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Una garbata e argomentata replica di un urbanista condotto, che conosce il territorio e la sua storia recente, agli articoli di Wolf Bukowsky e Wu Ming sul Passante Nord di Bologna (m.b.)



Un libello in tre puntate sul Passante di Bologna - di Wolf Bukowsky & Wu Ming è stato pubblicato a puntate su Internazionale online e ripreso da eddyburg. Cito:«Le ipotesi per risolvere i problemi di traffico del nodo bolognese si rincorrono ormai da vent’anni. Nel 2005 ha iniziato a consolidarsi quella del cosiddetto "Passante Nord", una bretella autostradale che doveva tagliare la campagna a Nord della città, collegando Anzola Emilia (A1), Altedo (svincolo A13) e San Lazzaro (Uscita A14). Quel progetto, già finanziato, è stato respinto l’anno scorso, grazie all’azione di un comitato e dei sindaci dei comuni interessati. Ma il comitato ha scelto di "non dire soltanto no" e ha proposto una “brillante” alternativa: l’allargamento di una corsia per senso di marcia dell’infrastruttura congiunta autostrada/tangenziale, che già ammorba la periferia bolognese. E così, un comitato che all’inizio contestava la ratio stessa del progetto, ha finito per scaricare il barile sui cittadini di un altro territorio».

E’ un estratto dell’incipit di una sorta di “libro bianco” confezionato da bravi professionisti, l’acuto critico ambientalista Wolf Bukowsky e il collettivo Wu Ming, uno dei più originali pilastri della narrativa contemporanea bolognese e non solo. Li adoro! Con le mie modeste conoscenze e passioni di storia non mi sono perso quasi nessuno dei loro avvincenti romanzi grondanti di fatti e di acuti parallelismi. Ovviamente, non essendo “cultori della materia” né testimoni di prima mano dei fatti essi si devono essere avvalsi di interviste, informazioni, canovacci e ciò trapela ampiamente dai giudizi e perfino dalle omissioni e smagliature della narrazione.

Fin da questo incipit l’ignaro lettore dedurrà che il progetto di Passante Autostradale Nord, un raddoppio lungo 44 km dell’Autostrada (sostitutivo dei 15 km attuali), finanziato solo per l’anticipazione dei costi di progetto, perché le autostrade le pagano gli utenti con i pedaggi per lunghi periodi di concessione, sarebbe stato spostato, per la maligna influenza di un comitato contrario e di sindaci malvagi, su un nuovo percorso a solcare la periferia cittadina inquinandola.In realtà i cittadini dei “comitati per l’alternativa” e i sindaci hanno solo respinto la devastazione di un territorio agricolo e geologicamente fragile proponendo l’uso di una sede stradale esistente da 50 anni, con un modesto adattamento alle mutate esigenze del traffico, risultate inferiori alle previsioni che un ventennio fa avevano motivato la scelta della infrastruttura ora cancellata.In realtà quindi, la opzione scelta con l’accordo di fine luglio fra Comune di Bologna, società Autostrade per l’Italia e Governo, annullando la previsione del Passante Nord, rappresenta proprio quella “opzione Zero” che l’articolo invoca. Al di là della maldestra trovata nominalistica del Sindaco Merola che, generando un groviglio di equivoci, ha battezzato l’operazione “Passante di Mezzo”, si tratta ora di decidere quali modifiche vadano effettuate sulle sedi stradali esistenti per garantire a questa “opzione zero” i richiesti caratteri di funzionalità e sostenibilità ambientale. Per anni, nelle assemblee amministrative e di categoria, riportate con enfasi dai media locali, la scelta del “Passante Nord” è stata decantata non solo come il toccasana dello smaltimento del traffico che assedia la città ma come un nuova frontiera dello sviluppo immobiliare, fonte di occupazione e ricchezza per il territorio e per gli operatori che lo popolano: “il nuovo che avanza”.I detrattori di tale scelta, agricoltori, associazioni e partiti ambientalisti, difensori di un paesaggio agrario fertile da due millenni e dei suoi beni, sono stati dileggiati come passatisti o rompiscatole.In questi lunghi anni di discussione sul Passante Autostradale Nord è emerso chiaramente che l’opera, oltre che impattante per la mole del rilevato su un terreno geologicamente instabile, soggetto a subsidenza, alluvioni e sismi, era insostenibile dal punto di vista economico in relazione allo scarso traffico che avrebbe tratto vantaggi dal percorrerla. Gli unici ad avvantaggiarsene sarebbero stati, oltre ai cavatori e i fornitori degli inerti, i proprietari dei terreni urbanizzati “fronte-autostrada” che già in fase di previsione avevano avviato operazioni di valorizzazione immobiliare.

Per cui gli estensori del torrenziale “libro bianco” in tre puntate sbagliano fin dalla premessa dove affermano che:“Sullo sfondo – o meglio: a far da cornice al tutto – la fine della programmazione territoriale «all’emiliana», l’amore cieco del Pci/Pds/Ds/Pd per il cemento…”perché attribuiscono alla “opzione zero” che è il Passante di Mezzo, la caratteristica di “business as usual” (sintetizzato in BAU) che è invece propria della scartata proposta del Passante Autostradale Nord, con il suo contorno di cave di inerti, cemento, tondino, asfalto e la ricaduta che trasforma aree agricole in “lotti” urbanizzati produttori di rendita immobiliare. Proprio quel BAU che ha caratterizzato l’originaria “urbanistica democratica” dell’Emilia-Romagna facendone una delle regioni primatiste nella classifica nazionale dello “spreco di suolo”.Certo, il modello urbanistico emiliano-romagnolo, un tempo decantato come esempio di equilibrio fra la città pubblica e le fortune private non ha mantenuto le promesse sotto i colpi del liberismo, neo o vetero che sia: l’urbanizzazione è sbrodolata devastando le fertili campagne e i beni naturali e paesaggistici, la rendita immobiliare ha fatto valere le sue libidini e le tentazioni connesse.

Ora ci troviamo di fronte alla brutta svolta con una nuova bozza di legge Disciplina Regionale sulla Tutela e l’Uso del Territorio, che dovremo contrastare con tutte le forze disponibili per cercare di salvare quel po’ che rimane del paesaggio agrario e naturale, con la forza della Costituzione Repubblicana uscita fortunatamente indenne dal confronto referendario.Ma non lo potremo fare se ci aggrappiamo, come pretendono i comitati di piccoli e grandi proprietari di appartamenti al ritorno del biscione serpeggiante in pianura o a mendicare come rivincite miserande o contraddittorie “opere compensative”.La procedura con il sistema di partecipazione previsto dalla apposita legge regionale proposta dalla neo-nascente Città Metropolitana attraverso la sua Delegata alla mobilità Irene Priolo (che è anche uno dei Sindaci di quei Comunelli della Pianura che finalmente di sono messi di traverso al Passante Nord) non era esente da rischi. Come hanno colto i Wu Ming, la metodologia ha scricchiolato in molti passaggi, non è stato chiaro fin da subito che l’uso della Tangenziale esistente era la sola, reale “opzione zero” per cui la necessità di accettarla ha avuto il carattere di una imposizione. Ma tant’è, i Bolognesi dovranno “farsene una ragione”, adottando provvedimenti concreti che rendano l’opzione zero sostenibile e che puntino alla riduzione del traffico pendolare o in attraversamento, sostituendolo con mobilità su mezzi pubblici di massa e mobilità dolce dovunque sia possibile.

La prima puntata

Addentriamoci nella prima puntata: è il racconto della vicenda del Nodo di Bologna, dalla data di entrata in funzione della Tangenziale (autostrade al centro, corsie aperte laterali) 11 luglio 1967 al “confronto pubblico” sul Passante di Mezzo, quasi cinquant’anni dopo, oltre la metà del 2016. Un racconto avvincente, ma che si dilunga troppo su aspetti marginali, valutazioni e inceppi della politica, tralasciano la cronistoria degli interventi strutturali che hanno accompagnato la vicenda: l’apertura di nuovo casello autostradale “Fiera”, le modifiche agli ingressi e uscite in collegamento con la rete stradale urbana e i lievi aggiustamenti in concomitanza con la realizzazione terza corsia autostradale dinamica nei primi anni del nuovo secolo. Un approfondimento di quest’ultima vicenda poteva essere interessante: perché all’epoca non si è previsto e realizzato, senza gravi disagi, anche quel lieve allargamento della piattaforma che avrebbe permesso di aumentare a tre carreggiate per senso di marcia le corsie laterali aperte, senza sollevare opposizioni. Chi dalle istituzioni influì su tale decisione, forse perché ancora aggrappato alla scommessa del Passante Autostradale Nord sostenuto per abitudine o per interesse dalla maggioranza di quelli che ci contavano?

Altro elemento che manca nella narrazione, anche se snobbato e cancellato dalla “Bologna che conta” e dai suoi media, è il convegno tenuto nella sede della Regione sulle “Grandi Opere”. Fu indetto nel maggio 2015 dai due gruppi consiliari de L’ALTRA E-R e dei 5stelle, e in quella sede associazioni, comitati e molte personalità della cultura e del sociale manifestarono il loro impegno contro il Passante Autostradale Nord e per la sua “opzione zero” cioè l’impiego della Tangenziale esistente. In quella occasione fu anche esposta, come complemento all’ipotesi dei Comitati, l’idea-progetto di copertura fotovoltaica dell’intera Tangenziale, in funzione anche di mitigazione delle emissioni inquinanti, che era stata anticipata con una graphic-novel dal periodico “il manifesto Bologna - in rete”.Ovvierò a tale omissione allegando il recapito al materiale e alla registrazione dell’esposizione raccomandandone la consultazione in rete.

La seconda puntata

Con vivace vena umoristica viene narrata la partecipazione degli autori alle sedute di “partecipazione”, condotte secondo una delle metodologie esposte nel testo di Nanz e Fritsche. “La partecipazione dei cittadini: un manuale” che, pubblicato a cura della Regione E-R ha preceduto l’approvazione della Legge Regionale 3/2010 che promuove e norma la partecipazione dei cittadini agli atti e ai progetti della Pubblica Amministrazione. L’organizzazione era curata da un’agenzia specializzata, Avventura Urbana, incaricata da Autostrade Per l’Italia (ASPI) di concerto con il Comune di Bologna. E’ certo che da una vicenda così sgangherata, figlia di tanti padri, protratta per decine di anni, fra scivolate, ribaltamenti di fronte e sotterfugi non potesse scaturire un confronto limpido e costruttivo.

I partecipanti più smaliziati, ma soprattutto i meno informati infatti covavano infondo al cuore le domande fatidiche:C’è qualcosa da decidere o è già tutto deciso?Chi ci guadagna di più in questo cerimoniale: i politici Comunali? i Benetton? i soliti Coop & Costruttori? Quali cambiamenti in peggio mi vogliono far digerire? Quali diritti mi vogliono negare?Con la comune convinzione, alimentata dai media locali e da concrete esperienze, che i pubblici amministratori siano incapaci o disonesti o con ambedue le qualità e che ci sia sempre una qualche ragione per fancularli. Ed inoltre con lo strazio interiore fra i due lemmi, avvalorati da partecipanti professionisti dell’igiene ambientale:- le automobili disturbano, inquinano e fanno venire il cancro.- quando voglio spostarmi uso l’auto che deve andare diretta e veloce.Gli incerti facilitatori professionali, qui appellati “difficilitatori”, preoccupati di stornare l’attenzione dalle più pungenti critiche e di sminuzzare il dibattito in brevi asserti da “report”, impedivano le possibili aggregazione della domanda e ogni dialogo esplicativo.

Ho partecipato anch’io, in quanto risiedo nel vicino Comune di Calderara, alla sessione cui si riferiscono gli estensori delle Tre-puntate, nella quale la preoccupazione principale dei condòmini era il rumore (non riuscendo a distinguere fra quello del traffico automobilistico da quello, molto più straziante dei decolli e dei “reverse" del vicinissimo aeroporto).Il dossier presentato dalla ASPI sull’impatto del Passante di Mezzo sulla qualità dell’aria, non chiariva le idee a chi teme per la salute e, in un turbinio di numeri non seriali né confrontabili, si venne a sapere che il traffico da smaltire sarà lo stesso degli anni in cui si chiama ancora Tangenziale, sia come volume che come qualità. Il miglioramento promesso avverrà automaticamente per la maggior scorrevolezza data dalle tre corsie per senso di marcia autostradali e dalle tre analoghe delle libere complanari. I tecnici esterni, per il principio di precauzione, chiedono più dati, più centraline da collocare ex-ante per rilevare ex-post l’eventuale miglioramento o peggioramento perché è convinzione radicata che “più corsie richiamano più traffico”. La sessione si conclude con la promessa di qualche allungamento delle bordure di pannelli fonoassorbenti e con la richiesta di due nuovi recinti sgambatoi (e defecatoi) per cani da collocare in due ritagli di prato, ora già pubblico a spese dei Benetton. Due, per dividere cani di diversa taglia! Inoltre pare assodato che il Comune programmerà la costruzione di un nuovo ponte sul Reno, fra l’abitato della “Birra” e la restante periferia cittadina, indicato da decenni sul Piano Regolatore e mai concretizzato.

La seconda puntata si conclude con l’esame, in tono sarcastico, delle dichiarazioni della Assessora Priolo che decanta la quantità e la costosità delle opere compensative che ASPI si impegna a finanziare, soprattutto spazi di verde in parte integrativi di quelle “fasce boscate” che vecchi Piani prevedevano a mitigazione della Tangenziale e che invece, nei decenni, si sono riempite di servizi e di costruzioni. Sulle opere “aggiuntive” ci sarebbe qualcosa da dire, ma lo rimando alle conclusioni.Non manca la nota critica sulle demolizioni di qualche casa, casupola o baraccamento, troppo vicini alla Tangenziale che occorre rimuovere per migliorarne la funzionalità soprattutto negli svincoli, ma su queste si sta già esercitando il Resto del Carlino, con pezzi di colore e interviste commiseratorie ai futuri espropriandi.

La terza puntata

Metteremo le scarpe nel fango, hanno promesso Bukowsky e i Wu Ming e lo fanno con cura percorrendo i frammenti di territorio abbandonati dalla ormai storica Tangenziale e i residui di destinazioni mancate o fallite che la circondano. Un misero paesaggio urbano, in luogo delle promesse “fasce boscate” immaginate cinquant’anni fa.In un’acida carrellata saltano fuori tante magagne prodotte dalle ondivaghe politiche di amministrazioni Comunali, Provinciali, Pubbliche e Private che hanno rosicchiato i margini, i non luoghi della periferia. Parcheggi pubblici desueti e falliti, ferite mai risarcite di un paesaggio che è il cascame, l’effetto collaterale, delle varie fasi dei “miracoli economici”, della rendita immobiliare che conquista nuovi terreni e vi ristagna.

