Dopo aver sottoposto a giudizio le violenze commesse dalle dittature in America Latina, le estrazione del carbone in Canada, i rischi del fracking, e molte grandi opere il Tribunale Permanente dei Popoli esaminerà la il Tav TorinoLione. Il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2015
Un processo al Tav. Con l’accusa, la difesa (se si presenterà). E un verdetto finale. Sarà celebrato domani a Torino dal Tribunale Permanente dei Popoli. Tutto aperto al pubblico, un’occasione rara per capire le ragioni di chi è contrario alla grande opera e magari anche di chi la difende.
L’appuntamento è fissato presso la “Fabbrica delle E” del Gruppo Abele, mentre per la sentenza finale ci si troverà domenica ad Almese nella sede del Teatro Magnetto. I quattro giorni di incontri seguiranno il ritmo di un vero e proprio processo: la requisitoria dell’accusa, le deduzioni della difesa (sperando che si presenti); poi i testimoni delle parti. E infine la corte che si ritira in camera di consiglio e decide. Il ricorso è stato presentato da diversi comuni della valle e dal Controsservatorio Val Susa. Oggetto, appunto, il Tav della Valsusa. “La sentenza potrebbe portare a un’assoluzione, una condanna, ma anche a una dichiarazione di violazione dei diritti”, spiega il magistrato Livio Pepino che a Torino rappresenterà l’accusa. Una decisione che avrà un peso essenzialmente sull’opinione pubblica.
Il Tpp infatti è un Tribunale di opinione. Indipendente. È nato nel 1979 per occuparsi delle violenze commesse dalle dittature in America Latina, ma ha negli anni ampliato le sue competenze. Ecco così la sessione sull’estrazione del carbone in Canada, sui rischi del fracking, poi su grandi opere progettate in Germania, Olanda e Spagna.
Fa parte del tribunale una rete internazionale di esperti in discipline giuridiche, economiche, socio-politiche. Il loro compito è mettere a confronto le tesi dell’accusa e quelle della difesa. Come è successo in alcune sessioni, dove multinazionali e governi hanno mandato i loro avvo- cati a partecipare. Ma il timore è che a Torino lo Stato, gli enti locali e le imprese coinvolte nella realizzazione del Tav decidano di snobbare la sessione: “Finora la segreteria del Tribunale non è stata ancora contattata dalla difesa.
Tante domande. Un bisogno di informarsi e di vedere confrontate le opposte posizioni. La sessione del Tribunale Permanente dei Popoli a Torino sarebbe una grande occasione. C’è ancora tempo. La giornata di sabato 7 novembre è stata riservata anche alla difesa. Verrà qualcuno?
Prospettive pesanti per l’area compromessa dall'evento Expo, se non si uscirà dal collage di interessi immobiliari piccoli e grandi e non si affronterà il tema della città e del territorio nella sua complessità
Conclusosi l'evento EXPO, non si è però ancora smaltita la solenne sbornia di compiaciuta autocelebrazione per l'inatteso successo di pubblico, che in alcuni ha portato a deliri assai sconvenienti (Milano capitale morale e modello per Roma, Giubileo e future EXPO, Sala commissario-consigliere Cassa Depositi e Prestiti-candidato a Sindaco e già che ci siamo “santo subito”, e via sorvolando sui mille lati oscuri delle inchieste e procedimenti giudiziari in corso e sul costo di costruzione di alcuni padiglioni (da 9.000 a 20.000 €/mq) che danno conto dell'orgia di vanagloria che nel suo piccolo (i problemi dell'alimentazione mondiale sono molto più grandi, seri e di lunga lena se si vuole davvero affrontarli) ha saputo essere l'evento semestrale EXPO e il suo successo di pubblico.
Rimangono invece aperti e irrisolti i dubbi sull'utilizzo futuro dell'area, oggi trasformata da area agricola (come ripetutamente previsto nei PRG succedutisi nel tempo: destinazione in sé discutibile, ma che ancor oggi è l'unica atta a garantire all'Ente pubblico l'inedificabilità permanente a causa del carattere intercluso tra autostrade e ferrovie, che ne sconsigliava l'uso edificatorio, soprattutto se residenziale) in area altamente infrastrutturata dall'accessibilità a medio-lungo raggio, ma ancora difficilmente connessa ai tessuti urbani circostanti.
L'ipotesi di realizzarvi un nuovo campus universitario delle Facoltà scientifiche avanzata dal Rettore della Statale deve accompagnarsi ad un progetto sensato di riutilizzo delle aree dismesse a Città Studi da cui (se non si vuole stravolgere la vivibilità dell'ex Città Studi, come già avvenuto a Citylife e Porta Nuova, nonostante l'incensamento che ora ne fa persino l'amministrazione Pisapia e le forze politiche che la sostengono), non si possono ricavare più di 200 Milioni di € a fronte dei 400-500 Milioni di € stimati necessari per il nuovo campus, e bisognerà, quindi, capire come reperire le risorse mancanti.
Purtroppo i costi dell'errata localizzazione dell'evento EXPO, al netto del suo sbandierato successo di pubblico, non saranno così facilmente cancellabili dalla “città normale, con case e negozi” auspicata con tanta insistenza da Gregotti in svariati interventi sui principali quotidiani, che è invece quasi impossibile da realizzarsi in quel contesto localizzativo, se non a scapito della qualità della vita dei suoi abitanti: meglio, o molto meno peggio, pensare di mantenervi funzioni strategiche di livello metropolitano-regionale. A qualcuno potrà non piacere, ma è il costo ineliminabile dell'eredità del dopo Expo e dell'inconsulta trasformazione d'uso di quell'area interclusa.
Come uscirne?: non subendo il ricatto di chi dice ormai la frittata è fatta e qualcuno la deve mangiare! Se qualcuno deve risponderne è Fondazione Fiera che è ente di nomina pubblica, anche se di diritto privato (un po' come le Fondazioni bancarie altro ben noto bubbone corruttivo), e che deve essere richiamata alla propria responsabilità verso la città rinunciando all'enorme aspettativa immobiliaristica che pensava di aver incamerato col riuso del “dopo Expo”, avendone comprato le aree a prezzo agricolo dai proprietari originari con lo straordinario surplus di rendita ottenuto dalla vendita della vecchia sede a Citylife. Riportando quota edificatoria virtualmente sostenibile a non oltre 0,20 mq/mq e "perequandola" sul vasto plateau di aree pubbliche dismesse a dimensione metropolitana (a partire dagli ex scali Fs e dalle ex caserme in dismissione a Milano, ma anche su quelle industriali dismesse sulla direttrice da Rho a Sesto S.G.), sull'area del “dopo EXPO” potrebbero così permanentemente rimanere le funzioni di indirizzo pubblico delle politiche agroalimentari ed altre attività di interesse pubblico, un nuovo polo delle facoltà scientifiche dell'Università Statale, altre attività di innovazione e ricerca, facendone il nuovo Centro Direzionale metropolitano, e non funzioni residenziali, qui particolarmente inadatte.
Comune e grandi proprietà fondiarie (oggi non più agrarie, ma per lo più aree industriali, infrastrutturali e a pubblici servizi – vedi ex caserme e/o ospedali, ecc. - dismesse o dismettibili) si trovano, invece comunemente interessati a massimizzarne di volta in volta lo sfruttamento della rendita fondiaria derivante dal riuso delle aree centrali dismesse (come appunto aveva già fatto Fondazione Fiera all'epoca dei Sindaci Albertini e Moratti e degli assessori all'urbanistica ciellini Lupi e Masseroli) per finanziare gli investimenti nei propri obiettivi societari o istituzionali, il cui esito urbanistico-insediativo viene ritenuto secondario, residuale e spesso del tutto incontrollato.
Negli Accordi di Programma attualmente in corso di definizione con FS e Ministero della Difesa sul riuso di ex scali ed ex caserme, bisognerebbe, invece, far collocare i parchi territoriali e gli spazi per grandi funzioni urbane su aree di altre proprietà che si ritenga utile di non far edificare a case o negozi (come, ad esempio, oggi più d'uno propone sulle aree del dopo Expo pur di uscire in fretta dai guai di indebitamento), le quali in contraccambio acquisirebbero di una quota virtuale dell'indice edificatorio delle aree di FS e Ministero Difesa.
Invece, in questa urbanistica à la carte che è la sommatoria di PII e Accordi di Programma praticata dal machiavellismo perverso della dirigenza dell'urbanistica milanese passata indenne sotto Amministrazioni comunali di centro-destra prima e di centro-sinistra poi, non si allarga l'orizzonte al quadro complessivo della città (che è quello che dovrebbe “governare” il Piano di Governo del Territorio-PGT) e si continua, invece, senza alcune visione generale di quali altre aree potrebbero essere coinvolte in una logica di perequazione soprattutto nella localizzazione dei parchi urbani e grandi servizi territoriali (tanto sbandierata da urbanisti e amministratori di tendenza, ma quasi mai realmente praticata).
Senza di ciò, il prossimo PGT si troverebbe costretto in una visione monca e prefigurata dalla conclusione di accordi raggiunti su interessi parziali sia di FS sia dell'Amministrazione Comunale (e non della Città, in quanto tale). A meno che, come spesso è capitato, il nuovo PGT sia la riapertura a tutto campo di uno spazio per gli interessi particolaristici diffusi che non hanno avuto dimensione e forza per accreditarsi prima nei PII e Accordi di Programma o quelli ereditati dall'indebitamento delle acquisizioni fondiarie e e dell'esito gestionale del dopo EXPO. Temo sia la prospettiva più realistica e attendibile che ci attende una volta diradatisi i fumi autocelebrativi della sbornia da dopo Expo.
«Diritti. Grandi opere e territorio, lobby e democrazia. Il modello "coloniale" di decidere e costruire. I tre capi d’accusa di una sessione del Tribunale dedicata alla Torino-Lione». Il manifesto, 5 novembre 2015 (m.p.r.)
La sessione del Tribunale permanente dei popoli dedicata a Tav, grandi opere e diritti fondamentali dei cittadini e delle comunità locali che inizia oggi a Torino è un evento importante, anche oltre il caso concreto. Il tema centrale è, ovviamente, la nuova linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione: un’opera ciclopica devastante, di grande impatto ambientale, di conclamata inutilità trasportistica, insostenibile in termini di spesa pubblica, giustificata solo da una cultura sviluppista ormai anacronistica, da interessi economici lobbistici di breve periodo e dalla disperazione di un sistema politico ed economico incapace di dare alla crisi vie di uscita razionali.
Un’opera inoltre – sarà questo il punto principale dell’analisi del Tribunale dei popoli – decisa in modo autoritario, provocando un movimento di opposizione profondamente radicato e capace di manifestazioni con decine di migliaia di persone. Orbene questo movimento, in tutte le sue articolazioni (anche istituzionali), è stato sistematicamente escluso da ogni confronto reale e da ogni decisione. Esattamente come sta avvenendo in diverse località della Francia, del Regno Unito, della Spagna, della Germania, della Romania e dell’Italia (per limitarsi alle realtà che saranno esaminate dal Tribunale).
L’esclusione delle comunità locali da decisioni cruciali riguardanti il loro habitat, la loro salute, le stesse prospettive di vita attuali e delle generazioni future, è avvenuta e avviene in Val Susa in un modo esemplare di un sistema che si ripete con sostanziale identità per tutte le grandi opere inutili e imposte e che si articola in tre fasi fondamentali:
Tutto ciò – lo si è già accennato e sarà al centro dell’esame del Tribunale – realizza un vero e proprio sistema di governo di pezzi di società che ha a che fare con i diritti fondamentali delle persone e delle comunità e di partecipazione. Di democrazia si potrebbe dire, se il termine non fosse sempre più spesso utilizzato a copertura di scelte che vanno in direzione esattamente opposta e di istituzioni e regimi che tutto sono meno che democratici. Perché la logica sottesa a questo sistema è – non sembri eccessivo il termine – una logica neocoloniale, fondata sulla pretesa di lobby economiche e finanziarie nazionali e sovranazionali e delle istituzioni con esse collegate di disporre senza limiti e senza controlli delle risorse del territorio estromettendo le popolazioni interessate (considerate portatrici di interessi particolaristici e non apprezzabili), trasferita nel cuore dell’Europa.
Parlo di logica ovviamente, essendo ben consapevole che essa si manifesta in Occidente con modalità e caratteristiche incomparabili in termini di uso della violenza e di sopraffazione. Ma il segnale è chiaro. Nelle società contemporanee, percorse da derive decisioniste e autoritarie accade che la verità si intraveda dai margini, dalle periferie, da vicende riguardanti parti limitate della società che anticipano, peraltro, fenomeni di carattere generale. Come hanno dimostrato – tra le altre – le ricerche, ormai classiche, di Enzo Traverso sul nazismo e la sua genesi, la mancata percezione e l’omessa analisi di molti segnali premonitori pur facilmente avvertibili hanno prodotto nel secolo scorso lutti e disastri indicibili.
