè, il luogo del potere e dei Palazzi: la Pre­si­denza della Repub­blica, la Pre­si­denza del Con­si­glio e il Governo, il Senato, la Camera dei Depu­tati, i Mini­steri, gli orga­ni­smi diri­genti della Magi­stra­tura, della scuola, dell’Università, dei corpi sepa­rati dello Stato, ecc. ecc. Tutti, ovvia­mente, gestiti al novanta per cento da non romani: tutti orien­tati a difen­dere inte­ressi che con Roma non ave­vano niente a che fare.

Roma, per quanto mi con­cerne, è se mai vit­tima, non carnefice.

Quando ha preso demo­cra­ti­ca­mente la parola, lo ha fatto poco e male. Con Ale­manno ha dato il peg­gio di sé, sul piano etico, civile e ammi­ni­stra­tivo. Anche que­sto oggi è ampia­mente e visto­sa­mente dimen­ti­cato e accan­to­nato, per non inter­fe­rire nean­che men­tal­mente con le pro­ce­dure di ese­cu­zione som­ma­ria dell’ultimo Sindaco.

A Roma, poi (anche que­sto avete dimen­ti­cato?), c’è il Vati­cano. Il Vati­cano è al tempo stesso una grande potenza reli­giosa e una grande potenza tem­po­rale, ter­rena. E, — lo dico con asso­luta per­sua­sione, — non può essere che così. Non può essere che così, nes­suno, né dal basso né dall’alto, potrebbe impe­dirlo (Gesù, unico, per volerlo fare, è finito nell’orto di Getse­mani e poi sulla croce).

La pro­cla­ma­zione del pre­sente Giu­bi­leo ne è la più vicina e lam­pante testimonianza.

Esprimo il mio stu­pore: non c’è com­men­ta­tore di qual­che por­tata che si sia sof­fer­mato come meri­tava su que­sto pas­sag­gio. Un bel giorno Papa Fran­ce­sco pro­clama un Giu­bi­leo straor­di­na­rio della Mise­ri­cor­dia. E’ l’ultima maz­zata: trenta milioni di pel­le­grini e migliaia di ceri­mo­nie nella Capi­tale, molto immo­rale forse, ma di certo molto, molto stra­paz­zata. Sic­come è impro­ba­bile che il Giu­bi­leo si svolga den­tro le mura dello Stato Vati­cano, che del resto non acco­glie quasi nulla di quanto lo riguarda, la città intiera ne sarà travolta.

Ci sono state con­sul­ta­zioni pre­ven­tive in pro­po­sito? Qual­cuno, al di qua del Tevere, ha rispo­sto che andava tutto bene? Impro­ba­bile. Dun­que, il Vati­cano dispone di Roma come fosse cosa sua (è già acca­duto altre volte nella sto­ria, anche dopo il 1870). I poteri democratico-rappresentativi a quel punto sono spinti ine­vi­ta­bil­mente in un angolo. Cosa potrebbe dire o fare di fronte a un mes­sag­gio universalistico-religioso di tale por­tata? Ma il mes­sag­gio universalistico-religioso si tra­sforma rapi­da­mente in una serie di Ukase politico-temporali sem­pre più assil­lanti e per­sino da un certo momento in poi anche vio­lenti: avete chiuso le buche? Avete rat­top­pato le metro­po­li­tane? A che punto siete con l’accoglienza? Siete in grado di garan­tire il ristoro? E la sicu­rezza, la sicu­rezza, come va?

Il grande evento di Mise­ri­cor­dia vale dun­que per tutto il mondo (così almeno si dice): ma non vale per Roma, né per i suoi cit­ta­dini, né per i suoi ammi­ni­stra­tori, che infatti, in tutte le occa­sioni pos­si­bili, sono trat­tati a pesci in fac­cia, coo­pe­rando ine­vi­ta­bil­mente (e diciamo con­sa­pe­vol­mente) alla distru­zione della loro cre­di­bi­lità e del loro prestigio.

A Roma non ci sono gli “anti­corpi”? Sì, que­sto è un po’ vero. Infatti, a Roma, nelle scorse set­ti­mane, e con acce­le­ra­zione cre­scente negli ultimi giorni, si è con­su­mata la più impo­nente e capil­lare distru­zione di anti­corpi che si sia mai vista in Ita­lia dalla Libe­ra­zione a oggi.

Anche qui esprimo il mio stu­pore: osser­va­tori, avete colto dav­vero quel che è acca­duto a Roma nelle scorse set­ti­mane e con acce­le­ra­zione cre­scente negli ultimi giorni? Il giu­di­zio sul com­por­ta­mento e le atti­tu­dini diri­gen­ziali del sin­daco Marino, — un “mar­ziano”, un inetto, un inca­pace, un sup­po­nente, da un certo momento in poi anche uno poco cor­retto, — non ha niente a che fare con lo svol­gi­mento e la con­clu­sione della faccenda.

Se si doves­sero rimuo­vere dai loro inca­ri­chi Sin­daci, Pre­si­denti delle Regioni, Mini­stri, Diret­tori Gene­rali, Ret­tori, ecc. ecc., — per­ché “mar­ziani”, inetti, inca­paci, sup­po­nenti, poco cor­retti, ecc. ecc, — assi­ste­remmo in poco tempo al crollo ver­ti­cale dell’intera mac­china politico-istituzionale ita­liana (sarebbe comun­que affare della magi­stra­tura, come tal­volta già accade, non dei politici).

Quel che invece è acca­duto a Roma è la defe­ne­stra­zione dall’alto, — per vie poli­ti­che, non legali, intendo, — di un uomo poli­tico che non era in grado (e pro­ba­bil­mente non voleva) garan­tire le attese dei prin­ci­pali poteri inte­res­sati alla vicenda: la nuova forma della poli­tica oggi domi­nante in Ita­lia, il Vati­cano, i poteri eco­no­mici all’arrembaggio della nuova torta.

Il risul­tato di tutta la vicenda è che esi­ste oggi in Ita­lia un Potere Supremo il quale è in grado di sba­raz­zarsi di qual­siasi osta­colo demo­cra­ti­ca­mente rap­pre­sen­ta­tivo, sosti­tuen­dolo con la figura fin qui ano­mala ed ecce­zio­nale del Com­mis­sa­rio, il quale ovvia­mente è, e non potrebbe non essere, un dele­gato al ser­vi­zio di quel mede­simo Potere Supe­riore. Il quale, essendo anch’esso non deter­mi­nato dal voto popo­lare ma, diciamo, da una sorta di auto­com­mis­sa­ria­mento del mede­simo (com’è noto, il nostro Pre­si­dente del Con­si­glio non ha goduto di tale inve­sti­tura), tende a ripro­dursi per gemi­na­zione secondo le mede­sime modalità.

Roma, se è e resta la Capi­tale d’Italia, la quarta città euro­pea, una delle più impor­tanti del mondo, dal punto di vista del patri­mo­nio arti­stico e cul­tu­rale è senza ombra di dub­bio la prima.

Que­sto suscita da un bel po’ di tempo una cor­rente d’invidia e di gelo­sia, nazio­nale e inter­na­zio­nale, da far spa­vento. Essa si col­lega, e stret­ta­mente si con­giunge, al pro­getto dell’attuale potere poli­tico ita­liano di farne da tutti i punti di sta una cosa propria.

A Roma, più che in qual­siasi altra città ita­liana, abbiamo a che fare con una massa di potere inim­ma­gi­na­bile altrove: Vati­cano, poteri eco­no­mici forti, potere poli­tico di tipo nuovo, incline al com­mis­sa­ria­mento della Nazione ovun­que sia pos­si­bile e a suo avviso neces­sa­rio, pro­ce­dono affian­cati, e nella mede­sima dire­zione (non c’è biso­gno di pen­sare a incon­tri segreti a Via dei Peni­ten­zieri o a Largo Chigi o magari a Palazzo Vec­chio a Firenze: basta pen­sarla nello stesso modo).

Ce la faranno Roma, e i romani, a rove­sciare que­sta mostruosa ten­denza? I romani, senza i quali anche il mito di Roma rischia di diven­tare un’astrazione, sono delusi, con­fusi, smar­riti. Come volete che siano? Ave­vano votato trion­fal­mente per Marino esat­ta­mente per dare una svol­tata alla sto­ria. Ora forze potenti della poli­tica e dell’informazione si affan­nano quo­ti­dia­na­mente a spie­gar loro che Marino era sem­pli­ce­mente un “mar­ziano”, un inetto, un inca­pace, un sup­po­nente, uno poco cor­retto, ecc. ecc., e a spie­gar­glielo sono esat­ta­mente innan­zi­tutto quelli del suo pro­prio par­tito, quelli che ave­vano chie­sto loro di votarlo (nean­che uno dei con­si­glieri comu­nali “dem” che abbia resi­stito alla sferza del capo, che vergogna!).

Però, al tempo stesso, monta l’indignazione, anzi, una rab­bia cupa e vio­lenta, con­tro tutti quelli che hanno real­mente com­bi­nato tutto que­sto, il Potere Supe­riore e i suoi mol­te­plici alleati.

La Capi­tale immo­rale giace così sotto il peso degli errori com­messi, quelli suoi, certo, ma soprat­tutto, soprat­tutto quelli degli altri.

Come ultimo schiaffo viene inviato a gover­narla un Pre­fetto dal nome beneau­gu­rante di Tronca. All’Expo, — per sue dichia­ra­zioni, — si è occu­pato dell’ordine pub­blico; in pre­ce­denza, dei Vigili del fuoco. Com­pe­tenze, que­ste, indu­bi­ta­bil­mente ade­guate a gover­nare la metro­poli Roma, le sue con­trad­di­zioni e lace­ra­zioni, e a susci­tare in lei i nuovi anti­corpi. Nel frat­tempo il Potere Supe­riore garan­ti­sce che il Giu­bi­leo sarà un suc­cesso come l’Expo.

Tutto è money, d’accordo, ma forse qui siamo andati un po’ troppo oltre. Il Vati­cano sod­di­sfatto annuisce.

Per sot­trarsi a que­sta nefa­sta spi­rale, ed evi­tare altre can­to­nate, ci vorrà un lavoro lungo e in pro­fon­dità, razio­nale, sì, ma anche rab­bioso. Il tempo delle media­zioni è finito, ne comin­cia un altro, meno dispo­ni­bile alle prese in giro. Se ci sono voci dispo­ste a par­lare in que­sto senso, si fac­ciano sen­tire presto.

Cominciano a capire che cos'è il project financing all'italiana. C'è chi lo predica da decenni, e noi pagheremo tutto perché chi decide non sente. La Nuova Venezia, 2 novembre 2015

IL PM ORDINA LA PERIZIA SUI COSTI

Mestre. A quasi tre anni da quando Piergiorgio Baita (arrestato per le tangenti Mose) parlò dell’affaire Ospedale dell’Angelo a Mestre, la Procura di Venezia cerca ancora di capire se anche in quell’operazione ci fu un malaffare traducibile in reati da contestare. Da mesi un commercialista sta passando al setaccio il project finacing che ha permesso di realizzare l’opera nella periferia di Zelarino. Le indagini sull'ospedale dell'Angelo, nate da una “costola” della maxi inchiesta sullo scandalo Mose, alimentarono, fin da subito, attraverso le dichiarazioni di Baita, una serie di sospetti su l’opera realizzata attraverso la finanza di progetto. Sospetti, peraltro, estesi anche a tutte le altre opere realizzate o previste in Veneto con analoghe modalità contrattuali.

Il sostituto procuratore Laura Cameli, alla quale è stato affidato il fascicolo nel 2013, ha disposto una consulenza tecnica, affidata ad un commercialista mestrino. C’è il sospetto che l’intervento sia stato troppo vantaggioso per i privati che lo hanno realizzato anticipando il denaro. Il dubbio: se il profitto per le imprese è stato esagerato, chi lo ha garantito politicamente potrebbe averne tratto beneficio. Su questo si indaga. L’operazione, per le casse della Regione e quindi dei cittadini, è stata decisamente poco conveniente; lo hanno detto in molti e la stessa Corte dei Conti da tempo ha ficcato il naso.
Sono ben cinque le indagini della magistratura contabile sull’ospedale mestrino. Le sta conducendo la Procura regionale della Corte dei conti per verificare la legittimità di alcune spese e, di conseguenza, accertare la possibile sussistenza di un danno erariale. La più rilevante riguarda, appunto, l’operazione finanziaria che ha permesso la costruzione del polo ospedaliero di via Paccagnella, costruito in gran parte con soldi di una cordata alla quale l’Ulss 12 è impegnata a versare un canone, in parte relativo all’ammortamento, in parte ai servizi dati in gestione (riscaldamento, rifiuti, mensa, lavanderia); 248 milioni sborsati dai privati a fronte di oneri per 1 miliardo e 200 milioni spalmati in 24 anni. Decisamente troppo.

ZAIA: «VIA LA POLIITICA, DECIDANO I TECNICI»

di Filippo Tosatto

VENEZIA Le procedure di finanziamento del nuovo ospedale di Padova, la querelle giudiziaria e amministrativa sui costi abnormi dell’Angelo di Mestre, il piano infrastrutturale “dormiente” in Regione: si riaccende così lo scontro sui project financing, i contratti “misti” che nella lunga stagione galaniana hanno sancito l’accesso dei capitali privati alle grandi opere pubbliche, consentendo la realizzazione di obiettivi importanti (dalla sanità alle strade) ma rivelandosi troppo spesso punitivi per le casse del Veneto e “vulnerabili” sul versante della legalità. Che fare allora?

