loader
menu
© 2024 Eddyburg

Stanno scoppiando una a una le cariche a orologeria dirette a sabotare i pilastri dell'urbanistica pubblica (e di qualsivoglia idea di città) messe dai liberisti rampanti all'epoca dei cosiddetti «Piani Integrati»? Alessia Gallione e Fulvio Irace, La Repubblica Milano, 7 gennaio 2016, postilla (f.b.)

CATELLA: «NON SONO IL PADRONE,
MA SOLO UN ARTIGIANO DELLA CITTÀ»
di Alessia Gallione


Porta Nuova lancia la fase “4”: e dopo Garibaldi, le ex Varesine e l’Isola, il quartiere simbolo della “nuova Milano” punta ad allargarsi verso via Melchiorre Gioia. Si parte dalla torre dell’Inps acquisita dalla società di Manfredi Catella che, dopo aver sviluppato e venduto Porta Nuova al fondo sovrano del Qatar ha coinvolto in questa operazione un altro pezzo di Golfo: il fondo sovrano di Abu Dhabi. L’obiettivo: «Ricucire anche quest’area parzialmente irrisolta con il resto della città», dice Catella. Che, però, spiega: «Non sono il nuovo padrone di Milano, ma solo un artigiano che vuole rinnovarla».
Il quartiere è destinato ad allargarsi verso via Melchiorre Gioia. Con un primo tassello: la torre dell’Inps acquistata - per il fondo Porta Nuova Gioia - dalla Coima sgr guidata da Manfredi Catella. Un altro pezzo di città destinato a cambiare e a farlo anche con investitori internazionali: dopo aver venduto Porta Nuova al fondo sovrano del Qatar, infatti, Catella ne ha coinvolto un altro in questa operazione, quello di Abu Dhabi.

Manfredi Catella, è il nuovo padrone della città?«Per niente. Noi siamo solo professionisti e lavoriamo per conto di investitori di tutto il mondo. Io non sono personalmente proprietario, mi sento un artigiano che lavora sul territorio per conto dei propri clienti».

Che differenza c’è, quindi, tra lei e gli immobiliaristi del passato alla Ligresti che hanno segnato le sorti di interi quartieri di Milano?«La differenza è semplice e riguarda due fattori per me fondamentali: qualità e reputazione. Con Porta Nuova ci siamo presi la responsabilità di riportare la qualità del costruire bene la città in chiave contemporanea. Può piacere o non piacere, ma l’impegno è evidente e ha contribuito a dare lustro internazionale a Milano. In queste due parole c’è tutto: significa anche essere trasparenti, operare con le regole del mercato».

Che progetto avete per la torre dell’Inps?«Per il momento abbiamo fatto studi per verificare le dimensioni che l’edificio potrà avere e altri per la zona pedonale e gli attraversamenti. Quella è un’area in parte irrisolta: la nuova sede della Regione ha creato un polo importante, ma poi ci sono altri edifici non utilizzati, dall’Inps alla Torre Galfa».

Quella zona, in realtà, è lo storico centro direzionale della città. Nella sua visione, che cosa dovrà diventare?«Con Porta Nuova abbiamo costruito un nuovo, importante, centro direzionale, ma anche realizzato un mix tra residenze, commercio, cultura. È una strada auspicabile perché è la varietà che crea la vitalità di una città. In questo caso, credo che la vocazione naturale rimarrà direzionale e commerciale, con innesti di abitazioni come per il progetto che stanno sviluppando realtà cinesi a fianco dell’edificio del Comune di via Pirelli. Adesso bisogna riuscire a ridare alla zona una propria identità, a ricucirla con la città: è il lavoro fatto con Porta Nuova».

Sembra disegnare un piano più ampio del palazzo dell’Inps: vuol dire che non vi fermerete qui?«Guardiamo sicuramente ad altri edifici in zona perché vorremmo completare il lavoro di riqualificazione del quartiere. Tre anni fa, ad esempio, abbiamo comprato da un fondo tedesco insieme a investitori istituzionali italiani un immobile in via Gioia: dopo una ristrutturazione integrale oggi ospita un hotel e uffici. Un ruolo importante lo avrà anche Unipol, che possiede tre indirizzi strategici: uno all’interno di Porta Nuova, uno in via De Castillia e la Torre Galfa».

Il nuovo design della torre Inps sarà affidato a Cesar Pelli, l’architetto dell’Unicredit Tower e del masterplan Porta Nuova. Perché abbattere e ricostruire, però? Non si poteva salvaguardare un pezzo della Milano degli anni ‘60?«Guardi, mi considero un agnostico in questo. Ci sono edifici che hanno un valore storico che va preservato ed è quello che abbiamo fatto con un monumento come l’ex Palazzo delle Poste di Ferrante Aporti di cui ci siamo occupati. Altri immobili sono semplicemente vecchi e hanno caratteristiche che li limitano. Nel caso dell’Inps non avremmo potuto garantire elevati standard di efficienza».

Ma in questo modo non si rischia di perdere la memoria della città?«Qualsiasi città è un organismo vitale che si rinnova. Milano è passata da centro industriale a terziario, dai servizi agli abitanti tornati in centro. La qualità si fa anche abbattendo e ricostruendo. Preservare è solo una parte della storia».

Siete arrivati alla fase “4”: perché questo sviluppo a pezzi?«Una visione generale ce l’avevamo fin dal primo giorno, ma la proprietà dell’area era molto frammentata. Di fatto non avevamo un foglio bianco su cui disegnare, ma tante tessere e il mosaico poteva essere formato solo mettendo insieme pezzi diversi per genesi ed evoluzione. L’amministrazione, però, ha cercato di garantire un disegno unitario e vincoli precisi».

Eppure una critica riguarda propria la mancanza di una visione generale.«Non sono d’accordo. Con Porta Nuova abbiamo creato un dialogo virtuoso con il pubblico e cercheremo il confronto con il Comune e la Regione anche per la torre Inps. Il successo del progetto non sarà solo costruire un bell’edificio, ma progettare la parte pubblica, connetterlo con la città».

L’operazione degli scali ferroviari è rimandata, ma le aree, a cominciare da via Farini, sono strategiche. Potreste investire anche lì?«Il nostro mestiere è fare sviluppo immobiliare. Sicuramente osserviamo con attenzione quello che accadrà».

I RISCHI DELLA COLONIZZAZIONE:
IL COMUNE NON DICE QUAL'È LA SUA STRATEGIA
di Fulvio Irace

Nella seconda metà degli anni degli anni 50 Milano provò a essere internazionale: dopo aver superato brillantemente la fase della ricostruzione, si trovò infatti a cavalcare l’euforia dell’imminente miracolo economico. E il simbolo più ovvio della rinascita della “città che sale” fu il rilancio del grattacielo e delle torri nello skyline di una Milano che sognava di diventare metropoli. Qualcuno di quei sogni si concretizzò in periferia – nella Metanopoli di Mattei - qualcuno nel cuore della città antica (la torre Velasca); ma il nido dove gli architetti depositarono per lo più le loro ambizioni di grandezza fu l’area del cosiddetto centro direzionale: una sorta di moderna città degli uffici, quasi una city ai margini della città storica, a ridosso della stazione Centrale e di piazza della Repubblica.

Nel 1954 la Torre Breda di Luigi Mattioni rimase per quattro anni l’edificio per abitazioni più alto d’Italia; nel 1959, la Torre Galfa di Melchiorre Bega la tallonò per poco e tutte e due furono superate nel 1960 dal grattacielo Pirelli di Ponti e Nervi. Attorno ad esse si annidarono, poco alla volta, una serie di edifici di varie dimensioni, ma tutti improntati all’estetica della torre di vetro sulla suggestione del modello americano: gli Uffici tecnici del Comune degli architetti Gandolfi, Bazzoni, Fratino e Putelli che fungevano da nuova “porta” dell’asse di Gioia; il palazzo Galbani di Soncini e Pestalozza in via Filzi; i complessi di Menghi, Righini e Valtolina, lì accanto; e la più modesta torre dell’Inps di Giordani, Susini e Vincenti in via Melchiorre Gioia 22, di cui si è appena annunciata la demolizione per far posto a una torre ultramoderna dell’architetto autore della Unicredit tower, Cesar Pelli.

Al di là del valore del singolo edificio, ce n’è abbastanza per riconoscere all’intero distretto un suo carattere unitario, un valore ambientale sempre più evidente e unico proprio a fronte delle radicali trasformazioni innescate dalla gigantesca operazione del cantiere Porta Nuova.

Sull’onda del suo successo, il progetto di riqualificazione urbana che troverebbe il suo fulcro nella costruzione di un nuovo complesso sulle ceneri dell’ex Inps punta dunque a estendere la colonizzazione della città postmoderna sui resti di quella moderna. Negli anni 50, si voleva dimostrare che alla città di pietra del fascismo si potesse sostituire una città trasparente e democratica; oggi si vuole dichiarare inadeguato e fuori moda tutto ciò che non corrisponda ai nuovi parametri di efficienza energetica, performatività funzionale, estetica del translucido e del colossale.

L’operazione non nasce ora, ma proprio quando, nel 2012, l’Inps annunciò la dismissione dei suoi headquarters e la vendita dell’edificio del 1955 al Carlyle Group, controllata da Real Estate Sgr. Qualcuno forse ricorderà che fu promosso un concorso a inviti: furono invitati dieci gruppi ( tra cui il milanese Caputo Partnership) e individuato come vincitore il francese Jean Michel Wilmotte. Al posto di un edificio, ne sarebbero sorti due; il vecchio complesso di quindici piani sostituito da una lastra di 84 metri.

Dopo l’annuncio e la promessa del Comune di inviare osservazioni in merito, un lungo silenzio, interrotto proprio ora dalla promessa del presidente della Coima Ssgr (la società che ha acquisito l’immobile), Manfredi Catella, di voler procedere a un piano complessivo di riqualificazione a partire dalla demolizione dell’edificio e dalla riconversione di altri palazzi limitrofi.

Se è noto il programma, non sono noti i piani e in particolare il progetto affidato alle cure di Cesar Pelli: è chiaro però che si è scartata sin dall’inizio la strada del restauro o dell’”aggiornamento” tecnologico come ad esempio nel complesso di via Gioia 8, progettato nel 1970 da Marco Zanuso e “rivisitato” da Park Associati, o nella piccola torre di via Filzi 23 con la sostituzione degli infissi e dei vetri di facciata.

Ma, se nel caso di Porta Nuova si trattava di riedificare quasi dal nulla un nuovo pezzo di città, in quello dell’ex edificio Inps si propone un intervento che va a incidere su una parte di città che ha invece un carattere molto preciso e ormai anche storicizzato. Al di là delle legittime aspirazioni dell’imprenditoria privata, ci si chiede se l’ente pubblico (il Comune, ma anche la Soprintendenza) abbiano una strategia o almeno una visione per questa area di Milano con caratteri ambientali tanto forti e caratterizzanti. Si sono calcolati o previsti gli effetti a catena che un metodo di sostituzione caso per caso comporterebbe nello stravolgere l’assetto ambientale della zona? Chi si oppone al cambiamento è spesso tacciato di essere un “gufo”: ma chi si oppone a discutere le forme del cambiamento non rischia forse di dilapidare il patrimonio come una “cicala”? Un dibattito pubblico sull’area del centro direzionale potrebbe essere, alla vigilia delle elezioni per il nuovo sindaco, un bel terreno di confronto per chi crede ancora nel valore collettivo dell’urbanistica e dell’eredità urbana.

postilla

Fulvio Irace osserva giustamentecome occorra «riconoscere all’intero distretto un suo carattereunitario, un valore ambientale sempre più evidente e unico proprio afronte delle radicali trasformazioni innescate», ma forse c'èqualcosa di più da aggiungere, a questa idea di urbanistica che infondo resta pur sempre ancorata a quella di architettura, ed è unpossibile sgretolamento di qualsiasi strategia di sviluppo. Uno deilibri sui temi urbani di maggior successo di questa stagione, è«City on a Grid» di Gerard Koeppel (Da Capo Press, 2015), chericostruendo le tappe attraverso cui New York è diventata ilparadigma della città moderna, individua come invariante – ovvia,ma forse non a sufficienza – proprio quella struttura a scacchieradell'impianto viario, decisa da un giurista liberale giàestensore della Costituzione degli Stati Uniti, Gouverneur Morris, eche ha attraversato praticamente indenne due secoli di pur radicalitrasformazioni, sia nella composizione spaziale «sovrastrutturale»che nelle innovazioni tecnologiche, dalla ferroviaall'elettrificazione alle automobili al recente revival dellamobilità dolce e della dimensione di vicinato. E la domanda, davantiallo stravolgimento urbanistico di un'area di raccordo metropolitanocome l'ex Centro Direzionale, per realizzare il quale si interrò unlunghissimo tratto del Naviglio nel dopoguerra, suona: siamo difronte a un vero e proprio attacco all'idea di città, da parte di unpensiero sventatamente liberista e reazionario? Oppure quel che ci haconsegnato la storia, urbana e non, saprà reggere come avvenutosinora con la «Griglia», a suo modo anche garanzia di un relativoequilibrio fra spazio pubblico e privato? Forse qualche rispostainizierà a emergere anche dal dibattito elettorale, e di sicurodalle scelte della prossima amministrazione cittadina, nonché dellafuturibile Città Metropolitana, di cui si sente particolarmente inquesti casi l'assenza (f.b.)

«Il grande economista Anthony Atkinson indica "che cosa si può fare". Le risposte arrivano dal passato». Se l'errore del capitalismo è nella sua stessa struttura, come si può uscire dalla crisi che ha prodotto rimanendovi dentro? un tentativo. Il manifesto, 6 gennaio 2016

Come testimoniano le gravi turbolenze che dai mercati azionari asiatici si stanno estendendo a quelli occidentali, l’anno nuovo eredita uno scenario gravido di incognite che i sintomi positivi non bastano a fugare. La decelerazione della Cina (al decimo decremento consecutivo del Pil e in cui si sono accumulate immense bolle nei settori immobiliare, bancario, finanziario) e dei paesi emergenti (con mercati che valgono il 60% del Pil mondiale e che assorbono metà delle esportazioni europee) si sta traducendo in pesante rallentamento dell’incremento del commercio mondiale.

In Europa continua ad aleggiare lo spettro della deflazione e rimane elevato il gap tra i livelli produttivi effettivi e quelli che si sarebbero raggiunti in assenza di crisi. La significativa ripresa che si registra negli Usa non è tuttavia tale da imprimere un netto impulso alle retribuzioni interne, la cui compressione è, invece, alla base di un paradossale incremento dei profitti e dei guadagni dei possessori di azioni, i quali — in mercati azionari mantenuti molto effervescenti dalle politiche monetarie “non convenzionali”, volte a creare liquidità, adottate dalle Banche centrali di tutto il mondo — hanno conosciuto il livello più alto degli ultimi due decenni.

Ma l’indicatore più eloquente della persistente drammaticità della situazione sociale è quello occupazionale: in tutto il mondo l’inoccupazione giovanile e femminile si è allargata paurosamente, la disoccupazione di lunga durata supera l’antecedente storico delle crisi petrolifere degli anni ’70, la precarietà è cresciuta esponenzialmente, in Italia raggiungendo il picco storico del 15%. La questione del lavoro è davvero la linea di faglia su cui tornano a passare discriminanti fondamentali, perché attorno ad essa si configura una vera e propria rottura nelle traiettorie di sviluppo.

In questo contesto opera un nesso strettissimo tra creazione di lavoro e rilancio degli investimenti pubblici diretti (assai più importanti della semplice riduzione delle imposte). Questa è la convinzione del grande economista Anthony Atkinson che, con singolare congiunzione di “spirito di ottimismo” e di determinazione, nel suo recente, bellissimo Diseguaglianza. Che cosa si può fare (Cortina Editore), deplora lo «stato del pensiero economico contemporaneo» tutto concentrato sul mercato del lavoro e assai disattento al mercato dei capitali, denuncia l’insufficienza quando non la fallacia delle misure standard (quali tagli delle tasse, intensificazione della concorrenza, maggiore flessibilità del lavoro, privatizzazioni), invoca «proposte più radicali» (more radical proposals) della semplice insistenza sull’elevamento dell’istruzione della forza lavoro, proposte «che ci richiedono di ripensare aspetti fondamentali delle nostre moderne società, di interrogarci sulla profondità e l’estensione delle nostre ambizioni, di respingere (to cast off) le idee politiche che hanno dominato i decenni più recenti».

Atkinson — padre spirituale di una generazione di ricercatori sulle diseguaglianze, compreso Piketty che, infatti, gli tributa grandi riconoscimenti — prende di petto il problema della diseguaglianza, interrogandosi sull’intreccio tra questioni di eguaglianza e questioni strutturali, tra problemi di redistribuzione e problemi di allocazione. In questo è più avanzato dello stesso Piketty, il quale si concentra su una considerazione delle diseguaglianze come problema prevalentemente distributivo e redistributivo da trattare ex post, non anche problema allocativo da trattare ex ante perché attinente al funzionamento delle strutture, dell’accumulazione, della produzione. Atkinson non nega certo che la redistribuzione sia questione gravissima. Ma ha profonda consapevolezza della strutturalità degli aspetti problematici del capitalismo che essa mette in gioco: ad esempio, posto che la “genialità”, se così vogliamo chiamarla, del neoliberismo è stata di inventare, per sopperire alla caduta del tenore di vita conseguente alla compressione dei salari, un nuovo elemento autonomo di domanda — il consumo finanziato con debito -, oggi il problema cruciale è intervenire politicamente su quell’intreccio tra assetti produttivi, finanza e redistribuzione che ha creato un elemento autonomo di domanda sfociato in sovraconsumo e in alterazione della dinamica dell’investimento a vantaggio della finanza e a svantaggio dell’economia reale. E questo è un problema di allocazione e di struttura.

Con il neoliberismo, dunque, Atkinson si misura fino in fondo. Se le diseguaglianze non sono un destino naturale, se esse sono incapsulate in economie e società «costruite socialmente», sono il frutto di scelte politiche. Per affrontarle con proposte valide per il presente e per il futuro dobbiamo «apprendere dal passato», ponendoci due domande: 1) perché la diseguaglianza è caduta nel secondo dopoguerra in Europa? 2) Perché il trend egualitario è stato rovesciato in uno disegualitario a partire dal 1980?

Le risposte di Atkinson sono nette. I fattori maggiormente esplicativi del periodo di riduzione delle diseguaglianze sono tutti politici: «il welfare state e l’espansione dei trasferimenti pubblici, la crescita della quota dei salari sul valore aggiunto dovuta alla forza dei sindacati, la ridotta concentrazione della ricchezza personale, la contrazione della dispersione salariale come risultato di interventi legislativi dei governi e della contrattazione collettiva sindacale». E altrettanto politiche (anche se di segno opposto) sono «le ragioni che hanno condotto a un termine il processo di equalizzazione, rovesciando nel loro contrario i fattori equalizzanti»: tagli del welfare state, declino della quota dei salari sul valore aggiunto (con una responsabilità specifica dell’incremento della disoccupazione, che dalla fine degli anni ‘70 fu vertiginoso), crescente ampliamento dei differenziali salariali, minore forza sindacale, minore capacità redistributiva del welfare e del sistema di tassazione.

La radicalità dell’analisi conduce Atkinson a un’analoga radicalità delle proposte per combattere le diseguaglianze. Per esempio la proposta che «la direzione del cambiamento tecnologico» sia identificata come impegno intenzionale ed esplicito da parte dell’operatore pubblico, volto ad accrescere l’occupazione, e non a ridurla come avviene con l’automazione, e ad enfatizzare la dimensione umana della fornitura di servizi specie se pubblici, nella convinzione che le scelte delle imprese, degli individui e dei governi possano influenzare l’indirizzo della tecnologia (a sua volta influente sulla distribuzione del reddito). O quella — memore di quando nel 1961 nel Regno Unito vigeva per i giocatori di calcio una retribuzione massima di 20 sterline alla settimana, pari alla retribuzione media nazionale — che le imprese adottino, oltre che un «codice etico», un «codice retributivo» con cui fissare anche tetti massimi alle retribuzioni dei manager pure nel settore privato. O quella di tornare a prendere nuovamente molto sul serio l’obiettivo della piena occupazione — eluso dalla maggior parte dei paesi Ocse dagli anni ’70 — facendo sì che i governi operino come employer of last resort offrendo «lavoro pubblico garantito».

