Dopo le recentissime “elezioni fantasma” dei consigli metropolitani, quali sono i programmi dei nuovi amministratori della Grande Milano? Un suggerimento: il vero problema è l’hinterland. arcipelagomilano.org, anno VIII, n. 32 (m.c.g.)
AREA
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Variazione
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Variazione
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Variazione
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Variazione
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Valore
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E
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Assoluta
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%
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Assoluta
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%
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Assoluto
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DATI
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1991-2001
|
1991-2001
|
2001-2011
|
2001-2011
|
2011
|
POPOLAZIONE
|
|||||
Milano Comune
|
-113020
|
-8,25%
|
-14.088
|
-1,12%
|
1242123
|
Città Metropolitana
|
-68759
|
-2,28%
|
97841
|
3,33%
|
3038420
|
Milano Hinterland
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44261
|
2,70%
|
111929
|
6,65%
|
1796297
|
Italia
|
191969
|
0,34%
|
2463744
|
4,32%
|
59433744
|
ADDETTI TOTALI
|
|||||
Milano Comune
|
47472
|
6,24%
|
74132
|
9,17%
|
882774
|
100579
|
7,13%
|
75329
|
5,03%
|
1571898
|
|
Milano Hinterland
|
53107
|
8,19%
|
1197
|
0,17%
|
689124
|
Italia
|
1434189
|
7,98%
|
536394
|
2,76%
|
19946950
|
ADDETTI MANIFATTURIERI
|
|||||
Milano Comune
|
-55674
|
-37,66%
|
-18392
|
-23,27%
|
60640
|
Città Metropolitana
|
-103012
|
-23,63%
|
-88677
|
-28,17%
|
226110
|
Milano Hinterland
|
-47338
|
-16,43%
|
-70285
|
-29,81%
|
165470
|
Italia
|
-424283
|
-7,49%
|
-942338
|
-19,54%
|
3881249
|
ADDETTI COSTRUZIONI
|
|||||
Milano Comune
|
-1682
|
-5,60%
|
4951
|
16,44%
|
35075
|
Città Metropolitana
|
4281
|
6,28%
|
8987
|
11,97%
|
84056
|
Milano Hinterland
|
5963
|
15,62%
|
4036
|
8,98%
|
48981
|
Italia
|
202123
|
14,42%
|
43836
|
2,82%
|
1597519
|
ADDETTI SERVIZI PRIVATI
|
|||||
Milano Comune
|
87941
|
20,52%
|
85683
|
16,22%
|
614015
|
Città Metropolitana
|
171979
|
26,60%
|
138806
|
16,58%
|
976121
|
Milano Hinterland
|
84038
|
38,56%
|
53123
|
17,19%
|
362106
|
Italia
|
1314413
|
17,33%
|
1359767
|
16,75%
|
9478155
|
ADDETTI ALTRE ATTIVITA’
|
|||||
Milano Comune
|
16887
|
10,92%
|
1890
|
1,10%
|
173044
|
Città Metropolitana
|
27331
|
10,55%
|
16213
|
6,02%
|
285611
|
Milano Hinterland
|
10444
|
10,00%
|
14323
|
14,58%
|
112567
|
Italia
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341936
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10,28%
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75129
|
1,53%
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4990027
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(pubblicato su arcipelagomilano.org, anno VIII, n. 32)
«Tra Olimpiadi, scandali e impeachment, l’aumento della deforestazione passa sotto silenzio». Il Fatto Quotidiano, 15 ottobre 2016 (p.d.)
Queimada, bruciato, non è solo l’emblematico titolo di un film di Gillo Pontecorvo, è anche un’infernale parola che ricorre spesso nelle pagine dell’ultima pubblicazione dell’Ipea, l’istituto di ricerche spaziali brasiliano, il quale anche quest’anno ha pubblicato il crudele resoconto sulla devastazione dell’Amazzonia in Brasile. Il dossier dell’Ipea – realizzato grazie al monitoraggio dei satelliti Landsat americani – sono inquietanti, giacché le Queimadas, nel 2015, sono aumentate del 309,6% e hanno contribuito, assieme al disboscamento, alla distruzione di 6.207 kmq di foresta tropicale. L’aumento è pari al 24% rispetto a quello registrato l’anno precedente. Assieme agli alberi della selva pluviale, vanno in fumo anche gli accordi sul riscaldamento globale di Parigi, ratificati a settembre, anche dal neo governo Temer, il quale si è impegnato a ridurre l’emissione dei gas serra del 37% entro il 2025 e del 43% nel 2030.
Tra le ambiziose misure che dovrebbero essere adottate, ci sarebbe il recupero di 12 milioni d’ettari d’aree silvestri devastate, oltre all’azzeramento del disboscamento entro il 2030. “Se esiste ancora la foresta, è grazie agli indios. Le dighe non sono certo costruite per portare energia alla gente, ma all’agro-business, come quello di Blairo Maggi, l’ex governatore del Mato Grosso do Sul, uno dei maggiori produttori di soia al mondo. Non ricordo il numero esatto, ma nei programmi di sviluppo del governo, ci sarebbe l’intento di costruire 150 impianti idroelettrici in Amazzonia”, spiega Bruna Franchetto, antropologa italiana all’Università Federale di Rio. Agrobusiness, allevamento del bestiame, ma anche industria mineraria e infrastrutture, tra cui l’edificazione di dighe e urbanizzazione, sono i grandi demolitori dell’Amazzonia che ingloba circa il 60% del bacino amazzonico sudamericano, pari a 4,2 milioni chilometri quadrati, il 49% del territorio brasiliano.
Nell’universo amazzonico vivono più di 342 mila indios, tra cui i Guarani Kaiowá, l’etnia che soffre con il più alto numero di assassinati e suicidi in Brasile. In tanti si chiedono se il governo neoliberale di Temer manterrà fede agli accordi, dato che a Brasilia circolano proposte di legge come la Pec 215, l’emendamento alla Costituzione giunto alla Camera, con cui le potenti lobby dell’agro-business ed evangeliche anelano a trasferire dall’esecutivo al Parlamento il potere di demarcare le terre destinate agli indios.
Nela Pec 215,il governo vorrebbe inserire anche la proposta di vendere terre pubbliche agli stranieri. I latifondisti vorrebbero aumentare la produzione delle commodity agricole e l’emendamento, secondo i ricchi fazendeiros, aprirebbe il cammino all’investimento straniero in un Paese in crisi profonda. Prima dell’attuazione dell’impeachment, la presidente Rousseff ha firmato numerosi decreti destinati al riconoscimento d’aree indigene, provvedimenti, però, in parte già annullati da Temer.
Secondo Franchetto, se la Pec 215 sarà approvata, si getterebbe la Costituzione nei rifiuti: nella Carta varata nell’88 venne riconosciuto agli indios il diritto originario d’esistere prima della formazione dello Stato brasiliano.
«"Una torta da oltre 90 miliardi ma si sceglie senza serie valutazioni" Riescono a far male perfino ciò che,ci considerano - secondo una criminale strategia di rottamazione del territorio - "uno dei principali motori della crescita"». La Repubblica, 10 ottobre 2016 (c.m.c.)
Quando due anni, sette mesi e 18 giorni fa si insediò il governo Renzi, la macchina delle opere pubbliche era ridotta più o meno così: progetti portati avanti senza uno straccio di valutazione, zero risorse o quasi per interventi salva-vita come la difesa del suolo e la messa in sicurezza degli edifici, fondi europei non spesi o sprecati in una miriade di micro-interventi affidati alla cieca a Comuni e Regioni, dieci anni di attesa e più per il completamento di infrastrutture di oltre 50 milioni di euro.
Cosa si è fatto da allora per aggiustare quello che è considerato uno dei principali motori della crescita? Un fatto è certo: gli investimenti pubblici si stanno lentamente riprendendo dopo il crollo verticale degli anni scorsi e ci sono più soldi da spendere. Ma le grandi opere di collegamento come l’alta velocità ferroviaria sono ancora in gran parte prive di un serio esame preventivo e ciononostante hanno a disposizione molte più risorse delle opere salva-vita, quelle che dovrebbero prevenire alluvioni, frane, crolli di edifici e incidenti ferroviari. Le quali hanno sì più soldi di prima ma non quanto sarebbe necessario. E intanto l’Ufficio parlamentare di bilancio denuncia la assoluta incapacità dei ministeri nel valutare i progetti e l’assenza di una seria programmazione nazionale.
Mai forse come in questo momento il ruolo degli investimenti, e in particolare delle opere pubbliche, è stato così cruciale per le chance di crescita del nostro Paese. Dal loro successo o meno dipende se l’Italia resterà impantanata nella malinconica teoria degli zero virgola o riuscirà a prendere il largo superando la soglia maledetta dell’1%, sempre più simile alla porta che nel film di Bunuel “L’angelo sterminatore” gli invitati non riescono a oltrepassare alla fine della serata. Situazione surreale come surreale è la condizione in cui sono stati tenuti in tutti questi decenni gli investimenti pubblici. Eppure non c’è politico che non li abbia evocati come arma risolutiva contro la crisi. Sono diventati uno stucchevole refrain, un mantra tanto insistito quanto inascoltato. Il governo Renzi cerca ora di rimettere in moto le infrastrutture, puntando su 90 miliardi di opere prioritarie. Vediamo con quali risultati.
Le risorse: adesso ci sono
L’Italia ha vinto due battaglie con Bruxelles ottenendo da una parte la fine del patto di stabilità interno che impediva a molti Comuni di investire e dall’altra la possibilità di finanziare in deficit parte degli investimenti già decisi: avevamo chiesto per il 2016 poco più di 5 miliardi, la Ue ce ne ha riconosciuti 4,3. Non male. In più (come spiega l’Ance in un suo recentissimo studio) la legge di stabilità di quest’anno ha previsto un aumento di risorse per le infrastrutture del 10%, che le porta a 13 miliardi e mezzo. Ovviamente solo una piccola parte potrà essere spesa quest’anno. Ma l’inversione di tendenza c’è, soprattutto se pensiamo che tra il 2008 e il 2015 i soldi per le opere pubbliche sono crollati del 42,6%. Questa volta dunque i soldi ci sono. Come si stanno spendendo e con quali priorità?
Le priorità: cosa scegliere
Qualcuno ricorderà la lunghissima lista di infrastrutture che i governi precedenti avevano agganciato al carro della “legge obiettivo”, una procedura straordinaria nella quale finì letteralmente di tutto, a cominciare dalle grandi opere, quasi tutte rimaste al palo.
Un anno fa il governo Renzi sfoltì quella assurda lista annunciando anche che avrebbe spostato l’asse degli interventi sui piccoli cantieri, più facilmente realizzabili e in molti casi anche più utili dei maxi-progetti. «Focalizzarsi sulle grandi opere – spiegò il ministro Delrio - ci ha portato in 14 anni di legge-obiettivo a stanziare 285 miliardi per vederne impiegati soltanto 23, appena l’8%». «Opere utili, snelle e condivise», è lo slogan del Def 2016. Ma le grandi opere, pur dimezzate nel novero di quelle prioritarie, sono rimaste, soprattutto quelle ferroviarie di valico, prolungamento dei corridoi europei, e quelle per l’alta velocità al Sud. A queste, almeno nelle intenzioni di Renzi, si aggiungerà anche la madre di tutte le infrastrutture: il Ponte sullo Stretto.
Nello stesso tempo, però, viene data per la prima volta certezza di risorse pluriennali al riassetto idrogeologico, all’edilizia scolastica e alla manutenzione stradale e ferroviaria. Così il governo sembra voler dare una risposta a due grandi obiettivi contemporaneamente: da una parte collegare l’Italia, dall’altra metterla in sicurezza. Ma in che proporzione le risorse sono destinate all’uno e all’altro? Difficile inoltrarsi nel labirinto dei finanziamenti pubblici. Prendiamo le opere che il governo potrebbe ora accelerare: quei 5,1 miliardi poi leggermente ridimensionati da Bruxelles. La parte del leone (circa la metà) la fanno trasporti e banda ultralarga per velocizzare Internet, mentre solo il 5% va alla protezione ambientale. Se poi restringiamo il campo ai progetti effettivamente in corso (2,6 miliardi) quasi il 40% va alle reti transeuropee con dentro i famosi corridoi ferroviari.
Questo non significa che non vi siano fondi per i cantieri minori e spesso più urgenti. L’Ance calcola in 900 milioni la disponibilità 2016 per l’edilizia scolastica e in 800 quella contro il rischio idrogeologico. C’è chi fa notare però che bisognerebbe concentrarsi quasi esclusivamente sul quel tipo di infrastrutture, che potremmo chiamare “opere salva- vita”, perché rispetto alle “opere di collegamento” presentano carenze infinitamente maggiori, oltre a garantire una crescita economica più diffusa e certa.
I fabbisogni del salva-vita
Per avere un’idea di fabbisogno delle infrastrutture salva-vita, guardiamo alla difesa del suolo e alla sua lotta impari con le catastrofi. Nei primi quindici anni del nuovo millennio, abbiamo da una parte duemila alluvioni che hanno spazzato via 293 vite umane e provocato danni per 3 miliardi e mezzo di euro l’anno. Dall’altro, un impegno dello Stato per il riassetto idrogeologico che non è andato oltre i 400 milioni annui.
Insomma, i poteri pubblici hanno investito per prevenire catastrofi in gran parte prevedibili un nono dei costi provocati dalle stesse catastrofi. Ora Italiasicura, la “struttura di missione” messa in piedi nel 2014 contro il dissesto idrogeologico, ci dice che il ritmo di spesa è aumentato a oltre un miliardo l’anno, e che tra fondi europei e nazionali saranno disponibili nei prossimi 7 anni altrettanti miliardi. Ma ci dice anche che questo non basta affatto: per dare alla parola prevenzione un significato appena dignitoso ci vorrebbe almeno il doppio, da spendere per più di dieci anni consecutivi. Solo così potremmo sperare di avvicinarci al fabbisogno indicato dalle Regioni: una ventina di miliardi.
Per adesso gli unici progetti che vanno avanti sono quelli di alcune città metropolitane, a partire da Genova, devastata dalle ultime alluvioni, e da Milano. E il grosso degli interventi sarà avviato solo nel 2018. Insomma, i tempi e i finanziamenti delle opere saranno anche meno lenti di prima ma sono ancora scanditi dal trascorrere degli anni, mentre torrenti e frane non aspettano. E se rinunciassimo ad alcune grandi opere per dare più spazio alle infrastrutture salva-vita? Una domanda alla quale se ne lega un’altra: quelle grandi opere confermate dal governo sono veramente utili? Chi le ha scelte e come?
Chi valuta e chi sceglie
Il governo, oltre a selezionare le nuove grandi opere, ha rivoluzionato le regole nella valutazione degli investimenti e negli appalti. Obiettivo: più qualità e trasparenza, tempi più rapidi, scelta delle opere in base a valutazioni rigorose, le cosiddette analisi costi-benefici. «Già, tutte buone intenzioni – dice Claudio Virno, esperto in valutazioni degli investimenti e consulente dell’Ufficio parlamentare di bilancio - ma questo sembra applicarsi ai progetti futuri, non a quelli in corso per i quali pare che il governo voglia mantenere le vecchie procedure, che di rigoroso non hanno nulla».
Sotto esame finiscono importanti opere ferroviarie per l’alta velocità: il terzo valico della Milano- Genova, il tunnel del Brennero, quello del Frejus della Torino- Lione, la Napoli-Bari. «Queste ultime due in particolare – continua Virno – non supererebbero test seri: hanno chiaramente sopravvalutato la domanda, il traffico futuro». Ma del resto abbiamo avuto un ministro dei Trasporti, predecessore di Delrio, che rispose così a quelle critiche: «Per le grandi opere non serve che ci sia traffico, si fanno e poi il traffico arriverà». «L’aspetto più drammatico – rincalza Marco Ponti, che insegna economia dei trasporti al Politecnico di Milano - è la irreversibilità dei progetti: una volta che li approva il Cipe non si torna più indietro. Prima di far partire un progetto, bisognerebbe fare una gara internazionale con serie valutazioni comparative tra soluzioni diverse.
Oggi invece le analisi non vengono fatte o vengono demandate ai diretti interessati. I trucchi per far passare i progetti politicamente più gettonati sono molteplici. Pensi che c’è una leggina per cui quando un’opera è interamente finanziata dallo Stato (e le opere ferroviarie lo sono tutte) non è richiesta nessuna analisi economica o finanziaria. Ossia, se l’opera è pubblica i soldi si possono anche buttare dalla finestra. La conclusione è che ci sono una trentina di miliardi di progetti che rischiano di non essere valutati a dovere». Ma il ministero delle Infrastrutture la vede in modo diametralmente opposto: «Questa era la situazione fino ad oggi, ma ora con la nostra struttura di missione, fatta di esperti di livello internazionale, abbiamo rivisto moltissimi progetti facendo risparmiare miliardi di euro». Il problema però è che su 90 miliardi di opere prioritarie, 50 sono vincolati giuridicamente e 75 già approvati dal Cipe.
Strutture di missioni, valutatori esterni: ecco, per far funzionare una amministrazione pubblica, sembra che ci si debba per forza rivolgere a qualcuno al di fuori dei ministeri. Ma allora che ci stanno a fare le centinaia di funzionari e dirigenti? Se lo chiede l’Ufficio parlamentare di bilancio in suo recente studio. «I ministeri non dispongono di personale interno con le competenze professionali specialistiche necessarie, e lo stesso si può dire per i Nuclei di valutazione. Non c’è scambio di informazioni all’interno, non sono mai state applicate sanzioni per chi non fa il suo dovere ». In queste condizioni non c’è da stupirsi se i progetti sono fatti male e si impantanano in un crescendo di tempi e di costi.
Per non parlare del diluvio di sigle che ruotano intorno alla scelta delle opere: in ogni ministero ci sono i Nuvv (nuclei di valutazione degli investimenti), ai quali si affiancano a Palazzo Chigi il Nuvap, l’Uftp e il Nuvec che fa capo all’Agenzia per la coesione territoriale. A tutte queste sigle si chiedeva di scrivere almeno una cosa: il documento pluriennale di pianificazione, con l’analisi di tutti fabbisogni infrastrutturali. Ma questo documento è ancora fantasma, come sono fantasma le Linee guida per la valutazione. Niente paura, nel frattempo sono stati preparati i Vademecum che faranno da guida alle Linee guida.
Un percorso kafkiano che l’Ufficio bilancio chiama eufemisticamente «quadro istituzionale molto frammentato». Come frammentato è il quadro delle competenze, dove Regioni e Comuni hanno il potere di rallentare ogni opera e di aprire un contenzioso dopo l’altro portando l’Italia ai vertici mondiali dei ritardi.
Di fronte a questo affresco di deresponsabilizzazioni, si capisce come in tutti questi anni siano finiti i soldi dei progetti europei: da una parte in maxi-opere che si sono presto impantanate con costi e tempi fuori controllo, dall’altra in migliaia di micro-progetti locali che non rientrano in nessuna strategia nazionale.