In tempi di tagli alla spesa, come si conciliano trasparenza, tutela dell’interesse pubblico e raccolta delle risorse necessarie a finanziare i progetti strategici? «La prima legge approvata dalla nuova assemblea regionale l’ho presentata io e riguarda la revisione sistematica dei contratti di finanza di progetto», afferma il governatore Luca Zaia «la volontà è quella di riesaminare tutti i project in fieri e accertarne sia l’effettiva necessità che la sostenibilità sul piano economico. Intendiamoci, i project non sono entità demoniache ma contratti adottati in tutto il mondo: possono risultare vantaggiosi per il pubblico oppure devastanti, come accaduto in passato. Dipende dalle clausole previste. Ai cittadini dico questo: chi è ladro, ruba dappertutto, anche le elemosine in chiesa. Servono poche regole chiare, il procuratore Nordio ha ricordato che l’attuale giungla di leggi e burocrazia in materia di appalti non scoraggia, anzi favorisce le tangenti».
Nel frattempo, i contratti-capestro stipulati zavorrano i conti pubblici... «Cercheremo in ogni modo di rinegoziarli ma per ridiscutere un accordo firmato, occorre essere in due oppure rassegnarsi a pagare i danni». Ma cosa cambierà d’ora in poi? «Che la politica resterà fuori dalla finanza di progetto. La scelta della proceduta di finanziamento per le nuove opere avverrà in modo comparativo, con atti certificati, rispetto alle opzioni disponibili: accesso al credito ordinario, richiesta di mutuo alla Banca europea investimenti, ricorso al project. La stella polare sarà il vantaggio istituzionale e l’ultima parola spetterà ai tecnici, qualificati a decidere e pagati per farlo». È tutto? No. Nei giorni scorsi il deputato padovano del Pd Alessandro Zan ha attaccato duramente il governatore leghista, imputandogli amicizie poco chiare con personaggi coinvolti nello scandalo Mose: «Dignità e coerenza vorrebbero che Zan rinunciasse all’immunità parlamentare per favorire un sereno dibattito penale e provare le accuse che mi muove. Così non è, perciò sarò io a recarmi presso la Procura della Repubblica ma anche dal giudice civile.
Per non aggiungere squallore a un dibattito che esito a definire politico, eviterò di ricordare all’onorevole quanti, nel suo partito, hanno avuto a che fare con l'inchiesta Mose e su quali tipi di rapporti diciamo cosi “ambientali” le Procure hanno meritoriamente fatto luce». Chi assume una posizione drastica sulla vicenda è il M5S: «Siamo contro i project financing senza se e senza ma», scandisce il capogruppo Jacopo Berti «perché si sono rivelati l’alveo naturale di sprechi, corruzione e mangiatoie, senza alcun beneficio per il tessuto sociale. Un esempio per tutti, l’ospedale di Mestre: i privati hanno versato 248 milioni, la Regione li ripagherà con 1,2 miliardi nell’arco di 24 anni. È uno strumento finanziario perverso, che assicura profitti esagerati agli investitori in assenza di ogni rischio imprenditoriale»; i pentastellati, si diceva, non ammettono eccezioni: «Se governassimo noi, stracceremmo anche i contratti in vigore, meglio pagare la clausola rescissoria e voltare pagina».
«Il cambio d’uso non è un obbligo ma una eventuale concessione eccezionale che può essere data (se ve ne sono le condizioni) ma può anche essere negata dando un primo segnale della volontà di fermare l’esodo e avviare il ripopolamento». La Nuova Venezia, 2 novembre 2015
A propositi di esodo e ripopolamento di Venezia la discussione sui cambi d’uso deve partire dalla conoscenza delle norme del piano urbanistico in vigore. L'art. 25.1 delle NTA vieta il cambio di destinazione d'uso delle unità immobiliari di superficie utile inferiore a mq 120, anche delle unità immobiliari abitative che attualmente risultano non occupate o sfitte alla data del 31 dicembre 2000, (purché queste risultino accatastate come abitazioni o che tale destinazione risulti da altra documentazione ufficiale come licenze, autorizzazioni, abilitazioni ecc.). Questa norma era stata inserita per evitare la richiesta di accorpamenti immobiliari e successivamente la richiesta di cambi d'uso da residenza ad attrezzatura ricettive, aggirando in tal modo il limite dei 120 mq. In conclusione non è possibile trasformare l'uso abitativo di una unità immobiliare di superficie inferiore ai 120 mq anche se questa risulta vuota, purché sia registrata e accatastata come abitazione alla data del 31 dicembre 2000.
Da quanto riportano i giornali (occorre verificare le deliberazioni in discussione) risulterebbe, che per le tre unità abitative interne ad un'unica unità edilizia, viene utilizzata la deroga prevista dall'art. 28.1 delle NTA perché attualmente sono vuote. Se ciò fosse vero sarebbe un'interpretazione errata o solo una grande forzatura. In ogni caso l'art. 28.1 consente l'insediamento di un'unica utilizzazione compatibile con il tipo edilizio sull'intera unità edilizia e quindi il cambio degli usi abitativi in atto (intendendo anche in questo caso certificati da atti quali accatastamenti, autorizzazioni, abilitazioni ecce.) purché risulti che i 2/3 della superficie dell'unità edilizia sia utilizzata ad un'unica diversa utilizzazione da quella abitativa. Tanto è vero che il comma 2° dello stesso articolo 28.1 punto b) prevede che sia stipulata una convenzione con il Comune per la eventuale riallocazione degli utilizzatori delle abitazioni inserite nell'unità edilizia in altri congrui immobili.
La controversia riguarda proprio la parola “destinazione d'uso abitativa in atto”, ma non vi è dubbio che la norma sia chiara così come espressa all'art. 25.1. L'Amministrazione comunale dà un'interpretazione tutta sua e a suo piacimento. Così anche per l'art. 28.1 in atto non deve intendersi “attualmente” poiché il proprietario pur di raggiungere i suoi scopi potrebbe dare prima lo sfratto agli inquilini (o buonuscita) e una volta ottenuto non avere nemmeno l'obbligo di sistemare gli stessi in un congruo immobile. Prima di trasformare la destinazione d'uso delle unità immobiliari ad uso residenziale è necessario verificare da quando non sono occupate e se gli eventuali inquilini sono stati sfrattati per raggiungere lo scopo di trasformare tutta l'unità edilizia in albergo.
Quindi il cambio d’uso non è un obbligo ma una eventuale concessione eccezionale che può essere data (se ve ne sono le condizioni) ma può anche essere negata dando un primo segnale della volontà di fermare l’esodo e avviare il ripopolamento. Se vi è effettiva volontà politica in pochi giorni può essere riadottata, in variante, la norma precedente vigente fino al 1999 che tutelava tutte le unità catalogate come residenza. La norma va in vigore, come salvaguardia, dal giorno stesso della sua adozione. Nella città storica vi sono moltissimi altri spazi disponibili (identificati, classificati, normati e quantificati fin dal 1990) per essere destinati ad altre attività terziarie (possibilmente non ricettive).
Ovviamente per bloccare l’esodo di abitanti (e attività) non basta impedire il cambio d’uso degli appartamenti rimasti. Occorre attivare delle forti politiche per favorire e rendere conveniente la residenza in città, altrimenti comunque il mercato continuerà a spingere verso l’esodo.
Stefano Boato Venezia, ex assessore all’Urbanistica anoressia

Le amare riflessioni personali del portavoce di una singolare struttura di collaborazione tra le reti e i gruppi impegnati nella difesa del territorio romano (cartinregola). Il racconto appassionato di un'esperienza di governo terminata troppo presto, e di qualche retroscena interessante.

Come portavoce di Carteinregola – ma quello che sto scrivendo è a titolo personale - ho passato gli ultimi quattro mesi della consiliatura Alemanno in Campidoglio, a fare un presidio contro delibere urbanistiche che, come ho dolorosamente constatato insieme ai miei compagni di avventura, godevano dell’appoggio anche della stragrande maggioranza dell’opposizione del Partito Democratico. Siamo riusciti a fermare tanti progetti – anche una delibera poi finita sotto la lente della magistratura - praticamente da soli. E Giovanni Caudo è stato uno dei pochi che spesso mi ha aiutato a capire quali conseguenze quelle delibere potevano avere sulla città.

Per questo, quando è stato nominato assessore alla Trasformazione Urbana, ho pensato che fosse la volta buona per “cambiare davvero”. Uno slogan da campagna elettorale, che, con la sua nomina, per me diventava una prospettiva concreta per la vita e il futuro dei cittadini di Roma.

Infatti il primo segnale che ha lanciato è stato il coronamento di una delle nostre più grandi battaglie: la cancellazione della cosiddetta “delibera degli ambiti di riserva”, che avrebbe riversato nell’Agro romano una volumetria complessiva di 20 milioni di metri cubi di case, dove sarebbero andati a vivere altri disperati delle “tre ore di vita al giorno per andare e tornare dal posto di lavoro”. Una delibera dell’amministrazione Alemanno che però si inseriva nella pratica delle “eruzioni cementizie lontano da tutto, con enormi costi per il Comune, ampiamente incentivata anche dalle amministrazioni Rutelli e Veltroni.

E nella frequente continuità tra la politica urbanistica del centrosinistra del “Modello Roma” e del centrodestra di Alemanno, si possono trovare forse le ragioni di un consociativismo che abbiamo percepito chiaramente durante il nostro presidio, e anche di una frequente ostilità tra pezzi del Partito Democratico capitolino e l’Assessore Giovanni Caudo. A rileggere oggi i giornali, fin dai primi mesi dopo il suo insediamento – sto preparando una cronologia ragionata dell’”era Marino” – ritroviamo varie dichiarazioni di esponenti PD che attaccano l’assessore, accusandolo di inerzia per le - a loro dire - poche delibere portate in Aula e insinuando maliziosamente che il suo mestiere di “professore” lo renda poco adatto ad affrontare le necessità pratiche della città. E più volte è stata data per imminente la sua sostituzione.

In realtà il grande difetto del “professore” è stato l’aver preso di petto da subito la situazione, passando al setaccio gli atti ereditati, fermando tanti progetti di dubbio interesse pubblico – come il progetto Water Front di Ostia e pacchi di delibere urbanistiche dell’ex Sindaco Alemanno - e soprattutto avviando – per primo e in beata solitudine – molti provvedimenti che diventeranno d’attualità dopo lo scoppio di Mafia Capitale, a partire dalla riorganizzazione degli uffici e dalla rotazione dei dirigenti, che gli procura una notevole serie di nemici, nell’amministrazione e soprattutto nei partiti.

E l’aria nuova all’urbanistica scatena anche reazioni negative da parte del mondo dell’edilizia, il “motore economico della Capitale”, che lo accusa di dare il colpo di grazia a un settore già falcidiato dalla crisi per i rallentamenti dovuti alla riorganizzazione della macchina amministrativa. Si agita la minaccia ricorrente di una manifestazione contro l’assessore, con tanto di betoniere sotto le sue finestre, che alla fine non si farà mai. E i nuovi schemi di convenzione, quelli a cui il suo staff lavora per mesi, per porre fine a tanti disastri sparpagliati nella città - interi quartieri fatti e finiti senza strade, servizi, persino fognature - dovranno superare una lunga corsa a ostacoli, soprattutto da “fuoco amico”, prima di arrivare all’approvazione.

Ma anche con i comitati cittadini spesso si creano conflitti. Ho seguito molti incontri e assemblee che Caudo ha tenuto nei territori, in parte per conservare il più possibile le tracce del suo lavoro (che ho sempre pensato che potesse essere interrotto da un momento all’altro) ma soprattutto per capire come si poteva favorire il dialogo tra delle istituzioni che cercavano di risolvere i problemi e una cittadinanza diffidente, segnata da anni di promesse non mantenute. E se è possibile che l’assessore non abbia sempre risposto adeguatamente a delle giuste vertenze, o che ci siano stati errori e inefficienze, molto spesso ho avuto l’impressione che la distanza tra un’amministrazione alle prese con una complessità creata da situazioni stratificate da anni, e le enormi aspettative dei cittadini, fosse comunque incolmabile.

Molti comitati speravano che Caudo potesse finalmente “rimettere a posto” tanti torti e deviazioni del passato, compresi quelli che avevano ormai superato il “punto di non ritorno”, e sono rimasti delusi. Altri hanno visto con sospetto qualunque operazione che cercasse di coniugare – sia purevirtuosamente - vantaggi pubblici con finanziamenti privati, auspicando, forse giustamente, che il Comune offrisse ai cittadini spazi e servizi attingendo solo a risorse pubbliche. Altri ancora hanno giudicato il lavoro dell’assessore dall’angusto punto di vista delle loro richieste specifiche. Ma ci sono stati anche molti comitati di quartiere che hanno impostato un dialogo costruttivo che ha dato frutti.

Quello che sicuramente è mancato, da parte della città, è una percezione generale di quanto si stava facendo, e delle centinaia di criticità - in certi casi vere emergenze - che si stavano affrontando. E questo anche per la scarsa informazione dei media, che hanno sempre dedicato pagine e pagine alle buche stradali e al gossip politico e ben poche ai problemi reali dei territori.

Ci sono state anche operazioni che io stessa ho trovato discutibili, come l’aver concesso il “pubblico interesse” al progetto dello Stadio della Roma, avallando la costruzione di tre torri per compensare i costi delle opere pubbliche necessarie. Utilizzando, così, a mio avviso, la stessa pratica della “moneta urbanistica” che proprio Caudo aveva rimproverato a chi l’aveva preceduto, che in questo caso secondo lui è giustificata dalla necessità di cogliere le opportunità offerte ai privati dalla legge nazionale per portare a casa un risultato utile a tutta la città. Il limite di questo ragionamento – che ahimè è stato ancora una volta riesumato per la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024 – potremmo vederlo tra qualche mese, quando nella stanza dei bottoni arriveranno i nuovi responsabili designati dalla prossima maggioranza, che non è detto che interpretino il pubblico interesse e la regia pubblica nello stesso modo dell’assessore Caudo.

E dispiace che l’“operazione Stadio della Roma”, anche per l’incombere simbolico di quelle torri, abbia fatto passare in secondo piano i molti risultati raggiunti, i progetti dannosi cancellati, o quelli nuovi messi in cantiere. Come il progetto, abortito per mancanza di tempo e di fondi – grazie ai ritardi del Governo - del “Giubileo di strada e di piazza” che aveva previsto piazzali, parchi e spazi pubblici, come “lascito duraturo” dell’evento religioso straordinario nelle periferie.

Ma non sono stati raccontati alla città neppure i percorsi tracciati per avviare una riflessione collettiva sul futuro di Roma e dei suoi abitanti. Uno di questi - le conferenze urbanistiche – si è concretizzato in 75 incontri presso i Municipi, a cui hanno partecipato più di 2000 persone, che hanno predisposto 15 carte dei valori municipali. Un tentativo di sollevare lo sguardo oltre i problemi contingenti dei territori e disegnare insieme scenari futuri, che avrebbe dovuto poi sfociare in una conferenza urbanistica della città.

Non so quante delle voci critiche, vedendo come è andata a finire, oggi abbiano qualche ripensamento.

Ma, a giudicare dalla folla che è venuta a salutare Caudo giovedì scorso, partecipando a un’iniziativa un po’ improvvisata negli ex stabilimenti militari del Flaminio, mi sembra che l’assessore, un bel pezzo di città, alla fine l’abbia conquistato. In sala c’erano tanti comitati che venivano da molti quartieri anche lontani, associazioni, i suoi collaboratori insieme a funzionari e dipendenti del dipartimento, rappresentanti dell’Acer (sì, i costruttori, quelli medi e piccoli, che gli volevano portare le betoniere sotto l’assessorato), alcuni assessori con cui ha condiviso fino all’ultimo l’impegno per la città – Estella Marino e Francesca Danese – molti presidenti, assessori e consiglieri dei Municipi, e tantissimi cittadini, architetti, urbanisti, studenti. E il clima era autenticamente commosso, perché chi era lì, lo era solo per testimoniare la sua solidarietà e la sua stima a un uomo che di lì a poco non sarebbe più stato assessore. Un riconoscimento che io penso si meriti fino in fondo.