Si tratta di embrioni di un «nuovo modello di sviluppo» che fanno perno sul rilancio del lavoro e della «piena e buona occupazione», non in termini irenici però, o indifferenti alle grandi trasformazioni in corso, ma nella acuta consapevolezza che la loro intrusività — la loro «rivoluzionarietà» — rispetto al funzionamento spontaneo del capitalismo è massima proprio quando il sistema economico non crea naturalmente occupazione e si predispone alla jobless society, lasciare libero spazio alla quale, però, equivarrebbe a non frapporre alcun argine alla catastrofe, anche e soprattutto in termini disegualitali.

Una notizia che non dovrebbe muovere solo le donne. Colpito non solo un pricipio costituzionale, ma anche un diritto conquistato con una lotta che è durata un secolo. Da Nathan a Tronca: un abisso. La Repubblica, 6 gennaio 2016, con postilla

Nella Roma pubblica in dissesto anche gli asili nido (0-2 anni) vengono alienati ai privati e le scuole materne (3-6 anni) riconsegnate allo Stato. Ci voleva un commissario, il prefetto Francesco Paolo Tronca, per avviare l’operazione più impopolare, impostata dalla giunta Marino peraltro: diciassette strutture per post-infanti in cinque municipi diversi sono pronte per il passaggio al privato. Tra queste, nomi storici dell’educazione infantile. È scritto nel Documento unico di programmazione comunale (2016-2018). Le liste d’attesa restano inevase, i costi generali necessari per allargare le sezioni degli asili nido — 6,5 milioni — non sono più sostenibili da un’amministrazione che viaggia con 12 miliardi di debito sulla schiena. Già. Il Campidoglio oggi gestisce 209 asili nido in città: ospitano 13mila bambini. Le strutture private e convenzionate (con il Comune) sono 221, maggioritarie quindi, ma con un numero di piccoli inferiore: settemila. Si parte con l’alienazione nell’arco del 2016 dei primi diciassette asili e si proseguirà negli anni successivi con nuove tranche. Il piano Tronca prevede, quindi, una “riconsegna totale” delle materne allo Stato.

A Roma la privatizzazione corre a fianco dell’aumento delle rette comunali, anche questo già previsto dalla giunta Marino: per l’anno scolastico 2016-2017 i canoni saliranno tra il 6 e il 12 per cento, con un aumento medio di 200 euro per famiglia. A ottobre 2014 le mamme di Roma inscenarono la plateale protesta dei passeggini sul piazzale del Campidoglio contro il “caro terzo figlio”, ma non servì a calmierare le rette. Il commissario Tronca non sta cedendo alle critiche dei partiti e dice: «Il progetto va avanti, il Comune risparmia e si creeranno posti di lavoro».

La statalizzazione delle materne comunali e la cessione della gestione dei nidi è storia delle ultime quattro stagioni italiane, riguarda le grandi città del Centro-Nord e gli indebitamenti progressivi dei Comuni gestori. Nella primavera del 2012 Piero Fassino scelse di passare al privato sociale dieci dei 54 asili di proprietà del Comune di Torino e rivendette la decisione come un’illuminata fusione dei servizi pubblico-privati: «Il sistema misto di gestione del welfare a Torino è un gioiello», disse. La verità è che nel 2012 l’amministrazione sforò il patto di stabilità e perse la possibilità di stabilizzare 340 educatrici. Le dirottò sul privato, tutelandole sul piano contrattuale e controllando l’applicazione delle tariffe. E così, nel 2012, quando a Torino si contavano 83 scuole dell’infanzia comunali e 50 statali, iniziò una seconda conversione: quest’anno ne saranno statalizzate altre cinque.

A Bologna gli asili gestiti dal Comune sono il 66 per cento. Palazzo d’Accursio spende ogni anno 38 milioni di euro, le rette coprono solo il 13% dei costi e a settembre 926 bambini (su 2.441) resteranno fuori. A Firenze, la scorsa primavera, altri due asili comunali sono passati alle coop. «Ci mancano 65 insegnanti sulla materna e 31 educatori», si giustificò il sindaco Dario Nardella. Ribellioni di sindacati e genitori per la privatizzazione italiana dei nido si sono registrate a Biella, Teramo, l’altroieri a Perugia. Questa richiesta impellente di posti ed educatori si scontra con la lacuna della Buona scuola che — per mancanza di fondi — ha chiuso le porte all’assunzione dei docenti d’infanzia. Francesca Puglisi, responsabile scuola del Pd e autrice della legge 0-6 anni per la continuità didattica, dice: «Valutiamo la possibilità di finanziare i Comuni e non più le Regioni, consentendo ai nidi pubblici di allargarsi». A giorni sarà pronto il bando del concorso per l’assunzione docenti, che comprende le scuole dell’infanzia. Se non ci sarà preselezione anche a questo livello — come ha chiesto il Pd — i vincitori del nuovo bando entreranno in cattedra nel 2017, mentre il prossimo settembre il ruolo potrebbe andare alle Gae più alte in graduatoria e ai duemila idonei del concorso 2012.

postilla

Segno dei tempi la privatizzazione degli asilie delle scuole per la prima infanzia. Segno della miseria intellettuale e umanache ottenebra le menti dei nostri governanti Ma segno anche dell’incredibile“ritorno al passato” che ne nasconde la maschera rinnovatrice, buona solo pergli stolti.


Incredibile, poi, che il segnale forte vengada Roma, la città che fu governata dal sindaco Ernesto Nathan negli anni tra il1907 e il 1912. Fu allora che a Roma s’istituirono i primi 150 asili comunali.Nathan era un sindaco che si poneva l’obiettivo di migliorare le condizioni divita delle masse che la veloce urbanizzazione aveva condotto nella città e altempo stesso di tagliare le unghie alla speculazione edilizia. Nell’Italia diRenzi e delle teste di paglia che lo sopportano si fa esattamente il contrario,senza mediazioni.

Se le istituzioni del regno renziano eliminano gli essenziali elementi del welfareconquistato nel corso di un secolo sarebbe bello se altre realtà sociali siimpadronissero delle conquiste del passato per difenderne la sopravvivenza. Nonè forse cosí che Syriza e Podemos acquistarono il consenso popolare che liportò alla vittoria elettorale?

Guardando nelle pieghe della vita della città si possono scoprire i germi della città di domani: una citta che sarà migliore per tutti se questi germi non rimarranno solo tali. Comune.info, newsletter, 4 gennaio 2015

«

Autorganizzazione, appropriazione dei luoghi e produzione di urbanità»


Le città sembrano essere intensamente attraversate, in questa fase storica, da processi e pratiche di appropriazione e ri-appropriazione dei luoghi, dei propri contesti di vita. Si tratta, in realtà, di esperienze molto diverse tra loro: dagli orti urbani alle forme di autogestione della città informale e autocostruita, dalparkour alle occupazioni a scopo abitativo, dagli spazi verdi autogestiti alle recenti occupazioni dei luoghi di produzione culturale (cinema, teatri, ecc.), dagli usi temporanei di spazi abbandonati all’utilizzazione degli spazi pubblici per attività collettive organizzate, ecc.

In questa varietà di situazioni, emergono alcune motivazioni, a diversi livelli: “di necessità”, di carattere politico e di carattere personale. Queste tre dimensioni sono in realtà inscindibili e si influenzano reciprocamente. Anzi, sono un elemento innovatore: ad esempio, l’azione e il pensiero politici sono ripensati anche in considerazione di una relazionalità profonda e di un rapporto con la vita quotidiana; così come le risposte ai bisogni sociali sono cercate all’interno di idee diverse di città e di pratiche alternative di convivenza.

Il lavoro sul campo evidenzia, però, un’altra motivazione, che emerge non solo nelle persone, ma nei collettivi, spesso nella dimensione sociale della convivenza locale, e cioè un bisogno di urbanità e di qualità di vita urbana. È un bisogno che non risponde soltanto a giuste necessità basilari, ma che si radica anche nel bisogno di una qualità dell’abitare, intesa in termini di possibilità di plasmare e qualificare il luogo in cui si vive, di sentirlo come proprio, di ricostruire un rapporto costruttivo con la città (e non semplicemente di subirlo), di parteciparee di sentirsi corresponsabile delle scelte che riguardano il proprio contesto di vita, di creare condizioni per una socialità reale e profonda, di non subire modelli eterodiretti e condizionati soltanto dalle logiche economiciste dell’interesse e del profitto, di decolonizzare l’immaginario collettivo dai modelli imposti di abitare, di dare valore alla memoria e alla bellezza, di prestare attenzione alle storie degli abitanti e alla dimensione della quotidianità, di dare forma ad una progettualità collettiva. Si tratta di dimensioni che l’attuale sviluppo della città sembra aver cancellato, e su cui converge un’attenzione che travalica le differenze sociali o culturali, perché va a interessare la persona nella sua essenza. E allo stesso tempo, quello dell’urbanità è un bisogno costitutivo dell’idea stessa di appropriazione dei luoghi e di autorganizzazione, che altrimenti non potrebbero sussistere.

Conflitti e territori

Anche la dimensione del conflitto assume caratteri diversi. Sembra assumere forme che non sono più quelle del confronto frontale sulle politiche, sostenuto da una diffusa mobilitazione sociale. Per questo motivo, in alcuni casi il conflitto sembra perdere la sua valenza politica e la sua forza euristica e costruttiva. D’altra parte, questo cambiamento può essere interpretato diversamente, e l’evoluzione del conflitto può anche rappresentare l’affermarsi di modi diversi dell’azione politica e l’esprimersi di energie innovative.

In alcune esperienze si rinuncia ad un conflitto diretto nel senso tradizionale del termine, pur mantenendo ovviamente un clima di conflittualità, per lavorare invece sulla costruzione di un’alternativa che è prima di tutto culturale e poi politica, attraverso la sua sperimentazione diretta nella pratica della propria organizzazione, attraverso la costruzione di relazioni con i propri territori di riferimento o di reti territoriali a livello cittadino e sovralocale, e – in alcuni casi – anche attraverso la ricerca di un riconoscimento istituzionale, preparato tramite un grande lavoro in campo culturale. È su questo terreno, quello dell’elaborazione culturale, ovvero dell’elaborazione di possibili innovative categorie interpretative della politica e delle istituzioni, interpretata in un senso non egemonico, ma inclusivo, che si gioca l’affermazione di un’innovazione e di un’autonomia al di fuori dei tradizionali spazi del conflitto e del confronto politico, ritenuti inadeguati e di fatto colonizzati dalla prevalenza dell’economico sul politico.

Ripensare la politica

Alcune esperienze pongono direttamente ed esplicitamente diversi interrogativi sui modi di produzione della politica e delle istituzioni, inserendosi in un vasto dibattito e diventando spesso protagonisti di una specifica elaborazione culturale. D’altronde anche le esperienze che non lo fanno esplicitamente, di fatto sollevano indirettamente il problema.

In primo luogo, un aspetto caratterizzante è la dimensione dell’azione, l’idea di costruire e realizzare la politica attraverso l’azione e la pratica. La politica si elabora e si rielabora nel farsi dell’azione.

In secondo luogo, sembra rilevante l’obiettivo di ricostruzione di uno ‘spazio pubblico’ (concetto abusato e spesso trasformato in slogan), non più come categoria astratta della modernità e luogo logoro del dibattito politico tradizionale, ma come luogo di produzione della politica che affondi le radici nelle esperienze e nelle domande della quotidianità e della convivenza, e diventi la costruzione libera di idee a partire dal confronto e dalla condivisione sulle situazioni di vita e non da ideologie precostituite. Uno ‘spazio pubblico’ quindi che si radica nelle esigenze e nelle domande delle persone nella vita di ogni giorno, che a quelle cerca risposte, che si confronta con le ragioni dell’altro, dove non è il prevalere di una posizione che importa o interessa ma il percorso del consenso, il processo che porta alla costruzione di una posizione condivisa e che risponde alle esigenze espresse e messe in comune.

In terzo luogo, mirano quindi a spostare i luoghi di produzione della politica e a ripensarne le modalità, rispetto a quelli tradizionali. Queste esperienzesviluppano quindi il tentativo di ricostruire il politico, non più come categoria autonoma con sue regole specifiche, ma come in-between, a partire cioè dal ‘sociale’, come attributo del sociale, del vivere in relazione, in una sua forma che si potrebbe considerare più “basale”.

In conseguenza di questo approccio, ed è questo un quarto punto di particolare attenzione, le esperienze di autorganizzazione pongono il problema delripensamento delle istituzioni.

Questo processo ricostruttivo che riparte dalle persone e dalle narrazioni trova la sua centralità nel territorio, come luogo della vita quotidiana, come luogo della presa diretta con i vissuti, con le esigenze personali che diventano sociali, come luogo della concretezza, dell’empatia e della convivenza. Come già molti hanno affermato, perché la politica recuperi un significato è necessario che riparta dai territori; non come localismo ma come luogo della ricostruzione di senso. Vi è la necessità di un re-incanto della politica. Il ‘territorio’, come proprio ‘contesto di vita’, rappresenta proprio il luogo e il medium di un tale re-incantamento.

L’ultimo giorno del 2015, il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, ha comunicato ... (continua a leggere)


L’ultimo giorno del 2015, il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, ha comunicato di aver trovato la soluzione per chiudere il “buco” del palazzo del cinema al Lido. Il comune, cioè, avrebbe raggiunto un accordo transattivo con l’impresa Sacaim, riconoscendole un “risarcimento” di 2,8 milioni di euro per il mancato avvio dei lavori di costruzione dell’edificio, nonché la promessa di nuove commesse che “potrebbero riguardare il palazzo dell’ex casinò”, in cambio della rinuncia alle azioni legali intraprese dalla ditta.

Secondo Brugnaro si tratta di un risultato straordinario di fronte all’entità del “contenzioso e dei contratti ereditati” dalla sua amministrazione, che non è direttamente responsabile della vicenda. L’origine del “buco”, infatti, risale agli anni del terzo mandato del sindaco Massimo Cacciari che aderì alla pretesa della Biennale di avere un nuovo palazzo del cinema e, per procurarsi il denaro necessario, nel 2005 diede avvio ad una serie di cessioni immobiliari a vantaggio di un fondo finanziario creato da un ex assessore della sua giunta.

Le tappe successive possono essere così riassunte:

nel 2007 Sacaim si aggiudicò l’appalto per l’opera (secondo alcuni per pressione dell’allora ministro Francesco Rutelli) offrendo un ribasso del 20%; nel 2008 venne posata la prima pietra; nel 2009 furono abbattuti gli alberi in buona salute della pineta storica per far posto al palazzo. Nel 2010 il sito si “rivelò” era pieno di amianto e da allora è in possesso della ditta che viene pagata dai cittadini per garantire la sorveglianza dell’area di cui sono stati derubati. A tutt’oggi pare che i costi a carico dei contribuenti siano circa 40 milioni di euro.

La vicenda del “buco più caro del mondo” è periodicamente comparsa sulle cronache della stampa locale e nazionale che non ha potuto del tutto ignorare la forte e organizzata protesta popolare, come invece hanno fatto i rappresentanti delle istituzioni coinvolte.

Per limitarsi ai quattro personaggi immortalati nella foto che li riprende mentre posano la prima pietra, Giancarlo Galan è in galera, Sandro Bondi è impegnato nel trasloco sul carro del PD, ma gli altri due non hanno mai nascosto il loro arrogante fastidio.

Pochi mesi fa, ad esempio, l’ex sindaco Cacciari ha detto «come vanno oggi le cose non so, e non me ne frega niente… quando c’ero io per il palazzo del cinema c’era un buon progetto e le cose stavano andando avanti.. il problema sono le solite lamentazioni degli abitanti che non sono lidensi, ma lidioti…. Ho smesso di fare il sindaco proprio perché non ne voglio sapere più nulla. Si arrangino».

Seppur con linguaggio più pacato, anche Paolo Baratta, l’unico del quattro ancora in carica (il ministro Franceschini lo ha appena riconfermato alla presidenza della Biennale malgrado la legge prevedesse il limite di due mandati) in più occasioni si è lamentato per il buco che «toglie respiro a tutta la Mostra, al limite dell’asfissia» e per il «danno di immagine provocato dalla vista del cantiere a cielo aperto offerto alla vista dei frequentatori della manifestazione». Baratta ha anche sempre negato qualsiasi responsabilità della Biennale, ribadendo che «il destino del “buco” spetta al comune, la cosa ci è estranea». Solo ieri, finalmente, si è rasserenato e all’annuncio di Brugnaro ha commentato: «è una bella notizia per cominciare bene il nuovo anno».

Non è certo che questa sia l’ultima pagina dello “scandalo del Lido”. Della responsabilità delle prossime, il sindaco Brugnaro non potrà dichiararsi esente. E i segnali negativi non mancano, dalla decisione di sostituire il buco con «una sorta di piazza rialzata di una quarantina di centimetri», pedonale “ma anche” carrabile, una fontana con getti d’acqua colorata e «il recupero della pineta con la creazione di spazi per socializzare», alla scelta di mettersi d’accordo con l’impresa a nostre spese, senza neppure aspettare gli esiti delle inchieste della Corte dei Conti e della Procura della Repubblica per danni erariali, invece di schierare il Comune come parte lesa a fianco dei suoi cittadini.

In realtà, far pagare ai contribuenti il prezzo del “riscatto” dell’area della pineta del Lido agli stessi soggetti che se ne sono impadroniti e l’hanno devastata è coerente con la politica del sindaco che, nei primi sei mesi del suo mandato è stato abilissimo nello spostare l’attenzione mondiale sulle proprie intemperanze verbali distogliendola dagli affari dei gruppi di interesse di cui la sua giunta è espressione.

Non si conoscono dichiarazioni della Sacaim, impresa chiacchierata ma potentissima. Nel 2008, quando si è aggiudicata i lavori, il Sole 24 ore ha commentato: «ad accompagnare la nascita e la crescita di quello che diventerà un simbolo architettonico moderno per la città lagunare e per l'Italia sarà la Sacaim, che ha già lavorato alla ricostruzione del Teatro La Fenice». Come a dire "siamo in mani sicure". L’anno scorso, quando è stato indagato per corruzione nell’ambito dell’inchiesta sulle attività criminali del Consorzio Venezia Nuova, l’ex amministratore delegato Pierluigi Alessandri ha dichiarato che, oltre ad aver eseguito lavori gratis nella villa di Galan, tra il 2007 e il 2009 aveva “girato” 115 mila al governatore del Veneto per ottenere commesse, visto che in quegli anni alla Sacaim non «buttava bene».

Nel 2014 Sacaim è anche stata sottoposta dal prefetto a informativa antimafia, provvedimento poi revocato dal TAR, ma continua ad essere intoccabile. E l’accordo annunciato ieri è un’ulteriore conferma che “scavar buche, riempir buche” resta un’ottima ricetta per garantire un generoso welfare agli affiliati al sistema di potere che si è impadronito di Venezia.

Riferimenti
La vicenda del "Palabuco" è stata ampiamente documentata su eddyburg. Si vedano di Edoardo Salzano Lido di Venezia Uno scandalo bipartisan e Francesco Giavazzi Le mani sulla città: l'indegna storia del Lido di Venezia. QUI gli articoli che raccontano la distruzione della pineta. Altri articoli digitando “palazzo del cinema lido venezia” nel funzionale "cerca" in alto nella home page.

«Clima. La comunità umana sarà capace di superare le difficoltà del pianeta. E anche se nel testo finale della Conferenza di Parigi le parole agricoltura, biodiversità», coltivazione non compaiono mai, il 2016 sarà un anno positivo, di svolta».Il manifesto, 31dicembre 20152016
Qual è lo stato di salute del pianeta? Questa domanda non è certo di facile risposta, soprattutto perché riguarda una molteplicità di aspetti e di fattori che non è semplice riuscire a considerare in uno stesso colpo d’occhio. Interrogarsi su quale sia la qualità della nostra casa comune, tuttavia, non è solo un dovere che ci tocca come abitanti, ma una necessità sempre più pressante dato che, evidentemente, dallo stato del nostro pianeta dipendono tutte le nostre possibilità di sopravvivenza come specie umana. Forse già qui sta il primo punto di riflessione: a essere a rischio, con i cambiamenti climatici, la distruzione delle risorse naturali, l’ipersfruttamento dell’ambiente a scopo produttivo e l’erosione di habitat fragili a causa della pressione demografica, non è il pianeta ma semmai il futuro della specie umana.