L'Oong internazionale Human Rights Watch denuncia «violazioni dei diritti delle comunità danneggiate dallo sfruttamento delle miniere di carbone e di uranio». Un altro caso di sfratto forzato di persone e comunità dell'Africa , causato dalla rincorsa del micidiale "sviluppo". asud.net, 10 ottobre 2016 (p.d.)
Secondo il rapporto “They Destroyed Everything: Mining and Human Rights in Malawi”, presentato da Human Rights Watch in occasione dell’ International right to know Day, «Il governo del Malawi non ha preso le misure necessarie per proteggere i diritti e i mezzi di sussistenza delle persone che vivono nelle comunità danneggiate dai progetti di sfruttamento minerario. Le famiglie che vivono vicino a delle aree di sfruttamento minerario di carbone e di uranio si confrontano con gravi problemi riguardanti l’acqua, il cibo e l’abitazione e non ricevono nessuna informazione riguardante i rischi per la salute ed altri prodotti da questo sfruttamento».
Il rapporto “Hanno distrutto tutto” esamina in 96 pagine l’impatto delle industrie estrattive sulle comunità di alcune delle prime aree minerarie del distretto di Karonga, sulla costa nord-occidentale del Lago Malawi. Il governo di Lilongwe ha favorito gli investimenti privati nell’estrazione di minerali e risorse per diversificare l’economia del Malawi, ma Human Rights Watch ricorda che «Ogni estrazione di risorse naturali va generalmente di pari con dei rischi ambientali e l’estrazione mineraria contribuisce in maniera importante al dannoso cambiamento climatico a alla capacità dei governi di garantire i diritti alla salute, all’acqua e al cibo».
Katharina Rall, ricercatrice della divisione salute e diritti umani di Human Rights Watch, avverte: «Il Malawi non dovrebbe commettere gli stessi errori riguardanti l’estrazione mineraria visti in altri Paesi dell’Africa australe. Non è sufficiente creare un ambiente favorevole agli investimenti da parte delle compagnie minerarie. Il governo dovrebbe proteggere urgentemente le comunità colpite». Il rapporto si basa su ricerche effettuate in Malawi tra il luglio 2015 e il luglio 2016 e su più di 150 interviste, comprese quelle a 78 persone che vivono nelle aree attualmente sfruttate dalle compagnie minerarie o dove sono iniziate le operazioni per aprire nuove miniere. Human Rights Watch ha anche incontrato i rappresentanti delle imprese e dei governi nazionale e locali, di Ong nazionali e internazionali e di organismi internazionali. E’ su queste basi che Human Rights Watch denuncia «Violazioni dei diritti delle comunità del distretto di Karonga, danneggiate dallo sfruttamento delle miniere di carbone e di uranio dell’Eland Coal Mining Company, della Malcoal, e di Paladin Africa Limited (Paladin)» e l’Ong internazionale ha concluso che «Il Malawi non dispone di protezioni appropriate per garantire l’equilibrio necessario tra gli interventi a favore dello sviluppo e la protezione dei diritti delle comunità locali; inoltre, tra il controllo insufficiente da parte del governo e la mancanza di informazioni, le comunità locali sono private di protezione».
Un’abitante di Mwabulambo ha detto a Human Rights Watch: «I nostri problemi sono cominciati con l’inizio delle attività minerarie. Il carbone è nei nostri orti e si spande nei nostri campi. A guardare i nostri campi, si direbbe che qualcuno li abbia innaffiati di petrolio».
A marzo una donna di 75 anni di Mwabulambo ha raccontato la sua storia ai ricercatori: «Avevo 6 acri (2,4 ha) di terra. Ma la miniera di carbone ha sparso del carbone sulla strada per renderla migliore per i camion, il carbone è percolato nel mio orto durante la stagione delle piogge e questo ha nuociuto al mio raccolto di frutti. Perché avete distrutto la nostra terra? Ci hanno lasciato con niente. Soffriamo la fame».
Human Rights Watch ha constatato che le attività minerarie hanno costretto diverse famiglie ad andarsene e queste persone sono state avvisate solo all’ultimo e non hanno avuto il tempo per trovare un altro posto dove stare, molte sono senza casa. In molti non sono stati informati delle procedure di indennizzo, che sono comunque poco chiare, e in diversi casi gli indennizzi sono stati inferiori a quelli necessari per ricostruire una casa o per conservare il già povero livello di vita precedente, anche perché in molti non possono più accedere alle terre che coltivavano. «La compagnia ha messo delle croci bianche su tutte le case delle famiglie da sgomberare. Hanno messo una croce bianca anche sulla nostra casa. Sono venuti una prma volta nl marzo 2012 per dirci che dovevamo sloggiare entro aprile. Ma hanno aspettato solo una settimana prima di ritornare per dirci che bisognava sloggiare subito. Non sapevamo dove andare. Abbiamo dovuto dormire all’aperto per qualche giorno. E’ stati difficile andarsene perché era la stagione delle piogge e abbiamo finite per installarci sotto la veranda di qualcuno o sotto un albero», raccontava Sinya M., di Mwabulambo, nel marzo 2016.
Gli abitanti del distretto di Karonga dicono di non aver ricevuto informazioni sufficienti sulle attività minerarie e sui rischi che comportano, in particolare le malattie respiratorie e altri problemi sanitari e ambientali. Chi vive nei villaggi ha scarso accesso alle cure ambulatoriali e ospedaliere e praticamente nessuno potrà curarsi dalle malattie legate all’estrazione di uranio e carbone. Il governo e le compagnie che operano a Karonga hanno assicurato che stanno sorvegliando gli impatti dello sfruttamento minerario, ma non hanno mai pubblicato I risultati.
Gli abitanti dei villaggi sono preoccupati per l’inquinamento delle fonti d’acqua dalle quali dipendono per bere e irrigare i campi. Secondo loro i camion delle miniere sollevano nuvole di polvere che soffocano i villaggi e le scuole con conseguenze per la salute, in particolare malattie respiratorie. Gli studi effettuati in altri Paesi sulle malattie legate all’esposizione all’inquinamento minerario danno loro ragione. Gli agricoltori hanno segnalato che la polvere di carbone e la cattiva qualità dell’acqua danneggiano i loro raccolti. La miniera di carbone dell’Eland, che ha chiuso nel 2015, ha lasciato dei livelli altissimi di polvere di carbone e pozzi pieni di acqua inquinata che possono essere pericolosi per i bambini e minacciano le risorse idriche locali.
La Rall constata: «A causa dell’insufficienza dell’infrastruttura sanitaria e del segreto mantenuto sui risultati delle indagini, è difficile dire cosa succede realmente. E’ uno degli aspetti del problema, il governo e le compagnie devono prendere sul serio l’indagine e gli interessati hanno diritto di conoscere i risultati».
Le più colpite sono le donne, sulle quali gravano i compiti domestici e agricoli. Sono state proprio le donne a segnalare la difficoltà di ottenere delle spiegazioni sui rischi che corrono da parte delle compagnie, anche perché la loro partecipazione agli incontri con le compagnie e il governo è stata ostacolata e limitata. Ma, dato che l’estrazione mineraria nuoce alla produttività agricola e minaccia le fonti d’acqua, le donne devono lavorare più a lungo per provvedere ai bisogni delle loro famiglie e fare più strada per trovare acqua pulita. Nagomba E., residente nel villaggio di Mwabulambo, spiega: «Le tubazioni passavano proprio davanti a casa mia e avevo l’acqua corrente in cucina e in bagno, poi loro hanno distrutto tutto. Alla mia età è difficile andare ancora al fiume».
«La compagnia ci aveva promesso un centro sanitario e nuovi rubinetti e dei ponti. Non avevano parlato di rischi», dice una donna di Kayelekera.
In generale, le compagnie che operano nel distretto di Karonga non hanno mantenuto le promesse di costruire centri sanitari o di trivellare altri pozzi d’acqua. Le Ong del Malawi sono molto preoccupate: «La corsa all’ industrializzazione e alla crescita deve essere accompagnata da un patto sociale e le compagnie devono mantenere le loro promesse», dice Reinford Mwangonde, direttore esecutivo di Citizens for Justice che fa parte del Natural Resources Justice Network, una rete malawiana di Ong che si battono per una estrazione sostenibile delle risorse.
Human Rights Watch ricorda che «Le industrie estrattive del Malawi sono ancora all’inizio, il che dà al governo e agli investitori l’occasione di rispettare i diritti delle comunità e di minimizzare i rischi con i quali si confrontano le comunità e gli ecosistemi naturali, mentre operano per lo sviluppo economico. Anche se il Malawi dispone di qualche legge e di politiche che proteggono i diritti delle comunità potenzialmente lese dall’estrazione mineraria, sono applicate male. Gli organi di vigilanza del governo sono inattivi durante il proseguimento delle attività di estrazione mineraria autorizzata, quali che siano i rischi che corrono le comunità locali o l’ambiente. La nuova proposta di legge, la Legge sulle miniere e i minerali, non rimedia alla mancanza di trasparenza riguardante I rischi legati allo sfruttamento minerario. Il governo ha iniziato a creare un quadro giuridico più ampio e ha promesso di migliorarne l’applicazione. Tuttavia, le comunità minerarie aspettano ancora i risultati delle ispezioni e i risarcimenti per i danni subiti. Il governo dovrebbe instaurare delle condizioni eque, informando e comunità sui rischi dell’estrazione mineraria, garantendo la loro partecipazione alla presa delle decisioni».
La Rall conclude: «Le miniere del distretto di Karonga saranno seguite da numerosi altri progetti di estrattivi in Malawi, il che conferisce una grande importanza agli insegnamenti che si possono trarre da questa esperienza. Il governo dovrebbe n mettere in atto delle protezioni efficaci in modo che le persone interessate dai nuovi progetti non subiscano gli stessi danni degli abitanti di Karonga».
Cade uno degli strumenti utilizzati dalla cricca partitocratica per sbarazzarsi di un personaggio che rischiava di interrompere la continuità della malapolitica capitolina. Rimane vivo il ricordo della squallida operazione dinnanzi al notaio. Il Fatto Quotidiano, 8 ottobre 2016, con postilla
Cadono le accuse di peculato, falso e truffa nelle due inchieste sulle cene da sindaco e le presunte irregolarità per alcune consulenze dell'associazione di cui era presidente. La Procura aveva chiesto 3 anni e 4 mesi. L'ex primo cittadino: "E' stata finalmente ristabilita la verità, ora qualcuno si guardi allo specchio per capire se ha la statura dello statista"
L’ex sindaco di Roma Ignazio Marino è stato assolto dall’accusa di peculato, truffa e falso nell’ambito del processo sul caso scontrini e le consulenze della Onlus Imagine. La procura aveva chiesto una condanna a tre anni e quattro mesi. Marino è stato assolto dalle due accuse rispettivamente “perché il fatto non sussiste” (le cene) e “perché non costituisce reato” (le consulenze). “Sono felice me lo aspettavo, sapevo di essere innocente” commenta Marino lasciando il tribunale. “Di fronte ad accuse così infamanti di media e politica molto pesanti è stata finalmente ristabilita la verità”. In una conferenza stampa Marino ha detto che “il conto di certe azioni le paga il Paese, soprattutto quando riguardano la Capitale di Italia. Qualcuno ora si dovrebbe guardare allo specchio e capire se ha la statura di statista e farsi un esame di coscienza“. La sfida con i vertici del Pd è frontale: “Le scuse di qualcuno che ha fatto un’offesa, e non parlo del premier o dell’illuminato commissario del Pd, richiedono capacità di analisi ed onestà intellettuale in base di questo uno deciderà se scusarsi o no”.
Ma cos’è successo nel 2015 per Marino è chiaro: “Siamo ad un anno di distanza dal momento in cui mi dimisi (dimissioni poi ritirate, ndr), sotto le pressioni politiche e mediatiche offensive gravissime e infanganti. Centinaia di migliaia di romani sono stati violentati da un piccolo gruppo di una classe dirigente che si è rifugiata nello studio di un notaio, invece che presentarsi in aula e spiegare se avevano o meno fiducia del loro sindaco”. Nessuno dai vertici del Pd lo chiama. Lo fanno invece, secondo il Messaggero, Massimo D’Alema e l’ex sindaco Walter Veltroni.
Riferimenti
per ricordare gli eventi che portarono alla conclusione del breve mandato di Ignazio Marino rinviamo agli articoli di Alberto Asor Rosa, Angelo d'Orsi, Piero Bevilacqaa, nonche sui risultati di un'indagine interna al PD romano, svolta da Fabrizio Barca.su eddyburg.
«Burkina Fasu. Incontro con il pioniere della rigenerazione naturale, Yacouba Sawadogo». il manifesto, 7 ottobre 2016 (c.m.c.)
«Per ogni villaggio, una piccola foresta»: uno dei tanti sogni di quell’utopista concreto che si chiamava Thomas Sankara. Ma il 15 ottobre 1987 il presidente del Burkina Faso fu assassinato e finì una rivoluzione che parlava al mondo partendo dai contadini saheliani tormentati dalla miseria e dall’avanzare del deserto.
In soli 4 anni di governo – prima della restaurazione del golpista Blaise Compaoré -, i burkinabè non riuscirono a rinverdire il Sahel. Ma in tutti questi decenni, qualcuno ha portato avanti il lavoro sul campo. Seminare foreste tornerà ad essere una priorità nazionale dopo la sollevazione popolare dell’autunno 2014 che ha cacciato Compaoré e malgrado le tante contraddizioni del nuovo governo? Yacouba Sawadogo non lo sa. Ma continua a lavorare. Chi si reca al villaggio di Gourga, deve cercare Sawadogo nel grande bosco che si estende per ettari ed ettari, ricco di acacie, pruni, datteri del deserto, leiocarpus, gomma arabica, moringa; per gli uccelli e gli altri animali selvatici, piccoli punti di acqua sparsi qui e là. Una foresta dove decenni fa non c’era nemmeno un arbusto.
Niente piantumazioni monovarietali, costose e che spesso muoiono in quell’ambiente ingrato. Lui, Yacouba, gli alberi non li pianta: li semina. Pratica la strategia ecologica e sociale della Rigenerazione naturale assistita dagli agricoltori (Rna), nella quale gli alberi spontanei sono protetti perché trattengono l’umidità nel suolo e aiutano i raccolti. Tecniche simili di coltivazione e riforestazione naturale sono portate avanti, fra gli altri, dai Groupements Naam, un’associazione di gruppi di villaggio assai diffusa in Burkina Faso.
Sawadogo ha raccontato la sua storia giorni fa a Torino e Cumiana, partecipando all’incontro internazionale «Terra madre». Ci ha spiegato che negli anni 1970, durante anni di totale siccità, mentre i contadini fuggivano dalle campagne assetate, egli come un folle fece il cammino opposto. Da commerciante diventò pioniere della lotta contro il deserto, «per avere un’attività non fondata sul denaro». A Gourga allora si faceva la fame. Yacouba, da buon innovatore delle buone tradizioni, reintrodusse lo zai, un’antica tecnica tipica delle aree del nord, a più bassa pluviometria: nella stagione secca si scavano buchi regolari nei campi, per trattenere l’acqua nella successiva stagione delle piogge. La novità ideata da Sawadogo consisteva nello scavare buche più grandi, e nel deporvi compost e letame e anche le termiti, che aiutano a smuovere il terreno. Poi si seminano cereali e specie arboree.Così sotto le mani di Sawadogo e dei contadini affamati di Gourga ai quali offriva cibo in cambio di lavoro, migliorarono i raccolti (fino a 1,5 tonnellate di miglio per ettaro anziché 500 kg) e crebbe la foresta.
Dapprima lo credono folle, i capiclan cercano di boicottarlo perché sono abituati ad assegnare in tutta discrezionalità le terre – in Burkina sono dello Stato. A un certo punto la foresta è stata minacciata perfino da un progetto di espansione immobiliare della vicina Ouahigouya, poi per fortuna fermato. Ma lui ha resistito, fedele al principio che «il valore di una persona si misura con il tempo che ci mette a desistere». Tuttora distribuisce semi e dispensa consigli e corsi di formazione a chi glieli chiede. Migliaia di famiglie negli anni grami sono sopravvissute grazie alle sue tecniche: «Se riesce a produrre cibo a sufficienza, il paese si salverà», dice.
Per Chris Reji, esperto internazionale della Rna, «Yacouba, ricercatore analfabeta, ha avuto più impatto sulla preservazione del Sahel di tanti gruppi di ricerca internazionali e nazionali». Una ricerca della Fao stima che con l’equivalente di poche decine di euro si potrebbero rimborsare le ore di lavoro e le risorse necessarie ai contadini per rigenerare un ettaro di Sahel. Ma questo sostegno, una vera restituzione internazionale a chi è vittima anche dell’ingiustizia climatica, langue. Così la tecnica dello zai continua ad avere un risvolto duro: fatica nella polvere, con le pesanti zappe in mano e il sole che batte. In mezza giornata, otto persone valide possono scavare mille zai, ma piccoli. Poi agli zai vanno associate le dighette antierosive formate da cordoni di pietra – da trasportare a mano o con la carriola. Tanta fatica, tanto tempo significano anche una diffusione inferiore a quella che sarebbe necessaria. Gli stessi Naam non hanno quasi trattori e nemmeno zappe ergonomiche.
Lo zai può anche essere praticato con un attrezzo trainato dagli animali. E qui si apre un altro capitolo: gli asini burkinabè – da sempre compagni dello sforzo umano – sono stati decimati per anni, carne e pelli esportati verso l’Asia. Nello scorso agosto, anche grazie a una piccola campagna di repressione, il Burkina seguendo il Senegal ha introdotto una legge per la loro protezione. Ma questa è un’altra storia.
«Mentre il premier si autocelebra a Genova per i “passi avanti giganteschi”nella messa in sicurezza del territorio, dei 9 miliardi promessi sono stati spesi soltanto spiccioli (stanziati dal governo Letta). Quasi a zero anche i fondi per bonifiche e sistema idrico». Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2016 (p.d.)
SOS Cultura online, 29 settembre 2016
I 31 senatori che hanno firmato l’interrogazione sono prevalentemente del M5s, ma vi sono anche Puppato, Casson e altri del Pd, De Petris di Sel, Tremonti, Malan. A sua volta il senatore del Pd, Walter Tocci, ha presentato analoga, polemica interrogazione. Insomma, un autentico “caso” politico. Gli interroganti sottolineano che l’attuale dirigenza Rai ha già soppresso “Scalamercalli” (Rai 3) di Luca Mercalli, malgrado i “lusinghieri risultati di audience”, un milione di spettatori. Eppure “la sensibilità verso le tematiche ambientali sta emergendo fortemente nell’opinione pubblica e nella politica”, confermata dalle ricerche più recenti di Ilvo Diamanti. Papa Francesco vi ha dedicato una enciclica di eco planetaria. Ben 170 Paesi hanno sottoscritto l’accordo sul clima. E la Rai invece riduce sempre più gli spazi in palinsesto dedicati all’ambiente, al paesaggio, ai beni culturali o ne parla soltanto in termini di spettacolo, di evasione. Pertanto i senatori chiedono di sapere “le ragioni che avrebbero determinato la cancellazione” di Ambiente Italia e la dispersione di una redazione altamente specializzata e di riconsiderare questa decisione, anche in considerazione del rinnovo del contratto di servizio fra la Rai e ll Stato. Già quello del 2012 prevedeva che la Rai garantisse “la comunicazione sociale attraverso trasmissioni dedicate all’ambiente, alla salute, alla qualità della vita (…) assegnando spazi adeguati alle associazioni rappresentative del settore”. E’ avvenuto l’esatto contrario. Ma cosa ha fatto o fa la commissione parlamentare di indirizzo e di vigilanza sulla Rai?