E al Sindaco Marino, vittima delle trame di tanti potentissimi nemici - senz’altro molti nemici anche di Caudo - ma anche di se stesso, non perdono di non aver abbracciato fino in fondo, e fin dall’inizio, il coraggio del suo assessore.

A tutti gli altri non perdono di aver permesso che la città perdesse Giovanni Caudo. E il pensiero che non sia più nel suo ufficio, a lavorare con il suo staff per cercare con fatica, pazienza e caparbietà, di risolvere qualche insolubile problema, mi fa salire un magone insopportabile.

Anna Maria Bianchi Missaglia è la portavoce del Laboratorio Carteinregola, ma queste riflessioni sono scritte a titolo personale

Il nostro rischio di cancro è solo un sintomo, del vero cancro che si sta mangiando il territorio che abbiamo sotto i piedi, e che alimentiamo anche con le abitudini di consumo: più che mai insomma è ancora valida la famosa massima secondo cui il personale è politico. Today, 2 novembre 2015

Il comunicato stampa dell'Organizzazione Mondiale della Sanità sul rapporto fra consumi di carni e incidenza di alcuni tipi di tumori, ha suscitato prevedibili reazioni, soprattutto dalle parti della pancia della società, a cui era rivolto. Questo ventre collettivo ha rapidamente riversato tra i social e altri tipi di media la classica reazione di chi punto in un'area assai sensibile scatta allarmato e reagisce di istinto, di solito nel modo più sbagliato e controproducente. Al netto di sarcasmi vari, anche giustificati dal modo in cui la stampa ha diffuso la notizia, questi commenti suonavano più o meno: «il cotechino non fa venire il cancro, perché è buonissimo col purè e me lo faceva mia nonna». Ecco, con ovvie varianti personali e regionali, la frase ricorrente suonava proprio così, mescolando sia la solita corrente culturale tradizionalista che guarda al mitico passato da cartolina come riferimento costante, sia una visione soggettiva che, ovvia se parliamo dei gusti personali, lo diventa molto meno se su quei gusti personali vogliamo costruire una immagine del mondo.

Perché di che mondo ci parlava, quella OMS mondiale per definizione e che di mondiale deve per forza avere la prospettiva? Ci parlava di un mondo dove quote assolutamente maggioritarie delle proteine animali desinate all'alimentazione umana viaggiano su filiere che paiono studiate apposta per riprodurre il peggio della logica industriale: dall'accaparramento di vastissimi territori remoti, strappati agli agricoltori tradizionali e convertiti in gigantesche macchine da allevamento tritatutto; ai sistemi di alimentazione del bestiame, ingollato a milioni e milioni di esemplari in batteria peggio delle peggiori oche da fois gras delle leggende; alle fucine di satanasso della lavorazione e distribuzione finale del frullato industriale, con la ciliegina dell'etichetta-logo e della pubblicità magari salutista-tradizionale (un bel panorama agreste sulla confezione non si nega a nessuno).

Tutto questo per una clientela prevalentemente urbana, che nulla sa dei criteri di sfruttamento delle risorse agricolo-territoriali, e si immagina magari sul serio che quel brandello di bestia che gli fuma nel piatto guarnito di verdure e aromi, venga davvero dall'animale sorridente disegnato in etichetta, da quegli sfondi collinari col casale in prospettiva, dal tizio baffuto col cappello di paglia delle pubblicità interpretato da un attore professionista. Nulla sa, quella clientela urbana che rischia il cancro, al 15% o 10% in più o chissà quanto, i calcoli sono ovviamente perfettibili, del fatto più importante: il cancro vero è quello delle forme di produzione, delle quantità di proteine animali indispensabili a garantire quei prezzi e quel mercato, nell'attuale modello alimentare. Semplicemente, se ci fosse sul serio la famosa produzione locale sostenibile, a chilometro zero, magari dentro qualche «greenbelt» metropolitana dove è possibile l'allevamento da carne, il cotechino col purè (o l'hamburger, o il prosciutto, o la bistecca) lo assaggeremmo poche volte l'anno, pagandolo un occhio come merita, esattamente come i nostri nonni quando la filiera produttiva assomigliava parecchio a quel modello. Quello che ci dice implicitamente, il comunicato dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, è che il nostro rischio di cancro è solo un sintomo, del vero cancro che si sta mangiando la terra che abbiamo sotto i piedi, e che alimentiamo anche con certe pessime abitudini alimentari e di consumo. Una volta capito questo, poi, torniamo pure a sfottere, a dare dei pervertiti ai vegetariani o a chiunque discuta di ambiente o etica, siamo in democrazia e possiamo pure farlo, no?

Ancora una volta, una puntuale analisi di una legge applaudita da tutti i verdi, verdastri, verdagnoli. Evidentemente senza averla letta con attenzione e fidandosi delle buone intenzioni. Speriamo leggano adesso. Con postilla contenente il testo del ddl C2039

Nell’aula di Montecitorio sta per cominciare la discussione sul progetto di legge governativo per il contenimento del consumo del suolo (C. 2039). La prima proposta era stata presentata dal ministro delle Politiche agricole del governo Monti, Mario Catania, tre anni fa, nel novembre del 2012. Da allora ci sono stati due cambi di governo (Letta e Renzi), mentre la proposta di legge è rimasta sostanzialmente ferma nelle commissioni riunite VIII e XIII della Camera. Solo recentemente ha subito un’accelerazione, insieme a un vistoso peggioramento.

Comincio ricordando il percorso in tre atti che dovrebbe portare al contenimento del consumo del suolo (il traguardo è quello fissato dall’Unione europea di un consumo del suolo = 0 entro il 2050):

Un percorso in tre atti (impuri)

1. con decreto del ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali, di concerto con i ministri dell’Ambiente, dei Beni Culturali e delle Infrastrutture e trasporti, avendo acquisito il parere della conferenza Stato Regioni è definita la “riduzione progressiva vincolante, in termini quantitativi, di consumo del suolo a livello nazionale” (art. 3, c. 1);
2. la riduzione nazionale è in seguito ripartita fra le Regioni con deliberazione della Conferenza unificata (art. 3, c. 5);

3. il terzo atto riguarda la riduzione del consumo di suolo dalla scala regionale a quella comunale, il che avviene con provvedimento delle Regioni e delle Province autonome (art. 3, c. 8).

Come si vede, è uno di quei meccanismi a cascata – Stato, Regioni, Comuni – che non hanno mai funzionato, figuriamoci in questa circostanza, quando sotto tiro sono quell’immane coacervo di interessi che comprende (per dirla con Valentino Parlato) gli stati maggiori e le fanterie della proprietà fondiaria.

Entrando nel merito, penso che uno scrupoloso ministro delle Politiche agricole possa decretare senza particolari problemi, entro un anno dalla entrata in vigore della legge, di quanto debba essere ridotto il consumo di suolo a livello nazionale. Una decisione che può avere una positiva ricaduta sull’opinione pubblica e non dovrebbe suscitare rilevanti ostilità.

Meno scontata è la decisione della Conferenza unificata che dovrebbe deliberare la ripartizione fra le Regioni del consumo di suolo stabilito a livello nazionale. Prevalendo sicuramente le Regioni più sensibili agli interessi del mondo dell’edilizia, la Conferenza potrebbe non deliberare entro i previsti 180 giorni dal decreto ministeriale. In tal caso dovrebbe intervenire un decreto del presidente del Consiglio, dopo aver acquisito il parere della Conferenza unificata (art. 3, c. 6).

Lo stesso dovrebbe succedere se le Regioni non determinano, entro i successivi 180 giorni, la ripartizione a scala comunale del consumo di suolo stabilito per ciascuna regione. Anche in questo caso, il potere sostitutivo è esercitato dal presidente del Consiglio previo parere della Conferenza unificata (art. 3 c. 9).

Questo è il punto. Per quanto ne so, in materia di politica del territorio, il potere sostitutivo dello Stato ai danni delle Regioni non è mai stato esercitato, basta ricordarsi delle generalizzate e mai sanzionate inadempienze regionali in materia di piani paesistici ex lege Galasso. Per non dire dei piani paesaggistici ex Codice del paesaggio.

Comunque, ammesso anche che il Consiglio dei ministri intervenga per attuare la ripartizione fra le Regioni del consumo di suolo stabilito a livello nazionale, operazione che, in fondo, di per sé, non fa male a nessuno, escludo che nella maggioranza delle Regioni si provveda per tempo a ripartire fra i comuni la riduzione del consumo di suolo fissata a scala regionale.
Ma ammesso ancora che, un giorno, questo possa succedere, non succederà mai che i comuni più disponibili nei confronti del cemento e dell’asfalto (dal Lazio in giù) provvedano nei tempi previsti a riformare gli strumenti urbanistici per cancellare le espansioni previste. Non c’è bisogno di una gran fantasia per dedurre che la legge non sarà applicata proprio dove sarebbe più necessario e urgente. Oppure – il che è lo stesso – sarà applicata quando non ci sarà più suolo da sottrarre all’edificazione. Mi si può obiettare che la norma transitoria (art. 11) blocca il consumo del suolo per tre anni dall’approvazione della legge. Ma la norma fa salvi opere, interventi, strumenti attuativi e procedimenti (anche solo adottati) che coprono abbondantemente i tre anni di moratoria.

Rigenerazione della speculazione

La proposta non si occupa solo di contenimento del consumo del suolo. Nel recente dibattito nelle commissioni VIII e XIII della Camera sono stati aggiunti altri due preoccupanti argomenti: i compendi agricoli neorurali e la rigenerazione delle aree urbane degradate.

I compendi agricoli neorurali (art. 6), di cui ha scritto su queste pagine (30 gennaio 2015) Cristina Gibelli, sono una micidiale novità che riguarda la possibile trasformazione dell’edilizia rurale in attività amministrative, servizi ludico-ricreativi, turistico-ricettivi, medici, di cura, eccetera. Una legge che nasce dal ministero dell’Agricoltura per “promuovere e tutelare l’attività agricola, il paesaggio e l’ambiente” (art. 1) consente viceversa la distruzione dell’attività agricola e dei relativi insediamenti rurali.

Ancora più inquietante l’altra novità, introdotta nelle ultime settimane, in materia di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate (art. 5). Si tratta di una delega al governo a emanare, entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi volti a “semplificare le procedure per gli interventi di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate …”. È una delega in bianco. I principi e criteri direttivi si limitano a richiedere che:

· siano garantiti interventi volti “alla rigenerazione delle aree urbanizzate degradate attraverso progetti organici relativi a edifici e spazi pubblici e privati, basati sul riuso del suolo, la riqualificazione, la demolizione, la ricostruzione e la sostituzione degli edifici esistenti, la creazione di aree verdi, pedonalizzate e piste ciclabili, l’inserimento di funzioni pubbliche e private diversificate volte al miglioramento della qualità della vita dei residenti”;

· i progetti “garantiscano elevati standard di qualità, minimo impatto ambientale e risparmio energetico, attraverso l’indicazione di precisi obiettivi prestazionali degli edifici, di qualità architettonica perseguita anche attraverso bandi e concorsi rivolti a professionisti con requisiti idonei, di informazione e partecipazione dei cittadini”.

Nella delega al governo non c’è traccia del rapporto che gli interventi di rigenerazione devono avere con la disciplina urbanistica. Si devono rispettare gli standard ambientali ma non quelli urbanistici. Sono esclusi solo i centri storici e i beni vincolati “salvo espressa autorizzazione della competente sovrintendenza” (ci mancherebbe). Non ci sono limiti dimensionali, si possono radere al suolo e rifare intere parti di città e paesi. Non sono richiesti impegni circa l’uso sociale e l’accessibilità. Sono ignorate le Regioni e i relativi poteri in materia. Insomma, non è difficile immaginare che le norme emanate dal decreto legislativo finiranno per costituire un “pacchetto” di criteri in deroga alla strumentazione urbanistica comunale.

Devo aggiungere che le norme dell’art. 5 sulla rigenerazione delle aree urbane degradate (evidentemente aggiunte all’ultimo momento su sollecitazione dei costruttori, che stanno scoprendo il bello del recupero) non sono coordinate con quelle del precedente e preesistente art. 4 sulla priorità del riuso. Che impone alle Regioni di incentivare i comuni a promuovere strategie di rigenerazione urbana mediante l’individuazione di “ambiti urbanistici da sottoporre prioritariamente a interventi di ristrutturazione urbanistica e di rinnovo edilizio”. È appena il caso di aggiungere che gli artt. 4 e 5 sono vere e proprie invasioni nel campo della legislazione urbanistica. Sconcerta che ciò avvenga sotto l’egida del ministero dell’Agricoltura e non mi libero dall’idea che l’autentico obiettivo del legislatore sia il rilancio della più spregiudicata attività edilizia, dentro e fuori il perimetro delle aree urbanizzate: dentro con gli interventi di rigenerazione, fuori con l’invenzione dei “compendi agricoli neorurali”. E che a detto obiettivo sia funzionale la manifesta inconcludenza delle norme relative al contenimento del consumo del suolo.

Infine, a definire il carattere a un tempo pretestuoso e propagandistico della proposta sta il fatto che è stata vergognosamente ignorata la legge urbanistica della Regione Toscana (n. 65/2014).
Una legge, grazie ad Anna Marson, “filosoficamente ecologista”, ha scritto su eddyburg (13 maggio 2015) Ilaria Agostini, che traccia (per mano dei comuni) una linea rossa tra aree urbanizzate e aree rurali, e ne impedisce il superamento: nessun nuovo edificio residenziale né altri interventi che vìolino i principi del grande piano paesaggistico regionale.

postilla
L'ultimo testo disponibile del disegno di legge C 2039, sulla base del quale è stato scritto l'articolo é scaricabile qui. L'argomento è stato trattato su eddyburg con numerosi articoli. Si vedano tra l'altro, i seguenti: gli articoli di Vezio De Lucia del giugno 2013 (Consumo di suolo a un passo dal baratro) e del febbraio 2015 (A partire dalle buone intenzioni del ministro il Parlamento approda a una legge inservibile), di Cristina Gibelli, 20 gennaio 2015 (Neologismi in libertà: «compendi neorurali periurbani), di Eddyburg, febbraio 2015 (Eddyburg e il consumo di suolo), di Ilaria Agostini del maggio 2015 (Due leggi per il suolo).

Ciò che bisogna fare per evitare il disastro del pianeta e dei suoi abitanti (con un'omissione). Un testo da distribuire nelle piazze, nelle scuole e nei mercati. QualEnergia, settembre ottobre 2015, con postilla

Il mondo arriva decisamente impreparato al prossimo vertice di Parigi. Se i ripetuti allarmi di tanti scienziati, e non solo di quelli IPCC (Intergovernmental Panel for Climate Change), ha fatto breccia sulla parte più avvertita, ma non certo sulla maggioranza, dell’opinione pubblica, inconsapevolezza e irresponsabilità dominano a livello planetario l’establishment politico. Il quale è stato sì edotto del problema e non può più far finta di ignorarlo (anche se al suo interno le lobby negazioniste continuano a esercitare una massiccia influenza); ma continua per lo più a trattare i cambiamenti climatici, che sono già in corso, come tutti possono constatare, e non riguardano solo un remoto futuro, come una “grana” di cui ci si deve occupare quando viene messo all’ordine del giorno, e che richiede tutt’al più qualche misura e qualche investimento ad hoc; non un cambiamento radicale, e in tempi brevi, di tutto l’assetto non solo economico produttivo ma anche sociale.