La speranza è che il Tribunale permanente dei popoli, da sempre in anticipo sui tempi, sappia, anche in questo caso, assumere decisioni e chiavi di letture utili non solo per la Val Susa ma per le prospettive dell’intera Europa.
La Repubblica online, 4 novembre 2015 La procura di Vicenza ha sequestrato il cantiere di Borgo Berga, nella parte ancora in costruzione del gigantesco complesso edilizio sorto a pochi passi dalla Rotonda, la villa disegnata da Andrea Palladio. Giunge a uno sbocco l'inchiesta aperta dalla magistratura sulla base di numerosi esposti presentati da comitati di cittadini e dal Movimento 5 Stelle, che hanno denunciato non solo lo sfregio a una pregiata area paesaggistica, anche la violazione delle norme sulla sicurezza idrogeologica (il complesso è insediato alla confluenza dei fiumi Retrone e Bacchiglione, che in passato sono esondati).
Consideriamo una buona notizia ogni iniziativa volta a denunciare la rapina del project financing all'italiana, da anni denunciato da inascoltati studiosi e decine di comitati di cittadini. Questa volta viene dal Veneto, ne aspettiamo altre. La Nuova Venezia, 4 novembre 2015
L’offensiva parte da un dato: la maxi rata di 200 milioni di euro che la Regione corrisponde ogni anno a copertura delle opere realizzate in sanità con il progetto di finanza. Per questo, la Cgil del Veneto chiede al presidente della Regione di presentare una legge «per porre fine quanto sta accadendo».
Presentatazione "blindata" della nuova proposta di Comune e Porto. Cronaca e resoconti di Alberto Vitucci, lettere dei cittadini esclusi Maria Rosa Vittadini e Marco Zanetti. La Nuova Venezia, 4 novembre 2015, con postilla
GRANDI NAVI
IL PROGETTO BRUGNARO
di Alberto Vitucci
«RIPARTIAMO PER SALVARE VENEZIA»
VENEZIA «Dobbiamo ripartire. Abbiamo 800 milioni di debiti, e non ce n’è più. Questo è un grido di dolore per la nostra città: non abbiamo più soldi». Si parte delle grandi navi per arrivare a Renzi e al nuovo «appello al governo». Il sindaco Luigi Brugnaro rilancia il suo messaggio al premier Renzi. «Aspettiamo con fiducia la Legge di stabilità, abbiamo chiesto provvedimenti per camminare con le nostre gambe». Quali?
Il Mulino, 3 novembre 2015
Ai primi freddi, invece, Franceschini dismette le vesti trionfali, reindossa il sacco del supplice (d’ordinanza per qualunque titolare dei Beni culturali), e si prostra: non ai piedi del suo presidente del Consiglio dei ministri, per chiedergli magari di riallineare la spesa pubblica per la cultura (e segnatamente per i musei) almeno alla media europea (siamo sotto la sua metà), ma invece ai piedi dell’impresa privata, implorandola di «adottare» i nostri più importanti musei, dagli Uffizi a Brera, dall’Accademia di Venezia a Capodimonte.
È utile riflettere sulla scelta delle parole. Franceschini parla di «adozione»: egli, cioè, invita le imprese – il mercato – a «riconoscere come proprio il figlio d’altri, mediante un atto giuridico» col quale «si creano rapporti di famiglia» fra cose «che non sono legate da un corrispondente vincolo naturale». È, questa, la piana definizione del Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia. Ed è perfettamente, direi capillarmente, adeguata anche a dar conto dell’uso metaforico che di “adottare” e di “adozione” ha fatto Dario Franceschini. Il ministro prende formalmente atto del fatto che lo Stato – per mano del suo governo – ha definitivamente collocato sulla ruota degli esposti, o degli innocenti, i massimi musei italiani. Si potrebbe qui sottilizzare, discutere: forse non è un’adozione per abbandono, ma per morte dei genitori, giacché lo Stato nell’epoca della modernizzazione à la Blair (o, per dirla altrimenti, à la Reagan) – come ha scritto Luciano Gallino – «provvede da sé a eliminare il proprio intervento o quantomeno a ridurlo al minimo, in ogni settore della società: finanza, economia, previdenza sociale, scuola, istruzione superiore, uso del territorio». La fattispecie è dunque quella di un genitore che si suicida: segue, inevitabile, l’adozione.
Ma, come in un racconto dickensiano (ed è proprio a quella giungla sociale della Londra ottocentesca, che velocemente stiamo tornando), l’orfano non trova una famiglia amorosa e disinteressata. No, finisce tra le mani avide di chi vuol farlo lavorare: e sia pure a vendere fiammiferi per la strada. Lo sa bene il responsabile pro tempore dell’orfanotrofio del patrimonio culturale italiano, che si affretta a far balenare la prospettiva di un guadagno: i nuovi, orgogliosi genitori avranno l’esclusiva (si potrà diventare main partner degli Uffizi), e soprattutto una sedia nei consigli d’amministrazione – secondo l’aurea regola del «pago-comando». E dunque il messaggio renzian-dickensiano suona così: adottate i poveri musei italiani, sono pieni di braccia per il vostro brand. La Venere di Botticelli laverà i pavimenti, la Tempesta di Giorgione ospiterà picnic, la Dafne di Bernini diventerà più disponibile.
Tecnicamente, si tratta di un altro decisivo passo verso la trasformazione dei musei nazionali in fondazioni di partecipazione, sul modello – a torto celebratissimo, come ho provato a spiegare nel mio ultimo libro – del Museo Egizio di Torino. Dando a Comuni e Regioni la possibilità di nominare una parte del consiglio scientifico dei musei, si è avviato una sorta di federalismo demaniale del patrimonio: una devoluzione dal sapore leghista, palesemente incostituzionale (il patrimonio è «della nazione», art. 9 Cost.) e gravida di conseguenze nefaste. Ora segue a ruota la promessa di mettere le grandi imprese nella governance, cioè nei consigli di amministrazione.
Qualche giorno fa il notista politico più lucido e progressista del Paese – Maurizio Crozza – ha constatato, partendo da un articolo di chi scrive dedicato al noleggio del patrimonio pubblico, che «la cultura è diventata una mignotta che si offre a tutti, basta pagare».
Ma no, caro Crozza, ha capito male: adozione, non prostituzione. Andiamo avanti tranquillamente.
[I temi di questo intervento sono ripresi e ampliati nell’articolo di Tomaso Montanari in uscita sul numero 6/2016 della rivista: La notte dei musei e l’eclissi dell’articolo 9, pp. 1084-1092]
«Questione romana. Defenestrazione dall’alto di un sindaco inviso al potere. Marino, ostacolo democraticamente rappresentativo, viene sostituito con la figura del commissario. E il Vaticano scarica sulla città la sua forza. Senza misericordia». Il manifesto, 3 novembre 2015
Adesso basta. Roma ha più del doppio degli abitanti di Milano (2.869.169 contro 1.342.385). Quanto ad estensione, il confronto non è neanche pensabile (1.287,36 kmq contro 181,67; se si parla delle due città metropolitane, il divario si allarga a dismisura: 5.363,28 kmq, contro 1.575). Se caliamo la mappa di Milano su quella di Roma, Milano parte dal Quarticciolo e arriva a Porta San Giovanni: non entra neanche nella porzione storica e monumentale della Capitale. Non si capisce quale senso abbia la vana chiacchiera di trasferire il modello dell’una (se c’è) sull’altra.
Naturalmente, si può governare bene una città di medie dimensioni (come Milano) e male una metropoli (come Roma), come anche viceversa. Le dimensioni e i rapporti, però, sono incommensurabili. Roma è al quarto posto fra le grandi città europee, dopo Londra, Berlino e Madrid, non a caso tutte capitali dei rispettivi Stati. Milano si colloca nel campo delle città di medie dimensioni (al tredicesimo posto al livello europeo, credo). Se si deve ipotizzare un rapporto a livello mondiale, l’unica città italiana degna d’esser presa in considerazione è Roma (per questi, e soprattutto per altri motivi, sui quali tornerò più avanti).
Milano “capitale morale”? Qualche anno fa apparve un bel libro, Il mito della capitale morale, forse recentemente ristampato, di Giovanna Rosa (non ci sono parentele, neanche a metà, fra me e l’autrice): libro che nessuno cita, e nessuno mostra di aver letto. Il “mito”, appunto: non “la capitale morale”. Un lungo percorso dal Risorgimento a oggi, fatto di fatti, illusioni e disillusioni, cadute e riprese, riprese e cadute.
Del resto, se prendessimo alla lettera per Milano la definizione di “capitale morale”, dovremmo chiederci sul piano storico come sia stato possibile che da siffatta realtà politico-urbanistico-civile siano precipitate sull’Italia le due sciagure politico-istituzionali ed etico-politiche più terrificanti dell’ultimo secolo e mezzo, Benito Mussolini e Silvio Berlusconi. Che Torino, culla della nostra unità nazionale, per questo e per altri motivi, sia più degna di tale definizione?
Su Roma, la Capitale, l’unica città italiana in grado di entrare in una competizione e classificazione internazionale, sono precipitate nel tempo tutte le contraddizioni e tutto il degrado di cui è stato capace (o incapace) questo disgraziato paese, — l’Italia.
Roma è, ahimè, il luogo del potere e dei Palazzi: la Presidenza della Repubblica, la Presidenza del Consiglio e il Governo, il Senato, la Camera dei Deputati, i Ministeri, gli organismi dirigenti della Magistratura, della scuola, dell’Università, dei corpi separati dello Stato, ecc. ecc. Tutti, ovviamente, gestiti al novanta per cento da non romani: tutti orientati a difendere interessi che con Roma non avevano niente a che fare.
Roma, per quanto mi concerne, è se mai vittima, non carnefice.
Quando ha preso democraticamente la parola, lo ha fatto poco e male. Con Alemanno ha dato il peggio di sé, sul piano etico, civile e amministrativo. Anche questo oggi è ampiamente e vistosamente dimenticato e accantonato, per non interferire neanche mentalmente con le procedure di esecuzione sommaria dell’ultimo Sindaco.
A Roma, poi (anche questo avete dimenticato?), c’è il Vaticano. Il Vaticano è al tempo stesso una grande potenza religiosa e una grande potenza temporale, terrena. E, — lo dico con assoluta persuasione, — non può essere che così. Non può essere che così, nessuno, né dal basso né dall’alto, potrebbe impedirlo (Gesù, unico, per volerlo fare, è finito nell’orto di Getsemani e poi sulla croce).
La proclamazione del presente Giubileo ne è la più vicina e lampante testimonianza.
Esprimo il mio stupore: non c’è commentatore di qualche portata che si sia soffermato come meritava su questo passaggio. Un bel giorno Papa Francesco proclama un Giubileo straordinario della Misericordia. E’ l’ultima mazzata: trenta milioni di pellegrini e migliaia di cerimonie nella Capitale, molto immorale forse, ma di certo molto, molto strapazzata. Siccome è improbabile che il Giubileo si svolga dentro le mura dello Stato Vaticano, che del resto non accoglie quasi nulla di quanto lo riguarda, la città intiera ne sarà travolta.
Ci sono state consultazioni preventive in proposito? Qualcuno, al di qua del Tevere, ha risposto che andava tutto bene? Improbabile. Dunque, il Vaticano dispone di Roma come fosse cosa sua (è già accaduto altre volte nella storia, anche dopo il 1870). I poteri democratico-rappresentativi a quel punto sono spinti inevitabilmente in un angolo. Cosa potrebbe dire o fare di fronte a un messaggio universalistico-religioso di tale portata? Ma il messaggio universalistico-religioso si trasforma rapidamente in una serie di Ukase politico-temporali sempre più assillanti e persino da un certo momento in poi anche violenti: avete chiuso le buche? Avete rattoppato le metropolitane? A che punto siete con l’accoglienza? Siete in grado di garantire il ristoro? E la sicurezza, la sicurezza, come va?
Il grande evento di Misericordia vale dunque per tutto il mondo (così almeno si dice): ma non vale per Roma, né per i suoi cittadini, né per i suoi amministratori, che infatti, in tutte le occasioni possibili, sono trattati a pesci in faccia, cooperando inevitabilmente (e diciamo consapevolmente) alla distruzione della loro credibilità e del loro prestigio.
A Roma non ci sono gli “anticorpi”? Sì, questo è un po’ vero. Infatti, a Roma, nelle scorse settimane, e con accelerazione crescente negli ultimi giorni, si è consumata la più imponente e capillare distruzione di anticorpi che si sia mai vista in Italia dalla Liberazione a oggi.
