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«Una proposta per scongiurare un progetto di saccheggio di un’area demaniale destinata dall’antichità a servizio pubblico, perpetrato dalla banalità di un’ottusa privatizzazione che traduce una lottizzazione speculativa in “domanda di città.”»La città invisibile online, 19 settembre 2016 (c.m.c.)


Nel dare l’annuncio della vendita dell’area delle ex Officine ferroviarie di Porta al Prato pare che gli assessori Lorenzo Perra (urbanistica) e Stefano Giorgetti (mobilità) abbiano fornito alla stampa cifre vaghe e così approssimative da fornire al potenziale lettore una immagine alterata, quindi molto positiva per il Comune, degli incassi e delle circostanze collegate alla vendita. Si veda ad esempio l’articolo pubblicato lo scorso 9 settembre da Repubblica Firenze scevro di qualsiasi azione di fact checking. Giustamente l’assessore Perra, leggo, si “frega le mani”…

Analizzando invece i dati reali e compiendo quel minimo di opera di verifica delle fonti a cui il giornalismo dovrebbe attenersi ritengo che questa vendita sia l’epilogo di una pessima trattativa iniziata nel 2008 nell’ambito di una concezione gretta e disastrosa dell’amministrazione della cosa pubblica, e in particolare dello spazio e dell’urbanistica cittadina.

Vengo ai numeri vantati nell’articolo. Si dice che il Comune incasserà 14 milioni di euro extra oneri da destinare alla sistemazione di strade e piazze. Buche ovviamente comprese. Ma non si dice da quale cilindro saltino fuori questi extra. Il Comune aveva versato quei soldi alle Ferrovie con I.V.A. pari a 3,5 milioni per un totale di 17,5 milioni per l’acquisto dell’area su cui è stato costruito il teatro dell’Opera.

Denaro che non sarebbe stato versato se il comune avesse approvato il Regolamento Urbanistico con la previsione dei volumi (superfici) richiesti e usati come merce di scambio, entro il 31 dicembre 2014. Poiché lo strumento Urbanistico è stato approvato (54.000 mq. pari a 18.000 mc.) con un ritardo di tre mesi, le Ferrovie hanno concesso la restituzione dei 14 milioni concordati lasciando però da pagare al Comune gli oneri fiscali di 3,5 milioni. Non ho l’indice per calcolare quante buche resteranno lì sulle strade: certamente moltissime.

Ma i solerti Amministratori pensano di poter contare sugli oneri urbanistici ed edilizi stimati, vista l’appetibilità dell’area, in circa 16 milioni. Senza dire che a carico del Comune, per sopportare un carico urbanistico di questa misura e per il prestigio richiesto dal target del lusso, occorre realizzare una strada a quattro corsie per collegare rapidamente questo zoo di facoltosi all’aeroporto, strada che invaderà il greto del Fosso Macinante, già ramo settentrionale dell’Arno che costeggia le Cascine, per questo dette un tempo “dell’Isolo.”

Possiamo essere sicuri che questa strada che vorremmo scongiurare ad ogni costo, con il suo svincolo quadrifoglio al Barco, oltre a distruggere ogni possibilità di contatto tra il quartiere di via Baracca e il Parco, oltre all’inquinamento acustico dei due fronti, alla distruzione della “Botte” del Barco, costerà più del ricavato degli oneri sperati. Ecco tutto quello che non si dice. Oggi i 5 ha. delle ex OGR ferroviarie vengono messi all’asta per 28 milioni. Al Comune ne basterebbero dunque 14 per averne la disponibilità, con una semplice sistemazione patrimoniale; e con l’aiuto di una recuperata Cassa Depositi e Prestiti.

Proviamo a pensare perché ne varrebbe la pena e cosa potrebbe diventare lo spazio delle ex OGR di Porta al Prato liberandolo di alcuni capannoni senza valore documentario, trasformandone altri in logge per accogliere quelle funzioni che ingombrano il Parco delle Cascine, quali il mercato settimanale, il luna park, il circo; dotandolo di un’arena grande e una piccola per l’estate fiorentina e altre manifestazioni occasionali. Ma anche per quegli spettacoli che invasivamente e con attrezzature incongrue occupano sovente le piazze basilicali del Centro Antico o il piazzale Michelangelo.

Quel disordine che anche l’ultimo festival dell’Unità ha mostrato nell’ex bel parterre di piazzale del Re, si tradurrebbe in una sistemazione congrua e redditizia per il Comune. Si potrebbero adibire i due capannoni soggetti a vincolo monumentale alla ricerca applicata, al coworking e alle arti performative come estensione e completamento di ciò che è già nel teatro dell’Opera e in parte nella ex stazione Leopolda.

Mantenendo il sentiero erboso lungo il canale Macinante, fino al Barco e l’Indiano si collegherebbe il viale del Poggi ai laghetti dei Renai di Signa in una dimensione davvero metropolitana. Si può immaginare come questo diverso scenario rechi un indispensabile alleggerimento del Parco delle Cascine, sempre più necessario e frequentato come parco naturalistico, di cui l’area delle ex Officine dovrebbe costituire un’intelligente complemento. Sarebbe un grande investimento pubblico, anche economico, in una città che ha visto scomparire molti degli spazi pubblici ottocenteschi: dal giardino dell’Alhambra ai parterre dei Viali.

Gli effetti positivi, accentuati dall’interconnessione tranviaria della linea 4 e della linea 5, coinvolgerebbero la Manifattura Tabacchi e il suo sistema di appartenenza territoriale. Come dire l’asse “centrale” della periferia ovest. Qui nel riuso degli edifici dismessi, gli oneri di urbanizzazione sarebbero assai più giustificati e consistenti. Sarebbe scongiurato questo progetto di saccheggio di un’area demaniale destinata dall’antichità a servizio pubblico, prima idraulico poi anche ferroviario, perpetrato dalla banalità di un’ottusa privatizzazione con la scheda del Regolamento Urbanistico che traduce, con palese inganno, una lottizzazione speculativa in “domanda di città.”

Sardegna. Tra le cose buone volute dal governo di Renato Soru c'è (c'era una volta?) la Conservatoria delle Coste. La decisione di istituirla (a partire dal 2005 e completata con tutti gli atti nel giro di due anni) sta in quel momento magico di speciale attenzione per il paesaggio dell'isola, di cui le coste – circa 2mila km – sono la componente essenziale. A rischio di gravi manomissioni, numerosi e clamorosi gli esempi in grandi parti del territorio litoraneo. Il Piano paesaggistico (2004- 2006) costituiva il quadro di riferimento indispensabile per la tutela dei litorali, la Conservatoria uno degli strumenti per dimostrare le possibili alternative alle speculazioni dissennate attraverso ragionevoli politiche di gestione su aree affidate alle cure del nuovo istituto.

L'obbiettivo fondamentale: realizzare esperienze coerenti con il Ppr in grado di produrre occupazione, buoni esempi da diffondere. In particolare su quelle già di proprietà pubblica, alcune migliaia di ettari (ad esempio nelle riviere di Alghero, Muravera, Buggerru, Castiadas ). Si guardava ai migliori modelli europei ( le esperienze di “Conservatoire du littoral” francese e del “National Trust” inglese) avendo ben presenti la storia e i caratteri delle spiagge e delle scogliere sarde da trattare in modo originale.
Nel 2007, con la nomina del direttore Alessio Satta e del comitato scientifico si avviava l'attività e si definiva la strategia dell'istituzione con l' approvazione (febbraio 2009) della relazione tecnico-scientifica dell’Agenzia, l'unico documento d’indirizzo prodotto con riferimento al caso sardo. Da allora non sono mancati i risultati, alcuni di grande interesse: specialmente nella attività di progettazione per procurare risorse e infatti sono arrivati i finanziamenti europei per iniziative di rilievo. Buono il bilancio delle collaborazioni con i comuni e le amministrazioni delle aree protette ( soprattutto con il Parco Nazionale dell'Asinara). E messe a punto previsioni da verificare caso per caso. Penso al programma di restauro di antiche torri costiere e di numerosi fari abbandonati e degradati, da mantenere all'interno delle proprietà demaniali. Ma ammettendo il concorso di privati per il loro recupero funzionale e l'apertura al pubblico, attraverso concessioni per tempi commisurati agli investimenti.

La Conservatoria ha operato per circa sei anni, un tempo troppo breve per consentire un giudizio; dimostrando comunque capacità di buona amministrazione e tempestività nell'azione, nonostante la limitatezza del personale in ruolo, per cui si sopperiva con l'entusiasmo di bravi giovani collaboratori ( che peccato avere disperso quelle competenze e quella esperienza !).

Una realtà dinamica. Tant'è che dopo la caduta del governo Soru, il presidente Cappellacci, a capo di una maggioranza di destra, non si sa con quanta convinzione, manteneva in vita la struttura decisa del suo predecessore. Per questo quando la nuova giunta di sinistra ha deliberato (giugno 2014) di commissariare la Conservatoria riducendone l'autonomia ( l'idea di scorporare le sue funzioni n più assessorati), c'è stata una reazione di contrarietà da parte dell'opinione pubblica più attenta ai temi della tutela del territorio.

Una scelta ancora dai contorni incerti, nel nome della riduzione della spesa, un obiettivo mancato, parrebbe.

Un'incertezza di fondo: via via confermata da altalenanti dichiarazioni sulle reali intenzioni, atteggiamento peculiare della politica di dire/non dire. Per quanto siano sempre più insistenti le voci sul ripudio dello strumento voluto da Soru e senza che nessuno chieda conto a chi prometteva che la Conservatoria sarebbe rinata più forte di prima. Conta oggi la sua sostanziale inattività, un'inerzia da cui si può dedurre facilmente la mancanza di volontà di rilanciarla. Nonostante la dimostrazione della convenienza a rafforzarla, come ha ben scritto Stefano Deliperi (Gruppo d'intervento giuridico) riferendosi all’indice di rendimento “dato dal rapporto fondi comunitari + investimenti / spese correnti, è per l'Agenzia mediamente di 2,7: in sostanza, per ogni euro di stanziamento proveniente dal bilancio regionale l’Agenzia ne produce 2,7”. Argomenti non trascurabili come altri evidenziati in un appello di autorevoli intellettuali rivolto al presidente Francesco Pigliaru, con una petizione in rete rimasta senza risposta.

Prosegue, senza sosta, la liquidazione dei patrimoni pubblici, casematte essenziali dei beni comuni. Altrove, invece, si fa il contrario. E anche in Italia, nella Sardegna di Renato Soru.... La Repubblica online, Economia e finanza, 15 settembre 2016, con postilla

Il Demanio ha deciso di renderli fruibili per usi che non siano quelli per cui furono edificati proprio mentre sta crescendo la domanda di soggiorno vacanziero in alcuni delle strutture distribuite lungo le coste e nelle isole italiane

Lentamente, l'Italia riscopre il potenziale del turismo. Una voce che - da sola - vale il 10,2% dell'economia della Penisola. Quasi 160 miliardi di euro l'anno, frutto di 57,9 milioni di viaggi con pernottamento registrati lo scorso anno dall'Istat e di altri 67,3 milioni di viaggi senza pernottamento. In media, nel 2015, chi ha visitato l'Italia in vacanza ha dormito fuori casa per 6,2 giorni, chi lo ha fatto per lavoro per 3,4 giorni.

Merito anche di una ricettività ormai completa, capace di soddisfare tutti i gusti e tutte le tasche. Dagli alberghi boutique a quelli per famiglie; dai campeggi ai villaggi turistici; dagli appartamenti in affitto agli agriturismi, ma non mancano gli ostelli, le case per ferie, i rifugi di montagna e i bed & breakfast.

E adesso, in concomitanza con la disponibilità dell'Agenzia del demanio a renderli fruibili per usi che non siano quelli per cui furono edificati, sta crescendo la domanda di soggiorno vacanziero in alcuni dei 110 fari distribuiti lungo le coste e nelle isole italiane. Certo si tratta ancora di poche strutture, ma i numeri sono destinati a crescere per non perdere un trend positivo. Sono stati infatti pubblicati i bandi di gara per la concessione da 6 a 50 anni di 11 fari di proprietà dello Stato, 7 dei quali gestiti dal demanio stesso e 4 dal ministero della Difesa, ubicati in Calabria, Campania, Puglia, Sicilia e Toscana.

La loro destinazione dovrà essere coerente con gli indirizzi e le linee guida del progetto Valore Paese - Fari: potranno accogliere iniziative ed eventi di tipo culturale, sociale, sportivo e per la scoperta del territorio, oltre ad attività turistiche, ricettive, ristorative, ricreative, didattiche e promozionali. La ricaduta economica sui territori è stimata in 20 milioni di euro e darà occupazione ad un centinaio di operatori. Una delle prime nazioni a comprendere il valore di questo tipo di turismo è stata la Croazia, oggi leader in Europa. Altre nazioni offrono tuttavia tale ricettività: dalla Gran Bretagna alla Scozia, alla Norvegia, fino al Canada, agli Stati Uniti e all'Australia.

postilla

In paesi più civili dell'Italia di Matteo Renzi, invece di alienare i patrimoni pubblici costieri (anche una concessione cinquantennale rinnovabile è un'alienazione) hanno istituito una conservatoria il cui scopo è quello di conservare, accrescere e gestire fruizioni socialmente utili per gli immobili costieri. Lo ha fatto la Francia dal 1975 con il Conservatoire du littoral . E sull'esempio francese avviò l'opera in Italia la Sardegna di Renato Soru con l'istituzione della Conservatoria delle coste.

La Repubblica online, blog "articolo 9"


«“Le relazioni culturali sono da sempre un pilastro del rapporto bilaterale tra l'Italia e la Russia che hanno permesso, anche nei periodi di maggiore difficoltà a livello internazionale, di mantenere un dialogo intenso tra i due Paesi e tra i due popoli” –, ha poi aggiunto l'ambasciatore, ringraziando il Museo Pushkin per “il suo interesse a portare a Mosca nei prossimi mesi e anni nuovi capolavori italiani”, da Michelangelo, a Dante e ai Caravaggiti, per citarne alcuni».

Questo testo imbarazzante (che risale al 17 dicembre 2014) è preso di peso dal sito ufficiale del nostro Ministero degli Esteri. Davvero pensiamo che possiamo ‘usare’ la cultura senza avere nessuna cultura? Uno storico dell’arte sarebbe probabilmente un disastro, se si improvvisasse diplomatico: e allora perché dobbiamo ridurci, a leggere sul sito della Farnesina, che saranno portati a Mosca «nuovi capolavori italiani, da Michelangelo a Dante e ai Caravaggiti»?

È vero, per secoli l’arte figurativa è stata un’importante leva diplomatica. Ma questo avveniva perché i principi, o i loro ministri, erano personalmente appassionati d’arte: un modello che non ha più alcun senso con l’avvento delle democrazie moderne, e con la nascita della storia dell’arte come disciplina scientifica. E infatti l’ultima fase, drammatica e farsesca, della diplomazia dell’arte ha coinciso con le grandi dittature: Mussolini ha usato con particolare intensità un patrimonio artistico che personalmente non conosceva, o che addirittura disprezzava.

Oggi, l’unica possibile diplomazia dell’arte è quella non governativa: quella della comunità internazionale della conoscenza, che fa ricerca e divulgazione secondo i propri tempi e i propri percorsi, senza ridurre le opere d’arte a prigionieri che seguano in catene gli effimeri trionfi internazionali dei capi di governo pro tempore. Quando gli Uffizi furono costretti a prestare una delicatissima Annunciazione di Botticelli al Museo di Gerusalemme per festeggiare i 65 anni dello Stato ebraico, io e il mio collega israeliano Sefy Hendler scrivemmo al Corriere della sera: «Crediamo profondamente nell'amicizia tra Italia e Israele, e nel ruolo che la cultura può e deve avere nel rafforzarla: il nostro stesso, continuo scambio scientifico è un minuscolo tassello di quell'amicizia. Ma siamo convinti che le relazioni culturali tra i popoli non possano essere rafforzati da scambi di singole opere 'feticcio' decise dalle diplomazie senza nessun coinvolgimento delle comunità scientifica, e anzi imponendo al museo prestatore e al museo ospitante un 'evento' del tutto estraneo alla loro vita. Non siamo più nell'antico regime: nelle democrazie moderne le opere d'arte non sono più pedine della ragion di Stato, ma testi su cui fare ricerca, e da restituire alla conoscenza dei cittadini».

Ma, almeno in Italia, queste ovvietà sembrano destinate a non essere ascoltate.