La convinzione stessa che 7 miliardi di uomini possano porre fine alla vita di un pianeta che ha 5 miliardi di anni è, infatti, quantomeno un po’ eccentrica, se non decisamente megalomane. Ed è la stessa premessa culturale che fa sì che il rapporto che abbiamo con la Terra sia spesso predatorio e di dominazione piuttosto che di equilibrio e adattamento.
La realtà è invece ben diversa, perché con ogni probabilità altre specie sul pianeta prenderanno il posto di quelle che stiamo distruggendo con i nostri comportamenti produttivi scellerati, le risorse naturali si ricostituiranno quando noi non saremo più in grado di eroderle ma nel frattempo, speriamo di no, l’unica cosa che si sarà davvero persa per sempre sarà la specie umana, con tutta la sua potenza produttiva e tutta la sua gloriosa civiltà.

È dunque questo il triste destino che ci attende? Penso proprio di no, perché sono convinto che la nostra intelligenza, la nostra capacità di cooperare e il nostro spirito di sopravvivenza faranno sì che sapremo riprendere il contatto con la realtà e invertire questo processo autodistruttivo che affonda le radici nelle rivoluzioni industriali e che nell’ultimo secolo ha subito un’accelerata senza precedenti.

Il punto, infatti, è che come società umana abbiamo reso egemone un modello di relazioni e di interazioni basato su un’economia capitalista che identifica falsamente l’accumulazione di denaro con il progresso ma che in realtà genera la competizione sfrenata, la sopraffazione, l’ingiustizia, la sperequazione, lo spreco, la distruzione, lo sfruttamento, la povertà. Un’economia che uccide, come spesso ha ripetuto Papa Francesco che lo ha anche messo nero su bianco nell’enciclica Laudato Sì. Non solo, ma siamo anche riusciti a convincerci che questo sia il modello «naturale», che non ci sia altro modo di abitare la casa comune e di convivere con i nostri simili e con l’ambiente che ci ospita.

Per fortuna, invece, cambiare direzione si può,ma servono nuovi paradigmi che ci consentano di ricostruire il tessuto del nostro vivere comune su basi nuove, di cooperazione, di sostegno reciproco, di equità. Occorre un percorso comune, in cui però i paesi del nord globale (che sono i maggiori responsabili del deterioramento ambientale e dell’ipersfruttamento delle risorse) abbiano la forza e la dignità di assumersi la guida del cambiamento. Anche perché, non a caso, a subire maggiormente le conseguenze catastrofiche dei cambiamenti climatici saranno proprio quelle popolazioni e quelle aree del pianeta più fragili perché più povere o storicamente instabili.

In questo percorso di rinnovamento, la produzione del cibo può essere un esempio eclatante della forza propulsiva che hanno nuovi comportamenti virtuosi. Oggi il 70% delle risorse idriche è utilizzata per agricoltura e allevamento, fertilizzanti e pesticidi rappresentano una fonte rilevantissima di emissioni di gas serra, gli allevamenti industriali con le deiezioni degli animali sono grandissimi inquinatori delle falde acquifere, per non parlare delle enormi quantità di terreni che vengono utilizzati per la produzione dei mangimi, spesso deforestando vaste aree e utilizzando colture geneticamente modificate che erodono il patrimonio di biodiversità. Nello stesso tempo, però, proprio nella produzione di cibo sono evidenti enormi segnali di riscatto, di novità, di cura e di attenzione, proprio quei nuovi paradigmi di cui tanto sentiamo il bisogno e che spesso non sappiamo dove cercare.

Basti pensare alle esperienze dei milioni di contadini che in ogni angolo del mondo stanno già andando nella direzione della conservazione delle risorse naturali, utilizzando metodi agricoli in armonia con il territorio e con le condizioni ambientali, che non solo non impattano sugli habitat all’interno dei quali si inseriscono, ma al contrario ne aumentano resilienza e durabilità. Non solo, ma al fianco di questi produttori ci sono masse enormi di cittadini che hanno scelto di sostenere questo sforzo, tagliando gli intermediari e pagando un prezzo più alto ai produttori, remunerando in maniera equa il lavoro, pagandone in anticipo il prodotto in modo da non costringerli a prestiti spesso svantaggiosi, valorizzandone il lavoro pulito e promuovendone lo sviluppo. Questo nuovo mondo è già presente, è già diffuso, funziona e genera dignità, sviluppo e soddisfazione in tutti gli attori che vi prendono parte.

Eppure, nel dibattito mondiale sul clima, anche nella recente Conferenza di Parigi che aveva il compito di fissare pratiche e obiettivi concreti per contenere il riscaldamento globale sotto i 2 gradi centigradi, il settore dell’agricoltura è stato relegato ai margini. Come già evidenziato più volte, nel testo uscito dai negoziati non compaiono nemmeno una volta i termini «agricoltura», «biodiversità» e «coltivazione». Un ulteriore segno scoraggiante questo, perché esemplificativo di come non ci si renda conto che, per uscire dalla crisi ambientale in cui siamo immersi, non si può non assegnare un ruolo di primissimo piano all’attività necessaria alla sopravvivenza di ogni singolo essere umano: l’atto di nutrirsi.
Tutta l’attenzione è rivolta ai settori dell’energia, dell’industria, dei trasporti; è vero che si parla anche di suolo e di sicurezza alimentare, ma non si riconosce in modo esplicito il ruolo centrale del rapporto diretto fra clima, coltivazione della terra e cibo.

Tornando dunque alla domanda di partenza, probabilmente la riflessione sulla salute del pianeta non può essere compiuta se non ci domandiamo anche quale sia lo stato della comunità umana che lo abita. Quale mondo vogliamo lasciare ai nostri figli, quale idea di felicità vogliamo perseguire e come pensiamo di poterla raggiungere? Io credo fortemente nella nostra capacità di cambiare, di cooperare e di superare le difficoltà e questo mi rende ottimista. Bisogna tuttavia continuare a lottare per favorire la presa di coscienza globale che il feticcio della competizione non è compatibile con una vita degna e felice. In questo senso il 2016 che sta per iniziare sarà un anno di svolta, e sono convinto che lo sarà in termini positivi.

eddyburg nel 2015. Sappiamo già che dovremo continuare a farlo nel 2016. Speriamo di diventare più numerosi e più determinati, perciò più efficaci. La Repubblica, 31 dicembre 2015

Il suo nome è Valletta del Silenzio, per il senso di pace che questo lembo di paesaggio veneto custodisce sotto La Rotonda, la villa disegnata da Andrea Palladio fra il 1565 e il 1569. Continuerà a chiamarsi così anche quando verrà smontato il cantiere aperto nell’ottobre scorso e che trasformerà una stradina di campagna in una strada con marciapiedi, dissuasori anti velocità e pali d’illuminazione, affiancandole un parcheggio, una pista ciclabile, un’area per il pic-nic? E, dovessero arrivare altri finanziamenti, aggiungendo alcune attrezzature per attività di didattica ambientale, compreso un edificio? Gli interrogativi inquietano cittadini e associazioni che inviano esposti al ministero per i Beni culturali, alla sottosegretaria Borletti Buitoni, all’Unesco e al Comune di Vicenza, artefice dell’iniziativa. Protestano contro un intervento nato per migliorare l’accessibilità alla villa palladiana, e perciò finanziato dal Mibact, e risoltosi invece — questa la denuncia — in una sistemazione stradale che non riguarda le visite al monumento e che serve soprattutto chi abita in questi luoghi, chi frequenta un campo di calcio lì vicino e che, soprattutto, rischia di stravolgere un paesaggio fatto di natura e di architettura, trasformandolo in una sciatta periferia urbana.

Tante contestazioni per una strada rimessa in sesto e qualche posto macchina? Certo, replicano gli esponenti delle due associazioni più impegnate, Civiltà del verde e Osservatorio urbano territoriale: «Questo pezzo di campagna è la culla dell’ispirazione da cui è scaturita l’opera palladiana ». La villa e il paesaggio circostante, insistono gli ambientalisti citando Denis Cosgrove, uno dei più importanti studiosi palladiani, «sono parte della medesima scenografia».

L’intervento, segnalano le associazioni, investe un’area protetta dall’Unesco che da qualche anno è sconvolta. A poche centinaia di metri svetta il mastodontico insediamento di Borgo Berga, il cui cantiere è stato sequestrato dalla Procura, che ha indagato l’ex responsabile dell’ufficio urbanistico, ora direttore generale del Comune di Vicenza, Antonio Bortoli (per paradosso, la Procura ha sede in uno degli edifici di Borgo Berga). Di fronte, poi, sotto il monte Berico, e sotto la villa Valmarana ai Nani, con affreschi dei Tiepolo, dovrebbe spuntare un tunnel a due piani, stradale in alto, canale scolmatore in basso (la zona è a rischio idrogeologico).

E ora si mette mano alla stradina sotto La Rotonda. Un primo progetto che interessava la Valletta del Silenzio era stato curato nel 2001 da Bruno Dolcetta, professore a Venezia (a detta delle associazioni, «un ottimo esempio di restauro paesaggistico»). Ma nell’aprile 2013 il Comune presenta un altro progetto al Mibact per usufruire di un finanziamento di 130mila euro destinato a una migliore accessibilità ai siti protetti dall’Unesco. Si propone di costruire un parcheggio, di allargare la strada e di costruire marciapiedi e pista ciclabile.

A gennaio del 2015 però la scena cambia. La parte di finanziamento destinata alla strada cresce del 30 per cento, da 83 a 110mila euro. Quella per il parcheggio, che doveva essere il cuore del progetto per ottenere il contributo, scende da 51 a 22mila euro, il 50% in meno. Al Comune spiegano che un parcheggio è già stato realizzato con soldi regionali. Ma allora, insistono le associazioni, si sono chiesti soldi per garantire un parcheggio ai visitatori e invece si è sistemata una strada che serve i residenti della zona. Come d’altronde ha spiegato l’assessore ai lavori pubblici del Comune, Cristina Balbi, che più volte ha rassicurato chi abita vicino alla Rotonda sulle intenzioni dell’amministrazione: migliorare la loro mobilità.

Ultima questione sollevata dalle associazioni. Presentando al Mibact la variante al progetto nel gennaio del 2015, il Comune sostiene che i progetti definitivi «sono già stati ultimati e acquisiti i relativi pareri». Compreso quello della Soprintendenza: che è positivo, con qualche lieve prescrizione, che però risulta essere arrivato solo il 21 ottobre del 2015, a cantiere già aperto.

Ilfattoquotidiano.it, 29 dicembre 2015

«La provincia di Salerno è pronta ad accettare la sfida. Noi vogliamo interpretare al meglio il nostro nuovo ruolo e stiamo organizzando l’ente per svolgere al meglio il ruolo di ‘Ente di servizio’, di ‘hub’». Così ha detto il Presidente della provincia di Salerno, Giuseppe Canfora, nella relazione introduttiva al Consiglio del 21 dicembre. Sul tavolo l’approvazione dello schema di bilancio preventivo per il 2015. Ma anche molto altro. Come il piano di alienazione che coinvolge anche il Palazzo che ospita l’Archivio di Stato, in piazza Abate Conforti. Un edificio dalla lunga storia.

Prima del 1934, quando è divenuto sede dell’Archivio Provinciale, in seguito Archivio di Stato, ha sempre ospitato uffici giudiziari. Prima, forse già nel XV secolo, sede della Regia Udienza, una magistratura risalente al periodo aragonese, e poi sede del Tribunale di Prima istanza e della Gran Corte Criminale. Dopo l’Unità di Italia ha ospitato il Tribunale Civile e Correzionale e la Corte d’Assise. Insomma un pezzo di storia della città. Un luogo nel quale si conserva una documentazione quasi sterminata. Circa centomila pezzi di documentazione cartacea e più di mille pergamene, oltre ad una biblioteca di circa ventiquattromila volumi. Per ricostruire le vicende dell’Antico Regime, del decennio francese e della Restaurazione e del periodo post-unitario non si può davvero prescindere dai fondi dell’Archivio. Almeno finora.

La scelta di mettere in vendita il palazzo che ospita l’archivio sembra mettere fine a questa lunga storia. I 16 milioni di euro che si spera di guadagnare con la vendita dell’immobile di Piazza Abate Conforti, una parte del tesoretto che la Provincia conta d’incassare. Poco importa se nel Palazzo medievale, al piano terra, si conserva la cappella di San Ludovico con gli affreschi del XIII secolo. Aperta al pubblico dopo i lavori di restauro conclusi nel2009. Irrilevante la circostanza che i documenti dell’archivio non saranno più consultabili, dal momento che ancora incerto risulta il luogo nel quale saranno spostati.

Nonostante la decisione sia stata presa in coincidenza con le festività natalizie, non sono mancate le reazioni. L’Associazione Sunia ha deciso di proporre un incontro pubblico “per discutere eventuali iniziative idonee a bloccare questo assassinio costante e continuo degli spazi pubblici dedicati al sociale e alla cultura”. «Paghiamo più di 60mila euro all’anno all’ente che potrebbero essere usati per restaurare il patrimonio che abbiamo. La Provincia è tenuta alla manutenzione straordinaria che non avviene, il terrazzo di copertura dell’edificio torre perde acqua, questo crea danni anche a documenti. Quando piove si allaga parte della struttura, gli intonaci in alcuni luoghi hanno pesanti lesioni. Abbiamo sempre chiesto alla Provincia la manutenzione, ma non ci hanno mai risposto», ha detto Eugenia Granito, direttrice dell’archivio storico, durante l’incontro di qualche giorno fa all’Archivio di Stato, tra associazioni e comitati, organizzato da Italia Nostra Salerno, per fare il punto su tutte le questioni nate sul territorio comunale.

Quanto la scelta di fare a meno dell’Archivio di Stato sia irragionevole è di facile comprensione. Di più. Addirittura ingiustificabile per chiunque ritenga scriteriato il privarsi di uno dei luoghi identitari di Salerno. Perché è più che evidente che quel è stato deciso dalla Provincia si abbatterà sulla città. «Tentiamo di essere al passo con le tecnologie più avanzate, sperimentiamo, valorizziamo i luoghi che sono diventati un caposaldo di promozione turistica. Stiamo insistendo sul progetto turismo di questa città con azioni mirate di rapido consumo», diceva ad aprile Vincenzo Napoli, il vice sindaco che ha sostituito nelle funzioni De Luca, dopo la sua elezione a governatore della Campania.

«Si conferma l’intenzione di procedere sulla strada della valorizzazione e della promozione del nostro enorme patrimonio culturale… Bisogna fare di tutto per perseguire quello sviluppo che manca da troppo tempo, proprio perché le nostre straordinarie bellezze non sempre sono state adeguatamente utilizzate per produrre lavoro e benessere», ha dichiarato ad agosto Giuseppe Canfora. E’ più che probabile che «le azioni mirate di rapido consumo», al quale accennava il sindaco Napoli e «le straordinarie bellezze non sempre adeguatamente utilizzate per produrre lavoro e benessere», richiamate dal presidente Canfora non contemplino il salvataggio dell’Archivio di Stato. D’altra parte perché mai dovrebbero preoccuparsi di un Palazzo storico nel quale ci si reca quasi esclusivamente per studiare dei vecchi documenti? Il nuovo corso salernitano è evidentemente interessato ad altro.

Il manifesto, 29 dicembre 2015 (m.p.r.)



LA FONDAZIONE HA SBAGLIATO I CONTI.
IL QUIRINALE GLIELI HA CORRETTI

di Paolo Berdini

Le meravigliose logge dei tiratori di Gubbio hanno avuto la sfortuna di entrare nel patrimonio della Fondazione della Cassa di Risparmio di Perugia a capo della quale c’era Carlo Colaiacovo, una delle famiglie più ricche e influenti di Gubbio. E’ da allora che iniziano i suoi guai perché entra nel grande meccanismo che deve aumentare il valore delle proprietà, costi quel che costi. Il caso di banca Etruria e banca Marche ha reso evidente che molti istituti di credito hanno finanziato oltre la decenza ogni valorizzazione immobiliare e ogni avventura edificatoria di spregiudicati speculatori. Per ripianare la voragine di bilancio Banca Etruria sceglie di alimentare il mercato delle obbligazioni speculative e l’esito sono le decine di migliaia di risparmiatori a cui hanno sottratto i risparmi.

La Fondazione della cassa perugina sceglie un’altra strada: quella di valorizzare gli immobili di proprietà che - prassi come noto molto diffusa - vengono spesso iscritti a bilancio per un valore notevolmente superiore a quello reale. Il pareggio di bilancio è nel breve periodo assicurato ma occorre concludere i processi di valorizzazione e il caso delle logge di Gubbio dimostrano che non ci si ferma nemmeno di fronte alla storia e all’identità di una città. Esse sono infatti una caratteristica peculiare della storia di Gubbio, una parte dell’identità storica del popolo eugubino: ciononostante si vuole chiuderle con una gigantesca vetrata aumentando la superficie (e il valore economico) dell’immobile e la sua destinazione d’uso.

Inizia così la pressione verso il comune per ottenere il permesso di chiudere con “moderne” vetrate il grande loggiato per ottenere un parere positivo. L’ostacolo sembrava insuperabile poiché l’attuale sindaco Filippo Maria Stirati era stato eletto due anni fa perché si era chiaramente espresso contro la chiusura della loggia. Evidentemente la proprietà possiede efficaci mezzi di convincimento se quello stesso sindaco è oggi a favore del progetto.

La potente proprietà ha sbagliato solo un calcolo: non ha pensato che un intelligente comitato di cittadini chiamasse la popolazione di Gubbio ad opporsi all’insensato progetto. Questa opera si sensibilizzazione si è giovata anche di illustri esponenti del mondo della cultura come Salvatore Settis e Tomaso Montanari. Gli appelli portati avanti dal comitato hanno avuto così la forza di arrivare nel colle più alto di Roma e il della Presidente della Repubblica, tramite il suo consigliere per la conservazione, Louis Godart, si è espresso in modo inequivocabile contro lo scempio. Del resto, il Quirinale è il baluardo della Costituzione che ha come pilastro l’articolo 9 dove si afferma solennemente che la Repubblica tutela i beni culturali del paese e non le ignobili speculazioni immobiliari.

LE LOGGE RESTINO APERTE
PAROLA DI PRESIDENTEe

di Giovanna Nigi

Regalo di Natale a Gubbio. C’è un no pesante alla vetrificazione del monumento voluta da Cassa di Risparmio: quello di Mattarella

Gubbio. Dopo due anni di lotta sembrava tutto perduto. I lavori per chiudere le Logge dei Tiratori di Gubbio, con enormi pannelli di vetro e acciaio secondo i progetti presentati dal proprietario, con il nuovo anno sembravano ormai prossimi all’inizio. Ma una lettera dal Quirinale, alla vigilia di Natale, ora sembra aver rimesso tutto in dubbio. Tutto in moto. Procediamo con ordine. È l’ottobre 2013 quando a Gubbio si costituisce un Comitato cittadino a cui aderiscono fin da subito le associazioni Italia Nostra e Terra Mater.

L’obiettivo è quello di ribellarsi alla riduzione a ennesimo centro servizi - di fatto una sala congressi, il salotto buono della Fondazione - di uno storico monumento che avrebbe dovuto restare pubblico: le Logge dei Tiratori della Lana, rarissimo opificio preindustriale, sistema basamentale dello straordinario paesaggio urbano della città.

Le Logge sono state costruite sotto la spinta dell’Arte della Lana nel 1603 sopra il lungo edificio dello Spedal Grande, eretto nel 1323, pensate come spazio aperto per “tirare” i panni e farli asciugare dopo averli tinti. Oggi il monumento, biglietto da visita della città, è di proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio, alla cui presidenza siede il cavaliere Carlo Colaiacovo, proprietario del più grande cementificio cittadino, la Colacem. La procedura che intende snaturale e che - ove mai andasse in porto - passerà alla storia come “vetrificazione delle Logge”, segue un iter veramente curioso.

