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Vendita dei beni immobiliari pubblici: laRegione Toscana inverta la rotta. Appello a Enrico Rossi presidente della Regione, del Nodo toscano della Società dei Territorialisti/e. Rivista SdT online, 24 febbraio 2016

Capisaldi sociali e territoriali, garanzia diinclusività e di crescita civile, i beni pubblici presiedono al disegno democraticodi redistribuzione delle risorse, e il loro mantenimento in proprietà contrastai progetti neoliberisti di trasferimento dei beni di molti nelle mani di pochi.Queste ragioni dovrebbero indurre la Regione Toscana a conservare la proprietàdel patrimonio edilizio di sua competenza, a non perseguire politiche di stampoeconomicista nella loro gestione. E a ritirare quindi la delibera che pone invendita molti edifici di proprietà regionale.

La Società dei Territorialisti/e è dalla partedi chi intende mantenere pubblica la proprietà del patrimonio edilizio efondiario della nazione, la cui stessa esistenza favorisce i processi diri-territorializzazione, sia nel territorio aperto che entro il tessuto urbano.Aree ed edifici che Regione, Comuni e Città metropolitana hanno messoall’incanto si sono infatti dimostrati luoghi di enormi potenzialità, in cui siinverano pratiche dal “basso”, esperienze di “costruzione di territorio”,sperimentazioni di nuove forme di autogoverno e di gestione collettiva del benecomune.

Nei centri storici desertificati e nelleperiferie contemporanee, l’esistenza di aree di proprietà pubblica – il piùdelle volte di notevole valore storico-artistico – garantisce l’occasione perl’innesco degli auspicabili processi di rigenerazione urbana e sociale: ilrecupero di edifici o di terreni abbandonati al degrado, la loro fruizionecollettiva e le nuove pratiche di welfare dal basso che possono scaturire dalriutilizzo di spazi pubblici vuoti o in dismissione, costituiscono una nontrascurabile occasione di creazione di nuovi posti di lavoro in autogestione edi pratiche di autocostruzione finalizzate alla residenza per le fasce socialipiù deboli.

Nelle campagne, proprietà e terreni pubblicicontribuiscono a favorire l’occupazione giovanile nella neo-agricoltura autosostenibile,e, attraverso la promozione di parchi agricoli e di filiere alimentari locali,a innescare processi di ripopolamento rurale. Nello scenario attuale dellepratiche di riappropriazione di spazi pubblici condannati alla vendita, il casodella Fattoria di Mondeggi – di proprietà della Provincia – è paradigmatico edovrebbe fungere da esempio per riconfigurare nuove politiche di gestione deibeni statali, regionali, comunali e pubblici in genere.

A fronte della mercificazione che investecittà e territori, la Regione Toscana inverta la rotta e avvii un corsopolitico che impedisca l’introduzione dei beni comuni nel Mercato e che anzivalorizzi l’inveramento di pratiche dal “basso”, esperienze di “costruzione di territorio”,e sperimentazioni di nuove forme di autogoverno e di gestione collettiva delbene comune.

Riferimenti
l,articolo di Antonio Fiorentino, Se la Toscana rinuncia a difendere i propri beni comuni

«La relazione del consiglio di amministrazione di Expo 2015 presentata ai soci il 9 febbraio. Sala: "Risorse sono sufficienti per le prossime 3-4 settimane". Corte dei Conti: "Mancano risposte sulla copertura dei costi post esposizione"». Il Fatto quotidiano online, 24 febbraio 2016

Il candidato sindaco di Milano del Pd, Giuseppe Sala, ha un bel dire che non c’è nessun buco Expo. La società che ha gestito l’esposizione universale meneghina ha chiuso il 2015 con un rosso di 32,6 milioni di euro. A smentire Sala è lo stesso Sala. O meglio, il consiglio di amministrazione di Expo 2015 da lui guidato, che lo scorso 18 gennaio ha messo nero su bianco la cifra in una relazione che è stata discussa dai soci il 9 febbraio scorso. Dieci giorni dopo la data inizialmente prevista, il 29 gennaio a ridosso delle primarie del Pd che hanno incoronato Sala candidato sindaco di Milano, poi spostata su indicazione del ministero dell’Economia. Nel documento si legge anche che “in considerazione delle spese strutturali previste nei primi mesi del 2016 (quantificabili in 4 milioni mensili), è probabile una ricaduta nelle previsioni dell’articolo 2447 del codice civile durante il mese di marzo”. Il che significa, in altre parole, che secondo i calcoli del consiglio guidato dallo stesso Sala, da febbraio 2016 le disponibilità liquide di Expo 2015 si sono esaurite, ma non le spese. E andando avanti così, è sempre la stima del cda, è prevedibile che entro il mese prossimo la società arrivi ad accumulare perdite superiori a un terzo del suo capitale. Una situazione in cui la legge impone l’abbattimento del capitale stesso e il suo contemporaneo aumento per riportarlo al minimo legale.

La scivolosità del caso non è sfuggita al collegio sindacale di Expo 2015 che, nel corso dell’assemblea che due settimane fa ha deliberato la messa in liquidazione della società, ha chiesto “chiarezza in relazione alla necessità di risorse per la liquidazione” stessa. Richiesta condivisa dal magistrato della Corte dei Conti, Maria Teresa Docimo, che ha sottolineato come la messa in liquidazione risponde “ad uno solo dei temi inseriti nella relazione degli amministratori, mentre non sono fornite risposte, nel merito, in relazione alla copertura dei costi sopportati dalla società successivamente alla data di chiusura dell’evento”. Tanto più che lo stesso Sala ha confermato che “le risorse sono sufficienti per le prossime 3-4 settimane” e che “è importante rendere chiara la situazione al nominato organo di liquidazione”. Anche perché i liquidatori freschi di nomina – il prorettore della Bocconi Alberto Grando, Elena Vasco (Camera di Commercio), Maria Martoccia (ministero Finanze) e i confermati Domenico Ajello (Regione Lombardia) e Michele Saponara (Città Metropolitana) per i quali è stato fissato un compenso complessivo di 150mila euro – hanno 90 giorni per elaborare un progetto di liquidazione. Per la scadenza, però, stando alle stime del cda, Expo 2015 avrà una carenza di liquidità di oltre 80 milioni di euro.

Nel frattempo, però, è imminente una finalizzazione degli accordi con Arexpo sulla gestione delle aree fino al 30 giugno 2016, quando i terreni torneranno sotto l’ala della società in cui sta facendo il suo ingresso il Tesoro. Le indicazioni dei soci di Expo 2015 ai liquidatori sono inequivocabili, in quanto auspicano “il compimento di una attività di rivitalizzazione di parti del sito Expo 2015 nella fase transitoria dello smantellamento del sito stesso, attuato preservando i valori del sito medesimo, secondo principi di sinergia fra le società Expo 2015 S.p.A. e Arexpo S.p.A., nel rispetto delle funzioni proprie di ciascuna delle due società”. I liquidatori, quindi, sono invitati ad individuare, tra i principali criteri in base ai quali deve svolgersi la liquidazione, quelli preordinati alla realizzazione “di eventuali sinergie e collaborazioni tra Expo e Arexpo S.p.A; anche con riferimento alla fase convenzionalmente denominata Fast Post Expo“. Cioè l’evento previsto in concomitanza con la ventunesima Triennale Internazionale di Milano, tra aprile e settembre, che dovrebbe utilizzare l’area del Cardo.

Il punto non è secondario. Secondo i calcoli del vecchio cda di expo, infatti, per il 2016 la società ha bisogno di 58,3 milioni di euro: 39,6 per lo smantellamento e 18,7 per la chiusura dell’azienda. La somma andrebbe chiesta pro quota ai soci (pubblici) di Expo. Ma grazie al Fast Post Expo può essere ridotta di 19,5 milioni con il “ribaltamento dei costi sostenuti ad Arexpo”. E così agli azionisti di Expo toccherebbe sborsare “solo” 38,8 milioni: al ministero dell’Economia toccherebbero 15,5 milioni, alla Regione e al Comune 7,8 a testa, mentre la Provincia e alla Camera di Commercio ne dovrebbero versare 3,9 ciascuna. Resta da capire quanto costerà l’operazione sul lato Arexpo i cui soci, dopo l’ingresso del Tesoro, saranno ancora una volta lo Stato, la Regione e il Comune, oltre alla Fondazione Fiera Milano pur destinata a diluirsi fortemente.

Ilfattoquotidiano.it, 23 febbraio 2016

“Il complesso termale, tra i più importanti della Sardegna, gravita sul sito urbano di “Forum Traiani”. Le antiche “Aquae Ypsitanae”, si dispongono su vari livelli e sono composte da due stabilimenti: il primo, a nord, del I sec. d.C.; il secondo, a sud, del III sec. d.C.” Così vengono descritte nel sito della Regione, SardegnaCultura, le terme romane di Fondorgianus nell’alto Oristanese, sulla riva sinistra del fiume Tirso. Ampie piscine rettangolari, vasche quadrangolari, una piazza lastricata e poi un apodyterium, un frigidarium un tepidarium e un calidarium e molto altro.

Un sito senz’altro da visitare. Un luogo della Cultura per turisti curiosi ma anche per semplici appassionati. Almeno finora. Già, perché dopo l’iniziativa di due società sarde, Oggi Sposi & Events eShardana Tourism Lab, le terme entrano nel circuito delle cerimonie nuziali, diventando il set fotografico per raccontare il giorno del “sì”. Non più la location occasionale per l’“evento indimenticabile”, come sperimentato altrove. Molto di più. Istituzionalizzata la fruizione, contando sulla collaborazione dell’Amministrazione comunale di Fordongianus, della Soprintendenza archeologica della Sardegna e della Cooperativa Forum Traiani.

Un’operazione studiata, a quanto sembra. Verificando le potenzialità del turismo nuziale. Oltre un milione e 221 mila le presenze da venticinque nazioni, per un fatturato di circa 315 milioni di euro. Queste le cifre che, secondo una ricerca della JFC Tourism & Management, il turismo per matrimoni ha prodotto in un anno in Italia. Insomma un affare. Almeno per le due società. Su questo pochi dubbi. Più indirettamente anche per il Comune che «ha sposato quest’iniziativa ritenendola utile per promuovere l’immagine del territorio associata al mondo dei matrimoni e per auspicare l’aumento dei flussi turistici che questo tipo di viaggi può determinare», hanno dichiarato le promotrici dell’iniziativa.

Semmai le perplessità nascono su altre questioni. Tutt’altro che marginali. Come conoscere quale sia l’“utile” per Soprintendenza archeologica. Ma anche sapere come si coniugheranno le esigenze di utilizzo dell’area con quelle legate alla fruizione. Già la fruizione, come in molti altri casi. Il nodo è quello. Perché il timore che la questione si risolva con chiusure fuori programma appare fondato. Che siti archeologici, spazi museali e Palazzi storici debbano essere luoghi vitali, per le cui spese di manutenzione si può ricorrere ai proventi di affitti, programmati e non in contrasto con il loro decoro, si può essere d’accordo. Ma insopportabile dovrebbe risultare a chi consideri la fruizione del patrimonio artistico un imprescindibile punto fermo, la loro apertura vincolata alla presenza di eventi. Anche perché quando ciò si dovesse verificare si sarebbe davvero stravolto la funzione naturale del sito. Da contenuto a semplice contenitore. E in quel caso non ci sarebbe utile capace di compensare la perdita.

«Come se il danno fosse un dato scontato e inevitabile», Roberto D'Agostino promette che il suo progetto ne farà meno. La speranza per la rivitalizzazione di Marghera e della gronda lagunare è l'annuncio «di un progetto alternativo all’idea di grande porto e centro ferroviario e autostradale». La Nuova Venezia e italianostravenezia.org, 18 e 11 febbraio 2016 (m.p.r.)



Italia Nostra Venezia
CROCIERE, SPUNTA DI NUOVO L'IPOTESI MARGHERA
18 febbraio 2016

Sul problema degli ormeggi delle grandi navi da crociera ricompare in questi giorni il progetto di situare un nuovo porto a loro dedicato nella zona di Marghera che si affaccia sulla gronda lagunare ai piedi del ponte della Libertà. Il progetto, molto simile a quello caldeggiato dall’ex sindaco Orsoni, è stato ora presentato in maniera ufficiale dal suo principale ideatore, l’architetto Roberto D’Agostino (ex assessore alla pianificazione urbanistica nella giunta Cacciari). Secondo i suoi sostenitori, quella soluzione eviterebbe di far scavare un nuovo canale nella laguna (il famigerato canale Tresse Nuovo, lungo 1,2 chilometri, largo 120 metri e profondo 10, un oltraggio e una ferita per l’ambiente lagunare), permetterebbe il recupero dello storico porto della Marittima per l’uso di navi di piccolo tonnellaggio e renderebbe facile l’approvvigionamento delle navi via terra e l’arrivo dei passeggeri dall’aeroporto.

L’Autorità portuale aveva a suo tempo sollevato una difficoltà tecnica: l’uso del canale dei Petroli per l’entrata e uscita delle navi passeggeri renderebbe molto complicata la convivenza con le petroliere e le navi del porto commerciale. Ma, obietta D’Agostino, tale promiscuità esiste anche con il progetto del canale Tresse proposto dal Porto.

Purtroppo i nostri amministratori, a livello sia locale sia nazionale, si ostinano a non voler accettare il fatto che non ci sono soluzioni accettabili per il problema delle grandi navi a Venezia, se non quella di escluderle del tutto. Ma di fronte a quest’altra ipotesi di affronto per la nostra laguna (con migliaia di passaggi di navi sempre più gigantesche) e per il nostro tessuto socio-economico (con almeno due milioni di passeggeri a riversarsi per calli, campielli e mezzi di trasporto) sembra che si limitino, nel migliore dei casi, a valutare quale delle soluzioni potrebbe essere la meno dannosa (o la più promettente ai fini elettorali). Come se il danno fosse un dato scontato e inevitabile.

Italia Nostra, com’è noto, è invece contraria a che Venezia rimanga un porto di destinazione per le grandi navi da crociera. Nei prossimi giorni pubblicheremo su questo sito alcune pagine tradotte da un prestigioso volume uscito negli Stati Uniti nel 2013, nel quale vengono illustrati in modo inoppugnabile i danni da esse inferti alle città di destinazione e si dimostra che i danni medesimi sono spesso molto superiori ai vantaggi economici. Chiunque vive a Venezia, se non legato da interessi particolari, non può non vedere che la nostra città di 56.000 abitanti non è adatta a ricevere le grandi folle dei crocieristi e che la laguna, anche nel tratto già scavato del canale dei Petroli, non può sostenere ulteriori passaggi di navi, con il loro carico di inquinamento marino e atmosferico, di onde subacquee che si frangono sui fondali, di sedimenti che si sollevano e fuoriescono in mare.

La Nuova Venezia
GRANDI NAVI A MARGHERA, SPUNTA UN PROGETTO ALTERNATIVO

di Alberto Vitucci

Lo studio D’Agostino con la ED srl l’ha presentato a Roma al ministero: banchine in Prima zona, niente scavi, barche di lusso e social housing nell’attuale Marittimadi Alberto Vitucci

VENEZIA. Un nuovo porto passeggeri a Marghera. L’idea che il Comune e la giunta Orsoni avevano lanciato due anni fa adesso diventa progetto. Un elaborato progettuale in piena regola, con studi e calcoli, depositato a Roma al ministero per l’Ambiente e già promosso nella prima fase di “scooping”. Lo firma lo studio di architettura dell’ex assessore all’Urbanistica Roberto D’Agostino, insieme all’impresa ED srl. Un’alternativa «credibile e logica», dice l’ex assessore, che chiede alla città di pronunciarsi. Portare le grandi navi a Marghera, nell’area della Prima zona industriale dove adesso sono i depositi dell’Eni, significa rilanciare l’area urbana della Marittima, dedicandola a piccole navi di lusso e yacht. Ma anche la nuova marina e case di lusso modello Amsterdam, con un nuovo canale all’interno.

Utopia? «No», dice D’Agostino, che nel frattempo ha vinto un concorso internazionale per progettare i piani regolatori di Maputo in Mozambico e Dar es Salam in Tanzania. «Certo, serve l’interessamento di un ente pubblico», dice, «perché l’iscrizione alla Via costa centinaia di migliaia di euro. Io ho già regalato alla città il mio lavoro».

E il Porto non è favorevole all’idea di spostare le navi passeggeri a Marghera. «Un’opposizione inspiegabile», dice il progettista, «anche i nuovi canali che vuole il Porto provocherebbero l’incrocio di traffico commerciale e passeggeri. Dunque, il problema non esiste».