Solo da noi i governi del Dopoguerra hanno continuato sulla strada delle mostre fasciste: invano, nel 1952, Roberto Longhi si augurava che lo Stato «ponesse un fermo a questa stolida e spesso servile mania esibizionistica dell’Italia all’estero. Mania che, ove non venisse ormai stroncata, finirebbe, oltre agli irreparabili danni materiali, per revocarci stabilmente dal novero delle nazioni culturalmente più progredite».

E così ancora tutti i ministri recenti, da Sandro Bondi a Dario Franceschini, hanno continuato ad organizzare mostre ‘politiche’: esattamente come questa di Raffaello a Mosca, compresa in un accordo economico firmato dal presidente del Consiglio Renzi in un suo viaggio d’affari a San Pietroburgo nel giugno scorso. A proposito della quale, uno dei superdirettori nominati da questo governo mi ha scritto privatamente che trova sconcertante che il suo collega degli Uffizi si pieghi ad «una mostra su Raffaello a Mosca su richiesta dell'ambasciatore, dopo il viaggio del presidente del consiglio, con domande mandate a giugno per un’inaugurazione a settembre».

Vedere l’Autoritratto di Raffaello ridotto a comparsa d’onore in un ricevimento all’Ambasciata italiana a Mosca (esattamente nello stesso luogo dove hanno ‘posato’ negli ultimi anni Caravaggio o Bellini, secondo un format ormai grottesco) dovrebbe dare da pensare. Se ci chiediamo perché non succeda niente di simile in nessuna ambasciata straniera in Italia, la risposta va forse cercata nella maggior serietà degli altri governi e delle altre diplomazie, che rispettano la sovranità dei musei, e non giocano a travestirsi da mecenati del Rinascimento, finendo poi a scrivere «caravaggiti».

Ma la colpa non è solo dei politici: è anche dei tecnici che piegano il capo pur di proteggere la loro carriera.

C’è qualcosa di tristemente ironico in questa vicenda, perché quando (nella Commissione Bray per la riforma del Ministero per i Beni culurali) iniziammo a discutere la possibilità di riconoscere ad alcuni grandi musei un certo grado di autonomia, lo facemmo dicendo esplicitamente che uno degli obiettivi era evitare che i direttori degli Uffizi fossero costretti a inviare all’estero le opere più importanti del museo per ragioni politiche. Questo accadeva perché, nel vecchio ordinamento, il direttore era sottoposto al soprintendente: e siccome quest’ultimo era a sua volta sottoposto ad un rinnovo contrattuale, l’autonomia scientifica veniva in sostanza vanificata. In pratica, il soprintendente si genufletteva di fronte al ministro, e quindi imponeva al direttore di prestare. La riforma Franceschini ha cambiato tutto perché tutto rimanga com’era: anzi, ha saltato un passaggio, perché oggi il ministro nomina direttamente il direttore. E il direttore scatta immediatamente sull’attenti. Ed è degno di amara ironia il fatto che a sostenere l’autonomia del direttore c’era, in quella commissione, anche Matteo Ceriana: che oggi, da responsabile della Galleria Palatina di Pitti sottomesso al superdirettore degli Uffizi, si è visto imporre (sebbene lui e tutti i suoi funzionari storici dell’arte fossero contrari) la partenza dei Raffaello del suo museo.

Il caso del prestito dei ritratti di Agnolo e Maddalena Doni è particolarmente imbarazzante, perché l’Opificio delle Pietre Dure ha scritto agli Uffizi che «i rischi a cui andrebbero incontro a seguito di un loro spostamento potrebbero cambiare sostanzialmente lo stato di conservazione». E ancora: «esporre le opere al rischio di sollecitazioni meccaniche che possono provenire da un lungo viaggio e da un cambiamento di clima potrebbe esseremolto rischioso». La contrarietà dell’Opificio era così radicale che nessuno dei suoi restauratori ha voluto accompagnare le opere. Eppure il direttore degli Uffizi si è assunto la responsabilità di spedirli comunque, diramando poi un comunicato che cerca di ribaltare il senso della relazione dell’Opificio, e che si conclude ­– con un tono di sfida decisamente inopportuno, visto che manca ancora il viaggio di ritorno e che i danni eventuali si potranno constatare solo a consuntivo – affermando che per ora sono sani e salvi.

La mostra di Raffaello a Mosca è – usiamo le parole con cui Antonio Cederna ne fulminava una, del tutto analoga, nel 1956– «un’antologia abborracciata, forse dettata unicamente dall’arrendevolezza di alcuni soprintendenti. Grandi equilibristi, disposti sempre all’obbedienza verso i pezzi più grossi di loro, sulla cui mancanza di carattere e di convinzioni generali i vandali sanno di poter contare». Sarebbe ingeneroso dire che nulla è cambiato: oggi i soprintendenti non ci sono più, ad obbedire sono i superdirettori.

«Agrochimica. La tedesca Bayer compra la statunitense Monsanto per 66 miliardi di dollari. Agricoltori e ambientalisti: "Biodiversità a rischio". Cia e Coldiretti: con il monopolio i prezzi potrebbero salire. Greenpeace mette in guardia sulla diffusione del glifosato». Il manifesto, 15 settembre 2016

Il matrimonio alla fine è andato in porto: la tedesca Bayer ha acquisito la statunitense Monsanto per 66 miliardi di dollari. Nasce così un colosso dell’agrochimica che secondo le associazioni dei coltivatori e gli ambientalisti minaccia di costituire un oligopolio, se non in alcuni casi un vero e proprio monopolio, nel campo delle sementi, dei fitofarmaci e degli Ogm. Già Bayer controllava il mercato dei pesticidi, mentre Monsanto quello delle sementi: la fusione porterà il nuovo gigante al 24% e al 29%dei due rispettivi comparti. Settori chiave non solo per l’agricoltura, ma anche per la sicurezza del nostro cibo.

Si tratta della maggiore acquisizione aziendale da parte di una società tedesca all’estero. Bayer prevede che l’operazione inciderà in positivo sugli utili a partire dal primo anno pieno dopo la chiusura, prevista entro la fine del 2017, e ritiene di realizzare sinergie su costi e vendite per 1,5 miliardi di dollari a partire dal terzo anno. La convenienza finanziaria e industriale è insomma evidente, agendo le due multinazionali in mercati perfettamente integrabili. Più preoccupati appaiono, al contrario, gli operatori del settore agricolo, che a questo punto temono ad esempio il rialzo dei prezzi.

«La fusione tra i due colossi sposterà sicuramente gli equilibri di mercato – commenta il presidente della Cia-agricoltori italiani, Dino Scanavino – Noi monitoriamo con occhio vigile su quello che più ci interessa, ovvero che non sussistano elementi per la creazione di un vero e proprio monopolio di mercato delle sementi, della chimica e dei mezzi tecnici necessari ai produttori».

Secondo Coldiretti, «Monsanto è stata spinta a vendere dallo storico flop delle semine Ogm, crollate del 18% in Europa nel 2015 e per la prima volta arretrate a livello mondiale, con 1,8 milioni di ettari coltivati in meno. È la conferma della crescente diffidenza dei produttori nei confronti di una tecnologia che non rispetta le promesse miracolistiche».

Il matrimonio tra i due colossi della chimica «genera – prosegue Coldiretti – una posizione di oligopolio che aumenta anche lo squilibrio di potere contrattuale nei confronti degli agricoltori. È evidente la necessità per l’Italia di salvaguardare il patrimonio unico di biodiversità di cui dispone con un maggiore impegno nel presidio di un settore determinante per la difesa dell’ambiente ma anche per la competitività del made in Italy».

«C’è il rischio di un possibile incremento dei prezzi delle sementi per gli agricoltori, ma non nell’immediato», conferma Felice Adinolfi, docente di Economia e politica agraria all’Università di Bologna. Adinolfi aggiunge che c’è però «ancora un’incognita per il via libera definitivo»: nel contratto, le cui trattative erano iniziate a maggio scorso, è stata concordata una penale di 2 miliardi di dollari nel caso in cui arrivasse lo stop dell’Antitrust Usa.

Il timore, quindi, non riguarda solo gli operatori economici – preoccupati dalla restrizione della concorrenza e costretti di fatto a rivolgersi a un fornitore unico – ma anche le associazioni ambientaliste e dei consumatori. Il nodo della biodiversità, infatti, impatta direttamente su quello che mettiamo in tavola, sulla nostra dieta.

Allarme anche da Greenpeace: la responsabile campagna Agricoltura sostenibile Federica Ferrario, proprio sul manifesto, aveva già in maggio evidenziato diversi pericoli: «Monsanto commercializza un erbicida, il glifosato, con il nome di Roundup: dopo una valutazione dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) è sospettato di provocare il cancro negli esseri umani, oltre che rappresentare un rischio grave per la biodiversità».

«L’esperienza – conclude Greenpeace – ci mostra che una maggiore concentrazione porta a: focalizzarsi e sviluppare solo poche colture e varietà (pericolo per la biodiversità); un probabile aumento del costo delle sementi; una maggiore pressione sugli agricoltori».

«Il comitato per il sì: "Se passerà la riforma costituzionale sarà più semplice cercare ed estrarre gas e petrolio"». Rifondazione.it, 13 settembre 2016 (c.m.c.)

«Il Comitato per il sì» fa sapere che, se passerà la riforma costituzionale, sarà finalmente possibile rilanciare le attività di ricerca ed estrazione di gas e petrolio nel nostro Paese.

Per fare questo, afferma il Comitato, occorre riportare la competenza legislativa sull’energia nelle mani dello Stato; in questo modo, si «delinea un quadro chiaro e preciso delle competenze esclusive dello Stato e delle Regioni» e si riduce, per conseguenza, anche il contenzioso davanti alla Corte costituzionale.

Un indisturbato rilancio delle attività petrolifere produrrebbe, inoltre, immediati benefici per i cittadini italiani, in quanto alleggerirebbe il costo delle bollette del gas e della luce e ci farebbe stare, in generale, più tranquilli: «senza petrolio e derivati» – dichiara il Comitato – «le nostre macchine non circolerebbero, e con esse la gran parte dei beni (anche di prima necessità) che nel nostro paese viaggiano su gomma». Per il Comitato, infine, tra i progetti strategici da realizzare vi è anzitutto quello della TAP (il megagasdotto che dalla Puglia attraverserà l’Italia intera).

Alcune osservazioni:

1) Ricordo che nei mesi che hanno preceduto la celebrazione del referendum NO Triv, Renzi dichiarava che nessuno volesse autorizzare nuove ricerche e nuove estrazioni, ma che fosse necessario “risparmiare energia”, e cioè consentire che si continuasse solo a spremere il giacimento fino in fondo. Evidentemente ora avranno cambiato idea.

2) Vero: l’energia, collegandosi strettamente alla politica economica del nostro Paese, non può essere materia di competenza legislativa concorrente Stato-Regioni.

E infatti non lo è mai stato: la legge n. 239 del 2004 l’ha attribuita allo Stato, nonostante la Costituzione dicesse il contrario. E la Corte ha detto che questa attribuzione fosse legittima, a patto che lo Stato consentisse alle Regioni (e agli Enti locali) di partecipare alle decisioni da assumere.

Quindi, quello che, in realtà, cambia con la riforma è questo: se passerà il «sì» sarà sempre possibile cancellare il diritto dei territori di poter decidere assieme allo Stato. E se passerà il «sì», le modifiche accolte nella legge di stabilità – con le quali il Parlamento ha stabilito che la partecipazione delle Regioni non dovesse essere solo di facciata – si andranno a far benedire.

3) La riforma non riduce il contenzioso; al contrario, lo inasprisce. Per più motivi (non è questa la sede per approfondire la questione) e per una ragione semplice, ovvia: è fisiologico che decidendo di modificare i confini tra ciò che spetta a me e ciò che spetta a te occorrerà fare nuovamente chiarezza. E a questo ci penserà appunto la Corte costituzionale.

Le lungaggini di cui parla il Comitato non sono dovute ai ricorsi pendenti dinanzi alla Corte costituzionale, ma, semmai, ai giudizi pendenti dinanzi al TAR. Ma, anche in questo caso, non sono tantissimi. E comunque raramente – anzi, direi: quasi mai – il TAR ha concesso la sospensiva del provvedimento.

Il Comitato discorre di «oltre 8200 leggi regionali esaminate dal Consiglio dei Ministri». Cosa c’entra questo con le lungaggini dei procedimenti amministrativi? Tutte le leggi regionali – nessuna esclusa – vengono esaminate dal Consiglio dei Ministri. Se poi ci si vuol dolere del fatto che le Regioni legiferino e che ricorrano alla Corte costituzionale per tutelare le proprie competenze, allora sopprimiamole direttamente: sarebbe meno ipocrita, credo.

4) Chi ha scritto l’articolo è un grande ignorante, in quanto ignora che la TAP non porterà gas nelle case degli italiani: si limiterà ad attraversare il nostro Paese per portare gas in Europa. Quindi non si vede in che modo le bollette dei cittadini sarebbero più leggere!

«"Fermiamo il consumo di suolo" di Paola Bonora per Il Mulino. Lo sviluppo non è sempre proporzionale alla crescita urbana. Un saggio critico analizza lo sfruttamento del territorio e i suoi prodromi». Il manifesto, 13 settembre 2016 (c.m.c.)

Chi mai tra amministratori, governanti, cittadini, avrebbe oggi il coraggio di dichiararsi pubblicamente a favore di un ulteriore consumo di suolo in Italia? Probabilmente quasi nessuno (costruttori compresi; più per vergogna che non per convinzione e interessi). Eppure ancora oggi è difficile separare il concetto di sviluppo da quello di crescita urbana, Grandi Opere, Grandi Eventi: sembrano le due facce di una stessa medaglia (A Milano Expò, a Roma prossime olimpiadi e nuovo stadio).

È stato detto da molti, il terribile terremoto di Amatrice è una ennesima dimostrazione di come lo svuotamento delle aree interne a favore dei terreni pianeggianti delle coste rende queste zone appenniniche ancora più vulnerabili e fragili; aree di abbandono, dove, al più, celebrare qualche sagra paesana in alcuni giorni dell’anno: il futuro è quello delle grandi città, ovvero delle sue periferie sempre più estese, indistinte, anonime. È il mantra dello sviluppo, della modernità, ed è così che, cacciato dalla porta, il consumo di suolo, riesce sempre a rientrare dalla finestra, nonostante le dichiarazioni pubbliche.

Paola Bonora, docente di geografia all’università di Bologna, da sempre impegnata a difesa delle ragioni dei territori e delle comunità insediate (con P. L. Cervellati ha scritto Per una nuova urbanità. Dopo l’alluvione immobiliarista, Diabasis), prova a dimostrare, con un libro agile e snello dal titolo Fermiamo il consumo di suolo. Il territorio tra speculazione, incuria e degrado (Il Mulino, pp. 133, euro 12) che non solo vale la pena di continuare a difendere questa causa, ma che è addirittura vantaggioso limitare questo consumo.

Il libro, già dalle prime pagine, è una denuncia contro la retorica oggi di moda: «Mentre infatti si propugna il consumo zero, dall’altra si varano provvedimenti che vanno in direzione opposta come è il caso del decreto legge cosiddetto Sblocca Italia, che sposta l’offensiva del cemento e dell’asfalto sul piano delle grandi opere varando misure urgenti per la riapertura dei cantieri». La questione è ben nota: «In Italia vengono consumati otto mq. di suolo al secondo: un rettangolo di due metri per quattro ad ogni respiro. Un accumulo che non conosce pause: in media sono stati consumati più di sette mq. al secondo per oltre 50 anni».

Fin qui altri libri e ricerche (quella di Michele Munafò, tra tutte, responsabile del Rapporto Ispra 2016 di cui si può leggere sulle pagine di questo giornale del 13 luglio), hanno già ampiamente documentato il saccheggio e la devastazione di tale risorsa. Meno scontate sono le implicazioni ecologiche, sistemiche, sociali e culturali conseguenti al consumo di suolo che invece formano il cuore del libro. Dobbiamo a Bonora il compito di distinguere tra suolo e territorio sulla scia della Scuola Territorialista di Alberto Magnaghi.

Suolo, infatti, allude ingegneristicamente a una semplice risorsa fisica (seppure non rinnovabile e indispensabile alla riproduzione dei sistemi ecologici), mentre il territorio «è elemento costitutivo delle comunità, agente vivo del processo di civilizzazione e delle sue dialettiche, spazio pubblico e bene comune per eccellenza, come i suoi attributi di qualità, funzionalità, bellezza». Dopo la modernizzazione fordista (che pure ancora manteneva spazi pubblici e paesaggi), la deregulation neoliberista rispecchia «la crisi dell’idea di comunità, della mancanza di baricentri, di spazi in cui vivere il quotidiano».