Una dura interrogazione era stata già rivolta alla Rai – tramite la Vigilanza – dal segretario della commissione on. Michele Anzaldi e da altri deputati Pd – ricevendone la risposta che “Ambiente Italia”. ridotta a pochi minuti nel Tg Leonardo, viene così potenziata, dando “nuova carica e nuova linfa all’intera cultura ecologista” (sic). Risposta che l’interrogante giudica “evasiva e arrogante”. Si è mosso lo stesso presidente della commissione Ambiente, Territorio, Lavori Pubblici della Camera, on. Ermete Realacci con una interrogazione “pesante” in cui definisce l’ormai soppressa “Ambiente Italia” «un punto di riferimento per l’informazione ambientale, oltre che un valido supporto in sostegno dell’impegno del terzo settore, della cittadinanza attiva, delle associazioni». E prosegue: «Si tratta di argomenti importanti per la qualità dell’informazione che il servizio pubblico offre al Paese, pressoché ignorati anche dai talk show politici della RAI. Stessa sorte ha subito anche ‘Scala Mercalli’, altro programma di approfondimento a carattere ambientale su Rai3» Realacci desidera «sapere quali ragioni motivino tali decisioni e quali nuovi spazi informativi il servizio pubblico nazionale intenda dare a temi chiave per il futuro del Paese a cominciare dal cambiamento climatico, anche in vista della prossima COP22 che si terrà a Marrakech». La Rai risponderà pure a lui, alla sua denuncia a tutto campo (talk show inclusi) che sta in realtà dando “nuova carica e linfa all’intera cultura ecologista”. Non a caso queste cancellazioni coincidono con il sostanziale “oscuramento” del lavoro delle Soprintendenze nelle aree terremotate e con la miracolosa “resurrezione” del Ponte sullo Stretto sepolto da un voto parlamentare (al quale aderì persino Forza Italia) dal governo Monti tre anni or sono.
«La concentrazione monopolistica che investe l’agricoltura industriale comporta una vertiginosa crescita nell’impatto sul mercato, a cominciare dai prezzi al consumo, nel potere delle lobby su leggi e regolamenti nazionali e internazionali, nella corruzione politica e nel controllo delle informazioni». Comune-info, 29 settembre 2016 (p.d.)
Monsanto è probabilmente la transnazionale con più denunce a livello planetario. Non solamente per le coltivazioni transgeniche, ma anche per molti altri attentati contro le persone e l’ambiente, come l’aver creato l’agente arancio, un’arma chimica che gli Stati Uniti hanno usato contro le contadine e i contadini nella guerra in Vietnam; l’ormone transgenico della crescita dei bovini, che si suppone sia collegato al cancro al seno e alla prostata e che si vende in Messico e in altri paesi dell’América Latina senza essere dichiarato; l’aver inventato il glifosato, un erbicida ad ampio spettro e l’agrotossico più usato nella storia dell’agricoltura, affermando che non era pericoloso. Al contrario, nel 2015, il glifosato è stato dichiarato cancerogeno dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Bayer non è da meno. Fin dai suoi inizi, ha sviluppato l’eroina da vendere come medicina - con una storia di promozione della dipendenza per vendere di più -; ha avuto una collaborazione stretta e volontaria con i nazisti come parte del conglomerato IG Farben, che ha sviluppato il gas Zyklon B da usare nelle camere a gas di Auschwitz; diverse volte è stata portata a giudizio per danni causati dalle sue medicine e dagli agrotossici, come nel caso della morte di 24 bambini a Taucamarca, in Perù; per aver distribuito agrotossici altamente pericolosi senza avvertenze e in molti altri casi che le vittime hanno denunciato, spesso con il supporto della Coalición contra los peligros de Bayer [Coalizione contro i pericoli derivanti dalla Bayer, CBG], dove si può saperne di più sulla sua storia priva di scrupoli.
La storia di ciascuna di esse, prese separatamente, è terribile e tutto indica che unite saranno peggiori. Tuttavia, questa è solo una delle mega-fusioni che si stanno verificando nell’ultimo anno tra le maggiori imprese del settore agricolo e alimentare. Le sei transnazionali che controllano le coltivazioni transgeniche in tutto il mondo, Monsanto, Syngenta, DuPont, Dow, Bayer e Basf, sono tutte originariamente fabbricanti di veleni, prodotti chimici e agrotossici; ciascuna di esse ha un percorso storico simile e tutte cercano di fondersi l’una con le altre. Da tre decenni, l’industria chimica si è avventata sull’acquisto delle imprese sementiere commerciali – che fino ad allora erano migliaia e nessuna deteneva nemmeno l’uno per cento del mercato mondiale. Lo hanno fatto per costringere gli agricoltori a comprare il pacchetto di sementi e agrotossici. Già si stavano profilando le sementi transgeniche che, lontane dalla propaganda di un aumento della produzione e di altri imbrogli mai verificati, erano, fin dalle origini, sementi resistenti agli agrotossici delle stesse imprese, perché vendere veleno è il loro affare e questo era l’obiettivo principale.
Attualmente, queste sei imprese controllano il 62 per cento del mercato delle sementi commerciali – di ogni tipo – e il 75 per cento del mercato globale degli agrotossici. Nell’ultimo anno, si sono accordate per fondersi la DuPont con la Dow e la Syngenta con ChemChina (che è proprietaria di Adama, la settima impresa di agrotossici a livello globale); quindi, in pratica, se le autorità anti-monopolio avallano, saranno solo tre le imprese che controllano queste enormi quote di mercato.
È difficile immaginare che possano continuare a fondersi per diventare ancora più grandi. Tuttavia, il valore annuo del mercato mondiale delle sementi (secondo le vendite del 2013) è di 39 miliardi di dollari e quello degli agrotossici di 54, ma quello dei macchinari agricoli è di 116 e quello dei fertilizzanti di 175. I settori delle macchine e dei fertilizzanti si stanno consolidando ancora, così come i distributori di cereali, il passo successivo della catena. Non ci vorrà molto tempo, quindi, perché questi settori comprino i primi. (Per maggiori dettagli, si veda il rapporto Campo Jurásico, La guerra de los dinosaurios del agronegocio, del Gruppo ETC). Facciamo solo un esempio, prossimo, di queste altre fusioni: quasi contestualmente all’annuncio della fusione Monsanto-Bayer, due grandi imprese di fertilizzanti (Agrium e Potash Corp) hanno deciso di fondersi per costituire l’azienda più grande al mondo e Bunge, uno dei cinque maggiori distributori mondiali di cereali, ha concordato l’acquisto di Minsa, uno dei maggiori distributori di farina di mais del Messico.
Tutte queste fusioni non si verificano solamente per controllare maggiori quote di mercato, rappresentano anche una corsa per aumentare il loro controllo/monopolio sulle nuove tecnologie di manipolazione genomica – brevetti di biologia sintetica, CRISPR-Cas9 e altre nuove biotecnologie – e soprattutto, controllare banche-dati digitali relative ai suoli, all’acqua, al clima e ad altri aspetti chiave della produzione agricola. La prospettiva è che chi si dedica all’agricoltura industriale non potrà acquistare le sementi in un luogo e gli altri prodotti per l’agricoltura in altri, ma sempre più ci sarà un unico sportello imprenditoriale che vende un pacchetto che va dalle sementi all’assicurazione agricola, passando per gli agrotossici, i macchinari e i dati che sarà costretto a pagare e ad applicare per accedere al pacchetto.
Davanti a questo scenario che sembra di fantascienza e progettato solo per i grandi agricoltori industriali, molti si chiedono in che modo questo possa colpire i contadini e le famiglie agricole e che differenza c’è se le imprese sono 3 o 6 o 10? Un elemento certo è l’aumento del potere di pressione delle imprese a livello nazionale e internazionale, che non sarà determinato solo dalle loro dimensioni e dal potere di corruzione, ma anche dal controllo degli anelli della catena agroalimentare. Potranno ottenere, ancora di più, leggi e normative a loro favore, da quelle sulle sementi all’occupazione delle terre, permessi e sovvenzioni per l’uso dell’acqua, compreso il denaro pubblico per sostenerle in quanto “settori chiave della produzione”. Cosa già iniziata con le nuovi leggi sulle sementi finalizzate a rendere illegale la circolazione delle sementi contadine, in quanto non registrate, e poi con i crediti e i sostegni legati all’acquisto di determinate sementi, agrotossici e assicurazioni. Un altro aspetto è che l’uso di droni, sensori, GPS e satelliti che rientra nel pacchetto, non serve solo a fornire dati ed elementi in questa “agricoltura di precisione” ma anche a prelevare dati, non solo sui prodotti agricoli, ma anche sull’acqua, il suolo, il sottosuolo, la vegetazione, i boschi, la fauna, ecc. Il che, a sua volta, può combinarsi con altri progetti nocivi, come quelli sul mercati di carbonio, la biopirateria, l’esplorazione delle risorse e il monitoraggio/sorveglianza delle comunità e delle popolazioni.
Malgrado l’enormità delle minacce, tuttavia, continuano a essere i più piccoli, le contadine e i contadini, gli indigeni, i pescatori artigianali, gli orti urbani, la caccia e la raccolta artigianale a fornire il cibo a più del 70 per cento dell’umanità. Lo fanno malgrado la persecuzione e le costanti minacce ai loro territori, alle risorse e ai modi di vivere. Di conseguenza, opporci a questi colossi aziendali e al loro dominio sull’alimentazione e la salute di tutte e tutti, significa appoggiare quelle comunità e quelle forme del vivere e costruire/rafforzare reti e azioni concrete di sostegno reciproco.
Questo articolo è uscito su Desinformemonos. Traduzione per Comune-info: Daniela Cavallo
«Alta voracità. I piani del governo per il gruppo Fs: socializzare le perdite del trasporto locale e degli investimenti sulla rete ferroviaria, privatizzare i profitti quotando in borsa nel 2017 i treni ad alta velocità e a lunga percorrenza. Con il Ponte sullo Stretto "infrastruttura ferroviaria", e l'interesse per il Tpl per pendolari e studenti». il manifesto, 29 settembre 2016
Privatizzare entro un anno i soli treni ad alta velocità e a lunga percorrenza, cioè quelli da cui Ferrovie dello Stato guadagnano. Entrare, e “scalare”, il settore del trasporto pubblico locale su gomma, ben nota passione del presidente del consiglio. E considerare il Ponte sullo Stretto come un’opera ferroviaria. Di più: “Come se fosse una galleria”. Dall’ad del gruppo Fs, Renato Mazzoncini, arrivano tre indizi che fanno prova: il governo Renzi insiste nella strategia di (s)vendere ai privati, attraverso la borsa, i gioielli della corona statale. E di far contenti i ras delle costruzioni con il Ponte sullo Stretto, travestendolo da infrastruttura su ferro per poter contare sui finanziamenti Ue. Al riguardo sono illuminanti le parole del fedele Mazzoncini: “Il ponte costa 3 miliardi e 900 milioni, tutte le infrastrutture dei corridoi ferroviari europei arrivano a 120 miliardi. Quindi il problema non sono i soldi, il ponte è stato sempre gestito come traffico stradale, con costi enormi. Ma trattata come un’opera ferroviaria sarebbe diverso”.
Così è se vi pare. Nel mentre il governo fa presentare ai vertici delle Ferrovie un megagalattico piano decennale, nel quale sono confermate opere fortemente discusse dalle popolazioni come il Terzo Valico (cioè la Tav Milano-Genova), e naturalmente la Torino-Lione con lo sventramento della Val di Susa. Poi, per tacitare le Regioni che sul trasporto locale (pendolari e studenti) si svenano da anni, per supplire alla strategia “Tav oriented” delle Ferrovie di Moretti e oggi di Mazzoncini, arriva il contentino della commessa già avviata per 450 nuovi treni regionali. Con i primi, previsti nel 2019, destinati all’Emilia Romagna fedele alla linea su cui Renzi tanto spera in vista del referendum costituzionale.
E il sud? Anche qui tutto ad alta velocità, con l’annuncio di Mazzoncini di voler aprire i cantieri sulla Napoli-Bari, sulla Palermo-Catania-Messina, e sulla Salerno-Reggio Calabria “che dovrà essere potenziata per lo sviluppo della Napoli-Palermo”. Con annesso Ponte sullo Stretto, così i centristi di Angelino Alfano saranno contenti. Poco o nulla invece sulle disastrate linee locali e periferiche del meridione, quelle che resteranno in carico alle Ferrovie (controllate al 100% dal Tesoro) dopo la (s)vendita del ghiotto boccone delle Frecce. In altre parole: socializzare le perdite – compresi i necessari investimenti sulla rete che resterà pubblica – e privatizzare i profitti.
“L’ipotesi su cui stiamo ragionando è una quotazione non inferiore al 30% – spiega Mazzoncini – e abbiamo ipotizzato di dividere Trenitalia in due, con la divisione della lunga percorrenza, ovvero Frecce e Intercity. Questa divisione oggi ha un fatturato di 2,4 miliardi che può crescere nel Piano fino a 3 miliardi, un Ebitda di 700 milioni che possono diventare un miliardo. L’appeal è molto evidente”. A ruota la presidente Fs, Gioia Ghezzi: “I tempi della quotazione di Fs sono quelli tecnici per portare a termine la quotazione, quindi a un anno da oggi, nel 2017”. Quando poi le fanno notare l’assenza di Pier Carlo Padoan, titolare del Tesoro, Ghezzi puntualizza: “Non saremmo venuti qui a presentare l’Ipo se non ci fosse perfetto allineamento con l’azionista”.
“La quotazione deve essere un mezzo per lo sviluppo dell’azienda e non un fine”, prova a dire Mazzoncini guardando alle prime reazioni sindacali. “Particolarmente delicato e complesso – fanno sapere Filt Fit e Uilt – si presenta il tema della cessione di quote di proprietà del ministero dell’economia, tema che suscita più di una perplessità”. Più diretto Matteo Mariani dell’associazione “In marcia”, che edita la storica rivista dei macchinisti Fs “Ancora in marcia”: “Si lascia quello che costa a carico dello Stato. Mentre si dà ai soliti noti quello che rende, ò può rendere”.
Fra gli obiettivi delle Ferrovie c’è anche il settore del trasporto pubblico locale su gomma. Insomma sugli autobus, giudicati come terreno fertile anche grazie al decreto Madia che, in spregio al referendum del 2011, “liberalizza” tutte le public utilities, dai rifiuti ai trasporti all’energia: “L’obiettivo è il mercato Tpl – spiega ancora Mazzoncini – cogliendo opportunità in tutta Italia, partecipando a gare e laddove possibile acquisendo operatori strategici”. Sul punto arriva la benedizione diretta di Renzi: “Il piano di Fs è un piano che sa rischiare, che sa guardare al futuro, che tiene insieme l’altissima eccellenza come l’alta velocità, e un’attenzione maggiore per i pendolari che hanno bisogno di nuovi treni e nuovi bus”. Però nella “sua” Toscana la gara c’è già stata. E non l’ha vinta la Busitalia di Fs – subito ricorsa al Tar – che è stata sconfitta dalla francese Ratp. Una società pubblica.
«Intervista a Dorothee Häussermann."C’è un enorme lavoro da fare per riorganizzare radicalmente la nostra vita quotidiana e oggi abbiamo la tecnologia per farlo. Bisogna politicizzare il senso comune "». Il manifesto, 29 settembre 2016 (c.m.c.)
Lo scorso luglio è stato il mese più caldo di sempre. Le temperature medie mondiali continuano a salire. Sono 360 ormai i mesi consecutivi con una temperatura più alta rispetto a quella media registrata durante tutto il secolo scorso. 360 mesi di fila, 30 anni. E il 2016 si preannuncia già come l’anno che batterà ogni record.
Se dai protocolli di Kyoto agli accordi di Parigi qualche passo in avanti è pure stato fatto, la velocità del riscaldamento climatico e soprattutto l’aumento della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera (dal 2014 siamo ben oltre la soglia dei 350 ppm, ritenuta da molti climatologi, fra cui James Hansen, come la soglia di concentrazione oltre cui la biosfera è a rischio) richiederebbero azioni istituzionali, drastiche e immediate.
I due settori chiavi su cui bisognerebbe agire subito sono l’Agrobusiness (in particolare gli allevamenti industriali) e il consumo di combustibili fossili. Ma gli interventi tardano anche perché smontare una macchina in piena accelerazione richiederebbe un atto di forza che nessuna istituzione internazionale sembra voler esercitare realmente.
Non stupisce che dal 3 al 15 maggio 2016, a poche settimane dunque dalla prima ratifica degli accordi di Parigi (il 26 aprile 2016 a New York) una rete di organizzazioni ambientaliste coordinate da 350.org abbia dato vita alla più grande azione di disobbedienza civile mai organizzata contro l’estrazione e il consumo di combustibili fossili.
La campagna Break free from Fossil Fuel ha coinvolto più 30 mila attivisti in tutto il mondo, coordinando globalmente occupazioni, manifestazioni e azioni di sabotaggio in 12 Paesi su cinque continenti: dalle Filippine agli Stati Uniti, dalla Nigeria al Brasile, dall’Australia all’Indonesia, dai Paesi Bassi all’Inghilterra alla Turchia. Ma è in Germania che è stata organizzata l’azione di disobbedienza civile più imponente: per quattro giorni, dal 13 al 16 maggio, l’associazione tedesca Ende Gelände («Fino a qui e non oltre») ha mobilitato più di 3500 persone in Lusazia, nella regione tedesca di Brandeburgo. Abbiamo raggiunto Dorothee Häussermann, attivista di Ende Gelände che sarà in Italia all’inizio di ottobre per partecipare ai Colloqui di Dobbiaco (30 settembre – 2 ottobre) organizzati da Wolfgang Sachs.
Dorothee puoi raccontarci cosa è successo in Brandeburgo lo scorso maggio?
Abbiamo bloccato un’enorme miniera di carbone in Lusazia. La Vattenfal, che è una delle quattro società tedesche per la produzione di energia, è proprietaria dell’intero bacino carbonifero. All’inizio del 2016 ha deciso di vendere questa enorme miniera di carbone lignite al miglior offerente. Si parla tanto in Europa di politiche ambientali. Questa sarebbe un’occasione perfetta per chiudere un bacino carbonifero, bonificarlo e investire in nuove tecnologie verdi.
