Le linee programmatiche sono il documento che mostra alla città quali sono le scelte e gli interventi che dovranno essere messi in atto e qual è la visione che li guida. Il testo presentato dalla sindaca Raggi è in realtà un testo vuoto, perché manca proprio di quelle “azioni e progetti” che, sul piano della concretezza, devono dare indirizzo e corpo alle delibere della Giunta.
L’unica cosa che, invece, permea tutto il documento è l’apertura di “Tavoli” per qualsiasi cosa. Non c’è mai, però, un impegno preciso o una scadenza. In un momento storico in cui le città europee sono ferite da fatti gravissimi, non affronta nessuno dei “grandi temi” come, ad esempio, le migrazioni di milioni di persone, i cambiamenti climatici, la sicurezza, la tecnologia, il disagio nelle periferie, la mancanza di lavoro.
Prendiamo, per esempio, l’urbanistica che è, secondo me, la politica principe per dare attuazione alla visione che si ha della città, perché ha il compito di tramutare in trasformazioni urbane le idee che guidano il governo della città. Di tutto questo non c’è nulla nelle linee programmatiche, se non molta retorica e conclusioni generiche.
La sindaca Raggi dovrebbe spiegare alla città perché «ripristinare trasparenza e legalità» passi necessariamente dalla cancellazione di «tutti gli istituti di deroga discrezionali, quali le compensazioni urbanistiche e gli accordi di programma in variante urbanistica». Anche su questo serve chiarezza: se riscontra problemi di legalità, vada in Procura e denunci, se ci sono problemi di trasparenza imponga procedure chiare, se invece pensa che l’attuale Piano Regolatore Generale debba essere modificato, lo dica e lo faccia. Non può sostenere, infatti, che «verrà avviata una rigorosa verifica del Prg al fine di realizzare l’obiettivo di una concreta fine dell’espansione urbana», perché gli ambiti edificabili sono definiti dal Prg vigente e, quindi, è già un dato noto dove finisca la città.
Quello di cui c’è bisogno sono procedure chiare e snelle; a tal scopo, è necessario semplificare le norme tecniche d’attuazione del Prg e, al contempo, dotare i Municipi di procedure urbanistiche ed edilizie uniformi e online. Il controllo pubblico ovviamente non deve mancare, ma va anche pretesa qualità negli interventi architettonici imponendo elevati standard qualitativi, elevando lo strumento del concorso internazionale a procedura ordinaria per la selezione dei progetti e istituendo uffici di controllo che monitorino tutto l’iter.
L’urbanistica deve essere anche capace di ridisegnare la città e ricucire tutti gli strappi che una crescita non pianificata ha portato, ed è qui che è determinante quale idea questa amministrazione abbia delle periferie. Di nuovo, va registrata l’assoluta inadeguatezza delle linee programmatiche nelle quali si parla esclusivamente e genericamente di una «gigantesca opera di rigenerazione urbana» ma non si spiega come attuarla. Bisogna entrare nello specifico, nei singoli quartieri perché Roma ha tante “periferie” e bisogna conoscerle. Su questo tema in particolare, stupisce come con tanta superficialità si siano trattati i piani di zona (L.167/62) – per non parlare di toponimi e delle “zone O” – che, pur toccando centinaia di migliaia di cittadini, non sono neanche citati. Così come, sempre nell’ottica della rigenerazione urbana, non c’è una riga sulle centinaia di opere incompiute disseminate nella città, il cui completamento contribuirebbe in modo significativo a riconnettere e riqualificare il tessuto cittadino.
Anche sul trasporto pubblico locale, zero elementi di concretezza. Sull’ambiente non ci sono neppure 10 righe: su parchi, riserve, piani di assetto neppure una parola. Sull’agricoltura non c’è nulla! Su green economy una sola citazione del termine in un contesto estraneo. La sindaca Raggi vuole istituire un energy manager, che già esiste, ma non fa cenno a nessun progetto concreto per il risparmio energetico. Sul Tevere, neppure una parola, come se a Roma non esistesse il fiume. Sul Regolamento del Verde che Roma non ha, niente.
Manca un piano strategico ed economico per la città. Le grandi città del mondo si pensano nel futuro. Anticipano le trasformazioni ed elaborano le strategie per perseguire i loro obiettivi nella dimensione globale. Anche qui dalla sindaca quasi niente oltre piccole misure generiche. Le linee programmatiche chiamano in causa l’idea del “benessere” delle persone, ma non spiegano come verranno fotografati i bisogni sociali della città, né tantomeno si capisce quali saranno gli strumenti di valutazione della qualità e dell’appropriatezza degli interventi. O dove si collocano i due grandi assenti di queste linee programmatiche, ovvero la sanità e l’assistenza sociale.
Sulle aree metropolitane, serve un piano strategico che metta a sistema i settori industriali e produttivi della città con quelli dei comuni limitrofi, che sviluppi politiche della mobilità che non si limitino a guardare “dentro al raccordo” ma che tengano conto, ad esempio, dei flussi di lavoratori e turisti che quotidianamente si muovono nell’area metropolitana. Contemporaneamente, urge un processo di trasferimento di funzioni e risorse ai Municipi, con l’obiettivo di trasformarli in Comuni urbani. Serve quindi una vera rivoluzione amministrativa che nel programma del sindaco Raggi non c’è.
La nostra sarà un’opposizione dura, che andrà nel merito dei problemi e che, punto per punto, delibera per delibera, provvedimento per provvedimento, non si limiterà solo ad analizzare e criticare, se necessario, ma porterà sul tavolo della discussione e davanti ai cittadini soluzioni e alternative. Non ci saranno sconti da qui in avanti, quello che ci auguriamo è che, sin da subito, ai tanti interrogativi sottoposti oggi in questa sede, inizino ad arrivare chiarimenti e spiegazioni convincenti. Solo se le idee di ciascuno sono in campo e c’è trasparenza nel proprio operare allora si possono realizzare le basi per una dialettica che sia costruttiva e che produca risultati utili per la nostra città.
Comprendo che la polemica politica abbia la capacità di accentuare fino alla caricatura le posizioni altrui e giustifico dunque l’impostazione del ragionamento scelta dall’onorevole Roberto Giachetti . Ma se si passa al merito la musica cambia e si deve dissentire con forza ad iniziare da una questione che considero centrale e che invece occupa il primo degli argomenti di critica che egli utilizza per contestarne l’impianto.
Non so cos’altro avrebbe dovuto succedere a Roma per convincerci tutti a chiudere per sempre la fase delle varianti urbanistiche approvate senza un quadro d’insieme ma soltanto per favorire questa o quella cordata di finanzieri e imprenditori. Con tutti gli istituti della deroga urbanistica che il Parlamento di cui Giachetti è autorevole membro sforna a ripetizione si può costruire dappertutto qualsiasi insediamento residenziale o produttivo con la conseguenza che gli interessi pubblici sono stati subordinati sempre alla più completa libertà del privato.
Negli anni, nei lunghi anni, del centrosinistra romano, e cioè a partire dal lontano 1993 sono state approvate tali e tante deroghe urbanistiche alla nostra città che è oggi difficile recuperarne perfino l’elenco. Roma è stata insomma il battistrada della cultura nazionale della deroga urbanistica. Interi quartieri nati in aree che non lo consentivano; enormi e onnivori centri commerciali nati al posto di indispensabili servizi pubblici; aree agricole vaste e preziose sacrificate per consentire la costruzione di sempre nuove, grandi, desolate, anonime periferie. Si è addirittura consentito di aprire fast food in aree verdi di proprietà comunale.
La gravità di questo uso disinvolto dell’urbanistica ha portato principalmente a due gravi conseguenze. Dal punto di vista della vivibilità urbana è evidente – e Giachetti stesso lo sottolinea nel suo discorso – che abbiamo lasciato che si realizzassero brandelli di periferia senza quel minimo di struttura pubblica che sola definisce la città. Ma c’è un secondo aspetto che mi interessa ancora di più. L’inchiesta Mafia capitale ha finora scoperchiato il vaso di Pandora dell’accaparramento di finanziamenti pubblici attraverso procedure discrezionali: in questo modo sono prosperate come noto cooperative e imprese di servizi legate alla mala politica. Ma rendere edificabile un terreno agricolo o a basso valore economico, questo è il punto, comporta un arricchimento ancora più elevato di un appalto o di un finanziamento per gestire un servizio pubblico.
Si è in altri termini consentito di privilegiare alcuni proprietari fondiari e sono convinto che i riflettori della Procura della Repubblica si apriranno anche su questo settore. Anzi, dovrebbe essere noto a Giachetti che esistono già numerosissimi fascicoli di indagine in corso. Attraverso deroghe e mancanza di rigore non sono state infatti rispettate le convenzioni urbanistiche che prevedevano la realizzazione di opere pubbliche mentre le parti private sono state da tempo concluse. Nei piani di edilizia economica è mancata la vigilanza e si è consentito a imprese e cooperative di guadagnare sulle spalle di famiglie che cercavano soltanto di realizzare il sogno di una casa. E così via, gli esempi sono innumerevoli, ma la sostanza di questo malgoverno è sempre la stessa.
E arrivo così al punto decisivo. Afferma Giachetti che se c’è il sospetto della mancanza di legalità bisogna andare in Procura. Non mancheremo di farlo come lo abbiamo fatto negli scorsi anni in altri ruoli. Ma il problema fondamentale è che magistratura e forze di polizia sono indispensabili e sono messe in grado di operare al meglio se ci sono regole chiare. Ma non sarà così fino a che le regole urbanistiche possono essere contraddette dalle deroghe, e dunque non riusciremo nel compito di costruire città umane e vivibili. E qui mi sembra che possa aprirsi uno spazio di dialogo fecondo: è la questione delle periferie a rappresentare infatti il nodo centrale da affrontare.
Una città che si presenta con un centro antico meraviglioso ed ha la periferia più estesa disordinata e priva di servizi d’Europa non può competere con le altre città e non può rivendicare il ruolo di capitale che pure è scritto nel suo logo. Questo tema, ammetterà Giachetti, è presente eccome nel programma urbanistico del sindaco Raggi anche se non abbiamo seguito la liturgia di elencare a casaccio tutti i luoghi del degrado. Ed allora quando a settembre ci sarà lo spazio per iniziare a ragionare come fare uscire Roma dal tunnel in cui l’ha cacciata la cultura della deroga e della trasgressione, ci saranno tutti gli spazi culturali e disciplinari per avviare la gigantesca opera di recupero della periferia, come la definisce Papa Francesco, esistenziale e fisica.
«E' stato approvato il ddl 2290 sugli sprechi alimentari, prevede di “ridurre gli sprechi per ciascuna delle fasi di produzione, trasformazione, distribuzione e somministrazione di prodotti alimentari e farmaceutici”». Il Fatto Quotidiano online, blog "Ambiente e veleni", 4 agosto 2016 (c.m.c.)
Il 2 agosto 2016, con 181 voti favorevoli, 2 contrari e 16 astenuti, il Senato ha approvato la legge contro gli sprechi alimentari. L’Italia è il secondo Paese ad avere, dopo la Francia, una normativa dedicata a evitare le eccedenze alimentari. Molto meno coraggioso della Francia, che ha reso obbligatoria la donazione, imponendo tasse e penali ai grandi supermercati che depositano la merce nelle discariche o presso gli inceneritori.
Il provvedimento italiano prevede incentivi, sgravi ed alleggerimenti burocratici, lasciando la facoltà di scegliere alla Grande distribuzione organizzata (Gdo). In poche parole, i supermercati e la Gdo italiani doneranno solo qualora tale scelta sarà più conveniente economicamente rispetto al macero della merce invenduta.
Sicuramente è meglio che niente. Sicuramente però, non risolverà il problema alla radice. 1,3 miliardi di tonnellate di cibo sono sprecate ogni anno nel mondo. Circa la metà della frutta raccolta viene buttata prima di raggiungere il supermercato perché non risponde ai criteri di vendita imposti dall’Unione Europea (misure, dimensioni).
Tanta frutta resta nel campo. Se il prezzo cala, se non conviene, non la si raccoglie. L’industria alimentare su larga scala e la Grande distribuzione organizzata sprecano e schiacciano sotto i loro ingranaggi tonnellate di cibo ancora buono da mangiare.
Ristoranti, mense, bar e famiglie, fanno la loro parte. Il benessere e l’abbondanza di cibo inducono a gettarlo, senza riguardo. Un tempo, quando le nonne facevano il pane in casa, quando il cibo era ancora legato alla terra e a chi lo aveva prodotto, nemmeno una briciola andava gettata. I bambini sapevano fare la “scarpetta”, leccare il piatto, e se qualcosa si gettava era alle galline. Ora il cibo è slegato dalla terra, non c’è amore né odore di terra, nel suo sapore industriale. Il cibo è spazzatura e viene trattato come tale. Ci si ingozza e una volta sazi lo si butta. Una sorta di bulimia collettiva. Se tornassimo a considerare il cibo come vita, frutto della terra, frutto delle mani di artigiani, prodotto localmente, anche i bambini lo amerebbero di più (e forse ci sarebbero meno disturbi alimentari).