I vantaggi della soluzione Marghera sarebbero tanti, dice D’Agostino. Il primo: non occorre scavare nuovi canali né, come nell’ipotesi del Tresse Nuovo, «tagliare in due l’isola delle Tresse con i suoi fanghi inquinati. Le navi resterebbero lontane, ma fino a un certo punto, dalla città storica. Per portare i passeggeri dalla nuova Marittima, che si costruirebbe nel canale Industriale Nord e in canale Brentelle, ci saranno dei vaporetti attrezzati con cui il Comune potrebbe far pagare una sorta di tassa d’ingresso offrendo il trasporto dal terminal alla città.

A Marghera la nuova Marittima potrebbe ospitare fino a sette navi. Con parcheggi, servizi, uffici e centri commerciali. Nell’attuale Marittima oltre alle case di lusso anche alloggi in social housing. «Una nuova situazione urbana che toglie anche il traffico delle grandi navi da San Marco».

Progetto che si potrà autofinanziare, secondo D’Agostino, perché gli 800 milioni di investimento (300 a Venezia, 200 per le banchine e le bonifiche a Marghera, altri 300 per gli uffici e i discount), potrebbero tornare con gli interessi, con un valore finale di un miliardo e 200 milioni.

Tempi previsti per il completamento: intorno ai sei anni. Entro sei mesi due navi potrebbero già spostarsi, per togliere il 40 per cento del traffico, la Marittima nuova in tre anni, il resto entro sei anni. Cosa manca per il via al progetto Marghera? «Il consenso della comunità, che adesso cercheremo portando in giro la nostra idea», dicono i progettisti, «e la volontà politica». I terreni di Marghera che dovranno essere espropriati sono di proprietà di Fincantieri, Gruppo Salmini e Pilkington. Il resto del Porto e del Demanio. Il sasso è lanciato.


Italia Nostra Venezia
PER MARGHERA E LA GRONDA LAGUNARE C'è FORSE ANCORA UNA SPERANZA

11 febbraio 2016

Riportiamo un articolo della Nuova Venezia che dà quasi per certo il fatto che il gruppo di lavoro dell’architetto Renzo Piano si occuperà nei prossimi anni proprio delle rivitalizzazione di Marghera e della gronda lagunare. Il gruppo è costituito da architetti il cui curriculum è molto promettente per quanto riguarda la capacità di progettare nel rispetto e anzi nell’esaltazione delle caratteristiche storiche, ambientali ed estetiche del territorio, In particolare segnaliamo la presenza di Raul Pantaleo, grande amante della laguna veneta (ex presidente, in gioventù, dell’Associazione Velica Lido, ancora molto viva e fiorente) e poi collaboratore di Gino Strada con progetti di edifici ospedalieri in Africa. Consolano anche alcune parole di Renzo Piano, che si riferisce a Marghera come un territorio «al confine tra terraferma e laguna”, mettendone in rilievo proprio quella caratteristica di gronda lagunare che può essere esaltata nei suoi valori anche estetici. Si tratterà comunque di un progetto che non potrà che essere alternativo a quell’idea di grande porto e centro ferroviario e autostradale (e parcheggio per milioni di container) che sembra invece nelle intenzioni dell’attuale presidente dell’autorità portuale ed ex sindaco di venezia, Paolo Costa.

Trovate qui il video di 30 minuti con l’intervista di Lucia Annunziata a Renzo Piano sul progetto di
recupero delle periferie, e trovate qui il curriculum di Raul Pantaleo, “tutor” del gruppo di Renzo Piano per il 2016.

Il Fatto quotidiano online, blog "Ambiente e veleni", 19 febbraio 2016
“Più che a un parco piano piano l’area archeologica, soggetta a continue pressioni antropiche, assomiglia sempre più a un giardino, a un appezzamento di terreno circondato da costruzioni e capannoni e attraversato da strade già costruite…e da costruire…”. Era il dicembre 2014 quando la locale sezione di Italia Nostra scriveva del pericolo che correva l’area archeologica di Amiternum, nei pressi di San Vittorino, frazione de L’Aquila.

Un sos per la città, Amiternum, sviluppatasi tra la fine dell’età repubblicana e la prima età imperiale senza mura, ma con un edificio termale e soprattutto un anfiteatro ed un teatro di tutto rispetto. Si tratta dei monumenti conservati più significativi, sfortunatamente inclusi in due differenti spazi di visita. Sezionati dal tracciato della SS. 80 e da quello parallelo, che parte dalla Scuola della Guardia di Finanza, realizzato per il G8 del 2009. Circostanza questa che, evidentemente, ne rende meno immediata ai visitatori l' inclusione all’interno del tessuto urbano antico. Insomma una situazione che non valorizza al meglio i resti archeologici.

Situazione, come denunciava Italia Nostra, in procinto di mutare. Ancora in peggio. Con l’aggiunta di due nuove viabilità. I “Lavori di miglioramento delle condizioni di sicurezza mediante realizzazione di un nuovo svincolo con la SS. 260 e la SS. 80 in località Cermone”, che l’Anas ha progettato di realizzare immediatamente a ridosso del Teatro Romano e la “Sistemazione strada di collegamento via delle Fiamme Gialle – SR 80 dir – SP 30 “di Cascina”, ovvero la strada provinciale nelle località Torroncino e Grottoni.

Viabilità che verrebbero ad inserirsi in un’area, quella denominata “Ambito Fiume Aterno”, che nel Piano regionale paesistico è classificata “a conservazione integrale”. Ma non basta. La zona rientra anche nel D.M 21.06.1985 che ne prevede la salvaguardia integrale. Senza contare che la strada provinciale rientra in qualche modo nella Legge Galasso, dal momento che passa per un tratto entro la fascia di rispetto di 300 metri dal laghetto “Giorgio”, geosito alimentato da sorgenti perenni con un emissario che confluisce nel fiume Aterno.

Considerati i vincoli esistenti, chiedersi come tutto questo sia possibile sembra naturale. Interrogarsi su quali ragioni abbiano consentito ad Anas e Provincia de L’Aquila di ottenere le diverse autorizzazioni è legittimo. Peccato che in entrambi i casi sia improbabile avere risposte. Anche se un aiuto alla comprensione lo possono fornire le modalità con le quali si è svolta la conferenza di servizio del 30 ottobre 2011, nella quale è stato approvato definitivamente il progetto della strada provinciale.

In quell’occasione risultano assenti non solo il Comune de L’Aquila e la Regione, ma anche la Soprintendenza per i Beni archeologici e la Soprintendenza per i Beni paesaggistici. Insomma progetto approvato in assenza degli organi preposti alla tutela. Le successive indagini preventive predisposte dalla Soprintendenza archeologica in coincidenza con le aree interessate dalle nuove infrastrutture viarie non hanno fatto altro che confermare la loro rilevanza archeologica. Tutto inutile. Al punto che a gennaio 2015 c’è un nuovo appello. Questa di volta dell’Archeoclub de L’Aquila: “Ci chiediamo quale beneficio due nuove strade che duplicano una viabilità già presente possano apportare alla collettività tanto da poter superare i vincoli esistenti”, scrive al proposito la Presidente Maria Rita Acone.

Domanda senza risposta se poco prima della metà di febbraio sono ancora intervenute sulla questione l’Archeoclub de L’Aquila, l’Associazione Culturale di Rievocazione Storica “Compagnia Rosso d’Aquila”, l’Associazione Panta Rei, il Circolo Legambiente Abruzzo, il Fondo Ambiente Italiano, il Gruppo Aquilano di Azione Civica “Jemo ‘nnanzi”, Italia Nostra e Pro Natura . La proposta quella di realizzare un Parco archeologico. “Una strada turistica, percorsi di visita e passaggio su un ponte pedonale sulla Statale 80 tra le due aree di interesse archeologico potrebbero rendere più facilmente e piacevolmente visitabile l’area”, sostengono le associazioni.

Quel che è indubitabile è che ad Amitermo non sono tanto in pericolo i resti archeologici della città antica, ma piuttosto l’intero paesaggio. Il rischio è che teatro, anfiteatro e terme siano rinchiusi in recinti, sostanzialmente decontestualizzati.

“Si chiede al Ministro per i Beni e le Attività Culturali, alla Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici per L’Abruzzo, alla Soprintendenza Archeologica di provare ad avere per una volta un po’ di coraggio e di essere forte con i forti negando la realizzazione delle opere con la semplice giustificazione che li sotto c’è un pezzo importante della antica città di Amiternum”, scriveva Massimo Cialone di Italia Nostra. Verrebbe da aggiungere, “con la semplice giustificazione che” quei monumenti non possono diventare poco più di uno snodo viario.

Il Fatto quotidiano online, blog "Alle porte coi sassi, 18 febbraio 2016

La notizia della svendita di parte del patrimonio pubblico della Regione Toscana, annunciata dal presidente Enrico Rossi nei giorni scorsi, non ci ha colti di sorpresa. Ormai conosciamo le pratiche del centro sinistra, Pd in testa: privatizzare, svendere, controllare il sottogoverno sociale, impedire che i cittadini possano esprimersi attraverso le forme istituzionali loro riconosciute, come nel caso del recente annullamento del referendum sulla Sanità regionale.

Con ostentata indifferenza la Giunta, nella speranza di rimpolpare le casse regionali e di continuare a coprire le proprie incertezze amministrative, vedi, per esempio, il grave ammanco dell’ASL di Massa di 400 milioni, vorrebbe sbarazzarsi di un ingente e prezioso patrimonio storico architettonico del valore di circa 650 milioni. Sono decine e decine di immobili di proprietà della Regione e delle asl. Accanto a un patrimonio minore, che comunque potrebbe essere riutilizzato socialmente con interessanti forme di autorecupero e autocostruzione, troviamo complessi architettonici di indiscutibile valore monumentale e paesaggistico.

La Regione, in perfetto stile managerial-immobiliare, ha anche messo a punto una mappa interattiva del patrimonio pubblico in vendita. Invitiamo a consultarla per rendersi conto della consistenza e della qualità dei beni messi a disposizione del mercato speculativo.

Firenze potrebbe perdere alcuni suoi gioielli tra i quali Villa Fabbricotti con annesso parco sulla collina di Montughi, parte del Parco di San Salvi, l’ex ospedale Meyer, Palazzo Bastogi a due passi da Piazza Duomo, le Poste Nuove di Michelucci, Villa La Quiete, vera e propria Villa Medicea sulle suggestive colline di Careggi, nonché gli ex ospedali di Fiesole e gli ex sanatori sulle colline di Monte Morello.

Pistoia, neo Capitale della cultura 2017, potrebbe rimetterci l’ex Ospedale del Ceppo, vanto della cultura storico architettonica della città. In pericolo è anche l’ex Ospedale psichiatrico delle Ville Sbertoli. Qui si apre un caso interessante, emblematico dei rapporti tra Regione e comunità locali. Il Regolamento urbanistico pistoiese, facendo proprie le conclusioni del percorso partecipativo, ha destinato l’area a funzioni pubbliche escludendo esplicitamente alberghi e residenze speculative.

Cosa pretende Rossi quando afferma che “intendiamo discutere con i Comuni della destinazione d’uso degli immobili”? Imporrà i suoi diktat alle comunità locali? Le amministrazioni comunali e gli abitanti dei luoghi coinvolti saranno in grado di impedire lo scippo del patrimonio collettivo? Questa è una partita che si giocherà nei prossimi mesi e che potrà verificare la tenuta delle autonomie locali.

Un’operazione analoga coinvolgerà Lucca per la quale è prevista la svendita dell’ex Ospedale del Campo di Marte e dell’ex Ospedale psichiatrico di Maggiano, sì, proprio quello delle “Libere donne di Magliano” di Mario Tobino, attuale sede della Fondazione intitolata allo scrittore.

La fallimentare esperienza della costruzione dei quattro nuovi ospedali regionali ha liberato quindi le vecchie sedi che, prontamente, sono state poste in vendita per tentare di ripianare i conti in rosso del project financing ospedaliero. Accade anche a Massa, a Prato, ed anche a Grosseto, a Pisa e ad Arezzo, dove è stato messo in vendita anche l’ex Ospedale psichiatrico, quello in cui Petrella e Basaglia hanno dato vita a interessanti forme di innovazione scientifica e sociale. La svendita degli ex Ospedali psichiatrici toscani è anche segno di una incapacità programmatica assai grave.

L’elenco potrebbe continuare ancora, ci fermiamo per non irritare ulteriormente il lettore. Forse non è ancora chiara la portata dei provvedimenti della Giunta regionale, cui si affiancano anche le alienazioni delle Province e dei Comuni: stanno disarticolando la tenuta del territorio con interventi che da un lato banalizzano e fagocitano la storia collettiva che in questi luoghi si è sedimentata e, dall’altro, ne allontanano le prospettive di riqualificazione urbana.

Ancora una volta questa politica non si smentisce: rinuncia al proprio ruolo di custode dei “beni comuni” e, cinicamente, dilapida un ricco patrimonio collettivo, testimonianza della paziente e profonda trama di relazioni delle comunità locali. L’alienazione di questi beni è quindi un’operazione di distruzione di questa ricchezza territoriale e di ulteriore diffusione di degrado ambientale e sociale.

Parafrasando le dichiarazioni di Rossi, possiamo affermare che è nostra intenzione quindi “procedere ad una chiamata per verificare se c’è interesse” a difendere “l’ampio patrimonio immobiliare” mal utilizzato di cui disponiamo, ed auspichiamo che ad ogni immobile corrisponda un gruppo, una associazione, un centro sociale, un comitato di cittadini in grado di contrastare questi progetti e di affermare un percorso politico centrato sul bene comune.

Non possiamo non sollecitare l’intervento della Rete Toscana dei Comitati, della Società dei Territorialisti, delle Università, a difesa della integrità del patrimonio regionale.

L’auspicio è che la mappa della speculazione, così come proposta da Rossi & C., possa ben presto diventare la mappa della riappropriazione e della cura dei territori in cui le comunità sono insediate.

Come perUnaltracittà daremo il nostro contributo.

La nomina dei nuovi organi di gestione pone una sfida nella quale si misurera la saggezza dei decisori: un passo un futuro nel quale tutela e produzione trovino una sintesi o abbandono al degrado di un patrimonio irriproducibile?

Il Parco di Migliarino-San Rossore-Massaciuccoli
diventi un laboratorio per il territorio
Appello della Società dei Territorialisti/e

Il Parco regionale di Migliarino-San Rossore-Massaciuccoli, nato negli anni ’70 grazie a un'ampia partecipazione popolare e all'interesse di intellettuali di prestigio come Antonio Cederna, ha rappresentato una bella pagina nella storia della protezione della natura in Italia: l'area è stata sottratta alla speculazione edilizia e sono stati preservati paesaggi, ecosistemi, testimonianze storiche e biodiversità. Nell'area del parco si giustappongono ambienti naturali notevolmente diversi: due bacini fluviali (Arno e Serchio), la spiaggia e il sistema delle dune, le “lame” retrodunali e i boschi planiziali.

Le moderne opere di bonifica, la vicina città, l'agricoltura e un turismo ormai “storico”, connotano antropicamente il Parco. Inoltre nella stratificazione storica del parco sono visibili i segni “paesaggistici” di diverse civilizzazioni che ne fanno una natura decisamente trasformata: quella rinascimentale, lorenese, piemontese, repubblicana, con una tradizione di parco produttivo, ad esempio nella coltivazione della pineta e nell’allevamento, che ne fa un “parco agricolo” antelitteram.

Il piano per l’Ente parco redatto negli anni Novanta da Pier Luigi Cervellati e Giovanni Maffei Cardellini è stato uno strumento esemplare di conservazione e riproduzione delle qualità territoriali storiche. L’attuale fase di rinnovo degli organi di gestione del Parco (Presidente e Consiglio) prevede l’elaborazione di un nuovo Piano, che dovrà conformarsi alle indicazioni normative, agli obiettivi di qualità e alle regole di trasformazione previste nel nuovo Piano paesaggistico (PIT) approvato dalla Regione nel 2014.

Il Parco di Migliarino-San Rossore-Massaciuccoli è il luogo ideale per sperimentare nuove forme di governo del territorio, che accolgano al tempo stesso le sfide della conservazione dei paesaggi “storici” che lo caratterizzano ( e non di una generica rinaturazione) e della promozione di un’agricoltura e di un’economia autosostenibili, turismo compreso.