E’ quello che evidenzia Naomi Klein nel suo ultimo libro Una rivoluzione ci salverà, quando scrive che “ha ragione la destra”. La quale, soprattutto negli USA, dove è strettamente legata al mondo del petrolio, ha capito che liberarsi dei combustibili fossili non significa solo sostituire una tecnologia con un’altra, petrolio, metano e carbone con fonti rinnovabili; ma che per farlo occorre ridisegnare “dal basso”, e in modo democratico, cioè partecipato, tutta l’organizzazione sociale: una cosa che la destra non è assolutamente disposta ad accettare, costringendola ad allinearsi ad oltranza con le posizioni negazioniste.
Ma altrove, cioè al centro, tra coloro che tengono le redini dei governi (la sinistra è quasi ovunque scomparsa dalla faccia della Terra), ci si continua a comportare come se il problema non fosse questo: a parlare di crescita e di sviluppo come se, chiuso il dossier cambiamenti climatici, il problema centrale fosse quello di rimettere in moto, costi quel che costi, il PIL. Tipica di questo atteggiamento, è la strategia energetica nazionale (SEN) dell’Italia varata dal Governo Monti, confermata da Letta e peggiorata da Renzi, dove i capitoli sulle fonti rinnovabili e sull’efficienza energetica convivono col programma di estendere le trivellazioni su tutto il territorio nazionale e di trasformare il paese in un hub per distribuire metano a tutto il resto d’Europa.
In termini di inconsapevolezza e di irresponsabilità la grande stampa di informazione e i media non sono da meno: tutti hanno le loro pagine e i loro servizi sui cambiamenti climatici (anche se il Corriere della Sera continua a riproporre in sempre nuove versioni tesi negazioniste), ma, voltata pagina, si torna regolarmente a parlare di crescita e sviluppo in termini di un ritorno alla “normalità”: a stili di vita e modelli di consumo di sempre.

La conseguenza di tutto ciò è che il pubblico non è stato messo in grado, nemmeno dalle trasmissioni e dagli articoli più seri e informati, di rendersi conto che “niente tornerà più come prima”. E questo, sia che la Terra continui imperterrita la sua marcia verso la catastrofe climatica, sia che finalmente si imponga un cambio di rotta come quello che molti si aspettano dal vertice di Parigi. E’ un po’, ma in una scala enormemente maggiore, lo stesso atteggiamento che si è andato consolidando di fronte alla crisi del 2008, che per molte economie del mondo si è andata trascinando fino ad oggi.

Pochi sono stati aiutati a capire – e quelli che lo hanno capito lo hanno fatto a proprie spese – che niente può tornare come prima: che l’epoca degli alti salari, della piena occupazione, dei consumi di massa, del lavoro sicuro e del welfare garantito dallo Stato (istruzione, sanità, pensione e indennità di disoccupazione) è finita per sempre; e che le condizioni che rendono possibile un lavoro e una vita dignitosa per tutti impongono un cambiamento radicale degli assetti economici e sociali.
I due problemi, peraltro, quello dei cambiamenti climatici e quello della crisi economica permanente, sono tra loro strettamente legati, perché la via di uscita è la stessa: un insieme di tecnologie decentrate e distribuite, una organizzazione sociale partecipata, una condivisione generalizzata delle responsabilità sia in campo produttivo che nelle scelte economiche e politiche, un diverso modello di consumo.

Se andiamo a vedere quali sono gli ambiti, le filiere, i settori che oggi dipendono maggiormente dai combustibili fossili – e che quindi richiedono con maggiore urgenza una rapida e radicale riconversione – non è difficile individuarne quattro; oltre, ovviamente, la generazione elettrica.

Innanzitutto la mobilità: il modello fondato sulla motorizzazione individuale non è sostenibile e l’alimentazione elettrica dei veicoli non ne cambierebbe sostanzialmente l’impatto. Una vettura ogni due abitanti (la media dei paesi sviluppati; l’Italia ha un tasso di motorizzazione ancora più elevato) in un pianeta che tra trent’anni ospiterà dieci miliardi di esseri umani (per poi, finalmente fermarsi), oltre a consumi insostenibili, che metterebbero a dura prova la possibilità di garantirli con fonti rinnovabili, non troverebbero suolo sufficiente per muoversi né per parcheggiare.

La soluzione è a portata di mano ed è la condivisione del veicolo resa possibile dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ITC): car-sharing, car-pooling e trasporto a domanda (taxi collettivo), distribuzione condivisa delle merci (city logistic) sono ormai presenti in varie versioni, rudimentali o sofisticate, in tutto il mondo e si stanno diffondendo a ritmo serrato. Naturalmente hanno bisogno di un’integrazione intermodale con il trasporto di massa lungo le linee di forza della mobilità: la promozione dell’intermodalità è un’attività complessa, che richiede una cura particolare. Ma ben poco è stato fatto finora per aiutare la popolazione a concepire la propria vita, e a riorganizzarla, senza contare su una propria automobile personale.
Meno ancora per garantire che sevizi adeguati di mobilità flessibile vengano messi a disposizione di tutti. Eppure, in nessun settore come in quello della mobilità si dimostra che è l’offerta a creare la relativa domanda: nessuno aveva, né avrebbe potuto, creare una domanda di car-sharing fino a che un servizio del genere non fosse stato attivato. Ma mobilità sostenibile significa anche riduzione degli spostamenti: un problema che tocca direttamente i rapporti con la pubblica amministrazione (e-government) e il telelavoro, nei confronti dei quali non si intravvedono misure di promozione adeguate, e soprattutto il contenimento dello sprawl urbano e del conseguente consumo di suolo, dove si mettono in gioco interessi immobiliari quasi altrettanto potenti e “intoccabili” di quelli dell’industria petrolifera.

In secondo luogo i consumi del settore civile: edilizia residenziale e di servizio, soprattutto per quanto riguarda riscaldamento e climatizzazione: anche in questo campo le tecnologie per ridurre drasticamente i consumi, e per convertirli alle fonti rinnovabili o a un uso diffuso della cogenerazione sono ampiamente testate, sia sulle nuove costruzioni che sugli edifici esistenti, di qualsiasi epoca. Ma diffonderle su tutto il patrimonio esistente è un’impresa titanica: non solo per l’entità dell’investimento, che richiederebbe comunque una complessa articolazione per ripartire la spesa tra intervento pubblico, incentivazione dell’investimento privato e soluzioni finanziarie ad hoc. Ma l’articolazione riguarda soprattutto il mix di fonti rinnovabili, di interventi impiantistici, di ristrutturazioni edilizie, di soluzioni finanziarie e soprattutto di strumenti di comunicazione e di divulgazione che richiedono un approccio specifico, non solo edificio per edificio e territorio per territorio, ma anche interlocutore per interlocutore: diverso è ovviamente l’approccio a una proprietà individuale, a un condominio, a una piccola o media impresa, all’unità locale di un grande gruppo.

Oggi gli interventi vengono per lo più promossi e proposti in ordine sparso, mentre attrezzare squadre pluridisciplinari di tecnici in grado di fare un check-up integrato e una progettazione di massima degli interventi possibili in ogni edificio è la premessa perché ciascuno - proprietari, inquilini, amministratori, imprenditori, manager e dipendenti – si confronti con la responsabilità di rendere sostenibile la porzione di territorio in cui vive e lavora. E’ poi più che ovvio che dal punto di vista occupazionale un intervento a tappeto di questo genere è la premessa per un grande piano pluriennale in grado di creare milioni di posti di lavoro e di compensare qualsiasi perdita occupazionale derivasse dal ridimensionamento dei settori più direttamente legati all’uso dei combustibili fossili.

In terzo luogo - ma forse al primo – occorrerà rivoluzionare le nostre abitudini alimentari. Oggi, in media, per ogni caloria di cibo che arriva sulla tavola di un consumatore occidentale (o dalle abitudini alimentari occidentalizzate), ne vengono consumate nove-dieci di origine fossile: concimi, pesticidi, motorizzazione, trasporto (anche intercontinentale), stoccaggio, manipolazione, confezione, imballaggio e pubblicità rendono il sistema agroalimentare insostenibile. La filiera agroalimentare dovrà cambiare radicalmente: l’agricoltura dovrà essere ecologica (usando fertilizzanti naturali e privilegiando la protezione biologica delle colture), multicolturale, per salvaguardare la fertilità dei suolo, multifunzionale, per garantire ai produttori fonti di reddito diversificate, di prossimità per evitare costi di trasporto e stoccaggio eccessivi.

In gran parte questa trasformazione dipenderà dalle scelte dei consumatori, che dovranno associarsi per garantirsi attraverso un rapporto il più diretto con i produttori, un’alimentazione di qualità, a basso impatto ambientale, prodotta il più possibile da aziende agricole e di trasformazione di prossimità: il che potrebbe cambiare radicalmente l’aspetto del territorio periurbano delle città grandi e piccole, a partire dalla grande diffusione che stanno avendo gli orti urbani, che impegnano spesso in modo condiviso gli stessi consumatori finali in forme che segnano un cambiamento radicale di filosofia e stile di vita.

Ma un cambiamento del genere dovrebbe anche segnare il progressivo ridimensionamento del ruolo di quei templi moderni del consumo che sono il super e l’ipermercato, o il centro commerciale, intorno a cui il capitalismo degli ultimi decenni ha riorganizzato non solo la geografia dei centri urbani (con la desertificazione commerciale di interi quartieri e la scomparsa dei negozi di vicinato) e con essa la quotidianità del cittadino-consumatore costretta a gravitare intorno a questi poli di attrazione, ma anche la struttura planetaria della produzione. Oggi la grande catena di distribuzione, che serve milioni di consumatori, che si approvvigiona in tutto il mondo da decine di migliaia di fornitori che può coinvolgere e abbandonare in qualsiasi momento, che incassa cash e paga a due o tre mesi, sviluppando un’enorme potenza finanziaria, rappresenta le caratteristiche peculiari di un’economia globalizzata assai più dell’industria automobilistica che aveva fornito il modello di organizzazione del lavoro durante tutto il “secolo breve” del fordismo.

Infine viene la gestione dei rifiuti, che sono le miniere del futuro, mano a mano che le vene di minerali che oggi alimentano l’industria si assottigliano, rendendo sempre più ardua e costosa l’estrazione, e che le risorse rinnovabili utilizzate per sostituirle entrano in competizione con la produzione di cibo. Oggi è facile sottovalutare o addirittura irridere alla raccolta differenziata dei rifiuti urbani, anche da parte di quegli amministratori che ne hanno la responsabilità diretta. Perché non si coglie, e non viene spiegato, che dietro ogni chilo di rifiuti urbani ce ne sono quattro o cinque di rifiuti della produzione, che vanno anch’essi raccolti e trattati allo stesso modo (cosa peraltro assai più facile, perché vengono generati sempre in grandi lotti relativamente omogenei); che il modo migliore di trattarli non è quello di mandarli a smaltimento, ma di incanalarli direttamente verso quegli impianti che li possono rigenerare o riciclare; ma soprattutto che è solo dall’analisi del perché e come un bene si trasforma in un rifiuto che possono venire gli input di una radicale rivoluzione industriale: di una produzione che invece di promuovere l’obsolescenza dei suoi prodotto, trasformandoli in rifiuti per poterne vendere continuamente di nuovi, torni a progettarli per farli durare, per cambiarne solo le componenti logore o obsolete, o per facilitare comunque il riciclo di tutti i materiali di cui è composto il bene prodotto. In nessun campo come in questo la responsabilità di un cambiamento radicale del sistema è condivisa tra cittadini consumatori, amministratori locali, legislatore, sistema produttivo, cioè imprese, e progettisti, cioè designer. L’ecodesign oggi è un campo di azione ai margini di una cultura produttiva fondata e orientata allo spreco delle risorse. Deve diventare il nocciolo di ogni progetto di riconversione produttiva.

postilla

L’elenco delle pratiche che si dovrebbero attivare se si volesse davvero affrontare il tema trattato da Viale è quasi del tutto completo, ed è chiaramente argomentato nell’enunciazione della necessità di ciascuno degli elementi. Così com’è chiarissima la condizione di fondo che dovrebbe sorreggere il tutto: la convinzione che l’obiettivo centrale è il superamento dell’attuale modo di produrre e di consumare (che è quello del capitaliso giunto alla sua ultima incarnaziome). Manca però un elemento: la necessità di adottare il metodo e gli strumenti della pianificazione del territorio, a tutte le scale dell’habitat dell’uomo. Se il territorio è una realtà olistica solo un metodo e un insieme di strumenti capaci di governare la complessità sono capaci di ordinare tra loro i vari elementi: dalla mobilità delle persone e delle cose alla distribuzione delle abitazioni e delle attività, dalle regole per le costruzioni e i manufatti a quelle per conservazione/utilizzazione delle risorse naturali ecc. L’abolizione della pianificazione del territorio e la liquidazione delle competenze in materia delle istituzioni democratiche ha costituito un passaggio essenziale nella corsa all’appropriazione individuale dei patrimoni e delle risorse comuni.

Quando a speculare è la pubblica amministrazione. Non per soddisfare bisogni dei cittadini, ma per far quadrare bilanci. Il territorio ci perde sempre, i cittadini due volte: perdono un bene pubblico e si ritrovano con un debito di 36 milioni. E la storia continua. La Nuova Venezia, 1 novembre 2015 (m.p.r.)

Venezia. Non sono spiantati come Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni nel film I soliti ignoti ma restano la banda del buco. Un signor buco, quello del Palacinema del Lido: uno sbancamento ripristinato, un nulla di fatto costato 36 milioni di euro, pagati da voi che state leggendo. Questo vergognoso esempio di spreco è raccontato da Sergio Rizzo e Giancarlo Carnevale, ex preside di architettura, in 8 terrificanti minuti, registrati su Youtube il 3 giugno scorso. Provate ad ascoltarli.