Su questo tema, con un bel po’ di ulteriore confusione, la critica raccatta frammenti del dibattito ormai stucchevole sul “consumo di suolo”, sulle sue possibili diverse denominazioni, sui pericoli indistinti, ma prevedibili di una maldestra iniziativa della Giunta Regionale dell’Emilia-Romagna per una futura DISCIPLINA REGIONALE SULLA TUTELA E L’USO DEL TERRITORIO. Ciò non ha nulla a che fare con il Passante di Mezzo e serve solo ad aumentare il clima di incertezza e disagio che viene scaricato a piene mani sui cittadini preoccupati. Varrà la pena di parlarne a suo tempo, per una seria battaglia contro lo “spreco di suolo fertile e naturale” da intraprendere nelle sedi deputate all’inizio del prossimo 2017; e al quale servirà anche la arguzia critica dei Bukowski e dei Wu Ming, per resistere alle brame della rendita e dei politici che la servono con devozione.Proseguendo, viene esaminata questa Tangenziale, un po’ allargata e “vestita di verde”. Gli abili architetti paesaggisti incaricati da Autostrade hanno cercato di abbellire, inverdire la pillola, creare ricuciture nei percorsi e nelle visuali, addobbare come “porte della città” i sotto e sovrappassi, rendere più “plastici” i pannelli fonoassorbenti. Uno sforzo di buona volontà su cui è facile esercitare l’umorismo e in ciò Bukowski e i Wu Ming si trovano a proprio agio, spesso con leggerezza arguta, ma purtroppo talvolta anche con qualche caduta di stile.

Quello del paesaggista, come tanti altri mestieri, ha qualcosa di futile e vano nella sua vocazione di mascherare le ferree contraddizioni della scena urbana e del paesaggio agrario e perciò si presta allo sberleffo. Non è un gran mestiere, ma “qualcuno lo deve pur fare” come quello del critico, o del tecnico di traffico, o del politico comandato ad occuparsi di infrastrutture.Spiace che uno dei punti qualificanti della nuova sistemazione, la copertura del Passante a San Donino: una galleria artificiale “tipo Amburgo” con tetto-giardino, in modo da collegare due piccole aree a parco già sistemate e la giusta eliminazione di una pleonastica uscita/ingresso sulla via San Donato non sia sufficientemente valorizzata anche come frutto delle giuste lotte degli abitanti frontisti.

Quello che è mancato, al libello in tre puntate è anche una comprensibile e piana descrizione dell’evoluzione del traffico e del relativo inquinamento nel lungo periodo di vita della Tangenziale, con cifre e diagrammi reperibili in archivio ma resi comprensibili ai cittadini nella loro evidenza. In mancanza di tale esposizione è arduo proporre e far comprendere soluzioni che possano moderare gli effetti negativi del traffico in attraversamento o “stili di vita” adeguati ad affrontarli. In assenza di ciò si è diffuso nelle assemblee e nel forum un timore generico, con aspetti morbosi, che ostacola le proposte“di piano” che permetterebbero di affrontare “il mostro” con le armi della ragione e della scienza.

Agitati fra i miti contrastanti della qualità dell’aria e della scorrevolezza del traffico si sono persi di vista i provvedimenti che permetterebbero di moderare gli effetti del traffico privato in attraversamento o di confluenza nella città che sono:
- un sistema di trasporto pubblico collettivo basato sulla rete attraversante del SFM e delle sue fermate e dei possibili parcheggi scambiatori attrezzati.
- le possibili agevolazioni per tutti i sitemi dolci ed alternativi di mobilità, dai pedoni alla bici, dall’auto condivisa ai sistemi di car sharing e simili.
- un criterio di gestione delle sedi stradali del Nodo di Bologna, basato su tecnologie aggiornate, che possa far fronte anche alle emergenze con ragionevoli alternative guidate, che induca a comportamenti virtuosi sia nella condotta che nell’adeguamento dei veicoli.
- un programma di “rigenerazione urbana” specifico per le aree della Città-della-Tangenziale, definita dal Piano Urbanistico vigente, sostenuta anche dai finanziamenti per le periferie e partecipato dagli abitanti, analogo a ciò che sta facendo il Comune di Barcellona con le Superilles.
- la possibilità di confinare, contenere e trattare le emissioni inquinanti mediante un Carter fotovoltaico, una sorta di galleria artificiale che protegga, per successivi stralci, tutta la piastra del Passante di Mezzo, con i caratteri di funzionalità e sicurezza stabiliti dalla normativa e dalla pratica per le gallerie autostradali. Da proporre a mezzo bando di gara ai principali fornitori di energia da fonti rinnovabili.

E’ qui il caso di proporre la consultazione del “Quaderno degli attori” da me depositato agli atti del forum partecipato e che non sono riuscito a discutere né con i frastornati partecipanti né con i tecnici progettisti delle sedi stradali, né, tampoco con gli amministratori coinvolti nelle decisioni, facendolo precedere dalla registrazione della mia presentazione al Convegno sulle Grandi Opere che ho già citato.

Sull’idea-progetto del “Carter” contenuta nel Quaderno degli Attori il Coordinatore del procedimento partecipato, Andrea Pillon ha, nella sua relazione finale, inserito una efficace sintesi:“Copertura totale del tracciato oggetto di ampliamento con una tensostruttura continua su cui collocare pannelli fotovoltaici. “L’idea è di un’opera a bassissimo costo in quanto l’ammortamento dovrebbe essere in gran parte costituito dalla produzione di energia elettrica; (...) tenendo conto delle dimensioni del progetto la superficie fotovoltaica potrebbe essere superiore ai 60 ettari (...) cioè uno dei più grandi campi fotovoltaici” esistenti. I vantaggi dell’opera sarebbero: intercettare all’origine le emissioni inquinanti in modo da migliorare, per quanto possibile, la qualità dell’aria nell’intera area urbana di Bologna; disporre di una vasta superficie fotovoltaica, senza occupazione di aree agricole, prossima ai siti di massimo consumo di energia elettrica e quindi compatibile con i sistemi di controllo costituenti la smart grid; proteggere la superficie stradale dalle precipitazioni atmosferiche, che tendono a ostacolare il regolare scorrimento; disporre di una struttura continua atta a sostenere sistemi di segnalazione e sorveglianza, antincendio e lavaggio delle superfici, ventilazione e contenimento dell’aria (Quaderno degli attori di Antonio Bonomi del 6 ottobre 2016).”

Conclusioni (provvisorie)

La partita del Passante di Mezzo non è ancora chiusa: ha avuto di recente dei rimbalzi in Consiglio Comunale con divisioni all’interno della stessa maggioranza, frutto di confusione dei ruoli, di mancanza di corretta informazione tecnica e sulle opinioni di cui si fanno portavoce i media cittadini, sempre alla ricerca “dell’uomo che morde il cane”, dai tempi delle tenzoni fra i Pepponi e i Doncamilli.Non giova alla comprensione dei fatti la malagrazia con cui viene affrontata in Regione la necessaria svolta per uscire dall’età dello “spreco di suolo”, l’obbligo di un nuovi e più chiari PRT Piano Regionale dei Trasporti e PER Piano Energetico Regionale e PRU Piano Regionale Urbanistico. Non giova il fatto che a Bologna si continua ad annaspare fra sistemi diversi e conflittuali di trasporto pubblico, Civis/Crealis/Emilio, linee filoviarie, People-mover ed ora si riparla ancora di tram mentre il Servizio Ferroviario Metropolitano SFM che ne innerverebbe tutto il territorio è ancora incompleto, non passante ai capolinea perché suddiviso, nella Stazione Bo-centrale, in due cespugli separati da 600 metri di marciapiedi affollati (mentre dovevano essere stati collegati dai primi tre binari con scadenza contrattuale al maggio del 2016).Perciò sarà necessario parlare ancora del Nodo di Bologna, rivedendo anche le opere accessorie proposte che devono essere inquadrate dal punto di vista urbanistico per non causare altri irreversibili danni con sprechi di terra, paesaggio e risorse.Parlarne ancora e farne parlare per trarre da questa odissea il massimo di conoscenza e di crescita che ci dev’essere, che c’è, in ogni viaggio.

Antonio Bonomi - vecchio architetto e urbanistagià Assessore e Consigliere nel Comune di Calderara di Reno , mercoledì 28 dicembre 2016.

Qui di seguito i link alle tre puntate dell'inchiesta di Wolf Bukowsky e Wu Ming sul Passante di Bologna: prima puntata, seconda puntata, terza puntata.

I fatti dimostrano che le “grandi opere” solo occasionalmente producono utilità sociale. Ampio resoconto di un interessante convegno della Fondazione Basso e della Fondazione Culturale Responsabilità Etica. Un ricco inventario di misfatti a. Sbilanciamoci.info, 10 gennaio 2017

Davvero un appuntamento ricco di contenuti quello promosso di recente dalla Fondazione Basso e dalla Fondazione Culturale Banca Etica sul tema delle grandi opere, per ragionare non solo sugli aspetti ambientali, ma soprattutto sulla partecipazione dei cittadini, la vitalità dei territori, le regole del gioco deformate dalla Legge Obiettivo e dalle misure di semplificazione. Regole che non aiutano a scegliere le opere utile alla rigenerazione delle città, alla tutela del paesaggio ed alla cura contro il dissesto idrogeologico, come ha sottolineato Nicoletta Dentico della Fondazione Basso, concludendo i lavori e proponendo che questo dialogo e questa rete prosegua e diventi sempre più serrata ed innovativa. Una rete di associazioni e comitati capace anche di progetto e di alternative concrete, come dimostrano le tante esperienze di impegno e partecipazione nei territori.

Un evento a cui ha collaborato Giulio Marcon, Deputato e Segretario della Commissione Bilancio, animatore della campagna Sbilanciamoci, che ha ricordato come sia Pierluigi Vigna nel 2001 ed oggi Raffaele Cantone hanno definito le regole della Legge obiettivo potenzialmente “criminogene” e di come la Legge di Bilancio 2017 sia ancora nel solco delle grandi opere invece che sulla manutenzione del territorio e di servizi ai cittadini/e.

Il nuovo codice appalti approvato ad aprile 2016 prevede il superamento della Legge Obiettivo ma il regime transitorio rischia di essere lungo ed incerto, per questo occorre vigilanza in Parlamento ed azioni sul territorio per raggiungere l’obiettivo. A questo si è aggiunto di recente un regolamento Madia di semplificazione che ripropone la logica della lista e l’accentramento delle decisioni a Palazzo Ghigi.

Ma in realtà è un clima generale e la visione intorno alle grandi opere che deve cambiare. Il binomio grande opera/grande evento è spesso evocato come una irrinunciabile opportunità per le comunità, un sogno di sviluppo capace di generare nuove energie, nuove potenzialità di convivenza. I fatti dimostrano che, in realtà, questo binomio solo occasionalmente produce utilità sociale, mentre si accompagna sovente a prassi autoritarie e poco rispettose delle comunità coinvolte, a forzature gestionali e amministrative, talora non disgiunte da profili di opacità se non di illegittimità e illiceità.

Molte indagini, anche penali, hanno evidenziato che i sistemi costruiti sui meccanismi della deroga, del commissariamento, delle privatizzazione, dell’eterna emergenza per mettere subito in cantiere opere faraoniche che violentano il territorio e arricchiscono i grandi operatori economici, producono un meccanismo perverso di rapporti tra politica, enti istituzionali e imprese. Questo agevola l’inserimento di operatori spregiudicati e refrattari all’osservanza della legalità e dei controlli. La prospettiva della grande opera, presentata come realizzazione di un sogno collettivo, porta in dote una ben più prosaica realtà: una privatizzazione di programmazione e di decisioni apparentemente pubbliche, con spazio a concessionari, general contractors, progettisti-consulenti, i quali finiscono per dettare condizioni agli enti pubblici, stabilire in concreto tempi (e inevitabili contrattempi) dei lavori, autocertificare i costi. Un meccanismo dagli effetti deleteri per le comunità locali, talora coinvolte in esercizi formali di consultazione, più spesso strette nella morsa delle mitigazioni e con grave lesione per gli spazi della democrazia partecipata.

Al convegno si è ragionato su di un paradigma diverso, che serva davvero al nostro Paese, che coinvolga le Comunità locali come un processo educativo collegiale e come tutela dei diritti delle persone che vivono in un luogo, con una visione di tutela globale e capace di futuro. Estremamente interessante è stato l’Intervento di Franco Ippolito, Presidente del Tribunale Permanente dei Popoli (organismo promosso dalla Fondazione Basso) che ha seguito da vicino il caso delle grandi opere e della TAV in Valsusa, arrivando ad una sentenza di condanna l’8 novembre 2015. La forza di questo Tribunale indipendente deriva dalla capacità di denuncia e dalla forza della pubblica opinione, con un processo che segue tutte le regole e norme dei processi ordinari.

Prima d’ora il Tribunale Permanente per i diritti dei popoli si era occupato di grandi violazioni dei diritti fondamentali dei nativi in diversi paesi del mondo, ma quando ha ricevuto la denuncia del Controsservatorio Valsusa ha deciso di aprire una sessione su questo riscontrando violazioni anche in un paese democratico come l’Italia. La sentenza di condanna è motivata dal fatto che non è stato predisposto uno studio serio di impatto ambientale, non si è garantita una reale partecipazione alle popolazioni locali negando l’accesso a documenti, con dibattimenti fittizi e giustificativi, con la militarizzazione del dissenso nella valle, trasformandolo un problema di ordine pubblico. (Per saperne di più www.controsservatoriovalsusa.org)
Le raccomandazioni del Tribunale al Governo Italiano chiedono di aprire un confronto reale esteso a tutte le opzioni ed alternative, compresa l’opzione zero e nel frattempo sospendere i lavori del cantiere della Maddalena e l’occupazione militare della zona.

Roberto Cuda, giornalista economico ha analizzato con rigore il mito delproject financing, sempre invocato per realizzare l’opera senza contributo pubblico e quindi capace di una grande persuasione verso la politica e le sue regole, come è accaduto nel caso dell’autostrada Brebemi. Su questo caso clamoroso ha scritto anche un bel libro (Anatomia di una grande opera, la vera storia della Brebemi. Edizioni Ambiente 2015). La Brebemi era uno dei pochi casi su cui è stata effettuata una gara per la scelta del concessionario, che si doveva pagare completamente con le tariffe per l’investimento da 1,6 miliardi di euro. Ma non è andata cosi: ha ottenuto 300 milioni di contributo pubblico, una proroga di sei anni della durata della concessione, ed un valore di subentro che pagherà lo Stato alla scadenza della concessione pari a 1,250 miliardi. In pratica l’hanno pagata interamente tutti i cittadini e non gli utenti come era stato promesso. In questo caso si dimostra che l’opera serve solo a chi la costruisce, aumenta i debiti dello Stato e non serve a risolvere i problemi di mobilità. Altri tre casi “negativi” di grandi opere sono stati poi presentati al convegno. Il primo è la storia infinita del Ponte sullo Stretto con Stefano Lenzi del WWF Italia, che ha descritto l’iter trentennale di progetti bocciati e risorti, le intricate vicende giudiziarie ed i ribassi d’asta, i contratti sottoscritti senza un progetto definitivo approvato e la minaccia sempre agitata delle penali, in realtà di molto inferiori, in caso non si realizzi l’opera. Con l’auspicio che la promessa di realizzare il Ponte dell’exPresidente del Consiglio Renzi sia tramontata con le sue dimissioni.