La Società dei territorialisti invita quindi la Regione Toscana a fare di quest'area protetta un grande laboratorio, utile a tutta la Toscana. Occorre perciò lanciare una nuova ottica di gestione, uscendo da quella che attualmente mette il Parco in condizioni di estrema difficoltà, a partire dalla necessità di attirare risorse economiche per mantenersi in vita.

Ecco perché ci sembra fondamentale che la Regione ponga estrema attenzione nell'individuare persone di grande competenza, indipendenti e capaci di mettersi in relazione con le forze positive del territorio, con l'ambizione di sviluppare visioni di lungo periodo per la tutela dell'ambiente e lo sviluppo socio-economico dell'area, al di fuori delle logiche dell’appartenenza politica e secondo criteri trasparenti.

Rilanciare il Parco regionale, salvaguardando la sua funzione storica e sviluppando il ruolo di laboratorio di governance territoriale, è una sfida di estremo interesse per arginare il rischio di degrado territoriale e favorire condizioni di coerente sostenibilità ambientale, sociale ed economica.

La crescente collusione tra criminalità organizzata e amministrazioni locali (dal Mare di Sicilia alle Alpi) impone di intervenire su molti aspetti: ecco tre temi su cui si propone di lavorare. Il dibattito è aperto

Quarto, Bagheria e Brindisi sono solo gli ultimi episodi che vedono coinvolti sindaci e assessori comunali in vicende poco chiare che rendono evidente come, nel corso degli ultimi decenni, i settori legati al mondo dell'edilizia hanno giocato una parte sempre più rilevante nella costruzione del consenso a livello locale e molte volte anche nella selezione della classe dirigente.

In particolare le intercettazioni della magistratura sulle vicende di Quarto sono paradigmatiche per descrivere dinamiche elettorali che si sono consolidate in alcuni contesti locali; qui l’imprenditore Cesarano - sospettato di essere colluso con la camorra - detta la strategia per sostenere al ballottaggio la candidata dei Cinquestelle, Rosa Capuozzo, chiarendo da subito le sue condizioni: "Comincia a chiamarlo. Ha preso 890 voti, è il primo degli eletti. Noi ci siamo messi con chi vince, capito?” E ancora: “L’assessore glielo diamo noi praticamente. E lui ci deve dare quello che noi abbiamo detto che ci deve dare. Ha preso accordi con noi. Dopo, così come lo abbiamo fatto salire così lo facciamo cadere”.

Il riferimento di Cesarano è al consigliere comunale De Robbio che, secondo la Direzione distrettuale antimafia di Napoli, avrebbe tentato di convincere la Sindaca ad affidare la gestione del campo sportivo comunale ad una società vicina al suo "sponsor elettorale", ricorrendo a un presunto abuso di famiglia per minacciare la stessa Capuozzo. Sempre a Cesarano, De Robbio avrebbe poi promesso la nomina di una persona di fiducia all'assessorato all'urbanistica, per favorire al meglio i suoi affari.

Siamo a Quarto, piccola cittadina della provincia napoletana, con poco più di 40.000 abitanti ma le sue tristi vicende sono simili a quelle riscontrabili in altri contesti comunali nell'Italia degli oltre 8000 campanili.

Né la collocazione geografica né l'appartenenza a questo o quello schieramento politico può più rappresentare un valido e sicuro argine a fenomeni di questo tipo. Le indagini della magistratura spaziano dalla Valle d'Aosta alla Sicilia, passando anche da una Milano dove l'ex sindaca Moratti, pochi giorni prima del maxi arresto legato all'inchiesta Parco Sud avvenuto nel luglio del 2010 alle porte del capoluogo lombardo, strillava che "la mafia a Milano non esiste" e nessun partito, neppure chi ha fatto della legalità e della trasparenza il proprio mantra elettorale, può ritenersi immune da pericolose collusioni.

Che i settori legati al ciclo dell'edilizio rappresentino gli ambiti principali per le infiltrazioni mafiose (al Sud come al Nord Italia) non è certo una novità, come testimonia l'elenco dei consigli comunali sciolti per mafia, per la maggior parte dei quali le motivazioni sono legate a questioni urbanistiche o a violazioni dei piani regolatori e purtroppo gli esiti spaziali di queste relazioni pericolose sono evidenti in termini di spreco edilizio, abusivismo, degrado ambientale e scarsa qualità degli spazi urbani e suburbani.

La relazione perversa tra interessi mafiosi, amministrazioni comunali e ciclo edilizio può essere affrontata, a mio avviso, agendo su tre aspetti diversi differenti: il primo è di natura elettorale, il secondo amministrativo e il terzo più strettamente urbanistico.

Il primo aspetto riguarda i criteri di selezione della classe dirigente politico-amministrativa: nei contesti territoriali locali è progressivamente venuto meno il ruolo dei partiti di massa, sia in termini di elaborazione di idee e sia in termini di formazione dei propri iscritti, e tale vuoto ha creato una generalizzata improvvisazione sui temi amministrativi. Inoltre le sedi locali dei partiti sono diventati luoghi in cui le discussioni sono asfittiche, ideologiche e molto spesso rincorrono rancori e recriminazioni personali anziché differenti posizioni politiche. Ecco allora che un curriculum non politico di un candidato sindaco può diventare un enorme punto di forza nella competizione elettorale in quanto indicatore di pragmatismo, di civismo e di una leadership che può essere esercitata senza dover rendere conto a nessuno del proprio operato. In queste dinamiche però il rischio è duplice: da un lato c'è quello di eleggere sindaci impreparati, inadeguati e non all'altezza di guidare processi amministrativi e burocratici anche complessi (e la bassa qualità dei governi locali ha spesso conseguenze dirette anche sulla qualità dei progetti di trasformazione territoriale), dall'altro la ricerca di nuove forze elettorali dalle quali farsi sostenere può portare a legami pericolosi che poi, solitamente, presentano il conto. In un contesto storico caratterizzato dalla crisi di rappresentanza e di fronte a un'appartenenza politica sempre più "liquida", occorre che i partiti nazionali intraprendano una seria riflessione sulle modalità di selezione della propria classe dirigente, a partire da quella locale. In questi tempi si parla spesso di tematiche trasversali e di nuove geografie politiche, l'auspicio è che la legalità non diventi tema contendibile nelle prossime campagne elettorali ma piuttosto sia un impegno chiaro e condiviso per tutti i partiti politici.

Il secondo aspetto riguarda le competenze delle amministrazioni comunali. In una fase di progressivi tagli alle amministrazioni locali, un Paese in cui il 70% dei Comuni ha meno di 5.000 abitanti non è più sostenibile. Una strategia nazionale che spinga verso gestioni di servizi ad una scala che consenta ottenere economie di scala (le Centrali Uniche di Committenza per gli acquisti delle pubbliche amministrazioni non possono bastare) ed esercizio di funzioni urbanistiche a una dimensione pertinente per poter pianificare in modo coerente e sostenibile i diversi sistemi territoriali (ambientale, infrastrutturale e insediativo) sembrano scelte non più prorogabili se si vuole impedire che gli ambiti comunali diventino nuovi feudi a conduzione familiare, soggetti a pressioni economiche (ma anche criminose) difficilmente controllabili anziché luoghi nei quali elaborare politiche per l'erogazione dei fondamentali servizi alla persona.

Il terzo aspetto riguarda il sistema normativo urbanistico vigente: le leggi urbanistiche regionali, approvate a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, hanno progressivamente elaborato norme in nome della semplificazione e dello snellimento burocratico che si sono tradotte nei fatti da un generalizzato laissez-faire. Questa de-regolamentazione é diventata uno dei principali varchi per le infiltrazioni mafiose nel mondo delle amministrazioni comunali anche considerando che l'edilizia è il settore ideale per riciclare e ripulire denaro sporco derivante da altri traffici criminosi.

L'Italia è molto indietro rispetto alle normative in vigore nei paesi del Nord Europa dove da almeno un decennio si trattano i temi della rigenerazione urbana, si lanciano bandi di idee tra progettisti per le opere pubbliche e i grandi progetti di riqualificazione urbana, si coinvolgono i rappresentanti della società civile nei progetti infrastrutturali più importanti (débat public francese), si hanno strumenti di valutazione anche economica dei progetti di trasformazione urbana (modello SoBoN di Monaco di Baviera), si affida la funzione di governo del territorio a una dimensione territoriale adeguata e comunque sovracomunale (schemi di coerenza territoriale francesi) per una pianificazione tra fabbisogni insediativi, accessibilità infrastrutturali, dotazione ambientale. Alcuni invocano strumenti speciali, come un ampliamento di competenze dell'ANAC guidato da Raffaele Cantone, che seppur utilissimi per enfatizzare l'attenzione su questi temi, non possono essere la soluzione strutturale a questo problema.

Il nostro Paese non ha più bisogno di norme speciali ma di amministratori locali competenti, preparati e consapevoli (oltre che onesti), di una razionalizzazione complessiva del sistema degli enti locali e di una complessiva riforma urbanistica, che abbia tra i suoi principi (a cui devono corrispondere adeguati strumenti) la trasparenza, la partecipazione e una regia sovracomunale nei processi di trasformazione del territorio. Solo in questo modo si potrà finalmente rompere la catena che lega gli interessi speculativi, mafiosi e non, al settore dell'edilizia e fare in modo che i Sindaci debbano sì rispondere del proprio operato, anche più di quanto sono chiamati a fare ora, ma solo nei confronti dei propri cittadini.

Il Fatto Quotidiano, 16 febbraio 2016.

Nello storytelling governativo, la così detta seconda riforma Franceschini, è destinata ad occupare un posto di rilievo: illustrata come un'operazione di razionalizzazione e semplificazione della macchina ministeriale, ad una lettura poco meno che superficiale risulta essere tutto il contrario.

Basta cominciare dai numeri. Ministro e comunicazione Mibact sostengono che da 17 Soprintendenze si passerà a 39: in realtà le Soprintendenze attuali sono 50 e quindi 11 in più di quelle che ci saranno a riforma attuata. La differenza sta nel fatto che, mentre fino al 2014 le Soprintendenze territoriali erano suddivise per specializzazione (architettura, belle arti, archeologia), già con la prima fase della riforma si cominciò ad accorpare architettura e belle arti e con questo secondo decreto, incorporando anche quelle archeologiche, si arriverà ad ottenere delle Soprintendenze uniche, competenti per la tutela del patrimonio culturale e del paesaggio nel suo insieme su territori coincidenti grosso modo a 2-3 province o quello di alcune città metropolitane.
Alle Soprintendenze, già dal 2014 (DPCM 171), sono state sottratte, intanto, le competenze su tutti i musei e alcune aree archeologiche. La vecchia struttura del Mibact, già stressata da tagli lineari da 10 anni a questa parte, in asfissia di risorse sia economiche che di personale, verrà dunque sottoposta - sommando la prima e la seconda fase - ad una rivoluzione organizzativa radicale. Tutto questo - come precisa il decreto in corso di approvazione - a costo zero. E già questa mancanza assoluta di investimento mette fortemente in dubbio gli obiettivi sbandierati di razionalizzazione o addirittura di potenziamento della macchina ministeriale dichiarati da Franceschini: ad oggi l'attribuzione del personale - già di per sè insufficiente - alle nuove sedi è affidata a meccanismi di movimentazione volontaria tutt'altro che semplici e razionali. Questa movimentazione, attivata da una circolare delle scorse settimane, raggiunge vertici di surreale di cui sono capaci solo i burocrati ministeriali dal momento che elenca - fra le sedi per cui è possibile chiedere l'assegnazione - anche quelle Soprintendenze Archeologiche che il Decreto del Ministro aveva abolito qualche giorno prima. Nessuna indicazione è poi recuperabile nel Decreto, per quanto riguarda l'aggregazione/ripartizione delle biblioteche, laboratori di restauro, archivi di cui ognuna delle ex Soprintendenze specialistiche - comprendenti i musei statali - era dotata.

Con la digitalizzazione delle immani documentazioni storiche possedute ancora in fase embrionale (eufemismo) e il problema ormai fuori controllo della gestione di immensi depositi di materiale soprattutto archeologico, un processo di riforma serio avrebbe dovuto investire mezzi non trascurabili per permettere alla nuova struttura di tutela sul territorio di decollare e quindi di essere in grado di governare in tempi non biblici i delicatissimi processi di controllo e tutela territoriale. Al contrario, in questa situazione, con una prima fase della riforma scarsamente governata, questo secondo, ulteriore stravolgimento rischia di condurre alla paralisi operativa strutture di cui attualmente è impossibile per chiunque definire "chi fa cosa".
E dire che la necessità di fare presto e bene c'era eccome. Come ha dichiarato lo stesso Franceschini, la creazione delle Soprintendenze Uniche dovrebbe essere il rimedio ai rischi del silenzio-assenso e della subordinazione degli organismi di tutela ai Prefetti: meccanismi peraltro introdotti nel nostro ordinamento dallo stesso governo, attraverso la legge Madia di riordino della Pubblica Amministrazione.

Così, nel chiuso dei corridoi ministeriali, nel giro di pochi mesi, senza alcun dibattito pubblico che coinvolgesse non solo il mondo della cultura, ma anche solo quello degli operatori della tutela, è stato partorito questo provvedimento-tampone.

Ma forse, per arrivare al vero obiettivo di quella che tutto è tranne una riforma organica, basterebbe ricollegarsi a quell'emendamento della legge di Stabilità votato a dicembre che reintroduce per i Comuni la possibilità di fare cassa con gli oneri di urbanizzazione. Un ritorno al Testo Unico per l'edilizia di Bassanini e ai perversi effetti di speculazione territoriale che hanno innescato negli ultimi 15 anni.
Adesso, con questa riforma delle Soprintendenze, forse l'ultima debole arma di controllo rappresentata dagli organismi di tutela, è stata definitivamente spuntata.

Annunciata da tempo è stata finalmente pubblicata la legge 221... (continua a leggere)

Annunciata da tempo è stata finalmente pubblicata la legge 221 del 2015, entrata in vigore proprio pochi giorni fa. Oltre a numerose indicazioni di azioni relative alla difesa e al miglioramento dell’ambiente, la legge contiene un articolo 40 che stabilisce “E’ vietato l’abbandono di mozziconi dei prodotti da fumo sul suolo, nelle acque e negli scarichi”. Lo stato si è finalmente accorto della pericolosità dei mozziconi di sigarette, rifiuti subdoli, diffusissimi e invadenti.

Nel mondo si fumano circa seimila miliardi di sigarette all’anno; la felicità dei fumatori viene apparentemente (non lo so di persona perché non ho mai fumato) dal fatto che il tabacco delle sigarette, bruciando lentamente, fa arrivare in bocca e nei polmoni, con una corrente di aria aspirata dall’esterno, varie sostanze chimiche, fra cui la nicotina e molte altre. Dopo qualche tempo, dopo che sono bruciati circa i due terzi o i tre quarti della sigaretta, resta un mozzicone che viene buttato via. In seguito ai continui avvertimenti, da parte dei medici, che il fumo delle sigarette fa entrare nel corpo umano sostanze tossiche e cancerogene, le società produttrici di sigarette hanno cercato di attenuare i relativi danni ponendo, nel fondo delle sigarette, dove vengono posate le labbra, un “filtro” che, come promette il nome, dovrebbe filtrare, trattenere, una parte delle sostanze nocive.

Quando una sigaretta è stata adeguatamente “consumata”, il filtro, con ancora attaccato un po’ di tabacco, viene buttato via; sembra niente, ma la massa di questi mozziconi è grandissima. Ogni sigaretta pesa un grammo, il mozzicone pesa da 0,2 a 0,4 grammi e il peso di tutti i mozziconi di tutte le sigarette fumate nel mondo ogni anno ammonta a oltre un milione di tonnellate. I mozziconi dei circa 80 milioni di chilogrammi di sigarette fumate in Italia ogni anno hanno un peso di oltre 20 mila tonnellate, poche rispetto ai quasi 35 milioni di tonnellate dei rifiuti solidi urbani, ma moltissime se si pensa al potenziale inquinante di tali mozziconi, dispersi dovunque.

I mozziconi sono costituiti in gran parte dal filtro, un insieme di fibre di acetato di cellulosa disposte in modo da offrire un ostacolo alle sostanze trascinate dal fumo delle sigarette verso la bocca e i polmoni dei fumatori. Se si osserva il filtro di un mozzicone, si vede che ha assunto un colore bruno, dovuto alle sostanze trattenute, principalmente nicotina e un insieme di composti che rientrano nel nome generico di “catrame”: metalli tossici fra cui cadmio, piombo, arsenico e anche il polonio radioattivo che erano originariamente presenti nelle foglie del tabacco, residui di pesticidi usati nella coltivazione tabacco e i pericolosissimi idrocarburi aromatici policiclici, alcuni altamente cancerogeni.