L’immagine postfordista è quella di una città frammentata, priva di orientamento, senza più forma e senza più vita in comune, prodotto di esistenze in transito. Anche l’agricoltura è tirata in causa, come vittima e carnefice di se stessa. Il processo di urbanizzazione delle aree agricole «porta con sé appiattimento, omologazione, perdita di biodiversità, altera cicli ecologici, confina l’agricoltura in aree interstiziali».

Al tempo stesso l’eccesso di monocolture, la meccanicizzazione spinta e l’uso di prodotti chimici completa la distruzione del patrimonio agricolo e mette a repentaglio la sicurezza alimentare. Il processo di cementificazione tanto meno risparmia il paesaggio considerato «una risorsa identitaria poiché raccoglie e condensa le memorie delle generazioni trascorse, la dialettica delle relazioni sociali, i valori culturali che le ispirano».

Paola Bonora preferisce non trarre conclusioni («le conclusioni sono sempre la parte più noiosa e pleonastica di un libro»), piuttosto aggiunge una riflessione amara a quanto già detto da molti: «Che le persone non si radunino nelle piazze accade non solo perché ammaliate dai social network o dai centri commerciali, ma anche perché le piazze, le strade e i luoghi in cui può avvenire l’incontro sono diventati paesaggi stranianti, spazi ostili, corridoi di transito popolati da consumatori frenetici».

«I Giochi del 1960 furono una strepitosa occasione per gli interessi fondiari. Ancora stiamo pagando il lascito di quell’evento "sportivo". La prima cosa da fare è spezzare le connessioni tra l’amministrazione e quelli che chiamiamo poteri forti. In romanesco, i palazzinari». Il manifesto, 11 settembre 2016

Vezio De Lucia non è solo uno dei più grandi urbanisti italiani ma è anche la memoria storica di Roma, del suo territorio, della sua trasformazione sotto gli appetiti dei potenti, della sua anima.

Cosa pensa dell’attuale giunta capitolina, crede che Virginia Raggi sia nel posto giusto?
Intanto se c’è, è meglio che resista. Credo sia presto per dare un giudizio definitivo, mi pare che la stampa si stia scatenando contro al di là del dovuto. Certo però, dato che uno degli elementi che lo caratterizzavano era l’impegno prioritario alla trasparenza, ci si sarebbe aspettati dal M5S, soprattutto a Roma, l’adesione al precetto evangelico «Sì sì, no no, il resto viene dal maligno». E invece non è così purtroppo: non vediamo prese di posizione nette e coerenti rispetto agli impegni presi prima. Questa incertezza, questa ambiguità e reticenza legittimano chi osserva che il movimento sta andando verso l’equiparazione con gli altri partiti.

Sulle Olimpiadi invece sono stati coerenti.
E me ne compiaccio, aspettiamo però di vedere gli atti formali.

Ha dei dubbi sul No a Roma 2024 da parte della sindaca?
Nessun dubbio, ma credo che siano sottoposti a pressioni inaudite. Tutta la stampa italiana, tranne poche eccezioni, continua a ritenere che ci sia spazio per un cambiamento del progetto per la candidatura, ed è una posizione sostenuta anche da sinistra. Perfino dal mio amico Paolo Berdini.

D’altronde per il no alle Olimpiadi Stefano Fassina, candidato sindaco di Sinistra Italiana, si è avvalso della sua consulenza durante la campagna elettorale. Paolo Berdini sostiene però soprattutto che si possa tentare di sfruttare l’occasione per far finanziare le opere di cui la Capitale ha bisogno. Se è così è bene, afferma l’assessore all’Urbanistica, altrimenti niente Olimpiadi. Lei non crede che in questo senso potrebbero essere trasformate in un’opportunità?

No, forse è la prima volta da decenni che non sono d’accordo con Paolo. Per esempio quando il governo Monti rifiutò la candidatura di Roma 2020, lo fece per una serie di ragioni tuttora valide. A cominciare dall’onere troppo gravoso per lo Stato, perché financo Londra ha visto raddoppiare le spese preventivate. Eppure allora la scelta di Monti fu accettata pacificamente, senza contestazioni. Vorrei che il mio amico Berdini riflettesse su questo: allora le condizioni erano molto meno gravi di oggi e Roma era una città in cui ancora non si era scoperchiato il verminaio di Mafia capitale. Da allora il livello di corruzione è peggiorato, ed è un’illusione, date le condizioni penose in cui versa l’apparato amministrativo, pensare di poter ripristinare la normalità in poco tempo, senza prima recuperare una dimensione pubblica del governo. E con le Olimpiadi c’è il rischio che il livello di corruzione aumenti.

Non basta che il progetto preveda il controllo dell’Anac e della Corte dei conti?
No, non basta perché non abbiamo il controllo pieno della struttura amministrativa, è una struttura che dopo decenni di malapolitica, soprattutto nell’urbanistica, non si può considerare disponibile per un cambio di rotta radicale.

«Un enorme no che farà tremare i Palazzi», aveva annunciato Di Battista. Ma basta questo per creare un danno ai “poteri forti” che il M5S dice di voler combattere?
No, evidentemente. Ma prendiamo le Olimpiadi del 1960, presentate oggi con una retorica infinita come un evento di riferimento. Bene, quella fu proprio una strepitosa occasione per gli interessi fondiari. Per esempio, la via Olimpica, pensata per unire il Foro italico con i nuovi impianti dell’Eur, fu una sapientissima scelta per costruire una strada che valorizzava le enormi aree di proprietà della Chiesa e degli enti religiosi. E che finì per spostare nella parte opposta della città il baricentro di espansione previsto invece ad est, secondo il piano regolatore che si stava mettendo a punto proprio in quegli anni e che venne poi adottato nel 1962.

Veltroni sostiene invece che, tra tante magagne, quell’Olimpiade ha lasciato un lascito importante alla città.
Sì, la conferma dello strapotere della rendita fondiaria: questo mi sembra il lascito più importante. E che stiamo pagando ancora.

Quali opere considera prioritarie per Roma?
Non dico una cosa nuova: Roma ha un maledetto bisogno di cose ordinarie, lo straordinario è una scorciatoia. Ridare legittimità, funzionalità e trasparenza alla pubblica amministrazione è la prima e più grande opera da compiere. E poi i trasporti, che restano un nodo drammatico sul quale dopo Walter Tocci nessuno ha più lavorato. Per quanto mi riguarda le ragioni della linea C restano tutte in piedi. Se poi cerchiamo elementi di carattere simbolico, non posso che ricordare il progetto di Petroselli – sindaco citato da Raggi nel suo discorso di insediamento – che non è la «pedonalizzazione dei Fori» ma un modello culturale che cambia il rapporto tra centro e periferia, si riappropria della memoria storica di Roma, ed è un’opera che va dal Campidoglio fino all’Appia antica e ai Castelli romani.

Alcuni di questi progetti potevano essere finanziati dai Giochi?
A parte il fatto che questo progetto ancora non c’è, e i tempi sono ristrettissimi, rifiuto la concezione delle Olimpiadi come bancomat. Credo sia assolutamente illusorio e sbagliato rifugiarsi nell’ipotesi, a mio avviso del tutto infondata, che attraverso un’occasione straordinaria, funzionale a tutt’altri obiettivi, si possano risolvere le carenze accumulate in decenni. E non solo a Roma.

Dunque secondo lei nessuna città italiana sarebbe candidabile?
Rebus sic stantibus, no.

Non è l’ammissione di fallimento di un’intera nazione?
Siamo abbastanza vicini a una condizione di fallimento. Ovviamente mi riferisco alle grandi città, quelle che potrebbero accogliere i Giochi.

Lei è fortemente contrario anche alla realizzazione del nuovo stadio, perché?
È bene ricordare che non si tratta solo dello stadio ma di un nuovo centro direzionale. Sono contrario perché è un esempio clamoroso di urbanistica contrattata, cioè quella decisa da un privato e subita dal potere pubblico. Paolo Berdini è da sempre uno dei massimi esperti di questa piaga. Ecco, la prima cosa da fare è cominciare a spezzare le connessioni implicite o esplicite, legali o illegali, tra il potere amministrativo e quelli che chiamiamo «poteri forti». In modo più romanesco, i «palazzinari».

Un esperto della fragilità delle nostre terre e di cò che va fatto per ridurne i rischi critica il chiacchiericcio delle proposte mainstream e indica le vie della saggezza e dell'esperienza. Associazione Bianchi Bandinelli online 9 settembre 2016

Ancora una volta, dopo la tragedia di Amatrice, la TV e la rete sono sommerse di dichiarazioni del giorno dopo da parte di autorevoli fonti del governo e della politica sull’intenzione di mandare a definitiva soluzione il problema del “rischio simico”. Di fronte al piglio risoluto, decisionista, ormai consueto, con cui è proposto l’impegno, i cittadini sparsi lungo la penisola – ai quali l’ultimo disastro ha ricordato che dalle loro parti il terremoto tira – non possono che aprire una partita di credito.

Ennesime delusioni? Probabilmente sì se si dovesse dar retta ai primi spartiti suonati sugli organi d’informazione: il libretto del fabbricato e il programma Casa Italia al quale un numero imprecisato di generazioni si dovrà dedicare per mettere in sicurezza il patrimonio edilizio italiano, ma anche affrontare il problema delle periferie, degli impianti sportivi e del risparmio energetico.

Per rendere meno catastrofici i terremoti che verranno si ritiene sufficiente promettere un po’ di soldi all’anno per tanti anni da spalmare su tutto il territorio nazionale e su un coacervo di temi. Soldi che le regioni si divideranno, che poi ciascuna distribuirà tra i comuni e qualche altro centro di spesa. Finanziamenti della cui stringente finalizzazione nessuno sarà più davvero consapevole, così come nessuno sarà responsabile del loro monitoraggio e controllo.

Sembrano proposte che vengono da un paese senza memoria, che non corregge le ragioni degli insuccessi, dove il Governo una volta preso l’impegno di distribuire risorse, in un clima di solidarietà, ritiene di aver fatto la sua parte per intero. Al di là del merito delle soluzioni prospettate, suscita poca fiducia l’approccio impulsivo ad un tema molto complesso.

Ogni terremoto, ogni emergenza, ogni ricostruzione ha impartito una lezione di cui chi ha governato avrebbe dovuto tener conto, con la forza e la determinazione necessaria. Dal Belice nel ’68 fino alla scossa del 24 agosto, con in mezzo il Friuli, l’Irpinia, l’Umbria-Marche, San Giuliano, L’Aquila, l’Emilia e tanti altri eventi solo un po’ meno severi, sono stati spesi 150 miliardi di Euro per ricostruire e, soprattutto, è stato pagato un altissimo tributo di vite umane.

Nei giorni luttuosi di Amatrice, Accumoli e Arquata, si è detto di tutto sulla necessità di trovare una soluzione alla irrisolta fragilità di case, scuole, caserme, strade, chiese, ospedali; ma da quelle parti, dove si sapeva davvero bene che il terremoto tira, sembra che nessuno si sia posto, almeno dopo L’Aquila distrutta nel 2009, il problema di individuare quante e quali criticità sarebbero drammaticamente emerse se un terremoto simile a quelli del passato si fosse ripetuto; e nemmeno che distanza vi fosse in quei luoghi dai livelli di accettabilità del rischio, e non solo per la violenza della scossa ma piuttosto per la irrisolta estrema vulnerabilità di case, scuole, ospedali, fabbriche, caserme, chiese e ponti.

Allora bisogna chiedersi perché, dopo tante promesse formulate e mai mantenute, non sia possibile, il giorno dopo, parlare di inevitabili perdite piuttosto che di inaccettabile strage. Il patrimonio edilizio si è dimostrato fragilissimo; la lunghissima applicazione della normativa sismica non ha dato quel che non poteva dare, ovvero la protezione dei centri storici, ma non ha nemmeno conseguito il risultato atteso: la protezione della vita umana negli edifici più recenti o sui quali si era recentemente intervenuti per migliorarli.

Le macerie di Amatrice, tuttavia, mostrano anche l’inefficacia degli altri strumenti di protezione messi in campo negli ultimi decenni, che stentano a raggiungere il loro obiettivo: la concessione di incentivi per la riduzione della vulnerabilità delle abitazioni, gli interventi sugli edifici strategici e sensibili, e poi l’irrisolta fragilità delle infrastrutture di collegamento viario essenziali in emergenza. Insomma, una sconfitta completa. Le analisi e le indagini che saranno fatte, anche dalla magistratura, spiegheranno perché tutto questo è successo. Dimostreranno probabilmente che la responsabilità non è della qualità degli strumenti messi in campo ma piuttosto del come sono stati utilizzati o del perché non sono stati utilizzati.

Ma la sostanza del problema, a fronte del fatto che l’inefficacia di quegli strumenti non è episodica ma sistematica, non cambia di molto: il paese resta enormemente vulnerabile, incapace di assorbire l’impatto di terremoti che si possono ripetere in alcune aree con intensità anche superiori di quella registrata a L’Aquila o ad Amatrice. C’è un enorme squilibrio tra la limitatezza delle risorse che possono essere impegnate e quelle necessarie per ridurre il rischio a cui sono esposte le popolazioni, i beni e il patrimonio storico, artistico e culturale del paese.

Sembra proprio il caso di sottoporre la strategia di riduzione del rischio sismico (ammesso che se ne sia mai perseguita una) a una verifica, e chiedersi se non si possa fare anche qualcosa di più e magari di diverso. Essendovi una certa urgenza, tenuto conto della frequenza con cui i terremoti distruttivi si manifestano, se i soldi sono pochi e le esigenze tante, il buon senso suggerirebbe di utilizzarli dove il rischio è maggiore. Più che continuare con logiche d’intervento su tutto il territorio nazionale, a pioggia, affinché tutti abbiano la loro parte, sarebbe consigliabile farsi guidare da scienza e conoscenza, operare delle scelte a costo di correre il rischio di non centrare sempre il risultato, ma con maggiori garanzie di non sprecare risorse. D’altronde quello di fare delle scelte, di assumersi responsabilità, è il compito di chi governa. Nelle strategie di riduzione dei tanti rischi che incidono su una comunità, in base alla loro dimensione, frequenza ed incidenza, è necessario scegliere come distribuire le poche risorse rispetto alle tante esigenze.

Ciò che è emerso nel dibattito post Amatrice è la riproposizione di interventi a tutto campo e, tra questi, anche un po’ di prevenzione sismica di durata secolare, confidando nella continuità dell’azione politico-amministrativa, senza considerare che nel frattempo un terremoto distruttivo ogni 5-6 anni colpirà il paese, (quasi) certamente dove è già passato. In due generazioni o in settanta anni ci saranno probabilmente una mezza dozzina di forti terremoti. Quando capiteranno qualcuno dirà agli impauriti cittadini superstiti che l’azione di prevenzione avviata dopo il lontano terremoto del 2016 ad Amatrice continua indefessa e che prima o poi il paese sarà salvo.

Lo Stato centrale, i governi che si succederanno, reperite le risorse riterranno di aver assolto alle proprie responsabilità. Spesso a voler promettere troppo si rischia di non ottenere nulla. Il piano Casa Italia che ha preso forma nei salotti buoni televisivi è certamente troppo ambizioso se confrontato con le dimensioni e la natura dei temi che si vogliono risolvere; troppo semplice ritenere che sia sufficiente diluire nel tempo un intervento molto complicato; ma anche troppo facile rispetto ai livelli di responsabilità che ci si deve assumere di fronte al ripetersi di eventi a carattere catastrofico. Se ritornano alla mente le parole del presidente Mattarella oggi, ma anche e soprattutto a quelle di Pertini ai tempi dell’Irpinia, si percepisce l’invito allo Stato, ai governi di ritagliarsi un proprio livello di responsabilità nell’azione di prevenzione dai terremoti, nell’indirizzamento, finalizzazione, controllo di legittimità e qualità dell’utilizzo delle risorse.