È la commissaria straordinaria Maria Luisa D’Alessando, moglie di Gianlorenzo Fiore, membro della Fondazione Cassa di Risparmio, a dare il primo placet del Comune a un’operazione che la stampa definisce «dal sapore bancario», che serve a quintuplicare il valore dell’immobile. La proposta di trasformazione riguarda una porzione significativa dell’intero complesso edilizio, in particolare del loggiato superiore. L’intervento deturpante e impattante che si preannuncia è la sua chiusura con enormi pannelli di vetro. Anche al primo piano è prevista la ridistribuzione di tutte le superfici, con cambi di destinazione d’uso. Uno stravolgimento di quella che è, da sempre, edilizia operaia e popolare.

La procedura, si legge nel ricorso presentato al Tar da Italia Nostra, è davvero anomala: «Contrariamente a quanto previsto dalle leggi regionali, il parere della commissione comunale per la qualità architettonica e il paesaggio è intervenuto dopo il parere della soprintendenza», parere dato con una rapidità mai riscontrata in precedenza dai funzionari della Soprintendenza nazionale. Escono sulla stampa articoli di aperta critica all’operazione. Il manifesto sin dall’inizio raccoglie la battaglia del comitato. La vicenda comincia a circolare. La Soprintendenza è costretta a indire un tavolo tecnico al ministero dei beni culturali per valutare il progetto. Le conclusioni del tavolo oscillano tra il patetico e l’esilarante. Si arriva a sostenere che senza la chiusura con i vetri un vento più forte del solito potrebbe scoperchiare il tetto; e che il guano dei volatili è causa di degrado dell’edificio, come se l’edificio non stesse al suo posto da oltre 400 anni e al ministero fossero sconosciute le nuove tecnologie, ampiamente sperimentate altrove, per rimediare al problema dei volatili.

Quello di cui non si parla invece è l’impatto paesaggistico della vetrificazione: nessuno studio viene fatto in merito, e nessuno si sogna di denunciare l’effettivo aumento di volumi che farebbe lievitare di cinque volte il valore dell’immobile. Al primo convegno organizzato dal comitato cittadino accorrono in massa i politici: la campagna elettorale è alle porte, c’è bisogno di voti. Filippo Mario Stirati, ex Pd e all’epoca ostile al partito del cemento, è in quel momento candidato sindaco: e afferma pubblicamente la sua contrarietà alla vetrificazione; una volta eletto, da primo cittadino di Gubbio, si rimangerà tutto. Il comitato insorge e lo accusa di aver tradito la buona fede di tanti cittadini. In risposta il comitato viene accusato di immobilismo e antimodernità. Le Logge, replica l’architetto e artista Nello Teodori, «sono uno straordinario esempio di architettura preindustriale europea e devono essere rispettate nella loro identità di edificio aperto e coperto. Potrebbero diventare museo di se stesse e nello stesso tempo magnifica piazza aperta e coperta. Non sono le funzioni a costringere l’edificio ad adeguarsi ad esse, ma il contrario», spiega.

Il metodo di lotta scelto per contrastare il silenzio dei media locali è quello dei manifesti cittadini: dall’ottobre 2013 a oggi sono decine quelli affissi nel centro storico. Vengono organizzati altri convegni e coinvolti i più importanti studiosi del settore: da Salvatore Settis a Tomaso Montanari, da Vezio De Lucia, a Paolo Berdini, al giurista Paolo Maddalena, a Goffredo Fofi, a Giulia Maria Mozzoni Crespi a Leonardo Piccinini. Vengono anche presentate interrogazioni regionali (Brutti e Goracci) e parlamentari (Zaccagnini, Fratoianni, Giordano). Ma non ottengono nessun effetto. Da Roma tutto tace. Il comitato allora va a Roma, cerca inutilmente di essere ricevuto dal ministro Dario Franceschini, distribuisce volantini sotto il ministero e, infine, organizza a Gubbio una mostra, «Le Logge della Bellezza», per i due anni di opposizione al progetto. Alla mostra aderiranno e parteciperanno artisti da tutto il mondo.

È a questo punto che il parere negativo del nuovo soprintendente umbro Stefano Gizzi su una variante al progetto scatena un putiferio: un dossier della presidente della Regione Catiuscia Marini e di vari sindaci, con quello di Gubbio in prima fila, ne chiede la rimozione in quanto «poco collaborativo». Il comitato non si dà per vinto: Italia Nostra fa un ricorso al Tar e una petizione che raccoglie 1100 firme e viene presentata al presidente della Repubblica, all’Unione europea e all’Unesco. La sorte delle Logge sembra tuttavia segnata e il processo di disneyzzazione di Gubbio magnificamente avviato.

Poi, due giorni prima di Natale, il colpo di scena. La lettera che arriva dal Quirinale e che nella sostanza contiene la solidarietà del presidente Sergio Mattarella. Un fatto tanto straordinario quanto inaspettato. Il presidente ha ricevuto i materiali sulle Logge, spiega nella missiva il professor Luis Godart, consigliere per la conservazione del patrimonio artistico del Quirinale, «e mi prega di risponderLe. Condivido pienamente la posizione del Comitato che difende l’antico opificio del Seicento le “Logge dei Tiratori dell’Arte della Lana”. Vetrificare questo mirabile monumento significa ferirlo e deturparlo. Trasmetto copia di questa mia lettera al ministro Franceschini». Un vero regalo di Natale: i due anni di resistenza hanno finalmente un riconoscimento. La lettera di Mattarella è un macigno sulla strada di un progetto inaccettabile.

«Una verifica di fatto è già in corso: l’aria delle nostre città ha bisogno di piani di radicale riduzione delle emissioni». Il manifesto, 29 dicembre 2015 (m.p.r.)

I gas serra nel lunghissimo periodo impattano sul clima del vivente umano e non umano, nel breve e nel lungo periodo, fra l’altro, sul respiro e sulla salute della oltre metà cittadina degli umani. La riduzione delle emissioni petro-carbonifere (specie quelle di trasporti e riscaldamento) non serve solo a contenere il riscaldamento del pianeta e i conseguenti costi finanziari e sociali, ma anche a ridurre l’inquinamento atmosferico. Sotto questo punto di vista a Parigi si è capito molto (qui l’adattamento serve a poco) e deciso poco. Lo si capisce ancor meglio ogni giorno che passa a Pechino e a Roma (misurandolo in modo più sofisticato della sola anidride carbonica).

Nei commenti alla Cop21 sono stati sprecati aggettivi storici. Tutti le capitali e le nazioni che ospitano un’importante conferenza Onu vogliono aver lasciato un segno indelebile nel percorso dell’umanità, ogni capo di governo e ogni ministro vogliono poter dire di aver influito su una svolta epocale durante il proprio mandato, ogni militante e ogni interesse costituito vuole non sprecare il proprio tempo. Le categorie del bicchiere mezzo pieno-vuoto, della rivoluzione e del fallimento, di ottimismo-pessimismo ritornano ciclicamente e non aiutano a comprendere. Che la temperatura media del pianeta stia crescendo per comportamenti umani e che il riscaldamento provochi effetti già dannosi e potenzialmente rovinosi è acclarato sul piano scientifico e diplomatico da 25 anni.
L’Onu è un benestante precario corpo di nazioni formalmente unite, da quando è finita la guerra fredda ha cominciato a muoversi, nel 1988 ha legittimato un gruppo mondiale di scienziati che nel 1990 hanno approvato un primo Rapporto sui Cambiamenti Climatici. E nel 1992 ha organizzato a Rio una Conferenza per approvare una conseguente convenzione (insieme ad altri atti e indirizzi su ambiente e sviluppo). Da allora sono seguiti l’entrata in vigore, ben 21 incontri di tutte le “parti” dell’Onu e altri quattro rapporti dell’Ipcc.
Da un quarto di secolo sappiamo con sempre maggiore precisione che la temperatura del 2050 non dovrà aumentare di oltre 1,5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali, se vogliamo evitare uno sconquasso ingestibile nell’ecosistema globale e in tante singole aree, ingentissimi costi e migrazioni forzate. Nel 1997 a Kyoto si era adottata una strategia di impegni scadenzati e vincolanti, lì (come primo passo e per un primissimo periodo fino al 2012) solo per i paesi che avevano provocato più emissioni e riscaldamento. Il protocollo è entrato in vigore solo 8 anni dopo e progressivamente quella strategia è stata abbandonata, se ne è abbozzata un’altra da 5-6 anni. Da allora l’essenziale non è stato più negoziato, ovvero obblighi quantificati e scadenzati, globali e differenziati, legalmente vincolanti di riduzione delle emissioni per garantire al pianeta un aumento minimo della temperatura (e minor inquinamento).
Ogni paese farà quanto vuole, si adatterà, volontariamente, questa è la nuova strategia, piani nazionali di mitigazione e adattamento. Il ministro convoca sindaci e governatori ma il suo bel piano di decarbonizzazione non lo ha ben fatto! Ora la nuova strategia ha un minimo percorso legalmente vincolante e qualche punto fermo «politico». Da cinque anni i due punti cruciali e minimali del negoziato sono i soldi e i controlli: quanto e come mettono fondi i paesi ricchi per aiutare quelli poveri; chi e con quali coerenti omogenei strumenti misura l’eventuale riduzione.
Sul piano finanziario è stato trovato un qualche consenso, sia sulla cifra annuale dopo il 2020 sia sulle modalità di versamento prima e dopo il 2020. Sul piano amministrativo si lascia una eccessiva flessibilità: i piani nazionali di impegni volontari che sono stati presentati da 188 paesi, anche se fossero rispettati, provocheranno un aumento della temperatura tra il 2,7 e il 3%. Nel prossimo decennio in ogni paese dovremo ottenere che si faccia prima e meglio. E poi ci sono le «grandes questions oubliées» come le aveva chiamate lo speciale di Le Monde per Cop21: oceani, biodiversità, migrazioni, sicurezza alimentare. Questi temi non figuravano nemmeno all’interno del negoziato climatico, pur essendo strettamente connessi agli impatti e agli effetti dei cambiamenti climatici in corso.
Nel prossimo decennio dovremo ottenere che si apra un serio negoziato globale, i documenti di Parigi non danno certezze su energia e agricoltura, mobilità e migrazioni sostenibili. L’enciclica papale e i documenti di altre religioni (a Istanbul quella dell’Islam) sono essenziali alla nuova strategia, abbiamo un gran bisogno di donne e uomini di buona volontà, credenti e non credenti, per promuovere resilienza degli ecosistemi, biodiversità dei beni comuni, lotta a ingiustizie e inuguaglianze, garanzia globale di libertà di accesso alle risorse, cooperazione (anche decentrata) allo sviluppo sostenibile.
L’accordo di Parigi va ora ratificato (il meccanismo delle ratifiche è simile a quello che approvammo a Kyoto 18 anni fa, solo che ora gli emettitori che contano sono Cina e Usa, mentre allora erano Usa e Russia). Il combinato disposto delle parti «legali» e delle parti «politiche» rende non indispensabile l’iter legislativo americano (Obama è riuscito in una bella operazione). Entro il 2020 dovrebbe entrare in vigore, un po’ prima vi sarà la verifica «politica» dei piani nazionali, un po’ dopo quella «legale» (quinquennale). Una verifica di fatto è già in corso: l’aria delle nostre città ha bisogno di piani di radicale riduzione delle emissioni.

Riferimenti

Sul fallimento di COP21 vedi su questo sito l'articolo di Paolo Cacciari, Una mano di vernice verde sul nuovo business

La televendita. E' ormai un metodo di comunicazione dell'intero governo. I beni culturali non sfuggono a questa logica. Anzi ne sono al centro. Le Domus restaurate e riaperte nei giorni scorsi a Pompei? Tutto merito di Renzi e Franceschini. Non è vero, il merito risale al governo Letta e al ministro Bray. Ma lo sanno e lo dicono in pochi. Non sto a continuare. Nei giorni scorsi il ministro Franceschini ha divulgato la lieta novella: nel 2016 le risorse per i Beni culturali aumenteranno del 27% e saliremo oltre i 2 miliardi. Vero, ma nel 2015, già col governo Renzi-Franceschini, il settore aveva avuto in assoluto una delle cifre più basse della storia: soltanto 1 miliardo e 521 milioni. Aveva fatto peggio di così soltanto Berlusconi nel 2011.

Seconda osservazione: il bilancio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (dal 2014 anche per il Turismo), non segna certo un record, in realtà torna col 2016 al di sopra dei 2 miliardi di euro dopo anni e anni di tagli. Ma al di sopra di questa quota - tanto reclamizzata dal ministro Franceschini - il MiBAC era già arrivato nell'ormai lontano 2000, esattamente a 2,103 miliardi quando si avvicendarono alla guida del governo di centrosinistra, Massimo D'Alema e Giuliano Amato. Già allora erano 18 i milioni di euro in più. Che, con l'inflazione intercorsa, salgono verso una settantina di milioni di differenza in più.

Coi governi Berlusconi, dal 2001 al 2006, ci fu un primo calo che fece scendere di qualche punto - e questo è il dato più significativo - l'incidenza percentuale della spesa per i Beni culturali sul bilancio dello Stato, dallo 0,39 del 2000 allo 0,29 del 2006. Il crollo vero e proprio tuttavia lo si registrava col nuovo governo Berlusconi (quello del 2008, dopo la burrascosa parentesi Prodi/Ulivo, durato sino al 2011) con tagli pesantissimi che portarono il bilancio annuo del MiBAC ad appena 1,4 miliardi di euro e ad un miserevole 0,19 per cento del bilancio dello Stato, meno della metà dell'incidenza del 2000.

Un autentico dissanguamento che ha portato, volutamente, questo Ministero allo stremo: a dover mendicare sussidi e interventi privati, a non avere personale tecnico-scientifico sufficiente per le incombenze quotidiane della tutela e della conservazione, a non poter indire concorsi, ad avere funzionari di età mediamente elevata (circa 52 anni). Con un personale di custodia pure inadeguato. Tutti poi sottopagati, naturalmente: dal soprintendente al custode. Coi governi Monti e Letta si è registrata una leggera ripresa dei finanziamenti per la cultura. Del tutto insufficiente però per le esigenze della rete della tutela.

Alla fine del 2013 ai Beni e alle Attività Culturali è stato accorpato anche il Turismo che, dopo l'abolizione del Ministero del Turismo e dello Spettacolo, era rientrato nelle competenze della Presidenza del Consiglio. Ovviamente dal bilancio di previsione 2014 il MiBAC, diventato nel frattempo MiBACT, si è portato dietro i finanziamenti previsti per il personale (531.971 euro) e quelli concernenti le politiche turistiche (qualche decina di milioni). Quindi questo trasferimento di competenze ha incrementato in cifra assoluta le risorse del Ministero che però deve pensare a finanziare anche il turismo.
Per il 2016 la legge di stabilità prevede di aumentare le risorse complessive del Ministero - come ho già detto - sino a 2,085 miliardi di euro. Con ciò il governo Renzi non fa che riportare il bilancio dei Beni culturali (più Turismo) un po' al di sotto i livelli 2000. Come incidenza sul bilancio dello Stato siamo ancora a 5 punti percentuali sotto la spesa prevista dai governi D'Alema e Amato 2000. Un primo risarcimento insomma. Ma nelle tabelle della legge di bilancio stabilità lo stesso governo in carica indica per il 2017 e per il 2018 cifre nettamente inferiori: 1,7 e 1,6 miliardi di euro. Cresceranno? Probabilmente sì. Se non altro per annunciare con le trombe: abbiamo provveduto ad aumentare le risorse per la cultura rispetto alle previsioni...

Ps: tanto per memoria, la Francia destina alla Cultura lo 0,75 % del bilancio dello Stato, cioè 2-3 volte tanto l'Italia, la Spagna lo 0,67 e altrettanto l'Austria. Per farla breve soltanto Grecia, ma non sempre, e Romania vi destinano meno di noi che risultiamo al 22° posto in Europa.

Due articoli (di Caterina Pasolini e di Michele Serra) fra i tanti che raccontano l'emergenza del giorno; un evento che andrebbe commentato, per gettare una goccia di buonsenso in un oceano di confusione: lo faremo domani. La Repubblica, 28 dicembre 2015


SMOG, LE TRE GIORNATE DIMILANO
DELRIO: “ECCO IL PIANO DEL GOVERNO”
di Caterina Pasolini


Auto ferme dalle 10 alle 16 fino a mercoledì. Targhe alterne a Roma Grillo e i Verdi all’attacco. Galletti: “Giù i biglietti dei mezzi pubblici”

L’aria inquinata assedia le città e surriscalda la politica, con lo smog sempre più al centro dello scontro aperto tra governo e opposizione. Se oggi fino a mercoledì sarà blocco totale del traffico a Milano e in 11 comuni lombardi, Roma si limita alle targhe alterne tra le proteste di Grillo che parla di «governo spocchioso indifferente ai morti» e dei Verdi che minacciano di denunciare il prefetto Tronca e che parlano di «omicidio di stato».

«Si sarebbero potuto salvare 25 mila vite se i limiti di legge del pm10 e del No2 fossero stati rispettati. Questo è un omicidio di Stato», accusa Angelo Bonelli dei Verdi. Rincara la dose Beppe Grillo parlando dei 68mila morti in più del 2015 previsti dall’Istat: «Lo smog sta rendendo le città italiane sempre più simili a Pechino. Adesso si vieta la circolazione alle auto, tra poco sarà vietata la circolazione delle persone, come in Cina. L’inquinamento ci avvelena e il premier e i ministri spocchiosi non si rendono conto di quello che accade nel paese» accusa il leader dei cinquestelle.

Alle accuse risponde il ministro dell’ambiente Gianluca Galletti. «Davanti all’emergenza smog, che per gli effetti climatici si ripresenterà in futuro in modo frequente, la a risposta deve essere coordinata e di sistema. Non in ordine sparso». Così ha convocato mercoledì una riunione con sindaci e governatori in modo da confrontare le misure adottate e trovare un unico modo per procedere. «Proporrò ai sindaci di abbassare il prezzo dei biglietti dei mezzi pubblici per invogliare la gente a lasciare a casa l’auto».

Il governo sotto accusa ribatte insistendo che nella legge di stabilità ci sono già misure antinquinamento. A dirlo, sulla sua pagina Facebook, il ministro alle infrastrutture e trasporti Graziano Delrio: «Possono contribuire all’abbassamento delle emissioni le riqualificazioni energetiche nell’edilizia per le quali sono previste detrazioni del 65%, gli stanziamenti di 60 milioni per invitare a trasportare le merci sui treni, gli altri 91 miloni destinati alla mobilità ciclabile inserite nella legge di stabilità».

E mentre il governo annuncia riunioni e interventi, il prefetto di Roma Tronca viene accusato dai Verdi di fare il «promoter dei commercianti» non bloccando il traffico e minacciano di denunciarlo in procura. «È il responsabile della salute dei cittadini. Se i provvedimenti presi risulteranno inadeguati possono configurarsi precise responsabilità penali », aggiungono al Codacons. Oggi nella capitale non viaggeranno i veicoli con la targa dispari nella fascia verde dalle 7.30 alle 12.30 e dalle 16.340 alle 20.30. Domani toccherà alle pari stare ferme. Per invitare i romani ad usare i mezzi pubblici il biglietto varrà per tutto il giorno.

LA RIMOZIONE DEL CIELO
di Michele Serra

La Milano felix dell’ultimo paio d’anni, ordinata, sicura di sé, lustra di Expo e con il suo skyline nuovo fiammante, soccombe come ogni altra città alla mefitica nube di polveri che la avvolge.