Il secondo caso è l’autostrada della Maremma esposto da Edoardo Zanchini, vicepresidente Legambiente, un progetto nato negli anni 70, che si insiste nel voler realizzare ancora oggi, con la bocciatura di diversi tracciati, mentre l’alternativa è semplice: adeguare e mettere in sicurezza la Strada Statale Aurelia in quei 30/40 km ancora pericolosi. Proprio in queste settimane è in corso una nuova procedura di Valutazione di Impatto Ambientale sul tracciato autostradale Grosseto Capalbio e le associazioni sono di nuovo sul piede di guerra contro un progetto che sottrae una infrastruttura di uso quotidiano e gratuito come la SS Aurelia trasformandola in autostrada a pedaggio.

Il terzo è stato presentato da Cesare Vacchelli che a nome dei Comitati No Tibre e No Mantova Cremona è intervenuto su due progetti autostradali che incombono nel quadrante Parma, Verona, Mantova e Cremona. Ha descritto la storia ventennale di impegno dei comitati locali che con rigore hanno dimostrato l’inutilità dell’opera, il suo impatto ambientale, la crescita dell’inquinamento e del traffico, i legami perversi del progetto con la concessione autostradale privata del gruppo Gavio, i ricorsi in sede europea ed i ripensamenti in corso. Adesso si insiste nel voler realizzare 13 km di opera con un primo lotto del tutto inutile, ma evidentemente necessario per tenere in piedi la proroga della concessione a suo tempo autorizzata. In alternativa servirebbe il potenziamento del Tibre ferroviario. Ed ha rappresentato con il suo intervento una storia esemplare di impegno, rigore, competenza e resilienza di una comunità locale.

Anche il mondo della politica è intervenuto nel dibattito. Loredana de Petris, senatrice di Sinistra Italiana ha sottolineato il suo impegno contro le grande opere e la difficoltà anche a sinistra di cambiare strategia e strada. Il Ministro Delrio sta facendo un tentativo reale di superamento della legge obiettivo, ma gli interessi, i progetti in corsa, il peso delle concessionarie e dei costruttori, si fanno sentire rallentando le scelte nella giusta direzione. Se poi a questo si aggiunge che Luca Lotti i è diventato di recente con il nuovo Governo Gentiloni, sottosegretario con delega al Cipe e quindi sulle grandi opere, c’è ragione di preoccuparsi davvero.

Monica Frassoni copresidente del gruppo verde europeo ha raccontato tutte le iniziative di impegno contro le grandi opere che anche in sede europea con le reti TeN-T hanno preso piede come filosofia, tra cui la TAV Torino-Lione, l’Autostrada della Maremma, la Valdastico. E di come le regole europee e le direttive impongano Valutazioni Ambientali Strategiche, niente proroga delle concessioni autostradali, informazione e partecipazione dei cittadini: criteri spesso disattesi in Italia ma che diventano sempre oggetto di trattativa tra Bruxelles ed il Governo Italiano per trovare compromessi e deroghe in nome della realpolitik e della necessità di far ripartire gli investimenti e l’economia. Anche in Europa serve mobilitazione ed azioni per far pesare i punti di vista differenti e le alternative concrete e realizzabili.

Infine un appassionato intervento di Tomaso Montanari, storico dell’arte, animatore della battaglia contro lo Sblocca Italia, ha messo in relazione il successo del no al referendum con la battaglia contro le grandi opere, perché democrazia e territori possano davvero contare nelle scelte e che riguardano le regole del gioco del nostro paese. Non solo ambiente quindi, ma una idea di futuro dove coinvolgere l’immaginario, offrire una visione, usare linguaggi nuovi è essenziale per cambiare le cose ed avere ascolto tra i cittadini. Insomma fare cultura nel Belpaese per fermare la barbarie. Ad aprile 2017 il Ministro Delrio dovrà presentare il primo Documento di Programmazione Pluriennale dove indicare le opere prioritarie da realizzare ed entro fine 2017 l’aggiornamento del Piano generale dei Trasporti e della Logistica con la strategia per la mobilità e di trasporti. Si tratta di due documenti che faranno comprendere davvero se il superamento della Legge Obiettivo e della logica delle grandi opere da promessa sia trasformata in realtà o se invece interessi di parte e regime transitorio esteso avranno la meglio. Serve molta vigilanza, coordinamento, azioni comuni, competenze, partecipazione – anche in sede UE – per capire se stiamo andando davvero verso opere “utili, snelle e condivise”.

Come approfittare della morte d’un grand’uomo per tirare l’acqua al proprio mulino. La Nuova Venezia, 8 gennaio 2017, con postilla.

Nel 1975 e nel 1976 con i Rapporti scritti per l’Unesco, assieme ad alcuni suoi “giovani allievi”, sulla Pianificazione Urbana e sulla Pianificazione Territoriale, Leonardo Benevolo definisce i contenuti fondamentali che avrebbero dovuto dare (e che daranno poi) corpo al disegno urbano complessivo e alle regole di trasformazione della città di Venezia.

La vicenda di allora, accolta in modo per lo meno controverso dai decisori politici e culturali veneziani di quel momento, dopo avere attraversato il tentativo fallito della redazione di un Piano Comprensoriale che anticipava sostanzialmente la necessità di una dimensione metropolitana della città, doveva trovare il suo sbocco nella stagione aperta nella seconda metà degli anni novanta e poi rapidamente richiusa. Con la stagione delle nuove Giunte e l’elezione di Cacciari sindaco, l’elaborazione culturale che si era accumulata negli anni precedenti poté finalmente trasformarsi in azioni di politica amministrativa e venne avviato un periodo di incredibile attività creativa intorno ai destini della città, sfociata nella redazione in pochissimi anni di tutti gli strumenti urbanistici particolari e generali necessari al suo ordinato sviluppo e corrispondenti ad una visione condivisa.

Leonardo Benevolo, che rappresentava l’espressione più alta di questo pensiero e che più di qualsiasi altro aveva la dimensione culturale di ragionare su Venezia nel quadro di un pensiero urbanistico universale e storicamente fondato, venne chiamato a dirigere e a fare da garante a questo percorso. Nel 1996 venne presentato a Roma nella sede dell’Associazione Stampa Estera e alla presenza di tutti i maggiori urbanisti italiani, di cui si desideravano e non si temevano le critiche, il libro Venezia: il nuovo Piano Urbanistico. L’impostazione del Piano, descritto in quel libro nei suoi elementi strutturali, venne accolto da giudizi unanimemente favorevoli e quell’impostazione fu alla base delle successive elaborazioni che dettero corpo ai piani delle diverse parti della città, unificati poi nel nuovo Piano Regolatore di Venezia.

Va qui notato per inciso che, nonostante tentativi estemporanei di modificare in modo distorsivo per alcune parti e su spinte di interessi privatistici le scelte di allora e nonostante la successiva redazione di un inutile PAT, quelle scelte, che pure avrebbero necessità di essere aggiornate, sono tuttora operanti in città. La fine di quell’esperienza è stata qualcosa di più della semplice conclusione di un lavoro, ma ha coinciso con una svolta nell’urbanistica italiana e in quella veneziana che fa parlare ad alcuni di controriforma urbanistica.

Chi volesse conoscere il pensiero di Benevolo sulla fine di quell’esperienza potrebbe leggere un altro libro Quale Venezia (Marsilio 2007); basti questa citazione: «La progettazione intelligente dello scenario fisico è scomparsa dal dibattito politico e dalle aspettative della gente, proprio mentre si concreta il grande avvenimento epocale a cui tutta la vicenda converge: la distruzione del paesaggio italiano, col suo ruolo primario nella cultura mondiale». E, più in generale, potrebbe leggere gli ultimi libri L'architettura nel nuovo millennio (Laterza 2006) e Il tracollo dell'urbanistica italiana (Laterza 2012), libri di scarso successo per le verità non digeribili dalla cultura dominante che vengono descritte.

Mi rendo conto che questo breve resoconto storico un po’ freddo non dà ragione dell’importanza della presenza di Benevolo e Venezia o lo stesso volerlo definire dal punto di vista della vicenda veneziana rende pallidamente giustizia alla sua dimensione culturale e umana. Per chi come me ha avuto il privilegio assoluto di aver lavorato praticamente tutta la vita al suo fianco, da studente prima, da collaboratore nell’università, e poi in numerosissimi piani urbanistici e infine nella condivisione dell’avventura amministrativa veneziana, diventa estremamente difficile dirne pubblicamente. Le tracce del suo lavoro, oltre ai libri che ha scritto e che in qualsiasi università del mondo mi capitasse di andare scoprivo come fossero tra libri di testo fondamentali, non hanno bisogno di essere celebrate perché hanno agito e agiscono nel profondo entrando a fare parte in modo inalienabile del patrimonio culturale del nostro Paese. A Venezia girano ancora molte persone che sono state allieve o hanno conosciuto Benevolo: è soprattutto a loro che mi rivolgo con queste note.

postilla

Leonardo Benevolo è stato certamente un grande maestro. Moltissimi urbanisti della mia generazione hanno imparato il mestiere a partire dai suoi libri, noti in tutto il mondo. È stato esemplare per la capacità di raccontare con parole semplici, e con una documentazione ineccepibile, le vicende della grande avventura urbana dell’umanità. Chi voglia saperne di più restando su queste pagine legga l’articolo di Francesco Erbani che abbiamo ripreso da
Repubblica all’indomani della sua scomparsa.
Come tutti gli uomini (e anche quelli "grandi") nella sua vita ha commesso qualche errore. A compiere l’errore che ho direttamente conosciuto ha contribuito pesantemente Roberto d’Agostino, quando lo ha chiamato a Venezia a “correggere” il piano per il centro storico, che avevamo faticosamente costruito tra il 1985 e il 1990. La demolizione del piano, e la privatizzazione della città storica iniziarono quando, con la giunta guidata da Massimo Cacciari fu scelto assessore Roberto D’Agostino. I disastri urbanistici di quest’ultimo furono puntualmente denunciati su questo sito. Ne è ricca, ad esempio, la cartella di scritti di Luigi Scano.

Una sintetica esposizione dei risultati del cosiddetto "piano Benevolo" è contenuta in un mio articolo del 2007, “Anch’io sono deluso", nel quale descrivo le pesanti conseguenze di quel piano e della politica di cui è stato lo strumento. Un più ampio sviluppo di quella critica è nel mio Memorie di un urbanista, Corte del fontego editore, Venezia 2010, pp.155-156. Per le ulteriori e più recenti malefatte di D'Agostino numerose testimonianze sono raggiungibili in questo sito digitando, nel "cerca" il suo nome (e.s.)


«Le rovine di Ouara, l’antica capitale del regno di Ouaddai in Ciad, ci ricordano che la deforestazione indotta dai consumi urbani di legna da ardere ha a che fare con la desertificazione, cioè il principale problema dell’economia dei paesi del Sahel ». millenniourbano, 8 gennaio 2017 (c.m.c.)

Come altri paesi dell’Africa sub-sahariana, il consumo di cemento in Burkina Faso è in piena esplosione e si prevede che aumenti in media del 12% all’anno: nel 2015 esso era pari a 105 milioni di tonnellate e si stima che nel successivo decennio raggiunga i 134 milioni. D’altra parte il tasso di urbanizzazione della popolazione del Burkina Faso sta triplicando dal 1985 e nel 2025 è previsto che raggiunga il 35-40% .

Tali prospettive non hanno lasciato indifferenti i produttori ed ha attirato giganti della produzione di cemento come la società francese Lafarge, la tedesca Heidelberg Cement e il gruppo nigeriano Dangote Cement. Il fondatori di quest’ultima società, Aliko Dangote, è l’uomo più ricco d’Africa ed ha costruito un impero nella produzione di cemento in soli dieci anni e nel 2020, Dangote Cement spera di produrre 100 milioni di tonnellate all’anno.

Paese del Sahel senza sbocco sul mare, il Burkina Faso ha un tasso di urbanizzazione della popolazione di quasi un quarto di quella totale, per circa due terzi residente nelle due maggiori città: Ouagadougou e Bobo Dioulasso. Il fenomeno dell’urbanizzazione del Burkina Faso si basa su una rete di città precoloniali e su centri urbani nati della colonizzazione, ma sono le due maggiori città i poli di attrazione delle migrazioni interne dalle zone rurali verso i centri urbani.

Insieme alle persone verso le città si dirige anche una crescente quantità di legna da ardere. Sono tipiche del paesaggio saheliano le cataste di legna poste nelle vicinanze delle strade ed i camion carichi di legname che trasportano i loro carichi verso le città. La legna raccolta o tagliata nelle zone rurali viene principalmente consumata in città. Il fenomeno, per quanto in crescita così come il tasso di urbanizzazione non è tuttavia nuovo. Le rovine di Ouara, l’antica capitale del regno di Ouaddai in Ciad, ci ricordano che la deforestazione indotta dai consumi urbani di legna da ardere ha a che fare con la desertificazione, cioè il principale problema dell’economia dei paesi del Sahel.

Il processo di urbanizzazione implica una marcata crescita della superficie urbanizzata: tra il 1980 e il 2000 la superficie di Ouagadougou è triplicata, mentre nel trentennio 1976-2006 la popolazione delle città è quasi decuplicata.

Nel caso della capitale essa è passata dei 60.000 abitanti del 1960, anno del passaggio da colonia francese a paese indipendente con la dominazione di Alto Volta, ai quasi 2 milioni odierni. Con l’urbanizzazione, e i cambiamenti economici e sociali connessi, la tradizionale legna da ardere viene soppiantata dal carbone di legna, diventato il combustibile maggiormente utilizzato in quanto meglio trasportabile.

Nelle campagne del Burkina Faso sono per lo più le donne che raccolgono la legna, la portano dei villaggi o sul ciglio della strada o ai mercati locali, per poi essere trasportata con i camion verso le città. Nelle zone rurali, dove le donne cucinano un pasto al giorno, il consumo pro capite di legna da ardere è più contenuto che in città anche grazie alla disponibilità di fonti energetiche alternative (scarti vegetali da agricoltura).

Il fatto che l’urbanizzazione sia una delle maggiori cause del maggior consumo di legna da ardere si spiega anche con il fatto che la popolazione urbana cresce ad un tasso annuo del 4,28% rispetto al 1,14% della popolazione rurale e al 2,13% di quella totale. E se la crescita urbana è fatta prevalentemente di insediamenti informali ai quali mancano le infrastrutture minime proprie dell’ambiente urbano, come una adeguata rete stradale e di approvvigionamento idrico ed energetico, il massiccio prelievo di legna dalle zone rurali a quelle urbane diventa inevitabile per il soddisfacimento dei bisogni deli abitanti degli slum.

L’altra faccia della medaglia di questo fenomeno sono le ricorrenti inondazioni provocate dalle piogge torrenziali a carattere stagionale che colpiscono pesantemente soprattutto gli slum di Ouagadougou lasciando dietro di sé migliaia di senza casa. I poveri delle aree rurali che cercano nelle città condizioni di vita migliori sono da una lato la causa e dall’altro coloro che pagano le conseguenze dell’incontrollato processo di crescita urbana.