La natura e la concentrazione delle sostanze presenti nei mozziconi dipendono dalla tecnologia di fabbricazione delle sigarette che le industrie modificano continuamente per renderle più gradite ai consumatori; la natura di molti additivi e ingredienti è tenuta gelosamente segreta, il che non facilita la conoscenza e la limitazione dell’effetto inquinante dei mozziconi abbandonati. Il disturbo ambientale dei mozziconi delle sigarette viene anche dall’acetato di cellulosa del filtro, una sostanza che nelle acque si decompone soltanto dopo alcuni anni, tanto che alcune società cercano di proporre sigarette con filtri “biodegradabili”, il che farebbe sparire rapidamente alla vista i mozziconi, ma lascerebbe inalterate in circolazione le sostanze tossiche che il filtro contiene.

Proviamo a seguire il cammino di un mozzicone di sigaretta. I mozziconi delle sigarette fumate in casa o nei locali chiusi, in genere finiscono nella spazzatura, ma quelli delle sigarette fumate all’aperto o in automobile finiscono direttamente nelle strade e quindi nell’ambiente. I fumatori più attenti, si fa per dire, all’ecologia hanno cura di schiacciare con il piede il mozzicone buttato per terra, per spegnerlo del tutto ma anche credendo di diminuirne il disturbo ambientale; avviene invece esattamente il contrario: il mozzicone spiaccicato spande tutto intorno per terra le fibre del filtro con il loro carico di sostanze tossiche e il residuo di tabacco che è ancora attaccato al filtro. Alla prima pioggia queste sostanze vengono trascinate nel suolo o per terra e da qui allo scarico delle fogne e da qui in qualche fiume o lago o nel mare. Le fibre del filtro galleggiano e vengono rigettate sulle coste dal moto del mare; a molti lettori sarà capitato di fare il bagno nel mare e di dover spostare fastidiosi mozziconi galleggianti.

Nel contatto con l’acqua le sostanze che il filtro contiene si disperdono o si disciolgono e possono venire a contatto con gli organismi acquatici. Si sta sviluppando tutta una biologia e tossicologia delle interazioni fra i componenti dei mozziconi di sigarette e la vita acquatica, specialmente di alghe e altri microrganismi. Rilevanti effetti tossici sono dovuti alla stessa nicotina e non meraviglia perché la nicotina è stata usata come un antiparassitario proprio per la sua tossicità verso molti organismi viventi. La nuova legge raccomanda la diffusione di posacenere, ma anche così i veleni dei mozziconi non scompaiono: i loro effetti tossici continuano anche se finiscono nelle discariche o negli impianti di trattamento dei rifiuti. C’è bisogno di molta ricerca chimica sui mozziconi di sigarette, ma soprattutto c’è bisogno che le persone fumino di meno: ne trarrà vantaggio il loro corpo e il corpo comune di tutti noi, l’ambiente, le acque, il mare.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

Un grande patrimonio d'intelligenza e di consensi, di partecipazione e di speranze sprecato in un quinquennio che non lascia molta fiducia nel futuro. Ilmanifesto.info, 13 febbraio 2016

Da Moratti a Moratti: alla fine il bilancio della giunta Pisapia è questo. Pisapia era stato eletto sindaco nel maggio del 2011 sull’onda di una mobilitazione culminata nella vittoria dei referendum contro la privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici locali e contro il nucleare. La sua elezione poneva fine a venti anni di potere della destra e altrettanti di dominio craxiano ed era stata sostenuta da una straordinaria partecipazione di base alla campagna elettorale: comitati per Pisapia (poi comitati per Milano, ma subito rinsecchiti) in tutti i quartieri della città, intellighenzia (quel che ne resta), creativi, borghesia d’antan, parrocchie e persino centri sociali. Poi, contestualmente a quella dei referendum abrogativi nazionali, la vittoria in cinque referendum consultivi cittadini.

I quesiti di quei referendum e la loro articolazione non erano un piano di governo della città, ma ne fornivano importanti indirizzi, peraltro in linea con il programma della candidatura di Pisapia. Nessuno degli impegni previsti da quella consultazione ha trovato attuazione. Si può capire, per il costo dell’intervento, che non sia stato realizzato il ripristino della rete dei navigli - limitandosi alla riapertura della darsena - anche se ben 40 milioni sono stati sprecati nel progetto delle nuove “vie d’acqua”, che avrebbero dovuto portare in barca all’expò i visitatori; ma che, strada facendo, si sono trasformate in una fogna per raccogliere gli scoli dei suoi padiglioni. Ma un referendum chiedeva il potenziamento drastico del trasporto pubblico e la riduzione drastica del traffico privato; interventi non riducibili alla decantata area C, che poco ha innovato rispetto all’ecopass già introdotto dalla Moratti.
Così oggi, giunti al termine della sindacatura, Milano è una delle città più inquinate, malsane e irrespirabili d’Europa. Certo il problema dell’aria di Milano non si risolve a livello cittadino o metropolitano. Ma l’iniziativa del Comune di Milano verso altri Comuni della pianura Padana – un’iniziativa che poteva sostanziarsi solo mostrando con i fatti che a Milano le cose si fanno – è stata nulla. Idem per l’oggetto del secondo referendum, la piantumazione della città. Oggi centinaia di alberi sani, ultimo residuo polmone della città, vengono tagliati per far posto ai cantieri della linea 5 del metrò.
Sul quesito su risparmio energetico e fonti rinnovabili la giunta ha dato il peggio di sé, portando a termine la privatizzazione-finanziarizzazione di A2A e insediando ai suoi vertici uomini e donne che hanno continuato a dissipare le finanze di una delle ex municipalizzate più indebitate d’Italia con progetti folli come la centrale a carbone in Montenegro o l’assorbimento in A2A della gestione dei rifiuti, per aumentarne la quota da incenerire. Grottesco è l’esito del terzo referendum: “conservare il futuro parco dell’area expò”. Quel parco è semplicemente sparito, sostituito da una “piastra” di cemento di un chilometro quadrato gettata su aree a destinazione agricola, in parte inquinate e malamente bonificate. Tutto ciò sarebbe forse giustificabile se gli obiettivi dei referendum fossero stati sacrificati a interventi di sostegno ai servizi sociali, alla riqualificazione delle periferie, alla soluzione dei problemi abitativi. Ma non è così. Ad oggi il Comune ha ancora 9mila alloggi vuoti che non assegna perché non li ha riqualificati e ha aspettato tre anni, e l’arresto per mafia dell’assessore regionale Zambetti, per sottrarre alla Regione la gestione delle proprie case. In compenso si è impegnato in misura crescente nello sgombero di centri sociali e occupazioni di case.

Che cosa ha prodotto quel cambio di rotta? Il profilo morale o intellettuale di Pisapia non è in discussione. Che però, due giorni dopo il suo insediamento è volato a Parigi, nella sede del BIE (Bureau Internationale de l’Exposition), per impegnarsi nella realizzazione di expò secondo il percorso avvelenato messo a punto dalla Moratti. Un percorso che abbandonava il progetto, già di per sé assurdo, di un orto da piantare sui terreni inquinati di Pero (per mostrare al mondo come “nutrire il pianeta” Milano disponeva del più vasto parco agricolo d’Europa da riconvertire a un’agricoltura sostenibile), per dedicarsi alla cementificazione del sito e alla speculazione edilizia in programma per il dopo expò (intento fallito per il successivo crollo del mercato edilizio).

Da allora tutte le energie della Giunta sono state incanalate prima a rimettere e poi a tenere in piedi expò, peraltro partito male e in ritardo perché i primi anni erano stati interamente dedicati – e si capisce il perché – alla spartizione degli incarichi. Che cosa abbia significato expò è chiaro da sempre a chi lo vuol vedere e oscuro per sempre a chi non vuol capire. Cemento e asfalto (anche a chilometri di distanza dal sito, e senza alcun collegamento con esso), opere inutili come le famigerate vie d’acqua, corruzione sistematica (arresti a go-go), infiltrazioni mafiose, deroghe alla normativa sul lavoro, lavoro nero, lavoro gratuito (expò è stato di fatto il laboratorio del Jobs-act), debiti, compresi quelli che devono ancora emergere e che Sala ha accuratamente nascosto nel non-bilancio che ha presentato, che graveranno sul Comune per anni.

Poi, trionfo delle multinazionali del cibo spazzatura ed esibizione incontinente di spreco: decine e decine di padiglioni e scenografie costose destinate alla discarica dopo pochi mesi: uno schiaffo alla miseria e ai senza casa. Le previsioni mirabolanti (della Bocconi) sui posti di lavoro si sono rivelati un bluff se non una truffa; quelle sugli incassi dei commercianti idem; anche perché, per riempire il sito, expò ha inaugurato una movida interna serale che ha rubato loro tutti i clienti.

Per un anno e più Milano è stato expò e niente altro che expò. Il “modello Milano” – che nessuno ha mai spiegato che cosa sia – era la gestione di expò. E di conseguenza il governo di Milano era nelle mani dell’amministratore delegato di expò: l’uomo di fiducia della Moratti e del suo clan. Non un “manager”, ma uno scemo che non si è accorto di niente; oppure il più mariuolo di tutti, che è riuscito a sfangarla. Comunque sia, nessuno stupore se alla fine della sindacatura Pisapia, quell’uomo sia venuto a prendere ufficialmente possesso del suo vero ruolo: e con l’investitura del PD. Contenderà quel posto a Stefano Parisi, l’uomo di fiducia di Albertini, il sindaco che aveva sgovernato Milano prima della Moratti. Non resta che l’imbarazzo della scelta.

C’è un’alternativa a questo scempio? No, non c’è. Perché tutto si svolge ormai all’interno del cerchio magico dell’expò. I due candidati che hanno conteso a Sala la nomina nelle primarie del PD – uno forte dell’impegno profuso senza soldi e senza mezzi nel sostegno alle situazioni di maggiore emarginazione della città e soprattutto agli 80mila profughi transitati per Milano verso più appetibili destinazioni europee; l’altra, una figura senza storia, chiamata per far entrare il bilancio della Città nella gabbia del patto di stabilità, quando Milano avrebbe invece dovuto mettersi alla testa della sua contestazione, e poi imposta dal sindaco in carica per far perdere Majorino e far vincere Sala – non hanno provato nemmeno a sottrarsi a quella stretta: expò e il suo successo di cartapesta traccia per tutti la strada da seguire nella prossima sindacatura.

Ma non c’è spazio nemmeno per un’alternativa al PD. Perché quell’alternativa andava costruita negli anni della preparazione e della gestione dell’expò e si è fatto di tutto per non farla emergere. E’ stato correttamente tentata su singoli temi, come l’ipocrisia di far nutrire il pianeta dalle multinazionali. Ma non si è voluto denunciare il “modello Milano” così come si andava delineando: trionfo della società dello spettacolo e, dietro di esso, varo di un nuovo assetto urbanistico e di un nuovo ruolo del governo della città al servizio degli affari e a discapito degli abitanti. Quante cose si potevano fare, e non sono state fatte, con il denaro sprecato nell’expo… E non solo per Milano, ma anche per mostrare che il governo di una città può imboccare la strada della sostenibilità sociale e ambientale. Adesso bisogna ricominciare da capo.
«L’italianissima parabola del salvatore che in poche ore diventa “ladrone”. Il ritiro in Africa. Ma alla fine il miracolo: meglio di Lazzaro, sarà il candidato sindaco di Roma del centrodestra». Il Fatto Quotidiano, 13 febbraio 2016 (m.p.r.)

Come San Gennaro. Mancava il miracolo. Era il 2009 quando la fama di Guido Bertolaso raggiunse l’apice. All’Aquila, nei giorni del terremoto, appena compariva attirava folle che neanche Barack Obama al G8. Indice di gradimento al 60 per cento! Bertolaso era quasi diventato un sostantivo: l’uomo che “risolve problemi” per dirla alla Tarantino. Poi il crollo, le inchieste a raffica.

L’italianissima parabola del salvatore che in poche ore diventa “ladrone”. Il ritiro in Africa. Ma alla fine il miracolo: meglio di Lazzaro, sarà il candidato sindaco di Roma del centrodestra. E pensare che appena una manciata di giorni fa aveva detto no per la malattia di un famigliare. Ieri il dietro-front con toni da candidato: «Sono onorato della proposta che Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni mi hanno formulato. Grazie al miglioramento della mia adorata nipotina, accetto la sfida... per migliorare la vita dei romani, per ridare decoro e prestigio a una città in condizioni di emergenza. Per amore di Roma, per la sua storia e per il rispetto che i romani meritano».
Tipo complesso, Bertolaso: lineamenti e fisico da uomo di scrivania, ma sicurezza incrollabile e modi asciutti. Il curriculum: 56 anni, figlio di un generale di Squadra Aerea pluridecorato, nasce medico esperto di malattie tropicali. Lavora per la Farnesina e per l’Unicef, compie missioni in Africa. Poi la chiamata della politica come Capo Dipartimento della Protezione Civile. A volerlo è il Governo Prodi. Quindi la parentesi del Giubileo con l’etichetta di uomo di Francesco Rutelli. Un anno dopo rieccolo alla Protezione Civile, voluto, però, dal governo Berlusconi. Un crescendo. Si occupa dell’epidemia di Sars (malattia respiratoria), frane a Cavallerizzo, rifiuti in Campania (di nuovo voluto da Prodi), area archeologica romana e terremoto in Abruzzo. Arriva perfino ad Haiti per il terremoto.
Le canta a tutti, anche agli Stati Uniti e si becca una risposta pepata da Hillary Clinton. Ma piovono inchieste. Tutte le colpe adesso sono sue: è indagato per una consulenza da 25mila euro del gruppo Anemone a sua moglie. Gli attribuiscono i massaggi a luci rosse al Salaria Sport Village (lui ha sempre negato). Indagato anche per le bonifiche per il G8 della Maddalena, la commissione Grandi Rischi in Abruzzo, i bagni chimici dell’Aquila. Lui se ne va, torna medico in Africa. Sudan, non una passeggiata: «Abbiamo curato mille bambini per malaria celebrale, non tutti ce l’hanno fatta», racconta. E gli anni di gloria, gli infortuni: «Davvero pensate che sia stato la reincarnazione di Satana o Belzebù? Ho commesso migliaia di errori e dato credito a chi non lo meritava. Ma facevo tante cose e sono fatto così». Una dopo l’altra arrivano le archiviazioni e lui torna nei talk show. Manca un passo: la politica. Ieri l’ha compiuto. I sondaggi lo danno al 23 per cento (Grillo al 30, Pd al 26 e Marchini al 16). Sarebbe andato bene a destra come a sinistra. Come Beppe Sala e Stefano Parisi a Milano.

Eddyburg - Per capire che sta succedendo ci rivolgiamo a Rita Paris, l’archeologa che, da funzionaria della soprintendenza archeologica della capitale, ha dedicato il meglio della sua vita all’Appia Antica. La prima domanda che le sottoponiamo è la seguente: secondo te, che ruolo spetta, nel pensare al futuro di Roma, a quella che i romani chiamavano “Regina Iviarum”?

Rita Paris -La Via Appia è un luogo storico ricco di millenaria magia, poi simbolo di tutte le battaglie contro l’abusivismo e la prepotenza della speculazione, si presenta oggi all’uomo contemporaneo come lo spiraglio da cui filtra una luce nuova, da cui si può intravedere il futuro. “La Via Appia potrà diventare la colonna vertebrale di una nuova struttura in grado di costruire, al di là degli errori e delle speculazioni di Roma moderna, per i cittadini di questa città e di questa regione, per i turisti, per gli amanti dell’arte e della natura e per gli studiosi di tutto il mondo la vera Roma futura”, così si conclude il capitolo sull’Appia aggiunto alla nuova edizione del volume Roma Moderna di talo Insolera.
E -L’Appia Antica è in effetti un luogo simultaneamente antico e moderno. È un segmento di storia e di campagna che dai Castelli Romani - se vogliamo dal profondo Sud, come ci ha raccontato Paolo Rumiz quest’estate su la Repubblica - penetra nel cuore della città attuale. Ma non è l’anticittà, è il completamento della città attuale, con la quale dovrebbe armonizzarsi svolgendo adeguate funzioni. Dico bene Rita?
R. P. - Dici benissimo. L’Appia è un monumento unico al mondo che attraversa un territorio in gran parte salvaguardato all’interno della città costruita con la quale vive in una discontinuità che esalta la bellezza e il fascino dei luoghi. Per questo è primaria la necessità di garantire la conservazione dei monumenti - dovere che non è in contrasto con lo sviluppo culturale - e di ciò che resta della campagna romana, tra la continuità storica con l’area archeologica centrale e la crescita caotica della zona meridionale di Roma fino all’area dei Castelli. Con tale obiettivo l’Appia può svolgere un ruolo sociale quale spazio per la cultura, il tempo libero, la ricreazione e la qualità di vita dei cittadini.