Invece che si fa? Non solo si permette la vendita di questa miniera, ma si dà perfino la possibilità al nuovo investitore di costruire nuovi impianti, aumentare la quantità di carbone estratto e quindi di peggiorare le condizioni ambientali già drammatiche di questa regione. Il nostro messaggio è molto chiaro ed è diretto al futuro investitore. Dovrà sapere che gli impediremo con ogni mezzo di continuare l’estrazione del carbone. Saremo un costo altissimo per il suo investimento. Il carbone deve restare dove è. La miniera va chiusa. Investa in energie rinnovabili.
Come è stata accolta la vostra protesta dal governo del Brandeburgo?
Non abbiamo alcuna sponda istituzionale. In Brandeburgo è al governo un’alleanza rosso/verde (Spd e Verdi dal 2009) ma il paradosso è che perfino i verdi sono a favore delle miniere. La politica tradizionale è totalmente cieca e sorda. Per questa ragione la nostra unica possibilità è quella di organizzarci e di forzare questa insensata condizione di blocco attraverso azioni di disobbedienza civile di massa. La situazione ambientale è gravissima. Ma nessuna forma di potere istituzionale vuole prendersi la responsabilità di intervenire, soprattutto contro la grande finanza e le sue politiche ambientali distruttive.
Ende Gelände fa parte di una rete internazionale di associazioni e attivisti. Come siete organizzati?
La nostra organizzazione è fatta quasi completamente di volontari. Alcune persone lavorano a tempo pieno per coordinare la comunicazione mediatica, i siti web e le relazioni internazionali con le altre associazioni. Per il resto siamo tutti attivisti. Crediamo che la politica debba recuperare il suo lato alto, nobile. Del resto, lottiamo per interessi comuni e quindi anche per noi stessi.
Scopo principale della vostra lotta politica è quello di fermare il riscaldamento globale. Da anni ormai esistono studi Onu e Fao che mostrano come il ciclo agricoltura intensiva/deforestazione e allevamenti industriali sia corresponsabile del riscaldamento globale in una percentuale addirittura maggiore rispetto a quello dell’uso dei combustibili fossili.
La situazione generale è grave e complessa. Noi lottiamo per una giustizia climatica. Facciamo parte di una rete internazionale: solo mettendo insieme la somma delle azioni di tutte le organizzazioni ambientaliste possiamo avere un’immagine della totalità dell’azione politica dei movimenti di contestazione. Ogni gruppo lavora su obiettivi specifici. Noi vogliamo impedire che le miniere della Vattenfal vengano vendute. Ma accanto a noi altri gruppi lavorano per convertire l’agricoltura industriale in agricoltura biologica, per chiudere gli allevamenti intensivi, per sperimentare forme di energie sostenibili e così via. C’è un enorme lavoro politico da fare. Dobbiamo riorganizzare radicalmente la nostra vita quotidiana. Oggi abbiamo la tecnologia per farlo. Ormai è solo lotta politica. Dobbiamo riuscire a politicizzare il senso comune.
Di cosa parlerai ai colloqui di Dobbiaco?
La politica deve tornare ad essere una parola nobile. Per farlo deve però necessariamente implicare altri due concetti: il concetto di empatia e quello di giustizia.
Dell'accordo per l'uso pubblico di 10 giorni all'anno del "Padiglione degli eventi" «non risulta si sia immaginato nemmeno di parlarne. Di uso pubblico saranno i servizi igienici del grande magazzino». La Nuova Venezia, 28 settembre 2016 con postilla
postilla
Pagheranno mai un prezzo i ladri di Venezia? quei sindaci, quegli assessori e consiglieri comunali, quelle soprindenze, quei "mecenati", quegli architetti e giornalisti e intellettuali che, quando non sono stati complici, hanno tollerato che a Venezia, ai suoi cittadini di oggi e di domani (e a tutta l'umanità, se Venezia appartiene a essa) è stata sottratta questa icona della città, questo suo gioiello e fuoco?
Poiché é questa è l'operazione che è stata compiuta. Passiamo oltre l'orribile volgarità delle architetture, dimentichiamo per un attimo la cancellazione delle testimonianze del passato, e soffermiamoci sull'uso di questo oggetto stuprato. Salvo per qualche pisciata, l'uso sarà riservato, funzionalmente e di fatto alla nuova borghesia compradora, d'ogni parte del mondo. Anche a quella veneziana purché, ovviamente, sia ricca: non di spirito, ma di schei.
Nessuno si interroga sul nesso turisti/rifiuti. E si sa quanto è difficile coinvolgere i turisti nella raccolta differenziata. La Nuova Venezia on line, 26 settembre 2016
Marghera. Settimana decisiva questa per capire se l’ipotesi di un nuovo inceneritore per Veritas a Marghera si concretizzerà, nonostante l’ampio schieramento contrario. Le interrogazioni dei consiglieri Pd Ferrazzi e Pellicani per una discussione in consiglio comunale o almeno una preventiva riunione di commissione consiliare per far pesare il parere del Comune, socio di maggioranza di Veritas, sono rimaste al momento senza risposta. Così come l’appello rilanciato venerdì dalla consigliera Sambo.
La Municipalità di Marghera fa da sola: convocato d’urgenza mercoledì 28 settembre il consiglio municipale per una presa di posizione decisa contro l’ipotesi inceneritore a Marghera. Che si tratti di un nuovo impianto o un potenziamento del Sg31, bloccato nel 2014, la mobilitazione contro il progetto si allarga. Centro sociale Rivolta, Assemblea contro il rischio chimico di Marghera e comitato Opzione zero Termovalorizzatore a Fusina hanno annunciato che ci saranno mercoledì al consiglio municipale convocato dal presidente Gianfranco Bettin, schierato per il no a qualsiasi ipotesi di inceneritore a Marghera e deciso a sostenere le scelte degli ultimi anni che a Venezia hanno azzerato il ricorso alle discariche, chiuso gli inceneritori, puntato sulla raccolta differenziata e sul riciclo. Bettin trova come alleati anche i cinque stelle che a Palermo hanno raccolto sostegno al no all’inceneritore a Marghera da tanti big del movimento.
I comitati ambientalisti annunciano azioni di protesta: un “mail bombing” è partito ieri, domenica, con decine di messaggi recapitati sulle caselle mail di tutti e 44 i sindaci del Veneziano per invitarli a bocciare le ipotesi, smentite da Veritas, di un nuovo impianto. Giovedì 29 settembre presidio davanti alla sede di Veritas a Mestre. Giovedì in via Porto di Cavergnago dove si riuniscono i sindaci per il consiglio di bacino e la riunione del comitato tecnico di controllo. Previsto un presidio con striscioni e fischietti dalle 9 del mattino. I comitati chiedono ai sindaci di prendere posizione «chiara e netta» contro l’aumento della produzione di combustibile solido secondario negli impianti del gruppo Veritas nonché di dire di no alla realizzazione di nuovi impianti di termovalorizzazione o al potenziamento di quelli esistenti. E si richiede «che scelte così importanti siano discusse con i cittadini e nei Consigli comunali e non portate avanti in modo “carbonaro” come si è tentato di fare».
«Abbiamo fatto applicare per un pomeriggio il decreto Clini-Passera di quattro anni fa. Potenza della musica: le navi sopra le 40 mila tonnellate sono partite con 5 ore di ritardo. Non ci eravamo riusciti nemmeno con i tuffi qualche anno fa». La Nuova Venezia, 27 settembre 2016 (m.p.r.)
«Una giornata straordinaria. Ieri si è vista una grande festa, con tanti veneziani che colgono un’idea diversa di città. Siamo molto soddisfatti per questo segnale di vitalità e andremo avanti. Al sindaco Brugnaro diciamo: se è sicuro che i veneziani hanno già scelto di scavare nuovi canali facciamo un referendum sulle grandi navi in laguna». Tommaso Cacciari, tra gli organizzatori della domenica contro le grandi navi alle Zattere, canta vittoria. Oltre tremila, secondo i conti fatti dagli organizzatori, i partecipanti alla kermesse che è durata dalle 15 fino a notte. Con le band musicali sul palco galleggiante, la festa, i discorsi.
E di rilanciare i «dieci sì», le proposte per fermare la tendenza che sta facendo di Venezia una Disneyland. Stop ai cambi d’uso, controlli sul moto ondoso Non solo una manifestazione. Perché sul palco galleggiante affittato dagli organizzatori si sono alternati dal pomeriggio a sera gruppi famosi. Il clou nell’esibizione di Eugenio Finardi, che ha scandito al microfono slogan contro la grande nave della Costa che usciva illuminata dal canale della Giudecca intorno alle 20. Finardi e poi Oliver Skardy, Gualtiero Bertelli, Furio Forieri, Herman Medrano, Banda Nera, Big Mike, 4 rooms family, i Rimorchiatori, Storie Storte. Cantautori, pop, reggae. Musicisti che si non esibiti gratis per la giornata contro le grandi navi in laguna. «Li ringraziamo come ringraziamo i tanti veneziani che hanno partecipato», dice Cacciari. Adesso speriamo che il governo finalmente scelga e metta fine a questa situazione. I progetti sul tavolo sono tanti». E la battaglia continua. L’obiettivo è rimettere insieme le tante forze («trasversali», dice Cacciari) che hanno a cuore un futuro di verso per Venezia che non sia quello di Disneyland. «Ci ritroveremo presto per fare il punto, insieme ai comitati e alla Municipalità. Intanto grazie a tutti».
Il rapporto 2016 sul consumo di suolo in Italia, redatto dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) insieme alle Agenzie Regionali che costituiscono il Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA) è stato presentato lo scorso Luglio. Giunto alla terza edizione, il lavoro assume particolare importanza alla luce del riconoscimento, inserito nel disegno di legge nazionale sul consumo di suolo, quale riferimento ufficiale di diffusione dei dati e monitoraggio del fenomeno.
Come nelle edizione passate, i numeri descrivono un’evoluzione preoccupante. Oltre alle classifiche delle aree più colpite c’è un elemento in più: il rapporto analizza concretamente quelle funzioni del suolo (i servizi ecosistemici che vedremo più avanti) danneggiate dall’impermeabilizzazione. Questo danno viene quantificato dal punto di vista economico e i valori sono riportati in una dettagliata tabella che si può leggere a più livelli, dal quello nazionale fino al dettaglio comunale.
La riduzione dei servizi ecosistemici e i costi derivati
Da dove derivano questi costi solitamente “nascosti”? Di che cifre stiamo parlando? I servizi ecosistemici sono servizi essenziali, che in natura sarebbero garantiti all’infinito, quali: l’approvvigionamento di acqua, cibo e materiali, la regolazione in caso di inquinamento, la capacità di resistenza ad eventi estremi e variazioni climatiche, il sequestro del carbonio (valutato con costi sociali ma anche con il valore di mercato dei permessi di emissione) e i servizi culturali e ricreativi.
A livello nazionale i costi maggiori derivati da queste perdite sono dovuti alla mancata produzione agricola (51% del totale, più di 400 milioni di euro tra il 2012 e il 2015) perché il consumo invade maggiormente le aree destinati a questa primaria attività, ridotta anche a causa dall’abbandono delle terre. Una perdita grave perché non è una semplice riduzione ma un annullamento definitivo e irreversibile.
Il mancato sequestro del carbonio pesa per il 18% sui costi dovuti all’impermeabilizzazione del suolo, la mancata protezione dell’erosione per il 15% (tra i 20 e i 120 milioni di euro) e i sempre più frequenti danni causati dalla mancata infiltrazione e regolazione dell’acqua rappresentano il 12% (quasi 100 milioni di euro).
Altri servizi forniti dal suolo libero ridotti a causa del suo consumo sono: la rimozione di particolato e assorbimento ozono, cioè la qualità dell’aria (in Italia si è registrato il record di morti premature) con una perdita stimata in oltre 1 milione di euro. Un ruolo importante lo hanno anche l’impollinazione e la regolazione del microclima urbano. La riduzione di quest’ultimo servizio ha pesanti riflessi sull’aumento dei costi energetici: l’impermeabilizzazione del suolo causa un aumento temperature di giorno e, per accumulo, anche di notte.
In sintesi il dato nazionale dice che la perdita economica di servizi ecosistemici è compresa tra i 538,3 e gli 824,5 milioni di euro che si traducono in una perdita di capitale naturale per ettaro compresa tra i 36.000 e i 55.000 euro. I dettagli dei metodi di stima si trovano nella parte 3 del rapporto. Il consumo di suolo rilevato è di gran lunga inferiore a quello reale. Proprio a causa di tale incertezza i costi sono espressi in valori minimi e massimi. Questi ultimi risultano comunque sottostimati in quanto le perdite sopra descritte colpiscono anche aree vicine a quelle urbanizzate che non rientrano direttamente nelle stime conteggiate.
Dove si paga il prezzo più alto?
Il consumo di suolo, seppur rallentato, continua ancora a crescere (8 mq al sec). Tra le cause non c’è solo la domanda di case (ingiustificata se si considera che in Italia ci sono più di 7 milioni le case vuote, cioè una su cinque, come emerso da una recente indagine di “Solo Affitti”). Hanno un ruolo importante anche la rendita fondiaria e immobiliare.
Le infrastrutture restano le più impattanti (41% nel 2013): la realizzazione della Tangenziale Est Esterna di Milano (TEEM) ha fatto salire il Comune di Vizzolo Predabissi (MI) nella classifica dei più consumati. Oltre agli edifici, a consumare suolo ci pensano anche parcheggi, cantieri, serre, attività estrattive e discariche. Nella classifica generale a livello comunale rimangono ai primi posti in termini di percentuale di suolo consumato i comuni del napoletano e Lissone (MB). Lombardia, Veneto e Campania risaltano nelle mappe delle regioni con un pericoloso colore rosso che vuol dire consumo di suolo elevato. Negli ultimi anni si distinguono in negativo per un consumo in crescita anche Sicilia, Puglia, Calabria, Marche e Umbria. Le regioni più consumate registrano, per quanto detto sopra, i costi maggiori in termini di perdita dei servizi ecosistemici: per Lombardia e Veneto siamo oltre i 130 milioni di euro.
Tra i territori provinciali Monza e Brianza, come avviene da tempo, registra ancora una volta il dato peggiore (con oltre 40% di territorio ormai consumato) e un’ulteriore crescita nell’ultimo triennio dello 0,5% che vuol dire una perdita economica di oltre 5 milioni di euro. Milano ha consumato di più nell’ultimo triennio (1,2%). Le città metropolitane in generale si distinguono negativamente in termini di consumo ma salgono in classifica anche altre città come Padova, Treviso, Matera e Viterbo, dove risulta particolarmente consumata la zona costiera.
I territori costieri sono altamente consumati un po’ in tutta Italia, da una costa all’altra: dal Friuli alla Puglia come dalla Liguria alla Sicilia, dove in questa estate é riaffiorata addirittura la malsana idea di un ulteriore condono edilizio. Non vengono risparmiati dal consumo nè le aree di montagna, cioè i terreni in quota, nè le aree lungo i corpi idrici, con valori molto alti in Liguria dove ci si accorge della gravità solo quando piove abbondantemente. E’ ancor più preoccupate rilevare dai dati del rapporto che sono colpite dal consumo anche le aree protette, come quelle dell’area della Maddalena e del Circeo, nonché le zone a rischio frane e a pericolosità sismica. Tragedie come quella del terremoto in centro Italia hanno evidenti responsabilità in precedenti scelte dissennate.
Magra consolazione sapere che non è solo un problema italiano ma europeo: non c’è omogeneità nei dati nazionali ma un’indagine Eurostat ha evidenziato che la percentuale coperta è maggiore in Olanda, Belgio, Lussemburgo (oltre i 10%) e Germania, l’Italia è quinta (7%) prima tra le aree non centrali e, in questa poco invidiabile classifica, ben oltre la media europea che è del 4,3%.
La convenienza economica di uno sviluppo senza crescita insediativa
e basato sulla rinaturalizzazione
L’Europa stessa ha fornito da tempo importanti indicazioni in tema di consumo del suolo: innanzitutto un approccio basato su una vera definizione di consumo, non ancora recepita o, peggio, diversamente interpretata a livello nazionale. E’ consumo ogni variazione da una copertura non artificiale (suolo non consumato) a una copertura artificiale e permanente del suolo (suolo consumato).
Solo dopo questo riconoscimento si potrà fare un passo in più verso la successiva fase di compensazione della componente residua di consumo non evitabile, che deve avvenire, come dicono le direttive, tramite la rinaturalizzazione di un’area di estensione uguale o superiore, che possa essere in grado di tornare a fornire i servizi ecosistemici in precedenza garantiti dai suoli naturali. Un obiettivo da perseguire in particolare nelle aree dismesse, che assume quindi maggiore importanza se queste sono collocate all’interno delle città.
Al momento però sembra complessa la definizione dei limiti e degli obiettivi di riduzione del consumo. Il Disegno di legge approvato dalla Camera il 12 maggio 2016 riconosce l’importanza del suolo come bene comune e risorsa non rinnovabile ma non garantisce il risultato: in Lombardia, ad esempio, con la normativa regionale in vigore restano consentiti irragionevoli previsioni di trasformazione che non verranno compensate.
Grazie alle analisi contenute nel rapporto ISPRA, i costi generati dal consumo, solitamente sottostimati e trascurati, assumono un peso evidente. Questi si aggiungono alle spese necessarie per infrastrutture, servizi e manutenzioni che la nuova edificazione richiede.
Un circolo vizioso che, visti i numeri, genera un dubbio: dov’è la convenienza pubblica di ingiustificati interventi di edificazione con ritorno economico limitato al breve periodo? Quanto contano tributi ed oneri incassati se poi gli interventi si rivelano evidentemente antieconomici e destinati a perdere valore oltre che a richiedere una costante manutenzione?
Le cifre riportate dimostrano che la battaglia contro il consumo di suolo non è ideologica ma rappresenta una concreta opportunità di risparmio. Non è neppure regressione ma una forte spinta verso un nuovo modello di sviluppo “senza crescita insediativa”, come viene auspicato nel rapporto. Una “valorizzazione ecologica e contemporaneamente economica” opportunità quindi per un vero e proprio rilancio.
Riferimenti
Il rapporto sul consumo di suolo 2016 è scaricabile dal sito dell’ISPRA. La presentazione del rapporto è avvenuta nel luglio scorso, con una giornata di studi organizzata da Ispra, di cui potete leggere il resoconto di Marianna Amendola e gli articoli di Paolo Berdini e Luca Fazio, ripresi da il manifesto. Sul disegno di legge, verso il quale eddyburg è radicalmente critico, si veda il recente intervento di Vezio de Lucia, con in calce i riferimenti alle numerose prese di posizione e disamine disponibili nel sito. Tutto quel che c'è da sapere sul consumo di suolo è riassunto in una visita guidata attraverso gli articoli e i documenti pubblicati nel nuovo e nel vecchio archivio di eddyburg.