Non c’è solo il cibo sprecato, come effetto perverso dell’industria alimentare. C’è inquinamento, deforestazione, spreco di materie prime destinate agli imballaggi usa e getta, ci sono i milioni esseri umani sfruttati, impiegati in condizioni di semischiavitù.
Mi diceva una donna che gestisce una casa-famiglia: «Qui da noi arrivano sempre merendine, patatine, wurstel, coca-cola, succhi di frutta, caramelle di grandi marche…. Non so cosa sia più etico: boicottare l’industria alimentare per il grave impatto ambientale, sociale e sanitario che provoca, oppure accettare gli scarti di un sistema ingiusto, altrimenti destinati alla discarica». Io non ho saputo cosa risponderle. La domanda resta aperta, e fa male.
Nel mondo 868 milioni di persone soffrono la fame. 1,5 miliardi di persone sono obese o in sovrappeso. E’ la prima volta nella storia che cresce l’obesità anche nei paesi poveri. Cibo scadente e poco costoso, junkfood, destinato ai più poveri. La globalizzazione del cibo spazzatura (unitamente alla vita sedentaria) stanno facendo disastri: l’obesità e il sovrappeso stanno uccidendo più della fame.
Sfamare i poveri con gli scarti dell’industria alimentare non scardina le vere cause della miseria e della malnutrizione. Mette invece in crisi la sovranità alimentare e la salute dei più deboli. Come diceva l’Abbé Pierre: « I poveri non hanno bisogno di beneficenza, ma di giustizia».
«Percorsi di lettura. "Cronaca di un delitto politico" di Nicola Lofoco e "I nemici della Repubblica" di Vladimiro Satta si interrogano sui documenti relativi a due episodi precisi: il sequestro Moro e la strage di Piazza Fontana». Il manifesto, 4 agosto 2016 (c.m.c.)
Chi ha ordito la strage di piazza Fontana? Chi ha voluto la morte di Aldo Moro? Non sono i soli «misteri» intorno ai quali si esercita da decenni un esercito di investigatori dilettanti. L’intera storia repubblicana nel secolo scorso è portata quasi ogni giorno alla sbarra, con l’accusa di aver nascosto la sua fangosa trama reale. Ma nella fittissima rete di trame vere e molto più spesso presunte, quelle due vicende rappresentano gli snodi centrali, le colonne che reggono la costruzione torreggiante della «dietrologia».
Tra tutti i «misteri» della Repubblica nessuno eguaglia il sequestro Moro per quantità di supposizioni spacciate per verità palmari, di illazioni, fantasie sbrigliate e assoluto disinteresse per la verifica concreta. Seguire puntualmente una valanga di rivelazioni e sedicenti scoperte che prosegue ormai da decenni è letteralmente impossibile. Un esempio recente e autorevole, trattandosi della nuova commissione bicamerale d’inchiesta che re-indaga sul fattaccio, illustra alla perfezione il metodo seguito da decine di cacciatori d’intrighi.
La commissione chiede al Ris di verificare se una persona fotografata in via Fani dopo la strage sia Antonio Nirta, uomo della ’ndrangheta la cui partecipazione all’agguato era stata denunciata una ventina d’anni fa dal boss Morabito senza che però gli inquirenti trovassero alcun riscontro. Il Ris risponde che mancano «elementi di netta dissomiglianza». Il presidente della commissione Beppe Fioroni traduce con «c’è la ragionevole certezza che Nirta fosse in via Fani».
I titoloni cancellano anche quel «ragionevole» per evidenziare la certezza. Su Facebook qualcuno riconosce nella foto un compagno di Movimento accorso come tanti in via Fani dopo la strage, ma nessuno ci fa caso. La presenza di Nirta nel commando diventa così, per migliaia di lettori, un fatto acclarato.
Conviene quindi concentrarsi sul manipolo di autori che hanno provato a seguire i fatti invece che le convinzioni a priori o le suggestioni. L’ultimo in ordine di tempo è un giovane ricercatore, Nicola Lofoco, che si è concetrato su un’analisi dettagliata delle testimonianze e ha registrato i risultati in Cronaca di un delitto politico (Les Flaneurs, pp. 215, euro 14.00). Lofoco, testi e fotografie alla mano, fa piazza pulita di alcuni dei residui enigmi del sequestro.
La presenza di una Honda rossa con due brigatisti sfuggiti alla giustizia, per esempio, è una convinzione comune anche a molti che non flirtano con i romanzi di spionaggio. Si basa sulla testimonianza del «supertestimone» Alessandro Marini, secondo cui dalla moto era partita una sventagliata di mitra che aveva forato il parabrezza del suo motorino. Riletta da Lofoco la supertestimonianza appare dettata da un evidente stato confusionale, che gli aveva fatto vedere 22 persone armate in via Fani più una macchina inesistente. Le foto, in compenso,mostrano il famoso parabrezza. Intatto.
Allo stesso modo, l’autore smantella la leggenda secondo cui «metà del lavoro» in via Fani sarebbe stato portato a termine da un solo super killer, evidentemente molto più addestrato degli altri. Perizie alla mano dimostra che se in effetti metà dei bossoli ritrovati provengono da una sola arma, è anche vero che quei colpi raggiunsero solo uno degli agenti di scorta, Raffaele Iozzino, il che basta a smontare la leggenda di Rambo in via Mario Fani.
Lofoco si muove nel solco aperto dai due libri sul caso Moro di Vladimiro Satta che hanno smontato una per una quasi tutte le fandonie che circondano i 55 giorni. Di recente Satta si è cimentato con un’opera più ambiziosa. In I nemici della Repubblica (Rizzoli, pp. 272, euro 28.00) affronta l’intera fase storica del terrorismo, quella più densa di misteri, partendo da piazza Fontana per arrivare alla strage di Bologna. L’intento è dimostrare che il coinvolgimento dello Stato in quelle vicende fu o inesistente o comunque infinitamente minore di quanto dato ovunque per certo da quasi mezzo secolo.
Satta applica la sua interpretazione «contro-dietrologica» anche a piazza Fontana, forse l’unico episodio considerato universalmente davvero denso di intrecci torbidi tra Stato e terrorismo. Le reticenze e le clamorose coperture offerte dal Sid a Giannettini, che Satta stesso segnala come agente di notevole importanza, rispondevano, nella sua lettura, essenzialmente alla necessità di proteggere il servizio in particolare dalle accuse di aver arruolato una figura come Guido Giannettini, non a quella di fare da scudo agli stragisti.
Da un’analisi dei testi di Freda il bombarolo, Satta evince poi che obiettivo della strage non era, come si pensa di solito e come sarebbe inevitabile se dietro le bombe ci fosse lo Stato, un’operazione di stabilizzazione nel cuore dell’ «autunno caldo» del 1969 ma, al contrario, il progetto nichilista di portare la tensione all’estremo per provocare quella Disintegrazione del sistema che Freda aveva profetizzato nel suo testo più famoso.
Satta critica severamente l’arruolamento di neofascisti dichiarati come Giannettini nei servizi segreti e a maggior ragione la copertura offerta a quegli stessi agenti, facendoli fuggire all’estero, una volta coinvolti nell’inchiesta. È difficile però evitare la sensazione che un po’ sottovaluti le conseguenze di quelle commistioni. Riconosce che i gruppi fascisti si erano forse fatti l’idea di poter godere della complicità dei servizi, ma senza poi chiedersi quanto quell’illusione potesse essere stata coltivata ad arte e se, pur senza arrivare alla strage, non esistesse una strategia di infiltrazione e provocazione sfuggita poi di mano.
Quando però Vladimiro Satta prende di mira le teorie che indicavano in alti esponenti della Dc, come Mariano Rumor, i registi o almeno i referenti degli stragisti, o quando demolisce le più moderne fantasticherie su una «doppia bomba» è inevitabile concludere che l’impianto venefico della dietrologia è nato allora. In quel pasoliniano «io so ma non ho le prove» che ne costituisce a tutt’oggi il manifesto programmatico.
». Il Fatto Quotidiano online, blog "Ambiente e veleni", 3 agosto 2016 (c.m.c.)
Le associazioni ambientaliste della Basilicata finiscono nella ‘lista nera’ di Angelino Alfano, ossia la relazione annuale del Viminale sullo stato della sicurezza pubblica e sulla criminalità organizzata per l’anno 2014.
Dopo qualche settimana dalla presentazione, poi, nella sua visita a Potenza il ministro non fa affatto dietrofront, ma rincara la dose, collegando i sodalizi citati nel rapporto a questioni di ordine pubblico. Il tutto non in una regione qualsiasi, ma quella in cui sono in corso varie inchieste (anche della Procura antimafia di Potenza) che cercano di far luce su condotte e anomalie spesso denunciate proprio da queste associazioni.
La Basilicata è la regione considerata il Texas dell’Italia, dove è nata anche l’indagine che ha portato a vari arresti e coinvolto esponenti del Pd lucano e il governo Renzi, provocando le dimissioni dell’ex ministro dello Sviluppo Federica Guidi. Lo sa bene Angelino Alfano, che a Potenza ha dichiarato: «Non parliamo certo di fenomeni pacifici di protesta, ma dell’ordine pubblico, che è quello tracciato e monitorato nella relazione».
Un testo che aveva già suscitato le preoccupazioni dei consiglieri regionali del Movimento 5 Stelle, Gianni Leggieri e Gianni Perrino. Questa volta, dopo le dichiarazioni di Alfano, a intervenire è Piernicola Pedicini, eurodeputato M5s:
« È incredibile che delle libere associazioni vengano trattate alla pari di fenomeni malavitosi che nulla hanno a che vedere con la partecipazione dei cittadini – spiega Pedicini a ilfattoquotidiano.it – e la possibilità di protestare ed esprimere il proprio pensiero così come sancito dalla Costituzione italiana».
LA RELAZIONE SOTTO ACCUSA - A pagina 931 del testo si approfondisce la questione dell’ordine pubblico, facendo riferimento a particolari situazioni di tensione. Per intenderci: dalle vertenze occupazionali fino alle manifestazioni ambientaliste. «È stata attenzionata – si legge nella relazione – la campagna contro le trivellazioni in Basilicata, da tempo al centro dell’impegno di sodalizi d’area ecologista, più volte scesi in piazza con manifestazioni di protesta e iniziative volte a stigmatizzare i conseguenti danni alle falde acquifere e alla salute pubblica».
Tra le associazioni che hanno mostrato maggiore dinamismo si citano ‘NoscorieTrisaia’, ‘Scanziamo le scorie’ e ‘Ola -Organizzazione Lucana Ambientalista’, quest’ultima «particolarmente attiva – si scrive – nel contrastare l’asserito tentativo da parte di Total di estendere il perimetro delle concessioni estrattive anche ad aree del materano».
Il testo spiega, poi, come la mobilitazione abbia trovato nuovo impulso «a seguito delle misure governative emanate nel decreto Sblocca Italia» in tema di ricerca gestione e stoccaggio di idrocarburi «ritenute oltremodo penalizzanti per il territorio e, pertanto, osteggiate anche attraverso la pressante richiesta rivolta alle Istituzioni locali di impugnare davanti alla Corte Costituzionale gli articoli 35, 36, 37 e 38 del provvedimento normativo».
LE REAZIONI - Il testo ha scatenato una scia di polemiche. ‘Noscorie Trisaia’ ha chiesto un incontro con Alfano e con i presidenti di Senato e Camera. A far arrabbiare le associazioni è stato anche il riferimento a «minacce chiaramente ricollegabili alla vertenza» ricevute dal presidente della Regione Basilicata Marcello Pittella il 27 novembre del 2014, sollecitato a intervenire dalle associazioni con «una campagna di sensibilizzazione sul web» tesa a ribadire l’incostituzionalità dello Sblocca Italia.
‘Scanziamo le scorie’ ha scritto al ministro: «Noi siamo quelli della marcia dei centomila del 23 novembre 2003 (contro il cimitero atomico di Terzo Cavone), altro che inserimento nel Rapporto sullo stato della sicurezza pubblica e sulla criminalità organizzata 2014!».
Il 20 giugno scorso, poi, dopo 10 anni di attività, ha invece annunciato la sospensione delle pubblicazioni e di ogni attività informativa la terza associazione citata nel rapporto, l’Organizzazione Lucana Ambientalista che parla di «una scelta libera, senza condizionamento alcuno». Le ragioni, però, si possono leggere sulla homepage del sito ufficiale: «Assistiamo da più fronti a costante criminalizzazione e isolamento di chi ha sempre esercitato ed esercita democraticamente il diritto ad informare, nel pieno rispetto dei principi sanciti dalla Costituzione».
ALFANO: “E’ ORDINE PUBBLICO, NON PROTESTA PACIFICA – «Rispettiamo la scelta della ‘Ola’, ma non possiamo che dolerci della grave perdita subìta dal panorama dell’informazione lucana: tanto e bene ha fatto l’organizzazione nelle sue attività di sensibilizzazione sulle tematiche ambientali della Basilicata» hanno subito detto i consiglieri M5s Leggieri e Perrino.