E - L’Appia Antica rappresenta anche una pagina di fondamentale importanza nella storia dell’urbanistica italiana. Mi riferisco all’approvazione del piano regolatore generale di Roma del 1965. l merito fu soprattutto di Giacomo Mancini, benemerito ministro dei Lavori pubblici (allora non esistevano ancora le Regioni) che condivideva le idee di Antonio Cederna e destinò l’Appia Antica, e 2.500 ettari del territorio attraversato, a parco pubblico. Che ne è di quella coraggiosa e straordinaria decisione?
R. P. - La cultura moderna e l’impegno di molti, in particolare di Antonio Cederna e di Italia Nostra - quando questa associazione vantava un primato nella difesa del patrimonio nazionale ed era in grado di promuovere studi come quello sul Piano per il Parco dell’Appia Antica, coordinato da Vittoria Calzolari - hanno portato al risultato straordinario a cui fai riferimento, superando incertezze e compromessi. La mancata attuazione di questa prospettiva, così come lo è quella dei Fori Imperiali, ha lasciato spazio a una assenza quasi totale di iniziative, favorendo un abusivismo che pare inarrestabile e lo sviluppo di una serie di attività, per lo più incompatibili, che traggono tuttavia profitto dalla location d’eccellenza. Negli ultimi 20 anni si è cercato di rimediare agli errori, attraverso la cura e l’incremento del patrimonio culturale, anche per offrire qualcosa alla fruizione pubblica, in un ambito per la quasi totalità in proprietà privata. Tra i risultati raggiunti si ricordano l’esproprio da parte del Comune di una parte del Parco della Caffarella, l’interramento da parte dell’Anas delle corsie del GRA che tagliavano con violenza la strada antica, oggi ricucita, gli scavi, i restauri, gli allestimenti dei principali e ormai conosciuti monumenti da parte della Soprintendenza, le acquisizioni di nuovi beni, messi a disposizione del pubblico dopo impegnativi interventi di recupero. La costituzione di un Parco Regionale ha rappresentato un momento importante nella storia di questo territorio ma è evidente che l’Appia non può riconoscersi nella realtà di un’area naturale protetta. Per questo negli anni si è chiesto, senza ascolto, di poter creare per l’Appia un organismo che ponesse i valori archeologici e monumentali al centro degli indirizzi, delle scelte della città e degli enti a vario titolo interessati (tra i quali non si può dimenticare lo Stato Vaticano per la presenza qui delle più importanti e celebri catacombe cristiane), per far convergere investimenti e risorse verso il patrimonio culturale per il quale l’Appia è nota in tutto il mondo.

E -Credo di aver capito che, nel dibattito che si sta vivacemente sviluppando fra il ministro Franceschini e il suo staff da una parte e, dall’altra, archeologi, storici dell’arte, studiosi e appassionati del nostro patrimonio, ci sono due parole chiave che si confrontano: tutela e valorizzazione. Che significa il prevalere dell’una o dell’altra per il futuro dell’Appia Antica? R. P. - Cerco di farlo capire. Con sorpresa si legge nel DM di cui stiamo discutendo che l’Appia sarà un Parco Archeologico nell’ambito della riforma che ha alla base del proprio impianto la separazione netta tra tutela e valorizzazione, termini diventati oggi la metafora di una contrapposizione che si addice più a tifosi di squadre di calcio che di esperti e operatori del mondo della cultura. Chi può negare che la tutela si attua attraverso il riconoscimento di un interesse pubblico e che quindi la valorizzazione per la fruizione, sempre pubblica, non sono in discontinuità e contrapposizione ma anzi in stretta relazione nell’attività degli specialisti che devono saper riconoscere, studiare, conservare, attraverso i metodi del restauro, affinché il patrimonio culturale sia preservato da danneggiamenti di ogni genere, sia posto in condizioni di decoro, sia offerto al godimento pubblico? Compiti questi che devono essere sostenuti da una buona strategia di comunicazione per far conoscere, avvicinare e attrarre cittadini e turisti, azione necessaria al pari delle altre, senza la quale si vanificherebbe buona parte dell’operato delle amministrazioni. Se quindi è importante che il Ministro dichiari che ha a cuore l’Appia e quindi ne preveda un istituto giuridico speciale, tuttavia non è chiaro quale possa essere la forma di questo nuovo istituto se non (deve rimanere) dovrà occuparsi della tutela e della valorizzazione insieme, quale sia la prospettiva non solo per mantenere quello che fino ad oggi si è realizzato (non servirebbe in questo caso la previsione di un nuovo istituto ad hoc) ma per migliorare e far crescere questo immenso patrimonio, tanto eccezionale quanto umiliato. Più che di enti e istituzioni l’Appia ha bisogno di risorse, di un progetto complessivo condiviso e di buona gestione, adeguata alla complessità dei problemi di questo patrimonio, che i sapienti interventi ottocenteschi riuscirono a trasformare in un Museo all’aperto, modello di metodi di conservazione e allestimento moderni e originali, meta di visitatori italiani e stranieri.

E -Vorrei chiederti infine se condividi la preoccupazione che gli importanti risultati comunque raggiunti, nonostante l’ostilità dei potenti interessi colpiti, possano essere contraddetti da un eventuale nuovo assetto istituzionale che affievolisca la prevalenza dell’identità pubblica dell’Appia Antica. R. P. - Per nessun luogo come per l’Appia vi sono stati, nel tempo moderno, attenzione e impegno civile, con la consapevolezza che le numerose ferite inferte a questo patrimonio stavano sottraendo ciò che doveva essere pubblico. Questo impegno è parte stessa della storia dell’Appia e il miglioramento delle condizioni generali, l’ampliamento dei luoghi di pubblica fruizione, gli eventi realizzati, hanno già avviato una nuova fase, aprendo l’Appia alle Università, agli studi sulle tecniche di costruzione, sulla geologia, sull’impiego dei materiali antichi, coinvolgendo studenti, corsi di formazione, cantieri scuola, studiosi, artisti di arte contemporanea e della musica. Un nuovo istituto non potrebbe prescindere da tutto questo ma piuttosto nutrirsi della forza di questa partecipazione intorno ai tanti temi dell’Appia, come uno scudo ideale per la difesa dei valori e un contenitore in grado di dare impulso ad attività speciali, creando opportunità di lavoro, di incontro e di crescita per saldare l’identità dell’Appia.

Sabato 13 febbraio sull'Appia si svolgerà un'iniziativa per ricordare Tonino Cederna a venti anni dalla sua scomparsa: appuntamento alle h.10 alla Villa dei Quintili via Appia Nuova 1092)

Sacrosanta indignazione di persona perbene: «In linea con i miei ideali di migliore conservazione del patrimonio storico, non trovo più onorevole appartenere a un istituto che premia chi fa l’esatto contrario col Fondaco dei Tedeschi». La Nuova Venezia, 11 febbraio 2016

«Con questa mia chiedo di essere depennato dalla lista dei Soci dell’Ateneo Veneto. Mi dimetto per protesta contro l’assegnazione del Premio Torta nello scorso dicembre all’architetto Renata Codello, già Soprintendente alle Belle Arti e al Paesaggio e in tale veste principale responsabile dell’autorizzazione data alla vasta manomissione in atto del Fondaco dei Tedeschi, a suo tempo ricostruito in meno di tre anni (1505-1508) dopo un incendio, il terzo edificio della Repubblica di Venezia in importanza dopo Palazzo ducale e San Marco (cappella ducale) e il primo edificio d’importanza economica, da parte dei nuovi proprietari, la famiglia Benetton, noti mecenati culturali (si fa per dire) e dell’architetto Rem Koolhaas».

Comincia così la lettera che il professor Reinhold C. Mueller, noto medievista e già Ordinario di storia economica e sociale del Medioevo all’Università di Ca’ Foscari ha inviato di recente al presidente dell’Ateneo Veneto Guido Zucconi per protesta contro il riconoscimento all’architetto Codello (premiato in questo caso per la ristrutturazione delle Gallerie dell’Accademia), per il via libera alla trasformazione del Fontego dei Tedeschi che tanto sta facendo discutere in città, anche con le nuove finestre «dorate» in simil-alluminio anodizzato.
«Il Comune, sotto il sindaco Orsoni, e la Soprintendenza, sotto la direzione dell’architetto Codello» scrive ancora Mueller «hanno approvato il progetto di “restauro”, meno qualche provocazione più oscena, con lo scopo di rendere l’edificio rinascimentale un mega-store. Per farlo passare la Soprintendenza ha sposato la tesi che l’edificio, a seguito di manomissioni degli anni 1930, non era più una costruzione rinascimentale ma era da considerarsi addirittura un edificio degli anni attorno al 1930, ciò di fronte al compito di salvaguardare un edificio storico e riportarlo il più possibile allo stato originale, o comunque di non peggiorare interventi precedenti dove non reversibili».
E conclude: «In breve, in linea con i miei ideali sulla migliore conservazione possibile del patrimonio storico, non trovo più onorevole appartenere a un istituto che premia, per un’opera qualsiasi tanto “sapiente” e di “autentico interesse culturale per la città”, come suonano le motivazioni del premio, chi ha permesso l’esatto contrario nel caso del Fondaco dei Tedeschi. Pertanto, per correttezza e coerenza, rassegno - seppur con rammarico - le mie dimissioni da socio dell’Ateneo Veneto».
«Condivido buona parte dei tuoi giudizi sul progetto di Koolhaas, ma il Premio Torta non è un riconoscimento alla carriera», replica il professor Zucconi a Mueller, difendendo il premio assegnato all’architetto Codello per le Gallerie dell’Accademia. Ma senza fargli cambiare idea. (e.t.)

«Dopo sessant’anni i "vandali" di Cederna esistono ancora. Hanno deciso di smantellare ogni resistenza, di spezzare il legame che univa i Musei ai territori. Sperare che il loro tentativo fallisca è lecito. Ma non basta. Bisogna fare di più». Il Fatto quotidiano online, blog "Ambiente e veleni", 11 febbraio 2016

“Mi vedo costretto a parlare di questioni delle quali in un Paese civile dovrebbe essere inutile anche soltanto accennare”, scriveva e diceva Antonio Cederna, consigliere nazionale di Italia Nostra, ma anche consigliere comunale a Roma e deputato, mentre si batteva perché Roma e l’agro intorno alla città non perdessero la loro identità, mentre denunciava gli sventramenti del centro storico di Roma, come anche di Lucca. Così le distruzioni di varie chiese a Milano. Più in generale le manomissioni diffuse del paesaggio.

Per lui, coraggioso oppositore di un’idea sbagliata e perdente di territorio, enunciata da molti attraverso reiterati attacchi a luoghi e spazi del Paese, non è mai esistita una contrapposizione tra un presente da respingere ed un passato da conservare. Per lui,strenuo paladino dell’equilibrio tra habitat naturale e architetture umane, la via da seguire era proprio quella. Non alterare equilibri storicizzati. Non infrangere legami che il tempo aveva consolidato. Fino a fonderli indissolubilmente. Quasi, indissolubilmente. Non si trattava di salvare un monumento. E neppure un più articolato complesso.

Per Cederna la questione era più grande. Più complessa. In gioco non c’era “soltanto” la salvaguardia di una struttura, ma ben altro. Senza la tutela anche dell’intorno, si sarebbe trattato di una vittoria a metà. Di una sconfitta parziale. Il risultato? Un nuovo recinto nel quale ammirare l’ennesimo monumento, ridotto a fossile. Privato della sua restante vitalità. Per questo e per molto altro Cederna ha illuminato la seconda metà del Novecento. Proprio per questa sua visione del Paesaggio. Modernamente volta non solo a conservare, ma a costruire con il riutilizzo di parti esistenti. Insomma non sembri fuori luogo parlare di Antonio Cederna come di uno dei migliori architetti del paesaggio italiano. Uno dei luoghi sui quali sperimentò queste sue doti fino a quasi ad identificarsi con essa è stata senz’altro la via Appia.

“Per tutta la sua lunghezza, per un chilometro e più da una parte e dall’altra la via Appia era un monumento unico da salvare religiosamente intatto, per la sua storia e per le sue leggende, per le sue rovine e per i suoi alberi, per la campagna e per il paesaggio, per la solitudine, il silenzio, per la sua luce, le sue albe e i suoi tramonti … la via Appia era intoccabile come l’Acropoli di Atene”. Scriveva così l’ “appiomane”, come si definiva, Antonio Cederna nel settembre del 1953 sulle colonne de Il Mondo ne “I gangster dell’Appia”. Quindi per Cederna l’Appia antica avrebbe dovuta essere intoccabile, come l’acropoli di Atene. Nella realtà non lo era. Ha continuato a non esserlo. Nuove grandiose ville affacciate sul tracciato antico hanno cannibalizzato strutture antiche e medievali di ogni tipo. Hanno stravolto l’aspetto tradizionale per adeguarlo alle nuove esigenze. Ma senza Cederna e senza chi in questi ultimi venti anni ha combattuto contro il dilagare dell’abusivismo e dell’arroganza, probabilmente rimarrebbe molto meno. Di certo sarebbe diventato più sfumato il ruolo dello Stato come garante della legalità. Per ricordare Cederna, per ribadire quanto il Paesaggio sia elemento imprescindibile della nostra storia, l’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli ha organizzato per sabato 13 febbraio, a partire dalle ore 10.00, “Sulle orme di Antonio Cederna lungo la via Appia”, una camminata guidata da Rita Paris.

“La lotta per la salvaguardia dei valori storico-naturali del nostro Paese è la lotta stessa per l’affermazione della nostra dignità di cittadini, la lotta per il progresso e la coscienza civica contro la provocazione permanente di pochi privilegiati onnipotenti”, scriveva nel Cederna 1961. Forse il problema è anche questo. Che “i pochi privilegiati onnipotenti” hanno rinsaldato le fila, si sono moltiplicati. Che i nemici di ieri, oggi hanno deciso di mettere mano anche all’architettura istituzionale che avrebbe dovuto garantire la tutela del Paesaggio. Le diverse Riforme dell’organizzazione del Mibact, l’estrema valorizzazione-commercializzazione del Patrimonio e la sostituzione ufficiale dei professionisti dei Beni culturali con i volontari non sono elementi accessori. Senza alcun legame con la camminata sull’Appia e con altri incontri che si stanno organizzando in giro per l’Italia. La preoccupazione è che monumenti, siti archeologici, palazzi storici e musei debbano diventare soltanto un business. Nient’altro che un bancomat.
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Uno dei libri più celebri di Cederna, pubblicato nel 1956, s’intitolava, “I vandali in casa”. Per Cederna i “vandali” all’opera nell’Italia della ricostruzione postbellica erano: “Proprietari e mercanti di terreni,speculatori di aree fabbricabili, imprese edilizie, società immobiliari industriali commerciali, privati affaristi chierici e laici, architetti e ingegneri senza dignità professionale,urbanisti sventratori, autorità statali e comunali impotenti o vendute” e altri ancora.

A distanza di quasi sessant’anni i vandali descritti da Cederna esistono ancora. Sappiamo che stanno tentando di far danni non su un singolo monumento. Su un’area archeologica. Su un parco o una pineta litoranea. Molto peggio. Hanno deciso di eliminare nella sostanza i controlli esautorando gli enti preposti a questo. Hanno deciso di smantellare quel che oppone resistenza. Hanno deciso di spezzare il legame che univa i Musei ai territori. Sperare che il loro tentativo fallisca è lecito. Ma non basta. Bisogna fare qualcosa di più

La Repubblica, 10 febbraio 2016

Bari. «Scateniamo il paradiso. Faremo qualunque cosa per salvarlo» aveva protestato il sindaco delle isole Tremiti, Antonio Fantini. Un mese più tardi, la società Petroceltic rinuncia ad andare a caccia di petrolio al largo delle isole tra la Puglia e il Molise. «Essendo trascorsi nove anni dalla presentazione dell’istanza, periodo durante il quale si è registrato un significativo cambiamento delle condizioni del mercato mondiale (oggi il prezzo del greggio è di 30 dollari al barile,ndr).