Venezia. Una protesta gioiosa e partecipata, a suon di musica (dalla chiatta ancorata alla riva) con almeno un migliaio di persone di tutte le età - duemila per gli organizzatori - assiepate lungo la riva delle Zattere. E barche in acqua - una trentina - talvolta “camuffate” da vascelli di pirati per un “assalto” comunque pacifico alle Grandi Navi che ieri hanno solcato ancora una volta il Bacino di San Marco. Ne erano previste sei in partenza o in arrivo dalla Marittima tra le 16 e le 20, tra cui “colossi” da 90 mila tonnellate come la Msc Orchestra o la Costa Deliziosa, che però hanno atteso fino a sera prima di muoversi.
«L’ampia selezione di notizie curata da Alberto Castagnola segnala come la percezione continua dei rischi nascosti in ogni prodotto chimico inventato negli ultimi decenni stia diventando una condizione di vita essenziale. Una percezione, pertanto, da diffondere al massimo grado e in ogni paese». Comune.info, 26 settembre 2016 (c.m.c.)
Questa rassegna fa emergere numerosi problemi vecchi e alcuni molto gravi che solo ora attirano l’attenzione degli organi di stampa, e tutti comportano gravi conseguenze per il pianeta e per la salute umana e animale. La complessità e la pervasività del sistema economico dominante, che riesce sempre ad imporre tempi lunghi e scadenze indefinite a ogni forma di controllo o anche solo di regolamentazione, continuano ad arrecare gravi danni agli esseri viventi che tentano di abitare il pianeta salvaguardando la loro salute ed evitando rischi prevedibili di origine umana.
Una percezione continua ed articolata dei rischi nascosti in ogni prodotto chimico inventato negli ultimi decenni sta diventando una condizione di vita essenziale, da diffondere al massimo grado in ogni paese. Questo sforzo di approfondimento e di denuncia deve diventare patrimonio di ogni persona che si sente responsabile anche verso la collettività nazionale e poi internazionale; non può essere trascurato o ritardato, pena danni crescenti e spesso irrimediabili.
Il sudest asiatico senz’acqua. A causa dei cambiamenti climatici e delle dighe sempre più numerose sul Mekong, la Cambogia e i paesi vicini sono colpiti dalla peggiore crisi idrica degli ultimi cinquant’anni. I mesi di siccità prima dell’arrivo delle piogge monsoniche sono spesso difficili per i pescatori e gli agricoltori cambogiani. Ma, con i fiumi che si prosciugano e l’acqua potabile sempre più scarsa, la situazione non è mai stata così critica.
La mancanza d’acqua che ha colpito il paese negli ultimi mesi negli ultimi mesi è legata al riscaldamento del Pacifico meridionale provocato dal fenomeno meteorologico del Nino, ma non solo, e gli esperti temono che la crisi attuale possa diventare la normalità per la Cambogia e i paesi vicini.(…). Secondo la direzione generale per gli aiuti umanitari e la protezione civile della Commissione Europea, in Cambogia 18 province su 25 soffrono per la penuria d’acqua e più di 93.500 famiglie povere delle aree rurali sono colpite dalla siccità. Come quelle che vivono nei villaggi galleggianti sul lago Tonlè Sap, alimentato dai tributari del Mekong. (…) La siccità colpisce duramente anche i paesi vicini.
In Thailandia i contadini lottano contro la mancanza d’acqua e 21 persone sono morte durante una ondata di caldo. In Vietnam circa due milioni di persone non hanno acqua potabile a sufficienza. A causa del basso livello del fiume (il più basso in un secolo), l’acqua salata risale più del solito nella regione del delta del Mekong e ha già distrutto il 10% delle risaie del paese. Una crisi che interessa i quasi sessanta milioni di persone che vivono nella regione del basso Mekong, l’80% delle quali dipende dal fiume per sopravvivere.
Questa situazione è causata dal clima, ma anche dall’aumento delle dighe sul fiume, che scorre attraverso la Cina, la Birmania, la Thailandia, il Laos, la Cambogia e il Vietnam. Nel tratto superiore del Mekong, in territorio cinese, ci sono già sei dighe e le comunità che vivono a valle ne hanno avvertito le conseguenze. Altre undici sono in fase di progettazione nel tratto basso del fiume, due in Cambogia e le altre in Laos, dove due sono in costruzione. (Internazionale n. 1156, 2 giugno 2016, pag. 30)
Legge contro l’obesità. Arriva dal Cile una delle leggi più drastiche per cercare di ridurre l’epidemia di persone sovrappeso o obese, che nel paese andino raggiungono un indice pari al 64,5 % degli abitanti. Qualcuno l’ha definita la norma anti Kinder sorpresa o anti Happy Meal, per citare due popolari prodotti destinati ai bambini che qui come in tutto il mondo sono citati tra le cause dell’obesità precoce.
In Cile più del 30% dei piccoli tra zero e sette anni soffrono di eccesso di peso. L’esigente legge 20.606 punta proprio sull’idea di informare i genitori per evitare problemi ai figli. Un primo aspetto della norma è legata all0informazione: i prodotti confezionati devono avere una etichetta che avverta sugli alti contenuti di zuccheri, sodio, grassi saturati e calorie. Se oltrepassano i limiti stabiliti dal ministero della sanità, è obbligatoria una etichetta speciale, nera con le lettere bianche, che già inizia a vedersi regolarmente nei super mercati.
Nessuno di questi prodotti, inoltre, potrà fare pubblicità destinata ai bambini e agli adolescenti, ed essi non potranno essere venduti o regalati nelle scuole. La dieta tipica dei cileni non è considerata salutare. Solo il 5% della popolazione si alimenta in forma adeguata e gli indici di obesità si concentrano nelle fasce più basse dal punto di vista socioeconomico. (SETTE n. 22, 3 giugno 2016, pag. 59)
Caccia all’oro e pericolo mercurio. Il governo di Lima, Perù, ha decretato lo stato di emergenza nella regione amazzonica di madre de Dios a causa degli alti indici di contaminazione di mercurio. Si stima che 50.000 persone, tra cui molti indios, possano entrare in contatto con il metallo e avere serie complicazioni di salute. La causa è la corsa all’oro nella regione. Estratto in forma illegale, l’oro viene separato dal terriccio lungo i fiumi grazie ad un procedimento nel quale è utilizzato il mercurio e i resti della lavorazione finiscono nelle acque.(SETTE n.22, 3 giugno 2016, pag.59)
Pillole e sciroppi: dove vanno a finire? Chi smaltisce pillole e sciroppi avanzati o scaduti in maniera corretta? Solo quattro cittadini su dieci, secondo l’Associazione persone con malattie reumatiche (apmar.it): i più li buttano nella pattumiera. «Eppure contaminano l’ambiente, soprattutto le acque; oltre a quelli che finiscono nella spazzatura , ci sono anche i medicinali che eliminiamo ancora attivi dall’organismo»,spiega Antonella Celano,presidente Apmar.«L’Osservatorio sull’impiego dei farmaci segnala un abuso, in particolare antinfiammatori e antibiotici. Inoltre il 70% degli italiani non controlla se ha già un farmaco in casa prima di farsene prescrivere uno nuovo: gli scarti aumentano e vengono smaltiti senza cautele, con alti rischi ambientali».
I principi attivi dispersi in suolo e acque possono ancora esercitare il loro effetto, con conseguenze per vegetali, animali e umani. Per questo Apmar, con Aifa, (agenzia farmaco.gov.it) lanca Green Health, campagna informativa per uso, conservazione e smaltimento consapevoli. «La regola è una: i medicinali vanno buttati solo nei contenitori davanti alle farmacie, dopo aver tolto confezioni di carta e blister di plastica o metallo. Nel dubbio, meglio chiedere al farmacista» (Io Donna, 4 giugno 2016, pag. 130)
Un elefante ucciso ogni 15 minuti. Gli USA vietano il commercio dell’avorio. Ma il bando non è ancora totale. In Africa i pachidermi erano 27 milioni, oggi sono 350mila. Dal 6 luglio negli Stati Uniti non sarà soltanto vietato importare le zanne degli elefanti (lo è da decenni) : si rischierà la galera anche commerciandole.
La differenza c’è. E pur non trattandosi d’un totale divieto – restano consentiti gli oggetti antichi più di un secolo, quelli che contengono meno di 200 grammi (i tasti dei pianoforti, varie armi da fuoco), i trofei dei cacciatori autorizzati (non più di due l’anno) e comunque si potrà commerciare l’avorio proveniente dagli elefanti asiatici che non siano a rischio estinzione, dai rinoceronti, dai trichechi e perfino dalle balene – però è un primo passo: una volta che l’oro bianco è entrato illegalmente negli Stati Uniti, perché di fatto entra, è poi impossibile capire se una palla di biliardo o il manico di un coltello siano fatti di materiale recente oppure vecchio, importato quando era permesso. (Corriere della Sera, 5 giugno 2016, pag. 25, con mappa dei traffici illegali).
I grandi conflitti di natura globale. (…) Un primo tentativo di mappatura a livello globale è stata fatta nel progetto Ejatlas, l’Atlante globale di giustizia ambientale. Il progetto è codiretto da Leah Temper e Joan Martinez Alier e coordinato da ormai 5 anni dall’Istituto di Scienza e Tecnologia Ambientale dell’Università di Barcellona, in collaborazione con molte altre organizzazioni e singoli cittadini da circa 100 paesi. Ad oggi ha mappato più di 1700 casi di conflitti relazionati a attività estrattive, produttive e di smaltimento dei rifiuti e continuerà nei prossimi anni per includere aree e casi ancora poco conosciuti. (…).L’Italia ha contato su una rete di collaboratori e un lavoro di coordinamento di Cdca-A Sud per la produzione di una mappatura nazionale , con oltre 80 casi di conflitti e resistenza nel nostro paese (…) (Il Manifesto, 5 giugno 2016, pag. 6, con una mappa dell’Atlante)
Stallo sul glifosato, palla a Bruxelles. Il comitato di esperti dei 28 paesi rinvia per la terza volta il voto sull’erbicida. (Il Manifesto, 7 giugno 2016)
Il fallimento del glifosato. Le Monde, Francia. Il glifosato è un po’ come gli istituti finanziari statunitensi durante la crisi del 2008: too big to fail, troppo grande per fallire. Il principio attivo dell’erbicida Round Up è il pesticida più usato al mondo. Creato una quarantina di anni fa dalla Monsanto è diventato la base del modello agricolo dominante. Oggi se ne consumano 800mila tonnellate all’anno. Il glifosato è ovunque. E’ il prodotto chimico di sintesi più frequentemente rilevato nell’ambiente e il principale responsabile del declassamento delle fonti idriche in Francia. Ma anche se è too big to fail, il glifosato è comunque sull’orlo del fallimento.
Nel marzo del 2015 l’Agenzia Internazionale per la ricerca sul cancro lo ha classificato come «probabilmente cancerogeno» per gli esseri umani, proprio quando l’Unione europea voleva rinnovare l’autorizzazione alla sua commercializzazione. La reazione della società civile ha sorpreso tutto il mondo politico, a Bruxelles e nelle capitali europee. La Commissione europea pensava che per decidere il futuro del glifosato sarebbe bastato un semplice comitato tecnico. Non è andata così. Per tre volte non è stata raggiunta la maggioranza qualificata necessaria a rinnovare l’autorizzazione per 15 o 9 anni. Il 6 giugno è stata bocciata anche una prorha a 18 mesi. Francia Germania, Italia, Grecia e Portogallo si sono astenuti, sotto la spinta di un’opinione pubblica sempre più sensibile ai danni provocati dall’abuso di prodotti fitosanitari.
Ma c’è da dubitare che questi governi siano davvero preoccupati per l’ambiente e la salute. Per eliminare il glifosato senza sostituirlo con prodotti altrettanto dannosi serve un profondo rinnovamento del modello agricolo dominante, un progetto serio che permetta agli agricoltori di fare a meno di questo pesticida miracoloso. Invece i governi europei non hanno previsto nulla del genere e si aspettano che Bruxelles si assuma la responsabilità di una decisione che accetterebbero senza problemi. Così si rischia di rafforzare ulteriormente la sfiducia che circonda l’Unione e spinge i paesi europei a chiudersi in se stessi. (Internazionale n.1157, 10 giugno 2016, pag. 19).
Al via la super-mega diga. Alla fine, non c’è (ovviamente) polemica ambientalista che tenga: la nuova più grande diga del mondo si farà. Nella repubblica Democratica del Congo, i lavori di Inga 3 (dopo la 1 e la due) partiranno in pochi mesi. Delle 11 aziende in gara per i lavori, che varranno 12 miliardi di euro, ne sono rimaste tre: alle cascate Inga realizzeranno la diga e una centrale elettrica da 4800 megawatt, il doppio dell’attuale capacità produttiva. Una manna per le miniere della regione, sempre a corto di energia. Con le fasi successive, il progetto dovrebbe arrivare a produrre 50mila MW, il 40% del fabbisogno dell’intero continente. Certo, 35.000 persone dovranno essere spostate, per non parlare dell’impatto sulla natura del fiume Congo. Un conto pesante. (SETTE n.23, 10 giugno 2016, pag.59)
Così muore la barriera corallina. Il cambiamento climatico rischia di modificare per sempre la barriera. Da mesi gli esperti studiano lo sbiancamento delle barriere coralline che ha raggiunto il suo record negativo storico. Il fenomeno distruttivo colpisce l’intero ecosistema ed è legato all’aumento della temperatura dell’acqua. Un sondaggio aereo condotto dal National Coral Bleaching Taskforce sulla Grande Barriera Corallina , in Australia, ha preso in esame 520 barriere lungo oltre 600 miglia di costa, nella punta settentrionale del Qeensland, nel tratto di costa compreso tra Cairns e lo Stretto di Torres, rivelandone il peggior sbiancamento mai registrato delle scogliere, con la conseguente morte dei coralli.
E’ un fenomeno che cambierà la Grande barriera Corallina per sempre, ha spiegato il biologo marino Terry Hughes. Lo sbiancamento dei coralli colpisce le barriere coralline e i loro ecosistemi. Il colore caratteristico dei diversi coralli è prodotto da un alga e diventa più vivo a seconda della concentrazione del microorganismo. A fronte di una alterazione dell’ecosistema, i polipi del corallo espellono l’alga simbiotica, con il risultato di fornire alla struttura calcarea una colorazione sempre più pallida e sfumata sino ad arrivare, nei casi più gravi, allo sbiancamento vero e proprio. (SETTE n.23, 10 giugno 2016, pag. 110)
La pietra blu dei taliban. L’estrazione illegale dei lapislazzuli favorisce la presenza dei taliban nel Badakhshan, una regione tradizionalmente tranquilla al confine con il Tagikistan. La battaglia tra i signori locali, emersi durante la guerra contro i sovietici, negli anni ottanta, per il controllo dei giacimenti della pietra blu, ha creato un clima di insicurezza che i taliban sfruttano a loro vantaggio. E’ l’allarme lanciato dall’organizzazione britannica Global Witness nel rapporto pubblicato il 5 giugno dopo due anni di indagini. La promessa del governo di Kabul di controllare il traffico di lapislazzuli imponendo un embargo sull’estrazione e il trasporto ha avuto un effetto limitato. Invece di finire nelle casse vuote dello stato, le rendite dei lapislazzuli sono una nuova fonte di finanziamento per i taliban. (Internazionale 1157, 10 giugno 2016, pag. 34)
La chimica delle lobby. Gli interferenti endocrini si trovano nei cosmetici e nei pesticidi e possono provocare malattie gravi. Ma da anni la Commissione europea blocca la regolamentazione di queste sostanze. E’ uno dei segreti meglio conservati d’Europa. Ed è tenuto sotto chiave da qualche parte nei corridoi della Commissione europea, in una stanza sorvegliata dove possono entrare solo una quarantina di funzionari accreditati e muniti unicamente di carta e penna. I cellulari vengono confiscati. Sono misure di sicurezza ancora più rigide di quelle previste per consultare i documenti del trattato di libero scambio tra l’Unione europea e gli Stati Uniti (Ttip).
Questo segreto è un rapporto di circa 250 pagine, nel gergo della Commissione europea uno “studio d’impatto”. La ricerca valuta le conseguenze “socioeconomiche” della regolamentazione di una famiglia di inquinanti chimici. Gli interferenti endocrini possono interferire con gli ormoni delle specie animali, compreso l’essere umano, e sono sospettati di essere all’origine di molte malattie gravi: tumori ormono-dipendenti, infertilità, obesità, diabete, disturbi neurocomportamentali.
Queste sostanze si trovano in moltissimi oggetti di uso comune come cosmetici, pesticidi e sostanze plastiche, per esempio il bisfenolo A. Nel medio periodo la loro regolamentazione interesserà interi settori dell’industria. In gioco ci sono miliardi di euro. La prospettiva di eventuali restrizioni o divieti preoccupa il mondo dell’industria. Il settore dei pesticidi in particolare non ha mai nascosto la sua ostilità a determinate disposizioni del regolamento europeo sui «prodotti fitofarmaceutici».
Adottato nel 2009, il regolamento riserva un trattamento speciale ai pesticidi: quelli riconosciuti come interferenti endocrini non saranno più autorizzati sul mercato. Il problema è come individuarli. La Commissione doveva quindi trovare il modo per distinguere gli interferenti endocrini dalle altre sostanze chimiche e definire i criteri che avrebbero permesso di identificarli. Senza questi criteri la legge non può essere applicata. Le autorità sanitarie nazionali, le aziende e le ong aspettano una decisione una decisione imminente su questi criteri di identificazione , che permetteranno di ridurre l’uso degli interferenti endocrini o addirittura di vietarne alcuni. Ma a sette anni dall’approvazione del regolamento i criteri non sono stati ancora definiti. Il principale responsabile del ritardo è proprio lo studio d’impatto e le sue conclusioni apparentemente confidenziali.