Poi è arrivata la relazione sullo stato della sicurezza pubblica e sulla criminalità e, qualche giorno fa, la visita istituzionale del ministro nel capoluogo lucano. Dove ha ribadito la sua posizione su quanto contenuto nel documento: «Non parliamo certo di fenomeni pacifici di protesta, che sono tutelati dall’articolo della Costituzione sulla libertà di espressione del pensiero e riconosciuti dalle leggi di pubblica sicurezza, tanto che vengono concessi spazi per le manifestazioni».
Per Alfano, però, quest’ambito è diverso da quello «dell’ordine pubblico, che è quello tracciato e monitorato nella relazione». «Non permetteremo che le associazioni ambientaliste lucane vengano intimorite da Alfano e Renzi» ha replicato Piernicola Pedicini, secondo cui «ha dell’incredibile ed è gravissima e preoccupante la vicenda delle associazioni attenzionate dal ministero dell’Interno per la loro sacrosanta e democratica attività di denuncia e di informazione sulle estrazioni petrolifere, sulla tutela dell’ambiente e della salute pubblica in Basilicata».
Le parole del titolare del Viminale, a sentire l’eurodeputato M5s, hanno «il solo scopo di criminalizzare, discreditare e intimorire l’azione delle associazioni e dei cittadini lucani che non accettano le scelte scellerate che da anni vengono attuate in Basilicata per le estrazioni petrolifere, la gestione dei rifiuti e l’annientamento del territorio per puri calcoli economici e affaristici legati agli interessi delle lobby e della cattiva politica».
In questi mesi di caldo e di esodo (per chi può permetterselo) legrandi città si trasformano in un inferno per anziani, disabili, poveri, personecomunque sole, migranti in cerca di asilo e per chi abita in periferie lontane.Chi è in ospedale, chi cerca assistenza medica conosce bene quanto l’esistenzaquotidiana diventi particolarmente dura in questo periodo dell’anno. Mai comein questi mesi d’estate Roma diventa una città con due velocità e due realtà.Da una parte gli anziani, i malati, i disabili che cercano di sopravvivere allecrescenti difficoltà di reperire cure, assistenza, medicine e perfino cibo;dall'altra il flusso consumistico e ordalico di turisti che si snoda supercorsi prefissati, lontani dai primi. E Roma, in questi giorni, può diventarespietata con chi non ce la fa, con chi non riesce a procurarsi un riparo dalcaldo soffocante, per l’attesa infinita nei pronto soccorsi degli ospedali doveil personale è sempre carente.
Le grandi città sono diventate in-accoglienti per tutti coloro (e sono la maggior parte) che non possono permettersi di andare in vacanza e neppure raggiungere il mare così vicino. Quel mare, comunque, che poco più a largo è diventato una gigantesca bara per tanti immigrati che fuggono da paesi sconvolti da cambiamenti climatici provocati dalle guerre e dalla crescita insensata dell’Occidente.
Fin dalle sue origini – afferma Cacciari – la città è investita da una duplice corrente di “desideri”. La vogliamo oikos, grembo materno, madre premurosa e accogliente, luogo di pace e di sicurezza e la vogliamo, al tempo stesso, “macchina efficiente”. Nelle cosiddette città globali - sistemi urbani che tendono all’espulsione degli abitanti più poveri sostituiti da spazi esclusivi riservati ai ricchi e ai cittadini part-time internazionali, per dirla con Saskia Sassen - come Roma, il secondo aspetto ha di gran lunga soverchiato il primo, tanto che si invocano fantasmagorie come le smart city, città furbette, qualcuno le ha definite, per abitanti idioti. Così che il dibattito sulla città è diventato un dibattito su come accaparrare risorse, come incrementare il turismo, o conferire incarichi favolosi ad archistar in grado di produrre brand. Le città diventano i luoghi dove si manifestano logiche finanziarie il cui obiettivo non è migliorare le città, ma aumentare i profitti d’impresa. Così gli abitanti diventano comparse, semplici residenti se non spettatori passivi di grandi eventi, espropriati del loro bene comune, tanto da sentirsi estranei, stranieri nella propria terra.
E’, invece, il discorso sull’accoglienza, sulla diversità culturale, sulla povertà, sullo stare insieme (antico fascino della città moderna) che si impoverisce e perfino appare fuori moda rispetto ai tempi dell’austerity, della prevalenza del capitale finanziario, del fare cassa, dell’avere successo, del collocarsi ai vertici della classifica planetaria, della competizione senza contenuti (vedi il caso nostrano del conflitto tra Torino e Milano per la detenzione della fiera dell’editoria).
Così si distruggono legami sociali, si sviliscono (o si contrastano) esperienze isolate di piccole comunità locali per creare mondi più accoglienti, si consuma suolo, si alzano muri, si accentua la solitudine urbana, si producono ulteriori conflitti, separazioni, esclusioni dolorose che si caricano di vendetta. Eppure la città rappresenta l’occasione più grande per trasformare la nostra realtà quotidiana, per perseguire l’utopia di una comunità in pace, di uno stare insieme solidale, per fare progetti su come vivere. Ma a Roma il dibattito sulla questione urbana rischia di avvitarsi intorno alle due (effimere) questioni dello stadio e della partecipazione ai giochi olimpici. Due grandi occasioni di rinnovamento, modernizzazione, guadagni, affermano i loro sostenitori; due grandi opportunità per la città che sarebbe suicida non favorire e realizzare. Teoricamente è vero, come è vero che perfino un terremoto rappresenta un’opportunità (e per alcuni lo è davvero) per una nuovo risorgimento urbano; bisognerebbe poi raccontarlo agli abitanti di L’Aquila che ancora non se ne sono resi conto.
. Internazionale online, 2 agosto 2016 (c.m.c.)
Istituita per volontà di una giovane donna di religione islamica, Fatima al Fihri, l’università di al Qarawiyyin a Fez, in Marocco, aprì i battenti nell’859 ed è la più antica del mondo.
Negli ultimi tre anni, la sua biblioteca è stata restaurata da un’altra donna, l’architetta canadese di origine marocchina Aziza Chaouni, ed entro la fine del 2016 un’ala dello stabile sarà aperta e accessibile al pubblico. La biblioteca ospita una collezione di quattromila libri rari e antichi manoscritti in arabo dei più celebri intellettuali della regione.
Tra i testi più preziosi della biblioteca, oltre a manuali di grammatica e di astronomia, ci sono una copia del Corano risalente al nono secolo e un volume di giurisprudenza islamica del filosofo Averroè. Il complesso universitario sorse come moschea per volontà di al Fihri, che ereditò una fortuna dal padre mercante quando la famiglia lasciò la città tunisina di Qayrawan.
Nel documentario The golden age of islam (L’epoca d’oro dell’islam), trasmesso da France 5, al Fihri è descritta come una giovane donna affascinata dal sapere e curiosa del mondo. Seguì personalmente i lavori di costruzione della moschea e frequentò fino a tarda età le lezioni dei celebri professori che arrivavano da lontano per insegnare alla scuola della moschea.
L’università di al Qarawiyyin è ancora adesso un’istituzione prestigiosa in tutto il mondo arabo. Oggi si è trasferita in una nuova sede più moderna, ma sia la moschea sia la biblioteca sono rimaste nell’edificio antico.
Una biblioteca moderna
L’architetta Chaouni, originaria di Fez, non aveva mai sentito parlare della biblioteca prima del 2012, quando il ministero della cultura la contattò per affidarle i lavori di restauro. Da anni l’edificio era rovinato a causa del clima e dell’umidità. «Nel tempo, la biblioteca è stata ristrutturata varie volte, ma c’erano ancora gravi carenze strutturali, tra cui la totale mancanza di isolamento termico e numerosi difetti come scarichi ostruiti, rivestimenti danneggiati, travi di legno incrinate, cavi elettrici scoperti e così via», racconta Chaouni.
Grazie al restauro, l’edificio adesso è dotato di pannelli solari, un nuovo impianto idraulico, sistemi di sicurezza digitali per le sale con volumi preziosi e aria condizionata per controllare l’umidità e preservare i libri custoditi.
In passato la biblioteca era aperta solo a studiosi e ricercatori, ora invece ci sarà un’area accessibile al pubblico, oltre a una sala espositiva e un piccolo café.
Il mercato immobiliare del lusso a Venezia è ormai in mano agli stranieri - il 70 per cento degli acquirenti - e a livello di prezzi non conosce cali particolari, nonostante il momento ancora delicato in Italia per il settore. È la fotografia scattata dal Market Report Venezia 2016 elaborata da Engel & Völkers, gruppo tedesco leader a livello mondiale nel settore dell’intermediazione di immobili di pregio. I prezzi degli immobili più esclusivi, particolarmente i palazzi che si affacciano sul Canal Grande, vanno dai 12 mila ai 20 mila euro a metro quadrato. In particolare, le zone più richieste per la compravendita di proprietà residenziali di lusso sono San Marco e San Polo e Dorsoduro.
L’85 per cento delle compravendite riguarda appartamenti, mentre il 15 per cento ville o case indipendenti. Il 14 per cento delle transazioni si riferisce a immobili sotto i 250 mila euro, il 60 per cento a proprietà con prezzo compreso tra 250 e 500 mila, il 3 per cento a immobili tra 501 mila e un milione di euro e ben il 23 per cento a immobili sopra il milione di euro, quasi un quarto del totale.
Il 75 per cento degli acquirenti compra per investimento, garantendosi un’ottima rendita economica derivante spesso da un affitto turistico che si attesta all’8-10 per cento lordo. Solo un quarto decide di comprare per uso privato. Esiste quindi già una speculazione esterna anche per quanto riguarda lo sfruttamento degli appartamenti a fini turistici
Una delle aree più richieste è Dorsoduro, dove i prezzi variano da circa 5.500 a 7 mila euro a metri quadrati fino ad arrivare a picchi di 12 mila per proprietà esclusive sul Canal Grande. Anche l’area di San Polo, pur essendo la meno estesa, è una delle più interessanti vista la sua centralità. I prezzi variano da circa 4 mila a 5.500 euro a metri quadrati, fino ad arrivare anche a 9 mila euro a metro quadro.
A San Marco, invece, il vero cuore della città, i prezzi oscillano tra 4.500 a 6 mila euro a metro quadro fino a un massimo di 10 mila euro per le proprietà più esclusive.
I prezzi sono leggermente più bassi nella zona di Cannaregio dove si possono trovare alcuni dei piani nobili più prestigiosi della città ma anche graziosi pied-a-terre. La zona dei Santi Apostoli viene apprezzata invece per la maggiore tranquillità. Qui i costi variano dai 4 mila ai 5 mila euro a metro fino a 9 mila per gli immobili più grandi affacciati sul Canal Grande.
«La città sogna di recuperare gli spazi abbandonati della grande fabbrica: l’area può diventare patrimonio dell’umanità. Intanto De Benedetti è stato condannato per sette lavoratori morti». Il Fatto Quotidiano, 1 agosto 2016 (p.d.)
A Ivrea ci sono dei vuoti da colmare. Vuoti fisici e immateriali lasciati dalla fine della grande azienda che aveva reso la cittadina piemontese una capitale dell’economia e dell’innovazione grazie allo spirito di Adriano Olivetti. Riempirli potrebbe innescare nuovi processi. È l’obiettivo fissato dalla città alcuni anni fa con la candidatura all’Unesco, che nel 2018 potrebbe riconoscere l’area che ruota intorno a via Guglielmo Jervis patrimonio dell’umanità come “città industriale del XX secolo”. Ivrea, però, deve fare il conto con la realtà: il 18 luglio scorso Carlo De Benedetti e altri ex amministratori sono stati condannati per le malattie e i decessi di alcuni ex dipendenti provocati dall’amianto. La procura, inoltre, sta indagando su altri casi. Stesso marchio, Olivetti, ma due storie diverse: quella di Camillo e Adriano, da valorizzare, quella di De Benedetti e altri, da dimenticare.
“Questa Vicenda è un po’rimossa”, racconta Vanda Christillin, insegnante, figlia di impiegati Olivetti che hanno acquistato una delle villette costruite per i quadri, dove la signora abita ancora. “Si pensa che non sia una questione dell’azienda, ma dell’amianto, che in quegli anni era ovunque”. E continua: “La storia dell’Olivetti sotto De Benedetti è diversa: non c’era la dedizione ai lavoratori dei tempi di Adriano e quando lui non ha avuto i rendimenti sperati, l’ha lasciata”. Così si sono svuotati gli stabilimenti di via Jervis e molte stanze di Palazzo Uffici. Il fantasma dell’amianto, però, è restato a lungo prima di dare segnali e prima di essere estirpato: “Già durante la preparazione della candidatura ne abbiamo tenuto conto tra i fattori critici - dichiara il sindaco Pd Carlo Della Pepa -. Siamo intervenuti sugli edifici pubblici, l’ex asilo aziendale,la sede dell’Agenzia regionale di protezione ambientale (Arpa) o le aree della officine Ico (Ing. Camillo Olivetti, ndr) con le facoltà universitarie”. Per gli altri edifici, spetterà ai privati.