Anche qui esprimo il mio stupore: osservatori, avete colto davvero quel che è accaduto a Roma nelle scorse settimane e con accelerazione crescente negli ultimi giorni? Il giudizio sul comportamento e le attitudini dirigenziali del sindaco Marino, — un “marziano”, un inetto, un incapace, un supponente, da un certo momento in poi anche uno poco corretto, — non ha niente a che fare con lo svolgimento e la conclusione della faccenda.
Se si dovessero rimuovere dai loro incarichi Sindaci, Presidenti delle Regioni, Ministri, Direttori Generali, Rettori, ecc. ecc., — perché “marziani”, inetti, incapaci, supponenti, poco corretti, ecc. ecc, — assisteremmo in poco tempo al crollo verticale dell’intera macchina politico-istituzionale italiana (sarebbe comunque affare della magistratura, come talvolta già accade, non dei politici).
Quel che invece è accaduto a Roma è la defenestrazione dall’alto, — per vie politiche, non legali, intendo, — di un uomo politico che non era in grado (e probabilmente non voleva) garantire le attese dei principali poteri interessati alla vicenda: la nuova forma della politica oggi dominante in Italia, il Vaticano, i poteri economici all’arrembaggio della nuova torta.
Il risultato di tutta la vicenda è che esiste oggi in Italia un Potere Supremo il quale è in grado di sbarazzarsi di qualsiasi ostacolo democraticamente rappresentativo, sostituendolo con la figura fin qui anomala ed eccezionale del Commissario, il quale ovviamente è, e non potrebbe non essere, un delegato al servizio di quel medesimo Potere Superiore. Il quale, essendo anch’esso non determinato dal voto popolare ma, diciamo, da una sorta di autocommissariamento del medesimo (com’è noto, il nostro Presidente del Consiglio non ha goduto di tale investitura), tende a riprodursi per geminazione secondo le medesime modalità.
Roma, se è e resta la Capitale d’Italia, la quarta città europea, una delle più importanti del mondo, dal punto di vista del patrimonio artistico e culturale è senza ombra di dubbio la prima.
Questo suscita da un bel po’ di tempo una corrente d’invidia e di gelosia, nazionale e internazionale, da far spavento. Essa si collega, e strettamente si congiunge, al progetto dell’attuale potere politico italiano di farne da tutti i punti di sta una cosa propria.
A Roma, più che in qualsiasi altra città italiana, abbiamo a che fare con una massa di potere inimmaginabile altrove: Vaticano, poteri economici forti, potere politico di tipo nuovo, incline al commissariamento della Nazione ovunque sia possibile e a suo avviso necessario, procedono affiancati, e nella medesima direzione (non c’è bisogno di pensare a incontri segreti a Via dei Penitenzieri o a Largo Chigi o magari a Palazzo Vecchio a Firenze: basta pensarla nello stesso modo).
Ce la faranno Roma, e i romani, a rovesciare questa mostruosa tendenza? I romani, senza i quali anche il mito di Roma rischia di diventare un’astrazione, sono delusi, confusi, smarriti. Come volete che siano? Avevano votato trionfalmente per Marino esattamente per dare una svoltata alla storia. Ora forze potenti della politica e dell’informazione si affannano quotidianamente a spiegar loro che Marino era semplicemente un “marziano”, un inetto, un incapace, un supponente, uno poco corretto, ecc. ecc., e a spiegarglielo sono esattamente innanzitutto quelli del suo proprio partito, quelli che avevano chiesto loro di votarlo (neanche uno dei consiglieri comunali “dem” che abbia resistito alla sferza del capo, che vergogna!).
Però, al tempo stesso, monta l’indignazione, anzi, una rabbia cupa e violenta, contro tutti quelli che hanno realmente combinato tutto questo, il Potere Superiore e i suoi molteplici alleati.
La Capitale immorale giace così sotto il peso degli errori commessi, quelli suoi, certo, ma soprattutto, soprattutto quelli degli altri.
Come ultimo schiaffo viene inviato a governarla un Prefetto dal nome beneaugurante di Tronca. All’Expo, — per sue dichiarazioni, — si è occupato dell’ordine pubblico; in precedenza, dei Vigili del fuoco. Competenze, queste, indubitabilmente adeguate a governare la metropoli Roma, le sue contraddizioni e lacerazioni, e a suscitare in lei i nuovi anticorpi. Nel frattempo il Potere Superiore garantisce che il Giubileo sarà un successo come l’Expo.
Tutto è money, d’accordo, ma forse qui siamo andati un po’ troppo oltre. Il Vaticano soddisfatto annuisce.
Per sottrarsi a questa nefasta spirale, ed evitare altre cantonate, ci vorrà un lavoro lungo e in profondità, razionale, sì, ma anche rabbioso. Il tempo delle mediazioni è finito, ne comincia un altro, meno disponibile alle prese in giro. Se ci sono voci disposte a parlare in questo senso, si facciano sentire presto.
Cominciano a capire che cos'è il project financing all'italiana. C'è chi lo predica da decenni, e noi pagheremo tutto perché chi decide non sente. La Nuova Venezia, 2 novembre 2015
IL PM ORDINA LA PERIZIA SUI COSTI
Mestre. A quasi tre anni da quando Piergiorgio Baita (arrestato per le tangenti Mose) parlò dell’affaire Ospedale dell’Angelo a Mestre, la Procura di Venezia cerca ancora di capire se anche in quell’operazione ci fu un malaffare traducibile in reati da contestare. Da mesi un commercialista sta passando al setaccio il project finacing che ha permesso di realizzare l’opera nella periferia di Zelarino. Le indagini sull'ospedale dell'Angelo, nate da una “costola” della maxi inchiesta sullo scandalo Mose, alimentarono, fin da subito, attraverso le dichiarazioni di Baita, una serie di sospetti su l’opera realizzata attraverso la finanza di progetto. Sospetti, peraltro, estesi anche a tutte le altre opere realizzate o previste in Veneto con analoghe modalità contrattuali.
ZAIA: «VIA LA POLIITICA, DECIDANO I TECNICI»
VENEZIA Le procedure di finanziamento del nuovo ospedale di Padova, la querelle giudiziaria e amministrativa sui costi abnormi dell’Angelo di Mestre, il piano infrastrutturale “dormiente” in Regione: si riaccende così lo scontro sui project financing, i contratti “misti” che nella lunga stagione galaniana hanno sancito l’accesso dei capitali privati alle grandi opere pubbliche, consentendo la realizzazione di obiettivi importanti (dalla sanità alle strade) ma rivelandosi troppo spesso punitivi per le casse del Veneto e “vulnerabili” sul versante della legalità. Che fare allora?
Le amare riflessioni personali del portavoce di una singolare struttura di collaborazione tra le reti e i gruppi impegnati nella difesa del territorio romano (cartinregola). Il racconto appassionato di un'esperienza di governo terminata troppo presto, e di qualche retroscena interessante.
Come portavoce di Carteinregola – ma quello che sto scrivendo è a titolo personale - ho passato gli ultimi quattro mesi della consiliatura Alemanno in Campidoglio, a fare un presidio contro delibere urbanistiche che, come ho dolorosamente constatato insieme ai miei compagni di avventura, godevano dell’appoggio anche della stragrande maggioranza dell’opposizione del Partito Democratico. Siamo riusciti a fermare tanti progetti – anche una delibera poi finita sotto la lente della magistratura - praticamente da soli. E Giovanni Caudo è stato uno dei pochi che spesso mi ha aiutato a capire quali conseguenze quelle delibere potevano avere sulla città.
Per questo, quando è stato nominato assessore alla Trasformazione Urbana, ho pensato che fosse la volta buona per “cambiare davvero”. Uno slogan da campagna elettorale, che, con la sua nomina, per me diventava una prospettiva concreta per la vita e il futuro dei cittadini di Roma.
Infatti il primo segnale che ha lanciato è stato il coronamento di una delle nostre più grandi battaglie: la cancellazione della cosiddetta “delibera degli ambiti di riserva”, che avrebbe riversato nell’Agro romano una volumetria complessiva di 20 milioni di metri cubi di case, dove sarebbero andati a vivere altri disperati delle “tre ore di vita al giorno per andare e tornare dal posto di lavoro”. Una delibera dell’amministrazione Alemanno che però si inseriva nella pratica delle “eruzioni cementizie lontano da tutto, con enormi costi per il Comune, ampiamente incentivata anche dalle amministrazioni Rutelli e Veltroni.
In realtà il grande difetto del “professore” è stato l’aver preso di petto da subito la situazione, passando al setaccio gli atti ereditati, fermando tanti progetti di dubbio interesse pubblico – come il progetto Water Front di Ostia e pacchi di delibere urbanistiche dell’ex Sindaco Alemanno - e soprattutto avviando – per primo e in beata solitudine – molti provvedimenti che diventeranno d’attualità dopo lo scoppio di Mafia Capitale, a partire dalla riorganizzazione degli uffici e dalla rotazione dei dirigenti, che gli procura una notevole serie di nemici, nell’amministrazione e soprattutto nei partiti.
E l’aria nuova all’urbanistica scatena anche reazioni negative da parte del mondo dell’edilizia, il “motore economico della Capitale”, che lo accusa di dare il colpo di grazia a un settore già falcidiato dalla crisi per i rallentamenti dovuti alla riorganizzazione della macchina amministrativa. Si agita la minaccia ricorrente di una manifestazione contro l’assessore, con tanto di betoniere sotto le sue finestre, che alla fine non si farà mai. E i nuovi schemi di convenzione, quelli a cui il suo staff lavora per mesi, per porre fine a tanti disastri sparpagliati nella città - interi quartieri fatti e finiti senza strade, servizi, persino fognature - dovranno superare una lunga corsa a ostacoli, soprattutto da “fuoco amico”, prima di arrivare all’approvazione.
Ma anche con i comitati cittadini spesso si creano conflitti. Ho seguito molti incontri e assemblee che Caudo ha tenuto nei territori, in parte per conservare il più possibile le tracce del suo lavoro (che ho sempre pensato che potesse essere interrotto da un momento all’altro) ma soprattutto per capire come si poteva favorire il dialogo tra delle istituzioni che cercavano di risolvere i problemi e una cittadinanza diffidente, segnata da anni di promesse non mantenute. E se è possibile che l’assessore non abbia sempre risposto adeguatamente a delle giuste vertenze, o che ci siano stati errori e inefficienze, molto spesso ho avuto l’impressione che la distanza tra un’amministrazione alle prese con una complessità creata da situazioni stratificate da anni, e le enormi aspettative dei cittadini, fosse comunque incolmabile.
Molti comitati speravano che Caudo potesse finalmente “rimettere a posto” tanti torti e deviazioni del passato, compresi quelli che avevano ormai superato il “punto di non ritorno”, e sono rimasti delusi. Altri hanno visto con sospetto qualunque operazione che cercasse di coniugare – sia purevirtuosamente - vantaggi pubblici con finanziamenti privati, auspicando, forse giustamente, che il Comune offrisse ai cittadini spazi e servizi attingendo solo a risorse pubbliche. Altri ancora hanno giudicato il lavoro dell’assessore dall’angusto punto di vista delle loro richieste specifiche. Ma ci sono stati anche molti comitati di quartiere che hanno impostato un dialogo costruttivo che ha dato frutti.
Quello che sicuramente è mancato, da parte della città, è una percezione generale di quanto si stava facendo, e delle centinaia di criticità - in certi casi vere emergenze - che si stavano affrontando. E questo anche per la scarsa informazione dei media, che hanno sempre dedicato pagine e pagine alle buche stradali e al gossip politico e ben poche ai problemi reali dei territori.
Ci sono state anche operazioni che io stessa ho trovato discutibili, come l’aver concesso il “pubblico interesse” al progetto dello Stadio della Roma, avallando la costruzione di tre torri per compensare i costi delle opere pubbliche necessarie. Utilizzando, così, a mio avviso, la stessa pratica della “moneta urbanistica” che proprio Caudo aveva rimproverato a chi l’aveva preceduto, che in questo caso secondo lui è giustificata dalla necessità di cogliere le opportunità offerte ai privati dalla legge nazionale per portare a casa un risultato utile a tutta la città. Il limite di questo ragionamento – che ahimè è stato ancora una volta riesumato per la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024 – potremmo vederlo tra qualche mese, quando nella stanza dei bottoni arriveranno i nuovi responsabili designati dalla prossima maggioranza, che non è detto che interpretino il pubblico interesse e la regia pubblica nello stesso modo dell’assessore Caudo.
E dispiace che l’“operazione Stadio della Roma”, anche per l’incombere simbolico di quelle torri, abbia fatto passare in secondo piano i molti risultati raggiunti, i progetti dannosi cancellati, o quelli nuovi messi in cantiere. Come il progetto, abortito per mancanza di tempo e di fondi – grazie ai ritardi del Governo - del “Giubileo di strada e di piazza” che aveva previsto piazzali, parchi e spazi pubblici, come “lascito duraturo” dell’evento religioso straordinario nelle periferie.