Oltre tre quarti della popolazione urbana del Burkina Faso vive negli slum e nel 2015 la Banca Mondiale ha finanziato per ottanta milioni di dollari la realizzazione della rete idrica e fognaria nelle periferie di Ouagadougou. Le iniziative di sviluppo urbano della capitale hanno visto nel 2003 la distruzione di villaggi urbani, posti su 85 ettari di superficie tra il centro di Ouagadougou e il suo aeroporto, per avviare la costruzione di un centro commerciale e amministrativo. Qui vivevano circa 50.000 abitanti che nel corso degli anni sono riusciti a costruire reti economiche informali ma efficienti che hanno permesso a questa popolazione di sopravvivere alle dure condizioni di vita degli slum.

Il progetto ZACA (Zones d’Activités Commerciales et Administratives) aveva anche l’obiettivo di risolvere i problemi legati alla proprietà fondiaria delle aree sulle quali sorgono gli insediamenti informali, di riabilitare il tessuto urbano e di fornire gli ex abitanti della zona con migliori condizioni di vita altrove. Dopo circa un decennio di stallo, recentemente il governo locale ha cominciato a rilasciare i permessi per costruire alcuni settori dell’area di progetto, anche se non molto è cambiato riguardo alle conseguenze sociali e fisiche dello spostamento delle 50.000 persone che abitavano l’area.

Dal 2008, il governo ha messo a punto un programma pluriennale di edilizia sociale grazie al quale nel luglio 2013 sono state consegnate 1 500 case. Il nuovo governo, sorto dopo la fine del regime dittatoriale di Campaoré, sta accelerando lo sviluppo del nuovo polo urbano di Bassinko, un villaggio situato a circa 15 chilometri da Ouagadougou, dove diverse aziende private stanno costruendo 14 000 case. Il progetto di edilizia abitativa Bassinko è il secondo più grande dopo il progetto ZACA.

Con i due terzi della popolazione urbana che vive in case realizzate con mattoni di terra cruda, non c’è quindi da meravigliarsi se i progetti di riqualificazione urbana e di costruzione di nuove unità abitative sostenuti dalle agenzie governative ha come effetto un’impennata della domanda di cemento.

«Un saggio Einaudi. ¨L’esperienza dell’architettura" si pone, per Henry Plummer, come un discrimine di libertà, al di là dei meri dati funzionali». il manifesto, 8 gennaio 2017 (c.m.c.)

Se pensiamo al concetto di «paesaggio», a tutta prima non troviamo niente di inaspettato. Un orizzonte scolpito da colline e cipressi, un’area urbana segnata da strade e grattacieli, la cima di una montagna che svetta su un cielo terso e rarefatto: ognuno di questi panorami può essere goduto senza troppi sforzi, quasi fosse un bel quadro che aspetta solo di essere contemplato. Qualcosa, dunque, d’indipendente dalle nostre volontà ed esperienza.

A ben vedere, però, le cose non stanno esattamente così. A dircelo era già stato Simmel con il suo Filosofia del paesaggio del 1913. Per il pensatore tedesco, il paesaggio è un’invenzione prettamente moderna. Non un elemento fattuale legato all’oggettività della natura, bensì un prodotto storico-culturale della nostra società. Infatti, «la creazione del paesaggio richiedeva una lacerazione rispetto al sentimento unitario della natura universale». Quel sentimento unitario era rappresentato dalla nozione greca di kosmos, in cui l’individuo non poteva concepirsi se non come parte di un tutto organico e onnicompresivo, in cui natura e cultura rappresentavano due facce della stessa medaglia.

Con l’inizio dell’età moderna, quest’unità venne a mancare e l’uomo cominciò a percepirsi come un soggetto posto di fronte a un oggetto, in una relazione oppositiva e problematica. Da questa lacerazione, ecco nascere i primi paesaggi della storia: piccoli spiragli di senso in cui l’antica unità viene ripristinata, in cui l’uomo coglie attivamente l’origine comune di soggetto e oggetto, il nesso vitale che tiene insieme io e non-io. Per Simmel, dunque, il paesaggio non è solo questione «geografica», ma anche, e soprattutto, dinamica interna al sentire umano, costruzione dello spirito e della sensibilità umani.

In alternativa a Hegel

Utilizzando la medesima chiave di lettura, ci si può interrogare anche sul significato dell’architettura. Come già faceva notare Hegel, all’elemento spirituale dell’arte, l’architettura potrebbe tutt’al più solo «accennare». Infatti, la sua peculiarità sarebbe quella di rispondere a esigenze materiali di tipo funzionale e utilitaristico: se comparata alla pittura o alla poesia, essa risulta più distante dall’uomo, quasi facesse parte di quella natura che la modernità ha posto in opposizione alla coscienza individuale del soggetto.

Il corposo saggio di Henry Plummer L’esperienza dell’architettura (Einaudi, pp. 290, euro 42,00) tende a ribaltare questa linea interpretativa. Come il paesaggio non è solo una questione geografico-naturalistica, così l’architettura non è unicamente un esercizio di virtuosismo ingegneristico, bensì un ponte gettato fra il mondo e i più intimi desideri dell’uomo.

Come premessa generale, bisogna subito dire che per Plummer, riprendendo un’affermazione del teologo Tillich, «l’uomo diventa pienamente umano nel momento della decisione». In primo luogo, ciò significa che l’azione viene prima del pensiero: solo agendo l’individuo può formarsi una coscienza e realizzarsi in quanto tale. Già nell’introduzione, Plummer si rifà a Sartre e Arendt quando afferma che «la libertà non è qualcosa che ereditiamo o possediamo, ma emerge solo nel momento in cui è agita e sperimentata».

Dunque, l’architettura ha, o dovrebbe avere, il compito di offrire soluzioni motorie sempre nuove e differenti, per dare la possibilità all’uomo di autodeterminarsi liberamente. Al contrario, troppo spesso le scelte architettoniche contemporanee sono figlie di una logica piatta e a senso unico: quella fondata sull’efficienza. Il loro obiettivo è eliminare il rischio e l’incertezza, permettendo a ogni individuo di sapere fin da subito quale sarà l’esito delle proprie azioni.

Plummer rivendica invece l’apertura a possibilità plurime, l’ebbrezza collegata a una scelta rischiosa non garantita da alcuna autorità che non sia la propria coscienza personale, il ruolo pedagogico di un’architettura che invita all’azzardo e alla sperimentazione. Così, in un viaggio che tocca esperienze molto diverse fra loro, Plummer colleziona le opere di quegli architetti che incoraggiano «le attitudini degli esseri umani ad agire nello spazio».

L’esperienza dell’architettura presenta «quattro tipi base di azione spaziale», a cui fanno riferimento altrettanti capitoli. Il primo, intitolato «Piani di agilità», ha a che fare con il suolo e, nel testo, è rappresentato iconicamente dall’opera Il funambolo di Klee. Quella tratteggiata da Plummer, infatti, potrebbe essere definita «un’acrobatica dell’architettura»: il suolo è la «fonte primaria di opportunità» per esercitare «le facoltà di equilibrio e di agilità». Scale, balaustre, soppalchi: ognuno di questi elementi può stimolare una risposta motoria creativa, dove l’uomo si destreggia per superare gli ostacoli e incrementare la fiducia in se stesso.

Fra le molte opere analizzate dall’autore, spicca quella di Carlo Scarpa. In alcuni suoi lavori, come per esempio la Fondazione Querini Stampalia a Venezia, Plummer identifica lo sforzo di incentivare il senso di responsabilità, proponendo piani di mobilità non routinaria, dove scale, anfratti e pavimenti possono essere percorsi ogni volta in modo diverso.

Nel secondo capitolo, «Meccanismi di trasformazione», risuona potentemente una citazione di Schiller: «L’uomo gioca solo quando è uomo nel pieno senso della parola ed è completamente uomo solo quando gioca». Questo vale anche per l’architettura e in particolare per gli elementi cinetici degli edifici, come porte, maniglie, finestre o cancelli. Laddove l’uomo si trovi a manipolare questi dispositivi gli si deve concedere un margine di improvvisazione e incertezza. Egli deve poter giocare, cercare soluzioni inaspettate e riscoprirsi come forza energetica che è in grado di cambiare il mondo. Se l’oggetto non possiede alcuna componente ludica, l’azione umana si sminuisce e regredisce al ruolo di automazione volta a garantire un risultato meramente efficiente.

Il caso di Lloyd Wright

Con «Spazi di versatilità», Plummer introduce uno dei concetti base dell’architettura: il principio di indeterminatezza. Per salvaguardare la libertà d’azione, bisogna assicurarsi che il possibile non sia contratto in modo troppo rigido sul reale; per lasciare un margine decisionale alle persone bisogna progettare spazi polivalenti che permettano «diverse opzioni piacevoli nello stesso volume». Qui i riferimenti principali sono le piazze di città italiane come Roma e Siena e le opere di Wright. Per Plummer, le strutture di ampia grandezza devono poter essere interpretate in modi sempre diversi, così che ogni individuo si senta parte di una collettività e, allo stesso tempo, autonomo per quel che riguarda le sue scelte personali.

Infine, gli ultimi due capitoli «Profondità della scoperta» e «Campi di azione» ripropongono la tesi generale che sta alla base dell’intero volume. L’architettura può essere il ponte fra la libertà dell’uomo e il mondo, può accrescere o restringere quella libertà, può offrire la possibilità dell’esperienza o soffocarla sul nascere. Perché secondo Plummer di questo si tratta, di una questione che in fondo è anche politica. Infatti, se le azioni dell’uomo vengono costrette in binari sempre uguali e ripetitivi, in mosse automatiche e poco personalizzate, il risultato sarà che di quelle stesse azioni l’individuo si sentirà meno responsabile.

Al contrario, se uno spazio polivalente garantisce diverse possibilità di azione tutte ugualmente gratificanti, ognuno sarà incentivato a esplorare e scegliere in modo autonomo il proprio destino e sarà messo nella condizione più favorevole per riconoscere la piena responsabilità dei propri atti.

«La parte del leone la gioca senza dubbio il nostro patrimonio archeologico e questo è un forte indizio rispetto al quale bisognerebbe guardare le cose da un’ottica più lungimirante: perché archeologia vuol dire contesto territoriale». la Repubblica, 8 gennaio 2017 (c.m.c.)

Il sensibile incremento di visitatori di musei e siti archeologici è un’ottima notizia.Su questo fronte come su altri gli italiani si rivelano assai migliori di quel che sembrano.

Certo non tutto, in queste statistiche, è facilmente interpretabile: nella classifica delle regioni, l’Abruzzo all’ultimo posto è forse effetto di una ricostruzione post- terremoto in perpetuo stand by, ma come mai la Liguria è al penultimo posto?

Ovvio che siano in testa Lazio, Campania, Toscana e Piemonte (quest’ultimo grazie al successo del Museo Egizio); ma come mai il Friuli sorpassa il Veneto con le sue mete di primissima qualità, a cominciare da Venezia?

E come si spiega che la Calabria, nonostante i Bronzi di Riace, figuri agli ultimi posti? Per non dire che manca la Sicilia, una lacuna che si spiega con la devoluzione dei beni culturali alla regione (agosto 1975).

Il ministro di allora (Spadolini) doveva essere ben distratto per accettare la sottrazione della più vasta regione d’Italia (certo non l’ultima per patrimonio culturale) al ministero fondato pochi mesi prima. Ma questa è una spiegazione meramente burocratica: non era proprio possibile, d’intesa con la Sicilia, includere anche i suoi dati in un bilancio di fine anno come questo? Potremo leggere prima o poi statistiche più ampie che includano in tutta Italia non solo (come queste) i musei statali, ma anche quelli comunali o privati?

Nonostante queste domande, il quadro è positivo, anche perché più visitatori vuol dire più introiti, e Franceschini ha assicurato che «queste risorse preziose torneranno interamente ai musei secondo un sistema che premia le migliori gestioni e al contempo garantisce le piccole realtà».

Più difficile è andare d’accordo col ministro quando interpreta la crescita dei visitatori come un successo della sua riforma. Incentrata sul divorzio fra tutela e valorizzazione, essa dà un ruolo privilegiato ai “super-musei”, con direttori selezionati con procedura speciale, ma comporta un marcato disinvestimento sulle Soprintendenze territoriali, sempre più povere di personale e di risorse anche se sempre più cariche di incombenze, dalle autorizzazioni paesaggistiche all’archeologia preventiva. Il ministro canta vittoria, ma concentrandosi sui musei li tratta come un sistema a sé, un arcipelago di isole ritagliate dal territorio nazionale. Anzi, tra i siti archeologici cita solo quelli già assimilati a un “super-museo” (Pompei, Paestum) o quella porzione di Roma (Colosseo e Fori) che intende scorporare dalla Soprintendenza per farne un’entità a parte, dato che vi si concentrano visitatori e introiti.

Parlando solo dei musei statali, escludendo dal computo quelli siciliani perché sono etichettati come regionali, puntando sui musei ma non sul territorio, il ministro si comporta come l’amministratore delegato di un’azienda che abbia per filiali i super-musei e, sì, una rete di «piccole realtà», più che come l’interprete primario dell’obbligo costituzionale di tutela del «paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione» (art. 9). Ma lo stesso fatto che in questo incremento di visitatori «la parte del leone la gioca senza dubbio il nostro patrimonio archeologico» è un forte indizio che bisognerebbe guardare le cose da un’ottica più lungimirante: perché archeologia vuol dire contesto territoriale. Nessuno può credere seriamente che i visitatori dei musei ci vadano per rendere omaggio, quasi fosse un referendum, alla riforma Franceschini.

La peculiarità del patrimonio culturale italiano è la sua diffusione capillare sul territorio, la perfetta osmosi fra il “piccolo” e il “grande”, fra i musei e le città, l’identità di paesaggio e tessuto storico-artistico, il radicamento al suolo di una stratificazione millenaria che non si esprime solo nei siti visitabili, ma nei dati archeologici (a rischio) che potrebbero spiegarli meglio.

Se vogliamo trattare come adulti gli italiani che visitano i musei, dobbiamo pensare che lo fanno perché sempre più consapevoli di questa trama minuta. Perciò il ministro non dovrebbe sbandierare i musei mentre le Soprintendenze territoriali sono abbandonate al loro destino, con risorse finanziarie e umane peggio che insufficienti. Dovrebbe sapere che l’instabilità provocata dalla sua raffica di riforme non giova al funzionamento delle istituzioni, e che musei e soprintendenze, in piena simbiosi, vanno intesi come enti di ricerca territoriale.

Dovrebbe correggere gli aspetti più pesantemente burocratici delle sue riforme, per esempio la separazione amministrativa dei musei “minori” dai loro contesti territoriali, o i massicci trasferimenti degli archivi delle Soprintendenze (strumento essenziale di tutela), ma anche di depositi, laboratori di restauro e tecnici dedicati. Dovrebbe tenere in conto che i 500 nuovi funzionari in corso d’assunzione sono una goccia nel mare, forse un decimo del fabbisogno risultante dai pensionamenti di questi anni. Dovrebbe aver ben chiaro che il progettato frazionamento del territorio di Roma sforbiciandone ad arbitrio le aree più ricche di visitatori e d’introiti è contrario alle esigenze della tutela e a quelle della ricerca, moltiplica burocraticamente le competenze nella stessa città e rende più arduo il dialogo con il Comune per un accordo sugli sterminati beni culturali della città (il maggior centro archeologico del mondo).