Molto prima, il 27 giugno 2011, l’aveva denunciata Francesco Giavazzi. La vicenda è nota ma il processo Mose può far emergere aspetti nuovi, adesso che il responsabile unico del procedimento, l’architetto Danilo Turato, è davanti ai giudici nell’udienza preliminare. Turato non è indagato per il Palacinema - né lui né altri, stranamente la magistratura non ci ha mai ficcato il naso - ma perché ha diretto i lavori di restauro a Villa Rodella. Pagato non dal proprietario Giancarlo Galan ma da un imprenditore che non aveva neanche le maestranze impegnate nei lavori, Piergiorgio Baita. Il quale con giri diversi si approvvigionava dal Mose.
Una mano lavava l’altra, come sappiamo.Se la Mantovani non mandava operai a Villa Rodella, di chi erano le maestranze che ci lavoravano, visto che Turato ha solo uno studio professionale ma nella parcella pagata da Baita era tutto compreso? Nessuno l’ha accertato. E nessuno l’accerterà mai, se l’architetto, una volta rinviato a giudizio, dovesse scegliere il rito abbreviato: il procedimento è a porte chiuse. Quando Turato finisce ai domiciliari, il 4 giugno 2014, la sorpresa tra i suoi colleghi è notevole: è un professionista molto considerato, ha diretto per anni la rivista dell’Ordine di Padova, ha firmato progetti importanti (la “Nave de vero” di Marghera è sua). Il nesso con il Palacinema, ripetiamo, non è penale.
Mentre dirige i lavori di restauro a Villa Rodella, Turato viene indicato dal presidente Galan in una nota all’allora ministro dei beni culturali Francesco Rutelli, come terzo sub-commissario per il nuovo Palazzo del Cinema. L’operazione era partita con 40 milioni anticipati dallo Stato, sui 100 necessari. Guidata da un commissario, Antonio Maffey, e due vice, Raffaele Pace e Fabio De Santis, tutti di nomina ministeriale. Non bastano, Galan sgomita perché vuole un posto. La richiesta è del 26 settembre 2006. La trattativa con Goffredo Bettini, capo di gabinetto di Rutelli, è condotta dall’omologo di Palazzo Balbi, Francesco Dotta, recentemente scomparso. O forse, più probabilmente, dal portavoce di Galan, Franco Miracco, anche se lui dice di no. Nel 2008 l’appalto del Palacinema viene aggiudicato ad un’Ati composta da Sacaim, Gemmo Impianti, Officine Tosoni e due srl, Intini e Picalarga. Nel 2009 Turato diventa responsabile unico del procedimento, per il ritiro del Rup governativo.
La nomina è del ministero, sempre su proposta di Galan. Condivisa dal sindaco di Venezia Massimo Cacciari, perché al Comune andava la direzione lavori. Quello che succede dopo ha dell’incredibile. La prima cosa che fa l’Ati di Sacaim Gemmo e soci, è cambiare il progetto dello Studio 5+1 AA Rudy Ricciotti, che aveva un vincolo assoluto. Gli architetti ritirano la firma. Mentre le parti litigano si procede allo sbancamento dell’area. Sparisce un bosco. Il progetto prevede due piani interrati ma nessuno fa un sondaggio per verificare cosa c’è sotto. Salta fuori una discarica di materiali in amianto, interrati chissà quando. Bisogna smaltire l’amianto, che viene spedito tra mille cautele in Germania. Dove, udite udite, lo usano senza problemi come sottofondo per le infrastrutture, perché è pericoloso solo se viene respirato.
La bonifica si mangia tutti i soldi, superando le clausole del contratto. Il buco viene chiuso e spianato. Bisogna trovare una transazione con Sacaim, Gemmo e soci. Ok, al posto del Palacinema costruiranno un palazzetto più modesto. Ma con quale denaro? Qui si innesta una tremenda storia parallela: per trovare i quattrini, il Comune acquista l’ospedale al mare dall’Usl 12 per 32 milioni, pensando di venderlo con la promessa di una variazione di destinazione d’uso. Ma l’asta va deserta due volte. Cacciari chiama in soccorso l’ingegner Mazzacurati, che lancia nell’affare le aziende del Consorzio Venezia Nuova: Mantovani, Condotte, Mazzi, Thetis, tutti per uno, uno per tutti.
L’accordo viene perfezionato a pranzo tra Mazzacurati e il successore di Cacciari, Giorgio Orsoni. La variante urbanistica, che prevede anche una mega-darsena, è pronta per essere approvata. E il 28 gennaio 2013, neanche farlo apposta il giorno in cui arrestano Piergiorgio Baita. Orsoni si blocca, il contratto viene rescisso, l’ospedale resta al Comune. Ma il tandem Mazzacurati-Orsoni non demorde: l’osso viene rifilato alla Cassa Depositi e Prestiti, che paga con i soldi del risparmio postale. Si terrà la nuda proprietà, lo “sviluppo” invece è affidato ai privati. Non è sempre così che vanno le cose?

«Mostro Marino. Dopo Prodi e Letta, il premier miete un'altra vittima senza apparire. Per «il nuovo Pd» rovesciare governi fuori dalle aule e senza dibattito pubblico è ormai una prassi. Un partito post-democratico, e anzi, tout court, antidemocratico». Il manifesto, 1° novembre 2015, con postilla

Venerdì, a Roma, il pro­getto ren­ziano di mano­mis­sione della nostra demo­cra­zia ha com­piuto un nuovo salto di qua­lità. O, forse meglio, ha rive­lato – nell’ordalia rap­pre­sen­tata sul grande pal­co­sce­nico di Roma capi­tale – la pro­pria natura com­piu­ta­mente post-democratica e anzi tout court anti-democratica.

Di Igna­zio Marino sin­daco si può pen­sare tutto il male pos­si­bile: molte sue poli­ti­che sono state discu­ti­bili e anti-sociali (in pri­mis la que­stione della casa), alcuni suoi com­por­ta­menti incom­pren­si­bili, la sua inge­nuità (o super­fi­cia­lità) imper­do­na­bile, la sua ina­de­gua­tezza evi­dente. E l’accettazione nella sua squa­dra di uno come Ste­fano Espo­sito insopportabile.

Ma la fero­cia con cui il Pd, su man­dato del suo Capo, ha posto fine alla legi­sla­tura in Cam­pi­do­glio supera e offu­sca tutti gli altri aspetti. Sosti­tuendo all’Aula il Notaio. Al dibat­tito pub­blico la mano­vra di cor­ri­doio e il reclu­ta­mento sub­dolo dei sicari (arte in cui Mat­teo Renzi eccelle, aven­dola già spe­ri­men­tata prima con Romano Prodi e poi con Enrico Letta).

E col­pendo così non tanto, e comun­que non solo, «quel» Sin­daco (che pure a molti voleri del Pd era stato fin troppo fedele), ma il prin­ci­pio car­dine della Demo­cra­zia in quanto tale. O di quel poco che ne resta, e che richie­de­rebbe comun­que che la nascita e la caduta degli ese­cu­tivi – nazio­nali e locali – avve­nisse nell’ambito degli isti­tuti rap­pre­sen­ta­tivi costi­tu­zio­nal­mente sta­bi­liti in cui si eser­cita la sovra­nità popo­lare. Con un voto palese, di cui ognuno si assume in modo tra­spa­rente e moti­vato, la responsabilità.

Così non è stato.

In siste­ma­tica e osten­tata con­ti­nuità con la pra­tica seguita dal governo Renzi in que­sti mesi di legi­sla­zione coatta (a colpi di fidu­cia e di mani­po­la­zione delle Com­mis­sioni) e con la sua riforma costi­tu­zio­nale di stampo burocratico-populistico, la sede della Rap­pre­sen­tanza è stata mar­gi­na­liz­zata e umi­liata. Svuo­tata di ruolo e poteri. Sosti­tuita dalla retta che dal ver­tice dell’Esecutivo — fatto coin­ci­dere con la lea­der­ship del par­tito a voca­zione tota­liz­zante e a con­si­stenza dis­sol­vente – pre­ci­pita, senza intoppi, fino ai piani bassi della cucina quo­ti­diana, dele­gata alle buro­cra­zie guar­diane, reclu­tate al di fuori di ogni vali­da­zione elet­to­rale, in base a cri­teri di fedeltà (o, forse meglio, di asservimento).

Nella sta­gione impe­gna­tiva — per com­piti da svol­gere e affari da sfrut­tare – del Giu­bi­leo la Capi­tale sarà ammi­ni­strata e «gover­nata» da un dream team (o night­mare team?) non di rap­pre­sen­tanti del popolo ma di fidu­ciari del Capo, chia­mati con logica emer­gen­ziale a «gestire l’impresa» in nome non tanto del bene pub­blico ma dell’efficienza.

Della com­po­si­zione del team già se ne parla: oltre all’inossidabile Sabella, il pre­fetto ren­ziano Fran­ce­sco Paolo Tronca, fre­sco della Milano di Expo e Marco Ret­ti­ghieri, ex super­ma­na­ger di Ital­ferr, uomo Tav, quello che ha sosti­tuito come diret­tore gene­rale costru­zioni dell’Expo Angelo Paris dopo il suo arre­sto per cor­ru­zione e tur­ba­tiva d’asta…

Un bel pezzo della «Milano da man­giare» – del «para­digma Expo» – tra­pian­tata a Roma, a far da matrice del nuovo corso della Capi­tale, ma anche — s’intende – del Paese.

Ed è que­sto il secondo anello della cer­chia­tura della botte ren­ziana. O, se si pre­fe­ri­sce, il pas­sag­gio con cui si chiude il cer­chio del muta­mento di para­digma della poli­tica ita­liana: que­sto uti­lizzo del «modello Expo», costruito come esem­pio «di suc­cesso», gene­rato e poi cer­ti­fi­cato dal mer­cato, e (per que­sto) proposto/imposto come forma vin­cente di gover­nance da imi­tare e generalizzare.

L’operazione era stata favo­rita, non so quanto con­sa­pe­vol­mente, dall’infelice ester­na­zione di Raf­faele Can­tone, in cui si con­trap­po­neva Milano come «capi­tale morale» a una Roma «senza anti­corpi»: infe­lice per­ché sem­bra for­te­mente «irri­tuale», per usare un eufe­mi­smo, e comun­que molto inop­por­tuno, che colui che dovrebbe sor­ve­gliare e garan­tire il rispetto della lega­lità prima, durante e dopo un’opera ad alto rischio come l’Expo, bea­ti­fi­chi la città che l’ha orga­niz­zato e ospi­tato e, reci­pro­ca­mente, che ne venga bea­ti­fi­cato, pro­prio alla vigi­lia di un periodo in cui la magi­stra­tura dovrebbe essere lasciata asso­lu­ta­mente libera di pro­ce­dere a tutte le pro­prie veri­fi­che e in cui l’Agenzia che egli dirige dovrebbe ope­rare come mai da ter­tium super par­tes (che suc­ce­derà, per esem­pio, se le inchie­ste in corso su cor­ru­zione, pecu­lato, truffa, ecc. doves­sero con­clu­dersi con ver­detti di col­pe­vo­lezza: la dovremmo chia­mare «Mafia Capi­tale Morale»?).

Ma tant’è: il cli­ché coniato da Can­tone è entrato alla velo­cità della luce a far parte del dispo­si­tivo nar­ra­tivo ren­ziano sulle mera­vi­glie del rina­sci­mento ita­liano. E su come que­sto possa tanto più age­vol­mente e soprat­tutto velo­ce­mente dispie­garsi quanto più si eli­mi­nano gli osta­coli della vec­chia, acci­diosa e fasti­diosa demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva (quella, appunto, che pro­duce i Marino), e si adot­tano, in alter­na­tiva, le linee degli exe­cu­tive di turno, magari arruo­lando in squa­dra le stesse «auto­rità indi­pen­denti» che dovreb­bero eser­ci­tare i controlli.

Per­so­nal­mente mi ha tur­bato la quasi con­tem­po­ra­nea dichia­ra­zione di Can­tone sulla pro­pria inten­zione di abban­do­nare l’Associazione nazio­nale magi­strati, rea di aver mosso (caute) cri­ti­che al governo… E anche que­sto è uno scatto – se volete pic­colo, ma inquie­tante – nella chiu­sura della gab­bia che ci sta stringendo.

postilla

Revelli dice, giustamente, che «la Capi­tale sarà ammi­ni­strata e "gover­nata" non dai rap­pre­sen­tanti del popolo ma da fidu­ciari del Capo». Non è una logica nuova né per il Capo, né per la storia. Il Capo pratica questa logica in tutti i suoi atti che riguardano l'ordinamento dello Stato: dalla scuola agli ospedali, dai ministeri alle istituzioni una volta elettive. Sta realizzando una struttura piramidale, in cui gli occupanti dei posti di comando (dal capo ai capetti ai capettini ai sottocapettini) siano collegati tra loro dall'investitura (dall'alto verso il basso) e dalla fedeltà (dal basso verso l'alto). Si chiama, nei libri di storia, "regime feudale". Questo modello di regime non è di per sé molto solido. Spesso è stato consolidato da un elemento soprannaturale, oggi da due elementi: il ricatto (almeno in Italia) e l'Unione europea, a sua volta sottordinata ai Mercati. Ma l'elemento che garantisce di più la solidità dell'edificio è l'ideologia. Quella dominante ha annullato tutte le atre, e una ideologia differente, ampiamente condivisa, fatica molto a formarsi.

«La polemica non si placa. Crovato (Lista Brugnaro): “Atto dovuto, il Tar ci darebbe torto”. L’urbanista Stefano Boato: “È una scelta politica, le norme in vigore consentono di dire di no”» La Nuova Venezia, 29 ottobre 2015 (m.p.r.)

Venezia. I cambi d’uso non si fermano. E in consiglio comunale stanno per arrivare due nuove delibere proposte dalla giunta che consentono di trasformare in pezzi di hotel appartamenti finora abitati da famiglie di residenti. La municipalità di Venezia-Murano-Burano ha dato parere negativo. La commissione urbanistica ha dato il via per la discussione in consiglio comunale, nonostante il parere negativo delle opposizioni (Lista Casson, Pd e Movimento Cinquestelle).

«Atto dovuto», si sono giustificati i consiglieri di maggioranza, in testa il capogruppo della Lista Brugnaro Maurizio Crovato e il vice Renzo Scarpa. «Dal punto di vista etico la Municipalità ha ragione», dice, «ma il Tar non avrà la nostra visione politica e le carte danno ragione ai richiedenti. E poi sono accorpati da anni agli alberghi. Dal 2010 al 2014 il Comune ha concesso 2950 cambi d’uso».

«Ma non è vero», replica l’ex assessore all’Urbanistica e capogruppo del Pd Andrea Ferrazzi, «la gran parte di quegli atti non c’entrano con questo discorso. Sono errori tecnici che sono stati corretti». Fatto sta che i primi due atti portati in commissione Urbanistica dall’amministrazione Brugnaro riguardano la trasformazione di due appartamenti in hotel o loro depandance. Uno al ponte delle Guglie, secondo piano di un palazzetto dove ha sede l’hotel Biasin. L’altro in calle delle Rasse, tre appartamenti adiacenti all’hotel Danieli. Davvero un atto dovuto? L’articolo 21 delle norme Tecniche di Attuazione allegate alla Variante del Piano regolatore prevede che gli appartamenti con superficie inferiore ai 120 metri quadrati siano vincolati a residenza. Ma la stessa norma prevede anche la «scappatoia». «Nelle unità edilizie dove i due terzi della superficie abbiano destinazione diversa da quella abitativa può essere eccezionalmente autorizzato il mutamento d’uso delle parti restanti dell’edificio». Serve il parere della Commissione scientifica e il parere favorevole del Consiglio comunale.