Ma non sono stati raccontati alla città neppure i percorsi tracciati per avviare una riflessione collettiva sul futuro di Roma e dei suoi abitanti. Uno di questi - le conferenze urbanistiche – si è concretizzato in 75 incontri presso i Municipi, a cui hanno partecipato più di 2000 persone, che hanno predisposto 15 carte dei valori municipali. Un tentativo di sollevare lo sguardo oltre i problemi contingenti dei territori e disegnare insieme scenari futuri, che avrebbe dovuto poi sfociare in una conferenza urbanistica della città.
Non so quante delle voci critiche, vedendo come è andata a finire, oggi abbiano qualche ripensamento.
Ma, a giudicare dalla folla che è venuta a salutare Caudo giovedì scorso, partecipando a un’iniziativa un po’ improvvisata negli ex stabilimenti militari del Flaminio, mi sembra che l’assessore, un bel pezzo di città, alla fine l’abbia conquistato. In sala c’erano tanti comitati che venivano da molti quartieri anche lontani, associazioni, i suoi collaboratori insieme a funzionari e dipendenti del dipartimento, rappresentanti dell’Acer (sì, i costruttori, quelli medi e piccoli, che gli volevano portare le betoniere sotto l’assessorato), alcuni assessori con cui ha condiviso fino all’ultimo l’impegno per la città – Estella Marino e Francesca Danese – molti presidenti, assessori e consiglieri dei Municipi, e tantissimi cittadini, architetti, urbanisti, studenti. E il clima era autenticamente commosso, perché chi era lì, lo era solo per testimoniare la sua solidarietà e la sua stima a un uomo che di lì a poco non sarebbe più stato assessore. Un riconoscimento che io penso si meriti fino in fondo.
E al Sindaco Marino, vittima delle trame di tanti potentissimi nemici - senz’altro molti nemici anche di Caudo - ma anche di se stesso, non perdono di non aver abbracciato fino in fondo, e fin dall’inizio, il coraggio del suo assessore.
A tutti gli altri non perdono di aver permesso che la città perdesse Giovanni Caudo. E il pensiero che non sia più nel suo ufficio, a lavorare con il suo staff per cercare con fatica, pazienza e caparbietà, di risolvere qualche insolubile problema, mi fa salire un magone insopportabile.
Anna Maria Bianchi Missaglia è la portavoce del Laboratorio Carteinregola, ma queste riflessioni sono scritte a titolo personale
Il nostro rischio di cancro è solo un sintomo, del vero cancro che si sta mangiando il territorio che abbiamo sotto i piedi, e che alimentiamo anche con le abitudini di consumo: più che mai insomma è ancora valida la famosa massima secondo cui il personale è politico. Today, 2 novembre 2015
Perché di che mondo ci parlava, quella OMS mondiale per definizione e che di mondiale deve per forza avere la prospettiva? Ci parlava di un mondo dove quote assolutamente maggioritarie delle proteine animali desinate all'alimentazione umana viaggiano su filiere che paiono studiate apposta per riprodurre il peggio della logica industriale: dall'accaparramento di vastissimi territori remoti, strappati agli agricoltori tradizionali e convertiti in gigantesche macchine da allevamento tritatutto; ai sistemi di alimentazione del bestiame, ingollato a milioni e milioni di esemplari in batteria peggio delle peggiori oche da fois gras delle leggende; alle fucine di satanasso della lavorazione e distribuzione finale del frullato industriale, con la ciliegina dell'etichetta-logo e della pubblicità magari salutista-tradizionale (un bel panorama agreste sulla confezione non si nega a nessuno).
Tutto questo per una clientela prevalentemente urbana, che nulla sa dei criteri di sfruttamento delle risorse agricolo-territoriali, e si immagina magari sul serio che quel brandello di bestia che gli fuma nel piatto guarnito di verdure e aromi, venga davvero dall'animale sorridente disegnato in etichetta, da quegli sfondi collinari col casale in prospettiva, dal tizio baffuto col cappello di paglia delle pubblicità interpretato da un attore professionista. Nulla sa, quella clientela urbana che rischia il cancro, al 15% o 10% in più o chissà quanto, i calcoli sono ovviamente perfettibili, del fatto più importante: il cancro vero è quello delle forme di produzione, delle quantità di proteine animali indispensabili a garantire quei prezzi e quel mercato, nell'attuale modello alimentare. Semplicemente, se ci fosse sul serio la famosa produzione locale sostenibile, a chilometro zero, magari dentro qualche «greenbelt» metropolitana dove è possibile l'allevamento da carne, il cotechino col purè (o l'hamburger, o il prosciutto, o la bistecca) lo assaggeremmo poche volte l'anno, pagandolo un occhio come merita, esattamente come i nostri nonni quando la filiera produttiva assomigliava parecchio a quel modello. Quello che ci dice implicitamente, il comunicato dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, è che il nostro rischio di cancro è solo un sintomo, del vero cancro che si sta mangiando la terra che abbiamo sotto i piedi, e che alimentiamo anche con certe pessime abitudini alimentari e di consumo. Una volta capito questo, poi, torniamo pure a sfottere, a dare dei pervertiti ai vegetariani o a chiunque discuta di ambiente o etica, siamo in democrazia e possiamo pure farlo, no?
Ancora una volta, una puntuale analisi di una legge applaudita da tutti i verdi, verdastri, verdagnoli. Evidentemente senza averla letta con attenzione e fidandosi delle buone intenzioni. Speriamo leggano adesso. Con postilla contenente il testo del ddl C2039
Nell’aula di Montecitorio sta per cominciare la discussione sul progetto di legge governativo per il contenimento del consumo del suolo (C. 2039). La prima proposta era stata presentata dal ministro delle Politiche agricole del governo Monti, Mario Catania, tre anni fa, nel novembre del 2012. Da allora ci sono stati due cambi di governo (Letta e Renzi), mentre la proposta di legge è rimasta sostanzialmente ferma nelle commissioni riunite VIII e XIII della Camera. Solo recentemente ha subito un’accelerazione, insieme a un vistoso peggioramento.
Comincio ricordando il percorso in tre atti che dovrebbe portare al contenimento del consumo del suolo (il traguardo è quello fissato dall’Unione europea di un consumo del suolo = 0 entro il 2050):
Un percorso in tre atti (impuri)
3. il terzo atto riguarda la riduzione del consumo di suolo dalla scala regionale a quella comunale, il che avviene con provvedimento delle Regioni e delle Province autonome (art. 3, c. 8).
Come si vede, è uno di quei meccanismi a cascata – Stato, Regioni, Comuni – che non hanno mai funzionato, figuriamoci in questa circostanza, quando sotto tiro sono quell’immane coacervo di interessi che comprende (per dirla con Valentino Parlato) gli stati maggiori e le fanterie della proprietà fondiaria.
Entrando nel merito, penso che uno scrupoloso ministro delle Politiche agricole possa decretare senza particolari problemi, entro un anno dalla entrata in vigore della legge, di quanto debba essere ridotto il consumo di suolo a livello nazionale. Una decisione che può avere una positiva ricaduta sull’opinione pubblica e non dovrebbe suscitare rilevanti ostilità.
Meno scontata è la decisione della Conferenza unificata che dovrebbe deliberare la ripartizione fra le Regioni del consumo di suolo stabilito a livello nazionale. Prevalendo sicuramente le Regioni più sensibili agli interessi del mondo dell’edilizia, la Conferenza potrebbe non deliberare entro i previsti 180 giorni dal decreto ministeriale. In tal caso dovrebbe intervenire un decreto del presidente del Consiglio, dopo aver acquisito il parere della Conferenza unificata (art. 3, c. 6).
Lo stesso dovrebbe succedere se le Regioni non determinano, entro i successivi 180 giorni, la ripartizione a scala comunale del consumo di suolo stabilito per ciascuna regione. Anche in questo caso, il potere sostitutivo è esercitato dal presidente del Consiglio previo parere della Conferenza unificata (art. 3 c. 9).
Questo è il punto. Per quanto ne so, in materia di politica del territorio, il potere sostitutivo dello Stato ai danni delle Regioni non è mai stato esercitato, basta ricordarsi delle generalizzate e mai sanzionate inadempienze regionali in materia di piani paesistici ex lege Galasso. Per non dire dei piani paesaggistici ex Codice del paesaggio.
Rigenerazione della speculazione
I compendi agricoli neorurali (art. 6), di cui ha scritto su queste pagine (30 gennaio 2015) Cristina Gibelli, sono una micidiale novità che riguarda la possibile trasformazione dell’edilizia rurale in attività amministrative, servizi ludico-ricreativi, turistico-ricettivi, medici, di cura, eccetera. Una legge che nasce dal ministero dell’Agricoltura per “promuovere e tutelare l’attività agricola, il paesaggio e l’ambiente” (art. 1) consente viceversa la distruzione dell’attività agricola e dei relativi insediamenti rurali.
Ancora più inquietante l’altra novità, introdotta nelle ultime settimane, in materia di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate (art. 5). Si tratta di una delega al governo a emanare, entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi volti a “semplificare le procedure per gli interventi di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate …”. È una delega in bianco. I principi e criteri direttivi si limitano a richiedere che:
· siano garantiti interventi volti “alla rigenerazione delle aree urbanizzate degradate attraverso progetti organici relativi a edifici e spazi pubblici e privati, basati sul riuso del suolo, la riqualificazione, la demolizione, la ricostruzione e la sostituzione degli edifici esistenti, la creazione di aree verdi, pedonalizzate e piste ciclabili, l’inserimento di funzioni pubbliche e private diversificate volte al miglioramento della qualità della vita dei residenti”;
· i progetti “garantiscano elevati standard di qualità, minimo impatto ambientale e risparmio energetico, attraverso l’indicazione di precisi obiettivi prestazionali degli edifici, di qualità architettonica perseguita anche attraverso bandi e concorsi rivolti a professionisti con requisiti idonei, di informazione e partecipazione dei cittadini”.
Nella delega al governo non c’è traccia del rapporto che gli interventi di rigenerazione devono avere con la disciplina urbanistica. Si devono rispettare gli standard ambientali ma non quelli urbanistici. Sono esclusi solo i centri storici e i beni vincolati “salvo espressa autorizzazione della competente sovrintendenza” (ci mancherebbe). Non ci sono limiti dimensionali, si possono radere al suolo e rifare intere parti di città e paesi. Non sono richiesti impegni circa l’uso sociale e l’accessibilità. Sono ignorate le Regioni e i relativi poteri in materia. Insomma, non è difficile immaginare che le norme emanate dal decreto legislativo finiranno per costituire un “pacchetto” di criteri in deroga alla strumentazione urbanistica comunale.
Devo aggiungere che le norme dell’art. 5 sulla rigenerazione delle aree urbane degradate (evidentemente aggiunte all’ultimo momento su sollecitazione dei costruttori, che stanno scoprendo il bello del recupero) non sono coordinate con quelle del precedente e preesistente art. 4 sulla priorità del riuso. Che impone alle Regioni di incentivare i comuni a promuovere strategie di rigenerazione urbana mediante l’individuazione di “ambiti urbanistici da sottoporre prioritariamente a interventi di ristrutturazione urbanistica e di rinnovo edilizio”. È appena il caso di aggiungere che gli artt. 4 e 5 sono vere e proprie invasioni nel campo della legislazione urbanistica. Sconcerta che ciò avvenga sotto l’egida del ministero dell’Agricoltura e non mi libero dall’idea che l’autentico obiettivo del legislatore sia il rilancio della più spregiudicata attività edilizia, dentro e fuori il perimetro delle aree urbanizzate: dentro con gli interventi di rigenerazione, fuori con l’invenzione dei “compendi agricoli neorurali”. E che a detto obiettivo sia funzionale la manifesta inconcludenza delle norme relative al contenimento del consumo del suolo.
Infine, a definire il carattere a un tempo pretestuoso e propagandistico della proposta sta il fatto che è stata vergognosamente ignorata la legge urbanistica della Regione Toscana (n. 65/2014).
Una legge, grazie ad Anna Marson, “filosoficamente ecologista”, ha scritto su eddyburg (13 maggio 2015) Ilaria Agostini, che traccia (per mano dei comuni) una linea rossa tra aree urbanizzate e aree rurali, e ne impedisce il superamento: nessun nuovo edificio residenziale né altri interventi che vìolino i principi del grande piano paesaggistico regionale.