Roma è, anzi, la cartina di tornasole delle intenzioni del ministro. Colosseo e Fori non sono un “parco archeologico”, sono un pezzo di città da integrare pienamente nel tessuto dell’Urbe recuperandone l’unità di storia e di vita. È quel che ha detto il vicesindaco Bergamo, prendendo atto dell’unicità di Roma e del suo immenso potenziale, ed è difficile che il ministro non sia d’accordo. Un unico riferimento ministeriale per il dialogo con il Comune, Roma come laboratorio, dai grandi musei alle più minute emergenze. Dove mai si può immaginare un progetto più stimolante?

«Cominciamo con la cultura: come sta il nostro patrimonio artistico e monumentale? Lo abbiamo chiesto a Salvatore Settis, archeologo e storico dell'arte». Il Fatto Quotidiano 4 gennaio 2017 (c.m.c.)



Professore, sul Fatto qualche settimana fa ha scritto che le nostre città si stanno trasformando in un “agglomerato di periferie, divorando al tempo stesso il loro cuore antico e le circostanti campagne”. Cosa si può fare per arginare il fenomeno?

Il trionfo delle periferie ha una conseguenza particolarmente negativa nello svuotamento dei centri storici, i quali più si spopolano più sono oggetto di operazioni di gentrification, cioè di mutazione commerciale. Si stanno creando confini interni alla città, che sono confini di natura sociale. La questione non può essere risolta né dal punto di vista della tutela, né da quello del turismo. Bensì creando occasioni di lavoro, soprattutto per i giovani, che abbiano a che fare con i centri storici e politiche abitative che incoraggino a vivere nei centri. L'ho scritto nel mio libro su Venezia, ma vale per tutte le città.

Il ministero si sta occupando molto della valorizzazione del patrimonio in chiave turistica. Trova dei limiti a questa politica?
In Toscana si vede ricorrere dappertutto a una dizione, anche a Pisa, "centro commerciale naturale" che poi sarebbe il centro storico. Cioè la forma urbana, in cui vivevano Dante, Michelangelo, Giotto e Ariosto, sarebbe l'anticipazione dei centri commerciali all'americana: una perversione che si sta diffondendo. Al turista bisognerebbe offrire in primo luogo la civiltà italiana che non è fatta di monumenti vuoti, è fatta di centri storici e delle persone che li vivono. L'unico vantaggio - ma di questo non abbiamo ancora visto nulla - dell'aver accorpato il ministero dei Beni culturali con quello del Turismo, lo avremmo se la promozione turistica partisse dall'autocoscienza dei cittadini che abitano le città; non certo trasformando le città in luna park per turisti.

Che si può fare?
Non puntare sulle mete turistiche già famose, come Pompei o Firenze, ma distribuire i flussi turistici in tutto il Paese. Non solo Venezia, ma anche Vicenza.

Il Mibac sta promuovendo le aperture straordinarie dei Musei e sembra che i numeri gli diano ragione. È la direzione giusta?
Certo, tenere aperti i musei il più possibile è giusto. Ma dovrebbe valere anche per le biblioteche e gli archivi che sono parte di un sistema unico, ma che non hanno un trattamento simile. La Biblioteca universitaria di Pisa, per motivi misteriosi, è stata chiusa dopo il terremoto in Emilia. I volumi sono stati deportati a Lucca: per un numero imprecisato di anni saranno inutilizzabili. E poi: quali musei? Parliamo solo degli Uffizi? Se sì non mi va bene. Dovremmo esplorare i magazzini dei nostri musei che sono vere e proprie riserve auree da cui si potrebbero estrarre nuove opere da esporre. Sono tutte cose che si fanno, ma si fanno ancora troppo poco.

Mancano le risorse.

Sì, ma attenzione: non solo economiche, anche umane. Il ministero ha subito una pesantissima emorragia di personale. I 500 nuovi assunti, che dovrebbero diventare operativi in questo anno, non bastano a coprire nemmeno un quarto dei pensionamenti degli ultimi anni. Ci sono tantissimi laureati in Storia dell'arte e Archeologia che devono cercare lavoro all'estero e potrebbero essere impiegati qui. Questo sangue nuovo potrebbe essere immesso nel nostro sistema della tutela e dei musei: da loro potrebbero nascere nuovi progetti, e non solo più turisti.

Le Soprintentenze sono state accusate di essere la causa di ogni male, alimentando la burocrazia a dismisura e facendo lievitare i tempi d'intervento. Poco prima del referendum, Maria Elena Boschi ha detto in tv che il ministro Franceschini le sta smantellando: una vecchia idea di Renzi.
Il ministro sta attuando a rate una riforma mai annunciata nel suo insieme: l'interpretazione che ne ha dato la Boschi rischia di essere quella giusta. Le Soprintendenze sono state svuotate di personale, trasferito alle istituzioni museali a scapito della tutela del patrimonio diffuso sul territorio. Bisogna invece calibrare le risorse umane delle Soprintendenze in base ai compiti di tutela che hanno, mentre in questi anni è accaduto l'inverso. Addirittura poi con l'abolizione delle Soprintendenze archeologiche accorpate a quelle "olistiche" - parola vuota - la tutela archeologica del territorio, che richiede una presenza capillare, praticamente non esiste più.

Lunedì ci sarà una riunione del Consiglio superiore dei Beni culturali in cui il ministro annuncerà il suo piano di spaccare in due la Soprintendenza di Roma, per "isolare" le competenze su Colosseo e Fori imperiali perché è lì che si fanno i maggiori incassi. Ma è uno sbaglio clamoroso: almeno dai tempi di Augusto Roma è sempre stata una, e l'area archeologica centrale va integrata nello spazio urbano, non tagliata via. Anche per non moltiplicare gli interlocutori nel dialogo, necessario, con la Sovrintedenza che dipende dal Comune. Mi pare che così si accentui la burocrazia, anziché ridurla. Inoltre, il vicesindaco Bergamo qualche giorno fa sul Corriere ha detto che visto che gli introiti di quest'area sono molto alti, il rischio è che quanto eccede la sua gestione- circa 40 milioni di euro - venga redistribuito fuori Roma.

È favorevole al mecenatismo dei privati? L'ultimo caso è quello del restauro, avvenuto con fondi privati, della scalinata di Trinità dei Monti. Si è parlato addirittura di una cancellata.
Sono contrarissimo: se sotto il Pantheon ci sono due persone che dormono in sacco a pelo immagino che negli ultimi Duemila anni sia accaduto un numero di volte incalcolabile. Più che mettere inferriate, meglio sarebbe fare in modo che le persone non debbano dormire all'addiaccio. In Italia c'è grande confusione tra sponsorizzazione e mecenatismo, che è l'uso di capitali privati per iniziative culturali, senza profitto. Un'ottima cosa, che qui accade molto meno rispetto ad altri Paesi perché i meccanismi di defiscalizzazione sono arretrati. In Francia funziona bene perché i vantaggi fiscali ci sono anche per le micro-donazioni: il segreto è questo. Proviamo a copiarli.

Il Fatto Quotidiano, 3 gennaio 2017 (p.d.)

Il regalo di Natale del governo. Firmato 23 dicembre. La legge della Regione Sardegna non è stata stoppata da Roma. Bastano due parole: “Non impugnata”, come è scritto sul sito del ministero per gli Affari regionali. “Potrebbero cambiare il paesaggio della Sardegna. Rinunciando a rivolgersi alla Corte costituzionale, come era stato fatto in precedenza, il governo di Paolo Gentiloni spalanca la strada a una norma che potrebbe sdemanializzare un sesto del territorio sardo regalandolo ai privati”, sostiene Stefano Deliperi dell’associazione ambientalista Gruppo di Intervento Giuridico.

“La decisione del governo – aggiunge Deliperi – è arrivata a due giorni da Natale, nel disinteresse generale. Così come la Regione Sardegna, governata dallo stesso centrosinistra, zitta zitta aveva approvato di notte la norma”.

Già, gli usi civici. Fanno parte della storia dell’isola. “È uno straordinario patrimonio comune di noi sardi. Parliamo di immobili e aree di proprietà collettiva. I Comuni ne possono avere la gestione, ma non sono loro. I cittadini li possono utilizzare per esempio per pascolo, semina e raccolta della legna. I terreni a uso civico e i demani civici sono indispensabili sia per l’economia e il tessuto sociale sia per la cura dell’ambiente”.

Esistono in tutta Italia, ma in Sardegna gli usi civici riguardano 4 mila chilometri quadrati sui 24 mila dell’isola. Un sesto della regione. Vi rientrano aree ancora selvagge, ma anche zone di grandissimo pregio – e di enorme valore immobiliare – lungo la costa. Tra i casi più noti si ricorda Capo Altano, di fronte all’isola di Carloforte. C’è poi la Costa di Baunei a Orosei. Quindi le coste di Montiferru che salgono il monte Urtigu. Poi l’entroterra, il Mont’e Prama. Infine buona parte del Gennargentu, del Sulcis.

Gli usi civici sardi derivano dai tempi del feudalesimo. Gli appetiti nei confronti di questo tesoro cominciarono allora, quando i terreni tolti ai feudatari furono divisi tra privati e cittadini. Con l’arrivo del Regno di Sardegna era stato emesso l’Editto delle Chiudende che autorizzava i contadini a recintare i terreni che prima erano proprietà collettiva.

“Un assedio mai terminato. Gli usi civici non sono mai stati al sicuro”, ricorda Deliperi. E snocciola alcuni casi clamorosi: “Ci sono nati sopra dei complessi turistici, come a Costa Rei o vicino a Orosei”.

“Nel 2013 – sostiene il Gruppo di Intervento Giuridico – la giunta di centrodestra di Ugo Cappellacci tentò di aprire le porte alla sclassificazione. In pratica i Comuni potevano chiedere che i terreni degli usi civici fossero tolti dal Demanio”. Le conseguenze? “Non sarebbero probabilmente più sottoposti alla legge paesaggistica Galasso e in futuro potrebbero anche essere ceduti ai privati”. Ma allora lo Stato fece ricorso alla Corte Costituzionale che, appunto, bocciò la legge del centrodestra.

Il centrosinistra, sostengono gli ambientalisti, in sostanza l’ha riproposta. I Comuni avranno un termine di un anno per presentare la richiesta di sdemanializzazione. Ma qualcuno ha già proposto di allungarlo a due anni. E c’è chi vorrebbe toglierlo del tutto.

Un modo per regalare un sesto della Sardegna ai privati? La maggioranza regionale respinge l’accusa. Cristiano Erriu, assessore alle Finanze e all’Urbanistica della giunta di centrosinistra di Francesco Pigliaru, ha sempre negato: “Abbiamo concepito la norma soltanto per affrontare casi specifici come uno stabilimento di bauxite nel Sulcis. Non solo: per fare qualsiasi modifica sarà necessario un accordo con il ministero dei Beni culturali. Nessuna privatizzazione”.

Francesco Sabatini, consigliere regionale del Pd, aggiunge: “Le norme esistenti erano troppo rigide. Bisognava renderle più adattabili ai casi concreti, alle esigenze della popolazione. Altrimenti, paradossalmente, c’è il rischio che la tutela incentivi fenomeni di occupazione abusiva dei terreni sottoposti a usi civici. Come per esempio da parte di alcuni pastori”.

Ma il Gruppo di Intervento Giuridico ha molti dubbi: “Se davvero vogliono sanare singoli casi specifici, perché non usano la permuta, l’alienazione o i trasferimenti dei diritti di uso civico? Invece le nuove norme potrebbero essere applicate a tutti gli usi civici. In mano a cattivi amministratori rischiano di regalare ai privati un sesto della Sardegna. Un danno irrimediabile!”.

Ancora: “La Regione costituirà un gruppo di lavoro con esperti anche esterni per studiare i problemi legati agli usi civici. Costerà 300 mila euro. Ma perché non rivolgersi alle strutture della Regione?”.

«La spesa nel sociale, è appesa al filo del ciclo edilizio, e questo è un dato preoccupante -dice Paolo Pileri, nel libro “Che cosa c’è sotto”,che affronta le problematiche legate al suolo». Altreconomia online, 30 dicembre 2016 (c.m.c.)

Gli “oneri di urbanizzazione” rappresentano per molti enti locali una cifra consistente delle entrate, fino al 20 per cento. Ma così -spiega il professor Paolo Pileri- è difficile immaginare di fermare il consumo di suolo favorendo il recupero del patrimonio o di aree dismesse. Il record ad Arese, con il 20,9%.

Nel 2014, oltre un quinto delle entrate messe a bilancio del Comune di Arrese, nell’hinterland di Milano, è arrivato dai “permessi a costruire”. Ciò significa che il 20,9% di tutta la spesa pubblica, compresa quella per garantire servizi ai cittadini (dagli asili alla mensa) è dipesa, cioè, dal contributo corrisposto all’ente dai soggetti che hanno realizzato interventi sul territorio.

Sono cinque, tutti medio-piccoli, i Comuni italiani che -nello stesso anno- hanno visto dipendere oltre il 15% del proprio bilancio dal “ciclo dell’edilizia”: secondo i dati di OpenBilanci, progetto di OpenPolis, oltre ad Arrese anche Locate di Triulzi (MI, 20,8%), Lainate (MI, 17,9%), Ozzano nell’Emilia (BO, 16,8%) e Corte Franca (BS, 15,6%). Poco più sotto stanno Noventa di Piave (VE, 14,3%), Segrate (MI, 13,5%), Trezzo sull’Adda (MI, 13,4%), Santorso (VI, 13,4%) e Cermenate (CO, 12,2%).

«Questi dati evidenziano che in alcuni casi un settimo o addirittura un quinto della ‘vita dei Comuni’, compresa la spesa nel sociale, è appesa al filo del ciclo edilizio, e questo è un dato preoccupante -dice Paolo Pileri, che insegna al Politecnico di Milano e per Altreconomia ha scritto “Che cosa c’è sotto”, il libro che affronta le problematiche legate al suolo-. Se anche volessimo suggerire a Regioni e Stato di spingere l’acceleratore sul ‘recupero’ del patrimonio edilizio già esistente e delle aree dismesse, attraverso sconti e incentivi (ovvero riducendo a zero le entrate pubbliche relative alle imposte che si potrebbero richiedere per quelle attività edilizie), i Comuni avrebbero davanti a loro scenari di mancati incassi preoccupanti a fronte dei quali non ricevono nulla in cambio».

Secondo Pileri, da un’analisi dei dati -il Comune che ha incassato di più in termini assoluti nel 2014 è quello di Roma, con oltre 120 milioni di euro, mentre se si guarda al dato pro-capite il primo Comune italiano è Forte dei Marmi, in Versilia, con introiti pari a 375 euro per ognuno dei 7.679 abitanti- emerge «un quadro ‘sbandato’, dove non si rintracciano relazioni tra popolosità e raccolta di denari attraverso i permessi a costruire». Un tema che Pileri segnala già nel suo libro, spiegando che tra il 1999 e il 2007 un Comune tra i 500 e i 1.000 abitanti ha consumato -in media- quasi 5.000 m2 per dare casa ad un nuovo abitante, mentre lo stesso abitante consumava 660 m2 se veniva insediato in un Comune tra i 10mila e 20mila abitanti.