Ci si dovrebbe forse concentrare su quella stretta e lunga macchia più scura nelle carte di pericolosità riportata il giorno dopo Amatrice da tutti gli organi di informazione, che parte dal nord-est, corre lungo l’appennino e passa lo Stretto di Messina, fino a dilatarsi attorno all’Etna. Al suo interno sono circa 3000 i comuni a maggior rischio sismico; presi a gruppi accomunati dallo stesso destino rispetto al terremoto potrebbero diventare l’obiettivo di un diverso modo di promettere maggiore sicurezza: lo sviluppo delle conoscenze, la straordinaria evoluzione delle tecnologie di acquisizione, organizzazione e analisi dei dati, potrebbero certamente concorrere a realizzare una piccola rivoluzione.

Si potrebbe pensare che la previsione, la prevenzione e la pianificazione dell’emergenza non siano azioni da tenere separate come lo sono state finora. La previsione non è certo quella del quando un evento si verificherà, ma quella del dove può colpire e che cosa lì potrà accadere; un’azione di prevenzione diversa sarà proprio quella indirizzata dai risultati, limitati ma preziosi, di questa previsione. Sarà efficace una prevenzione che utilizzi gli strumenti di riduzione delle vulnerabilità in modo più incisivo, con interventi mirati e ordinati per priorità e su “oggetti” individuati. Infine la pianificazione dell’emergenza deve sviluppare scenari in grado di prefigurare un quadro dettagliato delle criticità che, un attimo dopo l’evento, debbono essere affrontate e risolte.

Amatrice è in un’area caratterizzata da una delle sismicità più elevate dell’Appennino centrale, non è ammissibile che possa rimanere isolata perché nessuno dei ponti che le garantiscono la raggiungibilità è sufficiente protetto dal terremoto; non è accettabile che a nessun livello di responsabilità si sia pensato a garantire le infrastrutture strategiche per il soccorso. Nel manifestarsi del terremoto diviene critico ciò che era già vulnerabile. Il piano d’emergenza può divenire uno strumento di individuazione puntuale della vulnerabilità, e uno strumento utile a definire, anche sul piano delle priorità, gli interventi di prevenzione.

L’utopia della “messa in sicurezza dell’intero patrimonio edilizio, ci volessero cent’anni”, sulla quale sono stati intrattenuti dai teleschermi i cittadini impauriti dall’ultimo disastro, potrebbe confrontarsi con la possibilità di adottare un approccio più circoscritto, concentrando le risorse nelle aree note a maggior rischio, attraverso programmi nazionali definiti, monitorati e verificati a livello centrale, attuati attraverso le regioni interessate e alimentati dal livello comunale. La prevenzione non si eserciterebbe più solo attraverso prescrizioni normative da applicare a porzioni di territorio accreditate di un determinato livello di sismicità, ma piuttosto attraverso una puntuale verifica di vulnerabilità di “oggetti” individuati dallo scenario di piano: non solo edifici e infrastrutture, ma anche sistemi, reti e funzioni di servizio.

Una scelta coraggiosa, fatta in modo innovativo in un paese che ha problemi diversi da tutti gli altri: la necessità di proteggere le sue popolazioni e al contempo di conservare integra la sua storia meno recente fatta di straordinari paesi appesi ai versanti, pieni di preziose testimonianze, di cultura e tradizioni. Nel momento in cui il dopo terremoto ripetutamente si consuma nella tragedia e genera la comprensione e la solidarietà del mondo, è forse legittimo trovare nuove strade, soluzioni diverse per ridurre la straordinaria vulnerabilità del paese, per cambiar verso davvero all’Italia rispetto ad uno dei suoi più gravi problemi.

«A Mantova il progettista, storico e critico François Burkhardt “Dobbiamo lavorare non per narcisismo ma per i bisogni della gente”». La Repubblica, 10 settembre 2016 (c.m.c.)

Dalle certezze del mondo moderno, alle incertezze di quello postmoderno, François Burkhardt racconta quarant’anni di esperienze di architetto, di storico e critico, di direttore di grandi istituzioni culturali (dalla Kunsthaus di Amburgo al Centre Pompidou di Parigi) e di riviste ( Domus), di professore (a Lione, a Vienna, a Siena), e poi di curatore.

Ottant’anni, nascosti sotto un vistoso ciuffo (è nato a Winterthur, in Svizzera), questa mattina presenta al Festivaletteratura un volume che s’intitola proprio Dalla certezza alle incertezze e che la Corraini Edizioni ha affidato alle geniali cure grafiche di Italo Lupi (pagg. 270, euro 32).

È un bilancio, ma soprattutto una riflessione accorata sullo stato dell’architettura, su quanto la disciplina abbia smarrito la sua funzione sociale, a prescindere da modernità e postmodernità. Pur ispirandosi al pensiero di Jean-François Lyotard, Burkhardt lamenta la dissipazione dei precetti che, da Alvar Aalto in poi, hanno disposto l’architettura al servizio dei bisogni psicologici e materiali degli esseri umani.

«Nel 1960 andai in Finlandia per vedere gli edifici di Aalto», racconta Burkhardt, «e due anni dopo avrei potuto lavorare nel suo studio, ma dovetti rinunciare perché avevo già un impegno preso. Rimasi folgorato dal suo Sanatorio di Paimio, dai lavabi non rumorosi ai pannelli radianti a soffitto che riscaldavano solo i piedi del letto. Ecco cosa intendo per architettura che soddisfa bisogni».

È un’attitudine che non esiste più?
«Vedo prevalere nell’architettura di cui più si parla un concetto libertino del costruire, come se fosse un gioco o uno spettacolo. Un fare per sé e non per chi userà gli edifici. Godiamo di una grande libertà compositiva rispetto ai rigidi precetti del razionalismo, ma la libertà è usata male».

Nomi?
«Daniel Libeskind. È intelligentissimo, ma le sue architetture mi fanno tremare. Nel progettare musei, per esempio, manca il più elementare rispetto per la percezione delle opere. Lo stesso vale per i musei di Zaha Hadid. Non sono così i musei di Frank Gehry. E prenda poi gli allestimenti di Carlo Scarpa: la funzione a cui assolvono è quella di mostrare».

Da che cosa dipende questo atteggiamento?
«Da scelte culturali. Su tanta architettura, poi, pesa la preponderanza che hanno assunto i trust immobiliari. Esercitano un controllo completo e l’architettura reagisce poco, sembra non avere rispetto di sé e della propria moralità. Fino a qualche tempo fa ero convinto che il livello culturale non sarebbe stato toccato dall’invadenza del mercato. Mi devo ricredere».

Eccezioni?
«Renzo Piano o Alvaro Siza. L’architetto portoghese lo conosco dalla metà degli anni Settanta. Ho dedicato diverse mostre al suo lavoro. Persino nei tratti personali è l’opposto dell’archistar, silenzioso, paziente, persino lento. Si è misurato con l’edilizia sociale e ha messo al centro del progetto la partecipazione dei cittadini».

Un antidoto, secondo lei, al linguaggio internazionale, globalizzato, è il recupero di tradizioni costruttive locali.
«È un ragionamento che va fatto con cautela, altrimenti si sposano ideologie regressive. Quello che si definisce regionalismo in architettura è un serbatoio linguistico al quale attingere, ma senza idealizzazioni. Siza l’ha interpretato bene. E anche l’esperienza italiana è istruttiva. Sono tornato da poco al quartiere Tiburtino, a Roma, dove Ludovico Quaroni alla fine degli anni Quaranta ha realizzato un quartiere di edilizia popolare. È un insediamento che regge bene al tempo. Meno il borgo rurale della Martella, a Matera, sempre di Quaroni».
Nel sottotitolo del libro, i suoi 40 anni di attività sono legati all’artigianato. Per il quale lei auspica una rinascita.
«La mia prima formazione è di disegnatore edile. La teoria è arrivata dopo. Ora sto lavorando a Volterra a un progetto per rilanciare l’artigianato dell’alabastro. Purtroppo il design si è allontanato dalla manualità e dalla materia. È diventato un’operazione virtuale e attenta alle quantità. Nella simulazione digitale manca il controllo corporeo, che invece è essenziale per lo sviluppo della personalità».

Manifestazione promossa da Generazione 90. «A centinaia con carretti e borse della spesa per ponti e calli: "Per riprenderci Venezia. Diamo un segnale di normalità perché vivere la nostra città non deve essere solo un lusso per pochi"». Veneziatoday.it, 10 settembre 2016 (m.p.r.)

Sono partiti alle 10 da Rio Terà San Leonardo a Cannaregio, con destinazione il mercato di Rialto, armati di borse della spesa, carrelli e passeggini. E a giudicare dalla partecipazione attiva, almeno qualche centinaia tra ponti e calli, non si può certo dire che la manifestazione "Ocio ae gambe, che go el careo!" sia stato un insuccesso. Un corteo per dire "no" alla morte di Venezia, per resistere e impegnarsi per difendere la vivibilità e la residenzialità della città.

L'iniziativa è stata promossa dai ragazzi di "Generazione 90", il gruppo trasversale di ragazzi ventenni e trentenni nato tre mesi fa per tutelare il diritto di vivere Venezia. "Diamo un segnale di normalità, - avevano spiegato qualche giorno prima del corteo - perché vivere la nostra città non deve essere solo un lusso per pochi. Tutti sono invitati a partecipare, portando carrelli della spesa e passeggini: il senso dell'iniziativa è proprio quello di guardare al futuro con coraggio. Ci teniamo a sottolineare che il corteo è apartitico e preghiamo quanti vorranno partecipare di non portare simboli di alcun tipo". Al termine della manifestazione, attorno alle 11.30, non è previsto alcun tipo di intervento, "perché il tempo delle parole è finito ed è invece il momento per i cittadini di mostrarsi uniti in difesa di Venezia".

Moltissime le associazioni che hanno aderito all'iniziativa, da Masegni e Nizioleti a Italia Nostra - Venezia e VeneziadeiBambini, dall'Associazione San Francesco della Vigna a Evenice e Venezia360. Queste si sono aggiunte a quante precedentemente avevano aderito, da Mamme con le Rampe a Rialto Novo, da Venessia.com ai Cerchidonda, da Garanzia Civica al Circolo Ricreativo 3 Agosto, dal Gruppo 25 Aprile ai Giovani Veneziani.

La Sardegna terra di conquista: per ottenere contributi pubblici e produrre energia da vendere altrove si distruggono risorse dell'agricoltura locale con l'intimidazione e l'esproprio. Resisterà la Regione autonoma? La Nuova Sardegna, 10 settembre 2016

È normale che la Sardegna possa sembrare la terra promessa ai nuovi speculatori dell'energia. Ai quali bastano quelle dei cacciatori di energia due o tre informazioni sull'isola ricattabile: spopolata, povera, in vendita: prezzi stracciati a qualche km dal mare. Ampia scelta di aree e in caso di difficoltà nell'acquisizione, una legge dello Stato (2003) per consentire agli acquirenti di alzare la voce. Pure nella Regione Autonoma. Bentornato Feudalesimo, avrà pensato EnergoGreen. La società decisa a provarci nell'isola, con un nome più domestico – Flumini Mannu –, rassicurante per i sardi notoriamente più indulgenti verso chi esibisce una parentela da queste parti (avranno saputo del successo strepitoso della birra con il marchio QuattroMori ?). Un ufficio a Macomer e via. Dal 2012 a caccia di terre tra le proteste delle comunità locali. Provarci. Come a Decimoputzu ( e non solo) dov'è grande lo sconcerto per l'iniziativa di Flumini Mannu: quando dici “non è possibile!”. Perché non è possibile quella distesa di specchi acchiappasole, circa 270 ettari coinvolti in piena campagna (tre volte i quartieri storici di Cagliari). Quanto basta per sconvolgere un paesaggio e pure il clima dei dintorni.

Ma la vera sorpresa non è un'azienda che fa il suo mestiere, quanto i risvolti della legislazione nazionale: accondiscendente verso questi impianti al punto di consentirne la realizzazione dovunque. Anche nelle zone dove non sono ammessi - in Sardegna come in altre regioni - usi diversi da quelli agricoli. Per cui non conterebbe nulla la pianificazione locale; e neppure il buon senso: la disponibilità di zone industriali dismesse, adatte ad accogliere con qualche accorgimento quelle attrezzature.

Ma c'è di più. Gli impianti alimentati da fonti rinnovabili sono per legge “di pubblica utilità”. E non per il bene dei cittadini preoccupati per i blackout – come verrebbe da pensare. Ma a tutela degli investitori nel caso trovassero resistenze ad acquisire le aree indispensabili per gli insediamenti progettati.

La legge in sintonia con un'altra (del 2001) ammette, e questo è il punto, l' esproprio, pure di suoli agricoli in produzione. A garanzia di un interesse privato e a scapito di un altro ben più conveniente alla comunità. Nel nome di un bisogno fittizio (alla Sardegna non serve altra energia); e per soddisfare una domanda esterna e il business dei contributi statali. Come quando le foreste dell'isola erano combustibile gratuito per alimentare le macchine a vapore in Continente nel clima del lungo Medioevo sardo.

La tecnologia è cambiata ma agli speculatori postmoderni si concedono privilegi da antico regime, quando persa “sa passienzia” si invocava “sa gherra contra de sa prepotenzia”.

Sta in questo solco la minaccia pendente sull'attività di Giovanni Cualbu allevatore, proprietario di parte delle terre ambite, indisponibile a venderle. E tuttavia espropriabili a richiesta di Flumuni Mannu. Una prepotenza autorizzata, denunciano da un po' i comitati per la difesa del territorio. E solo l'idea che possa accadere, sta provocando disorientamento e sfiducia verso le istituzioni nella fase delicata di esame del progetto. D'altra parte le contraddizioni sono nella norma che assegna alla Regione la valutazione d'impatto per impianti fino a 300kw, e allo Stato per gli impianti sopra questa soglia. Per cui Flumini Mannu può tentarci e ritentarci. E sarebbe clamoroso se il giudizio negativo già espresso dagli organi tecnici della Regione – per una centrale sotto i 300kw –, fosse contraddetto dal Ministero dello Sviluppo Economico (nell'indifferenza agli aspetti ambientali?) con un verdetto favorevole allo stesso impianto: riproposto lì e con un po' più di potenza. Ci sarebbe molto da ridire ovviamente, e confidiamo che eventualmente la Regione tenga la schiena dritta, fino in fondo nel confronto con lo Stato – come ha promesso la Giunta regionale. Un valore simbolico la difesa di Giovanni Cualbu. Un messaggio atteso dai comuni che non vogliono restare soli nella lotta contro le nuove e vecchie forme di land grabbing. Le storture si possono correggere. A questo, in fondo, serve la politica.

Poveri spazi pubblici di eccezionale bellezza: nelle mani dei barbari o dei Bulgari: forse se nelle case intorno ci fossero ancora abitanti, e non uffici, negozi e alberghi, e magari anche qualche sistema di vigilanza...La Repubblica, ed. Roma, 9 settembre 2016

«SONO molto preoccupato, abbiamo speso tanti soldi per riportarla al suo splendore e se non si mettono regole ben precise, Trinità dei Monti tornerà il bivacco di sempre. Tempo pochi mesi e sarà di nuovo in mano ai “barbari”. Paolo Bulgari, presidente della maison di gioielli famosa in tutto il mondo che ha finanziato i restauri di quei 135 gradini, ha le idee chiare. La Scalinata verrà inaugurata il 21 settembre, con tanto di concerto dell’orchestra di Santa Cecilia diretta da Antonio Pappano. Ma intanto è polemica su come proteggere quel capolavoro settecentesco progettato dell’architetto De Sanctis che è costato quasi un milione e mezzo di euro. C’è chi vorrebbe recintarlo e chi come il consigliere del I municipio Matteo Costantini chiede maggior sorveglianza con tanto di “ausiliari del decoro”. E chi come il sovrintendente dei Beni culturali, Claudio Parisi Presicce trova «improponibile chiudere la Scalinata. È piuttosto utile educare le persone al rispetto dei monumenti ». Paolo Bulgari è per la prima ipotesi: «Bisognerebbe trovare il modo di preservarla durante la notte. Perché sulla Scalinata è giusto camminare, è nata per questo e la passeggiata che si fa scendendo giù dal Pincio è meravigliosa, ma non si devono permettere i bivacchi - spiega - Non è un luogo per sedersi».

Figuriamoci per bere o per mangiare. Eppure nella fase di ripulitura, sul travertino si è trovato di tutto. «Le restauratrici che sono state bravissime continua - il presidente della casa di gioielli - hanno dovuto fare un lavoro immane. Sui gradini c’era spalmato di tutto. Dalle gomme da masticare alle macchie di caffè, vino e non voglio dilungarmi oltre sulle tante schifezze che hanno imbrattato il monumento ».