Ciò che bisogna fare per evitare il disastro del pianeta e dei suoi abitanti (con un'omissione). Un testo da distribuire nelle piazze, nelle scuole e nei mercati. QualEnergia, settembre ottobre 2015, con postilla
Il mondo arriva decisamente impreparato al prossimo vertice di Parigi. Se i ripetuti allarmi di tanti scienziati, e non solo di quelli IPCC (Intergovernmental Panel for Climate Change), ha fatto breccia sulla parte più avvertita, ma non certo sulla maggioranza, dell’opinione pubblica, inconsapevolezza e irresponsabilità dominano a livello planetario l’establishment politico. Il quale è stato sì edotto del problema e non può più far finta di ignorarlo (anche se al suo interno le lobby negazioniste continuano a esercitare una massiccia influenza); ma continua per lo più a trattare i cambiamenti climatici, che sono già in corso, come tutti possono constatare, e non riguardano solo un remoto futuro, come una “grana” di cui ci si deve occupare quando viene messo all’ordine del giorno, e che richiede tutt’al più qualche misura e qualche investimento ad hoc; non un cambiamento radicale, e in tempi brevi, di tutto l’assetto non solo economico produttivo ma anche sociale.
La conseguenza di tutto ciò è che il pubblico non è stato messo in grado, nemmeno dalle trasmissioni e dagli articoli più seri e informati, di rendersi conto che “niente tornerà più come prima”. E questo, sia che la Terra continui imperterrita la sua marcia verso la catastrofe climatica, sia che finalmente si imponga un cambio di rotta come quello che molti si aspettano dal vertice di Parigi. E’ un po’, ma in una scala enormemente maggiore, lo stesso atteggiamento che si è andato consolidando di fronte alla crisi del 2008, che per molte economie del mondo si è andata trascinando fino ad oggi.
Se andiamo a vedere quali sono gli ambiti, le filiere, i settori che oggi dipendono maggiormente dai combustibili fossili – e che quindi richiedono con maggiore urgenza una rapida e radicale riconversione – non è difficile individuarne quattro; oltre, ovviamente, la generazione elettrica.
Innanzitutto la mobilità: il modello fondato sulla motorizzazione individuale non è sostenibile e l’alimentazione elettrica dei veicoli non ne cambierebbe sostanzialmente l’impatto. Una vettura ogni due abitanti (la media dei paesi sviluppati; l’Italia ha un tasso di motorizzazione ancora più elevato) in un pianeta che tra trent’anni ospiterà dieci miliardi di esseri umani (per poi, finalmente fermarsi), oltre a consumi insostenibili, che metterebbero a dura prova la possibilità di garantirli con fonti rinnovabili, non troverebbero suolo sufficiente per muoversi né per parcheggiare.
In secondo luogo i consumi del settore civile: edilizia residenziale e di servizio, soprattutto per quanto riguarda riscaldamento e climatizzazione: anche in questo campo le tecnologie per ridurre drasticamente i consumi, e per convertirli alle fonti rinnovabili o a un uso diffuso della cogenerazione sono ampiamente testate, sia sulle nuove costruzioni che sugli edifici esistenti, di qualsiasi epoca. Ma diffonderle su tutto il patrimonio esistente è un’impresa titanica: non solo per l’entità dell’investimento, che richiederebbe comunque una complessa articolazione per ripartire la spesa tra intervento pubblico, incentivazione dell’investimento privato e soluzioni finanziarie ad hoc. Ma l’articolazione riguarda soprattutto il mix di fonti rinnovabili, di interventi impiantistici, di ristrutturazioni edilizie, di soluzioni finanziarie e soprattutto di strumenti di comunicazione e di divulgazione che richiedono un approccio specifico, non solo edificio per edificio e territorio per territorio, ma anche interlocutore per interlocutore: diverso è ovviamente l’approccio a una proprietà individuale, a un condominio, a una piccola o media impresa, all’unità locale di un grande gruppo.
Oggi gli interventi vengono per lo più promossi e proposti in ordine sparso, mentre attrezzare squadre pluridisciplinari di tecnici in grado di fare un check-up integrato e una progettazione di massima degli interventi possibili in ogni edificio è la premessa perché ciascuno - proprietari, inquilini, amministratori, imprenditori, manager e dipendenti – si confronti con la responsabilità di rendere sostenibile la porzione di territorio in cui vive e lavora. E’ poi più che ovvio che dal punto di vista occupazionale un intervento a tappeto di questo genere è la premessa per un grande piano pluriennale in grado di creare milioni di posti di lavoro e di compensare qualsiasi perdita occupazionale derivasse dal ridimensionamento dei settori più direttamente legati all’uso dei combustibili fossili.
In terzo luogo - ma forse al primo – occorrerà rivoluzionare le nostre abitudini alimentari. Oggi, in media, per ogni caloria di cibo che arriva sulla tavola di un consumatore occidentale (o dalle abitudini alimentari occidentalizzate), ne vengono consumate nove-dieci di origine fossile: concimi, pesticidi, motorizzazione, trasporto (anche intercontinentale), stoccaggio, manipolazione, confezione, imballaggio e pubblicità rendono il sistema agroalimentare insostenibile. La filiera agroalimentare dovrà cambiare radicalmente: l’agricoltura dovrà essere ecologica (usando fertilizzanti naturali e privilegiando la protezione biologica delle colture), multicolturale, per salvaguardare la fertilità dei suolo, multifunzionale, per garantire ai produttori fonti di reddito diversificate, di prossimità per evitare costi di trasporto e stoccaggio eccessivi.
In gran parte questa trasformazione dipenderà dalle scelte dei consumatori, che dovranno associarsi per garantirsi attraverso un rapporto il più diretto con i produttori, un’alimentazione di qualità, a basso impatto ambientale, prodotta il più possibile da aziende agricole e di trasformazione di prossimità: il che potrebbe cambiare radicalmente l’aspetto del territorio periurbano delle città grandi e piccole, a partire dalla grande diffusione che stanno avendo gli orti urbani, che impegnano spesso in modo condiviso gli stessi consumatori finali in forme che segnano un cambiamento radicale di filosofia e stile di vita.
Ma un cambiamento del genere dovrebbe anche segnare il progressivo ridimensionamento del ruolo di quei templi moderni del consumo che sono il super e l’ipermercato, o il centro commerciale, intorno a cui il capitalismo degli ultimi decenni ha riorganizzato non solo la geografia dei centri urbani (con la desertificazione commerciale di interi quartieri e la scomparsa dei negozi di vicinato) e con essa la quotidianità del cittadino-consumatore costretta a gravitare intorno a questi poli di attrazione, ma anche la struttura planetaria della produzione. Oggi la grande catena di distribuzione, che serve milioni di consumatori, che si approvvigiona in tutto il mondo da decine di migliaia di fornitori che può coinvolgere e abbandonare in qualsiasi momento, che incassa cash e paga a due o tre mesi, sviluppando un’enorme potenza finanziaria, rappresenta le caratteristiche peculiari di un’economia globalizzata assai più dell’industria automobilistica che aveva fornito il modello di organizzazione del lavoro durante tutto il “secolo breve” del fordismo.
Infine viene la gestione dei rifiuti, che sono le miniere del futuro, mano a mano che le vene di minerali che oggi alimentano l’industria si assottigliano, rendendo sempre più ardua e costosa l’estrazione, e che le risorse rinnovabili utilizzate per sostituirle entrano in competizione con la produzione di cibo. Oggi è facile sottovalutare o addirittura irridere alla raccolta differenziata dei rifiuti urbani, anche da parte di quegli amministratori che ne hanno la responsabilità diretta. Perché non si coglie, e non viene spiegato, che dietro ogni chilo di rifiuti urbani ce ne sono quattro o cinque di rifiuti della produzione, che vanno anch’essi raccolti e trattati allo stesso modo (cosa peraltro assai più facile, perché vengono generati sempre in grandi lotti relativamente omogenei); che il modo migliore di trattarli non è quello di mandarli a smaltimento, ma di incanalarli direttamente verso quegli impianti che li possono rigenerare o riciclare; ma soprattutto che è solo dall’analisi del perché e come un bene si trasforma in un rifiuto che possono venire gli input di una radicale rivoluzione industriale: di una produzione che invece di promuovere l’obsolescenza dei suoi prodotto, trasformandoli in rifiuti per poterne vendere continuamente di nuovi, torni a progettarli per farli durare, per cambiarne solo le componenti logore o obsolete, o per facilitare comunque il riciclo di tutti i materiali di cui è composto il bene prodotto. In nessun campo come in questo la responsabilità di un cambiamento radicale del sistema è condivisa tra cittadini consumatori, amministratori locali, legislatore, sistema produttivo, cioè imprese, e progettisti, cioè designer. L’ecodesign oggi è un campo di azione ai margini di una cultura produttiva fondata e orientata allo spreco delle risorse. Deve diventare il nocciolo di ogni progetto di riconversione produttiva.
L’elenco delle pratiche che si dovrebbero attivare se si volesse davvero affrontare il tema trattato da Viale è quasi del tutto completo, ed è chiaramente argomentato nell’enunciazione della necessità di ciascuno degli elementi. Così com’è chiarissima la condizione di fondo che dovrebbe sorreggere il tutto: la convinzione che l’obiettivo centrale è il superamento dell’attuale modo di produrre e di consumare (che è quello del capitaliso giunto alla sua ultima incarnaziome). Manca però un elemento: la necessità di adottare il metodo e gli strumenti della pianificazione del territorio, a tutte le scale dell’habitat dell’uomo. Se il territorio è una realtà olistica solo un metodo e un insieme di strumenti capaci di governare la complessità sono capaci di ordinare tra loro i vari elementi: dalla mobilità delle persone e delle cose alla distribuzione delle abitazioni e delle attività, dalle regole per le costruzioni e i manufatti a quelle per conservazione/utilizzazione delle risorse naturali ecc. L’abolizione della pianificazione del territorio e la liquidazione delle competenze in materia delle istituzioni democratiche ha costituito un passaggio essenziale nella corsa all’appropriazione individuale dei patrimoni e delle risorse comuni.
Quando a speculare è la pubblica amministrazione. Non per soddisfare bisogni dei cittadini, ma per far quadrare bilanci. Il territorio ci perde sempre, i cittadini due volte: perdono un bene pubblico e si ritrovano con un debito di 36 milioni. E la storia continua. La Nuova Venezia, 1 novembre 2015 (m.p.r.)
Venezia. Non sono spiantati come Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni nel film I soliti ignoti ma restano la banda del buco. Un signor buco, quello del Palacinema del Lido: uno sbancamento ripristinato, un nulla di fatto costato 36 milioni di euro, pagati da voi che state leggendo. Questo vergognoso esempio di spreco è raccontato da Sergio Rizzo e Giancarlo Carnevale, ex preside di architettura, in 8 terrificanti minuti, registrati su Youtube il 3 giugno scorso. Provate ad ascoltarli.
«Mostro Marino. Dopo Prodi e Letta, il premier miete un'altra vittima senza apparire. Per «il nuovo Pd» rovesciare governi fuori dalle aule e senza dibattito pubblico è ormai una prassi. Un partito post-democratico, e anzi, tout court, antidemocratico». Il manifesto, 1° novembre 2015, con postilla
Venerdì, a Roma, il progetto renziano di manomissione della nostra democrazia ha compiuto un nuovo salto di qualità. O, forse meglio, ha rivelato – nell’ordalia rappresentata sul grande palcoscenico di Roma capitale – la propria natura compiutamente post-democratica e anzi tout court anti-democratica.
Di Ignazio Marino sindaco si può pensare tutto il male possibile: molte sue politiche sono state discutibili e anti-sociali (in primis la questione della casa), alcuni suoi comportamenti incomprensibili, la sua ingenuità (o superficialità) imperdonabile, la sua inadeguatezza evidente. E l’accettazione nella sua squadra di uno come Stefano Esposito insopportabile.
Ma la ferocia con cui il Pd, su mandato del suo Capo, ha posto fine alla legislatura in Campidoglio supera e offusca tutti gli altri aspetti. Sostituendo all’Aula il Notaio. Al dibattito pubblico la manovra di corridoio e il reclutamento subdolo dei sicari (arte in cui Matteo Renzi eccelle, avendola già sperimentata prima con Romano Prodi e poi con Enrico Letta).
E colpendo così non tanto, e comunque non solo, «quel» Sindaco (che pure a molti voleri del Pd era stato fin troppo fedele), ma il principio cardine della Democrazia in quanto tale. O di quel poco che ne resta, e che richiederebbe comunque che la nascita e la caduta degli esecutivi – nazionali e locali – avvenisse nell’ambito degli istituti rappresentativi costituzionalmente stabiliti in cui si esercita la sovranità popolare. Con un voto palese, di cui ognuno si assume in modo trasparente e motivato, la responsabilità.
Così non è stato.
Nella stagione impegnativa — per compiti da svolgere e affari da sfruttare – del Giubileo la Capitale sarà amministrata e «governata» da un dream team (o nightmare team?) non di rappresentanti del popolo ma di fiduciari del Capo, chiamati con logica emergenziale a «gestire l’impresa» in nome non tanto del bene pubblico ma dell’efficienza.