I nuovi grattacieli, in pieno giorno, immergono le loro vette in un cielo opaco, che le ingoia e le cancella. Osservati dal piano stradale, è come assistere a un tuffo al contrario; un tuffo nel mare ignoto che ci sovrasta. Non è più lo smog nerastro e unto che massacrava i colletti delle camicie negli anni Sessanta e Settanta, quando il carbone delle caldaie e i fumi delle fabbriche spalmavano sulla città una patina buia, catramosa. È una moltitudine subdola di particole che l’assenza di vento aggrega in una specie di aerosol permanente, che solo il vento e la pioggia possono lavare via. Con metafora non scientifica, ma credo efficace, potremmo dire che lo smog è passato da uno stadio primitivo, basico, da rivoluzione industriale, a una più raffinata formula postmoderna. Meno visibile (se non dopo una lunga siccità) ma non per questo meno perniciosa.Non c’è certezza dei morti effettivi, caso per caso, città per città; ma che di particolato ci si ammali e si muoia, sì. Secondo l’Oms (dati del 2008) circa due milioni di umani ogni anno, nel mondo, muoiono a causa di quello che si respira nelle città dove abitano.

Questa certezza del male che riscaldarci, nutrirci, produrre cose provoca all’ambiente e dunque a noi stessi, come è inevitabile che sia genera fatalismi e isterismi in pari misura. Si va dal tipico “non possiamo farci niente, e comunque la vita media è in aumento in tutto il mondo sviluppato”, all’altrettanto tipico “è una vergogna, governo assassino”. Al netto di queste due inutili eppure frequentatissime parti in commedia, quello che davvero colpisce in emergenze come questa, e come in tutte le cosiddette emergenze legate al clima, è che siano appunto considerate emergenze e trattate da emergenze; mentre sono problemi strutturali del pianeta Terra, del suo modello di sviluppo e di vita. Strutturali e dunque quotidiani. Ogni picco che arriva sulle prime pagine dei giornali e sul tavolo dei ministri è sorretto da un ampio contrafforte che si estende, giorno per giorno, lungo i decenni: è quel contrafforte — la “normalità” dello sviluppo e della nostra maniera di vivere — l’evidente matrice di ogni allarme, di ogni provvedimento drastico o pseudo tale, di ogni blocco del traffico.

Il sospetto è che l’artificialità delle nostre vite quotidiane (che raggiunge, nelle città, il suo culmine) produca una vera e propria “rimozione del cielo”, che lasciamo scrutare a meteorologi poi interpellati, quando abbiamo paura o disagio, come aruspici. Perché viviamo, letteralmente, “al riparo”, condizionati in estate, riscaldati in inverno, sempre più ignari della volta celeste che invece, e nonostante noi, ci avvolge, ci fa respirare, raccoglie le nostre deiezioni e si surriscalda.

Mi è capitato parecchie volte, in periodi di prolungata siccità come questo, da quel pendolare città-campagna che sono, di scoprire che amici milanesi non avevano alcuna idea che i fiumi erano in secca e i campi inariditi; fino a che — l’emergenza, appunto — qualche telegiornale decideva che le immagini del Po che sprofonda nel suo limo (o all’opposto preme sugli argini) sono abbastanza suggestive da essere mandate in onda.

A Milano non ci sono neanche gli storni, come a Roma; e pochissimi rapaci (non ne ho mai visto uno), a differenza di Roma che ne è piena. Non si guarda quasi mai il cielo, a Milano, lo si considera dimenticabile anche esteticamente, a dispetto del fin troppo ripetuto passo manzoniano sul cielo di Lombardia “così bello quando è bello”. Ma è il cielo di Lombardia, appunto, che di Milano è molto più vasta e varia, e ha i laghi, i monti, le risaie, i pioppeti, i campi, per altro anche loro in questi giorni oppressi da nebbie grevi e quasi mai pulite. Milano guarda il suo cielo solo quando diventa una specie di enorme palla giallastra, fotografata e filmata da ogni finestra con quel misto di ansia e di sorpresa che è tipico di chi non sa bene cosa fare.

Consolarsi dicendo che Pechino sta peggio è ridicolo e anche piuttosto offensivo, sia per Pechino che per Milano. (Per non parlare di Frosinone, star a sorpresa delle polveri sottili nazionali). Peggio, nella realtà, sta il mondo nel suo insieme, che di summit in summit tenta di mettere una pezza a fenomeni di smisurata inerzia, abitudini indiscusse, pubbliche e private, l’abuso pigro e scellerato dell’automobile, l’intervento politico solo quando la situazione è catastrofica e dunque si può reggere meglio il mugugno di chi non crede agli allarmi e crede solo ai propri porci comodi. Ci vorrebbe il classico salto culturale (in avanti, non indietro, forti di tecnologia e scienza) verso la natura, i boschi, i fiumi, i campi coltivati e quelli incolti, sopra i quali portare lo sguardo al cielo, cercare di avvertire il tempo atmosferico così come di misurare con passo meno corto e sguardo meno avido il tempo cronologico, cogliere le anomalie, riconoscere le stagioni, è un’attività del tutto naturale.

In questo senso i cittadini sono dei veri e propri deprivati. Nelle società urbanizzate non si vede e non si sente più il cielo. Si è in ostaggio dell’allarmismo mediatico (quegli “al lupo! al lupo!” che al lupo non ti fanno credere più), si è più indifesi di fronte a una natura estranea e sconosciuta, o misconosciuta. E conoscendola meno, la si offende più facilmente.

Il Comitato La Goccia ci invia la denuncia di un caso macriscopico di malcostume urbanistico, criticabile da più versanti:quelli della salute della città e dei cittadini, della tutela di quel che resta di natura e di bellezza, della correttezza professionale dei diversi potenti e potentini coinvolti, dell'inerzia dell'opinione pubblica. Un appello, non indirizzato solo ai milanesi

Un preliminare di progetto urbanistico secretato, di cui gli organi collegiali del Politecnico prendono atto senza conoscerlo. Una completa confusione o commistione di ruoli tra proprietari delle aree e responsabili della pianificazione, ed anzi un potenziale conflitto di interesse nella persona dell’assessore all’urbanistica, Alessandro Balducci, professore e già pro-rettore vicario del Politecnico. Una fretta indiavolata: progetto urbanistico entro due mesi, si direbbe per condizionare la nuova amministrazione comunale che uscirà dalle urne. Una densità edilizia ipotizzata (circa 8 mc reali, vuoto per pieno, per ogni mq di superficie territoriale) incredibile, come non succedeva neppure nei più lontani anni 50, tanto meno su aree di questa estensione; ed insostenibile in una città afflitta da una qualità dell’aria largamente fuori dalle norme europee. E sullo sfondo una bonifica avviata violando, o se si preferisce disapplicando disinvoltamente la legge, giusto quanto serve per avere la possibilità di segare uno splendido bosco urbano di alto fusto.

Non sono gli ingredienti di una fiction, ma le modalità con cui, al crepuscolo del mandato di questa giunta milanese, si sta realmente consumando la vicenda della progettazione dell’Ambito di trasformazione urbana (ATU) Bovisa, nel silenzio generale dei media e nell’ignoranza non solo dei cittadini ma persino degli addetti ai lavori.

L’area di Bovisa nota come la Goccia, cioè quella occupata dai gasometri e dalle altre attrezzature industriali dismesse per la produzione del gas di città è una enclave pressoché sconosciuta perché chiusa all’accesso del pubblico, e tuttavia carica di interesse e di valori ambientali e paesaggistici: decine di affascinanti edifici di archeologia industriale sparsi in un’area popolata da più di duemila alberi di alto fusto tra i quali si è ormai insediata anche una variegata presenza faunistica.

In qualunque città civile un’area siffatta sarebbe stata da tempo oggetto di un attento rilevamento, da pubblicizzare al massimo in modo da promuovere il più largo confronto di idee sul modo di utilizzare questo gioiello, unico dentro un contesto per il resto totalmente cementificato.

Da noi sta avvenendo esattamente il contrario. Mentre si tengono serrati i cancelli dell’area con la

scusa della sua contaminazione, in modo che i cittadini siano generalmente inconsapevoli di quale tesoro si nasconda dietro i muri di recinzione, mentre si segano gli alberi con il pretesto di una bonifica che riteniamo in violazione di legge, costosa per l’erario e non necessaria, e dopo un lungo e inconcludente workshop “di partecipazione”, relativo solo ad una porzione minore dell’area, un piccolissimo gruppo di addetti disegna invece, segretamente, il futuro di tutto l’ambito di trasformazione urbana, curando di conciliare a priori gli interessi degli stakeholder, in modo da fare poi fronte compatto contro le possibili reazioni dei cittadini. Così almeno sembrerebbe di capire, a giudicare dalle modalità “carbonare” con le quali la progettazione è stata avviata e viene mantenuta riservata.

Il Comitato la Goccia ha fatto la sua parte, ricorrendo al Presidente della Repubblica contro la bonifica fuori legge e chiedendone la sospensione. L’assessore in carica, come di solito non succede, ha preferito accelerare piuttosto che attendere almeno il giudizio sulla sospensiva. Ha così fatto iniziare i lavori del lotto 1A, a partire dal taglio del bosco, che è già stato realizzato. Verrebbe da dire, nell’ evidente tentativo di porre il Consiglio di Stato, che giudicherà il ricorso, di fronte al fatto compiuto ed irreversibile.E’ dunque guerra aperta, e come in tutte le guerre agli attacchi conseguono e conseguiranno inevitabilmente i contrattacchi.

Il Comitato la Goccia chiede perciò al Consiglio comunale di Milano di intervenire per fermare le ostilità, e per richiamare tutti a considerare prioritariamente l’interesse generale della città, piuttosto che quelli degli operatori, privati o para pubblici che siano.

Il Comitato La Goccia

Antonella Adamo, Giuseppe Boatti, Luciana Bordin, Filippo Davide Cucinella, Andrea Debosio, Cinzia Del Manso, Francesca Grazzini, Maria Grazia Manzoni, Maurilio Pogliani, Francesco Radino, Edi Sanna, Marina Susana, Patrizia Trevisan, Alessandro Vimercati)

Perapprofondimenti:

La Repubblica, bloc "articolo 9", 27 dicembre 2015

C'è una cosa in cui Matteo Renzi è veramente bravo: nella televendita di se stesso.

In mimetica in Libano, a Pompei estasiato cantore dell'«Italia che riparte». Un superspot a costo zero, da spararsi alla vigilia di Natale: quasi un remake della conferenza stampa con Angela Merkel di fronte al David. Con «il patrimonio storico e artistico della nazione» ancora una volta a fare da sfondo.

Ora, non c'è dubbio che Pompei sia ripartita. Non per merito di Renzi e Franceschini: sia chiaro. La svolta di Pompei è merito del nuovo assetto di governo del Grande Progetto e della Soprintendenza voluto e attuato da Massimo Bray. E basterebbe questo a rendere un po' abusivo il trionfalismo dell'attuale governo. Che si è limitato a non far danni – una volta tanto.

Ma quel trionfalismo non è solo abusivo e sguaiato: è anche pericoloso. Perché, lo ha notato Salvatore Settis, la ripartenza di Pompei «è un segnale di speranza in un momento di difficoltà», ma quelle difficoltà sono in buona parte create dal governo stesso. E se quel segnale viene strumentalizzato per coprire le difficoltà, e chi le provoca, il risultato sarà perverso.

Questo vale per Pompei stessa. L'ex sottosegretrario ai Beni culturali Roberto Cecchi, che di Pompei è stato commissario, ha scritto una lettera al "Corriere della sera" in cui prova a ridimensionare il successo dell'attuale gestione. Da chi aveva così clamorosamente fallito ci si aspetterebbe un decoroso silenzio, ma è innegabile che Cecchi abbia ragione rammentando che «gli interventi finora sono stati 14, quelli in corso 28. Se nel 2017 si arrivasse anche a farne 70, sarebbe solo meno del 5% del totale delle domus». Dati che rendono grottesca l'autocelebrazione di Renzi. E quando Cecchi scrive (in una replica alla risposta del soprintendente di Pompei Massimo Osanna) che «bisogna evitare di dare alibi a destra e a manca, alla politica in particolare, dicendo che tutto è a posto», egli impartisce una imbarazzante lezione di buon senso, e senso delle istituzioni.

Ma il 24 dicembre la politica, a Pompei, si è presa ben più di un alibi. Renzi ha provato a nascondere dietro sei domus riaperte (come dietro ad un concorso per 500 giovani chiamati a conservare a mani nude ciò che egli stesso si appresta ad «asfaltare») il fatto che il suo governo sta letteralmente calpestando il patrimonio culturale italiano. Cito soltanto, e nel modo più corsivo, lo Sblocca Italia firmato da Maurizio Lupi (che allarga a dismisura la possibilità di derogare alle leggi e alle procedure di tutela per realizzare infrastrutture, e in generale, per cementificare; e che estromette il Mibact dalla scelta degli immobili pubblici da alienare, prefigurando la vendita di parte almeno del patrimonio culturale monumentale pubblico), la legge delega Madia (che introduce il gravissimo silenzio-assenso tra amministrazioni: il quale, in presenza di una struttura di tutela a bella posta debilitata fino al collasso, sarà il vero cavallo di Troia del sacco di ciò che resta del paesaggio italiano; e che prevede la confluenza delle soprintendenze in uffici territoriali dello Stato diretti dai prefetti, facendo così saltare ogni contrappeso tecnico al potere esecutivo), l'annunciato rilassamento della legislazione sull'esportazione delle opere d'arte.

Quanto ai musei, la riforma, la sua pessima applicazione e i nomi scelti per la nuova governance li hanno messi direttamente nelle disponibilità della politica: avviandoli sulla strada della Rai. E proprio ora, come ha notato Settis in quella intervista, il governo si è fatto dare una delega in bianco per eliminare le soprintendenze archeologiche, accorpandole a tutte le altre: non per migliorare la tutela, ma per diminuirne la capacità di disturbare il manovratore, cioè lui stesso.

Fedele al suo programma 'culturale' («padroni in casa propria»: che dopo esser stato il motto della Legge Obiettivo di Berlusconi nel 2001, è stato il claim ufficiale dello Sblocca Italia) Matteo Renzi sta riportando indietro le lancette della tutela del patrimonio e del paesaggio: fino alla drammatica fase che non solo precede l'articolo 9 della Costituzione repubblicana, ma anche le Leggi Bottai del 1939 e perfino la Legge Rosadi del 1909.

Un quadro davvero troppo nero per essere nascosto da una mano di rosso pompeiano, data a favore di telecamere alla vigilia di Natale.

    Micropolis, novembre 2015, con postscriptum

    Ogni istanza e ogni rivendicazione, Marx ce l'ha insegnato, possono trasformarsi in “spettri” che si aggirano per l'Europa. Lo spettro che fa più paura al potere, in questo momento, nelle nostre città, è quello della partecipazione, è quel legame, un tempo inscindibile, che si instaura tra la città e i cittadini che la vivono, la amano e la difendono.

    Cose semplici, naturali, sembrerebbe. Così non la vedono però i centri del potere, che hanno decretato la cacciata dei cittadini dalle loro città, a qualsiasi costo, facendo chiudere tutte le attività non turistiche, grazie al proliferare dissennato di 1, 100, 1000 centri commerciali. E' insopportabile, per chi vuole impadronirsi dei nostri centri storici per farne hotel a 5 stelle a uso esclusivo dei turisti, che qualcuno si ostini ancora a voler vivere la città, che i cittadini si sentano tali, tutt'uno con le loro case, i loro quartieri e i monumenti, che si intestardiscano a difendere un 'identità che è anche la loro.
    E' quanto sta succedendo a Gubbio da due anni a questa parte, dove un Comitato, nato spontaneamente e rappresentato da cittadini di ogni appartenenza politica, e a cui aderiscono Italia Nostra e Terra Mater, si è ribellato alla riduzione a ennesimo centro servizi di uno storico monumento che avrebbe dovuto restare pubblico: le Logge dei Tiratori della Lana ,di proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio, alla cui presidenza siede il cavaliere Carlo Colaiacovo, professione : cementiere.
    Le Logge, rarissimo opificio preindustriale, sistema basamentale dello straordinario paesaggio urbano di Gubbio, sono state costruite sotto la spinta dell'Arte della Lana nel 1603 sopra il lungo edificio dello Spedal Grande, eretto nel 1323,pensate come spazio aperto per “tirare” i panni e farli asciugare dopo averli tinti.
    La procedura che intende snaturale e che passerà alla storia come “vetrificazione delle Logge”, segue un iter veramente curioso: E' la commissaria straordinaria Maria Luisa D'Alessando, moglie di Giandomenico Fiore, membro della Fondazione Cassa di Risparmio, a dare il placet del Comune a un'operazione che la stampa nazionale definisce“dal sapore bancario”. La delibera 37 del 10/9/2013 adotta il piano attuativo.
    La proposta di trasformazione riguarda una porzione significativa dell'intero complesso edilizio, in particolare del loggiato superiore. L' intervento deturpante e impattante che si preannuncia è la sua chiusura con enormi pannelli di vetro. Anche al primo piano è prevista la ridistribuzione di tutte le superfici, con cambi di destinazione d' uso. Uno stravolgimento di quella che è, da sempre, edilizia operaia e popolare.
    La procedura, a quanto si legge nel ricorso presentato al Tar da Italia Nostra, non emana un buon odore: “Contrariamente a quanto previsto dalle leggi regionali, il parere della commissione comunale per la qualità architettonica e il paesaggio è intervenuto dopo il parere della soprintendenza”, parere dato con una rapidità mai riscontrata in precedenza dalla dottoressa Di Bene. Escono sulla stampa nazionale articoli di aperta critica all’operazione, e a stessa Soprintendenza si vede costretta a indire un tavolo tecnico al Ministero per valutare il progetto. Le conclusioni oscillano tra il patetico e l’esilarante. Si arriva a dire che senza la chiusura con i vetri un forte vento potrebbe scoperchiare il tetto, si dice anche che il guano dei volatili è causa di degrado dell’edificio, come se a tutti i componenti del tavolo fosse sconosciuto il fatto che esistono varie tecnologie, ampiamente sperimentate, per rimediare al problema.

    Per finire, un tocco squisitamente Deamicisiano suggella il tutto: l’intervento, si legge, è pensato per permettere anche i disabili (sic!) di fruire delle bellezze eugubine. Si registra invece l' evidente l'assenza di qualsiasi studio, da parte del tavolo ministeriale, riferito al vincolo paesaggistico. La vetrificazione delle Logge modificherà per sempre il carattere dell’edificio con interventi incompatibili, contrari ai principi di salvaguardia e tutela del patrimonio architettonico e paesaggistico sanciti dalla Costituzione.

    Dell'aumento di volumi, poi, di cui aveva parlato a suo tempo il consigliere comunale Pavilio Lupini, nessuna menzione: “Il Comune”osserva Lupini,”avrebbe dovuto richiedere innanzitutto un parere della Soprintendenza sul piano attuativo e solo dopo sul progetto esecutivo. Si è invece proceduto al contrario. Una seconda obiezione tiene conto delle difformità rispetto al piano regolatore del Comune di Gubbio: "In tutti gli edifici del centro storico, tranne quattro o cinque motivatamente individuati, vale la normativa che impedisce la realizzazione di nuovi volumi. Le Logge, chiuse con vetrate, vengono trasformate da spazio aperto a chiuso e dunque sono incrementati i volumi.”

    Al primo convegno organizzato dal Comitato cittadino accorrono in massa i politici: sta per iniziare la campagna elettorale e c'è da fare un buon bottino di voti. Filippo Mario Stirati si dice pubblicamente contrario alla chiusura delle Logge, salvo poi rimangiarsi tutto appena avvenuta la sua elezione a Sindaco di Gubbio. l Comitato insorge contro questo voltafaccia e lo accusa di aver carpito la buona fede di tanti cittadini. Di contro, si accusano i membri del Comitato di immobilismo e di anti modernità.
    Le Logge, come replica l'architetto Nello Teodori, membro del Comitato, “sono uno straordinario esempio di architettura pre-industriale europea e per questo devono essere rispettate nella loro identità di edificio aperto e coperto. Potrebbero essere museo di se stesse o magnifica piazza aperta e coperta, cerniera ideale tra piazza San Giovanni e piazza Quaranta Martiri. Un luogo dove l’attivazione di nuove funzioni pubbliche moderne e contemporanee è compatibile con la tutela storica di un edificio dalla forte connotazione architettonica e simbolica. “ Le funzioni non devono costringere l'edificio ad adeguarsi ad esse, ma è vero il contrario, dice.