Ma il punto è un altro. «Vogliamo un turismo di qualità o di quantità?», si domanda Bulgari. «Perché se si punta al numero, vedo un futuro complicato per un Paese dove i monumenti sono preziosissimi e fragili. Certo, a Roma non si può immaginare l’ingresso a numero chiuso, come invece potrebbe fare con una certa semplicità Venezia. Ma mettere un cancello o una barriera in plaxiglass non mi sembra un’impresa impossibile. Anzi. E questo non vuol dire “ingabbiare la cul- tura”, bensì tutelarla.

D’accordo con il patron del marchio del lusso, anche alcuni commercianti della zona. Gianni Battistoni, dell’omonimo negozio in via Condotti, in primis. «La Scalinata è patrimonio dell’umanità, una barriera non invasiva, dopo una certa ora, sarebbe una buona soluzione», dice «non si può lasciarla in balia di gente che bivacca. Oramai da tempo è diventata il luogo d’incontro per i giovani stranieri. Non è un caso che i tifosi dell’Olanda, che un anno fa ridussero la Barcaccia di piazza di Spagna una discarica, si diedero appuntamento proprio li».

Assolutamente contrario alle barriere anche l’assessore ai Beni Culturali Luca Bergamo. «Non abbiamo intewnzione di porre nessuna cancellata - fa sapere - Sicuramente però aumenteremo i controlli e la sorveglianza per preservare il restauro appena terminato».

Finalmente la Sindaca di Roma rispetta la promessa e dice no alle Olimpiadi. Gli atleti troveranno altrove lo spazio per le loro performances: le Olimpiadi non sono forse "mondiali". Ma che cosa aspetta per cancellare anche la macchia di Tor di Valle? La Repubblica, 9 settembre 2016

I destini, il futuro e l’unità del Movimento 5 Stelle, nella bufera dopo gli inciampi di Virginia Raggi, passano tutti per un no secco alle Olimpiadi. Ieri, nel mezzo dell’ennesima giornata febbrile, dal Campidoglio è stata fatta filtrare alle agenzie di stampa la notizia che l’annuncio ufficiale, il ritiro della candidatura di Roma ai Giochi del 2024, arriverà nei prossimi giorni.

Non prima del 18 settembre, data in cui finiranno le Paralimpiadi in corso a Rio de Janeiro. Il gran rifiuto (secondo consecutivo, dopo che Mario Monti disse no alla candidatura di Roma per il 2020) dovrebbe arrivare in una conferenza stampa. Sarebbe la prima da quando la Raggi ha vinto trionfalmente le elezioni lo scorso 19 giugno. La location sarà un impianto sportivo non ultimato o un altro dei simboli delle emergenze quotidiane di una città, questa la tesi dei 5 Stelle, che ha bisogno subito di ordinaria amministrazione e non di grandi eventi.

Una “narrazione” che ricompatta il Movimento oggi in una fase di profonda lacerazione. Due giorni fa, dal palco di Nettuno, era stato Luigi Di Maio (l’esponente 5 Stelle definito «più dialogante » nei confronti dei Giochi) a chiudere definitivamente la porta: «Chi vuole le colate del cemento se ne deve andare. Ed è per questo che non accetteremo la logica delle Olimpiadi. Perché è una logica compensativa».

Per questo motivo ieri, dal Campidoglio, appena prima che scoppiasse il caso De Dominicis, è rimbalzata la notizia del “no”. «La giunta non cambia idea», è la linea che blocca così anche i rumors di una timida apertura ai Giochi da parte della sindaca e del suo vice, Daniele Frongia, assessore allo Sport che in questi mesi ha tenuto i contatti con il Coni. L’unico a parlare esplicitamente a favore della candidatura, dieci giorni fa, era stato l’assessore all’Urbanistica Paolo Berdini, tecnico dalle solide radici nella sinistra, ormai sempre più in sofferenza in questi giorni di caos. «Se le Olimpiadi servono per realizzare le quattro linee di trasporto pubblico che inventeremo oppure la messa in sicurezza degli impianti sportivi che stanno andando a pezzi a Roma dico di sì», aveva detto. Berdini in queste ore si è chiuso in un silenzio più assoluto che lascia presagire, però, una presa di posizione forte. Le sue dimissioni sarebbero a un passo.

Il Coni, da parte sua, ritiene «impossibile» che il ritiro di Roma dalla corsa ai Giochi del 2024 arrivi prima di un incontro formale con i vertici del Comitato olimpico. Giovanni Malagò, numero uno dello sport in Italia non vuole perdere l’occasione per sottoporre alla sindaca il dossier che, in teoria, dovrebbe essere spedito al Cio entro il 7 ottobre, pena la decadenza della candidatura della capitale italiana. «La notizia è paradossale», dicono ancora dal Coni, convinti che la “tregua” durante le Paralimpiadi avrebbe retto. «Sarebbe un affronto agli atleti che stanno gareggiando a Rio». Quelli che invece hanno vinto una medaglia ai Giochi di agosto scrivono alla sindaca: «Dia impulso ai nostri sogni e sostenga la candidatura di Roma: gareggiamo insieme per conquistare una speranza». E mentre Malagò aspetta che il Campidoglio gli comunichi la data dell’incontro («già formalmente richiesto», dicono dal Coni), martedì 13 settembre, la Raggi è convocata in Senato, davanti alla Commissione sport per un’audizione. «Spero che la giunta della Capitale valuti bene la propria determinante posizione», dice il suo presidente, il Dem Andrea Marcucci. Ma la scelta in Campidoglio è stata fatta: tenere unito il Movimento e dire addio al sogno olimpico.

Riferimenti

Sulla vicenda Olimpiadi a Roma vedi i numerosi articoli nella cartella Città oggi>Roma. A proposito di Tor di Valle vedi su eddyburg l'articolo di Vezio De Lucia Insieme allo stadio si approvano 10 Hiton

Il documentario di Santoro mostra senza filtri una parte di città che nasce con il destino segnato. Ed è un problema non solo napoletano se vale ancora l'art. 3 della Costituzione. La Repubblica, 8 settembre 2016 (m.p.r.)


Robinù di Michele Santoro è il racconto di Napoli. Riduttivo chiamarlo documentario. È una prova. La prova che tutto quello che abbiamo detto in questi anni in molti non erano menzogne, apocalittiche esagerazioni. Non ci avete creduto? Ecco, prendetevi del tempo e guardate Robinù. È stato presentato ieri sera alla mostra del Cinema di Venezia. Vedrete quella parte di Napoli di cui non si può parlare. Quella parte di Napoli che se la mostri stai diffamando, speculando, stai esagerando, mentendo. Robinù è il racconto di Napoli attraverso voci che in genere non ci arrivano così, nitide, chiare, pulite, senza rumori di fondo. Senza quelle piene di empatia di chi aiuta, senza il cinismo e la precisione della cronaca, senza la severa irremovibilità delle forze dell’ordine, senza l’inadeguatezza e la connivenza della politica. Non sentiamo le domande in Robinù e, quando smettiamo anche di immaginarle, tutto diventa un flusso di coscienza, uno sfogo limpido, comprensibile.

Sembra di entrare nella testa di chi a vent’anni ha già vissuto tutte le vite possibili, quelle accessibili per nascita e status. Sì perché una cosa dobbiamo metterla in chiaro, subito: la Napoli che ci mostra Michele Santoro non potrà mai essere diversa da se stessa, non potrà mai cambiare. I figli di quella Napoli hanno il destino già deciso, segnato. Le varianti sono naturalmente contemplate, ma resta lo specchio di un luogo in cui non esiste mobilità sociale, se vuoi diventare qualcosa di diverso devi andar via, emigrare, lontano più che puoi.

Se resti qui sei marchiato a vita, dal tuo nome e dal quartiere in cui sei nato. Tu non sei solo tu, tu sei la tua famiglia. Inutile girarci troppo intorno: se sei figlio del popolo resti popolo. Se vuoi soldi e potere, se vuoi una vita diversa dagli stenti e dai sacrifici dei tuoi genitori o impari a sparare, a farti notare per entrare nella paranza del tuo quartiere, o non hai speranza. Tu sei il tuo quartiere e lo devi difendere, proteggere, a tutti i costi.
Ma cosa significa esattamente difendere il quartiere? Significa difendere l’unica possibilità di lavoro, l’unica possibilità di fare soldi, significa pensare al proprio futuro. E se vi diranno: «Falso: con la buona volontà possono farcela», rispondete che non si tratta di buona o cattiva volontà, che non si tratta di riuscire o meno a superare un esame all’università, ma si tratta di non poter nemmeno contemplare l’università nel proprio orizzonte di vita.
Facciamo attenzione alle attitudini pietistiche e borghesi, o peggio inconsapevolmente aristocratiche di chi in fondo continua a campare ai piani alti dei palazzi nobiliari del centro storico non vedendo chi vive nei bassi. Possono farcela, possono migliorare le loro vite, basta che studino, basta che lo vogliano. Tutto molto bello, ma per desiderare e volere una cosa bisogna conoscerla. Sembra cinismo eppure è realismo: a Napoli, nei quartieri più difficili, non ci sono alternative alla strada. Nessuno offre alternative alla strada.
Emanuele Sibillo è diventato un’icona a Forcella: i protagonisti di Robinù parlano di lui come di un padrino amorevole che di tutti si prendeva cura. Portano il suo stesso taglio di capelli per omaggiarlo e la stessa barba lunga. Trattano la sua memoria come quella di un prete passato a miglior vita, in odore di santità. Parlano di lui come 40 anni fa parlavano di Padre Pio nel Beneventano: tutti giuravano di averlo conosciuto, di essere stati anche solo per una volta e anche solo per un momento oggetto della sua attenzione.
Con Emanuele Sibillo a Forcella accade esattamente la stessa cosa. Curriculum criminale eccellente: i Sibillo sono alleati dei Giuliano jr, la terza generazione dei capi di Forcella, con i Brunetti e con il gruppo Amirante. Nemici dei Mazzarella cui contendono il predominio sul centro storico: Tribunali, Forcella e la Maddalena. Emanuele Sibillo è stato ucciso a 19 anni. La morte lo ha reso eterno, non solo, ha ricompattato un quartiere che solo nominalmente è nella seconda municipalità di Napoli e che solo nominalmente riconosce come autorità cittadina quella del sindaco, ma che in realtà aveva un solo padrone, un solo mentore, una sola guida, nella cui memoria continua a vivere e a sognare un destino di emancipazione: Emanuele, appunto. Sì, ma di quale emancipazione si tratta?
Uscire dal ghetto non se ne parla proprio, renderlo piuttosto meno angusto, estenderne i confini. Avere la possibilità di spendere soldi, di spenderne di più. Controllare droga, estorsioni, prostituzione. Ed ecco dunque, se siete alla ricerca di una sostanziale differenza tra la vecchia e la nuova camorra, tra i consorzi criminali che conosciamo e le nuove paranze di ragazzini, la leggete proprio nel rapporto con il denaro. Non sono più spietati oggi. Non uccidono con più sangue freddo. Sono più folli, ma questo dipende dalla giovane età e da quella ferinità, dalla mancanza di limiti e di paura tipica dell’adolescenza.
Hanno invece un rapporto con il denaro che è adolescenziale: possederne per spenderlo, per ostentare. Non esistono progetti imprenditoriali, non esiste nulla che non sia il qui e ora. E questo rende le nuove paranze disordinate, evanescenti, fungine. Proprio come i pesci di paranza cadono nelle reti a decine e come i funghi a decine di nuovo sbucano. Invadono le vie della città, quelle centrali e quelle periferiche, imbracciano armi, sparano, spaventano, feriscono, uccidono. Sono per questo temuti e amati. Non hanno paura di niente e chi supera il limite, comanda. Se esagera viene fatto fuori.
E poi c’è lui: Michele Mazio. Lui che la prima rapina la fa a 13 anni («Più per scherzare»), lui che scrive una lettera nella quale dice di voler comandare solo lui, di volersi fare una paranza tutta sua. Lui che la chiamata dalla paranza l’aveva avuta, era stato accettato, era all’altezza, poteva entrare e invece l’ha rifiutata. Cane sciolto voleva restare. Lui che è bello e carismatico, lui che è folle e violento, lui che spara contro i poliziotti, bacia la pistola e poi va a festeggiare in un bar a cornetti e champagne. Lui che in carcere riceve lettere d’amore, da sconosciute.
E poi c’è Mariano, il primo volto che appare: «Oggigiorno comanda chi fa più reati. Più macelli fai, più la gente tiene paura di te». Mariano che dal carcere minorile di Airola, racconta come se tutto fosse necessario, la sua scelta criminale, la sua passione per il kalash (il kalashnikov). E proprio dal carcere di Airola, lunedì scorso è arrivato un segnale fortissimo dai clan: una rivolta iniziata per futili motivi è diventata l’occasione per mostrare chi comanda, di cosa si è capaci. Del limite che si deve e si può superare ogni volta. Si tratta di detenuti maggiorenni che hanno coinvolto i più giovani. Detenuti che potevano finire di scontare la propria pena ad Airola e che invece si sono voluti guadagnare il carcere “dei grandi”.
Il racconto di Michele Santoro è il racconto dei Robinù di Napoli, di chi pur agendo contro la legge, è protetto dal suo quartiere, dalla comunità in cui vive e su cui comanda; una comunità che solo in quel percorso si riconosce. Le paranze rubano per dare a loro. I miserabili solo loro che diventano piccola borghesia violenta in una terra (Napoli, Italia, Europa...) dove per guadagnare davvero devi sparare e giocarti la vita. Guadagnare al prezzo di crepare.
Il flusso di coscienza che ha letteralmente assorbito i protagonisti racconta un mondo che vede solo se stesso e per il quale solo incidentalmente noi esistiamo. Un mondo che non può non essere raccontato, ma che quando la si racconta piovono le accuse: Napoli diffamata, Napoli maltrattata, Napoli denigrata. Napoli raccontata a tinte fosche quando invece è sempre piena di sole. Napoli dove ci vive gente per bene e anche le loro vite vanno raccontate. Come far capire che le vite di chi si alza, fa colazione, accompagna i figli a scuola e va al lavoro, di chi fa la spesa, paga le bollette, porta i figli a calcetto, va in palestra, fa magari volontariato, non può essere materia di questo racconto? Come è possibile non capire che si raccontano le ferite e le malattie, non la salute e la prosperità?
Le voci delle donne raccontate da Santoro le ho lette nelle ordinanze di custodia cautelare, nelle trascrizioni delle intercettazioni telefoniche e ambientali:sono loro. Per conoscere Napoli non basta poter raccontare di aver sentito chiaramente lo sparo che ha ammazzato l’ultima vittima di Forcella o di essere passato un attimo dopo il raid davanti al bar dove c’è stata la sparatoria. Per raccontare Napoli bisogna trovare ogni volta una ferita, infilarci l’occhio, indagarla, slabbrarla, farla sanguinare. Per raccontare Napoli non servono le voci degli affiliati e poi, subito dopo, quelle delle forze dell’ordine che ci diano versioni uguali e contrarie che con il bene neutralizzino il male.
Per raccontare Napoli bisogna ascoltare il racconto della ragazza madre agli arresti domiciliari diventata spacciatrice per necessità. Per 35 euro al giorno. «Spacciatrici si nasce», dice e lei non è nata spacciatrice, lei lo fa per mantenere suo figlio. Questo racconto diffama Napoli? Esporta di Napoli e dell’Italia un’immagine che corrisponde solo in parte a verità? Vero, e allora cosa suggerite? Il silenzio? Il velo pietoso?
Il racconto di Santoro è il racconto della fine ed è una testimonianza che aderisce perfettamente alla realtà. È un racconto che aiuta a prendere coscienza. Vediamo Robinù, e poi quando ci diranno che il problema di Napoli è che ha la periferia, con tutte le sue criticità e contraddizioni, nel centro storico - intendendo dire che il centro storico a causa della presenza criminale non può essere il salotto buono della città - risponderemo che non ci interessano i salotti buoni, che non ci interessa il decoro urbano come prova di tufo e piperno del buon funzionamento di una città in cui non funziona niente. Diremo che a noi interessa la verità, che continueremo a cercarla, a raccontarla, ad ascoltarla.

Si delinea il fronte degli operatori economici, artigiani ed albergatori, e di associazioni di cittadini che chiedono un freno all'invasione turistica. Non decolla il dibattito su quale Venezia, diversa da quella turistica, si vuole realizzare. La Nuova Venezia, 7 settembre 2016 (m.p.r.)