Della composizione del team già se ne parla: oltre all’inossidabile Sabella, il prefetto renziano Francesco Paolo Tronca, fresco della Milano di Expo e Marco Rettighieri, ex supermanager di Italferr, uomo Tav, quello che ha sostituito come direttore generale costruzioni dell’Expo Angelo Paris dopo il suo arresto per corruzione e turbativa d’asta…
Un bel pezzo della «Milano da mangiare» – del «paradigma Expo» – trapiantata a Roma, a far da matrice del nuovo corso della Capitale, ma anche — s’intende – del Paese.
Ed è questo il secondo anello della cerchiatura della botte renziana. O, se si preferisce, il passaggio con cui si chiude il cerchio del mutamento di paradigma della politica italiana: questo utilizzo del «modello Expo», costruito come esempio «di successo», generato e poi certificato dal mercato, e (per questo) proposto/imposto come forma vincente di governance da imitare e generalizzare.
L’operazione era stata favorita, non so quanto consapevolmente, dall’infelice esternazione di Raffaele Cantone, in cui si contrapponeva Milano come «capitale morale» a una Roma «senza anticorpi»: infelice perché sembra fortemente «irrituale», per usare un eufemismo, e comunque molto inopportuno, che colui che dovrebbe sorvegliare e garantire il rispetto della legalità prima, durante e dopo un’opera ad alto rischio come l’Expo, beatifichi la città che l’ha organizzato e ospitato e, reciprocamente, che ne venga beatificato, proprio alla vigilia di un periodo in cui la magistratura dovrebbe essere lasciata assolutamente libera di procedere a tutte le proprie verifiche e in cui l’Agenzia che egli dirige dovrebbe operare come mai da tertium super partes (che succederà, per esempio, se le inchieste in corso su corruzione, peculato, truffa, ecc. dovessero concludersi con verdetti di colpevolezza: la dovremmo chiamare «Mafia Capitale Morale»?).
Ma tant’è: il cliché coniato da Cantone è entrato alla velocità della luce a far parte del dispositivo narrativo renziano sulle meraviglie del rinascimento italiano. E su come questo possa tanto più agevolmente e soprattutto velocemente dispiegarsi quanto più si eliminano gli ostacoli della vecchia, accidiosa e fastidiosa democrazia rappresentativa (quella, appunto, che produce i Marino), e si adottano, in alternativa, le linee degli executive di turno, magari arruolando in squadra le stesse «autorità indipendenti» che dovrebbero esercitare i controlli.
Personalmente mi ha turbato la quasi contemporanea dichiarazione di Cantone sulla propria intenzione di abbandonare l’Associazione nazionale magistrati, rea di aver mosso (caute) critiche al governo… E anche questo è uno scatto – se volete piccolo, ma inquietante – nella chiusura della gabbia che ci sta stringendo.
postilla
Revelli dice, giustamente, che «la Capitale sarà amministrata e "governata" non dai rappresentanti del popolo ma da fiduciari del Capo». Non è una logica nuova né per il Capo, né per la storia. Il Capo pratica questa logica in tutti i suoi atti che riguardano l'ordinamento dello Stato: dalla scuola agli ospedali, dai ministeri alle istituzioni una volta elettive. Sta realizzando una struttura piramidale, in cui gli occupanti dei posti di comando (dal capo ai capetti ai capettini ai sottocapettini) siano collegati tra loro dall'investitura (dall'alto verso il basso) e dalla fedeltà (dal basso verso l'alto). Si chiama, nei libri di storia, "regime feudale". Questo modello di regime non è di per sé molto solido. Spesso è stato consolidato da un elemento soprannaturale, oggi da due elementi: il ricatto (almeno in Italia) e l'Unione europea, a sua volta sottordinata ai Mercati. Ma l'elemento che garantisce di più la solidità dell'edificio è l'ideologia. Quella dominante ha annullato tutte le atre, e una ideologia differente, ampiamente condivisa, fatica molto a formarsi.
«La polemica non si placa. Crovato (Lista Brugnaro): “Atto dovuto, il Tar ci darebbe torto”. L’urbanista Stefano Boato: “È una scelta politica, le norme in vigore consentono di dire di no”» La Nuova Venezia, 29 ottobre 2015 (m.p.r.)
Venezia. I cambi d’uso non si fermano. E in consiglio comunale stanno per arrivare due nuove delibere proposte dalla giunta che consentono di trasformare in pezzi di hotel appartamenti finora abitati da famiglie di residenti. La municipalità di Venezia-Murano-Burano ha dato parere negativo. La commissione urbanistica ha dato il via per la discussione in consiglio comunale, nonostante il parere negativo delle opposizioni (Lista Casson, Pd e Movimento Cinquestelle).
«Atto dovuto», si sono giustificati i consiglieri di maggioranza, in testa il capogruppo della Lista Brugnaro Maurizio Crovato e il vice Renzo Scarpa. «Dal punto di vista etico la Municipalità ha ragione», dice, «ma il Tar non avrà la nostra visione politica e le carte danno ragione ai richiedenti. E poi sono accorpati da anni agli alberghi. Dal 2010 al 2014 il Comune ha concesso 2950 cambi d’uso».
«Ma non è vero», replica l’ex assessore all’Urbanistica e capogruppo del Pd Andrea Ferrazzi, «la gran parte di quegli atti non c’entrano con questo discorso. Sono errori tecnici che sono stati corretti». Fatto sta che i primi due atti portati in commissione Urbanistica dall’amministrazione Brugnaro riguardano la trasformazione di due appartamenti in hotel o loro depandance. Uno al ponte delle Guglie, secondo piano di un palazzetto dove ha sede l’hotel Biasin. L’altro in calle delle Rasse, tre appartamenti adiacenti all’hotel Danieli. Davvero un atto dovuto? L’articolo 21 delle norme Tecniche di Attuazione allegate alla Variante del Piano regolatore prevede che gli appartamenti con superficie inferiore ai 120 metri quadrati siano vincolati a residenza. Ma la stessa norma prevede anche la «scappatoia». «Nelle unità edilizie dove i due terzi della superficie abbiano destinazione diversa da quella abitativa può essere eccezionalmente autorizzato il mutamento d’uso delle parti restanti dell’edificio». Serve il parere della Commissione scientifica e il parere favorevole del Consiglio comunale.
Ma si tratta comunque di una “possibilità”, non di un obbligo. La prova è che non è un provvedimento firmato dai tecnici ma di una delibera. «È così», dice Stefano Boato, urbanista ed ex assessore all’Urbanistica, «volendo quella norma può essere cambiata in due minuti. Fino al 1997 vincolava tutti gli immobili usati come residenza, non solo quelli affittati. Poi le cose sono cambiate, ma la possibilità di intervenire c’è ancora. È una scelta politica, e stiamo parlando del problema più importante per la città storica: fermare l’esodo degli abitanti. Lo diciamo a parole da anni, ma non si fa».
Il Fatto quotidiano, 29 ottobre 2015
Il capogruppo di Sinistra ecologia e libertà (Sel) a Montecitorio,Arturo Scotto, non ha dubbi: “C’è un cavallo di Troia nascosto nella Legge di stabilità”. Che nel marasma di articoli, commi e rinvii a leggi e regolamenti contenuti nelle prime bozze del provvedimento, sarebbe passato pure inosservato. Se i deputati di Sel non se ne fossero accorti, denunciandone la presenza e, soprattutto, l’obiettivo: accelerare nella costruzione del Ponte sullo Stretto attraverso il coinvolgimento diretto di Cassa depositi e prestiti (Cdp), società controllata dal ministero dell’Economia e partecipata al 18,4% dalle fondazioni bancarie, nella realizzazione dell’opera.
PONTE IN CASSA – La norma ‘incriminata’, secondo i vendoliani, si anniderebbe nel quinto comma dell’articolo 41(Investimenti europei e Istituto nazionale di promozione) della Legge di Stabilità. Che attribuisce alla Cdp la qualifica di “istituto nazionale di promozione” in attuazione del recente regolamento comunitario relativo al Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis). Equiparandola a quelle “entità giuridiche che espletano attività finanziarie su base professionale, cui è stato conferito un mandato da uno Stato membro o da un’entità di uno Stato membro, a livello centrale, regionale o locale, per svolgere attività di sviluppo o di promozione”.
In sostanza – è questa l’obiezione di Sel – la mission della Cassa depositi e prestiti verrebbe ampliata, attribuendole anche la funzione di “svolgere attività di sviluppo o di promozione in relazione al Feis”. Un fondo finalizzato a sostenere, tra l’altro, “progetti per lo sviluppo delle infrastrutture di trasporto” attraverso “la creazione o la dotazione di nuove infrastrutture o di infrastrutture mancanti”. Anche “aggiuntive” rispetto a quelle previste dalla Rete di trasporto trans-europea, dalle quali “il ponte sullo Stretto appare attualmente escluso”. Un’obiezione che i deputati di Sel sollevano in un’interrogazione parlamentare (primo firmatario Scotto) al presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e ai ministri dell’Economia e delle Infrastrutture, Piercarlo Padoan e Graziano Delrio. Proprio per chiedere conto, innanzitutto, “dell’inserimento nell’ambito del disegno di legge di stabilità 2016” delle “proposte relative alla richiesta di accelerazione sul progetto del Ponte sullo Stretto”.
PENALI DELLA DISCORDIA – Ma leperplessità di Sel riguardano anche un altro aspetto. Quello delleeventuali penali che lo Stato dovrebbe pagare nel caso di abbandono del progetto. “Uno dei principali motivi addotti dal ministro dell’Interno (Angelino Alfano) per sostenere la realizzazione dell’opera– si legge nell’interrogazione – è che, piuttosto che pagare delle penali, sarebbe preferibile costruire il ponte”. Eppure, le principali associazioni che da sempre vigilano sulla discussa infrastruttura (Fai-Fondo ambientale italiano, Italia Nostra, Legambiente, Man-Associazione ambientale per la natura eWwf), sottolineano i deputati di Sel, ritengono “che non debba essere pagata nessuna penale”. E già un anno fa avevano inviato una lettera al premier Renzi e all’allora ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, per chiedere un incontro proprio per affrontare la questione. Una lettera con la quale informavano il governo che, dagli incontri avuti con il commissario liquidatore della società Stretto di Messina, Vincenzo Fortunato, con il capo di gabinetto del ministro delle Infrastrutture, Giacomo Aiello, e con l’allora responsabile della Struttura di missione del dicastero di Porta Pia, Ercole Incalza, era emersa “la comune convinzione” che l’abbandono del progetto non avrebbe comportato alcuna penale a carico dello Stato.
PROGETTO INCOMPLETO – Non solo. Dal momento della consegna da parte del general contractor (Eurolink, l’Associazione temporanea di imprese capeggiata da Impregilo che nel 2005 vinse l’appalto per la costruzione del ponte) a Stretto di Messina spa del “progetto definitivo completo di tutti i documenti e delle integrazioni eventualmente richieste”, il contratto stipulato nel 2006 stabilisce, in caso di inadempienza, l’obbligo di versare ad Eurolink “solamente le prestazioni correttamente eseguite al momento del recesso, nonché un aggravio del 10% rispetto alla somma totale delle prestazioni”.
Secondo i deputati di Sel “il progetto definitivo non può essere considerato ‘completo’ se mancano le integrazioni” relative all’ulteriore fase della procedura di Via (Valutazione di impatto ambientale). Una situazione che non cambia neppure per effetto dell’atto integrativo del 2009 al contratto del 2006, che introduce la nuova fattispecie di “progetto definitivo dell’opera intera”, riducendo, in caso di recesso, dal 10 al 5% l’indennizzo per le spese sostenute, in aggiunta al pagamento delle prestazioni già eseguite, in favore di Eurolink. Ma, progetto “completo” o progetto “intero” che sia, la sostanza resta la stessa: mancando sia l’uno che l’altro, si sostiene nell’interrogazione, a carico dello Stato “non c’è alcuna penale da pagare”. Altro aspetto imoprtante della vicenda è che, alla richiesta di un incontro avanzata dalle associazioni ambientaliste il governo non ha mai dato risposta.
STRANA COPPIA – A sorprendere i deputati di Sel è stata, però, anche un’altra circostanza. Sottolineata con un ulteriore quesito al governo: come è stato possibile passare tanto rapidamente dalle posizioni espresse dal ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, disponibile a rivalutare l’opportunità del progetto del Ponte sullo Stretto, “al celere affidamento del compito di valutare il progetto alla Cassa depositi e prestiti”? E il sospetto di Scotto è quasi una certezza: “Il Nuovo centrodestra di Angelino Alfano ha ottenuto il via libera ad una mozione votata in Parlamento che impegna il governo a prendere in considerazione la realizzazione dell’opera, sebbene per via ferroviaria – spiega a ilfattoquotidiano.it –.