Petroceltic Italia ha visto venir meno l’interesse minerario al predetto permesso» spiega la controllata italiana della società irlandese. Era quello che il ministero dello Sviluppo economico aveva concesso alla vigilia dell’ultimo Natale. «Il giorno prima dell’approvazione della legge di stabilità, con le modifiche normative introdotte in materia di autorizzazioni alle attività di prospezione per la ricerca di idrocarburi» ricorda il deputato del Pd, Dario Ginefra.
Dal ministero dello Sviluppo economico accolgono «con rispetto» la bandiera bianca sventolata dalla srl di stanza in Italia dal 2005. Federica Guidi è come se tirasse un sospiro di sollievo, perché nel tacco del Belpaese montava la rabbia a proposito di quelle perforazioni oltre le dodici miglia dalle Diomedee. Non per questo la titolare del Mise rinuncia ad affondare la lama della polemica nei riguardi del governatore Michele Emiliano, peraltro mai citato, che aveva capeggiato una vera e propria rivolta. «Spero adesso che, anche grazie a questa scelta» dice la Guidi «sia scritta una volta per tutte la parola fine a strumentalizzazioni sulle attività di ricerca in mare. Erano infondate già prima e lo sono, a maggior ragione, dopo la decisione della Petroceltic». Rincara la dose il viceministro pugliese dello Sviluppo economico, Teresa Bellanova: «Il governo non ha in nessun caso avuto l’intenzione di svendere il nostro mare».
Emiliano non ritira la mano che aveva scagliato la pietra contro l’esecutivo Renzi, accusato dieci giorni fa di essere «in trance agonistica, sta prendendo diversi pali in fronte, uno dietro l’altro, e quello delle Tremiti è il più grosso». Si limita a fare sapere: «Sono soddisfatto. Dove non era arrivato il buon senso di alcuni, è invece arrivata la saggezza della Petroceltic, che non ritiene l’operazione economicamente conveniente. Come del resto avevamo sostenuto all’epoca in cui il permesso di ricerca era stato rilasciato». Né arretra sul referendum No triv che non piace al premier, ancorché sdoganato dalla Corte costituzionale: «Andiamo avanti, più forti di prima, verso la consultazione popolare. Mi auguro che coincida con le elezioni amministrative. Ci mancherebbe che qualcuno spenda 350 milioni di euro degli italiani per sabotare il quorum».

Associazione degli Archeologi del Pubblico Impiego, 10 febbraio 2016

Non c'è pace per il Ministero per i beni culturali.
La Riforma fase due non è neppure iniziata e già si annuncia una terza rivoluzione. L'istituzione di un non meglio definito Istituto Centrale per l'Archeologia. E' ancora caldo il letto di morte della Direzione Generale Archeologia, affossata da un DM dello stesso Ministro che ora paventa rischi per la disciplina, e già si pensa a come supplirne la mancanza. E si annuncia la sua sostituzione con un nuovo organismo che avoca a se l'archeologia italiana. Ancora non è chiaro quali saranno i contorni di questo nuovo ente che si profila all'orizzonte; l'impressione che se ne ricava, però, non è certo quella di una accelerazione verso la modernità, quanto piuttosto di una immensa confusione che sta gettando nella paralisi la gestione dei Beni Culturali.
A dettare tempi e modi di questo stillicidio non sonotecnici del settore, ma consulenti ignari della complessità della materia e pertanto non consapevoli dei processi deleteri che si rischiano di innescare a scapito del patrimonio archeologico nazionale.
Quanto costerà questo nuovo organismo? Quanti e quali dirigenti e quale personale avrà? Ma la riforma non doveva essere a costo zero? E che cosa potrà fare mai un istituto centrale che non sapessero già fare, e meglio, gli archeologi specialisti che ogni giorno setacciano l’intero territorio nazionale? E poi, ancora, non sono state spezzate le Soprintendenze Archeologia, sezionandole ed accorpandole, in nome di una maggior presenza sul territorio? In questa logica, come si pone un Istituto CENTRALE ? Centro o periferia?
Gli scavi universitari, le missioni all'estero, dei quali il nuovo Istituto dovrebbe andare ad occuparsi sono solo una parte dell'archeologia, ben poco hanno a che vedere con il controllo dei cantieri, la tutela quotidiana, la salvaguardia del territorio, il lavoro giornaliero degli archeologi del ministero, che questa riforma complica e avvilisce, e che questo “nuovo” Istituto non è certo creato per facilitare.
Per capire cosa sta succedendo è opportuno riassumere le tappe di questa corsa verso la morte, attuata con il pretesto della cosiddetta "tutela olistica", prassi peraltro già applicata quotidianamente nelle strutture che si vanno riformando. Prima l'artificiale separazione dei musei dal territorio di riferimento. Poi la creazione di Poli museali eterogenei, dove la direzione prescinde dalla specialità dei contenuti che si vogliono promuovere alla fruizione del pubblico. Poi l'introduzione di nomine politiche nella gestione dei beni culturali. Quindi, la soppressione delle Soprintendenze archeologiche e il trasferimento del personale tecnico-scientifico, altamente qualificato e specializzato perché reclutato con concorsi pubblici altrettanto altamente selettivi, a mettere timbri in prefettura, con l’unico risultato di sottomettere la tutela del patrimonio culturale alla volontà politica del momento.
Ora come ultimo atto arriva l'accentramento a Roma del futuro dell'archeologia italiana.
Non è solo la fine di un apparato organizzativo dall'alto profilo scientifico, ma soprattutto la liquidazione del modello italiano basato su un forte rapporto con il territorio e sull’integrazione imprescindibile tra conoscenza e salvaguardia.
Si inventa qualcosa che c’era già, un luogo di raccordo e di indirizzo sulla ricerca archeologica, di dialogo e collaborazione con università ed enti di ricerca: tutte prassi ormai consolidate a livello territoriale grazie al lavoro delle Soprintendenze e armonizzate a livello centrale dalla Direzione Generale.
Si inventa qualcosa che c’era già, e che era “olisticamente" rivolto allintero e unitario processo di attività sul patrimonio-conoscenza, tutela e valorizzazione, e si spacchetta in organismi dai contorni confusi, separati per “funzioni” che non possono essere separate e accorpati per “materie” giustapposte, per competenze non sovrapponibili.
Si prepara, diligentemente e a piccoli passi ai più impercettibili, la soppressione del Ministero per i Beni Culturali. Non è la prima e non sarà lultima volta che un generale non si fida del suo esercito. Ma forse è la prima volta in assoluto nella storia che lo si vuole annientare.
Con buona pace di chi in questo Ministero non è capitato per caso, ma ha scelto coscientemente di lavorarci per fare l’archeologia come questo Ministero aveva sempre saputo fare finora.
10 febbraio 2016
Associazione degli Archeologi del Pubblico Impiego – comparto MiBACT
(API – MiBACT)

Unacittaincomune.it, 10 febbraio 2016

Il Parco Migliarino–San Rossore–Massaciuccoli sta vivendo momenti delicati. Non è ancora uscito dal grave dissesto economico che due anni fa l’ha portato al commissariamento e in queste settimane si rinnovano il Consiglio e il Presidente; a fine anno anche il Direttore.Contemporaneamente la Regione, guidata da un PD sempre più renziano e neoliberista, assesta fendenti all’area protetta minando la tutela di ecosistemi preziosi e unici. Questo anche perché, a fronte di una crisi economica che mette ferocemente in luce i limiti del nostro sistema di sviluppo, in tanti pensano ai parchi solo come ad un ostacolo alla libera attività economica o come a belle zone da sfruttare per gli scopi più diversi: dalla costruzione di residenze esclusive alla realizzazione di grandi eventi.

In linea con questa ideologia sviluppista ormai drammaticamente fallimentare, il consigliere regionale PD Antonio Mazzeo si sgola per dire che il Parco non deve costituire un limite e si affanna a omaggiare gli attori economici che chiedono di ridimensionare i confini del parco o di snaturarne i luoghi (es. la riapertura delle strade bianche). Estremizza così la linea già adottata da Regione Toscana, secondo cui le aree protette debbono diventare economicamente autosufficienti: in base a questa visione San Rossore è già stato trasformato in accampamento per gli scout, fondale per passeggiate di sceicchi e ora potenziale scenario per il G7. Difficile sorprendersi quindi della pur incredibile candidatura alla presidenza di Giuseppe Barsotti, imprenditore edile e rappresentante di interessi industriali: un lupo a guardia del gregge!

Mazzeo e il PD mostrano di essere imperdonabilmente ignari del significato e della storia del Parco, nato dallo sforzo di intellettuali di grande prestigio come Antonio Cederna e da un’appassionata e ampia sollevazione di popolo che hanno sottratto questo magnifico lembo di ambiente mediterraneo alla speculazione edilizia. Con la creazione di quest’area protetta è stata scritta una delle pagine più belle della protezione della natura in Italia: una pagina che l’incuria, l’ignoranza e soprattutto gli appetiti economici e politici vogliono evidentemente cancellare.

Il futuro del Parco è scritto invece nelle sue funzioni statutarie, tanto più importanti in un’area di altissimo pregio naturalistico al centro di un territorio fortemente urbanizzato. Oggi vanno affrontate sfide di conservazione difficili e ambiziose (il controllo degli ungulati, l’erosione costiera, ecc…), ma è anche il tempo di raccoglierne di nuove e avvincenti, come la valorizzazione di una nuova agricoltura compatibile con l’ambiente e lo sviluppo di una economia locale realmente sostenibile, in tutte le sue manifestazioni, turismo compreso. Per vincere queste sfide è necessaria un’ottica completamente diversa da quella di uno sfruttamento scriteriato e incontrollato delle risorse. Migliarino–San Rossore–Massaciuccoli è un’area protetta che può dare tantissimo al territorio, sul piano economico, sociale e ambientale, ma serve una mentalità aperta e coraggiosa, non tornare indietro di sessant’anni!

Invece di mortificare continuamente i parchi con tagli economici e lottizzazione delle cariche, la Regione Toscana deve impegnarsi in un forte investimento in idee e risorse, a partire dalla redazione di un nuovo Piano del Parco. Occorre progettare liberi dal condizionamento di interessi spiccioli e immediati, trovare persone autorevoli, con elevati profili di competenza, appassionate e capaci di visioni ambiziose e di lungo periodo, in grado di coinvolgere tutte le forze positive dei territori. E’ con questo spirito che vanno valutati i candidati alla presidenza, non col miserabile e pericoloso bilancino della rappresentanza dei meno nobili tra gli interessi locali.

Una pianificazione all'altezza dei tempi del neoliberismo. Non è la collettività, con le regole della democrazia, a decidere il suo futuro, ma i grandi interessi economici, nuovi Moloch divoratori di risorse altrui. La Nuova Venezia e Italianostravenezia.org, 10 febbraio 2016

La Nuova Venezia

PIANO REGOLATORE,
ASSEGNATO L'APPALTO

di Gianni Favaretto

A quasi cento anni dalla nascita (1917), il porto lagunare di Venezia ridisegna il suo assetto urbanistico, insieme a quello di Chioggia e ripianifica il suo sviluppo alla luce dei grandi cambiamenti avvenuti nell’ultimo secolo e delle nuove frontiere della logistica globale, dell’industria e delle infrastrutture. Il traffico di petroliere non c’è più e quello legato alle grandi industrie siderurgiche, chimiche ed energetiche che all’inizio del secolo era il core business del porto, si è fortemente ridimensionato, liberando aree industriali che aspettano da troppo tempo una rigenerazione ambientale, economica e occupazionale con un’orizzonte temporale proiettato sul 2030, quando saranno completati i nuovi corridoi europei dei trasporti, e al 2050, quando saranno completati gli investimenti dell’Unione Europea e bisognerà ridurre le emissioni di anidride carbonica nei trasporti del 60%.

Malgrado la catena ininterrotta di chiusure delle grandi industrie chimiche e siderurgiche degli ultimi anni, a Porto Marghera sono ancora attive (i dati sono dell’Ente Zona e risalgono al 2014) 1.034 aziende, che occupano complessivamente 13.560 addetti, delle quali 113 appartengono al settore manifatturiero (il 14% del totale delle imprese insediate) e impiegano 4.011 addetti, mentre logistica e trasporto contano 182 imprese (23,3% del totale) e un totale di 1.731 occupati (il 17,2%).
Dopo la chiusura del bando di gara internazionale da un milione e mezzo di euro - pubblicato nello scorso settembre - l’Autorità Portuale di Venezia ha assegnato ieri, in via provvisoria, il compito di redigere il nuovo Piano Regolatore Portuale, comprensivo della Vas (la Valutazione ambientale strategica) ad un raggruppamento di imprese specializzate. Si tratta di cinque società qualificate e certificate: la genovese D’Appolonia spa (specializzata in servizi integrati di ingegneria nei settori dell'ambiente, dell'energia, petrolifero e delle infrastrutture); la società olandese, con sede nel grande porto di Rotterdam, “Maritime and Transport Business Solution (Mtbs)”, esperta in finanza e business imprenditoriali nel settore marittimo, terminal e vie navigabili; la società di ingegneria Acquatecno srl di Roma che opera da trent’anni nel settore delle opere marittime e dell’ambiente; la Studio milanese dell’architetto e urbanistica Paola Viganò che insegna allo Iuav; infine, la Rina Service spa che sviluppa e offre servizi di classificazione navale, certificazione, verifica di conformità, ispezione e “testing”.
Entro la fine di febbraio verranno eseguiti tutti i passaggi formali per l’aggiudicazione definitiva del bando di gara, dopo di che comincerà la predisposizione del piano regolatore di tutta l’area demaniale, della laguna e di tutte le macroisole di Porto Marghera: un’area amplissima (l’estensione della laguna di Venezia è di 55 mila ettari), servita da tre bocche portuali, San Nicolò di Lido, Malamocco, Chioggia; a queste fanno capo tre distinti bacini lagunari, separati, nella funzionalità del regime idraulico, da riconoscibili spartiacque.
Da marzo prossimo comincerà la redazione del nuovo Piano regolatore urbanistico del Porto e della Valutazione ambientale strategica, sulla base delle “linee guida” già delineate e approvate dall’intero Comitato portuale e inizieranno anche le verifiche e consultazioni dell’Autorità Portuale con Comune, Città Metropolitana di Venezia, Regione e ministero delle Infrastrutture. Nel frattempo il pool delle cinque società che hanno vinto il bando di gara metteranno al lavoro ingegneri, economisti, cartografi ed esperti ambientali che saranno chiamati a mettere a punto un nuovo piano regolatore capace di delineare un porto all’altezza delle esigenze del mercato europeo e mondiale.

Italianostravenezia.org
CAMBIAMENTI EPOCALI
PER IL PORTO E PER TUTTA LA LAGUANA

Il vero futuro non solo di Venezia ma di tutti i 500 chilometri quadrati della Laguna (incluse le comunità che vi si trovano) sta per essere impostato e disegnato sulla base di indicazioni, o meglio specificazioni, imposte sostanzialmente dall’Autorità portuale di Venezia attraverso il suo presidente Paolo Costa. La laguna di Venezia sarà come Costa l’ha voluta e la propone da tempo, al servizio dell’attività portuale di Marghera, attività che condizionerà tutto il retroterra come centro per il transito di merci marittime.

Una così epocale trasformazione meritava forse di essere studiata con maggiore partecipazione di tutti gli abitanti e dei loro rappresentanti e di essere pubblicamente discussa molto più a lungo. Sono passati cento anni dalla nascita di Porto Marghera (1917) e le condizioni sono profondamente diverse. «Dagli inizi del secolo il mondo è cambiato», ha detto Costa a Gianni Favarato della Nuova Venezia, e ora dobbiamo «sviluppare un porto internazionale adeguato per scala di attività ed efficienza a competere sui mercati europei e mondiali con nuove rotte delle merci tra la Cina e tutta l’Asia con il continente europeo» (trovate su questo sito numerosi post in cui l’ambizioso progetto viene esaminato).
Ora il Porto ha appaltato a cinque società specializzate (non si sa per quale cifra) il compito di redigere un dettagliato piano regolatore portuale per tutta la Laguna. L’area ex industriale di Marghera diventerà zona di transito per container, mentre gli ormeggi per navi da merci e da passeggeri (incluse quelle da crociera) saranno ridisegnati secondo le indicazioni di Costa. Sembra molto evidente che il futuro economico e sociale di Marghera, ma anche di Venezia, Mestre, Chioggia, Tessera, verrà determinato da questo piano.
Vi saranno forse (ma la cosa è tutt’altro che certa) i modi di esaminarlo in dettaglio via via che verrà presentato. Ne riportiamo per ora i dati essenziali riproducendo due articoli di Gianni Favarato comparsi sulla Nuova Venezia di oggi 10 febbraio.
Strategie per la città, oppure semplici strategie private di speculazione su un patrimonio comune il cui valore è determinato proprio da ciò che gli cresce attorno?