Una città stravolta e violentata. Risultato di errori del passato e di tante decisioni della politica e della Regione «contrarie agli interessi reali della città». Sul tema dell’emergenza turistica intervengono gli artigiani. Categoria tra le più penalizzate dall'invasione e dalla trasformazione della città storica. Botteghe tradizionali che chiudono una dopo l'altra. Fabbri e falegnami che lasciano il posto ai fast-food e alle gelaterie. Sapienze antiche travolte dalla paccottiglia e dal made in China.
Al turismo di massa non interessa l’artigianato di qualità. Così negli ultimi decenni il numero delle imprese artigiane di Venezia si è più che dimezzato: dalle 2500 aziende si è scesi a poco più di mille. Hanno chiuso per i costi e gli affitti troppo alti, la mancanza di incentivi e il calo di clienti oltre mille attività artigiane. Quelle destinate ai residenti sono passate dall’83 per cento del totale a meno del 50 per cento. Il turismo ha travolto tutto. Trasformando case in affittacamere, laboratori in bar e negozi per i turisti.
«Abbiamo passato quest'estate con il refrain del decoro», attacca Gianni De Checchi, da molti anni segretario della Confartigianato veneziano, «ma si corre il rischio che questo sia il dito che tutti guardano, non certo la luna. Molto più drammatica e difficile da affrontare dopo decenni di inattività». «Giunti a questo punto», dice De Checchi, «uno che fa la pipì in canale non è importante quanto lo stravolgimento sociale ed economico, ormai inarrestabile. I cestini, le panchine, la pulizia e i gabinetti sono problemi reali. Ma piccola cosa rispetto allo svilimento di una città dove sono saltate le proporzioni e dove è venuta a mancare la base minima di anticorpi data dai cittadini residenti, come succede nelle altre città».
L’accelerazione è diventata forte negli ultimi dieci anni, senza che la politica facesse nulla. Di ticket, numero, chiuso, terminal, flussi turistici, prenotazioni obbligatorie si parla da tempo. Ma nessun provvedimento è stato preso. «Bene che il sindaco Brugnaro abbia capito adesso che la situazione di Venezia è di assoluta gravità», continua De Checchi. «Venezia forse politicamente conta meno di Mestre, ci sono meno voti. Ma è sotto i riflettori del mondo». La Confartigianato si dice disposta a dare il suo contributo al tentativo di risolvere il «dramma che sta vivendo la città».
Che fare? «Prima di tutto limitare in qualche modo gli accessi», dice De Checchi, «ma contemporaneamente attivare politiche attive per riportare cittadini e giovani in questa città, con la ripresa di una politica della casa degna di questo nome». Tra le varie proposte anche il “San Marco pass”, accessi limitati nell’area marciana. Ipotesi che al sindaco non dispiace. «Ma è una soluzione parziale, che va valutata bene», frena il segretario della Cgia, «si rischia di fotocopiare i danni dell’amministrazione precedente, che ha voluto togliere traffico da Rialto e ha intasato tutti i rii circostanti. Non vorremmo che le masse di chi ciondola in giro si concentrassero ancora di più nelle aree vicine a San Marco, rendendole ancora più intasate».
Infine l’appello: «Il sindaco e la giunta dovrebbero dedicare l’80% del loro sforzo amministrativo alla soluzione di questo problema. Con annunci e depliant non si risolve nulla. Bisogna fare qualcosa, meno polemiche e più fatti concreti». E una punturina alle altre categorie della città: «Adesso tutti dicono che bisogna superare le lobby, lo dicono anche le principali lobby di Venezia. Dunque, problemi non ce ne dovrebbero essere più».

«Interessi pubblici e poteri forti. Le Olimpiadi e lo stadio grandi occasioni? Non ci sono ancora le condizioni per piegare questi eventi a favore della città». il manifesto, 6 settembre 2016

Partiamo da un dato incontestabile: Roma è una città (pressoché) ingovernabile. Una governabilità apparente è possibile solo venendo a patti con i poteri forti: immobiliaristi, faccendieri, lobbies di vario tipo; ed è quello che ha sempre fatto il Pd, da Rutelli a Veltroni.

Questa apparente governabilità ha però un prezzo esoso: è costata un debito enorme, una espansione delle periferie ben oltre il raccordo anulare, un deficit accumulato dalle partecipate (Atac, Ama, ecc.). In una parola: una inefficienza della macchina urbana a livello di trasporti, raccolta dei rifiuti, asili nido, assistenza sanitaria, eccetera.

Chi invece, al governo della città, decidesse di rompere l’accordo con i poteri forti, o anche semplicemente stabilisse che quell’accordo dovrebbe volgere al beneficio pubblico e non a quello privato, si troverebbe ben presto in una situazione di totale isolamento politico ed economico; dunque in una situazione di ingovernabilità. Prima ce ne rendiamo conto, meglio è.

Stessa musica vale per le Olimpiadi e per il nuovo stadio della Roma. I sostenitori di questi eventi affermano che sarebbero due grandi occasioni per la città. Che consentirebbero di realizzare opere che migliorerebbero le condizioni di degrado in cui versa la città. In teoria potrebbe essere vero se però l’amministrazione, quale che sia, avesse la forza di imporre le sue condizioni ai poteri forti i quali, come si sa, sono disponibili a qualsiasi accordo (farebbero anche le olimpiadi verdi o low cost, come affermato da Cacciari) e con qualsiasi amministrazione. Dunque il vero dilemma è lo scontro tra interessi pubblici e interessi privati, scontro che si è sempre risolto, a Roma (salvo rare eccezioni), a favore dei secondi con enormi vantaggi a favore dei poteri forti ed effimeri benefici per la città.

Si dice ancora che ai tempi d’oggi e con il patto di stabilità, senza l’intervento dei privati non si va da nessuna parte. Ma si tace sugli effetti nefasti che, ogni volta, l’intervento dei privati ha prodotto. Lo abbiamo visto col terremoto di Amatrice: pazienza (per modo di dire) se sono venute giù case private che non rispondevano affatto alle normative antisismiche, ma che dire delle chiese, degli ospedali, delle scuole la cui progettazione e realizzazione è stata affidata ai privati, costruttori e immobiliaristi?

Costoro non si sono limitati ai “giusti” profitti: hanno compromesso territori e paesi speculando su cemento, ferro, suolo e quant’altro. Allora dire che questa volta le Olimpiadi saranno a beneficio della città significa non dire nulla di nuovo, vacuo slogan, propaganda; anzi significa imbrogliare le persone se l’amministrazione di turno non è capace di imporre le proprie condizioni a favore del pubblico. E opporsi a tali opere significa cadere nella trappola della ingovernabilità, avendo contro tutti i poteri forti.

Tertium non datur? No, finché non ci sarà una strategia politica che guardi lontano, ben oltre i conflitti condominiali dentro i partiti o i movimenti che siano. No, finché si produrranno dirigenti politici legati a correnti interne, fazioni, e non provenienti dal territorio, eletti in rappresentanza del territorio. E in questo senso il Pd di Renzi ha da tempo interrotto il rapporto con i territori che costituiva il punto di forza del vecchio Pci. E’ un partito della cooptazione che ruota intorno all’immagine del Capo.

Il Movimento dei 5S, dal canto suo, un legame coi territori ce l’ha, ma ha sopravvalutato se stesso e sottovalutato l’enorme potenza di fuoco dei poteri forti; ovvero, non mostra di avere una strategia politica che gli consenta di perseguire obiettivi a lungo termine e incapperà continuamente contro le insidie e le trappole predisposte dai poteri forti. A meno di non venire a patto con essi, il che, però, significherebbe depotenziare totalmente la propria originaria carica antagonista (antipolitica o meno che sia).

La verifica non si farà attendere: la questione romana è questione nazionale. Se il M5S deciderà per le Olimpiadi e per lo stadio della Roma (pur incensandolo di coloriture ecologiche o quant’altro), allora sarà stabilito definitivamente che a Roma governano i poteri forti e prevalgono gli interessi privati, senza se e senza ma. Rimandare la candidatura di Roma oltre il 2024, questa volta non significherebbe dare ragione al partito del No; significherebbe più semplicemente che allo stato attuale non ci sono ancora le condizioni per piegare questi eventi a favore dell’interesse pubblico. E chiunque affermi il contrario o pecca di ingenuità o nasconde interessi che poco hanno a che vedere col bene pubblico e con le stesse competizioni sportive.

Le due più importanti questioni urbanistiche all’attenzione della giunta capitolina riguardano le Olimpiadi del 2024 e il nuovo stadio della Roma a Tor di Valle. Su entrambe non è chiara ... (segue)

Le due più importanti questioni urbanistiche all’attenzione della giunta capitolina riguardano le Olimpiadi del 2024 e il nuovo stadio della Roma a Tor di Valle. Su entrambe non è chiara la posizione di Virginia Raggi e della sua giunta. Il problema delle Olimpiadi è noto ai lettori di eddyburg, basta rileggere i recenti articoli di Salvatore Settis e Tomaso Montanari e di Giovanni Caudo con postilla del direttore. Meno nota è la vicenda dello stadio, un clamoroso esempio di urbanistica contrattata, cioè di una trasformazione dell’assetto urbano, di rilevante impatto e in contrasto con il piano regolatore, proposta da un privato e accettata (o subita) dall’amministrazione comunale.

All’origine c’è la cosiddetta legge sugli stadi, che però non è una legge ma sono tre commi della legge di stabilità del 2014 (147/2013, cc 303, 304 e 305) inseriti all’ultimo momento, dopo un percorso lungo e controverso, grazie al tradizionale maxiemendamento governativo (governo Letta) e quindi approvata con voto di fiducia. Il comma 303 tratta di questioni finanziarie, il 304 prevede che il soggetto interessato, d’intesa con una o più società sportive, presenti un progetto preliminare che “non può prevedere altri tipi d’intervento, salvo quelli funzionali alla fruibilità dell’impianto e al raggiungimento del complessivo equilibrio economico-finanziario dell’iniziativa e concorrenti alla valorizzazione del territorio in termini sociali, occupazionali ed economici e comunque con esclusione della realizzazione di nuovi complessi di edilizia residenziale”. Il Comune, se d’accordo, dichiara “il pubblico interesse della proposta”. L’approvazione definitiva spetta alla Regione Lazio a seguito di un’apposita conferenza dei servizi. Il comma 305 auspica che gli interventi siano realizzati mediante recupero di impianti esistenti o in aree già edificate.

Nel marzo 2014, tre mesi dopo l’approvazione della legge di stabilità, il presidente della Roma James Pallotta presenta il progetto del nuovo stadio a Tor di Valle, un’ansa del Tevere a Ovest dell’Eur, al posto dell’ippodromo costruito nel 1959 e dismesso nel 2013 proprio per la costruzione dello stadio. L’intervento dovrebbe essere realizzato dalla società Eurnova di proprietà dell’imprenditore Luca Parnasi proprietario anche dell’ex ippodromo. Su circa 90 ettari, che il piano regolatore destina a verde sportivo attrezzato (con un’edificabilità di circa 350 mila metri cubi), il progetto prevede due complessi immobiliari: quello destinato allo stadio (fino a 60 mila posti), impianti sportivi, spazi pubblici e attrezzature per il tempo libero; e quello formato da tre grattacieli alti fino a più di 200 metri e altri edifici destinati ad attività direzionali, ricettive e commerciali (non residenze, che la legge non permette).

Nell’insieme, circa un milione di metri cubi, pari a dieci hilton, l’unità di misura della speculazione edilizia inventata sessant’anni fa da Antonio Cederna quando denunciava lo scandalo dei 100 mila metri cubi del famigerato hotel Hilton realizzato a Monte Mario dalla Società generale immobiliare. Del milione di mc, quelli destinati allo stadio e ad attività connesse ammontano a circa il 20 per cento, il resto corrisponde agli interventi – privi di rapporto funzionale con lo stadio – previsti dal comma 304 per compensare il costo delle opere infrastrutturali necessarie per la fruibilità dell’impianto sportivo (che è comunque un’opera privata). Insomma, che vi piaccia o non vi piaccia, con il pretesto dello stadio si aggiunge alla capitale un nuovo centro direzionale, non lontano dall’Eur, per iniziativa di un privato costruttore. Tra l’altro, senza che nessuno abbia spiegato che fine fanno lo stadio Olimpico e il vecchio stadio Flaminio ormai abbandonato. Per non dire della difficoltà a negare lo stesso trattamento a un eventuale richiesta di altri costruttori apparentati alla squadra della Lazio o ad altre società sportive.

Riguardo all’accessibilità, accanto a interventi di riorganizzazione e potenziamento della rete stradale e a vaste superfici a parcheggio, il progetto prevede una diramazione della metro B dalla stazione Eur Magliana alla nuova stazione di Tor di Valle. Una soluzione improvvisata, non giustificata da un’adeguata pianificazione e con difficoltà tecniche che ne rendono improbabile la realizzazione. Previsto anche il potenziamento della ferrovia Roma Lido, di competenza regionale, che già dispone di una fermata a Tor di Valle.

Il 22 dicembre 2014 l’assemblea capitolina, con il voto favorevole della maggioranza che sostiene il sindaco Marino, delibera l’interesse pubblico dell’intervento - subordinatamente al rispetto di un certo numero di condizioni - fra le proteste del M5S, del comitato Salviamo Tor di Valle dal cemento e di altri. I mesi successivi sono quelli della crisi dell’amministrazione Marino brutalmente troncata dal Pd nel novembre 2015.

La campagna elettorale per l’elezione del sindaco nel giugno 2016 vede a favore del nuovo stadio il candidato sindaco Pd Roberto Giachetti e Alfio Marchini (Forza Italia). La candidata di Fratelli d’Italia e Nuovo centro destra Giorgia Meloni si rimette alle decisioni della Regione mentre sono contrari Stefano Fassina (Sinistra per Roma) e Virginia Raggi (M5S) che pensa di ritirare la delibera sul pubblico interesse dello stadio a Tor di Valle.

Ed eccoci ai giorni nostri. Nel giugno scorso Pallotta consegna a Comune e Regione il progetto definitivo. Ma la sindaca Raggi, invece di revocare come ci si aspettava la deliberazione di pubblico interesse, concorda con la Regione l’avvio della conferenza dei servizi, rischiando di restare intrappolata in un percorso imprevedibile. Chi scrive queste righe sperava che il conclamato impegno per la trasparenza del M5S somigliasse al precetto evangelico “il vostro parlare sia sì sì no no, il di più viene dal maligno”, e fosse così per le Olimpiadi, il nuovo stadio della Roma, gli avvisi di garanzia. Ma non è così.

». La Repubblica, 5 settembre 2016 (c.m.c.)

La forbice è ampia. Va dai 23 milioni 633 mila euro per la Scala ai 5 euro per il Real Albergo dei Poveri a Napoli. Sono le punte estreme del mecenatismo italiano, stando a uno degli indicatori, l’Art bonus voluto dal ministro Dario Franceschini, con i quali si misura la generosità peninsulare verso il patrimonio storico- artistico e le attività culturali.

È un mondo variegato, si presume vasto e polverizzato, ma ancora poco conosciuto, sebbene tutti lo diano in crescita, con cifre frammentarie, dove compaiono fondazioni bancarie, gruppi industriali e finanziari e poi professionisti, nobildonne e nobiluomini, fino a giungere al napoletano che, letta la richiesta del Comune di recuperare 3 milioni e mezzo per restaurare il capolavoro settecentesco di Ferdinando Fuga, ha scucito i 5 euro restando, a tutt’oggi, l’unico sottoscrittore della raccolta fondi.

Raccolta fondi che con l’Art bonus (deduzione fiscale fino al 65 per cento) ha cumulato 115 milioni versati da 3180 donatori. Il 45 per cento dei soldi è destinato a fondazioni lirico-sinfoniche, il 20 ai Comuni, il resto al patrimonio gestito dal Mibact o da concessionari. In assoluto un risultato accolto con favore: prima dell’entrata in vigore della nuova norma due anni fa, le donazioni si attestavano poco sopra i 20 milioni (diversamente regolate sono le sponsorizzazioni, che prevedono un contratto e un ritorno pubblicitario). «Il 60 per cento dei donatori sono persone fisiche », osserva Carolina Botti, direttore centrale di Ales, società del ministero per i Beni culturali che coordina l’Art bonus, «il resto sono imprese e fondazioni bancarie. A richiedere finanziamenti privati sono in prevalenza i Comuni».