E, allo stesso tempo, tra i pizzini inviati da Denis Verdini al premier Matteo Renzi sulla Legge di Stabilità, è spuntata in cima alla lista larichiesta di rispolverare il Ponte sullo Stretto”. Insomma, una convergenza di centro-destra, quella tra Ncd e Ala, all’interno di una maggioranza teoricamente di centrosinistra, a tirare i fili della discussa infrastruttura.“Il tutto, mentre con una norma sulla Cassa depositi e prestiti, che ne cambia la mission riducendo l’autonomia di decisione del ministero delle Infrastrutture – conclude il capogruppo alla Camera di Sel – si infila nella Legge di Stabilità un cavallo di Troia che potrebbe aprire la strada ai desiderata della strana coppia Alfano-Verdini”.
Dal punto di vista del progetto di architettura con premesse urbanistiche, si ripete il dilemma iniziale: un modello suburbano monouso, o la complessità plurifunzionale metropolitana post-industriale? Intervista di Andrea Montanari, la Repubblica 30 ottobre 2015, con postilla (f.b.)
«PER vivere, l’area deve diventare un pezzo di città. Milano sfrutti la grande sfida della Città metropolitana». L’archistar Vittorio Gregotti, autore, tra l’altro, del progetto Bicocca che ridisegnò nel 2000 il quartiere dell’ex stabilimento della Pirelli nella periferie Nord Ovest di Milano, con la costruzione del teatro degli Arcimboldi che ospitò la Scala durante il rifacimento del palcoscenico, suggerisce un’idea per il dopo Expo. «L’Expo è stato un successo, ma per il dopo non basta il campus universitario, serve un progetto di vent’anni».
C’è il rischio che l’area diventi una cattedrale nel deserto?
«Milano ha di fronte una grande sfida. Quella di essere diventata ufficialmente una città metropolitana. Con una scala dimensionale e di abitanti molto più ampia. Credo che per il dopo Expo la soluzione giusta sia quella di sfruttare questa prospettiva e pensare di trasformare quel pezzo della città».
Una città satellite?
«No, ma in quell’area non c’è solo il comune di Rho, ci sono alcuni villaggi anche abbastanza importanti che nella prospettiva della città metropolitana potrebbero diventare dei centri secondari di Milano».
Come?
«Per fare questo bisogna evitare che quell’area si trasformi in una periferia abbandonata e non farsi illusioni che questo avvenga in sei mesi. Inoltre non bisogna commettere l’errore di pensare che basti fare di quell’area un campus universitario o un centro di ricerca».
Perché?
«Il progetto della Bicocca è la dimostrazione di come un quartiere di periferia può tornare a vivere. Un campus universitario e un centro di ricerca vanno benissimo, ma coprirebbero solo una piccola parte dell’area. Con il rischio che dalle sette di sera tutto si trasformi in un deserto. Alla Bicocca abbiamo costruito un teatro che funziona ancora adesso. Il quartiere vive oltre all’università. L’unica soluzione perché il dopo Expo resti vivo è farlo diventare un pezzo di città».
In che senso?
«L’università può essere un elemento strettamente collegato, ma non può essere l’unico. Il quartiere Bicocca vive ora perché ci abitano diecimila persone e c’è una grande banca».
Alcuni padiglioni resteranno come Palazzo Italia, secondo lei, che cosa si dovrebbe costruire?
“E pensare che era uno dei peggiori… Certo potranno semplificarlo. Per il resto non resterà più quasi nulla. Ecco perché dico che il dopo Expo deve essere l’occasione per costruire nuove case. Negozi, uffici. Bisogna pensarlo come un progetto metropolitano e polifunzionale e lavorarci. Ma per fare queste cose occorrono vent’anni».
Tutti, però, sostengono che non bisogna perdere tempo.
«Serve un progetto di lungo termine. Mi auguro che la società proprietaria dell’area sia in grado di portare avanti un progetto progressivo. Se hanno un problema di fondi facciano una nuova società e facciano entrare come soci le banche creditrici. Quell’area va messa sul mercato. E il progetto del governo mi sembra ridicolo. Con la densità dei centri urbani vicini e della periferia di Milano non si può pretendere di iniziare con il dire che il verde deve essere la parte prevalente ».
Lei era scettico all’inizio, invece, Expo Milano 2015 è stata un successo.
«Per certi versi lo sono ancora. Per me dal 1958 dopo quello di Bruxelles tutte le Expo sono state un fallimento. Devo riconoscere che qui Giuseppe Sala ha portato il pubblico. La gente è andata lì in massa per visitare padiglioni e mangiare in modo bizzarro. Non mi pare che ci sia stata una spinta politica nella direzione del tema per cui l’Expo 2015 era stato vinto da Milano».
postilla
Al netto di tutto ciò che si può dire dei risultati tangibili (non solo attuali) del citato progetto Bicocca, c'è da sottolineare come Vittorio Gregotti colga, la questione di fondo che ha sempre accompagnato Expo 2015, la coerenza col tema ufficiale, il suo rapporto col territorio locale: aderire al modello ultra-tradizionale del baraccone fieristico industriale specializzato, con pochi soggetti, spazi a organizzazione introversa, e relativa precarietà e bassa resilienza, oppure cercare integrazione – non solo spaziale ovviamente - con l'area metropolitana e la regione urbana, magari recuperando anche quel filo diretto con l'eccellenza delle produzioni agricole locali che l'evento ha declinato quasi solo sul versante mediatico? In altre parole, il riuso del sito verrà gestito in una logica da gigantesco «office park», così come l'Esposizione ha scelto ahimè un impianto propriamente da parco tematico suburbano, oppure si sapranno cogliere seriamente tutti gli elementi innovativi nel lavoro, nell'ambiente, nella residenza e servizi, offerti dalle tecnologie e dalle pratiche sociali di fatto già affermate? Questo, significa (o può significare) realizzare l'auspicato mixed-use nel Post-Expo (f.b.)
Il progetto del nuovo aeroporto di Firenze è un concentrato di illegalità. Un masterplan, cioè un progetto preliminare, presentato ... (continua a leggere)
Il progetto del nuovo aeroporto di Firenze è un concentrato di illegalità. Un masterplan, cioè un progetto preliminare, presentato alla Valutazione di impatto ambientale al posto del progetto definitivo. Uno studio di impatto ambientale lacunoso e su dati non completi o non aggiornati. Una Valutazione ambientale strategica su una pista di 2000 metri e non di 2400 come quella sottoposta a VIA. Un piano di utilizzo delle terre di scavo assente, nonostante che per legge la sua presentazione «deve avvenire prima dell'espressione del parere di valutazione ambientale» (art 5, Decr. Min. 161/2012): con la beffa del Comune di Firenze che chiede che il piano sia elaborato «nelle fasi successive della progettazione», cioè quando nessuno potrà controllare alcunché, seguendo una prassi che è stata sperimentata con risultati disastrosi nella realizzazione della Tav in Mugello. Queste sono solo alcune delle torsioni, omissioni, forzature che Enac e Aeroporto di Firenze stanno perpetrando ai danni dei cittadini con la regia del Ministero dell'Ambiente e nel colpevole silenzio della Regione Toscana, che così anticipa la "riforma Boschi", quando le opere di interesse nazionale saranno di esclusiva competenza dello Stato.
Di fronte a un progetto che impatta violentemente sulla sicurezza idraulica della piana fiorentina e sulla salute degli abitanti, i Comuni interessati e le associazioni ambientaliste hanno chiesto all'Autorità alla partecipazione lo svolgimento di un Dibattito pubblico, previsto dalla legge toscana, prendendo, ahiloro, seriamente, un impegno ufficiale della Regione Toscana, sancito nella Variante al Pit che ha dato il via all'aeroporto; richieste rigettate, con la motivazione che avendo rifiutato Adf di mettere a disposizione il progetto e di partecipare, il dibattito sarebbe stato inutile. L'Autorità, tuttavia, in una lettera indirizzata al Presidente Rossi ha ritenuto “auspicabile” che la Regione Toscana promuovesse “una consultazione pubblica, volta a permettere ai cittadini e alle cittadine di essere informati debitamente sul progetto in questione e ad esprimersi su di esso". Ma Rossi ha taciuto e tace tuttora, mandando un chiaro segnale politico; né l'Autorità ha avuto uno scatto di orgoglio, prendendo una propria iniziativa.
Vanificato il Dibattito pubblico nonostante gli impegni, rimaneva un'ultima chance, che uno o più Comuni chiedessero all'Autorità di indire un "processo partecipativo", una forma minore di dibattito che tuttavia non necessita della collaborazione del proponente; così ha fatto il Comune di Calenzano, con l'adesione delle associazioni, ambientaliste. Ma è notizia freschissima che anche questa richiesta sarà probabilmente respinta perché nel frattempo la Regione ha operato un robusto taglio ai fondi a disposizione dell'Autorità. Nessuna forma di partecipazione allora? I diretti interessati non hanno neanche diritto a essere informati? Lo sta facendo Toscana Aeroporti , che ha nel frattempo inglobato Adf, con una mostra nella centralissima piazza della Repubblica di Firenze, dove i cittadini vengono edotti che il nuovo aeroporto ridurrà il rischio idraulico, migliorerà la qualità dell'aria, produrrà più di 2000 nuovi posti di lavoro, un vero toccasana. Toscana Aeroporti riempie a pagamento la pagine dei grandi quotidiani nazionali e, conseguentemente, viene censurata ogni voce di dissenso. La Regione non mantiene fede né alle sue leggi, né alle sue delibere. Il messaggio è chiaro: una vera forma di partecipazione non s'ha da fare, né domani, né mai. Lasciamo ai lettori indovinare chi è il don Rodrigo che dall'alto del suo castello conduce la manovra; e chi è don Abbondio. Quanto ai bravi ve ne sono così tanti che è impossibile individuarli tutti.
Il nostro futuro è già lì, ed è peggio del presente raccontato da James Ballard. «John Banville recensisce il nuovo romanzo di Joseph O’Neill ambientato negli Emirati Arabi fra grottesche pacchianerie e trappole finanziarie». La Repubblica, 28 ottobre 2015
Joseph O’Neill, L’uomo di Dubai (Codice, trad. di T. Pincio pagg. 288, euro 18,90)
L’ossessione degli anni ‘50 per la fantascienza, alimentata dalla paranoia da guerra fredda, il terrore della bomba e il sogno di un mondo nuovo, sgargiante, pulito e senza limiti, produsse una serie di riviste meravigliosamente strampalate. I racconti che c’erano dentro erano quasi sempre trascurabili (o forse eravamo troppo giovani per apprezzarli?), ma chi può dimenticare le illustrazioni in copertina, che raffiguravano le città fantastiche di un futuro lontano, con grattacieli alti un chilometro e mezzo, viadotti che si libravano tra le nuvole, automobili volanti e treni che solcavano i cieli. Oggi, vedendo le fotografie di Dubai, noi della vecchia generazione ci stropicciamo gli occhi per essere sicuri di non sognare. In questa città nel deserto, il futuro, che ai tempi della nostra gioventù sembrava impossibilmente lontano, o semplicemente impossibile, è già arrivato: ed è un futuro (chi lo avrebbe immaginato?) grottescamente pacchiano.
Joseph O’Neill, per un lampo di ispirazione, ha ambientato il suo nuovo romanzo, L’uomo di Dubai , a Dubai, appunto. I libri per cui è più famoso, il pluripremiato La città invincibile e quello precedente Blood-Dark Track , sono incentrati sui luoghi e l’assenza di luogo. Niente di strano, considerando che le sue origini, come Blood-Dark Track illustra doviziosamente, sono un groviglio inestricabile: uno dei suoi nonni era un uomo d’affari turco un po’ losco, l’altro era un nazionalista irlandese e militante dell’Ira.
L’anonimo avvocato svizzero- americano originario di Zurigo che fa da narratore in L’uomo di Dubai (è lui The Dog del titolo inglese), ha un nome che inizia per X, e per comodità lo chiameremo così. Ha lasciato New York e si è stabilito, se stabilito è la parola giusta, fra le discutibili meraviglie di Dubai, dopo la fine disastrosa e umiliante di una storia di nove anni con Jenn, anche lei avvocatessa esperta di diritto societario. Uno dei problemi insolubili della coppia, anche se non esplicitamente dichiarato, è che fra i due Jenn è quella che ha più successo sul lavoro, e di sicuro è più determinata, per non dire spietata. In realtà la sua durezza Jenn la espleta non soltanto nella vita professionale, ma anche nei rapporti con il nostro sventurato eroe. Quando la loro storia finisce, dopo che X decide, in stile Bartleby, che donare un campione di sperma non fa per lui (una splendida scena comica a cui O’Neill avrebbe potuto dare maggior rilievo), lei svuota il loro conto, lasciandolo senza un soldo.