Guardando ai bilanci dei Comuni, inoltre, appare evidente una carenza per quanto riguarda la raccolta della base di dati: «I numeri divulgati da OpenBilanci andrebbero approfonditi cercando di capire alcuni elementi chiave, come ad esempio l’origine delle entrate da permessi a costruire e la destinazione delle risorse e la consapevolezza che hanno i cittadini del comportamento dei loro governanti». Secondo Pileri, in particolare, gli enti locali dovrebbero essere invitati a suddividere i proventi tra permessi a costruire che arrivano da consumi di suolo libero o da ristrutturazioni/recuperi/cambi di destinazione d’uso; sarebbe inoltre importante che i bilanci comunali rendessero esplicito come gli enti hanno speso i soldi, se in investimenti strutturali o in spesa corrente.

Nel caso di Arese e Lainate, due dei tre Comuni sul podio nel 2014, è facile immaginare che i grandi introiti siano legati agli interventi di “riqualificazione” realizzati nell’area ex Alfa Romeo, dov’è stato costruito -e inaugurato nell’aprile del 2016- il centro commerciale più grande d’Europa, con una superficie di circa 120mila m2. Anche se si tratta di un recupero, chi si occupa di urbanistica considera anche la problematicità di altri elementi, come quelli legati al traffico indotto (“Arese, in troppi al centro commerciale dei record: chiude lo svincolo A8, autostrada in tilt, con 10 chilometri di coda”, milano.repubblica.it).

«Questi elementi fanno la differenza -sottolinea Pileri-, mentre oggi Regioni e Stato si trovano in mano una base di dati poverissima, e mi chiedo come possano prendere decisioni tali da modificare il corso delle cose», come ad esempio quella contenuta nella legge di Stabilità del 2017, che prevede che dal 1° gennaio 2018 i Comuni non potranno più coprire le propri spese correnti con gli incassi dei permessi a costruire, i cosiddetti “oneri di urbanizzazione”. Sempre che il governo che sarà in carica il prossimo autunno non posticipi o cancelli questa misura.

«L’economia globale capitalistica prende le cose buone dai paesi poveri a cui restituisce la nocività. Il socialismo riconosce i bisogni essenziali alla vita». il manifesto, 30 dicembre 2016 (c.m.c.)

La politica ha (dovrebbe avere) la funzione di soddisfare i bisogni delle persone: bisogni di cibo, di acqua, di abitazione, bisogno di respirare aria pulita, di salute, di informazione e istruzione, di mobilità, di dignità e libertà, eccetera. Per soddisfare questi bisogni, anche quelli apparentemente immateriali, occorrono cose materiali: frumento e mulini, acquedotti e gabinetti, cemento e vetro per le finestre, libri e banchi di scuola, letti di ospedale, veicoli e strade, eccetera.

Tali cose materiali possono essere ottenute soltanto trasformando, col lavoro, delle materie naturali: i raccolti dei campi diventano pasta alimentare o conserva di pomodoro e queste vengono trasportate nei negozi e poi arrivano alle famiglie; i minerali vengono trasformati in acciaio e questo diventa lattine per alimenti, o tondino per le costruzioni di edifici; gli alberi vengono trasformati in carta e questa in giornali o libri.

In ciascuna di queste trasformazioni delle materie naturali in oggetti utili, capaci di soddisfare, appunto, bisogni umani, i campi perdono una parte delle loro sostanze nutritive minerali, i mezzi di trasporto immettono nell’atmosfera gas nocivi, si formano scorie e rifiuti solidi, liquidi, gassosi che finiscono nel suolo o nei fiumi o nell’aria. Una circolazione natura-merci-natura alla fine della quale i campi risultano meno fertili, le acque e l’aria più inquinate.Il “peggioramento” della qualità dell’ambiente riguarda però molto diversamente le diverse classi sociali e i diversi paesi.

Alcuni godono i vantaggi del possesso di più merci, e sono maggiormente responsabili degli inquinamenti, altri non riescono a soddisfare neanche i loro bisogni essenziali e sono danneggiati dal peggioramento dell’ambiente.

Il caso più emblematico è rappresentato dai mutamenti climatici: i paesi ricchi, con i loro elevati consumi di combustibili fossili, immettono nell’atmosfera grandi quantità di gas serra; i paesi poveri, pur avendo bassi consumi energetici, subiscono gravi danni a causa delle piogge improvvise che allagano i campi o della siccità che asciuga le limitate riserve idriche.

I paesi ricchi possono disporre di grandi quantità di alimenti di buona qualità importandoli dai paesi poveri che li ottengono da monocolture che hanno sostituito la loro agricoltura di sussistenza. I paesi ricchi importano minerali e fonti energetiche per le loro industrie da paesi poveri a cui restano terre desolate e inquinate.

Molti rifiuti solidi e inquinanti dei paesi ricchi vengono smaltiti, con processi dannosi e pericolosi, nei paesi poveri. E’ la globalizzazione capitalistica: per denaro le cose buone vanno dai paesi poveri a quelli ricchi e le nocività vanno dai paesi ricchi a quelli poveri.

Il degrado dell’ambiente ha dato vita a movimenti di protesta, ma anche la protesta ambientalista può assumere diversi colori. Ad esempio davanti ad una acciaieria inquinante alcuni chiedono di chiuderla; altri riconoscono che l’acciaio è essenziale per tanti altri settori della vita umana, può essere fatto con processi alternativi, meno inquinanti, che consentono di salvare l’occupazione.

Alla contestazione ecologica ci sono due reazioni; il potere economico si sforza di minimizzare la portata umana dei danni ambientali esaltando i vantaggi per l’economia e la gioia che viene assicurata dal possesso di crescenti quantità di merci, del superfluo e del lusso.

D’altra parte talvolta le organizzazioni dei lavoratori, davanti al pericolo che più rigorose norme ambientali possano compromettere il loro posto di lavoro, sono disposti ad accettare i danni ambientali che compromettono la salute loro, dentro la fabbrica, e quella delle loro famiglie, fuori dal cancello della fabbrica.

Per superare gli atteggiamenti populistici ed egoistici di quelli che vogliono i benefici della tecnica purché i disturbi e le nocività danneggino qualcun altro, altrove, una sinistra ha (avrebbe) di fronte una sfida che richiede la collaborazione e la solidarietà dei popoli inquinati e dei lavoratori.

Una rivoluzione che parta dall’analisi dei bisogni umani, di quelli essenziali da soddisfare anche con un costo ambientale, e dei processi e materie e mezzi con cui soddisfarli tenendo conto dei vincoli fisici imposti dal carattere limitato delle risorse della natura e della limitata capacità dei corpi della natura di ricevere le scorie delle attività umane.

Un processo difficile perché il capitale finanziario, dopo aver saziato le domande delle classi e dei paesi più abbienti, per dilatarsi inventa sempre nuovi bisogni da far credere essenziali anche alle classi meno abbienti. Ha inventato macchine che invecchiano rapidamente, che devono essere sostituite con sempre “più perfetti” aggeggi, per la cui conquista le classi povere sono disposte a svendere il proprio lavoro e talvolta anche la propria dignità.

Una situazione che Marx aveva lucidamente descritto già un secolo e mezzo fa nel terzo dei manoscritti del 1844, spiegando che nell’ambito della proprietà privata ogni uomo s’ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno; con la massa degli oggetti cresce la sfera degli esseri ostili, a cui l’uomo è soggiogato.

Ma spiegando anche che il socialismo è l’unico sistema capace di riconoscere quali bisogni sono essenziali per liberare “l’uomo” dalla miseria e dall’ignoranza, e i processi e le materie che sono in grado di soddisfarli.

La difesa dell’ambiente — un altro volto della lotta di classe — non passa quindi da un rifiuto della tecnica ma dal rifiuto della tecnica asservita al capitale per il quale le merci non servono a soddisfare bisogni umani ma solo a generare denaro per alcuni (pochi) e nocività per altri (tanti).

Alcune nocività ambientali generate in un paese danneggiano chi abita vicino, al di là degli oceani e addirittura chi abiterà il pianeta; si pensi all’eredità che l’avventura nucleare militare e commerciale di cui hanno “goduto” (si fa per dire) alcuni paesi nell’ultimo mezzo secolo, lascia alle generazioni che verranno nei prossimi decenni e secoli costringendoli a custodire sotto stretta sorveglianza i cumuli delle scorie radioattive.

Il Fatto Quotidiano, 30 dicembre 2016 (p.d.)

La Sardegna è un formidabile museo all’aperto. Soltanto i misteriosi Nuraghe sono 8.815. Mentre i grandi Musei da “far fruttare” non esistono. Il Compendio Garibaldino di Caprera non ha un direttore, il Museo Sanna, archeologico ed etnografico, di Sassari è diretto da un geometra riqualificato antropologo. Senza direttore pure l’Antiquarium di Porto Torres e il Museo di Nuoro. Tutti offrono oggi servizi peggiori rispetto a quelli ante-riforma. Due anni fa, con la gestione della Soprintendenza, l’Archeologico di Cagliari ha quasi raddoppiato visitatori e incassi.

“Il Polo Museale in Sardegna creato artificiosamente”, mi dice Igor Staglianò, autore di memorabili inchieste per la Rai (l’ultima sui parchi nazionali semi-abbandonati), “ha avuto una ben misera dotazione, 150 mila euro in tutto. C’è un solo sparuto archeologo per l’intero circuito. La Soprintendenza ne contava 11 prima della riforma. Pochi e però l’unione faceva la forza. Separando i musei archeologici dal vero museo sardo che è il territorio, il ministero ha valorizzato, da Roma, una generale debolezza.”

Dedolante la situazione degli Archivi: non ci sono soldi per la digitalizzazione; gli Archivi di Stato sono retti da facenti funzione; alla funzionaria di Cagliari hanno scaricato pure Oristano. L’unica dirigente archivistica dell’isola deve pensare anche a guidare la conservazione degli archivi di Comuni, scuole, ospedali, ecc. A fronte di 150 mila euro richiesti ne ha ottenuti sei mila. A quattro Soprintendenze ne sono subentrate due che però devono tutelare 24.100 chilometri quadrati (più della Lombardia) con 18 sedi operative e depositi archeologici enormi (quattro statali e una trentina comunali), con un patrimonio alimentato da diverse civiltà mediterranee. Le due Soprintendenze “olistiche” hanno avuto da Roma 450 mila euro con cui tutelare l’isola, 1800 km di coste, migliaia di Nuraghe e aree di scavo, oltre a manutenzioni, bollette, impianti di sicurezza, ecc. Da piangere. Lavori di scavo? Messe in sicurezza? Zero euro. Auto? Le due Panda presto verranno ritirate: da un anno nessuno riesce a pagarne il leasing. Fra 1971 e 2011 le abitazioni (moltissime seconde case), sono balzate da 392 mila a 960mila(+ 136%). Percontro la Soprintendenza del Nord conta su 3 architetti (2 a tempo parziale), a fronte di circa 7.500 richieste annue di parere per nuove licenze e condoni paesaggistici: a pieno organico, 12 pratiche e mezzo a testa al giorno. Con l’umiliazione del silenzio/assenso (voluto da Renzi) e guasti paesaggistici inesorabili. A quei pochissimi custodi del paesaggio (pagati 1700 euro al mese e anche meno) toccano pure conferenze dei servizi, dichiarazioni di interesse culturale, pareri per l’impatto ambientale, progetti e direzioni dei restauri, manutenzione delle sedi.

La giunta Soru, col validissimo coordinamento dell’urbanista Edoardo Salzano, aveva approvato nel 2004 rigorosi piani di tutela delle coste isolane dopo un tempestivo decreto “salva coste.” La giunta Coltellacci (centrodestra), pur provandoci con forza, non è riuscita a devitalizzare il tutto. “Se non altro”, commenta lo stesso Salzano “sono state eliminate dalle previsioni dei piani urbanistici vigenti 15 milioni di metri cubi”. Una colata di cemento.

Nel sud i Musei sono soprattutto archeologici. Nelle chiese, nelle abbazie, o nei grandi palazzi, sta ancora la maggior parte delle pale, delle tele e delle tavole, degli affreschi, delle statue, insomma quanto al centro-nord si trova invece nelle Pinacoteche, statali e civiche. E qui la “riforma” Renzi-Franceschini dimostra in pieno tutta la sua assurdità. Come scindere i Musei archeologici dagli scavi? In Puglia, alla città di Taranto sede del bellissimo Museo nazionale della Magna Grecia e pure, da fine ’800 della Soprintendenza archeologica dell’intera Puglia, quest’ultima è stata “scippata”a vantaggio di Lecce e di Foggia. La creazione di tre Soprintendenze accorpate ha burocraticamente diviso fra loro territori omogenei come quelli abitati da Peucezi e Dauni. Il Chiostro del Convento di San Domenico (dove c’era la Soprintendenza Archeologica unica della Puglia, coi poderosi archivi regionali da fine ’800) è stato assegnato al Polo Museale che però non pare per niente interessato. Nell’area metropolitana di Bari ci dovrebbero essere cinque archeologi e però due soli operano qui perché altri due sono occupati altrove e uno ha ricevuto dal Polo anche l’incarico di dirigere il Museo di Manfredonia. Un solo archeologo a Foggia, altri due sono “in prestito” da Bari.

In Campania alla ex Soprintendenza di Caserta e Benevento i due storici dell’arte presenti nel 2015 sono andati in pensione. La Soprintendenza unica di Salerno e Avellino ha pochi archeologi perché qui sono migrati al Polo dove è confluita una decina di piccoli musei archeologici. Fanno incassi? No, perciò li aspettano giorni cupi. Migrano gli esperti e però gli archivi restano dove sono e quindi i primi devono trasformarsi in corrieri. Gli archivisti sono sempre meno e quindi le pratiche tardano anche più di dieci giorni. L’appena istituito Parco Nazionale dei Campi Flegrei ingloba solo i monumenti, non il loro contesto, ma sono confluiti in esso pure monumenti “minori” chiusi al pubblico. In alcuni hanno sede gli uffici periferici della tutela che dovrebbero traslocare a Napoli. Un caos per la gioia degli abusivi, dei tombaroli, dei camorristi.

la Repubblica/Genova online , 26 dicembre 2016 (c.m.c.)

I turisti potranno tornare a popolarlo durante le feste, le scolaresche hanno ripreso i laboratori nei giorni scorsi. Mentre sul piazzale della fortezza sono ripartiti gli scavi grazie agli studenti dell’alternanza scuola lavoro: si lavora alla ricerca della facciata dell’antica cattedrale della città, che era arroccata quassù e i genovesi distrussero nel ‘500 per costruire la loro fortezza.

Il Priamar si rianima: grazie al Museo archeologico di Savona finalmente riaperto. Storia di un polo culturale che sembrava sacrificato sull’altare dei tagli, che è tornato a vivere grazie ai volontari, ma che vivrà solo un mese.
Il Museo archeologico era stato chiuso dal Comune, senza preavviso, a fine ottobre, per gli ammanchi economici e la decisione di sacrificare anche la cultura in nome della chiusura del bilancio. Tagliando al museo il 100% dei fondi, 54 mila euro l'anno giudicati non più sostenibili.

Ora si è ripartiti, mettendo una pezza: a riaprirlo è stato a titolo gratuito, ma solo per un mese, l'Istituto internazionale di Studi liguri, la onlus che lo fondò nel 1990 e lo ha fatto diventare un fiore all'occhiello della città, appena inserito tra i finalisti del Riccardo Francovich 2016, prestigioso premio per musei e parchi archeologici italiani.