Lo studio è stato espressamente richiesto dal settore industriale per rendere meno vincolante la regolamentazione ed è stato ottenuto grazie ad una offensiva congiunta della lobby delle industrie dei pesticidi e della chimica all’inizio dell’estate del 2013. Le principali protagoniste di questa iniziativa sono state le loro organizzazioni di lobbying aa Bruxelles . l’Associazione europea di protezione delle colture (Ecpa) e il Consiglio europeo dell’industria chimica (Cefic). Molto attivi sono stati anche i giganti dell’agrochimica , come le aziende tedesche Basf e Bayer e la multinazionale svizzera Syngenta. (Stèphane Horel, Le Monde, Francia, testo integrale in Internazionale n. 1157, 10 giugno 2016, pag.50) [Sugli effetti di queste sostanze in particolare, vedi Marie-Monique Robin, il veleno nel piatto, Feltrinelli, pag. 333-403, N.d.R]
Anatomia di un incendio. Cosa è accaduto a Fort McMurray in Canada nel mese di maggio. (testo integrale in Internazionale n.1157, 10 giugno 2016, pag.61-64)
Le larve del pesce persico ingeriscono la microplastica presente nell’acqua degli oceani. Secondo Science, questo ne rallenta lo sviluppo e ne altera il comportamento, rendendo le larve una facile preda. Inoltre, la microplastica riduce la percentuale di uova di persico che si schiude. (Internazionale n. 1157, 10 giugno 2016, pag. 108)
Secondo il Wwf, gli elefanti della riserva di Selous, in Tanzania, potrebbero estinguersi entro il 2022 se il bracconaggio continuerà ai ritmi attuali. (Internazionale n. 1157, 10 giugno 2016, pag.110)
Sei anni prima dell’abbandono totale del nucleare (previsto per il 2022), il governo tedesco ha adottato un progetto di legge che limita lo sviluppo delle energie rinnovabili modificando il sistema di incentivi. Le sovvenzioni sistematiche per chilowattora lasciano il posto a gare di appalto nei diversi land. La misura, che dovrà passare in parlamento, è stata varata per ridurre i costi transizione energetica, giudicando il settore pronto per una maggiore autonomia. (Internazionale n. 1157, 10 giugno 2016, pag. 110)
Airbag esplosivi. Takata, azienda giapponese leader mondiale nella produzione di airbag, è al centro di uno di più grandi casi mai registrati di ritiro di prodotti difettosi, scrive Bloomberg Businessweek. «Il caso riguarda più di sessanta milioni di airbag montati sulle autovetture di Bmw, Honda, Ford, tesla, Toyota e di altre dodici case automobilistiche, e comunque su un quinto delle auto in circolazione negli Stati Uniti. In tutto il mondo potrebbero essere coinvolti più di cento milioni di veicoli».
Gli airbag hanno un difetto che rischia di farli esplodere, lanciando schegge pericolose per l’incolumità dell’autista e dei passeggeri. «Finora questi airbag hanno provocato 13 morti, di cui 10 negli Stati Uniti, e il ferimento di cento persone». Una commissione d’inchiesta del sanato statunitense ha svelato dei documenti da cui risulta che i vertici della Takata hanno a lungo sottovalutato gli avvertimenti lanciati dai loro tecnici. L’azienda, inoltre, avrebbe nascosto il problema alla Honda, il suo cliente principale, e alle autorità statunitensi. Ora potrebbero volerci tre anni prima che gli airbag difettosi vengano sostituiti. (Internazionale n.1157, 10 giugno 2016, pag.117).
Quella tragica “partita” tra minatori e carbone. Settant’anni fa. Una partita di livello europeo, tra Italia e Belgio, venne inaugurata esattamente settant’anni fa , il 23 giugno 1946. Niente di sportivo, fu una partita tragica. Per la verità, si presentò come un accordo. Il nostro governo prometteva alle autorità di Bruxelles di inviare in Belgio, al ritmo di 2000 alla settimana, almeno 50.000 giovani (di età inferiore ai 35 anni), da destinare al lavoro sotterraneo nei distretti carboniferi della Vallonia e delle Fiandre.
Ogni 1000 minatori “trasferiti”, sarebbero arrivate in Italia almeno 2500 tonnellate di carbone. Per favorire l’arruolamento dei figli della miseria contadina, i paesi e le città, da Nord a Sud, furono tappezzati di manifesti rosa che invitavano ad andare. La repubblica italiana fu fondata su uno scambio tra uomini e carbone. Nel giro di un decennio sarebbero partiti ben più dei 50.000 giovani: punto di raccolta piazza Sant’Ambrogio a Milano, visite mediche sotto la stazione centrale, viaggio in convogli organizzati ad hoc: e dal giorno dopo, senza formazione, quei ragazzi sarebbero sprofondati nel cuore della terra, anche oltre i mille metri, per picconare la roccia, strisciare dentro i cunicoli, guidare i muli nelle gallerie, caricare e scaricare, usare l’esplosivo.
Lavoro terribile su cui i manifesti rosa sorvolavano, mentendo sulle condizioni di vita (gli “appartamenti” erano le baracche degli ex prigionieri di guerra. Sorvolano anche sulla sicurezza e i rischi, anche se i minatori italiani constatarono subito la frequenza degli incidenti e delle vittime. Ma l’8 agosto 1956 fu una catastrofe e dei 262 minatori morti a Marcinelle oltre la metà, (156), erano italiani. Da quel giorno le cose cambiarono, : gli italiani non erano più i “macaronì” cui era vietato l’accesso nei locali pubblici, divennero uomini morti non solo per se stessi e per le proprie famiglie, ma anche per risollevare della patria, di un paese straniero la cui manodopera non aveva voglia di consegnarsi al macello della miniera, di un intero continente prostrato dalla guerra. Stasera, prima che l’arbitro fischi l’inizio di Italia –Belgio, l’Europa dovrebbe per un momento ancora tener fuori la testa dal pallone per ricordare quei morti che furono (che sono) di tutti. (Corriere della Sera, 13 giugno 2016, pag. 35)
Iberdrola vende i parchi eolici e lascia l’Italia. Il gigante spagnolo delle rinnovabili Iberdrola si appresta a lasciare il mercato italiano dell’energia. Il gruppo di Bilbao, assistito da Unicredit e dai legali di Chiomenti, ha infatti firmato ieri l’accordo per la cessione del 100% dell’ultimo asset che possedeva nella penisola. Si tratta della Ser, la società che controlla una diecina di parchi eolici tra Sicilia e Puglia, per una potenza installata di circa 245 megawatt che ne fanno uno dei presidi più importanti nella penisola. Compra il fondo inglese Glennmont che invece in Italia è al debutto e ha valorizzato le rinnovabili di Iberdrola circa 400 milioni, debito incluso.
La Ser, acronimo di Società energie rinnovabili, è quella stessa azienda che nove anni fa aveva fatto da cornice all’alleanza tra il gruppo catalano dell’energia verde e la Api della famiglia Brachetti Peretti, con il 50% a testa. La joint venture era nata per realizzare 300 megawatt di impianti nel Sud d’Italia ed è stata archiviataquattro mesi fa dagli industriali che hanno venduto il loro 50% alla stessa Iberdrola. L’operazione del valore di 190 milioni, aveva riportato al centro della strategia Api la lavorazione del greggio e la distribuzione di prodotti raffinati.
D’altronde la missione della Ser era compiuta. La decisione del gruppo presieduto da Ignacio Galan di lasciare l’Italia era coerente con la strategia di concentrare le forze in Spagna. Al momento dell’acquisto delle quote dalla Api, Iberdrola in realtà aveva già ricevuto la manifestazione di Glennmont e ha esercitato la prelazione sulla quota del 50% di Api che sul fronte delle rinnovabili mantiene comunque un presidio nel fotovoltaico e nelle biomasse. (Corriere della Sera, 15 giugno 2016, pag.37)
Il fiore salva api. I semi della “facelia” ceduti gratis e piantati dai contadini emiliani. In Emilia, a San Lazzaro di Savena, è partito un progetto salva api. Un fiore viola potrebbe contribuire a salvare le api dall’estinzione. E’ tutto italiano il progetto di Coldiretti, partito in questi giorni nella campagna di San lazzaro di Savena, alle porte di Bologna. La più grande azienda sementifera italiana, la Sis (Società Italiana Sementi), società al 100% italiana, controllata dai Consorzi Agrari regalerà a tutti i coltivatori di mais una partita di semi di facelia che loro si sono impegnati a far crescere. Perché proprio la facelia? Non solo perché è spettacolare per via della inflorescenza viola, ma perché è una pianta mellifera molto nutriente per le api che vanno ghiotte del suo polline (…). (Corriere della Sera, 17 giugno 2016, pag. 21)
Interferenti endocrini. Dopo più di due anni di attesa la Commissione europea ha reso noti i suoi criteri per identificare gli interferenti endocrini, sostanze chimiche presenti in molti prodotti, che possono fare male alla salute. Secondo la definizione della commissione, un interferente endocrino è un a sostanza che agendo sul sistema ormonale, ha effetti indesiderati sulla salute umana scientificamente provati. Il fatto che non siano considerati anche gli effetti sugli animali, in natura e in laboratorio, ha sollevato accese polemiche. (Internazionale n. 1158, 17 giugno 2016, pag.97).
L’atlante delle luci nella notte. Un terzo dell’umanità non riesce a vedere la Via Lattea di Notte, scrive Science Advances. Un nuovo atlante mondiale della luminosità artificiale del cielo notturno mette in evidenza quali sono le zone con più inquinamento luminoso. Il paese più colpito è Singapore, seguito da Kuwait e Qatar. Le notti sono ancora buie in Ciad, Repubblica Centrafricana e Madagascar. Tra i paesi del G20 l’Italia è il più inquinato. L’inquinamento luminoso può avere conseguenze sulla salute e sull’ambiente ed è spesso indice di sprechi energetici. (Internazionale n. 1157, 17 giugno 2016, pag.97) [Vedi anche Corriere della Sera del 15 giugno 2016, pag.23; N.d.R]
Il gas serra che si fa roccia. E’ stato sperimentato con successo un metodo per assorbire in modo permanente l’anidride carbonica presente nell’aria. L’aumento di questo gas nell’atmosfera provoca l’effetto serra e il riscaldamento del pianeta. Per ridurne la quantità, scrive Science, è possibile iniettare il gas all’interno di rocce basaltiche sotterranee, a una profondità tra i 400 e gli 800 metri. In meno di due anni, l’anidride carbonica si trasforma in roccia. A differenza di altre tecniche, non ci sono rischi di fughe di gas, perché le nuove rocce sono stabili. Il test è stato condotto in Islanda, ma le rocce basaltiche sono presenti in molti paesi. (Internazionale n. 1158, 17 giugno 2016, pag. 97).
Le autorità canadesi hanno annunciato che l’enorme incendio che ha devastato per sei settimane la provincia dell’Alberta, in Canada, è sotto controllo. (Internazionale n. 1158, 17 giugno 2016, pag. 98)
Barriere coralline. Per tre anni la Nasa terrà sotto stretta osservazione aerea le barriere coralline di Hawaii, Palau, isole Marianne e Australia. Con i dati raccolti dallo spettrometro Prism, montato su aerei che volano ad alta quota, verranno costruite delle mappe utili a studiare gli effetti sui coralli del riscaldamento globale e dell’inquinamento. Si stima che lo sbiancamento dei coralli causato dall’aumento delle temperature abbia già ucciso più di un terzo della Grande Barriera Corallina Australiana. (Internazionale n. 1158, 17 giugno 2016, pag.98)
Il valore dell’avorio. L’immissione, nel 2008, di tonnellate di avorio legale sul mercato internazionale ha incentivato il mercato nero, incoraggiato il bracconaggio e provocato la morte di migliaia di elefanti. Secondo il Washington Post, i dati dimostrano che un’altra vendita come quella sarebbe molto rischiosa.
Il commercio di avorio era stato proibito nel 1989, ma nl 2008, in via sperimentale, è stata permessa un’asta di avorio ottenuto legalmente. Cina e Giappone ne hanno comprato più di cento tonnellate da Zimbabwe, Namibia e Botswana, che avevano raccolto le zanne degli animali morti per cause naturali. Ora Zimbabwe e Namibia vorrebbero ripetere l’esperienza. Tuttavia, secondo uno studio, l’asta del 2008 è diventata una copertura per il commercio illegale: il bracconaggio è aumentato del 66% e il mercato nero del 71%. Non succede sempre così, ricorda il quotidiano.
Gli allevamenti di coccodrilli, per esempio, sono riusciti a soddisfare la domanda e ad abbassare i prezzi, così tanto da mettere fuori mercato i bracconieri. Per gli elefanti è diverso: non è possibile allevarli e la quantità d’avorio prodotta in modo naturale non soddisfa la domanda. Intanto su Nature il ricercatore Duan Biggs si chiede se la distruzione dell’avorio illegale sia davvero efficace contro il mercato nero. Di recente il governo del Kenya ne ha bruciato 105 tonnellate , che avevano un valore di 220 milioni di dollari. Non si rischia di far diventare l’avorio ancora più raro, facendo salire i prezzi? (Internazionale n. 1158, 17 giugno 2016, pag. 98).
Il cambiamento climatico potrebbe aver causato la prima estinzione di una specie di mammiferi. Un’èquipe di ricerca non ha più trovato tracce del Melomys rubicola,un roditore che vive su un isola dello stretto di Torres, tra l’Australia e la Nuova Guinea. (Internazionale n.1158, 17 giugno 2016, pag.98)
Quei lapislazzuli sono come i “diamanti insanguinati”. Diecimila miniere fuori dal controllodel governo. E finanziatrici, con il loro tesoro, dei talebani. Così, secondo la ong Global Witness (che ha investigato per due anni), i lapislazzuli sono diventati come i “blood diamonds” : minerali insanguinati. In Afghanistan , e in particolare nella remota provincia del Badakhshan, ci sono le riserve più grandi del mondo del “tesoro blu”, fra uno e tre trilioni di euro di valore. È da qui che presero la strada della Mesopotamia, dell’Egitto e nel Medioevo anche dell’Europa. Ora i principali giacimenti sarebbero fuori dal controllo di Kabul, proprietario di tutte le risorse ; ad essersene appropriato da due anni è il “signore della guerra” Abdul Malik, che incassa una fortuna ma sua volta paga tangenti ai talebani per 20 milioni di euro all’anno. Per la ong londinese, la prima cosa da fare sarebbe di dichiarare i lapislazzuli afghani “conflict minerals”, in modo da cominciare a controllarne il commercio. (SETTE n.24, 17 giugno 2016, pag.57)
Obesità e carburante. Negli ultimi 40 anni il peso delle persone è cresciuto di circa sei chili a testa, per un totale di 44 milioni di tonnellate. Lo dice la rivista The Lancet: dal 1975 al 2014 le perone obese sono passate da 105 a 641 milioni. Secondo i calcoli di Sheldon Jacobson, ingegnere dell’Università dell’Illinois, ogni anno le auto private americane consumano 4,3 miliardi di litri di carburante in più a causa dell’aumento di peso di conducente e passeggeri dal 1960 a oggi. (SETTE n. 24, 17 giugno 2016, pag.33)
Fasce orarie per slot machine. Il gioco d’azzardo fa entrare nelle casse dello stato italiano circa 9 miliardi di euro ogni anno. Nel nostro paese ci sono più di 400mila slot machine. Nel 2015 è stato calcolato un volume di affari che sfiora gli 88 miliardi di euro, pari al 4% del Pil, il prodotto interno lordo: 46 miliardi arrivano dalle slot machine e dai videopoker, 26 dalle lotterie e 16 dal gioco on line. Ci sono migliaia di persone che, inseguendo il sogno di cambiare la propria esistenza con vincite milionarie, si sono rovinate. La passione si trasforma spesso in una vera e propria ossessione, fa passare in secondo piano il lavoro, la famigli gli amici.
Una vera e propria dipendenza patologica , che come dimostrano numerosi studi, si associa ad altre dipendenze come quelle dalle sostanze stupefacenti e dagli alcolici, ma anche a disturbi psichiatrici e dell’umore. Ecco perché sarebbe opportuno estendere a tutta l’Italia le norme approvate alla fine di maggio dalla giunta comunale di Bergamo. Si tratta di un vero e proprio “Regolamento per la prevenzione e il contrasto delle patologie e delle problematiche legate al gioco d’azzardo. (…). (Io Donna, 18 giugno 2016, pag.66)
Un milione di ettari di oceano protetti. Il nuovo Tun Mustapha Park è la più grande riserva marina della Malesia, all’interno del delicatissimo Coral Triangle, una delle zone di maggiore concentrazione di coralli del Borneo (oltre 250 specie). L’obiettivo? Salvare l’ecosistema di pesci, alghe e mangrovie. Ma anche le popolazioni che lo abitano. (Io Donna, 18 giugno 2016, pag. 130).
Tanto solare, ma mai collegato. L’energia solare in Cile è talmente abbondante ed efficiente che i prezzi sono rapidamente arrivati a zero in alcune regioni, dissuadendo dunque gli operatori da nuovi investimenti. E’ il caso del nord semidesertico del paese, dove la crescita economica e soprattutto la fame di energia del settore minerario avevano spinto alla costruzione di 29 parchi solari e a prevederne altri 15. E’ successo invece che il rallentamento dell’attività e l’efficienza del sistema hanno portato in breve tempo ad un eccesso di produzione e di offerta di energia.
Gli investitori stanno perdendo denaro ed è improbabile che si impegnino nel resto del paese, dove invece c’è ancora domanda di solare. Uno dei problemi principali del Cile, un paese lungo e stretto, è che le reti elettriche tra il nord e il resto del paese non sono interconnesse. Quindi il surplus di produzione di energia non può “viaggiare” . Il governo ha promesso di risolvere il problema nei prossimi anni con la costruzione di una linea di oltre 700 chilometri. (SETTE n.24, 17 giugno 2016, pag.55)
Perché piove così tanto in Italia? Nel mese in cui gli italiani si aspettano il sole e sognano il mare, il Nord ( e la Lombardia in particolare), è attraversato da nubifragi e temporali. Il lago di Como è esondato, con i turisti costretti a camminare nell’acqua nella centralissima Piazza Cavour. Piogge violente si sono abbattute su Monza, sulla Bergamasca, sul Lecchese. Giovedì a Venezia è tornata l’acqua alta: 117 centimetri sul livello medio del mare. Dal 1872 (quando sono iniziate le misurazioni), c’è un solo precedente simile a giugno, nel 2002. Infine le mareggiate: ieri hanno colpito la costa romagnola, tra Ravenna e Cervia, e quella ligure.E il maltempo è costato al litorale veneziano un calo intorno al 15% dei turisti di giugno. Intanto al Sud è scoppiata l’estate e la Sicilia brucia. Nel palermitano le temperature superano i 40 gradi.
I nubifragi. Tra le città più battute dalla pioggia tra maggio e questa prima metà di giugno c’è il capoluogo lombardo. “ Dal 21 marzo a giovedì la stazione di Corsico ha registrato 315 millimetri di precipitazioni – spiega Lorenzo Craveri, agrometeorologo dell’Agenzia regionale per l’ambiente della Lombardia – A Cinisello Balsamo 327, in quella del Parco Lambro addirittura 428. La media del quindicennio da 1990 al 2015, quindi già con gli effetti dei cambiamenti climatici in atto, era di circa 250 millimetri. E non devono trarre in inganno i due giorni di tregua apparente: nei prossimi giorni torneranno i temporali.(…)
Le anomalie.Eppure c’è qualcosa che non torna nel clima degli ultimi mesi. “L’anomalia c’è su un arco temporale più ampio, – prosegue Sanò, direttore del portale Ilmeteo.it – Da novembre dell’anno scorso abbiamo avuto un inverno praticamente inesistente, con temperature molto miti. Al Sud addirittura non è mai arrivato e anche al Nord le medie sono state più alte del normale di 5-6 gradi. Poi la primavera che ha zoppicato e oggi l’Italia è divisa in due. Il Sud registra un ondata di caldo intenso, mentre al Nord rimangono temporali e fresco, almeno fino all’inizio della prossima settimana. Infine la tendenza, che si è consolidata negli ultimi venti anni, al moltiplicarsi di fenomeni temporaleschi intensi e di breve durata, che una volta erano rari. Cambiamenti legati a ciò che i climatologi chiamano “estremizzazione del clima”.