“Entra nella storia della tua città”. Con questo slogan uno dei fondi immobiliari informa che “sono disponibili in vendita o in locazione luminosi uffici”. Da più di un anno il cartello è esposto sul “Centro servizi sociali” progettato dagli architetti Luigi Figini e Gino Pollini, che - su impulso di Olivetti - dagli anni Trenta hanno plasmato quest’area con linee razionaliste e moderniste simili a quelle di Frank Lloyd Wright, Mies Van Der Rohe e Le Corbusier. Nei tempi d’oro era un edificio dallo spirito tipicamente olivettiano, che offriva, oltre ai servizi sociali e assistenziali, anche la biblioteca aperta fino a tardi per i dipendenti della Olivetti e gli abitanti di Ivrea. Ora molti locali sono abbandonati. Di fronte ci sono le officine Ico, dalla più antica in mattoni rossi, progettata da Camillo Olivetti nel 1908, ai suoi ampliamenti (ancora opera di Figini e Pollini) dalle grandi vetrate. Oltre a uffici e magazzini, sono in vendita anche le case dei dipendenti. Con 210mila euro si può comprare una delle villette progettate da Figini e Pollini per i lavoratori con famiglie numerose, case da 210 metri quadri su due piani e 480 metri quadri di giardino. Se l’area avesse il bollino Unesco, la casa sarebbe esente dall’Imu e il valore crescerebbe. “Quasi il 60 per cento degli edifici olivettiani è vuoto”, afferma il sindaco. Renato Lavarini, coordinatore della prima fase della candidatura, aggiunge che “secondo uno studio dello Iulm di Milano il patrimonio Unesco aumenta il valore dell’immagine del 40 per cento”.
Il vuoto più difficile da colmare è però quello lasciato da Adriano Olivetti, morto il 27 febbraio 1960. Nel 1962 è nata la fondazione a lui dedicata con l’intento di mantenerne vivo il pensiero e quello della sua “Comunità”. A 100 anni dalla nascita dell’azienda, la fondazione ha proposto la candidatura: “Ciò che ci interessa è l’aspetto immateriale – dice il segretario generale Beniamino De’ Liguori Carino, nipote dell’imprenditore. Quegli edifici sono i simboli di quello spirito”. “Non candidiamo soltanto i singoli edifici, ma un modello di città”, aggiunge Matilde Trevisani, project manager dell’ente. Se diventare patrimonio Unesco è possibile, sembra impossibile ritrovare imprenditori come lui: “Tanti hanno elementi simili, ma quel modello non è replicabile”, dice De’Liguori Carino. “Penso che sia impossibile ricreare quell’ambiente, ma vogliamo promuovere gli asset - dice Della Pepa - per creare le condizioni utili alle start up. D’altronde abbiamo già l’Interaction Design Institute e l’Arduino: speriamo che tra dieci anni via Jervis, definita da Le Corbusier ‘la via più bella del mondo’, possa attirare aziende e professionisti innovativi. La museificazione non serve a nessuno, men che meno a Ivrea”.
«Ada Colau, da leader dell’associazione anti-sfratti a sindaca: le ricette per cambiare l’amministrazione e non tradire gli elettori». Il Fatto Quotidiano, 31 luglio 2016 (p.d.)
Ada Colau, un anno da alcaldessa : come sta trasformando la città?
Che modello di sviluppo economico vi proponete?
Lei ha lanciato la costruzione di una rete delle città per l’accoglienza dei rifugiati.
Ha annunciato un piano contro l’islamofobia in piena epoca di stragi jihadiste.
Lei parla di cooperazione e non competizione tra le città.
Come valuta l’attuale situazione di stallo?
Nel 2011 lei passeggiava con suo figlio in carrozzina per Plaça Catalunya, in mezzo agli Indignati: com’è cambiata la sua vita da allora?
La cittadinanza mostra di apprezzare?
«Un'intervista con Paulo Mendes Da Rocha, celebre esponente della scuola paulista, cui la Biennale di Venezia ha conferito il Leone d'oro alla carriera. "Le olimpiadi in Brasile? Rispondo con Borges: mi sento come quell’ospite che è ricevuto con cortesia ma si accorge di essere prigioniero"». Il manifesto, 30 luglio 2016 (p.d.)
L’incontro con Paulo Mendes da Rocha (Vitória, 1928) a Venezia è di quelli sempre attesi. Il Brasile è dagli anni ’50 il laboratorio dell’«Altra modernità», come direbbe Frampton, che occorre conoscere e seguire con attenzione e Da Rocha ne è il principale interprete e testimone. Dalla palestra del Clube Atlético Paulistano (1957) al Museo della Scultura Brasiliana fino la Copertura per Piazza del Patriarca (2009), tutte a San Paulo, si comprende con precisione qual sia la sua idea di architettura: semplicità formale e costruttiva, funzione sociale dello spazio, rigore etico e sensibilità estetica. Tutti argomenti che intendiamo meglio approfondire con lui nella biblioteca della Biennale che ci ospita.
Intanto, una domanda d’obbligo: cosa pensa delle prossime Olimpiadi a Rio?
La Biennale Architettura di Venezia le ha conferito il Leone d’oro alla carriera. Tra le motivazioni c’è che la sua architettura dura alla prova del tempo. Come può resistere ai cambiamenti?
Fatta questa premessa, le chiedo: cos’è rimasto della scuola paulista?
Eppure ce ne hanno sempre parlato…
Un altro tema da approfondire è la questione della tecnica, in particolare quella del cemento armato, che ha un ruolo importante nella sua opera e che oggi è impiegato per banali megastrutture, come ad esempio a San Paulo il progetto previsto per il parco Ibirapuera…
(Con la collaborazione di Mirco Battistella e Ginevra Masiello)
Palermo quell'emendamento, solo tre mesi fa, veniva sventolato dagli abusivi di Licata che si opponevano alle ruspe con i propri figli in braccio. Quell’emendamento, appena riveduto e corretto, martedì potrebbe diventare legge all’Assemblea siciliana, vanificando gli sforzi fatti nell’Isola per far partire le demolizioni. All’improvviso, nel sonnecchiante parlamento regionale piomba la sanatoria per tutte le costruzioni entro i 150 metri dalle coste.
A presentarla un plotone trasversale di 11 deputati capitanati dall’ex sindaco di Trapani Girolamo Fazio: ex forzista oggi al gruppo misto, quest’ultimo, che è diventato («Mio malgrado», dice lui) l’indiscusso fan di chi ha costruito in tutta l’Isola in violazione delle regole.
La proposta di Fazio di legittimare le abitazioni sul litorale era diventata, in primavera, l’argomento principale degli occupanti delle case da abbattere che avevano ceduto ai bulldozer dopo essersi resi protagonisti di incidenti e disordini. E dopo avere – paradosso tutto siciliano – denunciato magistrati e forze dell’ordine per abuso d’ufficio. Al sindaco di Licata, Angelo Cambiano, era andata ancora peggio: dopo quegli episodi gli avevano bruciato la casa di campagna, va tuttora in giro scortato.
In questo clima, «superconvinto» delle sue ragioni, Fazio ha portato avanti il suo emendamento pro-abusivi: prima in commissione, dove la sua disposizione è stata bocciata a fatica (4 no, 3 sì, 3 astenuti) e ora in aula, dove il deputato senza demordere si è rifatto avanti con un testo solo leggermente modificato.
La sanatoria è prevista ora per le case realizzate dal 1976 al 1985 – data del primo condono edilizio – ma nel frattempo i benefici si sono allargati, non più limitati alle sole zone “C”, quelle parzialmente edificate. Ed è previsto che non solo chi ottiene il condono, ma pure i familiari, possano ottenere un diritto di abitazione della casa abusiva. «Uno scandalo, una vergogna inaudita», ha tuonato Ermete Realacci, presidente della commissione Ambiente della Camera, che ha parlato con il ministro Gian Luca Galletti, il quale avrebbe promesso di attivarsi.
L’esito della nuova sanatoria è tutt’altro che scontato: il presidente dell’Ars, Giovanni Ardizzone, ieri non ha escluso che l’emendamento possa essere dichiarato ammissibile e dunque andare ai voti, lanciando due allarmi non ingiustificati. Primo: «Se si procede con scrutinio segreto in aula può succedere qualsiasi cosa». Secondo: «Se la norma venisse approvata ci sarebbero danni incalcolabili anche in caso di successiva impugnazione del Consiglio dei ministri: prima del giudizio della Consulta, per un periodo almeno di un anno, in Sicilia ci sarebbe il liberi tutti».
Ma la voce di indignazione più forte è quella di un magistrato, il procuratore aggiunto di Agrigento Ignazio Fonzo che dopo 15 anni è riuscito a riportare le ruspe nella Valle dei Templi. Non esattamente un’impresa di poco conto: le demolizioni fra Agrigento e Licata sono scattate e andate avanti dopo una discreta pressione sui sindaci, minacciati di incriminazione per omissione d’atti d’ufficio in caso di mancata esecuzione di sentenze definitive che risalgono anche a venti anni fa. Il risultato? Simbolico. Ventitré edifici buttati giù, a fronte però di 22.100 abusi accertati dal 2009 al 2015.
E la top ten dei Comuni con il maggior tasso di violazioni edilizie sembra tratto da un’agenzia di viaggi: il mattone selvaggio ha conquistato lo Stretto di Messina e le contrade marsalesi, l’oasi del Simeto, le rovine greche di Siracusa e le ville barocche di Bagheria. Si registrano più nuovi abusi nelle isole Eolie (540) che in quattro capoluoghi (Caltanissetta, Ragusa, Enna e Trapani) messi insieme. I numeri dello scempio crescono, di molto, se si tiene conto delle domande di sanatoria: 770 mila.
Il cemento in Sicilia dal 1988 a oggi, segnala Legambiente, ha mangiato 65 chilometri di costa Ora nessuno sa, esattamente, quanti siciliani verrebbero premiati dall’ultimo emendamento che estende la possibilità di condono. Ma di certo gli abusivi continuano a rappresentare un elettorato molto rispettato in Sicilia. Gianfranco Zanna, presidente regionale di Legambiente, parla di «regalo d’estate ai predatori di coste» e ricorda le dichiarazioni rilasciate del ministro Angelino Alfano (agrigentino) quando andò a trovare il sindaco di Licata dopo l’attentato: «È finito il tempo della politica che coccolava gli abusivi per avere qualche migliaio di voti». Ma a firmare l’emendamento di Fazio, fra i sette deputati della maggioranza che sostiene Crocetta, ci sono tre deputati dell’Ncd. Ovvero il partito di Alfano.
«Meraviglioso: le sale inaugurate ieri da Renzi, richiuderanno dunque subito per mancanza di personale ». La Repubblica online, blog "Articolo 9", 30 luglio 2016 (c.m.c.)
A Matteo Renzi piace tagliare nastri. Meglio ancora se tagliandoli può oscurare un pò l'autoreggente Dario Franceschini, che trama nella Manica Lunga per farlo stare sereno prima possibile.
Così ieri Renzi era a Taranto, ad inaugurare il Museo Archeologico Nazionale: uno dei venti supermusei che Franceschini sostiene di aver miracolato imponendo loro le mani dell'autonomia.
«Museo archeologico, risanamento Ilva, le scuole del quartiere Tamburi, Arsenale, il porto, le bonifiche. Impegni concreti e scadenze rispettate. A Taranto i problemi non mancano ma il Governo c'è. E fa terribilmente sul serio», ha twittato il Presidente del Consiglio. E ancora: «Taranto. Dopo anni di promesse non rispettate, #finalmente ci siamo».
Peccato che le cose non stiano proprio così. Chissà se Franceschini ha detto a Renzi che il Marta è uno scatolone vuoto. Appena dieci giorni fa, una supplichevole circolare della Direzione generale del Mibact per l'Organizzazione faceva sapere a tutti che «con nota del 5 luglio il direttore del Museo Archeologico Nazionale di Taranto ha rappresentato la grave carenza di personale», chiedendo se ci fossero volontari disposti a «prestare servizio temporaneamente a Taranto». Cioè a tappare i buchi del Museo: aprendone di identici nelle loro sedi, tutte afflitte da una disastrosa mancanza di personale (esattamente come quando erano ministri Bondi o Ornaghi, anche se ora non lo dice più quasi nessuno).
Per far capire cosa manca a Taranto, veniva allegata alla circolare la nota della direttrice scelta dalla mitica commissione voluta da Franceschini. E la lettura è impressionante. La carenza di personale è «grave», ed è stata inutilmente fatta presente in «numerose note». La dotazione di personale – a cui il Mibact di Franceschini risponde solo con un risibile appello ai volontari– è «estremamente urgente».
Tra le figure che mancano ci sono ben 6 funzionari archeologi: «assoluta necessità di tale professionalità per la creazione dell'inventario digitale delle collezioni, totalmente assente, per la creazione di un team di curatori, per la creazione del servizio educazione e ricerca totalmente assente, per la creazione di un team addetto alla politica editoriale della struttura museale». Ma allora, uno ci chiede, cosa diavolo ha inaugurato Renzi, a Taranto?
A leggere questa desolante confessione si capisce perché Piero Guzzo si sia dimesso dal Consiglio scientifico del Museo.