Il mecenatismo diffuso non è una novità, ma caratterizza questi anni di penuria. Ne è afflitta l’Italia, ma non solo. «Il Metropolitan di New York ha licenziato il 5 per cento dei curator», ricorda Patrizia Asproni, presidente della fondazione Torino Musei e di Confculture, «in Gran Bretagna hanno chiuso 44 musei e 28 biblioteche ». In controtendenza vanno diversi privati, che prediligono un lussuoso fai-da-te. «In quattro anni hanno dato vita in Europa e negli Stati uniti a 100 musei», segnala Guido Guerzoni, professore alla Bocconi, «e anche in Italia grandi marchi come Prada o Trussardi s’impegnano sull’arte contemporanea».

Al primo posto fra chi riceve con l’Art bonus c’è la Scala, che ha chiesto 250 milioni ottenendone 23, seguita dal Museo Egizio di Torino, che ha programmato una spesa di 15 milioni coperta integralmente dalle donazioni. L’Art Bonus funziona così: un Comune o un ente di gestione pubblica sul sito un progetto di restauro o anche un piano di gestione e si mette in attesa. Molti sono però i progetti che attendono invano. Il Palazzo Te di Mantova dall’ottobre del 2015 aspetta qualche contributo a fronte di 800mila euro chiesti per il restauro di una facciata. Al momento non si è fatto avanti nessuno.

Il Museo Nazionale Archeologico di Ruvo di Puglia invoca invano donazioni per coprire una spesa di 17 mila euro, e il Comune di Napoli (di nuovo) spera di trovare chi lo aiuti a restaurare la guglia dell’Immacolata davanti a Santa Chiara, costo 1 milione e mezzo, ma finora deve accontentarsi di 50 euro. L’Art bonus, senza portarne responsabilità, fotografa il divario fra centro-nord e sud. La Lombardia propone 55 progetti e riceve contributi per 33 di essi. Il Molise ha due proposte e zero contributi, la Campania 29 richieste, 9 delle quali con scarse offerte. Così Basilicata (1 e 0), Calabria (7 e 1) e Sicilia (10 e 3).

Le stesse, vistose differenze caratterizzano la fonte più cospicua del mecenatismo italiano, quella delle fondazioni bancarie. Sono stati 280 nel 2015 i milioni provenienti da esse per musei, scavi archeologici e poi mostre e festival letterari, il 30 per cento degli oltre 900 milioni elargiti in totale (ma erano 531 nel 2008 su complessivi 1 miliardo 670 milioni). Ebbene questa pioggia di soldi benefica il Nord per il 70 per cento, il centro per il 22, il sud per il 6. Ma d’altronde imprese, banche e fondazioni risiedono in maggior numero sopra il Garigliano, a dispetto di un patrimonio distribuito su tutto il territorio nazionale. Un’altra realtà è quella degli Amici dei Musei, dagli Uffizi a Brera, passando per Capodimonte.

Sono associazioni no profit. Raccolgono contributi per restauri o acquisizioni. Ma più che finanziario, il loro mecenatismo è stato definito adozionale in un’indagine dell’università Federico II di Napoli e del centro studi Silvia Santagata-Ebla. Le 1.200 associazioni censite in Italia (su oltre 4.500 musei) promuovono visite, attività didattiche, supportano pubblicazioni e mostre. Cercano di stringere solidi legami fra un museo e il territorio che lo ospita. Le loro attività sono volontarie, sopperiscono ai pochi fondi pubblici in un settore che però fa uso massiccio e spesso mortificante di lavoro precario.

Il sistema è molto sviluppato in altri paesi. Gli Amici del Louvre sono nati a fine Ottocento e oggi contano 60mila iscritti . Grazie a loro sono state acquistate oltre 700 opere che hanno arricchito la collezione. Più recente (1968) è la nascita dei British Museum Friends, che coinvolgono 50mila persone. In Italia queste associazioni sono in gran parte, di nuovo, al centro-nord e in esse militano pochi giovani (appena l’11 per cento è sotto i 35 anni), mentre negli ultimi tempi è in questa fascia che crescono i visitatori dei musei. Maria Vittoria Colonna Rimbotti presiede gli Amici degli Uffizi.

Molte sono le acquisizioni dovute al loro contributo o anche i restauri, compreso quello dell’Adorazione dei magi di Leonardo. Finora le erogazioni raccolte si aggirano sui 5 milioni, serviti per riallestire sale o per rinnovare tendaggi. «Ci siamo sempre attenuti alle esigenze del museo, senza protagonismi», dice. L’Art bonus, che consente finanziamenti diretti ai musei, mette però in secondo piano la raccolta fondi. «Il provvedimento è utile, ma soprattutto interessante per i grandi gruppi industriali e ancora non va incontro ai donatori di più modeste possibilità», insiste Colonna Rimbotti.

D’accordo con lei è Asproni: «Non è stato un successo: per una donazione dovrebbe bastare un sms». E le stesse critiche avanza da Napoli Errico Di Lorenzo, presidente degli Amici di Capodimonte: «Qui i donatori sono pochissimi, occorrerebbe defiscalizzare le elargizioni verso associazioni come le nostre».

«Quando la megalopoli sta in uno smartphone. Con una spesa di 40mila dollari hanno ridotto il traffico del sedici per cento in due anni». Continuano a proporre aspirine quando occorrono amputazioni, o maquillages quando servono pesanti ristrutturazioni. La Repubblica, 4 settembre 2016

Siede in un ufficio spoglio ai piani alti del City Hall, il municipio di Los Angeles. Di futuribile ha poco questo palazzo bianco del 1928, con al centro una torre che vorrebbe ricordare il mausoleo di Alicarnasso. Pesanti ascensori in legno con pulsantiere in ottone consumato, corridoi polverosi, vecchie scrivanie in ferro. E un primato in altezza, i suoi 138 metri, che gli fu rubato negli anni Sessanta.

Eppure per guardare il nuovo volto della città bisogna venire qui e parlare con Peter Marx. Cresciuto nel quartiere Parioli di Roma, il padre lavorava a Cinecittà, lo avevamo incontrato due anni fa quando era appena stato nominato chief technology officer della città di Los Angeles dal sindaco democratico Eric Garcetti. Carica propria di aziende private e non certo di un ente territoriale.

Lui è stato fra i primi. Subito dopo altre metropoli hanno iniziato a fare la stessa cosa, da Amsterdam a New York. Marx ha subito sposato la causa degli open data e messo online tutto quel che di digitale raccoglievano i vari dipartimenti. Oltre alla coordinazione fra i diversi uffici, da quel momento per i vigili del fuoco è stato molto più semplice sapere dove stavano intervenendo quelli del dipartimento dell’energia elettrica, la speranza era che qualcuno avrebbe usato le informazioni per creare servizi. Qualcuno proveniente dal privato.

«Cosa è successo da allora? Che abbiamo speso appena quarantamila dollari», esordisce lui. «Quello che ricordo di Roma è il traffico. Ed è la stessa cosa che si potrebbe dire di Los Angeles. Ma quando vivevo a Roma, da piccolo, non esistevano gli smartphone. Le faccio un esempio: qui Waze è usata da due milioni di persone su quattro milioni di abitanti.

Lo schermo del telefono è la nuova interfaccia della metropoli. Il sistema di trasporto è computerizzato, gli autobus hanno il gps e della metropolitana sappiamo esattamente dove si trova in tempo reale. Sappiamo anche dove ci sono lavori in corso, dove sta intervenendo la polizia, dove c’è una perdita nella rete idrica. Ma la segnaletica tradizionale è statica, immobile. Ogni eccezione all’ordinario richiede che venga portata quella mobile. Ed è inefficace: non avvisa chi sta partendo da casa che in un certo tratto ci sarà un rallentamento. Ci sono solo i semafori che cambiano colore. Quel che abbiamo fatto è stato dare a chi realizza le app ogni tipo di informazione: quali strade sono bloccate e quali hanno lavori in corso, orari delle scuole, percorrenza dei bus, tempi della metropolitana e dei treni».

Di fatto una nuova forma di segnaletica, personalizzabile e dinamica che arriva ai cittadini sull’unico apparecchio hi-tech che hanno di sicuro, lo smartphone, e che permette di ridurre i tempi di percorrenza dal 15 al 40 per cento secondo i casi. E di conseguenza anche l’inquinamento. Marx per certi versi è stato fortunato, per questo ha speso così poco. Los Angeles dal 1984, quando accolse i giochi olimpici, ha un sistema di gestione degli incroci. Serviva a sincronizzare fra loro i semafori. Nel tempo all’Automated Traffic Surveillance and Control (Atsac) sono stati aggiunti quarantamila sensori sparsi per la città, cinquecento videocamere, quattromila cinquecento semafori. «Tutto integrato», spiega lui. «Compresa una serie di semafori dedicati ai cavalli. Già, abbiamo anche quelli in alcune aree. Del resto questo è pur sempre il West».

E non si tratta solo del traffico della automobili private. Dai porti di Los Angeles passano merci con un valore pari a circa il 40 per cento dell’economia statunitense. È un flusso enorme e costante che investe le strade, le ferrovie e la rete di magazzini. Ma il tassello più importante di Atsac, ora, sono quei due milioni di persone che grazie al loro telefono diventano dei sensori. Di qui una infrastruttura pubblica collegata a un ecosistema privato che produce informazioni accurate in tempo reale attraverso delle app. E, a loro volta, le app comunicano al comune i dati dei propri utenti in forma anonima.

«Abbiamo iniziato a usare tecnologie predittive — prosegue Marx — per avvertire in base alle informazioni raccolte nel corso di questi due anni se un certo giorno si prevedono code e dove si verificheranno». Lo fanno anche in altri campi, quello dello streaming musicale, tanto per citarne uno, dove riescono a prevedere il successo di un brano analizzando come le hit del passato si sono diffuse.

«C’è chi crede che il problema del traffico si risolva costruendo nuove strade», conclude Peter Marx, «ma è come mettersi a dieta ascoltando il proprio stomaco. Il traffico cresce in quei casi, senza contare costo e tempi per ampliare le strade. A un certo punto si tocca il limite: aumentare la capacità non risolve mai il problema di congestione di un network». Marx e Garcetti operano però in una città americana. E le multinazionali che producono app per la navigazione sono tutte americane. Compresa Waze, di Google dal 2013. In una metropoli europea un’operazione del genere richiederebbe un po’ più di cautela.

«G20. Al summit di Hangzhou Obama e Xi Jinping consegnano a Ban Ki-moon la storica ratifica sul clima. L’accordo Usa-Cina dà una spinta a Russia e Ue per ratificare Cop21 ». Il manifesto, 4 settembre 2016 (c.m.c.)

La ratifica di Stati uniti e Cina dell’Accordo di Parigi sul clima globale, alla vigilia del G20, è un segnale forte per tutto il mondo e in particolare per i Paesi più industrializzati. Perché entri in vigore legale l’Accordo firmato lo scorso dicembre a Parigi deve essere ratificato da Paesi che rappresentino almeno il 55% delle emissioni di gas serra. Finora lo avevano ratificato una ventina di Paesi che rappresentano però l’1% circa delle emissioni globali.

Cina e Usa – i primi due emettitori di gas serra del pianeta – «pesano» il 38% delle emissioni globali. La ratifica dell’Ue – che rappresenta circa il 12% delle emissioni – ha un percorso più complesso – va ratificata anche dagli Stati membri – e ci aspettiamo l’esempio sino-americano aiuti l’Ue a sveltire il processo.

Se il segnale politico è forte e dunque un messaggio positivo per la salvaguardia del clima globale, va visto come un punto di inizio – necessario per dare valore legalmente vincolante ai contenuti dell’Accordo – ma non sufficiente di per sé. Infatti, com’è noto, gli «impegni volontari» presentati a Parigi non consentono in alcun modo di raggiungere gli obiettivi fissati – mantenere l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2°C e meglio entro il 1,5°C.

L’accelerazione impressa da Cina e Usa, se da una parte può velocizzare l’entrata in vigore legale dell’accordo implica anche una seria revisione degli obiettivi di riduzione, che vanno rafforzati e non poco per tenere il pianeta sotto la soglia dei 2°C per non parlare dell’obiettivo più rigoroso del 1,5°C.

Se le emissioni globali di CO2 hanno smesso di crescere negli ultimi due anni – grazie soprattutto alla riduzione dei consumi di carbone registrata in Cina – è necessario che presto inizino a diminuire e rapidamente. Gli investimenti in fonti rinnovabili sono per fortuna cresciuti, ma non sono ancora sufficienti, secondo le stime di Greenpeace, dovrebbero quadruplicare nel prossimo decennio rispetto a oggi. Inoltre molti dei Paesi del G20 continuano a pianificare la costruzione di nuove centrali a carbone che invece vanno progressivamente chiuse.

La «grande trasformazione» energetica che è necessaria a salvare il clima globale è oggi più praticabile di quanto si creda o di quanto lo fosse anche solo fino a pochi anni fa. In questi giorni una gara d’appalto in Cile per la costruzione di una centrale da 120 MW è stata vinta con un prezzo dell’elettricità pari alla metà del costo dell’elettricità da carbone. Una cosa impensabile solo 5 anni fa e che oggi si va ripetendo in diversi Paesi.

Nel rapporto Brown to Green di Climate Transparency – preparato per valutare il comportamento dei Paesi del G20 sul clima globale – se da una parte si riconosce lo sforzo sulle rinnovabili che vede tra i Paesi con le quote maggiori Brasile, Canada, India, Sudafrica, l’Eu e l’Italia – dall’altro valuta tra i peggiori Paesi per le politiche del clima a scala nazionale proprio Italia, assieme a Giappone e Turchia, mentre dà atto alla Francia di aver condotto in porto l’Accordo di Parigi e alla Germania di aver posto il tema della decarbonizzazione nell’agenda del G7.

La serietà dell’impegno cinese è corroborata da alcuni fatti precisi avvenuti nel 2015: la produzione da eolico (31GW) e solare (15GW) è cresciuta più della domanda di elettricità, il consumo di carbone è diminuito per il terzo anno consecutivo. Inoltre, i nuovi obiettivi rinnovabili per la Cina equivalgono ad aggiungere in 5 anni elettricità verde pari all’intera produzione della Gran Bretagna.

La pochezza delle politiche in Italia la si vede nella flessione nel settore delle rinnovabili, come anche nella totale mancanza di interlocuzione del governo con il settore e le misure per bloccare l’autoconsumo da rinnovabili.

Come evidenziato dal rapporto di Greenpeace Rinnovabili nel mirino, siamo passati dai 150 mila impianti solari entrati in esercizio nel 2012 ai 722 del 2015; il settore eolico – che in uno scenario di crescita moderata potrebbe portare a oltre 60mila occupati – nel 2014 ne ha invece persi 4000. Allo stesso tempo, secondo il Fmi, i sussidi alle fossili in Italia sono in aumento.

All’indomani del referendum sulle trivelle, il presidente del consiglio ha tenuto una conferenza stampa con Eni ed Enel per riproporre cose già decise o già nei piani industriali, oltre che per annunciare gli investimenti solari di Eni. Alcune centinaia di MW solari sono una cosa in sé positiva ma che rimane del tutto marginale rispetto agli investimenti dell’azienda e che soprattutto non ne modifica la logica industriale.

Un messaggio sostanzialmente di greenwashing, peraltro fortemente sostenuto dalla campagna pubblicitaria dell’azienda petrolifera in queste settimane.In piena campagna referendaria, il presidente del consiglio ribadì sui social nella diretta #matteorisponde l’obiettivo di portare al 50% la produzione da rinnovabili di elettricità entro la legislatura. È così scandaloso chiedere se e come questo obiettivo concreto proclamato da Renzi – obiettivo in linea con la grande trasformazione necessaria per dar seguito agli Accordi di Parigi – verrà messo in pratica? Attendiamo da tempo risposta.

«L’analisi di Gherardo Ortalli, a capo dell’Istituto veneto di Scienze, Lettere ed Arti. "È mancata qualsiasi politica di programmazione, superato il limite massimo"». La Nuova Venezia, 4 settembre 2016 (m.p.r.)

Venezia. Trenta milioni di turisti l’anno, di cui i due terzi escursionisti giornalieri. Palazzi ed ex conventi che diventano alberghi, appartamenti trasformati in affittacamere e bed and breakfast, posti letto moltiplicati e diventati oltre 50 mila, come gli abitanti della città. B&B passati da pochi anni da 96 a 2727, mentre gli alberghi a quattro stelle sono diventati 116, il doppio del 2010, quelli a cinque stelle 21 (quando erano soltanto 5). Senza contare gli appartamenti affittati «in nero». Una valanga che rischia di travolgere il fragile equilibrio della città storica.