    In una delle tavole rotonde promosse dal Comitato cittadino per la tutela dei beni culturali e del paesaggio, Paolo Berdini denuncerà: “Sotto questa operazione c'è un aumento del valore dell'immobile di almeno 5 volte!” Il Comitato, ignorato dai media locali e regionali, ampiamente disponibili per chi invece è a favore alla “vetrificazione”, sceglie altre strategie di informazione contro un'operazione che vorrebbe lasciare un “segno” sulla città da parte del potere che la governa e influenza.
    Dall'ottobre 2013 a oggi saranno 14 i pubblici manifesti affissi nel centro storico, due i convegni e una mostra per i due anni di opposizione al progetto a cui aderiranno con le proprie opere artisti di rilevanza internazionale, cittadini e turisti. Autorevoli personalità sostengono e appoggiano le iniziative: da Settis a Montanari, da De Lucia, a Berdini, a Maddalena, a Fofi, a Mozzoni Crespi, da Piccinini a Manganelli. E' un coro generale di protesta ,quello che si leva contro i nuovi vandali che vogliono distruggere e snaturare il nostro patrimonio storico.
    Ma anche Interrogazioni regionali (Brutti e Goracci) e parlamentari (Zaccagnini, Fratoianni, Giordano) sembrano non sortire effetto. Sgarbi, invitato dalla committenza, aveva suggerito, come diplomatico ripiego, una cella interna, visto che le Logge gli fanno pensare a un tempio greco e come tale non riesce ad immaginarlo vetrificato.
    Recentemente, il parere negativo del nuovo Soprintendente Gizzi su una variante al progetto accende un vespaio : in un dossier del Presidente della Regione e di vari sindaci ne chiede al Presidente Renzi la rimozione in quanto “poco collaborativo”. Al momento attuale, per dirla con il titolo di un'opera presentata alla mostra contro la vetrificazione “Non ci resta che piangere”. Nonostante gli sforzi fatti, infatti, il ricorso al Tar di Italia Nostra, e una petizione che, con quelle raccolte tra Change,org e la mostra ormai naviga sulle 1100 firme, sembra che la committenza sia intenzionata ad andare avanti. I lavori potrebbero iniziare a breve.
    A consolazione, qualche stralcio dal video inviato da Tomaso Montanari alla mostra “Le Logge della Bellezza”:“...Questo vorrei dire a voi, del Comitato per le Logge di Gubbio contro la vetrificazione. Voi svolgete un servizio pubblico che Comune, Regione, Sovrintendenza, Ministero per i Beni Culturali, avrebbero dovuto svolgere, e che in parte provano a svolgere, almeno per la Soprintendenza, fra mille difficoltà. Voi svolgete un servizio pubblico da privati, e in un paese in cui le istituzioni pubbliche invece fanno gli interessi privati, questo è rivoluzionario. Vi dico “andate avanti”, perché voi fate un servizio per tutti noi, voi rappresentate tutto il popolo italiano, voi applicate quella che Calamandrei chiamava la Grande Incompiuta, la Costituzione, voi in questo momento cercate di dire a tutti: “Dobbiamo attuare l’articolo 9”. Le Logge di Gubbio, anche se sono privatizzate, sono di tutti noi, a titolo di sovranità, quindi voi avete il dovere e il diritto di parlare, di dire quello che pensate.” Alla faccia di chi, questo diritto, vorrebbe depennarlo per sempre dal codice dei “cittadini perfetti”...
    La buona notizia.
    Inviata a eddyburg da Giovanna Nigi il 25 dicembre 2015:
    P.S Anche la suprema carica dello Stato, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, riconosce quanto sia deturpante la “vetrificazione” delle Logge dei Tiratori. Pubblichiamo il testo integrale della lettera ricevuta oggi 23 dicembre 2015 in risposta alla petizione con oltre 1100 firme inviatagli dal nostro Comitato.
    «Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica Il Consigliere per la conservazione del patrimonio artistico
    «Roma, 11 dicembre 2015 Gentile...
    «il Presidente ha ricevuto la Sua lettera e mi prega di risponderLe. Condivido pienamente la posizione del Comitato che difende l’antico opificio del Seicento le “Logge dei Tiratori dell’Arte della Lana”. Vetrificare questo mirabile monumento significa ferirlo e deturparlo. Trasmetto copia di questa mia lettera al Ministro Franceschini. Con viva cordialità, Suo Prof. Luis Godart »

    In pompa magna, con sberleffi da giullare ai gufi di turno, celebrano un altro pezzo di autostrada. Intanto le città sono sotto una cappa di smog. Chi non è ubriaco dei suoi miti dovrebbe comprendere che c'è un nesso.

    Potrebbero sembrare due problemi separati a prima vista ma invece c’è nella realtà un legame indiscutibile tra i due avvenimenti. L'inaugurazione della Variante di Valico è certamente un successo per Autostrade e per i tanti governi di destra e di sinistra che l'hanno promossa ed autorizzata. E la sua realizzazione è una sconfitta per noi ambientalisti e verdi, che tanto ci siamo impegnati per contrastarla.

    Ma resto convinta che sia stata una buona battaglia perché il futuro non va in quella direzione, perché la riduzione dei gas serra imporrà scelte diverse invece di far crescere il traffico su strada, che la consapevolezza che il consumo di suolo va fermato e che non c’è una crescita infinita, sono temi molto più diffusi di 30 anni fa.

    Perche “sbottigliare” il traffico al valico servirà a ben poco se i problemi stanno nei nodi urbani e lungo le tangenziali come accade a Bologna e Firenze,

    Se la Variante di Valico avrà successo inevitabilmente aumenterà i flussi di auto e TIR sui due nodi di Bologna e Firenze dove proseguirà la discussione su tangenziali e bretelle di cui è nota la difficoltà ad individuare tracciati accettabili. E’ recente la decisione da parte dei sindaci della città metropolitana di Bologna di dire no al passante autostradale nella pianura bolognese e di tornare a ragionare di ampliamento della tangenziale urbana. Se questa è la prospettiva il traffico su strada aumenterà a ridosso delle città che già soffocano di traffico, dove bastano due mesi senza pioggia per portare le polvere sottili a livelli inaccettabili, con fenomeni che in futuro proprio a causa del caos climatico diventeranno sempre più frequenti.

    Senza contare che in sede europea, oltre alla procedura d’infrazione aperta per la violazione dei limiti della qualità dell’aria ed il mancato risanamento, sono allo studio limiti più restrittivi per diversi inquinanti, tra cui le polveri sottili PM 2,5, quelle più insidiose per la salute umana.

    Se poi realizzata la Variante di Valico il traffico restasse stabile, questo sarebbe un problema per i conti di Autostrade e per i tanti sostenitori politici, perché sarebbe stata realizzata una grande opera inutile.

    Di sicuro la realizzazione dell'alta velocità ferroviaria Milano-Roma ha ridotto la quota modale dell'auto su questa tratta ed aumentato il numero di viaggi di breve distanza anche sull'autostrada, quelli a cui il nuovo valico autostradale e l’alta velocità servono a poco.

    Perché sono le percorrenze di breve raggio per gli spostamenti - pendolari e non - intorno alle grandi città il vero nostro problema principale ed i grandi numeri da servire.

    Manca il potenziamento dei servizi ferroviari metropolitani ed urbani, che invece è decisamente indietro rispetto a quello che era stato programmato, siamo al 30% di investimenti, di treni e servizi promessi sui nodi urbani.

    E poi c’è il problema delle merci, che invece trarrà benefici dalla Variante di Valico, in termini di percorso, di pendenza e di chilometri effettuati. Un incentivo alla crescita del trasporto su gomma, che oggi già assorbe oltre il 60% del traffico merci, mentre gli obiettivi di riduzione dei gas serra richiederebbero il riequilibrio modale, come sembra voler fare anche la legge di stabilità 2016 del Governo appena approvata dal Parlamento, che sostiene con l’ecobonus l’intermodalità verso la ferrovia ed il trasporto marittimo.

    Una misura giusta ma che rischia di non produrre i risultati attesi se il traffico su strada viene ancora agevolato con incentivi all’autotrasporto come avviene ancora oggi e da nuove infrastrutture come la Variante di Valico.

    Non si intravede ancora un progetto concreto delle Ferrovie dello Stato di potenziamento del servizio merci che sembra non superare il 6% degli spostamenti merci, di sviluppo dell’intermodalità, di logistica integrata, di integrazione con i porti.

    Sembrano questi – il trasporto pendolare ed il trasporto merci – gli obiettivi prioritari dei nuovi vertici aziendali di FS nominati di recente: speriamo davvero che questi obiettivi vengano perseguiti con la stessa determinazione che è stata dedicata all’Alta Velocità.

    Infine vanno registrati dei mutamenti molto interessanti ed innovativi nel campo della mobilità: la sharing mobility sta cambiando l'atteggiamento verso l'auto, di cui è avviato l’uso condiviso senza la proprietà individuale. E’ un mutamento importante - dal possesso al servizio dell’auto - e vedremo che effetti produrrà sui flussi di traffico e sull’indice di motorizzazione. Nel 2014 come hanno dimostrato i dati c’è stata una ripresa del trasporto pubblico ed è aumentato l’uso della bicicletta.

    In futuro il veicolo elettrico ad energia rinnovabile, in condivisione - e magari senza guidatore - sarà un elemento di forte innovazione per muoversi. Cosi come nei sistemi produttivi e della distribuzione delle merci ci sono delle innovazioni che cambieranno gli scenari conosciuti, come l’e-commerce e le stampanti 3D.E la programmazione delle infrastrutture - a partire dalla revisione della lista delle opere della legge obiettivo che prevede oltre 1000 chilometri di nuove autostrade – è un elemento essenziale di innovazione delle politiche dei trasporti verso la sostenibilità.

    La battaglia degli ambientalisti e dei verdi contro la variante di valico è stata una battaglia per un diverso sistema di mobilità, un tema che resta come dimostrano i blocchi del traffico nelle principali città, di scottante attualità. Sarebbe bello tornarne a ragionare pubblicamente.

    Spunti positivi ed esempi negativi a proposito sul consumo di suolo in Lombardia e sui tentativi di contrastarlo. Millennio urbano, 22 dicembre 2015

    Alcuni recenti interventi normativi regionali e il disegno di legge nazionale non fanno ben sperare sulla concreta intenzione di porre in Italia un deciso limite al consumo di suolo. Del tema se ne era cominciato a parlare circa 15 anni fa: all’inizio tra addetti ai lavori, negli ultimi anni è diventato argomento di dominio pubblico. Ma paradossalmente, con la crescita di sensibilità sul tema, l’efficacia di azione si è andata affievolendo, fino a produrre norme che sembrano scritte per raggiungere risultati opposti rispetto agli obbiettivi dichiarati. In altre parole, procedure attuative farraginose, regole complesse, eccezioni ampie e poco definite creano incertezza interpretativa e spazio di manovra sufficiente per mantenere tutto come prima.

    Questo tema, così importante, rischia di essere svuotato di senso dai muri di gomma che gli sono stati costruiti attorno, e di finire nel dimenticatoio. La situazione ad oggi, dopo 15 anni di tentativi, è lucidamente descritta da Edoardo Salzano nell’editoriale pubblicato qualche giorno fa su eddyburg, nel quale evidenzia le ombre di alcune delle più recenti proposte normative.

    Ad integrazione di questo autorevole intervento provo qui ad aggiungere qualche dato e considerazione per capire cosa si potrebbe fare. Dopo avere visto per tre lustri tentativi vani di regolazione del consumo di suolo sono convinto che le radici del problema siano molto più profonde di quanto possa essere raggiunto con gli strumenti dell’urbanistica. La rendita di posizione produce profitti ingenti e facili, sui quali negli anni si sono consolidate prassi clientelari diffuse trasversalmente in tutti i settori della società, molto difficili da estirpare. Il consumo di suolo ha effetti non solo su ambiente e qualità della vita; produce degrado, congestione, inefficienze, finendo per indebolire i territori e i sistemi economici ad essi associati. Un problema grave quindi sul quale, anche se non si vede ora via d’uscita, si deve continuare a mantenere alta l’attenzione e a cercare una via di soluzione.

    Esempi negativi

    Salzano spiega le carenze del disegno di legge nazionale, e cita anche l’esempio negativo del progetto di legge n.390 della Regione Veneto sul consumo di suolo. Credo che a questi si debba aggiungere la LR 31-2014 della Regione Lombardia che nonostante il titolo – “Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato” – sembra più che altro occuparsi di tutelare le aree già programmate, e gli interessi dei relativi proprietari, congelando la destinazione d’uso e impedendo di fatto di riclassificare come agricole le aree da tempo non attuate. Uno studio presentato ad inizio 2015 da Eupolis, centro di ricerca della Regione, mostra che negli attuali piani dei comuni ci sono aree programmate e non attuate per una dimensione superiore a 500 km2, ossia quasi 3 volte la dimensione del Comune di Milano.

    La norma assegna al Piano territoriale regionale (PTR) il compito di definire le regole per la progressiva riduzione del consumo di suolo, ma le prime elaborazioni circolate in queste settimane mostrano una procedura molto complessa e farraginosa all’interno della quale non sarà difficile fare passare eccezioni utilizzando ogni forma di giustificazione. La legge Lombarda costituisce un’esemplare anticipazione di quello che in scala più ampia potrebbe accadere a livello nazionale se il disegno di legge sarà approvato.

    Spunti positivi

    Nel suo editoriale Salzano cita come esempio positivo le regole sul consumo di suolo inserite nella recente legge sul governo del territorio della Regione Toscana. La legge è molto interessante e innovativa, così come lo erano per i loro tempi le precedenti leggi Toscane del 1995 e 2005, le quali si sono però perse a livello locale per carenza di strumenti attuativi. Regole molto simili a quelle regionali erano già in modo lungimirante state inserite nel 2011 nella variante di un piano territoriale provinciale, che però non è mai arrivata ad approvazione. Vedremo se questa nuova norma produrrà risultati più concreti.

    Un sistema di regole per molti aspetti simile a quello della normativa Toscana è incluso nel nuovo PTCP di Pavia, adottato nel 2013 e approvato nel 2015. Purtroppo la recente legge della Lombardia sul consumo di suolo (la sopra citata LR 31-2014) ne congela l’applicazione per un periodo di almeno tre anni, passato il quale le decisioni sull’attuazione saranno nelle mani dei comuni che dalla prossima estate entreranno negli organi di secondo livello della Provincia.

    Oltre ad alcuni comuni, pochissimi, che hanno adottato una linea seria sul consumo di suolo, vanno segnalati i tentativi di molte province, che essendo un po’ più distanti dagli interessi locali, negli anni scorsi con i propri PTCP hanno cercato di regolare e contenere il dimensionamento eccessivo dei piani comunali. Nonostante i limiti all’azione dell’ente intermedio imposti dalle norme nazionali e regionali, alcuni di questi piani provinciali sono stati approvati e hanno prodotto interessanti risultati, che se non hanno fermato il consumo di suolo almeno hanno in parte frenato il debordare del fenomeno. Certo in molti casi le regole approvate con i piani sono poi state disattese nell’applicazione delle Amministrazioni, anche dello stesso colore, che sono succedute. In ogni caso si tratta di un complesso di esperienze utili alle quali riferirsi per sviluppare nuove strategie, anche analizzando gli errori del passato per superarli.

    Tra i dati positivi va segnalata, importante, la sentenza del TAR Milano n.576/2015, che supera in efficacia sia le norme regionali che gli strumenti di pianificazione. Ad inizio 2015 ha completamente annullato il piano generale di un importante comune per incompatibilità con alcuni obiettivi del vigente PTCP (Piano territoriale di coordinamento provinciale), e tra queste l’eccesso di consumo di suolo in quanto “Le trasformazioni previste dal PGT comporterebbero un consumo di suolo largamente eccedente rispetto a quanto consentito dal PTCP” recita la sentenza.[1] La giurisprudenza traccia in modo chiaro una direzione nuova da seguire, per definire alcune semplici e buone regole per governare i temi di area vasta, tra i quali va annoverato anche quello del consumo di suolo.

    Per le note e i riferimenti bibliografici vedi l'originale in Millennio urbano

    Suggerimenti per un riuso corretto (dal punto di vista delle persone) delle grandi aree dismesse. Milano. Non averli seguiti ha comportato una perdita per la città. La Repubblica, ed. Milano, 20 dicembre 2015

    Considerarela proprietà dei suoli come depositaria di diritti astratti (indici diedificabilità), in assenza di una guida strategica da parte della manopubblica, porta a esiti devastanti sul fronte del fare città. Tanto più per legrandi aree dimesse. Costellata com’è di straordinarie occasioni perdute,l’esperienza milanese dell’ultimo quarto di secolo è lì a dimostrarlo.

    Gliindici volumetrici allora non contano? Tutt’altro; il problema è se hanno unavalenza programmatica in senso civile. Ovvero se sono sorretti da un’idea dicittà e dunque da adeguate simulazioni/prescrizioni sui possibili esiti su trefronti: coesione sociale, vitalità degli spazi pubblici, architettura deiluoghi. Decenni di sperimentazioni sul recupero delle grandi aree dismesse diMilano mi portano a dire che, se si supera la soglia dei 0,5 mq di superficielorda di pavimento su 1 mq di superficie territoriale, gli esiti sonoinevitabilmente squilibrati: verranno a mancare le dotazioni in termini diverde e servizi necessarie per infondere qualità urbana ai comparti interessati.Si obietterà che, con l’Accordo di Programma che non ha avuto il via libera dalConsiglio comunale, le volumetrie previste dalla Giunta Moratti (1mq/1mq) sonostate ridotte del 33%. Il passo avanti è apprezzabile, ma non basta. Vannoulteriormente riviste le quantità, ma soprattutto è il processo che vagovernato. Il Comune non può stare alla finestra aspettando solo di incassaregli oneri di urbanizzazione. Deve entrare nel processo come soggettoprogettante e come tutore del bene collettivo. Come? Richiedendo lacostituzione di una Società di Trasformazione Urbana (STU), sotto il propriocontrollo.

    Sonoin gioco aree la cui proprietà è in capo a un soggetto pubblico come leFerrovie della Stato. Le Ferrovie hanno goduto di facilitazioni per larealizzazione dei loro impianti: le aree che si liberano sono di proprietàdella comunità civile, presente e futura. Anche per la loro posizione, questivasti spazi si prestano a essere inseriti in un disegno più ampio, volto arinsaldare parti di città in una logica di riqualificazione estesa. Sinergie econnessioni che devono andare ben aldilà delle aree direttamente investite dallatrasformazione. È l’occasione per fare qualcosa di concreto per le periferie eper dar vita a un vero policentrismo rinsaldando la città compatta. Oltre aricondurre gli indici nella misura sopra indicata, l’Accordo di Programma deve dunquecontenere prescrizioni che guidino gli investitori al conseguimento diobiettivi civili – integrazione, vivibilità, urbanità, sostenibilità e bellezza– da cui può trarre vantaggio la stessa iniziativa privata.

    Con il recupero degli scali ferroviari si apre dunque unnuovo capitolo di importanza capitale per la città ambrosiana. A ben vedere,dopo quattro anni di governo, è questo il primo vero banco di prova dellaGiunta Pisapia. Si vedrà da qui se l’Amministrazione arancione è effettivamentein grado di avviare una stagione progettuale in cui il destino della cittàtutta venga finalmente posto al centro della strategia politica. Dopo l’euforiavacua che ha connotato la stagione di Expo, è tempo di scelte concrete esostanziali. Altro che schermaglie sulle primarie: è dopo le decisioni sugliscali (e sulle caserme) che si potrà fare un bilancio vero su cinque anni

    Tutela e valorizzazione del patrimonio culturale sono state rigidamente separate dalla riforma Franceschini. Ad unirle, ormai, è un orizzonte egualmente nero. Pochi giorni fa un emendamento (il 174bis) alla legge di stabilità ha attribuito al ministro per i Beni culturali la facoltà di accorpare con un suo decreto le soprintendenze archeologiche a quelle già miste per le belle arti e il paesaggio, e di fare altrettanto con le direzioni centrali. Potenzialmente questa facoltà riguarda anche gli archivi e le biblioteche. Sconcertante è innanzitutto il metodo: all’indomani di una riforma radicale, si torna ad intervenire, ma non lo si fa con un dibattito nel Paese e nel Parlamento, bensì con poche righe infilate in corsa. Siamo al limite della costituzionalità, visto che ad essere investita è una funzione (la tutela) garantita dalla Carta al rango più alto, quello dei principi fondamentali. Nel merito, infatti, si va verso una compressione estrema della componente essenziale della tutela, quella tecnica. Ed è un passo funzionale alla sottomissione delle soprintendenze, così unificate, alle prefetture: l’obiettivo indicato dalla legge delega Madia.
    Sul fronte della valorizzazione la notizia è che la politica prende direttamente il controllo dei musei, procedendo verso un modello che inizia ad assomigliare a quello del cda della Rai.