Per sua fortuna, almeno in apparenza, X incappa in un vecchio amico dei tempi in cui era studente in Irlanda, tale Eddie Batros, rampollo di una ricchissima famiglia libanese; questo Eddie poco dopo gli offre un lavoro come «amministratore fiduciario della famiglia Batros». Per svolgere questo lavoro X deve trasferirsi a Dubai.
O’Neill tira fuori una cosa che assomiglia molto, anche in questa fase prematura della sua esistenza, a un capolavoro di comicità. Lo stile che ha congegnato per il suo racconto semidistopico è uno splendido amalgama fra il demotico e il leccatino. Si avvertono echi di Ballard e Martin Amis (che bieco divertimento avrebbe Amis a Dubai!), di Bellow e Nabokov, di Woody Allen e Don DeLillo, e di Philip Roth quando era comico, di Wittgenstein – sì, Wittgenstein – e di William Butler Yeats.
O’Neill è uno di quei rari scrittori che non si lasciano innervosire dalla ricchezza e dalle infinite potenzialità del linguaggio letterario. Qui ci sono frasi di tale tortuosa complessità, anima di versioni degne del Proust più verboso, che a due terzi del cammino la mente dà forfait: ma la pancia ride. L’uomo di Dubai è causticamente spiritoso come il miglior cabaret. È anche beatamente disinteressato alla trama (la vita ha forse una trama?), come in una delle immense opere dell’ultimo Henry James.
La cosa divertente (amaramente divertente) è che Dubai, come il resto del mondo, dopo il Grande Crac del 2008 aveva frenato di brutto, e forse sarebbe sprofondata senza lasciar traccia nelle sabbie dell’Arabia se i suoi vicini degli Emirati Arabi Uniti, meno smodati e più ricchi, non avessero messo mano alla loro larga dotazione di petrodollari per salvarla dai suoi stessi eccessi. X, però, è fedele al suo luogo di rifugio, che si rivelerà, anche se lui non lo sa, fin troppo temporaneo. «Non mi schiero con i denigratori», dichiara.
Questo non gli impedisce di vedere la sconfortante iperbolicità del luogo: «La missione non dichiarata di Dubai è rendersi indistinguibile dal suo aeroporto». O’Neill si trastulla largamente con le peculiarità delle usanze e costumanze locali. Alla fine X finirà dritto in una, o anche più d’una, trappola legale, quando la famiglia Batros sarà sorpresa con le mani nel sacco e lui sarà il capro espiatorio.
L’uomo di Dubai, come scopriamo pian piano, è una sorta di trappola per gli sprovveduti. In superficie sembra una commedia, brillantemente lavorata ma ordinaria, sulla mascolinità post-femminista, dove un homme moyen sensuel , inoffensivo, benintenzionato ma impacciato, più Candido che Caligola, va a cozzare con i costumi, o la mancanza di costumi, dei tempi moderni.
Ma la superficie nasconde oscure profondità. Nelle pagine di apertura del libro, X racconta delle sue visite (alla disperata ricerca di qualcuno che gli spieghi perché è Jenn a sentirsi umiliata dalla fine della loro relazione) a siti «dedicati ai progressi moderni della psicologia» e in particolare forum dove giungere alla saggezza attraverso le esperienze condivise di altri. Ma quello che trova è una Babele infuocata di accuse, recriminazioni e veri e propri abusi, che, confessa, fa paura a guardarla.
Dato che come sempre le variabili ambiente, risorse, salute, territorio, economia e società si tengono, qualche precisazione sulla faccenda salamini o cotechini buoni o cattivi serve. La Repubblica, 27 ottobre 2015, postilla (f.b.)
La conferma che la carne rossa, soprattutto se lavorata, è da considerare una sostanza cancerogena è una notizia che va interpretata positivamente. Segna infatti una vittoria della scienza sulla malattia e non certo dei vegetariani sui carnivori. Non sarà infatti con la sognata pillola antitumore che risolveremo l’endemia del cancro sul pianeta, ma identificando ad una ad una le cause di ogni tumore, per eliminarle.
Troppo spesso il cancro è ancora oggi uno spettro che si materializza al solo evocarlo, vissuto intimamente come una maledizione o una iattura. Ricondurlo a un fenomeno umano che ha un inizio, cioè una causa, uno sviluppo e quindi anche una fine, cioè la guarigione, è fondamentale per tutti: malati, familiari, medici. L’annuncio che viene diffuso oggi dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il più autorevole organismo a livello mondiale in materia, segna dunque una pietra miliare per la prevenzione, la cura e la cultura del cancro.
È una tappa che in molti, come me, si aspettavano da tempo. Da oltre vent’anni anni io sostengo, sulla base dei primi studi epidemiologici che lo Iarc ha ora messo insieme ed analizzato, che esiste un legame causa-effetto fra consumo di carne e tumore del colon. All’inizio sono stato criticato, anche duramente, e sono stato accusato di essere un visionario, influenzato dalle mie convinzioni etiche di animalista. Ma non ero intellettualmente solo: eminenti ricercatori a livello europeo hanno sviluppato i lunghi e complessi studi di popolazione necessari a stabilire la cancerogenità di una sostanza o un alimento, tanto che già nel Codice Europeo contro il Cancro — dieci raccomandazioni di prevenzione per ridurre del 20% la mortalità per cancro in europa entro l’anno 2000 — diffuso dalla Commissione Europea per la prima volta nell’87, figurava al punto tre l’invito a mangiare più vegetali e cereali e al punto quattro la raccomandazione di limitare il consumo dei grassi contenuti principalmente nella carne.
Se dunque la cancerogenità della carne da oggi non è più in dubbio, la discussione si apre ora sulla quantità che la rende pericolosa. Medici e ricercatori a livello internazionale si sono impegnati ad evitare gli allarmismi che potrebbero spingere a pensare che una singola fetta di salame possa essere causa diretta di un tumore al colon. Nessuno afferma che sia così. L’invito è piuttosto ad una riduzione progressiva del consumo di insaccati e carne rossa, a favore di un aumento del consumo di pesce, verdura, frutta, cereali, grassi di origine vegetale. La nostra dieta mediterranea, in sostanza. Più vegetali e meno carne dovrebbe diventare non un diktat scientifico antimalattia, ma una politica per il benessere, adottata nelle scuole, nelle mense aziendali, nei ristoranti, per penetrare a poco a poco nelle famiglie e diventare cultura. Come oncologo sono fondamentalmente d’accordo con questo approccio educativo. Ma come uomo e cittadino di questo pianeta, la penso diversamente.
Il mio mondo ideale è un mondo in cui non si uccidono gli animali per ingoiarli e dunque in cui il consumo di carne è uguale a zero. Primo perché amo gli animali e dunque non li mangio. Non capisco coloro che si scandalizzano all’idea di mangiare il proprio gatto o il proprio cane, ma consumano a cuor leggero le costolette di agnello, un cucciolo delizioso e indifeso che viene massacrato strappandolo dal seno materno a pochi mesi di vita. Ritengo che gli esseri viventi facciano parte dell’equilibrio del Pianeta e i loro diritti vadano rispettati. Prima di tutto quello alla vita. Secondo, perché la carne non è un alimento sostenibile in un universo dove oggi vivono 7 miliardi di esseri umani e oltre 4 miliardi di animali da allevamento e fra poche decine d’anni, se il trend demografico continua con le attuali caratteristiche, vivranno 9 miliardi di uomini e la domanda di carne aumenterà dagli attuali 220 milioni di tonnellate a più di 460 milioni. Si prospetta l’incubo di avere più capi di bestiame che uomini sulla Terra, con una percentuale di questi esseri umani che moriranno comunque ancora di fame Come diceva Einstein, niente può aumentare le possibilità di sopravvivenza dell’uomo sulla terra quanto la scelta vegetariana.
postilla
Il professor Veronesi con questo articolo ci parla di due cose che conosce molto bene di prima mano: le patologie tumorali, e sé stesso, a cui dedica la coda del pezzo, anche a distinguere fatti da posizioni e opinioni personali. Vale certamente la pena di aggiungere un'altra coda, correttamente (stavolta) omessa dal professore per incompetenza, ed è la variabile territorio/ambiente, quella altrettanto saltata a piè pari da chi fa del sarcasmo sulle raccomandazioni dell'Oms a proposito dei consumi di carne: l'insostenibilità per la salute umana è prima di tutto una insostenibilità ambientale. Emissioni di gas serra, consumo di territorio da agro-industria e/o landgrabbing, devastazioni di paesaggi tradizionali per far posto a impattanti macchine produttrici di proteine e grassi animali da alimentazione, Expo baraccone e promozione di hamburger multinazionali. Tutto questo entra a pieno titolo nelle raccomandazioni Oms, perché quello da cui ci stanno mettendo in guardia è che il panino col salame, evocato dalle memorie della nonnina che ce lo metteva nel cestino della merenda, è solo ideologia. Aprire gli occhi, qualunque reazione poi ci evochi, è quantomeno un passo avanti (f.b.)
Le ragioni del movimento contrario all'evento dovevano essere interpretate a partire da una contraddizione di fondo: non si organizza una esposizione sui temi della sostenibilità pensando in termini insostenibili. Today blog Città Conquistatrice, 26 ottobre 2015
Escono in questi giorni le rilevazioni di medio periodo sull'andamento degli affari negli esercizi commerciali di Milano, e si nota come i mesi del grande evento espositivo abbiano o meno avute effetti di stimolo sulle economie cittadine. Le interviste ai campioni di turisti sembrano quasi completamente soddisfacenti, nel senso che la quasi totalità «promuove» Milano, le sue particolarità storiche e curiosità, l'offerta culturale delle mostre ed eventi collaterali. Questo entusiasmo però non parrebbe complessivamente riguardare il genere di cose di cui bene o male si alimenta la cosiddetta economia turistica, quella fatta di ristorazione, shopping eccetera. Lo dicono i baristi e i titolari di negozi, soprattutto fuori dal piccolissimo nucleo del centro e dei suoi triangoli magici degli stilisti e concentrazioni di folle. E viene di nuovo da ripetere quella specie di nenia del «noi l'avevamo detto», o per meglio specificare l'aveva detto in fondo fin dall'inizio l'opposizione dei No Expo.
Certo, come tutte le posizioni variamente nimby e negazioniste, anche quella del movimento contrario all'evento doveva-poteva essere interpretata, più che alimentata o contrastata, dato che c'erano ottime ragioni, a partire da una contraddizione di fondo: non si organizza una esposizione sui temi della sostenibilità pensando in termini insostenibili. Pare una contraddizione diciamo così filosofica, se non campata decisamente per aria, ma non lo è affatto. «Nutrire il Pianeta – Energia per la Vita» nel XXI secolo evoca immediatamente, specie per un pubblico di massa mediamente istruito e interessato, stili di vita e alimentazione in qualche misura innovativi, futuribili, sperimentali, certamente diversi dalla pura pappatoria, sia essa quella della trattoria dell'angolo che della pausa pranzo tramezzino in ufficio. E invece fin da subito le cosiddette «strategie» prevalenti negli organizzatori, foraggiate dalle multinazionali, hanno remato nell'altra direzione. Quando al progetto del cosiddetto Orto Planetario, molto leggero e organizzativamente diffuso, si è preferita la classicissima Fiera della Pappatoria dentro il suo recito da parco tematico.
Quando, in pratica, si è rinunciato a sfruttare in sinergia quella risorsa che era il territorio urbano e agricolo della metropoli, scegliendo invece il modello del centro commerciale suburbano chiuso nella propria scatola luccicante, che offre tutto e il contrario di tutto con comodi parcheggi e offerta tre per due. Culturalmente, e poi in modo automatico anche nei criteri organizzativi e negli equilibri, si è finito così per replicare il classico processo di concentrazione/svuotamento che da almeno mezzo secolo mette la grande distribuzione sia contro i produttori e trasformatori di materie prime, sia contro gli esercenti tradizionali. Quella specie di Disneyland costruita fra i due tracciati autostradali ai limiti dell'area urbana, svolge perfettamente quel ruolo di aspiratore di tutto quanto, e insieme di banalizzazione, essendo progettata da manuale in quel modo. E tradisce il proprio ruolo dichiarato, anche se poi ospita dotti convegni sull'ambiente e la sostenibilità, i quali convegni e dichiarazioni non intaccano lo slogan alla McLuhan: «il medium è il messaggio». Ecco dove avevano assolutamente ragione, e ancora ce l'hanno, i No Expo: anche alla luce delle apparentemente pretestuose polemiche degli esercenti locali, appare evidente che si devecambiare strada, e farlo abbastanza alla svelta.