Allarmi ignorati, una tendenza che nessuno ha mai cercato di fermare o di invertire sotto la spinta degli interessi di categoria e dei guadagni facili legati al turismo di massa. Preoccupazione che adesso viene rilanciata dopo l’estate calda veneziana. Il degrado e la maleducazione dei turisti, gli allarmi finiti sui giornali di mezzo mondo. Sono solo la punta dell’iceberg di un fenomeno che minaccia la sopravvivenza di Venezia. Cifre e analisi contenute in un voluminoso dossier messo a punto dalla sezione veneziana di Italia Nostra, consegnato qualche mese fa al ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e alla sottosegretaria Ilaria Borletti Buitoni dopo un convegno organizzato all’Istituto veneto di Scienze, Lettere ed Arti.
Un quadro preoccupante dopo l’ultimatum dell’Unesco che minaccia di escludere Venezia dai siti Patrimonio dell’Umanità se non saranno presi provvedimenti nei prossimi mesi. Gherardo Ortalli, presidente dell’Istituto veneto di Scienze, Lettere ed Arti, non si stupisce.
«Da molti anni», attacca, «sappiamo bene quale sia la situazione. Esistono studi molto seri che tracciavano un quadro preciso e indicavano i limiti fisici di accoglienza di questa città».

Ad esempio? «La ricerca di Paolo Costa e Jan van der Borg alla fine degli anni Ottanta. Si fissava un limite preciso al numero dei turisti. Ventimila giornalieri, sette milioni l’anno che la città poteva sopportare senza esserne snaturata. Ma l’asticella è stata sempre alzata. Risultato, oggi siamo a 30 milioni: evidentemente il parere degli esperti e degli studiosi non interessa nessuno».

Non è un problema solo veneziano, il turismo aumenta. «Certo è un problema generale. Ma per Venezia, com’è ovvio, è molto più grave di altri. Siamo un’entità ridotta, finita, non ci possiamo espandere come gli altri». Il turismo da risorsa si sta trasformando in un problema. «La situazione è sotto gli occhi di tutti». Sono stati fatti nel passato e in tempi recenti errori che hanno portato a questo? «La prima cosa da dire è che è mancata una programmazione. La politica non è stata capace di progettare il futuro, di capire che bisognava pensare in grande, prevedere cosa sarebbe successo di lì a poco».
Leggi regionali sulle attività ricettive che equiparano Venezia alle aree in via di sviluppo non hanno aiutato. «Certamente. Ma anche le gestioni comunali non hanno messo regole. In questi ultimi anni è successo di tutto. Gli allarmi che venivano lanciati sono stati tutti ignorati». È troppo tardi per invertire la rotta? «In un recente libretto pubblicato dal Fontego ho scritto che Venezia è una città che non esiste più, un quartiere di una grande realtà. Magari è una frase un po’ dura, ma il concetto è quello. La città viene svuotata di abitanti e funzioni, i turisti sono troppi, il degrado avanza».
Una cosa da fare subito. «Il contenimento degli arrivi, il controllo dei flussi, i terminal». Anche di questo si parla da decenni. Ma non si è fatto nulla. Nemmeno i terminal alternativi, il biglietto unico e la prenotazione obbligatoria. «Certo. Ci sono oggi tanti progetti e idee che il governo non ha mai preso in considerazione. Credo si dovrebbe avviare una analisi comparata a livello scientifico. E scegliere una strada che ci consenta di intervenire. Con questo trend Venezia rischia grosso, e ormai se ne sono accorti tutti. Bisogna fare qualcosa».

«È necessariouno sforzo duplice: un grande impegno di ricostruzione nel breve periodo, la programmazione strategica della difesa del suolo, insediato e non, nel periodo medio lungo. I due aspettio sono intrecciati: ricostruire è necessario e urgente; ma deve avvenire in modo che gli accidenti non si debbano ripetere». Il manifesto, 4 settembre 2016 (p.d.)

Le prime dichiarazioni del governo circa l’urgenza, la necessità e l’importanza tanto di una rapida ricostruzione di quanto distrutto dal terremoto, «dov’era e com’era», quanto dell’avvio di un massiccio programma di risanamento del territorio, sembrano dettate – una tantum – da un minimo di razionalità economica, ecologica e sociale (si parla addirittura di partecipazione dal basso): speriamo non si tratti di annunci opportunistici.
È bene che sia chiara all’inizio l’esigenza di uno sforzo duplice: un grande impegno di ricostruzione nel breve periodo, la programmazione strategica della difesa del suolo, insediato e non, nel periodo medio lungo. I due aspetti peraltro sono intrecciati: ricostruire è certo necessario e urgente; ma deve avvenire in modo che gli accidenti non si debbano ripetere. E acquista maggiore senso se – come hanno già detto tra gli altri Guido Viale, Salvatore Settis, Piero Bevilacqua, Tomaso Montanari – si inserisce in un quadro di tutela e valorizzazione dei contesti e dei paesaggi interni, spesso abbandonati a se stessi. Di cui sorprende addirittura la capacità di attrarre turismo sociale legato alla qualità identitaria del territorio e dell’ambiente, al di là dei «ritorni estivi al paesello».

Va detto tuttavia che, a fronte dello straordinario impegno da profondere nelle ricostruzioni e nella difesa del territorio, le operazioni da fare devono caratterizzarsi, più che per «eccezionali trovate progettuali» (comode forse per il consenso politico e il richiamo mediatico suscitabili dall’eventuale presenza di archistar) per «ordinarie» operazioni di pianificazione contingenti e strategiche. Capaci di contestualizzare i modelli ricostruttivi idonei nel caso dell’Appennino marchigiano-laziale, nonché di attualizzare e risignificare i programmi di difesa, di messa in sicurezza del territorio e degli insediamenti, già contenuti in molta recente pianificazione paesaggistica e territoriale.

È bene soffermarsi brevemente su ciascuno dei momenti che costituiscono il processo di gestione dell’emergenza-ricostruzione-preservazione-valorizzazione del territorio.

1) Per quanto riguarda il primo momento, ovvero il ricovero dei senza casa da inagibilità, è positivo che si siano scartate le soluzioni – no town più che new town – tipo il berlusconiano Progetto Case per L’Aquila. E si tenti invece di andare incontro alle esigenze degli abitanti di restare il più vicino possibile alle residenze distrutte; anche come pressione per un ripristino ricostruttivo rapido. Tra le risorse utilizzabili per questo, oltre e più che sulle «casette in legno tipo Map» ai prefabbricati, ai container, si può puntare sull’utilizzo delle case integre e vuote, presenti nei quartieri e soprattutto nei comuni viciniori a quelli più colpiti.

Il processo di ricostruzione può così integrarsi con quello di valorizzazione dei nuclei urbani e dell’ambiente: anche iniziando a riusare quell’enorme monumento allo spreco costituito dall’ingente quota di case vuote. Con processi che potrebbero interessare oltre che i terremotati anche gli altri disastrati, ovvero i migranti disponibili a diventare operatori dei territori interni per azioni di tutela e valorizzazione sostenibile.

Con azioni analoghe a quelle promosse, piuttosto in sordina, per la prima accoglienza, dalle prefetture per conto dei ministeri degli Interni e delle Infrastrutture, i sindaci potrebbero chiedere ai titolari di case vuote – anche privati – la disponibilità all’utilizzo, a canone sociale provvisto dai fondi emergenziali, per il ricovero temporaneo dei senza casa. Oltre che più in generale per qualsiasi tipo di accoglienza.

A questo proposito è utile ricordare che gli edifici vuoti o sottoutilizzati ammontano secondo l’Istat a 5.550 circa in provincia di Rieti, 5.650 in quella di Teramo, 21.100 a L’Aquila, 1.970 a Terni, 2.190 nel territorio provinciale di Ascoli Piceno. Laddove gli alloggi non utilizzati da residenti sono pari nelle stesse province rispettivamente a 59.000 (Ri), 25.100 (Tr), 48.650 (Tm), 95.000 (Aq), 27.000 circa (Ap).

2) La ricostruzione delle strutture abitative, di servizi, storico-culturali, distrutte o danneggiate, sembra, per volontà corale, dover seguire il modello del ripristino urbanistico e architettonico («dov’erano, com’erano», appunto). Qui va fatta attenzione perché la medesima tipologia architettonica può perseguirsi anche con diverse, più attuali e sicure, tipologie costruttive. È importante mantenere la «coerenza interna» delle strutture portanti degli edifici: puntellare parti di essi con elementi di consolidamento parziale può rivelarsi anche un grave errore; specie allorché c’è stata attenzione relativa alla compatibilità con la consistenza strutturale. Ciò che emerge talora drammaticamente in caso di eventi sismici o idrogeologici rilevanti.

3)La prevenzione degli eventi sismici costituisce problematica fondamentale; sempre evocata al momento di catastrofi da terremoti, frane o alluvioni. Ma mai realmente perseguita. Come peraltro è quasi ovvio in questa fase caratterizzata da «una politica istituzionale assai mediatizzata» e spesso subalterna agli interessi finanziari.

Gli stessi che privilegiano i «grandi eventi» o le «grandi opere» che infatti muovono grandi flussi di capitali; e spesso vedono gli operatori pubblici impegnatissimi ad acquisire da banche o agenzie di settore quelle risorse finanziarie che non ci sono. La prevenzione nella difesa del territorio deve invece essere unitaria (difesa da tutti i rischi, in primis frane e terremoti), pianificata.

E costa molto, per prefigurare, disegnare, integrare e realizzare sistemi di piccole opere coordinate (in cui i grandi operatori finanziari si muovono a disagio e che quindi avversano). La stessa denominazione che il governo ha attribuito a questa fase operativa – «Piano Casa Italia» laddove serve un grande programma territoriale – dimostra di non, o non aver voluto, cogliere la vera essenza della tutela. Ovvio sottolineare infatti come prevenzione antisismica e idrogeologica si completano a vicenda, in un modello che tende al ripristino dei caratteri di consistenza e di resilienza ecosistemica dei territori.

La prevenzione sismica e idrogeologica e da altri rischi (es. incendi) deve essere quindi integrata, unificando le competenze oggi frammentate di Protezione Civile e ministeri delle Infrastrutture, Ambiente, Beni Culturali. Sarebbe ora di promuovere il ministero del Territorio che integri le diverse azioni gestionali e coordini le varie strategie.

Le risorse che servono sono ingenti: è corretta l’idea del programma pluriennale, anzi pluridecennale, ma basta sommare le cifre ufficiali fornite dagli stessi uffici ministeriali per capire che 1,5- 2 miliardi di euro annui, anche per 10 o 20 anni, costituiscono solo una piccola parte del necessario. Stime ufficiali del MISE per la Programmazione Regionale parlano di 65 miliardi per la sola messa in sicurezza antisismica delle attrezzature pubbliche, oltre 40 miliardi per quelle private, 55 miliardi per il riassetto idrogeologico e 15 per fronteggiare gli altri rischi: siamo circa a 180 miliardi di euro – peraltro meno delle risorse previste per le grandi opere della Legge Obiettivo.

Va bene l’idea di piano ventennale: purché la finanziaria – altro che stabilità – preveda per questo un portafoglio di almeno 10 miliardi di euro annui. È la prima, più grande e estremamente urgente, opera di cui necessita quello che era il Bel Paese.

Le ragioni che sollecitano un gruppo di intellettuali a invitare la sindaca Raggi a ritirare il SI alla decisione, promossa da un consistente gruppo d'interessi economici, di organizzare a Roma le Olimpiadi . Il Fatto Quotidiano, 3 settembre 2016

È guardandosi intorno, percorrendo le strade della Capitale dal centro all’estrema periferia che si comprende come Roma non sia in grado di ospitare nessun grande evento, portando ancora le cicatrici delle precedenti manifestazioni e le ferite stratificate di decenni di inadeguata amministrazione ordinaria. Una città che non funziona per i suoi cittadini non funziona neanche per quelli che ci vengono per turismo, per lavoro, per studio, per investire. E neanche per gli atleti, per gli staff, per i giornalisti.

In una città economicamente fallita – con un debito storico che si aggira ora sui 14 miliardi, blindato nel 2008 e spalmato fino alle prossime generazioni – con una scia di opere incompiute – basti citare la Città dello sport a Tor Vergata, con due relitti che dovevano essere finiti per i Mondiali di nuoto del 2009–o che si sono dilatate oltre ogni pessimistico pronostico di tempi e di costi – come la Metro C, che da Pantano doveva arrivare a Piazzale Clodio nel 2016 e che ancora non arriva alle mura del centro storico – è difficile avere fiducia nei cronoprogrammi e nei piani economici delle grandi opere. E soprattutto è difficile non vedere le migliaia di interventi che dovrebbero essere messi in agenda per restituire ai romani una qualità della vita degna delle altre capitali europee. Ai quali si aggiungono, dopo il tragico campanello d’allarme dei giorni scorsi, tutti gli interventi necessari per garantire la sicurezza in una città a rischio sismico.

Perché Roma è una città con uno straordinario patrimonio storico e archeologico lasciato andare in rovina perché non ci sono (o non si trovano) i fondi necessari per curarlo; è una città in cui il verde pubblico è in totale abbandono, in cui non si sfalciano più le aiuole neanche in centro, neanche in prossimità di fiori all’occhiello come il MAXXI di Zaha Hadid e l’Auditorium di Renzo Piano; è una città in cui le strade e le piazze sono cosparse di immondizie, in cui i tavolini di bar e ristoranti occupano abusivamente e impunemente lo spazio pubblico, dove le strade sono piene di buche e i marciapiedi non sono sicuri per chi ci cammina. Roma è una città con tanti quartieri in cui neanche esistono i marciapiedi. Periferie nate dalla speculazione o dall’abusivismodoveladistanzafisicadalcentrocorrispondeaun’incolmabile distanza sociale. Centinaia di migliaia di persone che bruciano una parte consistente della loro vita bloccate nel traffico o aspettando mezzi pubblici scarsi, lenti e malfunzionanti; una città con alcuni quartieri che sembrano usciti dal dopoguerra, dove non ci sono macerie ma mancano strade, fognature, elettricità.

E Mafia Capitale, l’intreccio di corruzione svelato dalle indagini giudiziarie dalla fine del 2014, non è finita. I suoi echi rimbalzano ogni giorno sulle pagine dei giornali e nelle aule giudiziarie. Le regole continuano ad essere aggirate e infrante da tanti pezzi della pubblica amministrazione, della politica, del mondo imprenditoriale, da tanti cittadini. Il degrado che si è impadronito fisicamente delle strade e di ogni spazio pubblico ha intaccato anche le comunità, la solidarietà, la dignità individuale e collettiva. L’unica risposta che ha saputo dare questa città stremata è stata il voto compatto a un soggetto politico che non ha passato e cheha promesso cambiamento. Un cambiamento anche rispetto alle Olimpiadi, dicendo chiaramente che Roma ha altre priorità da affrontare, prima di imbarcarsi in avventure dall’esito e dai vantaggi incerti.

ROMA. È una città con ferite e cicatrici profonde, che non guariranno in otto anni. Non guariranno mai, se non saranno affrontate con la serietà e la responsabilità di chi mette al primo posto le persone e l’interesse collettivo. È perfino offensivo offrire ai cittadini di Roma quello che dovrebbero avere di diritto nella forma di un modesto vantaggio collaterale da ritagliare a margine di una manifestazione sportiva.

Qualunque decisore che abbia a cuore il futuro di Roma dovrebbe sentire il dovere di portare la Capitale d’Italia a quegli standard di legalità, rispetto delle regole, vivibilità, tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale che ormai sono stati raggiunti da città con storie ben più difficili della nostra.

Propagandare le Olimpiadi del 2024 come un’occasione di riscatto per la città ricorda le tristi scenografie di cartapesta con cui a Roma, in tempi poi non così lontani, si nascondevano le miserie dei quartieri più poveri.

Hannofirmato anche: Maria Pia Guermandi, Edoardo Salzano, Paolo Maddalena, AnnaMaria Bianchi, Enzo Scandurra, Alberto Magnaghi, Giorgio Nebbia, FrancescoIndovina, Piero Bevilacqua, Carlo Cellamare, Pancho Pardi, Maria Rosano, PaoloCacciari, Giuseppe Boatti, Maria Teresa Filieri, Alfredo Antonaros, GianGiacomo Migone, Jadranka Bentini, Michela Barzi, Giovanni Losavio, PaolaBonora, Mario Baccianini.
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