Di cosa parliamo quando parliamo di scali ferroviari

La storia degli scali parte da lontano, dalla metà dell’800. A partire dal 1840 decine di imprese ferroviarie iniziano a realizzare linee sparse sull’intero territorio, e intorno al 1880 entrano in stato di crisi e dissesto.
Lo Stato unitario decide di intervenire: tra il 1880 e il 1905 il patrimonio viene rilevato, le società private sono indennizzate, il sistema ferroviario diventa servizio pubblico. Tutte le aree sono acquistate dallo Stato ed entrano a far parte del demanio ferroviario.
Per quasi cent’anni gli scali svolgono un servizio fondamentale per la mobilità: linea, stazione, interscambio, deposito o manutenzione.
Hanno conformazioni particolari, a volte si integrano nella città, a volte ne rimangono un po’ separati. Beneficiano anche di un involontario aumento di valore, perché situati in posizioni strategiche, all’interno di un tessuto urbano che cambia. Ma si tratta di un valore puramente nominale, perché sono scali, fatti di binari e traversine.

A metà degli anni ’80 del ‘900 inizia il nuovo processo di privatizzazione. Nel 1985 le FS da Azienda Autonoma si trasformano in Ente Pubblico dotato di personalità giuridica ed autonomia finanziaria. Con la legge del 1992 diventano Società per Azioni, e quote di capitale possono essere acquisite da privati. Tutti i beni, aree comprese, diventano patrimonio della nuova S.p.A., a cui la legge, non senza polemiche e controversie, concede di disporne nei modi previsti dal diritto privato.
L’accordo firmato tra FS, Regione e Comune di Milano nel 2007 prevede la riqualificazione di 7 scali ferroviari, pari a circa 1,1 milioni di mq, con previsione di nuove quantità edificabili pari a 845mila mq di s.l.p., e la “cessione” di 654mila mq di aree ad uso pubblico come standard.
Ma gli scali, come visto sopra, sono aree che lo Stato ha già pagato, nel 1905 e nei decenni successivi, per destinarle a servizio pubblico. E quindi sono già disponibili per usi “sociali” ed a vantaggio della collettività.

Eppure, nonostante questo, sta prendendo forza una grande mistificazione che racconta una storia diversa. Il pubblico, in questo caso il comune di Milano, si rivolge alle Ferrovie come se queste fossero un privato qualsiasi, dicendo: "Se vuoi costruire degli immobili nelle tue (mie) aree centrali (della mia città) devi lasciarmene in cambio la metà come standard, parchi e servizi. Solo così ti permetto di costruire (palazzi di lusso) e di rivendere al prezzo che vuoi (al massimo di mercato) e farci plusvalenze che potrai utilizzare per ripianare il tuo debito (dissesto), per nuovi investimenti ed in generale per il tuo profitto, visto che sei una S.p.A. e rispondi solo ai tuoi azionisti”.
Si tratta di una operazione fantastica, addirittura meglio di quella di Totò e Peppino che almeno vendevano una cosa non loro, la Fontana di Trevi, ad un turista americano. Le FS vendono ai privati le aree ricevute (gratis) dallo Stato e cedono le aree a standard … al proprietario stesso!

La dismissione della mobilità

Il procedimento di trasformazione avviato sugli scali ferroviari milanesi dice un’altra cosa fondamentale: su quelle aree non verrà più fatta ferrovia. Non sarà più possibile fare attività connesse con la mobilità e lo spostamento delle persone e delle cose.
Il modello è quello di un ottuso sprawl centripeto, teso a saturare tutti gli spazi ancora liberi per realizzare nuovi volumi, rinunciando per sempre a funzioni fondamentali per la mobilità in aree centrali e strategiche.

L’Accordo di Programma

La modifica degli scali ferroviari avviene mediante uno strumento urbanistico tipico della deregolamentazione normativa degli anni ‘80: l'Accordo di Programma (A.d.P.). Si tratta di una convenzione, ma sarebbe meglio dire un contratto, tra una parte pubblica ed una privata, per la definizione di interventi ed opere, con un programma concordato.

È l’urbanistica contrattata, quella in cui il pubblico ed il privato si mettono d’accordo per “fare”, anche in superamento della norma. Si tratta di uno strumento non del tutto trasparente, asimmetrico, giocato tra un privato forte e un pubblico debole, un luogo dove gli interessi coincidono e in cui controllore e controllato si confondono. L'AdP è quanto di più distante si possa immaginare dalla pianificazione partecipata ed in generale dal processo democratico di decisione sulla città.
Da qualche decennio, l’Accordo di Programma è lo strumento principale utilizzato per i grandi interventi di trasformazione urbana.

La valorizzazione

La valorizzazione è interpretata nel senso, grezzo, della rendita fondiaria, in cui contano solo volumi e quotazioni al metro quadro. Una visione un po’ alla Paperon de’ Paperoni: la trasformazione urbana deve essere remunerativa hic et nunc. La domanda su cosa dia valore ad una città non trova sede, perché non è ammessa al tavolo dell’Accordo di Programma.

Alcuni scali sono più scali di altri

Gli scali, secondo l’AdP, sono destinati ad una edificazione intensa, anche se la revisione della giunta Pisapia ha leggermente ridotto i numeri rispetto alla proposta Moratti. Con alcune sottigliezze importanti.

Lo Scalo San Cristoforo, un po' più periferico rispetto agli altri, e quindi con minore valore in termini di rendita, verrebbe destinato interamente a verde. L’edificazione viene condensata sugli altri scali, con meccanismo perequativo. Questo viene presentato come un esito virtuoso della trattativa Comune-FS. In realtà l'AdP sta dicendo con chiarezza che al privato non interessa realizzare case al Giambellino, dove i prezzi sono bassi e maggiori sono i problemi, importa invece il centro città, dove prevede di vendere ad un prezzo elevato.

Lo Scalo Farini, centrale e ambito, sembra destinato a nuovi grattacieli ed aree verdi. Le aree verdi sono forse dovute, ma i grattacieli? A chi servono appartamenti da 10÷12.000 euro al metro quadro? Magari la Real Estate Company non riuscirà nemmeno a vendere tutto: una parte verrà ceduta alle imprese che hanno realizzato l'intervento come pagamento del lavoro fatto, una parte residua resterà come garanzia per nuovi finanziamenti da parte delle banche.

Lo Scalo Lambrate si trova in una zona meno centrale, povera di servizi, mal collegata. Sembra destinata a diventare un altro caso Rubattino, secondo lo schema ormai consolidato dei venti megacondomini e un centro commerciale. Come se per vivere non servisse altro.

Conclusioni

Gli scali, e le ferrovie in genere, sono beni preziosi, difficilmente modificabili se non con interventi di altissima qualità urbana (ad es. la High Line a New York o la Coulée verte a Parigi…) o con estesi meccanismi partecipativi. Trasformazioni “à la carte”, in stile padano, uccidono la smart city in nome dell'edilizia, unico motore di un falso progresso.
L’intento del PGT su scali, caserme, aree dismesse, rivela l’ennesima mancanza di un disegno complessivo, e ci consegna una città in cui gli illusi aspettano i raggi verdi e le piste ciclabili mentre la finanza si mette d’accordo con i faccendieri per “valorizzare le opportunità”.

Che si aprano allora mille lotte e mille conflitti, per inventare e praticare nuove e concrete forme di partecipazione, radicalmente diverse da quelle patinate viste negli ultimi mesi a Milano. E che i progetti nascano dall’autodeterminazione, per ottenere giustizia sociale, per costruire la città vivibile ed accessibile, dell’incontro e del mix sociale.

«Brugnaro, da sindaco, andrà avanti con la realizzazione del parcheggio ai Pili - come prevede la convenzione con il Comune - o si fermerà, come promesso in campagna elettorale? Da Ca’ Farsetti, per ora, nessuna risposta». La Nuova Venezia, 9 febbraio 2016

«Se sarò sindaco, nell’area dei Pili non sarà realizzato né sviluppato alcun intervento». È una delle dichiarazioni fatte da Luigi Brugnaro, prima della sua elezione, riguardo agli interessi della sua società Porta di Venezia spa, proprietaria di alcune aree proprio all’imbocco del Ponte della Libertà. È però di questi giorni la determina dirigenziale che approva il progetto esecutivo redatto da Berro & Sartorio Ingegneria srl e commissionato da Porta di Venezia che si riferisce al tratto iniziale della pista ciclabile - che passa appunto sui terreni di proprietà della società di Brugnaro - che dovrebbe unire Venezia alla terraferma lungo il ponte della Libertà. Un intervento per cui è già stato stanziato un milione di euro dal Comune per la sua realizzazione.

La determina fa riferimento alla deliberazione di giunta del 29 novembre 2013 che ha approvato la convenzione stipulata per questi terreni dei Pili tra il Comune e Porta di Venezia (firmatario allora per la società Derek Donadini, attuale vicecapo di gabinetto del sindaco). La convenzione prevede la possibilità di realizzare nell’area dei Pili parcheggi a cielo aperto per circa 460 posti-auto con relative attività commerciali annesse, in cambio appunto della cessione di una porzione di spazio a titolo gratuito per consentire il passaggio della nuova pista ciclabile nel tratto che va dal sottopasso del Parco Vega al Ponte della Libertà. L’accordo, di carattere provvisorio, ha una durata di sette anni, ma è già previsto nella convenzione che possa essere prorogato.
La destinazione precedente dell’area era a verde pubblico. Brugnaro aveva acquistato dal Demanio anni fa le aree - circa 40 ettari - per 5 milioni di euro e la sua idea iniziale era di far nascere nella zona un palasport da 10 mila posti disponibile non solo per eventi sportivi, ma anche culturali, come musical o concerti. Ma l’idea non si era mai tradotta in realtà anche per la complessità della sua realizzazione e i problemi e i costi legati alle bonifiche dei terreni. Una precedente intesa raggiunta con il Comune prevedeva la realizzazione di una sottostazione per la fornitura di energia elettrica per la linea del tram che corre non lontano dalla zona, poi saltata. Ma la stessa area è invece diventata indispensabile per il Comune per il passaggio della pista ciclabile destinata a unire Mestre e Venezia, correndo lungo il ponte della Libertà. Per la progettazione della pista il Comune avrebbe dovuto rivolgersi a un professionista e per evitare la spesa ulteriore e i tempi lunghi di una procedura di esproprio sui terreni di Brugnaro, con possibili contenziosi con la sua società, si era appunto raggiunto un accordo.
Porta di Venezia cederà dunque gratuitamente al Comune le aree necessarie per il passaggio della pista ciclabile e farà eseguire a sue spese tutte le fasi di progettazione della nuova infrastruttura, come è avvenuto. In cambio, su un’area di circa 1.500 metri quadri, adiacente a un'altra dove già sorge un parcheggio per auto di proprietà della stessa società, saranno attrezzati gli spazi per ospitare circa 60 posti-auto. Un’altra area molto più grande - di circa 16.600 metri quadri - utilizzata in precedenza come parcheggio di autobotti e cisterne destinate alla movimentazione dei prodotti petroliferi in uscita dalla raffineria Eni, dovrebbe diventare un altro parcheggio gestito da Porta di Venezia per la sosta di motocicli, auto, camper e per un punto di noleggio bici, ricavando circa 400 nuovi posti-auto. Previsto anche un servizio di bar e ristoro e un punto di informazioni. Nascerebbe così un altro parcheggio "precario" ai bordi della città storica, che rischia, però, di diventare permanente.
La domanda è: Brugnaro, da sindaco, andrà avanti con la realizzazione del parcheggio ai Pili - come prevede la convenzione con il Comune - o si fermerà, come promesso in campagna elettorale? Da Ca’ Farsetti, nonostante esplicita richiesta di un commento sulla questione, per ora nessuna risposta.

Non ha partecipato al voto il sindaco Luigi Brugnaro per un’altra delibera approvata di recente dalla giunta che riguarda una sua società, la Scuola Grande della Misericordia spa, che ha avuto in concessione - con l’onere di recuperarlo, con project financing da circa 9 milioni e mezzo di euro - l’omonimo complesso sansoviniano di Cannaregio, da lui “inaugurato” poche settimane prima del voto delle amministrative, ma di fatto ancora chiuso al pubblico. Approvato su proposta dell’assessore ai Lavori Pubblici Francesca Zaccariotto un progetto di variante, che prevede una modifica delle reti impiantistiche dell’edificio, cambiamenti nel distributivo interno per l’uso polivalente del cinquecentesco edificio, consolidamenti strutturali e murari e soluzioni migliorative per gli interventi di restauro sulle superfici dipinte, sulle murature, sulle parti lapidee e a stucco. I nuovi interventi sul complesso della Scuola Grande della Misericordia - realizzati con fondi della società di Brugnaro - sono già stati approvati dalla Soprintendenza.

Il vincitore delle primarie milanesi del centrosinistra ... (continua a leggere)

Il vincitore delle primarie milanesi del centrosinistra[i] (cosa sia centrosinistra nell’attuale vicenda politica non sappiamo), gli altri candidati, i diversi sostenitori dell’uno e degli altri, il sindaco uscente hanno introdotto nei discorsi qualche richiamo all’istituzione Città metropolitana e al corrispondente territorio. Il quale coincide al millimetro quadrato con quello della defunta provincia. Per i problemi di ogni tipo finora riferiti alla città di Mi­lano, ossia una superficie di soli 181 kmq abitata da circa 1.340.000 residenti e frequentata giornalmente anche da 600.000-800.000[ii] extra-murari, le «autorità» ne avranno di fronte una di quasi nove volte più estesa e una popolazione di meno che tre volte più numerosa distribuita in 134 comuni compreso Milano. Il sindaco metropolitano, semplice trasposizione del milanese, sembra dotato di poteri anche più ampi dei pre­cedenti.

Il Consiglio seguirà l’andazzo dei Consigli comunali e regionali dei nostri tempi? Sì, non ricupererà affatto, non lo si può più sperare, la tradizionale forza detenuta prima dello svuotamento dovuto alla riforma (circa due decenni fa): che col premio di maggioranza riduce a pura testimonianza la debolezza della mino­ranza, poi concede a sindaco e giunta (addirittura parzialmente non elettiva) diritti decisionali, se così si può dire, escludenti facilmente dibattiti e controlli consiliari. Infatti le minoranze dei Consigli da allora vivono anzi vivacchiano frustrate per generale impossibilità di contare di più che il due di picche (a briscola). «Grandi speranze», forse possiamo metterle in capo alla Conferenza metropolitana dei sindaci? Come il dickensiano Pip, quante avversità, con 134 dissonanti, incontreremmo?

La forma territoriale (non più che definizione del confine) corrisponde alla riduzione della configurazione sto­rica provinciale a un minimo derivato dalle amputazioni volute dalle rivendicazioni territoriali autonomistiche. Non abbiamo per ora alcun disegno di divisione dello spazio, di organizzazione del medesimo secondo mo­dalità urbanistiche di massima ma chiare rispetto alle destinazioni d’uso primarie. Né lo avremo presto giac­ché oggi vige l’indecisione su cosa dire di teoria e cosa disegnare (ah ah…) sulla carta in ambito di pro­getto necessario, liberato della zavorra che ha riempito sacconi di assurdi acronimi «urbanistici», utili per far ping pong fra urbanisti con le parole retrostanti. Gli organismi metropolitani penseranno a un piano interco­mu­nale? O a cos’altro?