Ma da metà gennaio che ne sarà del sito? Riaprirà stabilmente, magari grazie a sponsor privati, o diverrà un simbolo della difficoltà, incapacità, di gestire e mettere a frutto le risorse del territorio? «Noi chiediamo prima di tutto al comune un passo indietro – spiega Carlo Varaldo, docente di archeologia all'Università di Genova e responsabile del museo – Ci ripensi, e non ci tagli tutti i fondi, distribuisca i tagli con equità».

Anche perché l'Istituto ha dovuto licenziare i 3 dipendenti part time del museo, che facevano da guide e lavoravano alla schedatura dei reperti. «Ma di persone competenti come loro c'è bisogno, non possiamo affidarci solo al volontariato o a un dipendente comunale che viene ad aprire il museo qualche ora a settimana – prosegue Varaldo – Il museo archeologico non è un fossile, è una realtà viva, che deve crescere, tra attività di ricerca, corsi, laboratori, stage degli studenti universitari. Solo dalle scuole abbiamo decine di prenotazioni per visite guidate nel nuovo anno: speriamo di poterle accogliere e non dover chiudere di nuovo i battenti, interrompendo anche gli scavi».

Il tira e molla continua. Certo, bisogna tenere conto delle difficoltà economiche del Comune, della nuova giunta di centrodestra che dalla precedente ha ereditato un indebitamento per 100 milioni: e ha tentato di superarlo approvando un bilancio severo su tante voci, non solo al capitolo cultura.

Il museo archeologico la sindaca Ilaria Caprioglio dice di non volerlo chiudere, ma ricorda anche che a differenza della Pinacoteca e del museo della Ceramica, che espongono beni comunali, qui il materiale è di proprietà dello Stato: passando di fatto la palla alla Soprintedenza. E allora, fra i tre "litiganti", ecco l'opzione sponsor: «La proposta potrebbe essere quella di mantenerci trovando sostegni privati – continua Varaldo, pensando ad esempio a Costa Crociere che porta migliaia di turisti all'anno e potrebbe essere interessata – Ma ci vuole tempo.

E' successo tutto troppo in fretta, abbiamo saputo della chiusura a fine ottobre, non abbiamo avuto il tempo per organizzarci. Del resto, non possono neanche accusarci di essere poco virtuosi: siamo arrivati ad accogliere 6 mila visitatori l'anno, e mentre in media in Italia le entrate dei musei coprono solo il 7% delle spese, noi copriamo da soli più del 20%. Ma non si può pensare di arrivare al 100%». C'è preoccupazione, dietro le porte del museo. Anche perché piove sul bagnato: i rapporti con il comune negli ultimi anni sono stati tesi, fatti di ricorsi al Tar e lettere al veleno.

Qualche anno fa un bando per riassegnare la gestione del museo, vinto per pochi punti da un pool di cooperative savonesi che avrebbero dovuto subentrare all'Istituto. Varaldo e colleghi però hanno fatto ricorso al Tar e hanno avuto la meglio. «Ma proprio quando avremmo dovuto ricevere l'assegnazione definitiva, il concorso è stato annullato dal comune per i problemi economici», spiega ancora il professore.

E siamo ad oggi. «La nostra è una realtà in evoluzione, abbiamo appena terminato un periodo di ristrutturazione e abbiamo nuovo materiale da mostrare – conclude – Abbiamo reperti che vanno dall'età del ferro al Medioevo: questo luogo è espressione della città, della sua storia, del suo guardare avanti. Sarebbe un peccato interrompere il percorso».

«La questione non sono le “opere” ma la democrazia. La riforma di Renzi era (anche) un esproprio dei poteri di autogestione dei territori». Il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2016 (p.d.)

«Pubblichiamo una parte dell’intervento di Tomaso Montanari, vicepresidente di Libertà e Giustizia, al convegno “Grandi Opere, grandi ombre” organizzato in Senato»

Il 20 dicembre, cioè due settimane dopo il trionfo del No al referendum costituzionale, la Camera ha votato definitivamente la ratifica all’accordo tra i governi italiano e francese per l’avvio dei lavori del Treno ad Alta velocità tra Torino e Lione. Un voto che ha assai più a che fare col passato che col futuro: non solo perché il progetto risale al 1990 (quell’anno, per dire, Sanremo fu presentato da Johnny Dorelli e Gabriella Carlucci, e fu vinto dai Pooh), ma perché dimostra in modo plateale la drammatica incapacità della classe dirigente italiana di leggere la direzione in cui si muove il Paese.

Uno dei cuori della riforma costituzionale firmata da Matteo Renzi, infatti, riguardava proprio le Grandi Opere: le si definivano strategiche per l’interesse del Paese, e si stabiliva che esse fossero decise dal governo di Roma, tagliando completamente fuori le Regioni. Il sindaco d’Italia giurava che avrebbe preso quelle cruciali decisioni nell’interesse delle comunità condannate al silenzio, ma quelle comunità non gli hanno creduto.

Uno dei motivi di questa radicale sfiducia è legato proprio all’esperienza nera della Val di Susa. Qui, nella notte di Ognissanti del 2005, mille agenti caricarono un gruppo di manifestanti guidati da numerosi sindaci: “Quindici fasce tricolori. Pubblici ufficiali contro pubblici ufficiali, la forza armata dello Stato mandata a sbaragliare quelli che in teoria erano suoi rappresentanti”.

Quella notte “i No Tav avevano dalla loro tre forze: quella della ragione, quella della disperazione, quella della gravità perché gli agenti erano in numero soverchiante ma spingevano in salita”. Sono brani estratti da uno straordinario libro recente di Wu Ming 1 (Un viaggio che non promettiamo breve. Venticinque anni di lotte No Tav, Einaudi, 2016), che consegna la vicenda della Val di Susa all’epopea nazionale. E permette anche al pubblico più vasto di conoscerla nei minimi, documentatissimi, dettagli: e l’immagine che ne esce non ha a che fare con le Grandi Opere, ma con la questione della democrazia.

La memoria dei sindaci caricati dalla polizia impediva di credere all’immagine sorridente del sindaco d’Italia che sa qual è il bene delle più remote comunità. E invece rafforzava la convinzione che – per dirla con le parole di Papa Francesco – in ogni decisione “devono avere un posto privilegiato gli abitanti del luogo, i quali si interrogano su ciò che vogliono per sé e per i propri figli, e possono tenere in considerazione le finalità che trascendono l’interesse economico immediato”.

L’inderogabilità dell’autodeterminazione delle comunità nel governo del proprio territorio: ecco il vero frutto politico di 25 anni di lotta in Val di Susa. Tra le ragioni del No al referendum c’è anche questa: gli italiani non sono disposti a cedere sovranità su questo punto. Non per caso, alla campagna del No ha attivamente partecipato Nicoletta Dosio, una mitissima cittadina della Val di Susa che la Procura di Torino avrebbe voluto prima agli arresti domiciliari e ora fuori dalla Valle.

D’altro canto, solo chi ignora la nostra storia può stupirsene: il rapporto viscerale tra comunità e ambiente è uno dei tratti più profondi della nostra identità, come dimostra il fatto che la parola “nazione” figuri tra i principi fondamentali della Costituzione (art. 9) solo in rapporto appunto al “paesaggio”, vale a dire al territorio.

Per questo è davvero lunare ascoltare il presidente del Piemonte Sergio Chiamparino dichiarare, dopo il voto della settimana scorsa, che “la morale è che bisogna sentire le comunità coinvolte. La svolta è arrivata infatti con la nascita dell’Osservatorio nel 2005”. Non ci potrebbe essere un capovolgimento più clamoroso della verità: quel grottesco Osservatorio avrebbe avuto, almeno in teoria, il compito di decidere se fare il Tav o no, ma era presieduto da quello stesso Mario Virano che, come commissario del progetto, aveva invece il compito di realizzarlo senza se e senza ma.

D’altra parte, proprio la verità è la più frequente vittima della battaglia intorno al Tav: si pensi al processo intentato a Erri De Luca (poi assolto) o all’inaudita condanna di una studentessa (Roberta Chiroli), accusata di aver manifestato, nella propria tesi di laurea, un’adesione alle azioni dei no Tav. Capovolgere la verità, ignorare la realtà: la maggioranza di questo Parlamento illegittimo corre spensierata sulla strada che l’ha già portata a sbattere contro il muro del 4 dicembre. I moventi che la guidano sono più forti dello stesso istinto di sopravvivenza, perché hanno a che fare con i grumi di interesse che dettano l’agenda del Paese.

Nel 1974 un leader per nulla ambientalista come Enrico Berlinguer comprendeva che era urgente mettere fine “al sistematico sacrificio degli interessi pubblici più sacrosanti (la salute, la difesa del paesaggio e del patrimonio artistico, l’ordinato sviluppo urbanistico, l’onesto rispetto della legge e dell’equità) agli interessi privati: di parte, di corrente, di gruppi e uomini nella lotta per il potere”. Una lezione del tutto inascoltata, se oggi Enrico Rossi – che si candida a guidare il Pd ‘da sinistra’ – è ben deciso a sventrare la Maremma per un'autostrada che servirà solo a chi la farà, e frontalmente avversata dalle comunità locali.

Ma una cosa il 4 dicembre l’ha insegnata: qualunque rinnovamento della politica si voglia attuare, non può che passare attraverso il rafforzamento del rapporto tra comunità e governo del territorio. Fuori da questo nesso elementare non c’è futuro per la democrazia in Italia.

L'intervento del Vicepresidente di Italia Nostra Venezia sul delicato momento che Venezia sta vivendo con gli annosi problemi: Mose, navi, turismo. La Nuova Venezia, 28 gennaio 2016 (m.p.r.)

L'anno 2016 si conclude con tutti i grandi problemi di Venezia ancora irrisolti, mentre con il passare del tempo le situazioni gravi si cronicizzano. Com'è sempre accaduto a Venezia ciò metterà le generazioni future di fronte a fatti compiuti e irreversibili, con grande soddisfazione dei pochi che dallo stato esistente traggono rendite economiche e politiche. Il Mose è ancora incompleto. Dopo l'esplosione degli scandali, molto facilmente prevedibili e previsti, il carrozzone sussiste e barcolla ma continua a succhiare denaro. Le voci di chi era contrario fin dall'inizio e ora ha avuto platealmente ragione cadono ancora nell'indifferenza del potere; anzi, causano irritazioni aggiuntive.

Le navi da crociera continuano a passare davanti a San Marco, con stupore del mondo intero. Dopo anni di discussioni si è ancora incerti se portarle a Marghera o scavare canali per arrivare alla Marittima o creare banchine fisse o mobili alle bocche di porto. L'opzione più giusta, quella di liberare città e laguna da quell'incubo, non viene neppure considerata, nel nome di un malinteso vantaggio economico, che andrebbe solo a favore dei potenti organizzatori, con briciole di semi-stipendi per gli sfortunati figli di chi non possiede licenze di taxi, di gondole o di bancarelle finto-ambulanti. È esplosa la trasformazione degli appartamenti da case d'abitazione in strutture ricettive. Oltre seimila se ne contano su ventiquattromila utenze in città. Nessuno interviene e tra poco sarà troppo tardi. Sciami di lancioni depositano ogni ora migliaia di visitatori innocenti davanti alla Ca'di Dio, per ritornare a prenderli nelle prime ore del pomeriggio e riportarli agl'infernali trasporti su gomma per la corsa verso altre martirizzate città d'arte.
Una commissione indipendente dell'Unesco, e poi un'assemblea generale, hanno esaminato il quadro generale e concluso che Venezia rischia di venire inclusa tra i siti in pericolo. Dovrebbe presentare un piano di resurrezione entro il febbraio 2017 ma non sembra avere intenzione di farlo. Il sindaco di Venezia si è scagliato contro l'interferenza negli affari della sua città, dimostrando un'abituale grossezza di vedute con la dichiarazione che prima di parlare l'Unesco dovrebbe mandare dei soldi per aiutare Venezia a pareggiare i bilanci. I quali bilanci sono sempre in rosso malgrado trenta milioni di turisti nel 2016, cosa che spinge a vendere altri palazzi di pubblica proprietà e a concedere altri permessi per alberghi e centri di commercio turistico.
Di buono c'è che i cittadini non contagiati dalla generale miopia liberistica ancora resistono, ancora chiedono misure per salvare bellezza, cultura e qualità della vita e ancora mostrano a esempio le positive realtà di Barcellona, Amsterdam, San Francisco, perfino New York. In quest'ultima città, e nel suo intero Stato, non è possibile affittare un appartamento per meno di trenta giorni di fila: lungimiranza di amministratori che vedono un processo di degrado all'orizzonte e lo contrastano prima che sia troppo tardi. Oggi si cita con orrore un'ordinanza comunale del 1962 che obbligava a sversare in laguna tutti i materiali inquinanti prodotti dalle industrie di Porto Marghera. Domani lo stesso orrore sarà generato dall'indifferenza verso le grandi navi da crociera e verso il proliferare di plateatici, di affitti turistici, di ricordini fabbricati in Cina. Il 2016 ha dato una forte spinta in quella direzione. Il 2017 rischia di fare altrettanto e forse di più, data la composizione dell'attuale giunta comunale e del consiglio che la sorregge. Si va verso un anno di decisioni che non potranno essere che negative, date le premesse. Occorrerà resistere, mostrare che le strade alternative esistono e possono essere piene di luce. Anche quest'ondata di oscurantismo passerà, come tante altre in passato. * Vicepresidente Italia Nostra, Venezia

«Un resoconto di Maurizio Geusa dell’incontro Abitare l’incompiuto in cui è intervenuto l’Assessore all’Urbanistica e Lavori Pubblici Paolo Berdini». carteinregola online, 24 dicembre 2016 (c.m.c.)

Si è tenuto lunedì 19 dicembre alla Città dell’Altra Economia, un incontro sulle opere incompiute nel nostro paese, “con l’obiettivo di sollecitare la cultura architettonica e urbanistica, la cittadinanza e le istituzioni al confronto con questi spazi dello scarto, attraverso la costruzione di strumenti idonei alla loro trasformazione”.

All’incontro, organizzato dal Gruppo degli eurodeputati di European United Left / Nordic Green Left, coordinato dall’eurodeputato Curzio Maltese, hanno partecipato: l’Assessore all’urbanistica di Roma Paolo Berdini, l’architetto Alfonso Giancotti, il Professore di progettazione architettonica Luca Montuori, l’antropologo Giorgio de Finis, l’artista visivo Andrea Musa di Alterazioni Video e il regista Benoit Felici.

E’ stata l’occasione per l’Assessore Berdini di rivendicare il primato delle opere incompiute della nostra città, ricordando i cantieri abbandonati dei parcheggi pubblici, a partire da Cornelia con i suoi sette piani interrati, Viale Libia, Val Melaina, Tor Tre Teste, il Mercato pubblico di Via Appia, tutti finanziamenti pubblici spesi male. A questi si devono aggiungere le Torri dell’Eur rimaste scorticate, che forse si concluderanno e il patrimonio di Santa Maria della Pietà ridotto in condizioni di pericolo per i crolli.