Ma la ciliegina sulla torta arriva dall'ultima riga della direttrice: mancano anche «8 unità di personale di accoglienza, fruizione e vigilanza poiché il personale ora in dotazione è del tutto insufficiente a garantire l'apertura al pubblico del percorso espositico del II piano del museo di prossima inaugurazione, che si terrà nel mese di luglio alla presenza del ministro onorevole Dario Franceschini e probabilmente del presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi». Meraviglioso: le sale inaugurate ieri da Renzi, richiuderanno dunque subito per mancanza di personale.
«Taranto. Dopo anni di promesse non rispettate, #finalmente ci siamo». Non è vero: è una menzogna, una balla spaziale. Grottesca propaganda. Ma non importa: # l'Italia riparte. Per un'altra inaugurazione.
«Le sentenze per lo scandalo di Elbopoli hanno condannato un prefetto, un giudice, due costruttori. E' stato sequestrato e demolito, ma dal 2013 i detriti restano lì. ». Il Fatto Quotidiano online, blog "Ambiente e veleni", 29 luglio 2016 (c.m.c.)
Dopo la corruzione e l’abuso restano sempre le macerie. All’Elba non è nemmeno una metafora: l’ecomostro di Procchio – una delle 70 spiagge dell’isola – è stato tirato giù e fatto a brandelli, ma i detriti sono ancora lì.
I turisti non rimarranno delusi: troveranno anche questa estate, la quarta di fila, i calcinacci di quello sgorbio vista mare. Sentenze e condanne sono ammuffite, eppure le macerie di Elbopoli – il più grande scandalo giudiziario della costa della Toscana – restano lì. Le ruspe hanno buttato giù colonne portanti, muri maestri e anche responsabilità: tocca all’azienda che l’aveva costruito togliere quell’ammasso di pietre, eppure in tre anni nessuno è andato a battere alla spalla del titolare. Il sindaco di centrodestra di Marciana Marina, Anna Bulgaresi, eletta per la prima volta nel 2009, ci vuole provare ora con un’ordinanza, dopo aver visto che l’iter burocratico normale potrebbe far diventare quelle macerie reperti archeologici. «Gli operai della ditta dovrebbero iniziare intanto a pulire l’area, mentre per vedere i camion portare via le macerie si dovrà aspettare settembre, con la fine della stagione turistica». Ma per ora non c’è nemmeno l’ordinanza.
Lo sgorbio di Procchio, costruito nel 2003 a poche centinaia di metri dal mare, è un graffio in faccia a un’isola che si difende da decine di anni dall’arrembaggio dei pirati del cemento: quei detriti sono un monumento ai caduti e non è solo questione di paesaggio e spiagge da “liberare”. L’ecomostro è infatti un simbolo già dalle fondamenta, costruite in mezzo al corso originario del fosso Vallegrande. Ci sono quattro, cinque, sei canali che si ingrossano ogni volta che piove forte sull’isola e il Vallegrande è tra questi. Proprio quel fosso fu tra i responsabili dell’alluvione del 2011. Ma d’altra parte quell’emergenza (che causò un morto e milioni di euro di danni diretti e indiretti) fu la seconda in dieci anni, perché già nel 2002 l’isola andò sott’acqua. I lavori di messa in sicurezza, disse Legambiente dopo l’ennesima esondazione, non sono fatti per allontanare il rischio, ma per continuare a costruire dove il rischio già si è manifestato. Per anni gli 8 Comuni che governano i 223 chilometri quadrati hanno avuto piani strutturali singoli che – dicono gli ambientalisti – hanno permesso varianti, variantine, finte messe in sicurezza che hanno consentito cemento e infrastrutture e quindi consumo del suolo e terreni impermeabili.
Le macerie di Procchio dovevano essere un grande centro servizi: 7500 metri cubi, appartamenti, negozi, un parcheggio sotterraneo. Troppo grande. La Forestale lo segnalò, la Procura chiese il sequestro perché niente tornava con la licenza edilizia. Ma il giudice del tribunale non dette l’ok ai sigilli. Fu l’inizio dello scandalo Elbopoli che travolgerà – come se fosse un’esondazione del Vallegrande – due prefetti, un giudice, un sindaco, imprenditori, un funzionario comunale. La cricca prima del tempo delle cricche. Una bufera che sposterà i capelli anche a un ministro ora senatore, Altero Matteoli, lasciandolo però immacolato.
E’ l’estate del 2003 quando la guardia di finanza di Livorno ascolta le telefonate tra i proprietari e il progettista del centro servizi. Ma trovano un interlocutore in più: è proprio il giudice che ha negato il sequestro. Si chiama Germano Lamberti, è il capo dell’ufficio gip, ha presieduto il tribunale che ha emesso la prima sentenza sulla tragedia del Moby Prince, viene descritto come un uomo tutto d’un pezzo. Ma secondo i giudici ha un prezzo: poche ore prima Lamberti aveva ricevuto la richiesta del pm Antonio Giaconi di sequestrate tutto e ora suggerisce all’ingegnere progettista cosa serve per mettersi in regola. In cambio – dicono le sentenze definitive – avrebbe avuto un appartamento nel centro di Procchio e un altro a Cavo, altro angolo di serenità dell’isola. E allora risponde al pm che il sequestro va respinto. Il collega giudice che firmerà l’ordinanza del suo arresto scriverà: «Lamberti nel suo provvedimento ha affermato principi giuridici, fatti e circostanze, pur nella consapevolezza e convinzione che essi fossero del tutto errati e non corrispondenti alla reale situazione giuridica».
Il tempo di liberare il progettista – pochi mesi – che già lo riarrestano. Insieme a lui anche il prefetto di Isernia, Giuseppe Pesce, appena promosso dopo aver fatto il vice a Livorno e soprattutto il commissario prefettizio a Rio Marina, paese dall’altra parte dell’Elba, dal 2000 al 2001. Secondo i pm il viceprefetto Pesce ha concesso una concessione edilizia e una variazione di destinazione d’uso per far costruire un residence in un’altra zona spettacolare dell’isola, la ex Costa dei Barbari, a Cavo. In cambio, anche in questo caso, appartamenti a prezzo agevolato. Nella commissione edilizia chi c’era? Il progettista dell’ecomostro di Procchio. Nominato da chi? Dal prefetto Pesce. Infine il prefetto Vincenzo Gallitto. Subito dopo essere uscito assolto dal processo per la tragedia dell’alluvione di Soverato, riceve un altro avviso di garanzia, questa volta per corruzione, questa volta a Livorno. Lo accusano di aver fatto da intermediario tra i palazzinari e il giudice Lamberti. A lui, disse agli immobiliaristi, non dategli un appartamento sulla strada, piuttosto «sul dietro, dalla parte del giardino». In un’altra telefonata Lamberti rassicurava Gallitto sull’eventuale presenza di inchieste per abusi edilizi: ho controllato, spiegava il giudice, «non c’era niente». Non c’era niente perché tra gli indagati c’era anche lui e quindi l’inchiesta era già stata trasferita – come da prassi – da Livorno a Genova.
Dell’inchiesta – secondo la Procura – Gallitto seppe da qualcun altro, cioè dall’allora ministro dell’Ambiente Altero Matteoli. L’ex colonnello di An si è sempre difeso dicendo che in realtà aveva telefonato al prefetto per l’emergenza incendi e aveva chiesto a Gallitto se era vero quello che dicevano i giornalisti, cioè che c’era un’indagine. Ma nessun tribunale lo ha mai verificato perché il processo è morto in un attorcigliamento di conflitti di attribuzione, tra tribunale ordinario, tribunale dei ministri, voti della Camera, pronunce della Consulta. Il processo agli altri invece – tra varie partite di andata e ritorno – è finito nel 2013 quando la Cassazione ha confermato le condanne per gli imprenditori pistoiesi Franco Giusti e Fiorello Filippi a 3 anni e mezzo, il giudice Lamberti a 4 anni e 9 mesi e il prefetto Gallitto a 3 anni e 4 mesi. Tutti accusati di corruzione. Lo è anche il prefetto Pesce, ma il suo reato è caduto in prescrizione, così come quelli di altri imputati (in tutto a processo erano in 8).
Tutto finito, tutto risolto, dopo dieci anni? Macché. Nel giugno 2012 Regione e Comune annunciano che la struttura abusiva sarà demolita dopo 3 mesi e invece di mesi ne passano 9. Firenze ci mette oltre 5 milioni di euro per ricostruire tre chilometri di corso d’acqua, cancellati dalle urbanizzazioni degli ultimi trent’anni (ecomostro compreso). Da quel momento inizia il labirinto burocratico nel quale la responsabilità pare sempre di qualcun altro. «Lo spostamento delle macerie – spiega il sindaco Bulgaresi – era vincolato da parte della Provincia all’approvazione di un piano attuativo presentato dalla ditta con i dettagli della ricostruzione. Con le vicende giudiziarie, però, quella era tornata ad essere un’area ‘bianca’, e prima era necessaria una nuova pianificazione. Il futuro si deciderà con l’approvazione del nuovo piano urbanistico». Perché però l’attesa si è trascinata per anni? «Ce lo chiediamo anche noi – risponde Simone Barbi, consigliere del Pd, all’opposizione – Assistiamo a uno scaricabarile tra Provincia e Comune». La Bulgaresi sostiene di aver «aspettato perché sembrava che la proprietà avrebbe fatto qualcosa. E invece è passato un altro anno e non hanno fatto nulla. Adesso interverrò ordinando in maniera formale alla proprietà di rimuovere le macerie, poi si vedrà come procedere».
L’ordinanza, annunciata dal sindaco per il 13 giugno, non c’è ancora e ilfatto.it non è più riuscito a trovare il sindaco per capire perché. «Ci hanno comunicato che è stato avviato il procedimento per l’ordinanza. L’iter prevede di avvisare prima la ditta», fa sapere Barbi dall’opposizione. L’accelerazione del Comune – dopo tre anni – per il sindaco dovrebbe essere «una mossa per dare un segnale preciso: non possiamo ritrovarci la prossima estate con le macerie».
Perché il motivo principale delle lungaggini è il completamento della progettazione che dovrà ridisegnare tutta l’area. Il piano è in consiglio comunale, si attendono le osservazioni dell’impresa, che non è soddisfatta perché il Comune ha rivisto le cubature al ribasso, spostando dei volumi dagli appartamenti ai servizi. L’impresa che ha la concessione è rimasta la stessa di 13 anni fa. Nonostante l’ecomostro, lo scandalo, le condanne e la demolizione, la legge lo permette.
Prosegue a Venezia l'eliminazione di spazi pubblici a vantaggio degli alberghi di lusso. Questa volta si tratta di un Istituto pubblico di assistenza e beneficenza «che ha confermato l’intenzione di mettere a reddito l’edificio - non vendendolo - ma affittandolo alla società che lo trasformerà in albergo». La Nuova Venezia, 29 luglio 2016 (m.p.r.)
La casa di riposo Ca’ di Dio sarà trasformata in un albergo di lusso anziché continuare a ospitare - come è stato da sempre - una residenze per anziani autosufficienti gestita dall’Ire, l’Istituto per il ricovero e l’educazione. Ieri in Commissione consiliare a Ca’ Farsetti si è discusso infatti della Variante al Prg che consentirà la trasformazione dopo che già il commissario straordinario Vittorio Zappalorto aveva approvato una delibera che elimina lo standard pubblico attuale che vincolava l’uso dell’edificio di origine duecentesca che si affaccia sulla riva dell’Arsenale e apre la strada, dunque alla trasformazione alberghiera. In cambio, saranno rafforzati gli standard delle altre due case di riposo dell’Ire alle Penitenti e alla Giudecca.
«"Non è attività di ricerca". Con questa motivazione i giudici amministrativi regionali del Lazio hanno detto no all'istanza della Provincia di Teramo, di 7 Comuni della costa teramana e di altri 2 Comuni marchigiani contro il decreto di Via rilasciato in favore della compagnia inglese Spectrum Geo Limited. Che quindi potrà cercare gas e petrolio in una zona che va da Rimini al Salento». Il Fatto Quotidiano online, blog "Ambiente e veleni", 28 luglio 2016 (c.m.c.)
La Spectrum Geo Limited potrà cercare petrolio e gas in un’area dell’Adriatico vasta 30mila chilometri quadrati. Proprio mentre in Adriatico si smantella il pozzo esplorativo di Ombrina Mare - entrato in funzione nel 2008 al largo di San Vito, davanti alle coste abruzzesi -, con una sentenza il Tar del Lazio va in direzione opposta.
È stato bocciato, infatti, il ricorso presentato dalla Provincia di Teramo, da sette Comuni della costa teramana e da altri due Comuni marchigiani contro il decreto di Via (valutazione di impatto ambientale) rilasciato in favore della compagnia inglese. L’attività è quella di prospezione descritta da due istanze presentate il 26 gennaio 2011 per altrettante aree dell’Adriatico, la d1 BP SP (per 13.700 chilometri quadrati, da Rimini a Termoli) e la d1 FP SP (per 16.210 chilometri quadrati, da Rodi Garganico a Santa Cesarea Terme). Gli enti locali contestavano la procedura seguita dai ministeri competenti e che ha portato al decreto di Via: dal limite dell’area interessata, fino alla mancata Valutazione ambientale stragetica.