Ma si tratta comunque di una “possibilità”, non di un obbligo. La prova è che non è un provvedimento firmato dai tecnici ma di una delibera. «È così», dice Stefano Boato, urbanista ed ex assessore all’Urbanistica, «volendo quella norma può essere cambiata in due minuti. Fino al 1997 vincolava tutti gli immobili usati come residenza, non solo quelli affittati. Poi le cose sono cambiate, ma la possibilità di intervenire c’è ancora. È una scelta politica, e stiamo parlando del problema più importante per la città storica: fermare l’esodo degli abitanti. Lo diciamo a parole da anni, ma non si fa».

«Cambiamento possibile. L’immigrazione e il cambiamento climatico saranno i temi centrali del confronto politico per i prossimi decenni. Le prospettive puramente nazionali o istituzionali sono del tutto insufficienti ad intaccare questi problemi». Il manifesto, 30 ottobre 2015


Due temi oggi cen­trali, appa­ren­te­mente distinti, andreb­bero invece con­nessi in modo diretto.

Primo, la COP 21 di Parigi, forse ultima occa­sione per un’inversione di rotta sul riscal­da­mento glo­bale che rischia di ren­dere irre­ver­si­bili i cam­bia­menti cli­ma­tici già in corso. A que­sta minac­cia abbiamo da tempo con­trap­po­sto il pro­gramma di una con­ver­sione eco­lo­gica, sulle tracce di Alex Lan­ger e, ora, anche dell’enciclica Lau­dato si’ e del libro Una rivo­lu­zione ci sal­verà dove Naomi Klein spiega che abban­do­nare i com­bu­sti­bili fos­sili richiede un sov­ver­ti­mento radi­cale degli assetti pro­dut­tivi e sociali; per que­sto le destre con­ser­va­trici, e non solo loro, sono fero­ce­mente nega­zio­ni­ste. L’aggressione alle risorse della terra si lega alla povertà e alle dise­gua­glianze del pia­neta: sia nei rap­porti tra Glo­bal North e Glo­bal South, sia all’interno di ogni sin­golo paese: ciò che uni­sce in un unico obiet­tivo giu­sti­zia sociale e giu­sti­zia ambientale.

Secondo, i pro­fu­ghi. La distin­zione tra pro­fu­ghi di guerra e migranti eco­no­mici, su cui i governi dell’Ue stanno costruendo le loro poli­ti­che di difesa da que­sta pre­sunta inva­sione di nuovi «bar­bari», non ha alcun fon­da­mento: entrambi sono in realtà «pro­fu­ghi ambien­tali», per­ché all’origine delle con­di­zioni che li hanno costretti a fug­gire dai loro paesi, cosa che nes­suno fa mai volen­tieri, c’è una inso­ste­ni­bi­lità pro­vo­cata dai cam­bia­menti cli­ma­tici, dal sac­cheg­gio delle risorse locali, dalla penu­ria di acqua, dall’inquinamento dei suoli, tutti feno­meni in larga parte pro­dotti dall’economia del Glo­bal North. Il pro­blema occu­perà tutto lo spa­zio del discorso poli­tico e del con­flitto nei pros­simi anni. E, nel ten­ta­tivo di sca­ri­car­sene a vicenda l’onere, sta divi­dendo tra loro i governi dell’Unione euro­pea che ave­vano invece tro­vato l’unanimità nel far pagare alla Gre­cia la sua ribel­lione con­tro l’austerità. L’Ue, non come isti­tu­zione, e nean­che nei suoi con­fini, bensì come ambito di un pro­cesso sociale, cul­tu­rale e poli­tico che abbrac­cia insieme all’Europa tutto lo spa­zio geo­gra­fico e poli­tico coin­volto da que­sti flussi, deve restare un punto di rife­ri­mento irri­nun­cia­bile per una pro­spet­tiva poli­tica che, rin­chiusa a livello nazio­nale, non ha alcuna pos­si­bi­lità di affermarsi.

Coloro che si sono riu­niti per affer­mare un loro posi­zio­na­mento rias­sunto nelle for­mule «No all’euro, No all’UE, No alla Nato» (decli­nate in ter­mini di sovra­nità nazio­nale, anche con lo slo­gan «Fuori l’Italia dalla Nato», che lascia da parte l’Europa) si sono dimen­ti­cati dei pro­fu­ghi. Nella loro pro­spet­tiva a fron­teg­giare i flussi pre­senti e futuri, sia con i respin­gi­menti che con l’accoglienza, reste­reb­bero solo gli unici due punti di approdo di que­sto esodo: Ita­lia e Gre­cia. Ma men­tre l’Europa nel suo com­plesso avrebbe le risorse per farvi fronte, l’Italia, con una recu­pe­rata sovra­nità — posto che la cosa abbia senso e sia rea­liz­za­bile – ne rimar­rebbe schiac­ciata: il che forse rien­tra tra le opzioni della gover­nance euro­pea, non tra le nostre.

Quei flussi migra­tori stanno però creando una frat­tura sociale, cul­tu­rale e poli­tica anche all’interno di ogni paese: tra una com­po­nente mag­gio­ri­ta­ria, ma non ancora vin­cente, di raz­zi­sti, che vor­reb­bero sba­raz­zarsi del pro­blema con le spicce, e una com­po­nente soli­dale, oggi mino­ri­ta­ria, ma tutt’altro che insi­gni­fi­cante (come lo è invece la mag­gior parte della sini­stra europea).

Tra loro i governi dell’Europa si bar­ca­me­nano: dopo aver aiz­zato il loro elet­to­rato, per fide­liz­zarlo, con­tro i popoli fan­nul­loni e paras­siti che sareb­bero all’origine della crisi eco­no­mica, si ren­dono ora conto che quel tema gli sta sfug­gendo di mano e viene ripreso, in fun­zione anti-migranti, da forze ben più capaci di loro di met­terlo a frutto.

Se per fer­mare quei flussi bastasse adot­tare misure molto dure, come bar­riere, respin­gi­menti, ester­na­liz­za­zione dei campi, esclu­sione sociale e car­ce­ra­zione, pro­ba­bil­mente avreb­bero già vinto i nostri anta­go­ni­sti. Ma le cose non stanno così.

Innan­zi­tutto quei pro­fu­ghi e migranti sono già, per molti versi, cit­ta­dini euro­pei, per­ché si sen­tono tali: vedono nell’Europa la zona forte di un’area molto più vasta, quella dove si mani­fe­stano gli effetti dei pro­cessi – guerre, dit­ta­ture, deva­sta­zioni, cam­bia­menti cli­ma­tici – che li hanno costretti a fuggire.
Pen­sano all’Europa come a un loro diritto: un sen­tire che li pone in aperto con­flitto con i governi dell’Unione, che di quel diritto non ne vogliono sapere. Per que­sto sono una com­po­nente fon­da­men­tale del pro­le­ta­riato euro­peo che esige un cam­bia­mento di rotta fuori e den­tro i con­fini dell’Unione.

Poi, sigil­lare la «for­tezza Europa» non è sem­plice: signi­fica addos­sarsi la respon­sa­bi­lità di una strage con­ti­nua e cre­scente che scon­fina con una poli­tica di ster­mi­nio pia­ni­fi­cata e orga­niz­zata: un pro­cesso già in corso da tempo e taciuto nel suo svol­gi­mento quo­ti­diano. Ma quanti sanno che i morti nei deserti, durante la tra­ver­sata verso i porti di imbarco, sono più nume­rosi degli anne­gati nel Mediterraneo?

Terzo: la chiu­sura delle fron­tiere non può che tra­dursi in feroce irri­gi­di­mento degli assetti poli­tici interni: repres­sione, auto­ri­ta­ri­smo, disci­pli­na­mento e limi­ta­zione delle libertà; a com­ple­mento delle poli­ti­che di austerità.

Infine, in una pro­spet­tiva di mili­ta­riz­za­zione sociale non c’è spa­zio per la con­ver­sione eco­lo­gica e la lotta con­tro i cam­bia­menti cli­ma­tici. Ma il dete­rio­ra­mento di clima e ambiente pro­ce­derà comun­que, tro­vando la for­tezza Europa sem­pre più impre­pa­rata sia in ter­mini di miti­ga­zione che di adattamento.

Per que­sto acco­glienza, inclu­sione e inse­ri­mento sociale e lavo­ra­tivo dei pro­fu­ghi si inne­stano sui pro­grammi di con­ver­sione eco­lo­gica: attra­verso diversi passaggi:
  1. occorre pren­dere atto che i con­fini dell’Europa non coin­ci­dono né con quelli dell’euro, né con quelli dell’Unione o della Nato, ma abbrac­ciano tutti i paesi da cui pro­ven­gono i flussi mag­giori di migranti: Medio Oriente, Magh­reb, Africa subsahariana.
  2. occorre saper vedere nei pro­fu­ghi che rag­giun­gono l’Europa, o che sono già inse­diati in essa, ma anche in quelli mala­mente accam­pati ai suoi con­fini, i refe­renti – gra­zie anche ai rap­porti che con­ti­nuano a intrat­te­nere con le loro comu­nità di ori­gine – di un’alternativa sociale alle forze oggi impe­gnate nelle guerre, nel soste­gno alle dit­ta­ture e nelle deva­sta­zioni dei ter­ri­tori che li hanno costretti a fug­gire. Non c’è par­ti­giano della pace migliore di chi fugge dalla guerra; né soste­ni­tore della rina­scita del pro­prio paese più con­vinto di chi ha subito le con­se­guenze del suo degrado.
  3. Dob­biamo vedere nell’inserimento lavo­ra­tivo dei pro­fu­ghi una com­po­nente irri­nun­cia­bile della loro inclu­sione sociale e poli­tica. Per que­sto occor­rono milioni di nuovi posti di lavoro, un’abitazione decente e un’assistenza ade­guata sia per loro che per i cit­ta­dini euro­pei che ne sono privi. Non biso­gna ali­men­tare l’idea che ai pro­fu­ghi siano desti­nate più risorse di quelle dedi­cate ai cit­ta­dini euro­pei in difficoltà.
La con­ver­sione eco­lo­gica e, ovvia­mente, la fine delle poli­ti­che di auste­rità pos­sono ren­dere effet­tivo que­sto obiet­tivo. I set­tori in cui è essen­ziale inter­ve­nire sono noti: fonti rin­no­va­bili, effi­cienza ener­ge­tica, agri­col­tura e indu­stria di pic­cola taglia, eco­lo­gi­che e di pros­si­mità, gestione dei rifiuti, mobi­lità soste­ni­bile, edi­li­zia e sal­va­guar­dia del ter­ri­to­rio. Oltre agli ambiti tra­sver­sali: cul­tura, istru­zione, salute, ricerca.

L’establishment euro­peo non ha né la cul­tura, né l’esperienza, né gli stru­menti per affron­tare un com­pito del genere; ha anzi dimo­strato di non volere acco­gliere né inclu­dere nean­che milioni di cit­ta­dini euro­pei a cui con­ti­nua a sot­trarre lavoro, red­dito, casa, istru­zione, assi­stenza sani­ta­ria, pensioni.
Meno che mai si può affi­dare quel com­pito alle forze «spon­ta­nee» del mer­cato. Solo il terzo set­tore, l’economia sociale e soli­dale, nono­stante tutte le aber­ra­zioni di cui ha dato prova in tempi recenti — soprat­tutto in Ita­lia, e soprat­tutto nei con­fronti dei migranti — ha matu­rato un’esperienza pra­tica, una cul­tura e un baga­glio di pro­getti in que­sto campo.

Per que­sto è della mas­sima impor­tanza impe­gnarsi nella pro­mo­zione di que­sti obiet­tivi, anche uti­liz­zando la sca­denza del Forum euro­peo dell’Economia sociale e soli­dale a Bru­xel­les il pros­simo 28 gennaio.

Il Fatto quotidiano, 29 ottobre 2015

Il capogruppo di Sinistra ecologia e libertà (Sel) a Montecitorio,Arturo Scotto, non ha dubbi: “C’è un cavallo di Troia nascosto nella Legge di stabilità”. Che nel marasma di articoli, commi e rinvii a leggi e regolamenti contenuti nelle prime bozze del provvedimento, sarebbe passato pure inosservato. Se i deputati di Sel non se ne fossero accorti, denunciandone la presenza e, soprattutto, l’obiettivo: accelerare nella costruzione del Ponte sullo Stretto attraverso il coinvolgimento diretto di Cassa depositi e prestiti (Cdp), società controllata dal ministero dell’Economia e partecipata al 18,4% dalle fondazioni bancarie, nella realizzazione dell’opera.

PONTE IN CASSA – La norma ‘incriminata’, secondo i vendoliani, si anniderebbe nel quinto comma dell’articolo 41(Investimenti europei e Istituto nazionale di promozione) della Legge di Stabilità. Che attribuisce alla Cdp la qualifica di “istituto nazionale di promozione” in attuazione del recente regolamento comunitario relativo al Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis). Equiparandola a quelle “entità giuridiche che espletano attività finanziarie su base professionale, cui è stato conferito un mandato da uno Stato membro o da un’entità di uno Stato membro, a livello centrale, regionale o locale, per svolgere attività di sviluppo o di promozione”.

In sostanza – è questa l’obiezione di Sel – la mission della Cassa depositi e prestiti verrebbe ampliata, attribuendole anche la funzione di “svolgere attività di sviluppo o di promozione in relazione al Feis”. Un fondo finalizzato a sostenere, tra l’altro, “progetti per lo sviluppo delle infrastrutture di trasporto” attraverso “la creazione o la dotazione di nuove infrastrutture o di infrastrutture mancanti”. Anche “aggiuntive” rispetto a quelle previste dalla Rete di trasporto trans-europea, dalle quali “il ponte sullo Stretto appare attualmente escluso”. Un’obiezione che i deputati di Sel sollevano in un’interrogazione parlamentare (primo firmatario Scotto) al presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e ai ministri dell’Economia e delle Infrastrutture, Piercarlo Padoan e Graziano Delrio. Proprio per chiedere conto, innanzitutto, “dell’inserimento nell’ambito del disegno di legge di stabilità 2016” delle “proposte relative alla richiesta di accelerazione sul progetto del Ponte sullo Stretto”.