È passato oltre mezzo secolo dal miglior Piano intercomunale milanese (benché cri­ti­cato a destra e a manca, come usava e usa), formalizzato in modo comprensibile rispetto agli obiettivi con­divisi (con molte incertezze) dai 94 comuni aderenti (estratti da un «comprensorio di studio» di 135 co­muni). Progettisti Giancarlo De Carlo, Silvano Tintori, Alessandro Tutino; pubblicazione Urbanistica, n. 50-51, ot­tobre 1967. Il piano investiva in particolare, giustamente, l’hinterland nord, contrassegnato da una più nume­rosa presenza di insediamenti predominanti rispetto agli altri contesti per economia (profitto e rendita), rela­zioni sociali, mobilità-trasporto, tutte dotazioni di un certo livello ma soprattutto stabilmente in rapporto quoti­diano con la «città centrale, o metropoli».
È questo, secondo gli studi di oltre cinque decenni or sono di Al­berto Aquarone, che designava il carattere metropolitano dell’area[iii]. Del resto, se allunghiamo il nostro sguardo verso nord e lo dilatiamo verso una comprensione storica, scopriamo che l’area milanese presen­tava caratteri metropolitani nel Settecento e nell’Ottocento, poiché era già percorsa da un fervido sistema di relazioni, anche se l’assetto fisico del territorio non appariva mutato. Lo spazio edifi­cato poteva cambiare al suo interno, come quando una masseria diven­tava «fabbrica» o «pre-fab­brica», ma permaneva un territorio dotato di un chiaro, largo policentrismo, piccoli nuclei e anche piccole città separati da fasce agrarie più o meno vaste e continue a seconda del ca­rattere azien­dale dominante (nord, con­duzione familiare; sud, azienda ca­pitalistica).
Sarà il territorio settentrio­nale, ap­punto povero di risorse agrarie e arre­trato rispetto ai nuovi rap­porti so­ciali, a esplodere poi in industrializzazioni e edificazioni che produr­ranno man mano condi­zioni terri­toriali sempre più caotiche, espansioni edilizie di ogni tipo, sempre meno giustificate, irragionevoli, «divoratrici della cam­pagna»[iv], fino alla realizza­zione dello sprawl non solo nel mila­nese. Forse la tavola 4 del PIM pubbli­cata in Urbanistica 50-52 po­trebbe rappre­sentare l’occasione e la speranza di conservare quanto re­stava del poli­centrismo storico (e non era poco). Il disegno, spazzati via i tentativi di defini­zione della pura figura (la «tur­bina» quella di maggior successo e insen­satezza) non nega una por­zione di com­pletamento edificatorio di ogni cen­tro, ma con questo lo com­patta attribuendo mas­sima nitidezza al limite con il «verde», nelle sue tre ti­pologie: attrezzato, boschivo, agricolo e di sal­vaguar­dia. Sembra davvero ri­vendicazione della morrisiana città ben delimitata e non divoratrice. Intanto il territorio meridionale sarebbe rimasto alla sua logica destinazione a campagna produttiva e avrebbe incorporato in seguito il grande Parco Sud.

Torniamo al ritornello di politici milanesi sulla città metropolitana. Non vogliamo confrontare un piano con una forma geografica. Questa è stata privata di buona parte del territorio setten­trionale. La sottrazione della provincia Monza-Brianza sembra un morso di mela (Apple, eh eh…) che lascia un grosso vuoto come detta l’arco dentario, il pezzo succoso se lo sono portato via i brianzoli. Delle sette «aree omogenee» (non sappiamo in base a quali parametri) la Nord Milano (un residuo del morso) e la Nord ovest esibiscono il mi­glior sprawl. Siccome alcuni dei politici di cui sopra e circostanti architetti, nominata la città metropolitana proseguono con enfasi «ora policentrismo», dobbiamo capire dove ne potranno fare al­meno un esercizio quasi-urbanistico pur in enorme ritardo. La fascia di territorio che come una grande V ab­braccia Milano dal Magentino-Abbiatense all’Adda-Martesana attraverso le due aree omogenee meridionali dev’essere consi­derata in relazione a diversi aspetti.

1 - La difesa del Parco Sud sia praticata senza al­cun cedimento alle ri­correnti manovre delle amministrazioni comunali per concedere edificazioni a privati lungo e al di là dei con­fini consolidati. Si dovrebbe progettare un ampliamento del parco conservandone anzi raffor­zandone il ca­rattere agricolo. Tutta la campagna esistente, ben al di là della misura attuale del parco, fra il Milanese e il Pavese, grazie alla persistenza di aziende relativamente forti e alla possibilità istituzio­nale di renderle, per così dire, socialmente attive in caso di pericolo di alienazione all’immobiliare di turno, può co­stituire la com­ponente principale del progetto per un policentrismo ovest-sud-est. Insomma, campa­gna pro­duttiva e cam­pagna parco si immedesimano l’una all’altra e rappresentano l’unica vera risorsa per la sal­vezza della me­tropoli dalla morte letteralmente per l’indefesso procedere della sintesi clorofilliana verso il li­vello zero.
2 - Per costruire un assetto policentrico sensato (conveniente più di qualsiasi altro modello) oc­corre impe­dire ad ogni costo la tendenza edificatoria che nel nord Milanese, per causa di piani urbanistici o per man­canza di essi, ha provocato quel disastroso genere di territorio a cui corrisponde uguale genere di vita. L’espansione edilizia in comuni piccoli e medi celebra ancor oggi il consumo di suolo come indispen­sa­bile al benestare quando è vero il contrario, specialmente quando è il verde agricolo che passa secca­mente a co­struzione.
3 - Il maggior pericolo incombente sul territorio meridionale è che si ripetano altri, diffe­renti feno­meni distruttivi del paesaggio. Un’edificazione irruente secondo una forte dimensione del singolo inter­vento, presupposto di forme insediative di gigantismo, le più dannose, ha comportato il cambiamento di­retto, di ben altra misura che nell’espansione in piccoli comuni, da aree agricole di seminativo irriguo alta­mente pro­duttivo (azienda capitalistica o conduzione diretta efficiente con fondo adeguato), a grandi com­plessi, pro­gettati organica­mente o no.
Qualche esempio: l’inconcepibile insediamento di Sesto Ulteriano, vecchio di vari decenni ma poco conosciuto, un’accozzaglia di duecento capannoni per lo più magazzini de­serti, citta­della di stoccaggio di rara bruttezza che dobbiamo attraversare quando vogliamo andare a bonifi­carci di bellezza alle abbazie di Chiaravalle e di Viboldone; i pretenziosi, colorati edifici per uffici di Assago, un af­fare dell’immobiliarista Cabassi (il medesimo, proprietario di una parte minoritaria dei terreni Expo); la berlu­sconiana “Milano 3” nel piccolo comune di Basiglio (poche centinaia di abitanti), un castellum residen­ziale espropriatore di bellissima e fertile campagna, talmente erroneo dal punto di vista della pianificazione urba­nistica che ha stentato a riempirsi di «clienti» giacché oggi vi risiedono solo 7500 di quei diecimila (al mi­nimo) medio-borghesi previsti dotati di un reddito sufficiente per poter accedere a quest’isola creduta felice; il« distretto» (pomposamente) commerciale di Lacchiarella, inizialmente prova fieristica speculativa di Paolo Berlusconi poi cresciuta se­condo la consueta congerie di contenitori improduttivi, qualcuno diventato fortu­nata occasione per sbattervi un po’ di grossisti cinesi cacciati da Chinatown milanese perché disturbatori coi loro mezzi dell’allegro andiri­vieni di venditori e compratori al minuto.

Una precisazione intorno alle possibilità di progetto e attuazione (vedi il punto 1). Purtroppo cre­sceranno i casi, destinati a diventare totalità a lungo termine, di aziende (pur anche proprietarie) in progres­siva perdita del valore capitalistico e conseguente rischio di svendita alla consueta imprenditoria edilizia. Il governo me­tropolitano, magari imparando dal successo ottenuto da autorità nazionali e locali in altre aree geografiche, per esempio austriache, dovrà promuovere in base ad atti regolamentari interventi sostitutivi da parte di enti pubblici o privati convenzionati per conservare, restaurare e aumentare gli spazi agrari e ad ogni modo neo-naturalistici, allo scopo di renderli usufruibili dalla popolazione sia in senso colturale (prodotti biologici) che culturale (studio e conoscenza del bene primario).

[i] La vittoria di Giuseppe Sala (con solo il 42 % dei voti) era attesa a causa della divisione a sinistra, vale a dire la pre­senza di due candidati che si sarebbero divisi i voti contrari al primo. Se il candidato nettamente sfavorito nei sondaggi, Pierfrancesco Majorino, si fosse ritirato indicando ai suoi sostenitori la decisiva convenienza di trasferire i voti su Fran­cesca Balzani (l’attuale vicesindaco), sarebbe quest’ultima la vincitrice.

[ii] Sono molti decenni, peraltro, che ogni giorno entrano dai confini comunali non meno di 500.000 automobili, spesso due o tre centinaia di migliaia in più.
[iii]Alberto Aquarone, Grandi città e aree metropolitane in Italia, Zanichelli, Bologna 1961, p. 6. L’autore indica i fattori costitutivi di un’area metropolitana: «Gli elementi essenziali e indispensabili di un’area metropolitana sono rappresen­tati da un città centrale, o metropoli…e da una serie…di centri minori circonvicini con i quali sia determinata o stia de­terminandosi…sopra tutto una stabile reti di rapporti quotidiani, economici e sociali, questi ultimi nelle accezioni più larghe», p.6-7.
[iv] William Morris. Cfr. L. Meneghetti, Dimensione metropolitana. Contributo a una didattica di storia e progetto del territorio, clup, Milano 1983, v. p. 65-67, in part. il disegno a p. 67 «Schema interpretativo della riforma territoriale di Morris».

Su Eddyburg Archivio vedi anche Pagine di Storia: Piano Intercomunale Milanese

La denuncia di una vergognosa operazione delle giunte Orsoni e Brugnaro, con la complicità della grande maggioranza del consiglio comunale, delle diverse istituzioni coinvolte, delle associazioni che non hanno promosso una vigorosa protesta e della stampa cittadina che ha dato voce solo ai liquidatori del patrimonio pubblico. Italianostravenezia.org, 4 febbraio 2016 (m.p-r.)

Lunedì 1 febbraio il Consiglio comunale ha purtroppo approvato, con tre soli voti contrari – uno del Movimento Cinque Stelle e uno del Pd -, la delibera del passaggio in proprietà al Comune di Venezia dell’Isola della Certosa e del Forte di Sant’Andrea. Il sindaco e il suo capogruppo volevano convincere l’opposizione e il pubblico di cittadini che nella delibera si discutesse solo il passaggio di proprietà dallo Stato al Comune delle due isole, per cui lamentavano l’assurdità dell’opposizione a questo “regalo” del Demanio.

Peccato però che l’Accordo di valorizzazione, senza il quale non si può attuare il passaggio di proprietà (Accordo firmato a metà dicembre dai rappresentanti del Demanio, del Mibact, arch. Codello, e del Comune di Venezia, vicesindaco Colle, Lega), così reciti: «Il Comune di Venezia si impegna, anche attraverso la partecipazione di soggetti privati, a realizzare integralmente il Programma di valorizzazione presentato che si allega sotto la lettera C del presente accordo per farne parte integrante».
Cosa contemplano gli allegati C (che le opposizioni e i cittadini evidentemente avevano ben letto)? L’allegato C3 (Integrazione al Programma di valorizzazione), redatto nel 2015, divide gli interventi da realizzarsi nel Forte in più momenti, il primo della durata di 3 e 5 anni prevede interventi minimi e obbligatori (quali bonifica, messa in sicurezza dei percorsi, sfalcio dell’erba, cartellonistica, etc.) del partner privato che si aggiudicherà la gara, per il costo di un solo milione di euro; le tranche seguenti dei lavori, di medio-lungo termine fino a 25 anni, prevedono interventi solo «a facoltà de partner» e per «la sostenibilità socio economica del progetto». In una parola, facoltativi e a favore del partner, e fra questi c’è il progetto del restauro del Forte, il restauro dello stesso, un albergo, un anfiteatro, un ristorante, un bar etc. Per assurdo, il partner che si aggiudicherà la gara potrebbe attuare gli interventi minimi per un milione di euro e lasciare il Forte al suo degrado per altri 25 anni.
L’altro allegato, C2, del 2011, prevede interventi anche sull’area alle spalle del Forte, area che fa parte dell’idroscalo Miraglia, ancora in gestione al Ministero della Difesa ma in via di dismissione. Sono interventi pesantissimi, definiti dall’allegato C3 «un considerevole compendio di nuova edificazione nell’area di pertinenza del Forte, verso nord»: e cioè due alberghi, un centro benessere e pure una piscina a filo d’acqua (proprio alle spalle del limite del bastione nord, fronte Laguna). L’opposizione, in particolare la documentata e precisa Monica Sambo, ha chiesto dunque di stralciare, eliminare l’allegato C2 che prevedeva queste edificazioni nell’area esterna, non compresa nel presente passaggio di proprietà. Niente da fare. La maggioranza non ha voluto eliminare l’allegato C2, pur dichiarando che tali interventi non si faranno.

Leggiamo l’Accordo di valorizzazione, vincolante (perché se non realizzato lo Stato si riprende il bene): «Qualora al Comune di Venezia pervenga la disponibilità di spazi acquei, rive, banchine, etc. …, pertinenziali alle isole, che come detto non rientrano nel presente accordo ai fini del trasferimento, lo stesso Comune si impegna a destinarli ad usi compatibili ed integrati con i progetti di valorizzazione sopraccitati».

Cioè quando il Demanio Militare dismetterà l’area alle spalle del Forte, ecco già ratificato il Piano di Valorizzazione C2, con alberghi, centro benessere, altro ristorante, piscina a pelo d’acqua: un resort di lusso per turisti di alta fascia, che sorridenti e festosi, sorseggiando aperitivi sul bordo della piscina guarderanno i nostri figli in barchetta al Bacan,la spiaggia semisommera alla Bocca di Lido dove i veneziani "normali" vanno a bagnarsi - ndr] in perfetta continuità concettuale con l’operazione Fontego dei Tedeschi della giunta precedente.

Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2016 (m.p.g.)

Il ministero d Beni Culturali accelera la riforma del sistema di tutela con una drastica ristrutturazione. Le soprintendenze archeologiche sono accorpate con quelle storico-artistiche e monumentali e suddivise in unità territoriali più piccole. Questo avviene su un corpo debilitato dalla scarsità di personale e fondi che non ha assorbito ancora il colpo delle riforme precedenti: il silenzio-assenso, il passaggio sotto le prefetture, lo scorporo dei musei dalle Soprintendenze territoriali hanno paralizzato la tutela.

Nessuno sa più chi fa che cosa, sono oscurate le competenze precise delle nuove norme, non si è nemmeno tentato di correggere gli errori macroscopici. Su questo quadro arriva lo tsunami.I (pochi) difensori della riforma esaltano le sorti progressive del sistema e disegnano la scena come una lotta fra innovatori e immobilisti. È la retorica per cui il cambiamento è a priori positivo, sorvolando sulla possibilità di cambiare in peggio. La reale contrapposizione, però, è tra filosofi e operativi. I filosofi teorizzano la tutela "olistica" (archeologi, storici dell'arte, architetti, uniti per l'impresa comune), gli operatori osservano che all'opposto la riforma è il trionfo della frammentazione e della disarticolazione. La Soprintendenza archeologica di Roma viene spaccata in cinque, quella Toscana in quattro e si può continuare. Musei senza territorio, territori senza magazzini, né laboratori e senza disporre più dei materiali scavati.

Va chiarita invece la vera chiave interpretativa della riforma, perché la tutela olistica è solo copertura ideologica. Le soprintendenze regionali erano troppo estese per passare sotto i prefetti, ma la soluzione è semplice: facciamone spezzatino e dimensioniamole sulle prefetture.Non importa se i servizi centralizzati verranno pure spezzettati: archivio, magazzini, biblioteca, laboratori di restauro e fotografico. I funzionari quindi non avranno libri, fotografi e restauratori. Diverse Soprintendenze non avranno nemmeno funzionari. Ma in compenso la tutela sarà finalmente sotto tutela (governativa).

L'unificazione inoltre non è per semplificare la vita al cittadino, ma per il prefetto che vuole un referente unico. Infine l'ultimo tocco: arriva il decreto sulla mobilità per redistribuire il personale. Con un piccolo difetto: al Ministero non si sono accorti nemmeno che c'era stata una riforma: cosicché nel testo mancano le nuove sedi, ma si può far domanda per quelle già abolite.Una riforma calata dall'alto a sorpresa, senza un parere di chi i problemi li conosce per esperienza diretta, senza un piano di fattibilità e di costi, ignorando il Consiglio Superiore dei Beni Culturali che il Ministro (nella sua benevolenza) si è limitato a "informare" verbalmente, guardandosi bene dal sottoporgli lo schema del decreto. Si procede a vista per stravolgimenti successivi, senza un disegno d'insieme, incuranti delle proteste del personale del Ministero, delle critiche delle consulte universitarie, della petizione che ha raccolto 12mila firme in una settimana.

Sintetizzare il discorso è facile. Napoletanamente: "scurdammoce 'o passato".

Riferimenti
Numerosi gli articoli su eddypurg a proposito della'deforma' Franceschini. Li trovate tutti qui nella cartella SOS> Beni cuLturali. Magia.

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