Per il Tar, invece, la Via è legittima, soprattutto perché non si tratta di attività di ricerca, ma di prospezione. Che vuol dire air-gun. Ora però il ministero non avrà nessuno ostacolo per il rilascio del permesso di ricerca. «Parlare di una nuova strategia energetica nazionale, come fa il governo, è l’ennesima presa in giro nei confronti dei quasi 14 milioni di italiani che il 17 aprile hanno chiesto di voltare pagina. Faremo pressioni su Regioni, Province e Comuni perché facciano ricorso al Consiglio di Stato» dice a ilfattoquotidiano.it Enrico Gagliano del Coordinamento nazionale No Triv.
L’area interessata
L’area complessiva, originariamente, era ancora più vasta (tant’è che nel ricorso si fa riferimento a 30.810 chilometri quadrati) ma alla luce del limite delle 12 miglia introdotto con la legge di Stabilità (e dopo la diffida presentata dagli enti che hanno fatto ricorso), il Ministero dello Sviluppo Economico ha riperimetrato l’area, come pubblicato sul Bollettino Ufficiale degli Idrocarburi di gennaio scorso.
Cinque le regioni interessate dalle attività di prospezione: Emilia Romagna, Marche, Abruzzo, Molise e Puglia. E proprio da quest’ultima regione era partito un altro ricorso ancora pendente, il cui esito a questo punto potrebbe andare nella stessa direzione di quello appena pronunciato dai giudici amministrativi del Lazio.
A proporre ricorso oltre alla Provincia di Teramo, sono stati i Comuni di Alba Adriatica, Cupra Marittima, Giulianova, Martinsicuro, Pedaso, Pineto, Roseto degli Abruzzi, Silvi e Tortoreto. Le amministrazioni chiedevano la sospensione, previo annullamento, del decreto del ministro dell’Ambiente, emanato di concerto con il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali, del 3 giugno 2015, con il quale si certificava «la compatibilità ambientale relativa al programma dei lavori».
Il verdetto del TAR
Per il Tar il giudizio positivo di compatibilità ambientale è stato rilasciato in esito ad una adeguata istruttoria, atta a rivelare non solo una compiuta valutazione dei cosiddetti ‘effetti cumulativi’, ma anche ad assoggettare l’attività di cui si discute a misure di mitigazione e a continui controlli».
Si tratta di una sentenza che non convince neppure Enzo Di Salvatore, costituzionalista e autore dei quesiti del referendum sulle trivelle del 17 aprile: «I ricorrenti avevano denunciato il fatto che il provvedimento Via riguardasse aree poste entro le 12 miglia marine – spiega a ilfattoquotidiano.it – che gli enti locali non fossero stati coinvolti, che non fosse stata effettuata la Vas (Valutazione ambientale strategica) e che la richiesta di rilascio del permesso riguardi due aree di ben 30mila chilometri quadrati».
Se il Mise è intervenuto sul limite delle 12 miglia, era rimasto infatti il problema dell’estensione delle zone interessate dalle due istanze. La legge 625 del 1996 prevede che la zona del permesso di ricerca non possa superare l’estensione di 750 chilometri quadrati. Ed è proprio questo il fulcro del verdetto dei giudici amministrativi, secondo cui «l’attività di ricerca – scrivono nella sentenza – è connotata da ricadute sul territorio chiaramente più gravose ed invasive di quella di mera prospezione». Così il Tar esclude quel limite imposto per legge, ritenendo che la normativa non disciplini anche l’attività oggetto delle istanze della Spectrum Geo, che non riguardano «il rilascio di un permesso di ricerca».
Il costituzionalista :«sentenza contraddittoria».
Per Enzo Di Salvatore si tratta di «un divieto che, invece, non può che riguardare anche le attività di prospezione». Il Tar ritiene che il limite dell’estensione dell’area sia da collegare al minore o maggiore impatto delle attività di ricerca, e cioè che debba valere solo per la ricerca effettuata con il pozzo esplorativo e non per quella eseguita con altre tecniche.
La pensa diversamente Di Salvatore secondo cui «se il legislatore avesse voluto, avrebbe potuto limitare il divieto di ricerca solo all’utilizzo del pozzo esplorativo, cosa che invece non ha fatto». Di più: «Il ragionamento del Tar è contraddittorio, perché se la ratio del divieto fosse quella di contenere gli impatti particolarmente invasivi di una data tecnica di ricerca, il divieto dovrebbe riguardare a maggior ragione (se non esclusivamente) le attività di prospezione».
Questo perché, secondo il costituzionalista «un conto è un pozzo esplorativo che ha sì un impatto, ma limitato a un’area geografica, un conto è una tecnica di prospezione come quella dell’air-gun», che consiste in scariche violente di aria compressa verso i fondali. «Una tecnica – conclude Di Salvatore – non solo invasiva, ma che viene effettuata a tappeto e che, in questo caso, riguarderebbe un’area molto vasta, con impatto su cinque regioni».
«I Cortocircuiti francesi sono esperienze simili ai Gas, che importano direttamente dai produttori italiani agrumi e altri prodotti non disponibili localmente». Comune.info, 28 luglio 2016 (c.m.c.)
Vi ho già raccontato in un mio precedente articolo di come una cassa di arance siciliane sia arrivata lunga su Torino, rimbalzata fino a Parigi e quindi esplosa spargendo semi in tutta la Francia. Oggi mi trovo vicino a Gap, sulle Alpi francesi, per osservare l’avanzamento di questa reazione a catena.
Qualche giorno fa ho scavallato le Alpi, ho oltrepassato il lago di Embrun, e sono arrivato allo specchio d’acqua di Veynes, nel dipartimento delle Hautes Alpes, dove si svolge la festa dei Cortocircuiti francesi. Qui ho ritrovato Brigitte e Rémi, che quando passeggiano per Embrun vengono riconosciuti come “Madame et Monsieur Orange”.
Questi Cortocircuiti sono associazioni di cittadini francesi nate per organizzare l’acquisto collettivo di arance ed altri prodotti del consorzio “Le Galline Felici”; a partire dalle arance, i Cortocircuiti si diffondono ed organizzano per acquistare sia prodotti locali che altri prodotti non disponibili localmente, coinvolgendo i mangiatori di arance nella organizzazione degli acquisti e in attività di informazione e cittadinanza attiva.
Le arance delle Galline Felici – grazie alla loro qualità e all’organizzazione logistica messa in piedi da entrambi i versanti delle Alpi – sono un’esca di attivazione; i francesi le assaggiano e rimangono un po’ alla volta coinvolti. A partire dall’associazione Court Jus di Embrun fondata da Brigitte e Rémi, nel dipartimento delle Hautes Alpes sono nate altre sei associazioni in diversi paesi e città. Nel periodo da novembre a maggio ogni mese due Tir di prodotti partono dalla Sicilia per consegnare in sette punti lungo la valle, qui i prodotti vengono divisi tra i vari gruppi raggiungendo in questo modo oltre 2.000 famiglie, circa il 5 per cento della popolazione del distretto che conta 174mila abitanti.
Negli ultimi anni queste sette associazioni sorelle hanno unito all’ordine delle Galline Felici anche ordini da produttori locali, consegnati inseme nell’acquisto mensile; in questo modo il cortocircuito cambia le abitudini di acquisto e facilita l’incontro diretto lungo le filiere sia locali che internazionali.
Questa prima festa raduna qui tra i monti molti di questi cortocircuiti francesi: l’associazione Corto che organizza gli acquisti per quaranta gruppi parigini con la distribuzione in sette punti della periferia, Agrumes Pastel di Tolosa collegata con l’esperienza delle Amap come molte altre di queste associazioni, Cort-circuit Ubayen di Barcelonette nel dipartimento delle Alpes de Haute Provence, Tutti Frutti nella zona di Lione, Givrés d’Orange a Lille ed altre in costruzione tra cui Grenoble, Rennes in Bretagna e Liège in Belgio.
I temi trattati sotto al tendone sono molto simili ai nostri: aspetti logistici e fiscali, scambio di esperienze, il ruolo della distribuzione, il rapporto con i produttori, la partecipazione. La differenza rispetto ai nostri incontri di economia solidale (Ines) sta nella grossa partecipazione degli italiani invitati a scambiare le esperienze in qualità di produttori consorziati del Sud e consumatori organizzati del Nord (Gas, Aequos e reti locali), oltre al gruppo “Lo faccio bene Cinefest”, Social Business World e la squadra di rugby dei Brigantini di Catania; è una festa bilingue, con tanto di interpreti.
Per completare il quadro devo ancora ricordare la spremuta di arance, il succo di mela, il tendone da circo installato per l’occasione, i film tra cui “Autrement, avec des légumes” e i corti del concorso “Lo faccio bene”, i banchetti delle associazioni, i concerti e le danze che favoriscono il clima di festa e lo scambio diretto di esperienze ed informazioni tra i partecipanti.
Queste reti basate sulla relazione diretta tra produttore e consumatore mostrano un modello di crescita interessante, anche se un po’ caotico, che si articola in diversi modi. Lo scopo è di trovare le forme organizzative che consentono di soddisfare i bisogni attraverso un’organizzazione della logistica che sia razionale e allo stesso tempo mantenga le relazioni, sia lungo le reti locali che attraverso le reti lunghe.
Questo processo di contaminazione dei Cortocircuiti, insieme alle esperienze dei produttori e delle Amap francesi che si sono presentati durante gli incontri, mostra quanto la strategia delle reti sia efficace nella pratica, con la capacità di migliorare la vita di chi consuma e di chi produce.
Durante l’incontro della domenica mattina i partecipanti si sono divisi in due parti: da un lato del tendone un gruppo si interroga su come integrare i migranti nel lavoro agricolo, dall’altra i Cortocircuiti discutono insieme alle Galline Felici di progetti di co-produzione per avviare insieme la conversione delle coltivazioni in base alle richieste dei consumatori.
Quello che è specifico di questo incontro è l’intreccio tra reti locali e reti lunghe, che rafforza la trasformazione sociale innescata dalle varie forme di cortocircuito. Per questo motivo, nella sessione finale è stata chiesto alle reti presenti cosa possono mettere a disposizione in termini di beni, servizi ed esperienze. Le reti si fortificano in questo modo, e la partecipazione a incontri come questi mostra come si tratti di una trasformazione sociale in corso.
Oramai è evidente che le prime casse degli ordini collettivi di Gastorino che hanno viaggiato sulla macchina di Julien da Torino a Parigi nel dicembre 2010 e sulla macchina di Brigitte e Rémi da Collegno a Embrun nell’inverno del 2011, oltre a qualche arancia hanno dato un passaggio anche ai germi di questa contaminazione insieme ad un pezzetto di storia contemporanea. Sulla piazza di Embrun, a fianco del monumento a Clovis Hugues, propongo di installare un altro monumento dedicato alle prime casse di arance, la miccia di questa rivoluzione gentile.
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«La dicotomia centro/periferia appare oggi subordinata alla scala sovracomunale, un quadro che amplia il tema in una più attuale e sistemica visione di rete policentrica.Una agenda al futuro mettendo a sistema strumenti esistenti», Arcipelagomilano online, 27 luglio 2016 (c.m.c.)
L’intervento di Michele Monte Periferie e rigenerazione urbana, nell’illustrare le priorità di programma della nuova giunta su degrado urbano – come criticità sociale ed economica oltre che insediativa – e rigenerazione, stimola ad approfondire le dotazioni disponibili per agire qui e ora, sollecitando considerazioni che, per quanto sparpagliate e poco sistematiche, mi auguro possano corroborare la discussione in senso operante.
Che il neosindaco Sala abbia fatto leva sull’opinione pubblica attraverso la categoria – piuttosto genericista e un tanticchio desueta, ma tanto retoricamente di sinistra – di ‘degrado periferie’ buon pro ha fatto in termini di risultato elettorale, anche se l’analisi del voto locale auspicata da Monte potrebbe dare chiavi di lettura affatto scontate e utili alla politica riformista in continua trasformazione.
Nel merito delle azioni e degli strumenti, Monte sintetizza i limiti – tra inerzia amministrativa settoriale e mancato corto circuito tra apparati di analisi e strumenti conoscitivi necessario a fornire dati utili a qualificare i fenomeni e conseguentemente orientarne lo sviluppo – e propone quattro mosse per la costruzione degli strumenti operanti: Analisi e raccolta dati; Feedback con la cittadinanza e suo coinvolgimento; Integrazione tra enti e operatori, tra pubblico e privato; Laboratorio permanente di elaborazione.
In sintesi cercherò di evidenziare come la dicotomia centro/periferia appare oggi subordinata alla scala sovracomunale, un quadro che amplia il tema in una più attuale e sistemica visione di rete policentrica, ovvero di città metropolitana, in cui i margini reciproci tra comuni contermini, se rimossi per un attimo i confini amministrativi, possono diventare risorsa.