    La riforma ha coinvolto direttamente gli enti locali: Comuni e Regioni nominano ora parte dei comitati scientifici dei musei nazionali. Un federalismo museale evidentemente incostituzionale: perché l’articolo 9 parla di patrimonio «della nazione» proprio per evitare quella che, in Costituente, Concetto Marchesi bollò come una pericolosa «raffica regionalista». Perché il sindaco di Firenze e il presidente della Toscana devono mettere bocca nella conduzione scientifica degli Uffizi? Che d’ora in poi Maroni abbia il diritto di influenzare la politica culturale di Brera, Brugnaro quella dell’Accademia di Venezia, De Luca quella di Capodimonte non è una buona notizia: è un altro passo verso la balcanizzazione di quell’unità culturale che è il più importante collante della nazione.

    Se a questo si somma l’appello con cui Dario Franceschini ha supplicato le grandi imprese di «adottare» i venti supermusei (evidentemente orfani dello Stato), promettendo esplicitamente un posto nella governance, è chiaro che stiamo andando verso la trasformazione dei grandi musei pubblici in fondazioni di partecipazione, con enti locali e privati alla guida. È facile prevedere che questo aumenterà la mercificazione del patrimonio, con ulteriore asservimento delle ragioni della conoscenza agli interessi del mercato, e all’invadenza delle oligarchie locali.

    Ma la politica si fa invadente anche al centro: la riforma dà al ministro il potere di scegliere i direttori chiave, e nominare interamente i cda dei musei. E Franceschini sta nominando i suoi fedelissimi. Nel cda degli Uffizi ha collocato il suo vero braccio destro, e autore materiale della riforma, il giurista Lorenzo Casini. Nessun dubbio sulla sua preparazione, ma Casini è stato il membro chiave nella commissione che ha scelto i superdirettori, e con lui entra nel cda degli Uffizi un’altra componente di quella commissione, Claudia Ferrazzi: un intreccio come minimo assai inopportuno.

    Non basta: Franceschini ha nominato un altro suo consigliere (Stefano Baia Curioni) nel cda di Brera, oltre che in quello del Piccolo di Milano. E prima aveva nominato gli stessi Ferrazzi e Baia Curioni nel Consiglio Superiore dei Beni Culturali, il cui regolamento prevede che i membri del Consiglio stesso «non possono essere membri del Consiglio di amministrazione di istituzioni o enti destinatari di contributi o altre forme di finanziamento da parte del Ministero», quali evidentemente i musei. A
    Ancora più inquietante è la notiza, apparsa sul Corriere del Mezzogiorno e mai smentita, secondo la quale Franceschini avrebbe chiesto e ottenuto dal presidente della Campania di recedere dalla nomina dell’ex soprintendente Nicola Spinosa nel comitato scientifico di Capodimonte. E il motivo era la dichiarata contrarietà di Spinosa alla riforma dei musei attuata da Franceschini. Davvero l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è una sorta di maccartismo contro gli storici dell’arte non allineati: queste modalità di reclutamento rappresentano il culmine della progressiva espulsione dalla guida del patrimonio culturale dei tecnici selezionati da altri tecnici sulla base delle regole della comunità scientifica. Nella stessa direzione si può ora leggere la determinazione con cui Franceschini ha voluto direttori stranieri. Il punto non è certo la nazionalità, ma l’estraneità ai nostri ranghi tecnici: la politica — questa politica — preferisce servirsi di moderni capitani di ventura pronti a render conto solo al potere che li ha nominati. Espulsione dei saperi tecnici e invadenza della politica: ad essere rottamato è il progetto della Costituzione.
    Non è solo "modello Rai". E' ciò che sta accadendo in tutti i settori in cui il governo Renzi "riforma": dalla cultura alla scuola, dalla sanità all'amministrazione dello stato, dalla finanza ai mass media. Si chiama "regime feudale": un uomo solo solo al comando, oggi il ragazzo di Rignano, domani chissà poi una piramide di feudatari fedeli perchè grati. Al posto della ruota dentata e della stella contornata dallela fronde di quercia e , il simbolo delle "Voce del padrone", che abbiamo scelto come icona

    Ecco perché per Milano è stato meglio non approvare un progetto di ulteriore mercificazione e densificazione della città. La città invisibile rivista online, n. 33, 20 dicembre 2015
    «Le aree ferroviarie sono un’occasione per la riconfigurazione delle città italiane e anche a Firenze c’è in questione il destino di un’area ferroviaria analoga a quella milanese, vicenda analizzata in questo contributo di Sergio Brenna: le ex Officine ferroviarie di Porta a Prato con la ex stazione Leopolda e il nuovo Teatro dell’Opera. Un corredo eccellente per i 54.000 mq che l’Amministrazione Comunale ha lasciato alla “Città dei Balocchi” per grandi ricchi, sottraendo alla città dei cittadini risorse essenziali rappresentate da quelle ex Officine. (rbg)»

    La Giunta Pisapia la scorsa settimana ha subìto un imprevisto rovescio con la mancata ratifica in Consiglio comunale dell’Accordo di programma con FS sul riuso degli ex scali ferroviari milanesi, per il voto contrario, oltre quello prevedibile del centro-destra, dei due consiglieri di Sinistra per Pisapia, Rizzo e Sonego, del socialista Biscardini, presidente della commissione urbanistica, e a causa di altre assenze e astensioni persino di alcuni consiglieri PD.

    I “renitenti” alla ratifica dell’Accordo nella forma in cui è stato sottoscritto con FS dal Sindaco con l’avallo della Dirigenza del settore Urbanistica sono stati subito bollati come autori di un gesto inconsulto, contrario all’interesse della città e quelli di maggioranza come traditori del programma politico-amministrativo e minacciati di “confino politico” nella prossima campagna elettorale.

    Il nuovo assessore all’urbanistica, l’urbanista Balducci, sembra aver assunto un atteggiamento di distacco neutrale sui suoi contenuti, avendoli integralmente ereditati dalle trattative con FS condotte dal precedente assessore e vicesindaco, l’avvocato Lucia De Cesaris, dimessasi improvvisamente nel luglio scorso con motivazioni mai del tutto chiarite.

    Il riutilizzo degli scali ferroviari è il primo grande piano di trasformazione urbana gestito direttamente dalla Giunta Pisapia e non ereditato dalle precedenti Giunte Albertini e Moratti, come quelli ex Fiera/Citylife ed ex Centro Direzionale/Porta Nuova. L’Accordo con FS, quindi, dovrebbe costituire il banco di prova della capacità dell’Amministrazione arancione di essere effettivamente in grado di avviare una stagione progettuale in cui il destino della città tutta venga finalmente posto al centro della strategia politica, fuori dall’orgia di vanagloria che, nel suo “piccolo”, ha saputo essere la stagione di Expo (poiché i problemi dell’alimentazione mondiale richiedono ben diverso e più duraturo impegno per essere avviati a soluzione).

    Perché, dunque, è stato invece un bene per la città non aver ratificato in quella forma l’Accordo di Programma con FS e perché i consiglieri di maggioranza che vi si sono opposti andrebbero ringraziati?

    Perché la ratifica di quell’Accordo così come sottoscritto dal Sindaco e avallato dalla Dirigenza dell’Ufficio Grandi Progetti Urbani (che – voglio ricordarlo – è la stessa che ha contribuito a definire gli sciagurati piani di riutilizzo di ex Fiera/Citylife e dell’ex Centro Direzionale/Porta Nuova) produrrebbe gli stessi effetti di densità abitativa di questi precedenti, così tenacemente voluti dalle Giunte Albertini/Lupi e Moratti/Masseroli e subìti nella loro attuazione da quella Pisapia/De Cesaris.

    Attuazioni di cui oggi, tuttavia, la stessa Giunta Pisapia si fa vanto come modello di una Milano in rilancio grazie ad una “metrolife style” (shopping e happy hour in un ambiente di pareti specchiate, luci e colori, fontane zampillanti, piazze più che altro simili a studi televisivi, ecc.) di facile gradimento per stili di vita ritenuti emergenti e modello riproponibile per la Milano del futuro nelle ancor più ampie trasformazioni urbane quali gli ex scali ferroviari e le ex caserme.

    Insomma, nemmeno più solo un quartiere dei divertimenti – come in uso in alcune metropoli occidentali – ma l’intera Milano come una Città dei Balocchi, magari sotto l’egida bi-partisan del “conducator” di Expo, Beppe Sala.

    Ciascuno è libero di valutare se è questo è lo stile di vita che gradisce veder realizzato per la Milano futura, ma certo è bene poi assumersene la responsabilità.

    Si possono risolvere queste incongruenze? Certamente! rimodulando le quantità edificabili e la ripartizione tra spazi pubblici territoriali e di quartiere o avviando meccanismi “perequativi” con altre grandi proprietà. Non sto a entrare nei dettagli tecnici che ho già esposto più ampiamente altrove: lo si può fare anche abbastanza celermente, soprattutto se le fasi progettuali successive non verranno “delegate” totalmente alle scelte della proprietà, ma tenute direttamente sotto controllo pubblico tramite una Società di Trasformazione Urbana, che sappia massimizzarne l’utilità collettiva (edilizia sociale e in affitto, spazi associativi ecc.) e la forma urbana voluta.

    Invece, voler riproporre subito una nuova ratifica dell’accordo tal quale, come sta facendo la Giunta Pisapia, è un atto di protervia con cui si vuole precettare il Consiglio comunale. Quasi a voler dire: se l’hanno già firmato il Sindaco e la Dirigenza, come si permette il Consiglio comunale di intromettersi?

    Non è davvero un bel clima per questa Giunta: mi pare ricordi troppo quello vissuto all’epoca di quelle Albertini e Moratti, che Pisapia col Movimento arancione aveva promesso di cancellare.

    Una rigorosa e appassionata analisi della grande truffa perpetrata a Parigi ai danni di moltitudini (oggi i misconosciuti "profughi ambientali", domani anche noi e i nostri posteri) e a vantaggio del nuovo greenbusiness. 20 dicembre 2015

    L'accordo di Parigi sul clima è, a dir poco, inadeguato. Il coro entusiasta che si è levato, anche da alcune organizzazioni ambientaliste, è del tutto fuori luogo. A voler essere precisi la Cop 21 segna l'ennesimo tentativo dei governi degli stati del pianeta di prendere tempo e di procrastinare decisioni che sono sempre più necessarie, urgenti ed evidenti.

    Obiettivo dei governi: procrastinare.
    Ma per molti è già tardi
    Per molti il tempo è già ora. I 266 milioni di profughi ambientali (Parlamento europeo, Commissione per l'ambiente, documento 30/9/2015) che negli ultimi cinque anni hanno dovuto abbandonare le loro abitazioni sono stati inopinatamente cancellati dal testo finale dell'accordo di Parigi. Inesistenti. A loro gli stati rifiutano il riconoscimento di rifugiati climatici.
    Non hanno più tempo nemmeno i “Piccoli stati insulari” a rischio di sommersione. Non sto pensando all'isola di Tokelau e agli atolli del Pacifico. E nemmeno a Chalan Beel, negli estuari della rete fluviale del Bangladesh. Ma a Venezia dove le mastodontiche e costosissime dighe mobili verranno sormontate perchè progettate per un orizzonte di efficacia di innalzamento del livello modio del mare di “soli” 80 cm.
    Non hanno più tempo le popolazioni asfissiate dai gas di scarico e dai particolati sottili inalabili emessi dalle centrali a carbone, dai cementifici, dagli inceneritori, dalle navi, dagli aerei a cherosene, dalle automobili. Il contatore della Organizzazione Mondiale della Salute che registra le morti premature, l'asma e le bronchiti croniche causate dall'inquinamento atmosferico continuerà a girare. A Pechino come nella Pianura Padana. Le splendide foto degli animali in via di estinzione continueranno a dare spettacolo sul colonnato di San Pietro anche nei prossimi giubilei.
    L'accordo andrà in vigore il primo gennaio del 2021. Il primo Global Stocktake è fissato per il 2023. Fino al 2030 i paesi in via di sviluppo potranno aumentare le loro emissioni.

    Prosegue la guerra contro la Terra
    e i suoi abitanti

    La guerra contro la Terra e i suoi abitati scatenata duecento anni fa dai paesi di più antica industrializzazione non si è affatto conclusa. Gli stati maggiori del business a Parigi hanno convenuto di usare nuove armi non convenzionali per continuare a condurre i loro affari. Investiranno in geo-ingegneria e in biotecnologie per tentare di catturare il diossido di carbonio dall'atmosfera e iniettarlo a pressione nel sottosuolo (Carbon Capture and Storage), pianteranno monoculture di alberi transgenici per aumentare la fotosintesi clorofilliana, fertilizzeranno gli oceani per assorbire più anidride carbonica e aumenteranno la nuvolosità diffondendo particelle di acido solforico ad alta quota per manipolare le radiazioni solari e diminuire l'effetto serra. Ci daranno da mangiare hamburger sintetici e ortaggi coltivati senza terra. Chissà che buoni!
    Del resto, sull'ultimo lembo dell'ultimo ghiacciaio delle Dolomiti, sulla Marmolada, quest'estate, hanno provveduto a stendere un pietoso telo di nailon nel disperato tentativo di proteggerlo dal sole. Il dott. Frankenstein non si arrende mai, e il mito di Prometeo non accenna a sfiorire nemmeno dopo la prova del nucleare.
    L'accordo di Parigi parla chiaro: l'obiettivo non è quello di chiudere le fonti dei gas climalteranti (e lasciare carbone e petrolio riposare sotto terra), ma di raggiungere la “neutralità delle emissioni” (nella seconda metà del secolo) attraverso le compensazioni: tanto gas posso emettere quanto riesco a dimostrare di farlo sparire.
    Nessuna autocritica
    sui fallimenti del passato
    Nessuna considerazione autocritica sui risultati fallimentari fin qui raggiunti dai meccanismi (già previsti dal protocollo di Kyoto e applicati in Europa) di compra/vendita dei “diritti di emissione”(Emission Trading Scheme), ovvero permessi di inquinamento e del loro trasferimento nelle diverse aree del pianeta. Il mercato artificiale dell'“aria fritta” (Cape and Trade) ha aperto una nuovo campo per la finanziarizzazione dell'economia, ma non ha comportato alcuna reale riduzione delle emissioni. Il colonialismo del carbonio impone ai paesi poveri di provvedere a ripulire l'aria che i paesi ricchi sporcano con i loro smodati consumi. Lo stesso meccanismo di computo delle emissioni è una vera e propria truffa ai danni dei paesi produttori di beni che poi vengono consumati altrove.
    Un minimo di onestà imporrebbe che fossero i beneficiari finali a pagare le esternalità negative generate lungo la filiera della produzione e della distribuzione delle merci. Gianni Silvestrini, nel suo ultimo lavoro (2C (due gradi), Kyoto Club e Edizioni Ambinete, 2015), propone una sorta di “Imposta progressiva sul carbonio aggiunto” da applicare al prezzo finale delle merci. Senza una vera cooperazione alla pari tra paesi che dispongono di materie prime e paesi che detengono le tecnologie, il previsto “meccanismo di supporto per lo sviluppo sostenibile” e il “trasferimento tecnologico” attraverso il Financial Mechanism non sarà altro che il modo per mantenere rapporti di scambio favorevoli alle grandi compagnie che hanno acquisito diritti di estrazione e brevettato le tecnologie per utilizzarle.
    Parole chiave:
    Resilienza, Nature&Business
    Nell'accordo di Parigi, come noto, è saltato ogni riferimento ai target di riduzione di CO2 e CO2 equivalente. Il motivo è semplice: si pensa di contenere il surriscaldamento del globo “ben sotto i 2 gradi” (a fine secolo) senza diminuire le emissioni totali, ma “catturandole” o/e aumentando la “capacità adattiva” dei territori. “Resilienza” è la nuova parola di moda. Un gioco di prestigio fantasmagorico presentato a Parigi al Gran Palais nella fiera delle green and clear technologies dove erano schierati tutti gli sponsor della Cop 21. Da Google alla Coca Cola, da Apple alla Toyota. Tutti convertiti alla SolarCity. Ma La città del sole di Tommaso Campanella prevedeva che i suoi abitanti (i “solari”) lavorassero quattro ore al giorno e contemplava l'abolizione della proprietà privata.
    Un forum ufficiale della Cop 21 si intitolava “Nature & Business”. La preoccupazione costante dei governanti, infatti, sembra essere quella di trovare il modo di garantire crescita economica e profitti aziendali attraverso attività produttive che non peggiorino le condizioni di vivibilità e di funzionalità ecologica del pianeta. Una scommessa assai ardua e al limite dell'impossibile senza avere il coraggio di intaccare quantomeno gli interessi delle Big Oil. Una operazione che dovrebbe portare a spostare ingenti quantità di capitali dalle compagnie che detengono il controllo dei giacimenti fossili a favore dello sviluppo e dell'impiego delle energie rinnovabili.
    James Hansen, astrofisico e climatologo, ha fatto una affermazione molto di buon senso: “Fino a che i carburanti fossili saranno più economici, continueranno a essere bruciati”. Un'operazione che richiederebbe l'uso di strumenti come la Carbon tax, ma a Parigi è continua ad essere una parola innominabile. Il potere delle industrie petrolifere continua ad essere tale per cui – constata Marica Di Pierri - “Nel testo di 31 pagine votato a Parigi neppure una volta vengono nominati i termini petrolio, carbone o combustibili fossili”.

    Le parole che mancano

    Nel testo finale non appaiono nemmeno le parole acqua, agricoltura, trasporti, edilizia e quante altre abbiano a che fare con i modi di vita concreti delle persone e con le politiche pubbliche. Come se i modelli energetici, alimentari, insediativi, economici e sociali non dovessero mutare a seguito della fuoriuscita dall'era tossica dei combustibili fossili.
    La decarbonizzazione degli apparati produttivi potrà avvenire solo attraverso un cambiamento dei modelli di business, di impresa, di consumo. Il rientro delle attività umane nei limiti delle capacità rigenerative della biosfera passa attraverso una revisione teorica e pratica del concetto di economia. Dovremmo imparare a soddisfare le nostre esigenze, necessità e desideri, senza intaccare gli stock naturali e compromettere i servizi ambientali. Beni comuni non negoziabili, non mercificabili, non privatizzabili, non dissipabili.