PENALI DELLA DISCORDIA – Ma leperplessità di Sel riguardano anche un altro aspetto. Quello delleeventuali penali che lo Stato dovrebbe pagare nel caso di abbandono del progetto. “Uno dei principali motivi addotti dal ministro dell’Interno (Angelino Alfano) per sostenere la realizzazione dell’opera– si legge nell’interrogazione – è che, piuttosto che pagare delle penali, sarebbe preferibile costruire il ponte”. Eppure, le principali associazioni che da sempre vigilano sulla discussa infrastruttura (Fai-Fondo ambientale italiano, Italia Nostra, Legambiente, Man-Associazione ambientale per la natura eWwf), sottolineano i deputati di Sel, ritengono “che non debba essere pagata nessuna penale”. E già un anno fa avevano inviato una lettera al premier Renzi e all’allora ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, per chiedere un incontro proprio per affrontare la questione. Una lettera con la quale informavano il governo che, dagli incontri avuti con il commissario liquidatore della società Stretto di Messina, Vincenzo Fortunato, con il capo di gabinetto del ministro delle Infrastrutture, Giacomo Aiello, e con l’allora responsabile della Struttura di missione del dicastero di Porta Pia, Ercole Incalza, era emersa “la comune convinzione” che l’abbandono del progetto non avrebbe comportato alcuna penale a carico dello Stato.

PROGETTO INCOMPLETO – Non solo. Dal momento della consegna da parte del general contractor (Eurolink, l’Associazione temporanea di imprese capeggiata da Impregilo che nel 2005 vinse l’appalto per la costruzione del ponte) a Stretto di Messina spa del “progetto definitivo completo di tutti i documenti e delle integrazioni eventualmente richieste”, il contratto stipulato nel 2006 stabilisce, in caso di inadempienza, l’obbligo di versare ad Eurolink “solamente le prestazioni correttamente eseguite al momento del recesso, nonché un aggravio del 10% rispetto alla somma totale delle prestazioni”.

Secondo i deputati di Sel “il progetto definitivo non può essere considerato ‘completo’ se mancano le integrazioni” relative all’ulteriore fase della procedura di Via (Valutazione di impatto ambientale). Una situazione che non cambia neppure per effetto dell’atto integrativo del 2009 al contratto del 2006, che introduce la nuova fattispecie di “progetto definitivo dell’opera intera”, riducendo, in caso di recesso, dal 10 al 5% l’indennizzo per le spese sostenute, in aggiunta al pagamento delle prestazioni già eseguite, in favore di Eurolink. Ma, progetto “completo” o progetto “intero” che sia, la sostanza resta la stessa: mancando sia l’uno che l’altro, si sostiene nell’interrogazione, a carico dello Stato “non c’è alcuna penale da pagare”. Altro aspetto imoprtante della vicenda è che, alla richiesta di un incontro avanzata dalle associazioni ambientaliste il governo non ha mai dato risposta.

STRANA COPPIA – A sorprendere i deputati di Sel è stata, però, anche un’altra circostanza. Sottolineata con un ulteriore quesito al governo: come è stato possibile passare tanto rapidamente dalle posizioni espresse dal ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, disponibile a rivalutare l’opportunità del progetto del Ponte sullo Stretto, “al celere affidamento del compito di valutare il progetto alla Cassa depositi e prestiti”? E il sospetto di Scotto è quasi una certezza: “Il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano ha ottenuto il via libera ad una mozione votata in Parlamento che impegna il governo a prendere in considerazione la realizzazione dell’opera, sebbene per via ferroviaria – spiega a ilfattoquotidiano.it –.

E, allo stesso tempo, tra i pizzini inviati da Denis Verdini al premier Matteo Renzi sulla Legge di Stabilità, è spuntata in cima alla lista larichiesta di rispolverare il Ponte sullo Stretto”. Insomma, una convergenza di centro-destra, quella tra Ncd e Ala, all’interno di una maggioranza teoricamente di centrosinistra, a tirare i fili della discussa infrastruttura.“Il tutto, mentre con una norma sulla Cassa depositi e prestiti, che ne cambia la mission riducendo l’autonomia di decisione del ministero delle Infrastrutture – conclude il capogruppo alla Camera di Sel – si infila nella Legge di Stabilità un cavallo di Troia che potrebbe aprire la strada ai desiderata della strana coppia Alfano-Verdini”.

Dal punto di vista del progetto di architettura con premesse urbanistiche, si ripete il dilemma iniziale: un modello suburbano monouso, o la complessità plurifunzionale metropolitana post-industriale? Intervista di Andrea Montanari, la Repubblica 30 ottobre 2015, con postilla (f.b.)

«PER vivere, l’area deve diventare un pezzo di città. Milano sfrutti la grande sfida della Città metropolitana». L’archistar Vittorio Gregotti, autore, tra l’altro, del progetto Bicocca che ridisegnò nel 2000 il quartiere dell’ex stabilimento della Pirelli nella periferie Nord Ovest di Milano, con la costruzione del teatro degli Arcimboldi che ospitò la Scala durante il rifacimento del palcoscenico, suggerisce un’idea per il dopo Expo. «L’Expo è stato un successo, ma per il dopo non basta il campus universitario, serve un progetto di vent’anni».

C’è il rischio che l’area diventi una cattedrale nel deserto?
«Milano ha di fronte una grande sfida. Quella di essere diventata ufficialmente una città metropolitana. Con una scala dimensionale e di abitanti molto più ampia. Credo che per il dopo Expo la soluzione giusta sia quella di sfruttare questa prospettiva e pensare di trasformare quel pezzo della città».

Una città satellite?
«No, ma in quell’area non c’è solo il comune di Rho, ci sono alcuni villaggi anche abbastanza importanti che nella prospettiva della città metropolitana potrebbero diventare dei centri secondari di Milano».

Come?
«Per fare questo bisogna evitare che quell’area si trasformi in una periferia abbandonata e non farsi illusioni che questo avvenga in sei mesi. Inoltre non bisogna commettere l’errore di pensare che basti fare di quell’area un campus universitario o un centro di ricerca».

Perché?
«Il progetto della Bicocca è la dimostrazione di come un quartiere di periferia può tornare a vivere. Un campus universitario e un centro di ricerca vanno benissimo, ma coprirebbero solo una piccola parte dell’area. Con il rischio che dalle sette di sera tutto si trasformi in un deserto. Alla Bicocca abbiamo costruito un teatro che funziona ancora adesso. Il quartiere vive oltre all’università. L’unica soluzione perché il dopo Expo resti vivo è farlo diventare un pezzo di città».

In che senso?
«L’università può essere un elemento strettamente collegato, ma non può essere l’unico. Il quartiere Bicocca vive ora perché ci abitano diecimila persone e c’è una grande banca».

Alcuni padiglioni resteranno come Palazzo Italia, secondo lei, che cosa si dovrebbe costruire?
“E pensare che era uno dei peggiori… Certo potranno semplificarlo. Per il resto non resterà più quasi nulla. Ecco perché dico che il dopo Expo deve essere l’occasione per costruire nuove case. Negozi, uffici. Bisogna pensarlo come un progetto metropolitano e polifunzionale e lavorarci. Ma per fare queste cose occorrono vent’anni».

Tutti, però, sostengono che non bisogna perdere tempo.
«Serve un progetto di lungo termine. Mi auguro che la società proprietaria dell’area sia in grado di portare avanti un progetto progressivo. Se hanno un problema di fondi facciano una nuova società e facciano entrare come soci le banche creditrici. Quell’area va messa sul mercato. E il progetto del governo mi sembra ridicolo. Con la densità dei centri urbani vicini e della periferia di Milano non si può pretendere di iniziare con il dire che il verde deve essere la parte prevalente ».

Lei era scettico all’inizio, invece, Expo Milano 2015 è stata un successo.
«Per certi versi lo sono ancora. Per me dal 1958 dopo quello di Bruxelles tutte le Expo sono state un fallimento. Devo riconoscere che qui Giuseppe Sala ha portato il pubblico. La gente è andata lì in massa per visitare padiglioni e mangiare in modo bizzarro. Non mi pare che ci sia stata una spinta politica nella direzione del tema per cui l’Expo 2015 era stato vinto da Milano».

postilla

Al netto di tutto ciò che si può dire dei risultati tangibili (non solo attuali) del citato progetto Bicocca, c'è da sottolineare come Vittorio Gregotti colga, la questione di fondo che ha sempre accompagnato Expo 2015, la coerenza col tema ufficiale, il suo rapporto col territorio locale: aderire al modello ultra-tradizionale del baraccone fieristico industriale specializzato, con pochi soggetti, spazi a organizzazione introversa, e relativa precarietà e bassa resilienza, oppure cercare integrazione – non solo spaziale ovviamente - con l'area metropolitana e la regione urbana, magari recuperando anche quel filo diretto con l'eccellenza delle produzioni agricole locali che l'evento ha declinato quasi solo sul versante mediatico? In altre parole, il riuso del sito verrà gestito in una logica da gigantesco «office park», così come l'Esposizione ha scelto ahimè un impianto propriamente da parco tematico suburbano, oppure si sapranno cogliere seriamente tutti gli elementi innovativi nel lavoro, nell'ambiente, nella residenza e servizi, offerti dalle tecnologie e dalle pratiche sociali di fatto già affermate? Questo, significa (o può significare) realizzare l'auspicato mixed-use nel Post-Expo (f.b.)


Il progetto del nuovo aeroporto di Firenze è un concentrato di illegalità. Un masterplan, cioè un progetto preliminare, presentato ... (continua a leggere)

Il progetto del nuovo aeroporto di Firenze è un concentrato di illegalità. Un masterplan, cioè un progetto preliminare, presentato alla Valutazione di impatto ambientale al posto del progetto definitivo. Uno studio di impatto ambientale lacunoso e su dati non completi o non aggiornati. Una Valutazione ambientale strategica su una pista di 2000 metri e non di 2400 come quella sottoposta a VIA. Un piano di utilizzo delle terre di scavo assente, nonostante che per legge la sua presentazione «deve avvenire prima dell'espressione del parere di valutazione ambientale» (art 5, Decr. Min. 161/2012): con la beffa del Comune di Firenze che chiede che il piano sia elaborato «nelle fasi successive della progettazione», cioè quando nessuno potrà controllare alcunché, seguendo una prassi che è stata sperimentata con risultati disastrosi nella realizzazione della Tav in Mugello. Queste sono solo alcune delle torsioni, omissioni, forzature che Enac e Aeroporto di Firenze stanno perpetrando ai danni dei cittadini con la regia del Ministero dell'Ambiente e nel colpevole silenzio della Regione Toscana, che così anticipa la "riforma Boschi", quando le opere di interesse nazionale saranno di esclusiva competenza dello Stato.

Di fronte a un progetto che impatta violentemente sulla sicurezza idraulica della piana fiorentina e sulla salute degli abitanti, i Comuni interessati e le associazioni ambientaliste hanno chiesto all'Autorità alla partecipazione lo svolgimento di un Dibattito pubblico, previsto dalla legge toscana, prendendo, ahiloro, seriamente, un impegno ufficiale della Regione Toscana, sancito nella Variante al Pit che ha dato il via all'aeroporto; richieste rigettate, con la motivazione che avendo rifiutato Adf di mettere a disposizione il progetto e di partecipare, il dibattito sarebbe stato inutile. L'Autorità, tuttavia, in una lettera indirizzata al Presidente Rossi ha ritenuto “auspicabile” che la Regione Toscana promuovesse “una consultazione pubblica, volta a permettere ai cittadini e alle cittadine di essere informati debitamente sul progetto in questione e ad esprimersi su di esso". Ma Rossi ha taciuto e tace tuttora, mandando un chiaro segnale politico; né l'Autorità ha avuto uno scatto di orgoglio, prendendo una propria iniziativa.

Vanificato il Dibattito pubblico nonostante gli impegni, rimaneva un'ultima chance, che uno o più Comuni chiedessero all'Autorità di indire un "processo partecipativo", una forma minore di dibattito che tuttavia non necessita della collaborazione del proponente; così ha fatto il Comune di Calenzano, con l'adesione delle associazioni, ambientaliste. Ma è notizia freschissima che anche questa richiesta sarà probabilmente respinta perché nel frattempo la Regione ha operato un robusto taglio ai fondi a disposizione dell'Autorità. Nessuna forma di partecipazione allora? I diretti interessati non hanno neanche diritto a essere informati? Lo sta facendo Toscana Aeroporti , che ha nel frattempo inglobato Adf, con una mostra nella centralissima piazza della Repubblica di Firenze, dove i cittadini vengono edotti che il nuovo aeroporto ridurrà il rischio idraulico, migliorerà la qualità dell'aria, produrrà più di 2000 nuovi posti di lavoro, un vero toccasana. Toscana Aeroporti riempie a pagamento la pagine dei grandi quotidiani nazionali e, conseguentemente, viene censurata ogni voce di dissenso. La Regione non mantiene fede né alle sue leggi, né alle sue delibere. Il messaggio è chiaro: una vera forma di partecipazione non s'ha da fare, né domani, né mai. Lasciamo ai lettori indovinare chi è il don Rodrigo che dall'alto del suo castello conduce la manovra; e chi è don Abbondio. Quanto ai bravi ve ne sono così tanti che è impossibile individuarli tutti.

Il nostro futuro è già lì, ed è peggio del presente raccontato da James Ballard. «John Banville recensisce il nuovo romanzo di Joseph O’Neill ambientato negli Emirati Arabi fra grottesche pacchianerie e trappole finanziarie». La Repubblica, 28 ottobre 2015

Joseph O’Neill, L’uomo di Dubai (Codice, trad. di T. Pincio pagg. 288, euro 18,90)

L’ossessione degli anni ‘50 per la fantascienza, alimentata dalla paranoia da guerra fredda, il terrore della bomba e il sogno di un mondo nuovo, sgargiante, pulito e senza limiti, produsse una serie di riviste meravigliosamente strampalate. I racconti che c’erano dentro erano quasi sempre trascurabili (o forse eravamo troppo giovani per apprezzarli?), ma chi può dimenticare le illustrazioni in copertina, che raffiguravano le città fantastiche di un futuro lontano, con grattacieli alti un chilometro e mezzo, viadotti che si libravano tra le nuvole, automobili volanti e treni che solcavano i cieli. Oggi, vedendo le fotografie di Dubai, noi della vecchia generazione ci stropicciamo gli occhi per essere sicuri di non sognare. In questa città nel deserto, il futuro, che ai tempi della nostra gioventù sembrava impossibilmente lontano, o semplicemente impossibile, è già arrivato: ed è un futuro (chi lo avrebbe immaginato?) grottescamente pacchiano.

Joseph O’Neill, per un lampo di ispirazione, ha ambientato il suo nuovo romanzo, L’uomo di Dubai , a Dubai, appunto. I libri per cui è più famoso, il pluripremiato La città invincibile e quello precedente Blood-Dark Track , sono incentrati sui luoghi e l’assenza di luogo. Niente di strano, considerando che le sue origini, come Blood-Dark Track illustra doviziosamente, sono un groviglio inestricabile: uno dei suoi nonni era un uomo d’affari turco un po’ losco, l’altro era un nazionalista irlandese e militante dell’Ira.