Inoltre parlerei di azioni di rigenerazione nel senso di uso rinnovato, piuttosto che di degrado. Riferendomi a un approccio interculturale, in cui l’aspetto sociale, economico e insediativo sono tra loro inscindibili, che nel nostro mestiere significa sintesi di progetto. Ma che passa attraverso una strumentazione fatta di norme e orientamenti specifici dettati dal Piano, che forse a Milano è il momento più adatto per essere messo in discussione.
1. Città metropolitana. È a questa scala che Milano può dare gambe e futuro alle idee che il sindaco-manager già sta ‘vendendo’ al parterre internazionale. È alla scala di città metropolitana che si deve discutere di post Expo, di città della salute, di logistica infrastrutture e trasporti. È in questo quadro, ripeto, che ha senso creare le sinergie tra innovazione e inclusione, tra pubblico e privato. Così come per la questione degli Scali ferroviari, che da mera risorsa immobiliare da sdoganare sotto forma di convenzione di standard, si inquadrerebbe in un più adeguato disegno di strategia urbana intercomunale. Che significa, di ritorno, con una sensibilità progettuale maggiore a scala di vicinato, cioè tra Comune e Comune.
2. La Babele dei linguaggi. Da pochi mesi si è reso operativo uno strumento di lettura sintetica dei 135 PGTonline di Città Metropolitana (sistema dinamico presentato anche su queste pagine) grazie a un accordo trasversale tra Ordine degli Architetti, centro studi PIM e Ance Assimpredil – un buon esempio di integrazione operativa tra enti per altri versi distanti tra loro, così come tra pubblico privato auspicato da Monte. La mosaicatura delle diverse tavole tematiche che compongono i singoli Piani comunali, ben rappresenta io credo la Babele di linguaggi e obbiettivi nel confronto tra Comuni, che necessiterebbe di un grado 0 di unificazione anche solo del suo codice di rappresentazione: chissà se nella revisione in corso della Legge Regionale 12/2005 si riuscirà a tener presente?
O bisogna dar ragione a chi vede nella debolezza della Legge Regionale 32/2015 istitutiva di Città metropolitana di Milano espressione dell’interesse autocentrico del capoluogo a discapito del sistema policentrico, “allo scopo di mantenere un controllo saldo ed esclusivo sulle proprie competenze” (Si veda M.C. Gibelli in Eddyburg 20.05.2016).
3.PGT. All’interno del Piano di Governo del Territorio di Milano nel 2012 veniva introdotta una mappa che identificava 88 zone omogenee denominate Nuclei di Identità Locale (Nil). Ad essa era accompagnata una analisi piuttosto capillare a supporto del Piano dei servizi, con tanto di matrici esplicative, che tuttavia in questi anni non hanno avuto occasione di uso e aggiornamento. Senza necessariamente partire da zero forse potrebbero essere una base di partenza per quanto Monte propone riguardo ad analisi e raccolta dati, capillari e trasversali, attivando le necessarie deleghe ai Municipi per il loro aggiornamento. A scala metropolitana questo tipo di analisi è cruciale per mettere in relazione efficace le diverse dimensioni di Milano e dei Comuni contermini. E forse più in generale è il momento di pensare, dopo la soluzione ‘rimediale’ della giunta Pisapia di emendamento al Piano Masseroli/Moratti, di affrontare in modo sistematico una nuova stesura del PGT, anche sulla base di quanto in questi quattro anni testato.
4. Laboratorio permanente. È cruciale creare sinergia tra diverse iniziative da tempo in rete, come per esempio Innovare per includere, recentemente presentato a Base dall’assessore Cristina Tajani con gli altri suoi colleghi di giunta, attraverso la creazione di un tavolo metropolitano permanente di lavoro, e magari come l’assessore Pierfrancesco Maran ha recentemente affermato in occasione dell’incontro organizzato da Emilio Battisti dedicato proprio agli Scali Ferroviari, facendo capo all’Urban Center come luogo dell’incontro cittadino. Una azione di partecipazione non improvvisata ma sotto forma di laboratorio con obbiettivi e competenze condivise. Una reale iniziativa dal basso che agisce con l’amministrazione per rendere quanto prima operante l’azione di rigenerazione, e non solo a carattere territoriale.
«Abruzzo. Contro l’impianto petrolifero di fronte la Costa dei Trabocchi dal 2008 si battevano cittadini e comitati e Comuni». Il manifesto, 28 luglio 2016 (c.m.c.)
«E’ la testa di un pozzo esplorativo, a cinque chilometri dalle rive dell’Adriatico, e a vederlo adesso fa anche tenerezza. E’ una montagna verticale di ferri verdi e rossi, di un paio di metri o poco più, che esce quasi spaventata dal mare. Incubo Fpso (unità galleggiante utilizzata per la produzione, lo stoccaggio e lo scarico di idrocarburi off shore, ndr), gli oleodotti, le navi cisterna, l’inquinamento da petrolio sono svaniti. E presto non resteranno neanche quei ferrami a ricordarcelo».
Così la ricercatrice Maria Rita D’Orsogna, originaria di Lanciano (Chieti) e che lavora negli Usa, che delle battaglie ambientaliste ha fatto una ragione di vita, racconta, in maniera quasi romantica, lo smantellamento della piattaforma petrolifera «Ombrina Mare 2» al largo della ridente Costa dei Trabocchi, in provincia di Chieti. La battaglia, contro il progetto e contro il greggio «a chilometro zero», dopo otto anni, vede la vittoria dei cittadini, dei movimenti ecologisti, dei comitati, di coordinamenti e Comuni, di sindacati e di decine di associazioni, con la loro opera di informazione, sensibilizzazione e mobilitazione, coronata dallo smembramento e dalla rimozione della piattaforma. Che sono in pieno fervore.
L’ufficialità è arrivata dalla Capitaneria di porto di Ortona (Ch) il 6 luglio con l’ordinanza 42/2016 con la quale si annunciava la «chiusura mineraria», tra il 12 luglio e il 12 agosto, di «Ombrina mare» ricadente nel territorio tra San Vito Chietino e Rocca San Giovanni. Smontaggio della struttura chiesto dalla società Rockhopper Italia Spa; autorizzata il 27 aprile scorso dal ministero dello Sviluppo economico, Ufficio nazionale minerario per gli idrocarburi e le georisorse ed effettuato mediante «l’utilizzo dell’impianto di tipo Jack-Up “Antwood Beacon” e dell’unità di supporto Mimì Guidotti CS 913».In questo lasso di tempo, – è l’ordine della Capitaneria – è vietato navigare e sostare in zona, a imbarcazioni e natanti, che devono mantenersi «ad una distanza di almeno 500 metri dal pozzo e da eventuali mezzi operanti». E’ proibito «praticare balneazione e comunque accedervi, effettuare immersioni e svolgere attività di pesca». La società dovrà invece porre «in atto qualsiasi misura atta a prevenire inquinamento e danni ambientali».
Era il 30 luglio 2008 quando la titolare della concessione, la società Mediterranean Oil and Gas, fu autorizzata al «posizionamento di una testa di pozzo in cima ad una monotubolatura», che emerge per circa 13 metri dall’acqua e dal pozzo di perforazione “Ombrina Mare 2”.
Il 28 febbraio 2014 è subentrata la Rockhopper Italia. Quindi, dopo lotte, cortei con 60 mila manifestanti giunti da tutta Italia, ricorsi alla magistratura, ecco ora le operazioni di rimozione, avviate il 19 luglio. «Mi sono affacciato sul molo – riferisce Marco D’Ovidio, ristoratore a San Vito, con locale di fronte ad Ombrina, e presidente della rete di imprese InTour-Unione Turismo Abruzzo – e mi sono trovato davanti quei mezzi attorno al pozzo. Un colpo al cuore. Che stava accadendo? Poi ho compreso: una sensazione meravigliosa».
«La lotta ha pagato – affermano Alessandro Lanci, presidente di Nuovo Senso Civico e Augusto De Sanctis, del Forum Acqua Abruzzo -. Invece dei pozzi, dei fumi e della meganave raffineria, tra qualche settimana avremo solo mare, il nostro mare liberato. L’Abruzzo unito, insieme a tanti altri movimenti solidali dalle altre regioni, è riuscito a vincere uno scontro campale. L’impegno, però, è quello di non abbassare la guardia, visto che sono in agguato altri progetti deleteri. Dunque, festeggiamo lottando».
«Con la rimozione dell’impianto – evidenzia Fabrizia Arduini, Wwf, autrice di numerosi dossier sulla vicenda – cala il sipario, anche plasticamente, su una storia che, a livello burocratico e procedurale, si era chiusa lo scorso febbraio, quando il Mise, negando alla multinazionale Rockhopper il permesso di fare ulteriori prospezioni sulla base delle norme contenute nella legge di stabilità 2016 (che vietano sondaggi e ricerche entro le 12 miglia dalla costa), aveva scritto, di fatto, la parola fine all’affaire off shore».
«Con Ombrina – sottolinea Maria Rita D’Orsogna – vengono sepolti i sogni, color petrolio, di Sergio Morandi, di Chicco Testa, di Confindustria Abruzzo, di Paolo Primavera, di Sam Moody e dei loro azionisti inglesi. Quante avventure, quante notti a coordinare, quante conferenze, quante domande per capire, quante idee per pressare la Chiesa, che si è schierata contro, e i politici spesso sordi, che hanno contato ben poco». E’ stata messa ko un’azienda petrolifera e fatto sì – anche con il referendum, con l’opera del costituzionalista Enzo Di Salvatore e del coordinamento No Triv – «che il Governo passasse una legge di protezione dalle trivelle antro le 12 miglia dalla riva».
«Sul sito internet di Rockhopper – conclude D’Orsogna – il termine “Ombrina mare” non compare più, e credo che sia il segnale che è proprio finita, anche per loro. Si sono arresi. Scompaiono». Bye bye Ombrina. A non rivederci più.
Un bene pubblico da dismettere (si legga da svendere), trasformato da attivisti in "spazio di uso civico e collettivo", e adesso fagocitato dall'industria del fare. Il manifesto, 27 luglio 2016 (p.d.)
Da settimane si susseguono all’esterno di Villa Medusa posti di blocco con fermo e controllo dei documenti. Il 20 luglio gli attivisti, riuniti nella sigla Bagnoli libera, si sono presentati al convegno di Invitalia. Doveva essere, nelle dichiarazioni degli organizzatori, un appuntamento aperto alla cittadinanza ma si accedeva a inviti. La relazione introduttiva l’ha fatta Pietro Spirito, scelto da Invitalia come program manager del piano di rigenerazione urbana di Bagnoli-Coroglio, già manager di Atac Roma ai tempi di Alemanno, passato per la direzione dell’Interporto di Bologna e per incarichi alla Consob e alla Montedison. «Abbiamo contestato le ricostruzioni di Spirito sulle attività della cabina di regia del commissariamento – spiegano – . In particolare il piano finanziario per la bonifica, redatto prima di aver avuto i risultati della caratterizzazione dei suoli, e le gare d’appalto già svolte per la messa in sicurezza degli arenili nord (700mila euro). La stessa operazione di sostituzione della sabbia c’è già stata nel 2007 ed è stata vanificata dall’azione del mare, è servita solo ai gestori delle concessioni balneari per continuare la loro attività commerciale».
Renzi ha imposto il commissariamento e ha fatto di Bagnoli una delle sue bandiere in stile Expo, ma la cittadinanza si oppone da due anni ai piani del governo. «Abbiamo subito perquisizioni a casa – raccontano gli attivisti -, veniamo fermati per strada per controlli continui. Le volanti stazionano quasi sempre fuori Villa Medusa, un centro frequentato dai movimenti ma anche da anziani e bambini. Sperano di innervosire il quartiere e isolarci». Dalla scorsa settimana sono arrivate anche le intimidazioni: «Alcuni personaggi armati di sfollagente ci hanno minacciato. E’ evidente che la trasformazione di Bagnoli risveglia molti interessi».
Il Fatto Quotidiano, 27 luglio 2016 (p.d.)
Il Fatto Quotidiano online, blog "Ambiente e veleni", 26 luglio 2016
Accade lo stesso proprio al centro dell’area archeologica centrale più celebre al mondo. Al Foro romano, a Roma. Dove, tra la Basilica Aemilia, la Sacra via e il Tribunale, è stato montato un grande palco, con tanto di spazio per gli orchestrali e di parterre per gli spettatori. Una gigantesca struttura, corredata da “torri per le luci”, del tipo utilizzato per eventi musicali. “Martedì 26 luglio 2016 alle 20.30 una serata musicale eccezionale per la prima volta nel sito archeologico del Foro romano”, si legge nel sito dell’Opera romana pellegrinaggi che, insieme al Teatro dell’Opera di Roma, ha promosso l’evento intitolato ‘Music for mercy‘, inteso a celebrare il Giubileo della Misericordia.