Temporali tropicali. “Al di là della quantità totale di acqua caduta, conta il modo: i rovesci sono improvvisi, intensi e brevi. Assomigliano sempre di più a temporali tropicali – conferma Federico Antognazza, ingegnere ambientale dell’Italian Climate Network – il surriscaldamento globale porta cambiamenti specifici a livello locale ed eventi meteorologici tipici di zone più calde iniziano a verificarsi pure alle nostre latitudini. Anche il caldo che in queste settimane si è alternato alla pioggia si spiega così: sulle Alpi ghiacci e neve si sciolgono, diminuisce la superfice riflettente, e il calore della radiazione a terra sale in fretta: per questo le temperature tornano ad aumentare subito”. Se la pioggia raffredda la primavera, la febbre del Pianeta non accenna a guarire.. ( Elena Tebano, Corriere della Sera, 18 giugno 2016, pag.20, con foto)
Interferenti endocrini, la definizione di Bruxelles. Abbandonando il principio di precauzione, la Commissione europea chiede prove certe per vietare le sostanze che agiscono sul sistema ormonale Una scelta che fa discutere. Il 15 giugno la proposta finale della Commissione europea sulla regolamentazione degli interferenti endocrini ha sorpreso tutti. La commissione ha deciso che per poter definire una sostanza un “interferente endocrino” servono prove certe dei suoi effetti nocivi sulla salute umana, un livello di prova della pericolosità molto difficile da raggiungere , secondo alcuni addirittura impossibile. Le promesse di restrizioni e di divieto previste nel regolamento che disciplina la vendita di pesticidi in Europa potranno essere mantenute con il contagocce.
Negli ultimi 25 anni sono stati accumulati dati preoccupanti sui prodotti chimici che interferiscono con il sistema ormonale (endocrino) degli esseri viventi. Si tratta di sostanze presenti in molti prodotti di largo consumo (come plastiche, cosmetici, vernici) e si sospetta che contribuiscano all’aumento di diverse patologie, come l’infertilità o alcuni tumori, e che interferiscano con lo sviluppo cerebrale. Molti studi hanno cercato di quantificare il costo per la collettività delle malattie legate agli interferenti endocrini. Le stime oscillano tra i 157 e i 288 miliardi di euro all’anno in Europa.
Ma questi dati non sembrano aver avuto molta importanza nello studio di impatto socioeconomico della commissione. Per regolamentare gli interferenti endocrini la commissione propone infatti di adattare la definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità del 2002. Questa scelta implica non solo che gli effetti nocivi di una sostanza devono essere dimostrati e devono coinvolgere il sistema ormonale, ma devono anche essere “pertinenti” rispetto alla salute umana. Il problema è che alcuni segnali di allarme vengono dal mondo animale e non sono tutti necessariamente “pertinenti” nel senso voluto dalla commissione. L’imposex, per esempio, è un disturbo endocrino che provoca lo sviluppo del pene nelle femmine di buccino (un tipo di mollusco). E anche se non è stato osservato finora nessun problema equivalente negli esseri umani, è stato comunque lanciato l’allarme sugli interferenti endocrini della famiglia degli stannani (composti metallorganici)., che sono all’origine della malformazione.
«La Commissione europea ha messo la barra così in alto che sarà difficile arrivarci, anche se le prove scientifiche dei danni ci sono», ha osservato in un comunicato l’Endocrine Society, la società scientifica degli endocrinologi, che ha 18mila iscritti in 120 paesi, e che parla di un “fallimento per la salute pubblica”. Anche le ong sono critiche: «Il livello di prova della pericolosità è così elevato che ci vorranno anni di problemi della salute prima di poter ritirare dal mercato» un interferente endocrino, osserva Lisette van Vilet dell’Associazione Heal, che rappresenta più di 70 ong nel settore della sanità e dell’ambiente in Europa. (…) (Stéphane Horel, Le Monde, Francia; Internazionale n. 1159, 24 giugno 2016, pag.102). [La proposta sarà ora sottoposta al vaglio dei 27 paesi membri, prima di tornare al parlamento europeo per l’approvazione, N.d.R.]
Un patto per Firenze, stipulato non si sa bene con chi, ma che, presto, ci dicono i giornali, sarà svelato da Matteo Renzi. D’altronde al premier ... (segue)
Un patto per Firenze, stipulato non si sa bene con chi, ma che, presto, ci dicono i giornali, sarà svelato da Matteo Renzi. D’altronde al premier stanno particolarmente a cuore i destini della città: sempre più spesso interferisce, rassicura, promette. Ha bocciato il sottoattraversamento di Firenze e promosso una nuova linea della tramvia sotto il centro storico con un blitz di fine marzo e la convocazione di una mini-giunta segreta; interessato in prima persona al progetto del nuovo aeroporto fiorentino, tramite il Ministro Galletti ha tranquillizzato a luglio l’amico Carrai - Presidente di Toscana Aeroporti - sull’approvazione entro quindici giorni della Valutazione di impatto ambientale; a settembre, alla Festa dell’Unità, ha di nuovo annunciato l’imminente via libera da parte del Ministero dell’Ambiente.
«Ma ancora niente», si legge sulla pagina fiorentina di Repubblica. E l’articolista aggiunge che, purtroppo, la legge prescrive che la Valutazione di impatto ambientale si faccia su progetti definitivi e non su dei Master Plan, come quello presentato da Toscana Aeroporti, secondo una prassi consolidata. «Solo che in Italia la prassi non è stata mai tradotta in legge, anche se è sempre andata bene (sic), come a Roma e Venezia». Ma non a Firenze, si lamenta la giornalista, «stante la rissosità fiorentina sull’argomento».
Tuttavia lo stesso articolo ci rassicura sul nuovo Patto per Firenze (lo scriviamo doverosamente con la P maiuscola): «Ma è il patto il pallino del premier: “Col Comune facciamo l'elenco delle cose che si fanno e quelle che non si fanno, chi paga e chi non paga. E nel giro di qualche settimana firmiamo un impegno solenne davanti ai fiorentini e a tutte le realtà della città con tempi, interventi, impegni: aeroporto, alta velocità, piste ciclabili, Uffizi, interventi infrastrutturali sui contenitori dello Stato”. … “È un bel momento per Firenze, c'è turismo di qualità, io girando il mondo vedo tanta gente pronta a investire. Il presidente cinese mi ha detto che verrà qui...” …“ facciamo il patto per Firenze e a quel punto non c'è più da chiacchierare c'è da fare”». (Repubblica Firenze, 18 sett.).
I fiorentini e le “altre realtà della città” sono rassicurati. Tra qualche settimana sarà dato loro conoscere cosa è stato deciso nel Patto. Per ora sappiamo che saranno a disposizione 300 milioni (tra vecchi e nuovi stanziamenti); non ne conosciamo la distribuzione, tra aeroporto, alta velocità, interventi sui contenitori, ecc.; siamo quasi certi che non andranno alla cosiddetta “pensilina Isozaki”, progettata per una nuova entrata negli Uffizi, che a Renzi “non è mai particolarmente piaciuta” (Repubblica Firenze 18 sett.). Sicuramente, la fetta più consistente andrà all’aeroporto, nonostante che l’Unione Europea ne escluda la possibilità di finanziamento pubblico. Ma tant’è: se si ignorano le leggi italiane, perché si dovrebbero osservare le disposizioni dell’Unione Europea?
Nel frattempo prosegue la mercificazione della città, di cui sono in vendita non solo edifici e complessi storici, con variante urbanistica incorporata, ma gli stessi usi dello spazio pubblico: prima il Ponte Vecchio affittato alla Ferrari, poi piazze e strade privatizzate per matrimoni di figlie e figli di magnati indiani ed eventi di “guru della moda”; l’ultima perla è la concessione del cortile di Palazzo Pitti per un addio del celibato (perché non con spogliarelliste? commenta Tomaso Montanari). Vi è un filo che unisce le interferenze dell’ex Sindaco, con le improvvide e volgari iniziative di quello attuale. L’idea che i destini di una città siano doverosamente eterodiretti, senza che i cittadini abbiano voce in capitolo.
“Patto”: «convenzione, accordo fra due persone o fra due parti» (dal vocabolario Treccani). Ma non si intende tra Renzi e Nardella, dovrebbe essere tra Sindaco e cittadini. E perché, poi, l’amministrazione delle nostre città deve essere affidate non a progetti lungimiranti, ma a improvvisazioni pattizie, con fondi graziosamente elargiti dal monarca? In attesa dell’arrivo di Xi Jinping, cui come minimo dovrebbe essere offerto in comodato Palazzo Vecchio.
L’importanza e la qualità del lavoro di sensibilizzazione, mobilitazione e proposta che le associazioni cittadine producono a beneficio della comunità veneziana sono ormai un fatto acquisito, un fatto che nessuno (o quasi nessuno) osa più mettere in discussione. Siamo di fronte a un patrimonio prezioso fatto di saperi, competenze e impegno che mantengono viva la comunità cittadina; un patrimonio che è un’autentica speranza per Venezia, nella convinzione che la città saprà superare anche questa difficile fase della propria storia.
«Il dato è riferito solo agli ultimi dieci anni ma la tendenza non si ferma: oltre 30 mila i posti letto. L’addio degli edifici pubblici (scuole, tribunali, università) per lasciare spazio all’uso ricettivo». La Nuova Venezia, 24 settembre 2016
Domani ci sarà la manifestazione contro le grandi navi alle Zattere, a Venezia. E ieri il sottosegretario allo sviluppo economico, Antonello Giacomelli ha risposto ad una interpellanza presentata per l’occasione dal sottoscritto per sapere cosa si sta facendo per risolvere lo sconcio del passaggio dei «mostri del mare» per il canale della Giudecca e il bacino di San Marco.
Giacomelli ha risposto assai male. Ha detto che non è escluso lo scavo di nuovi canali in laguna (sarebbe un disastro per l’ecosistema lagunare: comitati e ambientalisti sono contrari). Poi ha detto che i traghetti (che sono spesso sotto le 40mila tonnellate) e le navi merce non passano più per il canale della Giudecca, ma si è dimenticato di dire che quasi 600 navi da crociera (che hanno più del doppio delle tonnellate di un traghetto, numero di navi aumentato dell’80% negli ultimi anni) fanno invece su e giù ogni anno per lo stesso canale. Infine il vice ministro – di fronte alla richiesta – di fare qualcosa presto, urgentemente, ha promesso un incontro tra l’Unesco e i ministeri competenti. Addirittura.
Infatti proprio l’Unesco il 13 luglio scorso nel suo vertice in Turchia ha minacciato di togliere Venezia dal catalogo dei siti «patrimonio dell’umanità» se il governo italiano non interverrà entro il 1 febbraio del 2017 su alcune questioni centrali della città: la salvaguardia dell’ecosistema lagunare, la gestione dei flussi turistici, la questione delle grandi navi. Che fa il governo? Convoca una riunione non si sa quando.
E Renzi che parla tanto di Olimpiadi a Roma e ieri di Expo a Milano, su Venezia – che merita almeno eguale rispetto – non spende nemmeno una parola.
Governo che in questi anni ha assicurato attraverso i suoi ministri (Franceschini, Galletti, Orlando) che mai più le navi da crociera sarebbero circolate per la laguna. È successo qualcosa? Niente. Nel 2012 (c’era il governo Monti) con il decreto Clini-Passera si stabiliva il divieto per la navigazione per le navi sopra le 40mila tonnellate, divieto che però veniva sospeso per trovare delle vie alternative alle navi-grattacielo. Decreto che poi è stato integrato da un provvedimento del governo Letta (nel 2013) che riduceva il numero di passaggi e stabiliva comunque a 96mila tonnellate il limite per le navi. Ma sono state trovate queste vie alternative? No. E le proposte presentate (scavo del canale Contorta, Tresse, ecc.) sono un pericolo enorme per la laguna. Qualsiasi via alternativa non deve manomettere l’ecosistema lagunare e non deve avere impatto sulle emissioni (acustiche ed atmosferiche). Ma intanto il governo latita e la giunta veneziana capitanata da Brugnaro non è da meno.
Allora c’è da fare una sola cosa oggi. Nell’attesa di trovare queste vie alternative (ancora da individuare e poi da realizzare e chissà quanti anni passeranno) bisogna imporre il divieto delle 40mila tonnellate «senza se e senza ma» e stabilire un numero chiuso per le navi. Questa è la strada da percorrere se si vuole salvare Venezia.
«Gli ingredienti della vitalità urbana che osservava dalla finestra di casa sua se ne sono andati con il massiccio processo di sostituzione sociale».Millenniourbano online, 21 settembre 2016 (c.m.c.)
Chi non vorrebbe vivere in un quartiere fatto di edifici di dimensioni limitate, strade facilmente percorribili a piedi, tanti negozi per le necessità quotidiane, le scuole, i servizi e un parco a distanza ravvicinata? La risposta è ovvia e tuttavia la vera domanda da porsi è la seguente: esistono quartieri con quelle caratteristiche o si tratta di uno spazio urbano ideale che trova scarsi riscontri nella città contemporanea?
In Vita e morte delle grandi città Jane Jacobs ha individuato quattro fondamentali fattori in grado di evidenziare il buon funzionamento di un quartiere: la presenza del maggior numero di funzioni di base (abitazioni, attività commerciali, imprese, servizi, ecc.), la piccola dimensione degli isolati che ha come conseguenza il maggior numero di strade da percorrere e di “angoli da svoltare”, edifici di diversa età e condizione e, infine, una buona densità di popolazione per favorire l’incontro delle persone. Queste caratteristiche non erano teoriche ma appartenevano al quartiere dove Jane Jacobs viveva. La sua osservazione, elaborata a partire dall’esperienza diretta e per scongiurare i progetti di rinnovamento urbano dell’urbanistica razionalista novecentesca, le ha consentito di individuare gli ingredienti che meglio definiscono la vitalità urbana.
Il punto di vista della giornalista che a New York abitava dalla metà degli anni ’30 del secolo scorso, non può tuttavia essere considerato in maniera avulsa dal momento storico in cui ha preso forma. Ancora alla fine degli anni ’50, periodo a cui risale la stesura del suo libro, New York era una città industriale e allo stesso modo nel Greenwich Village, il quartiere dove Jacobs ha vissuto fino al 1968, la presenza delle attività produttive era molto cospicua. Che cosa ha dunque in comune lo spazio dove risiedeva una folta rappresentanza della working class di una città fortemente industriale con l’odierno quartiere esclusivo di uno dei principali centri finanziari del mondo?
E’ questo il punto dal quale partono le considerazioni di Benjamin Schwarz, autore di The American Conservative, implacabilmente intese a smontare il mantra del quartiere urbano vitale (stigmatizzato attraverso il suo acronimo VUN, Vibrant Urban Neighborhood), come sintesi avulsa dalla contemporaneità di un contesto spaziale cancellato da più di mezzo secolo di trasformazioni fisiche e sociali.
Cosa differenzia l’ideal tipo del quartiere vitale osservato da Jane Jacobs dai bei propositi dell’urbanistica post-novecentesca? La risposta è semplice – secondo Schwarz – e riguarda la mancanza di quella componente demografica che sostiene con la propria evoluzione la vitalità del quartiere: i bambini. In Cities without children Schwarz stigmatizza i cosiddetti VUN come ambiti urbani sostanzialmente privo di ciò che a Mother Jacobs è servito come lente d’ingrandimento per le sue osservazioni: i figli, i suoi e quelli delle altre famiglie del vicinato.
Posti come il Village e molti altri distretti urbani alla moda sulle due sponde dell’Atlantico, sono ben altro – sostiene Schwarz – che quartieri dotati di tutti quegli ingredienti che ne sostengono la vita rendendoli vivaci e vivibili. Si tratta, più che altro, di parchi di divertimento per giovani adulti, quei 20-30enni senza figli (e nemmeno in procinto di averne) a cui poco interessa della presenza di scuole e di spazi adatti allo sviluppo di individui in crescita.
D’altra parte non è difficile rendersi conto del fenomeno, al quale Schwarz allude tirando in ballo anche la mitica Creative Class di Richard Florida. Provate ad aggirarvi per il centro storico di Amsterdam o per il Navigli district di Milano o tra le strade di Kazimierz, l’ex quartiere ebraico di Cracovia, giusto per fare tre esempi a caso, e vi renderete conto che la piramide demografica per certi settori urbani, particolarmente attrattivi per la loro vitalità, è una espressione priva di significato. Solo giovani, quasi nessun bambino e qualche residuale esponente delle altri classi d’età che si aggira come un pesce fuor d’acqua tra bar, ristoranti e negozi nei quali, probabilmente, non sente nessun bisogno di entrare.
Sembra allora che esista un malinteso sul concetto di vitalità urbana e se è così esso ha a che fare con la distorsione dell’idea di diversità che si pretende di individuare nei quartieri più vivaci e desiderabili. Non basta trovarsi tra persone che parlano lingue diverse e a cui piace sperimentare la cucina di diversi paesi :è la diversità sociale e demografica a consentire ai distretti urbani di essere vitali nelle differenti ore della giornata e non solo al calar del sole.
D’altra parte Jane Jacobs ha descritto chiaramente nel suo libro quanto sia importante questo tipo di diversità per il luogo in cui viveva. «Se il quartiere dovesse perdere le sue attività industriali, per noi residenti sarebbe un disastro: molti esercizi commerciali scomparirebbero, non riuscendo a sostenersi con la sola popolazione residente. Viceversa se le attività industriali dovessero perdere noi residenti, scomparirebbero molti esercizi commerciali, che non troverebbe più nei soli lavoratori esterni la possibilità di sopravvivere.»
Se Jane Jacobs tornasse ad analizzare il quartiere dove ha fatto crescere i suoi figli, dovrebbe per prima cosa registrare tutte le trasformazioni che, così come in molti altri settori urbani sparsi per il mondo, sono state introdotte dalla scomparsa delle attività produttive. Il Village che i suoi occhi osservavano quasi sessant’anni fa è ora un luogo pieno di locali per hipster, non il quartiere che si animava per la pausa pranzo dei tanti operai italo-americani che affollavano la parte meridionale di Manhattan.
Gli ingredienti della vitalità urbana che osservava dalla finestra di casa sua se ne sono andati con il massiccio processo di sostituzione sociale che ha investito gran parte delle aree centrali dei centri urbani ad antica vocazione industriale e quanto sia vitale la presenza in quegli stessi luoghi di schiere di giovani creativi è fenomeno ancora tutto da dimostrare.
Domenica alle Zattere. Un solo no contro le grandi navi, ma tanti sì per una vita a Venezia, per le case per gli abitanti, per fermare il moto ondoso e, infine, un grande sì per “la difesa e il ripristino ambientale della Laguna”». La Nuova Venezia, 23 settembre 2016 (m.p.r.)