O’Neill è nato a Cork, ma da bambino ha vissuto con i suoi genitori in tanti Paesi diversi, fra cui il Mozambico, la Turchia, l’Iran, e da quando aveva sei anni in Olanda, dove ha frequentato scuole francesi e inglesi. Poi ha studiato legge al Girton College di Cambridge e per dieci anni ha fatto l’avvocato a Londra, prima di trasferirsi a New York e stabilirsi lì, nel 1998.

L’anonimo avvocato svizzero- americano originario di Zurigo che fa da narratore in L’uomo di Dubai (è lui The Dog del titolo inglese), ha un nome che inizia per X, e per comodità lo chiameremo così. Ha lasciato New York e si è stabilito, se stabilito è la parola giusta, fra le discutibili meraviglie di Dubai, dopo la fine disastrosa e umiliante di una storia di nove anni con Jenn, anche lei avvocatessa esperta di diritto societario. Uno dei problemi insolubili della coppia, anche se non esplicitamente dichiarato, è che fra i due Jenn è quella che ha più successo sul lavoro, e di sicuro è più determinata, per non dire spietata. In realtà la sua durezza Jenn la espleta non soltanto nella vita professionale, ma anche nei rapporti con il nostro sventurato eroe. Quando la loro storia finisce, dopo che X decide, in stile Bartleby, che donare un campione di sperma non fa per lui (una splendida scena comica a cui O’Neill avrebbe potuto dare maggior rilievo), lei svuota il loro conto, lasciandolo senza un soldo.

Per sua fortuna, almeno in apparenza, X incappa in un vecchio amico dei tempi in cui era studente in Irlanda, tale Eddie Batros, rampollo di una ricchissima famiglia libanese; questo Eddie poco dopo gli offre un lavoro come «amministratore fiduciario della famiglia Batros». Per svolgere questo lavoro X deve trasferirsi a Dubai.

O’Neill tira fuori una cosa che assomiglia molto, anche in questa fase prematura della sua esistenza, a un capolavoro di comicità. Lo stile che ha congegnato per il suo racconto semidistopico è uno splendido amalgama fra il demotico e il leccatino. Si avvertono echi di Ballard e Martin Amis (che bieco divertimento avrebbe Amis a Dubai!), di Bellow e Nabokov, di Woody Allen e Don DeLillo, e di Philip Roth quando era comico, di Wittgenstein – sì, Wittgenstein – e di William Butler Yeats.

O’Neill è uno di quei rari scrittori che non si lasciano innervosire dalla ricchezza e dalle infinite potenzialità del linguaggio letterario. Qui ci sono frasi di tale tortuosa complessità, anima di versioni degne del Proust più verboso, che a due terzi del cammino la mente dà forfait: ma la pancia ride. L’uomo di Dubai è causticamente spiritoso come il miglior cabaret. È anche beatamente disinteressato alla trama (la vita ha forse una trama?), come in una delle immense opere dell’ultimo Henry James.

La cosa divertente (amaramente divertente) è che Dubai, come il resto del mondo, dopo il Grande Crac del 2008 aveva frenato di brutto, e forse sarebbe sprofondata senza lasciar traccia nelle sabbie dell’Arabia se i suoi vicini degli Emirati Arabi Uniti, meno smodati e più ricchi, non avessero messo mano alla loro larga dotazione di petrodollari per salvarla dai suoi stessi eccessi. X, però, è fedele al suo luogo di rifugio, che si rivelerà, anche se lui non lo sa, fin troppo temporaneo. «Non mi schiero con i denigratori», dichiara.

Questo non gli impedisce di vedere la sconfortante iperbolicità del luogo: «La missione non dichiarata di Dubai è rendersi indistinguibile dal suo aeroporto». O’Neill si trastulla largamente con le peculiarità delle usanze e costumanze locali. Alla fine X finirà dritto in una, o anche più d’una, trappola legale, quando la famiglia Batros sarà sorpresa con le mani nel sacco e lui sarà il capro espiatorio.

L’uomo di Dubai, come scopriamo pian piano, è una sorta di trappola per gli sprovveduti. In superficie sembra una commedia, brillantemente lavorata ma ordinaria, sulla mascolinità post-femminista, dove un homme moyen sensuel , inoffensivo, benintenzionato ma impacciato, più Candido che Caligola, va a cozzare con i costumi, o la mancanza di costumi, dei tempi moderni.

Ma la superficie nasconde oscure profondità. Nelle pagine di apertura del libro, X racconta delle sue visite (alla disperata ricerca di qualcuno che gli spieghi perché è Jenn a sentirsi umiliata dalla fine della loro relazione) a siti «dedicati ai progressi moderni della psicologia» e in particolare forum dove giungere alla saggezza attraverso le esperienze condivise di altri. Ma quello che trova è una Babele infuocata di accuse, recriminazioni e veri e propri abusi, che, confessa, fa paura a guardarla.

Il mondo, insomma, si è trasformato in un’enorme Dubai, una città di false meraviglie al largo di un mare di sabbia, dove il sogno della vita moderna si è trasformato in un incubo futuristico in cui tutto è più grande, più alto, più largo, più profondo, più ricco di tutto il resto in tutti gli altri posti, un luogo la cui «assenza di passato rappresenta una grande opportunità per raccontare storie», come dice Ted Wilson, studioso di storia convertito in pierre. X – che alla fine si accorgerà di non avere nessuna storia da raccontare che valga la pena di essere ascoltata, o che convinca chicchessia che lui è autentico, che lui vale – è sconvolto dalla piega che hanno preso le cose. Contemplando la natura essenzialmente sintetica della città in cui si trova esiliato, rimane meravigliato e sgomento dalla proprio ingenuità.

Dato che come sempre le variabili ambiente, risorse, salute, territorio, economia e società si tengono, qualche precisazione sulla faccenda salamini o cotechini buoni o cattivi serve. La Repubblica, 27 ottobre 2015, postilla (f.b.)

La conferma che la carne rossa, soprattutto se lavorata, è da considerare una sostanza cancerogena è una notizia che va interpretata positivamente. Segna infatti una vittoria della scienza sulla malattia e non certo dei vegetariani sui carnivori. Non sarà infatti con la sognata pillola antitumore che risolveremo l’endemia del cancro sul pianeta, ma identificando ad una ad una le cause di ogni tumore, per eliminarle.

Troppo spesso il cancro è ancora oggi uno spettro che si materializza al solo evocarlo, vissuto intimamente come una maledizione o una iattura. Ricondurlo a un fenomeno umano che ha un inizio, cioè una causa, uno sviluppo e quindi anche una fine, cioè la guarigione, è fondamentale per tutti: malati, familiari, medici. L’annuncio che viene diffuso oggi dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il più autorevole organismo a livello mondiale in materia, segna dunque una pietra miliare per la prevenzione, la cura e la cultura del cancro.

È una tappa che in molti, come me, si aspettavano da tempo. Da oltre vent’anni anni io sostengo, sulla base dei primi studi epidemiologici che lo Iarc ha ora messo insieme ed analizzato, che esiste un legame causa-effetto fra consumo di carne e tumore del colon. All’inizio sono stato criticato, anche duramente, e sono stato accusato di essere un visionario, influenzato dalle mie convinzioni etiche di animalista. Ma non ero intellettualmente solo: eminenti ricercatori a livello europeo hanno sviluppato i lunghi e complessi studi di popolazione necessari a stabilire la cancerogenità di una sostanza o un alimento, tanto che già nel Codice Europeo contro il Cancro — dieci raccomandazioni di prevenzione per ridurre del 20% la mortalità per cancro in europa entro l’anno 2000 — diffuso dalla Commissione Europea per la prima volta nell’87, figurava al punto tre l’invito a mangiare più vegetali e cereali e al punto quattro la raccomandazione di limitare il consumo dei grassi contenuti principalmente nella carne.

Se dunque la cancerogenità della carne da oggi non è più in dubbio, la discussione si apre ora sulla quantità che la rende pericolosa. Medici e ricercatori a livello internazionale si sono impegnati ad evitare gli allarmismi che potrebbero spingere a pensare che una singola fetta di salame possa essere causa diretta di un tumore al colon. Nessuno afferma che sia così. L’invito è piuttosto ad una riduzione progressiva del consumo di insaccati e carne rossa, a favore di un aumento del consumo di pesce, verdura, frutta, cereali, grassi di origine vegetale. La nostra dieta mediterranea, in sostanza. Più vegetali e meno carne dovrebbe diventare non un diktat scientifico antimalattia, ma una politica per il benessere, adottata nelle scuole, nelle mense aziendali, nei ristoranti, per penetrare a poco a poco nelle famiglie e diventare cultura. Come oncologo sono fondamentalmente d’accordo con questo approccio educativo. Ma come uomo e cittadino di questo pianeta, la penso diversamente.

Il mio mondo ideale è un mondo in cui non si uccidono gli animali per ingoiarli e dunque in cui il consumo di carne è uguale a zero. Primo perché amo gli animali e dunque non li mangio. Non capisco coloro che si scandalizzano all’idea di mangiare il proprio gatto o il proprio cane, ma consumano a cuor leggero le costolette di agnello, un cucciolo delizioso e indifeso che viene massacrato strappandolo dal seno materno a pochi mesi di vita. Ritengo che gli esseri viventi facciano parte dell’equilibrio del Pianeta e i loro diritti vadano rispettati. Prima di tutto quello alla vita. Secondo, perché la carne non è un alimento sostenibile in un universo dove oggi vivono 7 miliardi di esseri umani e oltre 4 miliardi di animali da allevamento e fra poche decine d’anni, se il trend demografico continua con le attuali caratteristiche, vivranno 9 miliardi di uomini e la domanda di carne aumenterà dagli attuali 220 milioni di tonnellate a più di 460 milioni. Si prospetta l’incubo di avere più capi di bestiame che uomini sulla Terra, con una percentuale di questi esseri umani che moriranno comunque ancora di fame Come diceva Einstein, niente può aumentare le possibilità di sopravvivenza dell’uomo sulla terra quanto la scelta vegetariana.

postilla

Il professor Veronesi con questo articolo ci parla di due cose che conosce molto bene di prima mano: le patologie tumorali, e sé stesso, a cui dedica la coda del pezzo, anche a distinguere fatti da posizioni e opinioni personali. Vale certamente la pena di aggiungere un'altra coda, correttamente (stavolta) omessa dal professore per incompetenza, ed è la variabile territorio/ambiente, quella altrettanto saltata a piè pari da chi fa del sarcasmo sulle raccomandazioni dell'Oms a proposito dei consumi di carne: l'insostenibilità per la salute umana è prima di tutto una insostenibilità ambientale. Emissioni di gas serra, consumo di territorio da agro-industria e/o landgrabbing, devastazioni di paesaggi tradizionali per far posto a impattanti macchine produttrici di proteine e grassi animali da alimentazione, Expo baraccone e promozione di hamburger multinazionali. Tutto questo entra a pieno titolo nelle raccomandazioni Oms, perché quello da cui ci stanno mettendo in guardia è che il panino col salame, evocato dalle memorie della nonnina che ce lo metteva nel cestino della merenda, è solo ideologia. Aprire gli occhi, qualunque reazione poi ci evochi, è quantomeno un passo avanti (f.b.)

Le ragioni del movimento contrario all'evento dovevano essere interpretate a partire da una contraddizione di fondo: non si organizza una esposizione sui temi della sostenibilità pensando in termini insostenibili. Today blog Città Conquistatrice, 26 ottobre 2015

Escono in questi giorni le rilevazioni di medio periodo sull'andamento degli affari negli esercizi commerciali di Milano, e si nota come i mesi del grande evento espositivo abbiano o meno avute effetti di stimolo sulle economie cittadine. Le interviste ai campioni di turisti sembrano quasi completamente soddisfacenti, nel senso che la quasi totalità «promuove» Milano, le sue particolarità storiche e curiosità, l'offerta culturale delle mostre ed eventi collaterali. Questo entusiasmo però non parrebbe complessivamente riguardare il genere di cose di cui bene o male si alimenta la cosiddetta economia turistica, quella fatta di ristorazione, shopping eccetera. Lo dicono i baristi e i titolari di negozi, soprattutto fuori dal piccolissimo nucleo del centro e dei suoi triangoli magici degli stilisti e concentrazioni di folle. E viene di nuovo da ripetere quella specie di nenia del «noi l'avevamo detto», o per meglio specificare l'aveva detto in fondo fin dall'inizio l'opposizione dei No Expo.

Certo, come tutte le posizioni variamente nimby e negazioniste, anche quella del movimento contrario all'evento doveva-poteva essere interpretata, più che alimentata o contrastata, dato che c'erano ottime ragioni, a partire da una contraddizione di fondo: non si organizza una esposizione sui temi della sostenibilità pensando in termini insostenibili. Pare una contraddizione diciamo così filosofica, se non campata decisamente per aria, ma non lo è affatto. «Nutrire il Pianeta – Energia per la Vita» nel XXI secolo evoca immediatamente, specie per un pubblico di massa mediamente istruito e interessato, stili di vita e alimentazione in qualche misura innovativi, futuribili, sperimentali, certamente diversi dalla pura pappatoria, sia essa quella della trattoria dell'angolo che della pausa pranzo tramezzino in ufficio. E invece fin da subito le cosiddette «strategie» prevalenti negli organizzatori, foraggiate dalle multinazionali, hanno remato nell'altra direzione. Quando al progetto del cosiddetto Orto Planetario, molto leggero e organizzativamente diffuso, si è preferita la classicissima Fiera della Pappatoria dentro il suo recito da parco tematico.

Quando, in pratica, si è rinunciato a sfruttare in sinergia quella risorsa che era il territorio urbano e agricolo della metropoli, scegliendo invece il modello del centro commerciale suburbano chiuso nella propria scatola luccicante, che offre tutto e il contrario di tutto con comodi parcheggi e offerta tre per due. Culturalmente, e poi in modo automatico anche nei criteri organizzativi e negli equilibri, si è finito così per replicare il classico processo di concentrazione/svuotamento che da almeno mezzo secolo mette la grande distribuzione sia contro i produttori e trasformatori di materie prime, sia contro gli esercenti tradizionali. Quella specie di Disneyland costruita fra i due tracciati autostradali ai limiti dell'area urbana, svolge perfettamente quel ruolo di aspiratore di tutto quanto, e insieme di banalizzazione, essendo progettata da manuale in quel modo. E tradisce il proprio ruolo dichiarato, anche se poi ospita dotti convegni sull'ambiente e la sostenibilità, i quali convegni e dichiarazioni non intaccano lo slogan alla McLuhan: «il medium è il messaggio». Ecco dove avevano assolutamente ragione, e ancora ce l'hanno, i No Expo: anche alla luce delle apparentemente pretestuose polemiche degli esercenti locali, appare evidente che si devecambiare strada, e farlo abbastanza alla svelta.

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