Il programma, suggestivo. “Brani classici, pagine di bel canto, voci e suoni provenienti da tutto il mondo, a partire da Andrea Bocelli”, assicurano i promotori. Non solo. “Anche un nuovo brano composto daRomano Musumarra sulle parole di Grant Black – ‘A time for mercy’ – ispirate dalle parole del libro di Papa Francesco “Il nome di Dio è misericordia”, anche questo un pezzo interpretato da Carly Paoli”. Insomma una celebrazione vera e propria. Per certi versi ispirata dalla musica “alta”. E non è tutto. Il concerto, prodotto da Abiah Music Production, ha avuto il patrocinio del ministero dei Beni e delle Attività culturali e del turismo e della Commissione nazionale italiana per l’Unesco. Vincoli reali e resistenze virtuali per una volta superati in nome “dell’eccezionalità dell’evento”. Sia ben chiaro, assicurano dal ministero, nessuna deroga alla tutela del sito archeologico.
Quindi tutto straordinariamente meraviglioso? Un evento di cui farsi vanto a ragion veduta? La realtà, come troppo spesso avviene, è molto diversa dal racconto che se ne fa. Già, perché quel grandioso apprestamento scenico è come il nuraghe immaginato nel parco archeologico delle incisioni rupestri e la piramide a Villa Adriana. Un non senso. Un obbrobrio, temporaneo, è vero, ma pur sempre un obbrobrio. Colpevolmente proposto e ancor più colpevolmente autorizzato. E’, forse, comprensibile il desiderio di chi abbia pensato di organizzare la serata in un luogo di così “grande fascino”. Ma è senza giustificazioni chi l’abbia permessa. Il Mibact, naturalmente, quindi la Commissione nazionale italiana per l’Unesco, senza dimenticare Roma Capitale che ha offerto il suo sostegno.
n dubbio non c’è la possibilità che i resti antichi, la cui importanza non è superfluo ricordare, abbiano a che soffrire dall’impianto delle diverse strutture. D’altra parte è mai possibile che Mibact eSoprintendenza possano aver deciso la rovina, seppur parziale, di un luogo tanto importante? Qualsiasi risposta che non fosse negativa suonerebbe come una condanna eterna verso chi dovrebbe occuparsi se non altro della tutela di quella testimonianza della storia dell’umanità. Piuttosto, a preoccupare, è la scelta di aprire i cancelli. Come se ‘Music for mercy’ fosse o potesse essere una sorta di cavallo di Troia. Tra le molte scelte sbagliate del ministero retto dal democratico Dario Franceschini, questa di certo non sarebbe la meno perniciosa. Abbandonata la speranza che ad accorgersi dell’errore possa essere ilministro-scrittore non rimane che appellarsi al nuovo sindaco Cinque stelle Virginia Raggi. Anch’essa attesa tra gli spettatori dell’evento.
Un ramoscello d'olivo agitato dal comune di Melegnano, simbolo della resistenza contro l'avanzare di uno "sviluppo"sempre pù basato sul consumo di energia e sullo svuotamento delle residue risorse naturali. Gli adoratori del PIL scalpitano impazienti. Il Sole 24 Ore, 26 luglio 2016 (p.s.)
Il gasdotto Tap in Puglia bloccato all’ultimo miglio. Benchè il ministero dell’Ambiente abbia rilasciato la Valutazione di impatto favorevole, con prescrizioni, nel lontano 11 settembre del 2014, e il ministero dello Sviluppo economico l’Autorizzazione unica il 20 maggio del 2015, il braccio di ferro, l’ennesimo, tra società del gasdotto e regione Puglia su una delle 66 prescrizioni – la A 44 che riguarda il ripristino ambientale – tiene in scacco i lavori preliminari nell’area di Melendugno, nel Salento, dove l’opera approderà dal Mar Adriatico.
La prescrizione riguarda il reimpianto degli ulivi e loro ricollocazione ma anche il ripristino dei muretti a secco e di tutti gli altri elementi che costituiscono il paesaggio. Va premesso che su quasi ogni prescrizione (57 del dicastero dell’Ambiente e 9 dei Beni culturali) c’è un ente vigilante (i ministeri stessi o la Regione) e uno o più enti coinvolti (dall’Arpa Puglia al Comune di Melendugno). Inoltre, ciascuna prescrizione corrisponde, anche sul piano temporale, a una fase di lavoro, fissa dei paletti al riguardo, e per la sua applicazione Tap ha presentato un progetto alle amministrazioni competenti.
Attualmente le attività di cantiere che Tap ha avviato da metà maggio (una decina di operai al lavoro nell’area) non possono proseguire nell’area del microtunnel, 1,4 chilometri di tracciato, se la Regione Puglia, in qualità di ente vigilante della prescrizione A44, non accende il semaforo verde. Prescrizione parzialmente ottemperata, ha detto la Regione mesi fa. Tale decisione, ha dichiarato il governatore pugliese Michele Emiliano, si basa sul fatto che il comune di Melendugno (soggetto coinvolto) ha respinto il progetto di Tap dopo le osservazioni dei Vigili del Fuoco sulla «distanza tra le sedi di reimpianto degli ulivi e la proiezione a terra del contorno della condotta», mentre la regione stessa ha preso atto delle disposizioni del ministro delle Politiche agricole, Maurizio Martina, circa il «divieto di movimentazione degli ulivi nelle zone infette» dalla Xylella.
In seguito al pronunciamento della regione, sono intervenuti una serie di chiarimenti a più livelli ma sul piano concreto non è accaduto nulla. Nè la regione stessa ha emesso un nuovo parere. Cosa è stato chiarito nel frattempo? Che non c’è interferenza tra gli ulivi e la condotta del gasdotto, perché le norme richiamate dai Vigili del fuoco valgono solo per gli alberi ad alto fusto, tipologia nella quale non rientrano gli ulivi; che il Comune di Melendugno ha sì espresso il suo diniego ma ha pure evidenziato che la Regione deve decidere sul punto; che le disposizioni sulla Xylella non hanno impatto sui lavori dell’opera; infine, che Tap è disponibile ad avviare il discorso delle compensazioni ambientali. Va aggiunto che alla prescrizione A44 sono correlate anche altre due, A29 e A45, rispettivamente piano di gestione degli ulivi e monitoraggio ambientale, sulle quali, però, non ci sono problemi visto che i piani di Tap sono stati approvati rispettivamente da Regione Puglia e Arpa Puglia in qualità di enti vigilanti. Tutto, quindi, si concentra sulla prescrizione A44 e Tap adesso solleciterà un ulteriore intervento del ministero dell’Ambiente per superare lo stallo.
Per motivi climatici e colturali ora non si possono espiantare gli ulivi – Tap aveva previsto di farlo ad aprile scorso –, ma ulteriori ritardi rischiano di pregiudicare l’avanzamento del cantiere. Senza trascurare che Regione e Comune di Melendugno, dall’inizio contrari alla localizzazione nel Salento per motivi ambientali, hanno in piedi anche un giudizio al Consiglio di Stato (ma la nuova udienza è a gennaio) contro l’Autorizzazione unica del Mise, già riconosciuta valida dal Tar.
Un'analisi di alcuni scenari urbani e possibile soluzione per contenere il consumo di suolo. millenniourbano online, 18 luglio 2016 (c.m.c.)
Nel 2010 la superficie totale di tutto il mondo coperta da cemento, asfalto, suolo compattato, aree a parco e spazi aperti per uso antropico, ovvero tutto ciò che costituisce gli insediamenti urbani, è stata stimata in circa 1 milione di kmq: quasi due volte la Francia che si estende su 643,000 kmq.
La popolazione urbana che attualmente vive sulla terra è di circa 3,9 miliardi ma è destinata a crescere fino a circa 6,34 miliardi entro il 2050, su un totale globale di almeno 9,5 miliardi di persone, se si continuerà a consumare suolo per realizzare insediamenti. Si tratta di uno scenario che non è certo sostenibile.
Il continuo consumo di alcuni dei terreni agricoli di maggior valore al mondo nel processo di urbanizzazione del pianeta ha come conseguenza una costante riduzione della densità degli insediamenti urbani di circa il 2% annuo. Di questo passo la superficie coperta da insediamenti urbani potrebbe aumentare a più di 3 milioni di kmq entro il2050, una crescita che potrebbe minacciare le forniture alimentari mondiali.
E dal momento che i terreni agricoli più intensamente coltivati in genere si trovano vicino a dove la maggior parte dei il cibo viene consumato, ovvero le città, gran parte di questi ulteriori 2 milioni di kmq riguarda il suolo agricolo più produttivo. L’attuale urbanizzazione senza freni potrebbe quindi minacciare l’approvvigionamento alimentare a livello mondiale in un momento in cui la produzione alimentare è già non è al passo con la crescita della popolazione.
Un fattore determinante per il dilagare dell’espansione urbana – soprattutto in Nord America, dove il problema è particolarmente grave – è stato il basso prezzo del carburante delle automobili. Quando i prezzi del petrolio hanno raggiunto livelli record nel 2008, aggravando la crisi economica globale, i pendolari che usavano l’auto per recarsi al lavoro sono stati i primi ad avere problemi con il pagamento del mutuo.
Ma la maggior parte delle aggiuntivi 2,5 miliardi di persone che vivranno in aree urbane entro il 2050 si concentrerà nelle città del sud del mondo, in particolare in Asia e in Africa: il 37% di tutta la futura crescita urbana dovrebbe aver luogo solo in tre paesi: Cina, India e Nigeria.
In Africa la popolazione urbana, che è attualmente circa 400 milioni di persone, dovrebbero triplicare entro il 2050: una crescita che in tutto il continente genererà insediamenti urbani con una densità di popolazione relativamente bassa. Nelle città africane – in cui il 62% di tutti gli abitanti vivono in baraccopoli – la maggior parte dei baraccati è insediata in aree periferiche delle città che sono in continua espansione.
Anche in Cina la rapida urbanizzazione ha portato ad un’esplosione di insediamenti urbani informali, mentre in India, dove milioni di abitanti vivono negli slum all’interno delle aree urbane centrali (creando il fenomeno indiano abbastanza singolare di quartieri in cui poveri e la classe media urbana vivono insieme) si assiste ad una crescente sub- urbanizzazione della classe media che viene attratta nei nuovi insediamenti in costruzione attorno alle maggiori città del paese.
Tuttavia la crescita a bassa densità può anche essere evitata. Ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia dove l’80% della popolazione è ancora rurale, gli investimenti governativi stanno trasformando la città in senso diverso. Con i fondi e le competenze fornite da capitali cinesi un sistema di metropolitana leggera è stato costruito attraverso la città: impresa davvero notevole impresa visto che l’80% della sua popolazione vive in baraccopoli. Questo ha incentivato anche la classe media, oltre ai destinatari di alloggi di edilizia popolare, a vivere in insediamenti ad alta densità, in appartamenti realizzati in edifici multipiano che stanno iniziando a sorgere intorno alle stazioni del trasporto pubblico, riducendo così la necessità dei viaggi su strada con auto privata per coprire distanze maggiori. Il risultato è che Addis Abeba si sta densificando, dando l’esempio di ciò che è possibile fare in altre città che affrontano sfide simili.
La chiave di questa strategia di densificazione è il numero di persone che possono accedere al trasporto pubblico. E’ un aspetto che riguarda ad esempio anche una città come Johannesburg, da due decenni alle prese con la transizione dalle township della apartheid ad un modello di sviluppo urbano che sappia integrare ciò che prima era separato. Il numero degli utilizzatori del trasporto pubblico può crescere solo se si intensificano i posti di lavoro e le residenze attorno ai nodi del sistema. E’ una strategia che, unita alle iniziative per migliorare gli insediamenti informali piuttosto che costruire nuove case in periferie, ha contribuito in modo significativo a rendere più densa la città e a scoraggiare l’espansione promossa , a partire dal processo di democratizzazione del Sud Africa iniziato nel 1994, dagli immobiliaristi e dalle banche.
Ma una maggiore densità non è il solo strumento per combattere l’inarrestabile crescita urbana: Los Angeles ad esempio ha una densità media superiore a quella di New York , ma la prima, al contrario della seconda che comprende una rete di quartieri ad alta densità interconnessi da un sistema efficiente di trasporto pubblico, è considerata un modello urbano disfunzionale proprio perché fortemente dipendente dall’auto privata.
Al contrario l’amministrazione della capitale sud coreana, con il motto “Seoul è per le persone, non le automobili”, smantellando l’autostrada a otto corsie che attraversava il centro della città ha evitato di protrarne all’infinito l’espansione.
La Cina – che nel corso degli ultimi tre decenni ha urbanizzato centinaia di milioni di persone relativamente a bassa densità grazie alla realizzazione di “superblocchi” residenziali posti lungo ampie strade congestionate dal traffico e con pochi incroci per kmq – sta cambiando rotta in favore di una densità più alta, strade più strette e interconnesse, una maggiore e migliore presenza del trasporto pubblico.
Lo scenario del raddoppio della popolazione urbana mondiale entro il 2050,considerati l’aumento dei prezzi del petrolio e le limitazioni delle emissioni di carbonio rende l’espansione urbana un fenomeno sempre più insostenibile. Sradicare il consumo di suolo agricolo fertile e la crescita urbana indiscriminata a favore di città vivibili, accessibili grazie al trasporto pubblico efficiente, policentriche e ad alta densità dovrebbe diventare un impegno globale condiviso.