Venezia: Un palco galleggiante di venti metri per otto sarà allestito per la “Festa granda” del Comitato No Grandi Navi. La manifestazione per ribadire che le grandi navi devono passare fuori dalla laguna sarà domenica, alle Zattere dalle 15 alle 21; giornata in cui è previsto il passaggio di sei navi, due oltre le 90 mila tonnellate.
Una volta all'anno le porte del carcere si aprono, e si scopre un luogo bellissimo e una umanità che non si immagina. Il segreto è nella solidarietà di generee nella collaborazione tra le ristrette, la dirigenza, le associazioni e il territorio. ilPost.it, 19 settembre 2016 (m.p.r.)
La porta d’entrata, verde scuro, pesante, è all’interno di un ingresso come gli altri. Superata la guardiola (un ufficio, qualche calendario della polizia appeso a un chiodo, delle agenti penitenziarie che sbrigano le nostre pratiche e ci fanno lasciare le borse in un armadietto) si entra in un corridoio. Siamo “dentro”, come si dice, anche se non sembra.
Il carcere femminile della Giudecca a Venezia è un posto diverso da come ci si immagina una prigione: più volte ci si ritrova a pensare che è un posto bello e poi subito dopo a pensare che un posto così, bello non può essere. È diverso perché quasi tutte le detenute lavorano, perché c’è una sezione speciale per le madri - anche se la legge le prevede, non è facile trovarne di attive in Italia – ed è diverso perché è solo per donne. Questo significa molte cose, ma due in particolare, dicono le persone che ci lavorano: i reati commessi dalle persone qui dentro hanno una fortissima componente affettiva e molte delle condanne più lunghe nascono da uno strano incastro «tra chi usa la legge e chi invece la applica».
La Casa di reclusione si trova in un antico monastero fondato nel XII secolo. Poco dopo il 1600 divenne un ospizio gestito dalle suore per prostitute “redente” e diede il nome alla calle dove ancora oggi si trova l’entrata principale: calle delle Convertite. Se ci si passa davanti non la si vede subito: poco prima ci sono un campo con una vigna e delle reti da pesca, un piccolo ponte e poi un edificio tra gli altri, solo un po’ più alto, di cui fa parte anche una chiesa. Sulla facciata c’è una targa in latino in cui si parla di Santa Maria Maddalena penitente, delle «donne convertitesi a Dio dalla bassezza dei vizi» e delle suore che «con uno straordinario esempio di pietà» ricevettero nel 1859 dal governo austriaco l’incarico di gestire le carceri. All’epoca, la Madre superiora era anche la direttrice.
Le donne detenute sono una piccola percentuale della popolazione carceraria nazionale: in Italia circa il 96 per cento dei carcerati sono maschi e le donne sono circa il 4 per cento. I dati ufficiali più aggiornati (dicembre 2015) dicono che su quasi 54 mila persone recluse, le detenute sono 2.107: di queste 1.267 hanno condanne definitive e 790 sono straniere. La maggior parte delle donne carcerate si trova in 52 reparti isolati dentro penitenziari maschili e vive una realtà che è stata progettata e costruita «da uomini per contenere uomini»: in molti casi le detenute «sono lontane dalle loro famiglie», hanno necessità di salute particolari e «i loro bisogni specifici, in buona parte correlati ai bisogni dei loro figli, sono spesso disattesi». Questo lo scrive il ministero della Giustizia nel suo rapporto del 2015 sulla detenzione femminile. Anche l’ordinamento penitenziario le considera poco e disciplina la carcerazione delle donne solo in due commi all’articolo 11 che fanno riferimento, però, alla sola condizione della maternità.
Rispetto agli uomini, le detenute hanno anche minore possibilità di accesso alle attività lavorative: è una «discriminazione involontaria», dice sempre il ministero, causata dal numero limitato di carcerate e dall’impossibilità di condividere gli spazi con gli altri uomini per evitare situazioni di promiscuità: alle detenute, negli istituti di pena, è quindi spesso negato l’accesso alle strutture comuni per fare sport, per studiare o fare dei corsi e soprattutto per lavorare. Sono più carcerate degli altri.
Questo è come le cose funzionano in generale: poi ci sono alcune eccezioni. Gli istituti penitenziari destinati in modo esclusivo alle donne in Italia sono cinque: Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli e appunto la Giudecca. L’istituto di Venezia è costituito da vari edifici intorno al nucleo originale, formato dalla chiesa e dal convento. Al piano terra ci sono degli uffici, la sala colloqui, il magazzino e la cucina. Al primo piano la sezione detentiva con le aule scolastiche, la biblioteca, quella che chiamano “sala ricreativa”, gli uffici del personale e la cappella. Al secondo piano c’è l’infermeria con una sezione detentiva e due sale. Al terzo piano c’è la “sezione semi-libere”. Altre parti dell’edificio, non utilizzate e un po’ fatiscenti, si affacciano su un grande piazzale interno: è il “cortile dell’aria” con un pozzo chiuso, una vecchia rete da pallavolo e una panchina. Qui “le donne” (così le chiamano le persone che ci lavorano) possono uscire un’ora e mezza la mattina e due ore il pomeriggio.
Il lavoro
Alla Giudecca ci sono 78 donne, il carcere ne può accogliere poco più di un centinaio: 42 sono italiane, 36 straniere di 14 nazionalità differenti. Tra tutte e 78, 57 (cioè il 73 per cento) ha condanne definitive e, in forte controtendenza con la media nazionale, quasi tutte lavorano. Le due o tre che non lo fanno hanno problemi di salute. Ci sono i lavori interni gestiti dall’amministrazione, i lavori di manutenzione ordinaria e poi ci sono una lavanderia, una sartoria, un laboratorio di cosmetica e un posto speciale, che in molti (giornalisti, fotografi, registi) vengono a visitare: l’orto.
All’orto si arriva attraverso un piccolo corridoio dal cortile dell’aria: misura 6 mila metri quadri e ci sono diverse serre. Si coltiva un po’ di tutto, compresi gli ortaggi tipici locali: i radicchi di Treviso (e c’è una vasca per l’imbianchimento), il broccolo padovano, quello di Creazzo, il carciofo violetto di Sant’Erasmo. Girano dei gatti, ci sono anche un frutteto e una sezione “aromatica” dedicata alle erbe officinali e ai peperoncini. Ci fermiamo a parlare sotto agli alberi, è fine estate e l’orto è rigoglioso.
Liri Longo, presidente della cooperativa Rio Terà dei Pensieri che gestisce l’orto, e Vania, che ne fa parte da quindici anni, ci spiegano che la produzione è abbondante e che i frutti e gli ortaggi raccolti vengono venduti al mercatino che due detenute allestiscono fuori dal carcere ogni giovedì mattina. Parte della produzione finisce invece nelle borse distribuite dai gruppi di acquisto solidale della zona o rifornisce alcuni ristoranti di Venezia, mentre le erbe aromatiche e medicinali vengono usate dal laboratorio di cosmetica per la preparazione dei prodotti da bagno di alcuni alberghi: detergenti, balsami, creme. Le cose che si coltivano nell’orto non finiscono nella mensa della prigione ma le donne possono acquistarle, se vogliono: lo fanno soprattutto d’estate. Molte, ci spiegano, non mangiano in mensa, ma hanno dei fornelli da campeggio nelle stanze e con quello che possono acquistare cercano di cucinare i piatti delle loro tradizioni («e riescono a fare delle cose incredibili»).
Nell’orto lavorano sette donne e tutte hanno fatto un apposito corso di formazione. Questa è l’occupazione più ambita, ma la convalida delle richieste e la selezione dipende dal fine pena e dalla situazione di ciascuna. Quello dell’orto, che si trova vicino al perimetro dell’edificio, è infatti considerato un lavoro esterno ed è regolato dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario. Chi sta qui lavora tutto il giorno, dal lunedì al venerdì, non ci sono attrezzi complicati o particolarmente moderni e tutto viene fatto a mano: c’è un piccolo trattore parcheggiato all’interno di una serra che però può essere usato solo dall’agronomo. Insieme al tecnico di laboratorio di cosmetica, è uno dei due uomini che incontriamo dentro la prigione.
Le finestre del laboratorio di cosmetica si affacciano sull’orto. Maggie lavora al laboratorio: è rom, ha 28 anni e tre figli: «La cosa migliore che ho fatto», dice. Tra macchinari e barattoli di creme ci racconta che durante i tre anni di carcere preventivo scontati altrove non ha mai lavorato e che il lavoro in carcere viene considerato un privilegio: «Per buona parte della giornata ho una vita normale, le ore in laboratorio passano veloci, i pensieri restano in cella e poi mi posso mantenere: questo è importante per la mia dignità». Dice che quando stava nell’orto era più bello e intanto guarda sorridendo la sua responsabile: «Non mi sentivo in prigione, mi sembrava di essere fuori da qualche parte e poi la sera quando finivo, mi sembrava di rientrare. I lavori esterni sono i migliori perché non sei a contatto tutto il giorno con le persone con cui già devi vivere». Quello nel laboratorio è comunque un lavoro “qualificato”: servono competenze e determinati requisiti. Un’altra donna che ci lavora ci spiega con orgoglio che è necessario un minimo di istruzione: «Bisogna almeno saper leggere e scrivere per seguire le ricette e poi si ha a che fare con dei prodotti chimici, non tutte possono farlo».
La cosa più bella che è successa a Maggie negli ultimi anni, dice, è stata quella di poter vedere i suoi figli su Skype. Oltre alle telefonate, che sono di soli dieci minuti la settimana, frazionabili, da quest’anno per alcune detenute che non hanno la possibilità di fare colloqui e che hanno figli minori lontani c’è l’opportunità di usare Skype. Non è ancora diventata una prassi, però, e Maggie è stata la prima.
Vania, l’operatrice, ci racconta che per il loro lavoro le donne vengono retribuite, come stabilisce la legge. Ci sono una “borsa lavoro” messa a disposizione dal comune di Venezia che è fissa e poi ci sono i ricavati delle vendite che vengono suddivisi dalla cooperativa tra le lavoratrici. Con la «bella stagione» chi lavora nell’orto arriva anche a un totale di 500 euro mensili, compreso il contributo fisso. Il salario in carcere non si chiama così ma “mercede”, che è una specie di residuo linguistico: la retribuzione non è ancora intesa come un corrispettivo per il lavoro svolto, quanto piuttosto come una concessione accordata dallo Stato. Le buste paga vengono gestite da un ufficio interno. Le donne non maneggiano direttamente i soldi, ma possono disporne: mandarne una parte a casa e usare l’altra per comprarsi quello di cui hanno bisogno. «Sigarette, e poi c’è un elenco di cose che possono acquistare al magazzino interno in base a una lista che compilano una volta la settimana».
Oltre a Rio Terà dei Pensieri, all’interno del carcere lavora anche la cooperativa Il Cerchio che gestisce la lavanderia e la sartoria in cui lavorano sette detenute, una con contratto di formazione e sei con una “borsa lavoro” erogata dal comune. Il lavoro proviene da commissioni di ditte esterne tra cui il teatro La Fenice; parte dei vestiti sono in vendita al “Banco Lotto N° 10″, dove lavora una ex detenuta e che è stato inserito in molte guide turistiche.
La convivenza
Alcune agenti penitenziarie ci raccontano che, in generale, le celle e gli spazi individuali del carcere vengono curati con particolare attenzione: le stanze sono ordinate e pulite e si tende a replicare nella stanza l’ambiente della propria casa. Le donne della Giudecca dormono in 22 camere. Il problema principale sono proprio le stanze che sono molto ampie e ospitano più o meno 5-6 detenute ciascuna: ricordano delle camerate e non permettono momenti di intimità e isolamento: «L’essere sempre in collettività viene vissuto come vincolo e limitazione. Non ci sono spazi per la solitudine», ci raccontano le operatrici. «Allora molte donne, anche non credenti, vanno in chiesa per stare da sole o per piangere».
Alla Giudecca lo stare insieme ha creato però qualcosa di buono: un sistema molto particolare per risolvere i conflitti. Quando c’è un problema le donne si riuniscono in assemblea, se ne assumono la responsabilità e cercano di trovare, insieme e autonomamente, una mediazione. Questo meccanismo funziona. Le assemblee sono molto animate, ma le decisioni prese (senza l’intervento delle agenti o di altre mediazioni “esterne”, se non è necessario) convivono o rendono più semplici quelle dell’amministrazione e della direzione in una relazione tra i due livelli «molto particolare e collaborativa». Il merito di questa situazione è attribuito all’attuale direttrice, Gabriella Straffi, che tra poco andrà in pensione. Tutte le persone con cui parliamo sono molto preoccupate da quello che succederà dopo. Il timore è che la Casa di reclusione della Giudecca possa essere associata alla direzione del carcere maschile: «E invece è solo una direzione autonoma che potrà mantenere viva quella sensibilità di genere che qui è indispensabile».
Donne che sono anche madri
Le donne incarcerate hanno mediamente condanne più brevi rispetto a quelle degli uomini, e hanno minori probabilità di avere qualcuno a cui affidare la casa e la famiglia. A Venezia dalla fine del 2013 è attivo un ICAM, un Istituto a Custodia Attenuata per Madri detenute. Ci vivono 9 donne e 5 bambini (alcune di loro sono incinte). Due mamme lavorano nell’orto, mentre una volta non potevano: all’interno del carcere le madri erano solo madri, e non erano inserite nelle attività lavorative.
E. A. preferisce che il suo nome non venga scritto per esteso, ha 32 anni che si faticano a ritrovare nell’espressione del viso, ha qualche tatuaggio ed è arrivata alla Giudecca nel febbraio del 2012. Resterà qui fino al febbraio del prossimo anno «e sembra manchi poco, ma qui il tempo non passa mai». E. è rom, lavora nell’orto dal 2014 e tiene il banchetto esterno del giovedì. Dorme nell’ICAM e il bambino più grande qui alla Giudecca, che ha quasi sei anni, è suo; ha altri 5 figli che non vede e non sente da moltissimo tempo. Le chiediamo che spiegazioni ha dato al figlio quando è cresciuto e ha cominciato a fare delle domande. Dice che non gli ha detto che vive in una prigione: «Forse lui se ne rende conto, ma gli ho raccontato di dover stare qui perché ci devo lavorare». In un tema fatto a scuola il bambino di E. ha scritto di avere una macchina blu e una barca, sempre blu, che sono la macchina e la barca che la polizia usa per i vari trasferimenti. Nel cortile dell’ICAM il figlio di E. ha anche festeggiato un compleanno invitando «da fuori» i compagni di scuola. Quando usciranno, tra qualche mese, E. e suo figlio andranno insieme in una casa famiglia.
Ogni giorno al carcere della Giudecca arrivano dei volontari che vengono a prendere i bambini per portarli all’asilo, a scuola, o ai campi estivi. L’ICAM è un ambiente creato per loro. Lo si intravede poco dopo il corridoio d’entrata: c’è un giardino verde con un’altalena e qualche gioco, le stanze e i corridoi sono colorati, le camere da letto hanno lettini o culle. Ci sono passeggini, seggioloni e quello che a una madre e a un bambino può servire. Ma l’ICAM di Venezia è solo uno dei pochi che avrebbero dovuto essere aperti dopo l’approvazione della legge, nel 2011.
Per amore e per una strana alleanza
Il 26 per cento delle donne che si trovano alla Giudecca è formalmente in carico al Ser.D. (il Servizio per le dipendenze), mentre il 33 per cento è seguito dal servizio di psichiatria. I reati commessi sono i più diversi: si va dai furti più banali a quelli nelle case, fino agli ergastoli per omicidio. In generale alla Giudecca vengono inviate le donne che devono scontare condanne elevate, proprio per la struttura del carcere e per come è organizzato.
Sergio Steffenoni, garante per i diritti delle persone private o limitate nella libertà personale del comune di Venezia, ci racconta che in molti casi le condanne elevate nelle donne hanno una spiegazione comune che ha a che fare l’articolo 146 del codice penale. L’articolo dice che «l’esecuzione di una pena, che non sia pecuniaria, è differita se deve aver luogo nei confronti di una donna incinta o se deve aver luogo nei confronti di madre di infante di età inferiore ad anni uno».
Spesso le donne incinte o madri nelle carceri italiane sono sinte o rom, sono giovanissime e consapevoli che con l’attuale legislazione in breve tempo saranno messe in libertà: la legge è stata pensata per tutelare i minori, ma si può ritorcere sulle madri che spesso sono spinte dai mariti e dalla “tradizione” a delinquere, a fare figli e poi a delinquere ancora, accumulando insieme condanne e bambini. Ci sono donne di 35 anni con 25 anni da scontare e 8 figli che spesso non hanno avuto tempo di crescere. In un documento fatto dalle donne rom e sinte della Giudecca in occasione degli Stati Generali del ministero della Giustizia c’è scritto che nei loro confronti «non c’è nessuna prevenzione, nessuna tutela, nessuna assistenza». E parlano di una specie di «alleanza» tra magistrati e mariti: i primi rispettano la legge, i secondi la usano. In entrambi i casi, loro sono le vittime: «Consapevoli ma senza strumenti economici, sociali o culturali per ribellarsi».
I reati commessi dalla donne in generale, ci raccontano Steffenoni e Marina Zoppello, l’educatrice, hanno una componente “affettiva” molto alta: cosa che non avviene invece per gli uomini. Questo comporta, tra le altre cose, che le donne tendano a giustificarsi più degli uomini e quindi trovino più difficoltà nella presa di coscienza di quel che si è fatto: «C’è una specie di rivendicazione del reato», anche nella fase di esecuzione della pena. La componente emotiva crea una maggiore difficoltà nell’accettazione della detenzione; i tempi di elaborazione, del pentimento e della cosiddetta “revisione critica” sono molto complessi e dolorosi. «Il reato è stato compiuto per amore dei figli o del compagno: diventa così un incidente di percorso e non una scelta pienamente consapevole. Il sentimento prevalente è la preoccupazione per il dopo, legato non soltanto alla possibilità di un reinserimento lavorativo, ma anche a quella di essere accettate in società e di poter tornare a vivere un’esistenza normale: spesso molte di queste donne, prima, hanno avuto una vita normale e non hanno solide carriere criminali alle spalle».
Marina Zoppello ci parla di persone molto complesse «che hanno lottato tanto nella vita, che hanno tenuto insieme la famiglia con un’altissima spinta protettiva, che hanno sopportato violenze e abusi e che a un certo punto sono esplose». Nei maschi, ci spiega l’educatrice con molta delicatezza e cercando di non essere fraintesa, prevale la progettualità del reato, mentre dalle donne «il reato è in un certo senso subìto». Chiediamo se intervenendo sul prima, sulle situazioni di violenza domestica o di sfruttamento per il mantenimento della famiglia, per esempio, si possa in qualche modo evitare che al reato ci si arrivi: «Sì, molto probabilmente e nella maggior parte dei casi sì».