    Ignorate le verità proclamate da papa Francesco
    e quelle documentate dagli scienziati

    A smuovere gli animi dei governati non è bastata né la grande mobilitazione popolare internazionale né le “bolle” di papa Bergoglio. L'accordo di Parigi è un muro di gomma eretto anche contro le osservazioni degli scienziati dell'Ipcc, nominati dagli stessi governi.
    Se, da una parte, gli stati non possono più fare a meno di riconoscere che “le attività umane sono la causa principale del riscaldamento osservato” (5° Rapporto Ipcc), dall'altra parte la somma degli impegni (volontari e flessibili) di riduzione delle emissioni che i singoli governi hanno proposto e che la Cop 21 ha accettato come buoni supera di molto (due, tre volte) il limite massimo che gli scienziati ritengono compatibili con un aumento massimo della temperatura di 2 gradi a fine secolo.
    Se non ho capito male le raccomandazioni degli istituti di ricerca sul clima, bisognerebbe ridurre le emissioni di origine antropica di CO2 di 8 Giga tonnellate entro il 2020 e di 11 Gt entro il 2030 per rimanere in un tetto di 1.010 Gt di CO2. In altre parole, mentre le stime dei centri di osservazione indicano la necessità di ridurre le emissioni di almeno l'80% entro il 2030, l'ineffabile Accordo di Parigi consente ai singoli stati di continuare ad emetterne quantità superiori. Nessun target quantitativo di riduzione ulteriore delle emissioni è stato fissato.
    Il testo, quindi, si caratterizza come una mera petizione di principio e poco più di un auspicio affinché i singoli stati provvedano per conto loro, autonomamente e secondo il loro buon cuore, a fare di più di ciò che si sono impegnati a fare finora. Nel 2023 un gruppo “technical expert review” provvederà a verificare le promesse (pledge and review). Nel frattempo i presidenti e i capi di stato cambieranno e le stesse promesse verranno ripetute dai successori. E' già accaduto nel 1992 quando fu varata la Convenzione sul clima dell'Onu, nel 1997 quando fu firmato (anche da un presidente degli Stati Uniti) il Protocollo di Kyoto e negli interminabili summit successivi. Ha scitto Gunter Pauli, imprenditore ed economista belga, presidente della Novamont: “Stiamo assistendo alla stessa fanfara di 18 anni fa. Purtroppo a questo accordo globale mancano contenuti solidi e impegni inequivocabili” (Left, 19 dicembre 2015).

    Basterebbero 4 cose
    per essere fiduciosi
    Cosa sarebbe stato necessario poter leggere nell'accordo di Parigi per essere più fiduciosi? Poche e semplicissime cose.
    Primo, che venisse stabilita una tassa capace di colpire il tenore di carbonio contenuto nei prodotti di consumo da reimpiegare per rendere conveniente l'uso di energie rinnovabili ed evitare la delocalizzazione delle emissioni di carbonio.
    Secondo, che venissero premiati i paesi che rinunciano allo sfruttamento dei loro giacimenti di combustibili fossili attraverso una carbon tax da imporre alle compagnie che estraggono combustibili fossili, così da creare una equa socializzazione delle risorse fossili di cui l'umanità non può ancora fare a meno. Ricordo che le imprese petrolifere hanno contabilizzato riserve e patrimonializzato giacimenti di petrolio e gas naturale per una quantità 10 volte superiore alla capacità della biosfera di assorbire e metabolizzare il carbonio che dovesse essere generato dalla loro combustione.
    Terzo, che venissero favoriti i sistemi urbani di trasporto collettivi e l'edilizia con la migliore resa energetica.
    Quarto, che fosse riconfigurato il sistema agroalimentare sui modelli dell'agricoltura contadina di prossimità, ridimensionando drasticamente la zootecnia intensiva (26 miliardi di animali allevati ogni anno per l'alimentazione umana) se è vero che le stime della Fao e della Oms attribuisco alla filiera delle carni di allevamento una quota del 20% delle emissioni totali di gas climalteranti. Quinto, ma decisivo, che venisse riconosciuto il diritto inalienabile dei popoli nativi di impedire lo sfruttamento da parte di terzi delle risorse naturali forestali, minerarie, marine.
    Una (sola) nota positiva
    L'unica nota davvero positiva che viene da Parigi è l'apertura di un portale che registra gli impegni extra-accordo che le città, le regioni, le imprese e gli altri operatori economici vorranno autonomamente e indipendentemente assumersi. Già 2.255 comuni di tutto il mondo hanno avviato piani energetici più ambiziosi. Ancora l'imprenditore illuminato Gunter Pauli: “Invece di governi alla ricerca di accordi globali con obiettivi vaghi, abbiamo bisogno dell'alleanza di tutti i sindaci e dei cittadini, per poter agire dove conta e dove le iniziative possono essere prese in pochi giorni”. Speriamo che sotto la spinta della cittadinanza attiva si possa fare di più e meglio.

    La discussa sostituzione di una sala cinematografica centrale con uno dei simboli assoluti della globalizzazione griffata archistar: nuove funzioni di qualità, o banale appiattimento commerciale? La Repubblica Milano, 18 dicembre 2015, con postilla e contropostilla

    Una grande struttura di vetro sopra, nello stile di tutti i loro store nel mondo che poi si sviluppano al piano sotto. E disegnata da un architetto di fama internazionale come Norman Foster. Apple ha presentato alla giunta, in via informale, il progetto del megastore che vuole realizzare in piazza Liberty, al posto degli spazi dell’ormai ex cinema Apollo.

    Chi l’ha visto racconta che il progetto dell’archistar inglese prevede appunto una scatola di cristallo che spunterà in piazzetta Liberty e una grande scalinata che porterà giù allo store, che da solo darà lavoro a 200 addetti negli spazi finora occupati dal cinema. Il richiamo al mondo cinematografico, richiesto da più parti in città, è stato rispettato: sulle facciate di vetro ci sarà la possibilità di proiettare immagini di grandi film italiani e stranieri, come fossero maxischermi. Non solo. La multinazionale di Cupertino ha inserito nel suo progetto anche molti alberi nella piazza e una fontana con giochi d’acqua.

    La sovrintendenza avrebbe già dato un parere positivo al progetto di Foster. Nei prossimi giorni partirà ufficialmente anche l’iter urbanistico mirato a ottenere il permesso di costruire convenzionato. L’obiettivo della Mela è quello di aprire in città entro il 2017. E di realizzare non un semplice negozio, avrebbero raccontato i collaboratori di Norman Foster alla giunta, ma uno spazio che si inserisca perfettamente nel contesto della città con l’obiettivo di diventare un luogo rappresentativo di Milano. «L’intervento è di grande qualità — spiega l’assessore all’Urbanistica, Alessandro Balducci — l’obiettivo è di rendere il luogo molto vivo».

    Da anni Apple tentava lo sbarco milanese senza trovare però la sede adatta. La notizia dell’addio del cinema Apollo, un paio di mesi fa, aveva diviso la città. Ormai però è praticamente cosa fatta il passaggio di proprietà del cinema, uno dei pochissimi che erano rimasti in centro, dall’Immobiliare Cinematografica alla società di Cupertino. Il progetto va ancora definito in alcuni dettagli e poi approvato. Poi i fan della Mela morsicata saranno accontentati.

    postilla

    In principio era la protesta di chi vedendo spegnersi l'ennesimo schermo cinematografico in centro storico lamentava sia la fuga di alcune attività verso le brume indistinte dello sprawl metropolitano di multisale, o la loro scomparsa, sia il rischio concreto che le residue funzioni «normali». In una città che ha già nei decenni visto cancellata residenza, negozi, servizi, scompaiano sotto l'alluvione del processo soprannominato in tutto il mondo «Clone Town», e che vede una piccola manciata di marchi e loghi, a loro volta rigidamente gerarchizzati e inquadrati nelle relazioni reciproche, invadere come un esercito ogni spazio urbano disponibile. Da ora in poi, presumibilmente il dibattito locale si focalizzerà invece soprattutto sulla qualità del progetto di architettura griffato e il tipo di spazio pubblico-privato che va a definire. Resta però aperta la questione speculare, di un processo anche potenzialmente positivo, se si pensa che di Apple Store ufficiali nell'area metropolitana milanese ce ne sono già due, localizzati in due centri commerciali rispettivamente della Tangenziale Est (al Carosello di Carugate) e Ovest (al Fiordaliso di Rozzano), e questo Cubo di Foster rappresenterebbe invece un ritorno all'ovile. E certamente di una attività che induce molto movimento e vita a tutte le ore, se si pensa al flusso di clienti sia per l'acquisto che i servizi del cosiddetto Genius Bar, il quale visto da una certa prospettiva è l'equivalente terzo millennio della bottega del ciclista o del calzolaio. Certo, poi ognuno ha le due opinioni, sperando non si tratti di pregiudizi dettati dal sospetto (f.b.)


    Contropostilla.
    Il miocommento a questo articolo,che racconta uno dei mille episodi analoghi che avvengono ovunque, sarebbe stato, ed è, del tutto diverso. A me non sembra rilevante che in una determinata area vengano indotti movimenta e vita perchè quell'area possa essere definita un soddisfacente sopazio pubblico. E i frequentatori di eddyburg lo hanno certamente appreso. Nè m'interessano molto le polemiche sulla scomparsa o meno dinunìa sala cinematografica nel centro di una città

    A me vengono in mente altre considerazioni, più drammatiche di quelle che hanno suscitato l'attenzioneBottini. La prima, indubbiamente marginale, è che logica formale dell’edificio della Apple è del tutto uguale a quella che condusse Ieho Wing Pei a realizzare il nuovo ingresso al Grand Louvre a Parigi. Ciò testimonia la scarsa creatività di alcune archistar o dei loro uffici. Ma ciò che soprattutto mi colpisce sono le differenze abissali della sostanza: queste ci fanno comprendere la profondità dell’abisso nel quale siamo precipitati in un quarto di secolo. A Parigi si è trattato di ampliare e rafforzare, con sapienti interventi di diversi campi del sapere, un gigantesco patrimonio culturale dell'umanità Milano di costruire la vetrinai uno dei peggiori protagonisti dalla commercializzazione fine sìa se stessa (e.).

    «Il grande affare della difesa idrogeologica del Veneto è un Mose in piccolo, anche questo in mano ai soliti noti, poche imprese, quasi sempre le stesse, che si difendono con i denti dai concorrenti e dai curiosi». La Nuova Venezia, 16 dicembre 2015 (m.p.r.)

    Il grande affare della difesa idrogeologica del Veneto è un Mose in piccolo, anche questo in mano ai soliti noti, poche imprese, quasi sempre le stesse, che si difendono con i denti dai concorrenti e dai curiosi. Corrono camion, ruspe, soldi e soprusi, un’insalata mista sparsa per la campagna veneta, nella fascia collinare, in montagna. Lungo fiumi, canali, a ridosso delle frane. Un elenco sterminato di lavori, in corso o in programma, di cui si sanno con certezza solo i costi di partenza. Che se sono quelli di arrivo, stando al parametro Mose, abbiamo fatto tombola.

    «Non è vero», dice l’ingegnere capo del Genio Civile di Vicenza Marco Dorigo, che tiene ad interim anche Padova. «Su un centinaio di gare fatte da noi, vi sfido a trovare un solo lavoro costato più del previsto. Pronto a darvene prova». Una volta che c’è una buona notizia non ce la faremo scappare. Va detto che Dorigo e i suoi colleghi - Salvatore Patti a Venezia, Alvise Lucchetta a Treviso e a Belluno, Umberto Anti per Verona e Rovigo, ad interim loro - gestiscono lavori al massimo per 500-700 mila euro. Mera esistenza in vita per un’impresa. Dura comunque da raggiungere. I lavori vengono affidati con procedura negoziata, le imprese possono partecipare solo se chiamate. È prevista, anzi auspicata, la rotazione, ma è un fatto discrezionale. Va a finire che il giro è sempre il solito, o cambia di poco.
    Cosa deve pensare chi resta fuori? La polpa arriva con i lavori sopra il milione di euro. Qui la procedura è aperta, le gare di solito sono all’offerta economicamente più vantaggiosa. Magari con il prezzo valutato 30 punti e la qualità 70, come sta accadendo per il bacino di laminazione di Caldogno (importo lavori 25 milioni, con espropri e altro, totale 46), per l’invaso di Trissino (importo lavori 17.385.000 euro, totale 26 milioni) e per quello di Montebello (totale previsto 55 milioni). Con un rapporto 70-30, significa che il giudizio della commissione vale più del doppio delle tasse dei contribuenti che pagano il conto.
    L’impianto di Caldogno è stato vinto da un’Ati con Idra Building capogruppo e Medoacus e Coveco mandanti. L’invaso di Trissino, appaltato dal consorzio di bonifica Alta Pianura Veneta, è andato a Medoacus, Idra Building e Coveco. Un altro grosso appalto vicentino, il bacino di Viale Diaz (importo lavori 10 milioni, totale previsto 18) è stato assegnato sempre con rapporto 70-30 a Costruzioni Traverso più Consultecno, due società del gruppo Idra Building. Non è ancora aggiudicato, per una anomalia dell’offerta. La commissione ha chiesto chiarimenti, se ne riparlerà a inizio anno. L’intreccio vede sempre i soliti nomi. Si segnala in particolare Medoacus, consorzio stabile di imprese con sede a Mestrino, al centro di una furiosa contestazione nell’Alta Padovana.
    Medoacus ha presentato 6 progetti di ripristino degli argini del Brenta tra Carmignano e Santa Croce Bigolina, con compensazione attraverso prelievo di ghiaia, per un valore stimato di 1.900.000 euro. La Regione ha accolto la richiesta, sottoponendola a valutazione d’impatto ambientale. Ma gli abitanti della zona non hanno bisogno di aspettare la risposta per sapere che sarà una devastazione stile anni Settanta, quando i cavatori di ghiaia fecero crollare il ponte di Fontaniva. L’architetto Giuliano Basso ha provato a interessare quindici giorni fa la seconda commissione del Consiglio regionale (presidente Francesco Calzavara. leghista). Pare con scarsi risultati. Ad ascoltare senza battere ciglio c’era anche l’ex assessore all’ambiente Maurizio Conte, sotto la cui gestione è stato recepito l’accordo quadro per la difesa del suolo che ha portato in Veneto 45 milioni di euro. Un elenco di interventi lunghissimo, dettagliatissimo. C’è tutto, meno i nomi delle imprese che se ne occupano.
    Ma il pezzo forte sono i cantieri ancora da aprire con i 153 milioni di euro previsti dal nuovo accordo quadro, firmato col governo a Roma il 4 novembre scorso, dal commissario al rischio idrogeologico del Veneto Luca Zaia e dal “soggetto attuatore” Tiziano Pinato. E manca ancora il completamento dell’idrovia.
    «L'ex vicepresidente della Consulta: "Testo illogico perché in contrasto col fine che vuole raggiungere". Come il capitolo tutela delle aree agricole dove ci sono "finalità edificatorie"». Il Fatto Quotidiano online, 15 dicembre 2015


    Il disegno di legge sul consumo del suolo è “in totale contrasto con il fine che vuole raggiungere, quindi illogico e incostituzionale”. A dirlo non è qualche associazione ambientalista, ma il costituzionalista Paolo Maddalena, ex vicepresidente della Consulta della quale fece parte per un anno su scelta del presidente della Repubblica e nella quale ricoprì anche il ruolo di presidente facente funzioni per un mese. Oltre ad essere stato membro del gruppo ecologia e territorio della Corte di Cassazione, è da tempo impegnato nella difesa dei beni comuni. Maddalena critica il testo che dopo due anni è uscito finalmente dalle commissioni Ambiente e Agricoltura e ora è pronto per arrivare in Aula alla Camera per il voto finale. E’ una versione scremata e ri-scremata rispetto alla prima stesura, adottata nel marzo 2014 e pensata dal governo per difendere il territorio e combattere il dissesto idrogeologico.
    Il ddl, però, è passato dalle cesoie di emendamenti e sub-emendamentiche che ne hanno tagliato la rete di protezione contro il cemento facile. Ilfatto.it aveva già raccontato come il testo sembrava “svuotato”, anche se da una parte il ministro Maurizio Martina e dall’altra il collega all’Ambiente Gianluca Galletti e la sottosegretaria Silvia Velo avevano rassicurato sull’efficacia della futura legge. Sempre se sarà approvata: a questo giornale l’ex ministro del governo Monti, Mario Catania, oggi parlamentare di Scelta Civica, aveva parlato di «resistenze politiche trasversali, ho paura che questo testo non vedrà mai la luce».

    E ora si aggiunge il parere di Maddalena: secondo l’ex giudice, il testo - così scritto - è incostituzionale per diversi motivi. Perché in contrasto con il suo obiettivo, ma anche perché dà indicazioni «generiche e inconsistenti», viola le competenze regionali, consente lo stravolgimento del paesaggio e contrasta con il principio del “razionale sfruttamento del suolo” (articolo 44 della Carta).

    Il “miracolo” del suolo edificato che torna naturale

    La definizione di “area urbanizzata” è, secondo Maddalena, “illogica” e viola quindi l’articolo 3, «perché considera area edificata – spiega a IlFattoquotidiano.it il costituzionalista – anche i parchi urbani e i lotti e gli spazi inedificati interclusi, in contrasto con il fine del contenimento del consumo del suolo che la legge stessa dice di voler perseguire». Lo stesso vale per il concetto di “compensazione ambientale”, secondo il quale è consentito il consumo di suolo agricolo, se, nello stesso tempo, si deimpermeabilizza il suolo già impermeabilizzato. In pratica un miracolo. «Fa ritenere possibile un fatto assolutamente impossibile - spiega il magistrato - poiché, come affermano gli scienziati di tutto il mondo, occorrono centinaia di anni affinché un suolo impermeabilizzato ridiventi naturale”. Detto in parole povere: le legge ideata per limitare il consumo di suolo non limita il consumo di suolo.

    La legge consente “lo stravolgimento del paesaggio”

    Ma c’è dell’altro. Le incostituzionalità più gravi sembrano essere contenute infatti negli articoli 5 e 6 del testo di legge. Il primo, che in sostanza autorizza il governo a emanare deroghe a norme urbanistiche per le aree urbanizzate degradate, riesce a violare contemporaneamente tre articoli della Costituzione. Anzitutto l’articolo 76 “per il carattere generico e inconsistente dei principi e criteri direttivi”, dice il costituzionalista. Ma, soprattutto, viola le competenze regionali in materia di pianificazione e governo del territorio (articolo 117) e non pone nessun limite alla ricostruzione degli edifici esistenti, “consentendo quindi lo stravolgimento del paesaggio urbano – spiega Maddalena – violando quindi l’articolo 9 della Carta costituzionale”.

    “Dentro tutela aree agricole ci sono finalità edificatorie”

    Anche il capitolo della tutela delle aree agricole colleziona paradossi e non sensi, secondo Paolo Maddalena. “L’articolo 6 – commenta – prevede, anziché la tutela delle aree agricole, la loro trasformazione in aree edificate, attraverso l’escogitazione dello strano strumento dei compendi agricoli neorurali. Gli insediamenti rurali locali, perdono ogni carattere agricolo e, purché, complessivamente, non si superi la superficie occupata da costruzioni rurali alla data di approvazione della legge, essi sono destinati a funzioni diverse, come le attività amministrative, attività di agricoltura sociale, servizi medici e di cura, ecc. A parte la considerazione che non si capisce cosa voglia dire ‘attività di agricoltura sociale’ - continua il costituzionalista - oppure la ‘vendita di prodotti ambientali’, sta di fatto che questa disposizione ha una finalità edificatoria che è direttamente in contrasto con quella che la legge stessa dice di voler perseguire”. Altro punto “illogico” quindi, in contrasto peraltro con il principio del “razionale sfruttamento del suolo”, sancito dall’articolo 44 della Costituzione: principio che implica la bonifica delle terre «e non – spiega Maddalena – la loro trasformazione in edifici, e la ricostituzione delle unità (agricole) produttive».

    M5s: “Se la legge resta così non la votiamo”

    L’approvazione di una legge così scritta, secondo Maddalena, «imporrebbe alle Regioni e ai cittadini, singoli o associati, di agire in via sussidiaria per ottenere l’annullamento di queste norme da parte della Corte costituzionale». Che tradotto significa ricorsi, controricorsi, tempo perso. E infatti Massimo De Rosa, deputato Cinque Stelle, membro della commissione Ambiente e promotore di una delle proposte di legge sullo stop al consumo di suolo poi confluite nel testo in discussione, ha già disconosciuto “il figlio”. «Dal testo iniziale al testo licenziato dalle commissioni ambiente e agricoltura - commenta a IlFatto.it - si è avuto un peggioramento tale da modificare in modo sostanziale la ‘ragione sociale’ della proposta, che potrebbe realisticamente essere denominata ‘Incentivi al consumo del suolo per uso edificabile’. Presenteremo osservazioni, anche con le associazioni ambientaliste, e se non verranno accettate, non voteremo il ddl. Con dispiacere chiaramente, ma non è questa la legge che volevamo».

    © 2024 Eddyburg