L’Assessore ha anche ricordato le attuali proposte inaccettabili come il nuovo centro commerciale al posto dei Mercati Generali di Via Ostiense in cui il verde pubblico è stato proposto in verticale sull’esempio del Bosco verticale di Boeri a Milano.

A giudizio dell’Assessore sono due le cause strutturali di tali risultati. Una prima, da ricercare nel dominio dell’economia liberista che ha sciolto il legame fra capitali e luoghi togliendo i vincoli all’investimento di fondi mobiliari internazionali sulla nostra città.

Una seconda causa strutturale è da ricercare nella caduta delle regole della trasformazione urbanistica. In questo caso con la responsabilità di un pezzo della sinistra che si è adeguato alla deregulation delle trasformazioni urbanistiche.

Da questa premessa ha sviluppato la sua proposta in due mosse per ricostruire questa nostra città.

Una prima riguarda la vertenza relativa ai finanziamenti. Sempre secondo Berdini un pezzo di sinistra in questi anni ha tagliato circa 3 miliardi alle finanze locali. A fronte di questi tagli la recente ricerca del CRESME ci informa che Londra ha sviluppato un programma fino al 2030 con finanziamenti da parte dello stato per 1 miliardo all’anno. Parigi, altrettanto con un programma fino al 2025 e finanziamenti per 800 milioni all’anno. Per Roma la richiesta è di cinquecento milioni a fronte di cui sono stati assegnati 18 milioni con il recente bando per le periferie. Infine ha ricordato la situazione delle casse capitoline dove in mancanza di fondi per la manutenzione straordinaria dei treni l’Assessore Meleo sarà costretta a chiudere le linee A e B della metropolitana con conseguenze solo da immaginare.

La seconda mossa riguarda le regole per le trasformazioni urbanistiche. Da tempo, con il Piano casa della Regione Lazio, le regole sono state travolte, lasciando mani libere ai privati. Emblematico il caso dell’ex Centro Direzionale Alitalia della Magliana, presto trasformato in residenze, con incremento premiale della superficie utile lorda. Altro caso la trasformazione in studentato della ex Dogana di San Lorenzo. In definitiva, ha esemplificato Berdini “questa sembra una città fai da te. L’economia liberista ha finito per strangolare la città: giocando in difesa non si vincono le battaglie e togliere le regole porta all’inferno”. Da tutto ciò non siamo riusciti a dare una prospettiva alle periferie e al degrado sociale dentro la città.

Quindi, Berdini ha proposto di rovesciare il tavolo per un’idea di città pubblica. Perché il pubblico deve dare gli obiettivi.

E ha ricordato che in questa città ci sono 99 stabili occupati da cittadini senza casa, ma per dare risposte a questo bisogno primario si devono costruire case pubbliche. Il fabbisogno è nell’ordine dei 8.000-10.000 alloggi. Questo il primo obiettivo. Oggi per il residence di Ostia si spendono 3 milioni all’anno mentre sono circa 20 i milioni all’anno per l’assistenza alloggiativa. Il finanziamento richiesto al governo servirà a questo scopo.

A questo obiettivo primario, per il quale la nuova Giunta chiede risorse, si aggiunge un secondo obiettivo di breve termine di 7 nuove linee tramviarie.

Infine, l’Assessore ha ricordato come per realizzare la Nuvola si siano spesi 400 milioni cedendo il patrimonio immobiliare collettivo dell’EUR. Berdini ha concluso, ricordando un uomo importante laico e socialista come Adriano Olivetti di cui occorre riscoprire l’utopia per recuperare questo immenso patrimonio abbandonato, sostituendo la strada dell’urbanistica liberista con il pensiero collettivo.

«Una prospettiva reale al nostro paese non può non includere l’obbligo etico di investire sempre di più nella sicurezza del nostro territorio. La stretta relazione tra dissesto geologico e dissesto sociale sottolinea una disattenzione collettiva verso il territorio». MicroMega online, 23 dicembre 2016 (c.m.c.)

In Italia non esiste una strategia di riduzione dei rischi naturali, che parta dall’educazione nelle scuole e dall’informazione alla popolazione, che preveda sistematicamente esercitazioni di emergenza, la pianificazione di interventi di rinforzo delle abitazioni, l’applicazione rigorosa delle normative edilizie, la delocalizzazione di edifici strategici e di impianti industriali a rischio.

Al momento la prevenzione in Italia viene percepita soprattutto come declamazione di luoghi comuni e slogan, puntualmente rispolverati dopo ogni tragedia. Quali sono le ragioni profonde di una tale irrazionalità fatalistica che ignora la scienza? Il nuovo campo della geoetica può dare alcune risposte.

Il 24 agosto e il 30 ottobre 2016, due forti terremoti radono al suolo numerosi centri abitati nel territorio compreso tra Umbria, Marche, Lazio e Abruzzo. L’evento di ottobre provoca distruzione anche a Norcia, fino a quel momento considerata cittadina simbolo di un’accorta azione di ricostruzione e rinforzo strutturale eseguita dopo il terremoto della Valnerina del 1979. Crolla quasi completamente la Basilica di Norcia dedicata a San Benedetto, patrono d’Europa, uno dei simboli dell’identità culturale dell’Occidente.

Con Norcia probabilmente si sfalda anche una delle immagini positive attraverso cui mostrare necessità ed efficacia della sempre invocata e mai perseguita prevenzione dai rischi naturali. Del resto, un disastro naturale è contemporaneamente causa ed effetto di un disastro sociale, nel momento in cui la scienza resta inascoltata dalla politica, anche per sua intrinseca debolezza nel saper dialogare con la società.

Di nuovo siamo di fronte a un paese colto di sorpresa dall’ennesimo terremoto, un evento naturale decisamente ricorrente sul territorio nazionale, non prevedibile temporalmente, ma dalle conseguenze quantificabili. Se da un lato la Protezione Civile ancora una volta mostra tutta la sua efficienza e tempestività, dall’altro gli effetti disastrosi sul tessuto sociale, economico, storico e artistico di nuovo denunciano l’assoluta inadeguatezza delle attività di prevenzione.

In questo momento di sconforto e rabbia, parlare di rischi naturali e prevenzione è un compito delicato, che si dovrebbe saper affrontare da angolazioni diverse, nel tentativo di individuare nuove possibili soluzioni.

La scienza e la tecnica nel cassetto

Non esiste in Italia una robusta strategia di riduzione del rischio, articolata in azioni concertate, che parta dall’educazione nelle scuole e dall’informazione alla popolazione, che preveda sistematicamente esercitazioni di emergenza, la pianificazione di interventi di rinforzo delle abitazioni, l’applicazione rigorosa delle normative edilizie, la delocalizzazione di edifici strategici e di impianti industriali a rischio. Al momento la prevenzione in Italia viene percepita soprattutto come declamazione di luoghi comuni e slogan, puntualmente rispolverati dopo ogni tragedia.

Eppure non siamo certo all’anno zero e non mancano i punti forti sui quali fare leva per costruire un patto nazionale per la prevenzione dai rischi naturali, per aumentare la consapevolezza sociale e favorire un’azione politica responsabile. Uno di questi è la conoscenza scientifica. La comunità scientifica nazionale conosce da anni la sismicità delle zone interessate dai recenti terremoti, come del resto di tutta la dorsale appenninica, avendone analizzato le caratteristiche geologiche, le informazioni di sismologia storica e i dati strumentali, e avendo messo a punto banche dati online a disposizione di tutti [1] [2] [3].

Con le dovute cautele, i terremoti del centro Italia erano per la scienza “prevedibili”, se circoscriviamo la prevedibilità all’identificazione delle aree interessate dagli eventi e all’entità dell’energia potenzialmente sprigionabile. La scienza non è ancora in grado di dire in maniera deterministica quando potrà verificarsi un terremoto, ma certamente può quantificare probabilisticamente le occorrenze all’interno di determinati periodi temporali. Altrettanto nota era la vulnerabilità di quell’edificato antico o, se relativamente recente, costruito nell’incultura delle tecniche costruttive, quando non addirittura nella negligenza delle norme antisismiche.

In fondo scienza e tecnica hanno sempre umilmente imparato dai passati disastri e migliorato i modelli e le metodologie di intervento. Eppure, osservando le macerie di quei centri abitati, sembra che scienza e tecnica restino sempre strumenti spuntati, chiusi nel cassetto polveroso dei decisori politici, per i quali quegli strumenti possono solo rappresentare un pesante fardello amministrativo, quando non addirittura la fastidiosa evidenza della propria inadeguatezza e incapacità di lavorare per il bene della comunità.

La cultura del rischio

Pericolosità e rischio sono spesso usati come sinonimi, mentre hanno accezioni diverse. La pericolosità è una caratteristica intrinseca del territorio, funzione delle sue peculiarità geologiche, morfologiche, climatiche, su cui l’uomo non può intervenire, mentre il rischio implica la presenza sul territorio di “elementi” che possono essere danneggiati (popolazione, insediamenti abitativi, attività produttive, infrastrutture, beni culturali). Per valutare concretamente il rischio non è sufficiente conoscere la pericolosità, ma occorre anche stimare attentamente il valore e la vulnerabilità dei beni presenti sul territorio. Dunque, è dal rischio che possiamo difenderci, è agendo sul rischio che si fa prevenzione [4].

Ma il rischio è qualcosa di cui abbiamo un’adeguata percezione? Quanti di noi sono realmente consapevoli di rischiare la vita in determinate situazioni? Quanti cittadini hanno un’idea del grado di vulnerabilità della propria abitazione, o almeno sono a conoscenza dei luoghi più sicuri della propria casa e del proprio centro abitato?

Un dato di fatto è che la popolazione è ancora poco informata. Ad oggi il sapere sociale di cui siamo provvisti non comprende le opportune conoscenze di base sulla pericolosità dei fenomeni naturali e sul rischio ad essa associato, nonostante alcune significative iniziative a carattere nazionale [5]. Le conoscenze che possono venirci in aiuto in una situazione di emergenza o che possono supportare la programmazione della nostra difesa dai rischi sono ancora insufficienti.

La chimera della prevenzione

L’Italia, lo sappiamo, è una terra geologicamente giovane e per questo fragile. A questo ambiente fisico difficile e pericoloso spesso si sono aggiunti incuria, disattenzione, se non addirittura interventi scellerati dell’uomo che hanno ulteriormente incrementato l’esposizione al rischio. Purtroppo questo incremento del rischio non è stato accompagnato da un aumento della percezione del rischio stesso da parte della popolazione, che di conseguenza non è in grado di comprendere fino in fondo l’importanza di pretendere dai governanti lo sviluppo di politiche di difesa e di prevenzione.

Senza trascurare in alcun modo la dimensione economica della questione [6], o l’importanza di adottare strategie di riduzione del rischio che incrementino la resilienza delle comunità umane (ovvero la loro capacità di reagire al disastro in termini psicologici, sociali, economici e culturali) e riducano l’entità dell’intervento economico dello Stato per ripristinare nei limiti del possibile lo status quo, la prevenzione è soprattutto un dovere etico che dovremmo responsabilmente assumerci per rispetto della nostra stessa umanità.

Lo afferma già nel ‘500 l’architetto Pirro Ligorio nel suo Libro di diversi terremoti [7], quando ribadisce che i terremoti non sono accidenti oscuri e ineluttabili, ma fenomeni alla portata della ragione umana e che cercare di raggiungere la sicurezza abitativa è una necessità e un dovere dell’intelletto umano. È chiaro il suo riferimento alla responsabilità dell’uomo, che trasforma i terremoti in disastri quando in modo colpevolmente responsabile non fa nulla di ciò che è nelle sue possibilità razionali per difendere vite umane, beni e attività.

Ma se la scienza, nella sua dimensione evolutiva storica, ha sempre imparato da tutti i terremoti, le alluvioni, le eruzioni e da altri eventi del passato, mettendo in discussione i suoi modelli sulla base dell’osservazione diretta di quanto accaduto, la società moderna e la politica, sua emanazione organizzativa e operativa, sembrano dimenticare sempre troppo velocemente la lezione del presente, rimandando ad un futuro remoto l’adozione di strategie di intervento a lungo termine [8].

Un terremoto, un’eruzione, un’alluvione si ripresenteranno laddove permarranno le condizioni geologiche “favorevoli” al loro accadimento. E’ solo una questione di tempo. La scienza lo ripete con forza da decenni.

Ma anche alcune forme di saggezza popolare, nate da un rapporto più autentico e osservativo con la propria terra, facevano sì che nel passato, in un centro abitato, non si costruisse dove esistevano condizioni sfavorevoli all’insediamento. Al contrario, la società moderna sembra aver ridotto la sua temporale prospettiva di azione ad un periodo molto breve, determinato costantemente dalla rincorsa al problema contingente.

Pertanto, la “cultura dell’emergenza” che domina la nostra società, non appare più come causa, ma si rivela effetto di questa incapacità di pensare al futuro. E nella difesa dai rischi naturali l’incapacità di prefigurare razionalmente un futuro possibile ci determina in un costante atteggiamento passivo nei confronti di fenomeni che hanno tempi di ritorno anche di decenni. In questo quadro di riferimento culturale, la prevenzione resta una parola vuota, senza valore.

Recuperare la memoria del passato per progettare il futuro

Ad alimentare questo stato di cose c’è forse la facilità con cui siamo soliti perdere la memoria dei disastri del passato. In Italia eventi come i terremoti sono certamente frequenti, ma gli eventi più energetici possono avere tempi di ritorno molto lunghi, di parecchie decine se non centinaia di anni. Tempi di ritorno simili superano la durata della vita di un uomo, tant’è che dopo un terremoto bastano pochi anni per dimenticare. Il tempo diluisce la memoria dell’evento e allontana la paura. E mentre quel ricordo si cancella, svanisce dalla nostra memoria anche la necessità di porre l’opportuna attenzione nell’uso delle pratiche costruttive in quelle zone particolarmente rischiose del nostro territorio.

Pensare alla possibilità di un terremoto che ha tempi di ritorno di centinaia di anni è contro la nostra esperienza comune. Tuttavia, la memoria è elemento indispensabile per entrare nella dimensione temporale dei fenomeni naturali e comprenderla. Se non dimenticheremo cosa è avvenuto nel passato, lavoreremo con maggiore convinzione per prevenire ciò che può accadere nel futuro. E in ogni caso questo non basta.

Prevenzione: ruoli e responsabilità

La prevenzione, quell’insieme di azioni mirate a ridurre il rischio, è possibile solo se ruoli e responsabilità di scienziati, tecnici, amministratori locali, politici, mass media, cittadini sono chiaramente definiti [9].

Il compito degli scienziati è fare buona scienza, capire e modellare la realtà naturale, trasferire conoscenza alle diverse componenti della società e contribuire ad orientare chi deve prendere le decisioni sul territorio. I politici hanno il dovere di attivare responsabilmente nuove azioni di governo per la tutela dei cittadini e potenziare le iniziative già in atto [10], dotandosi di validi strumenti normativi che garantiscano il rispetto di adeguati livelli di sicurezza, tarati su conoscenze scientifiche affidabili e condivise.

Ai mass media è affidato il delicato lavoro di mediare tra scienziati e società, il che richiede massima attenzione alla qualità delle informazioni raccolte e diffuse, all’attendibilità e all’autorevolezza delle fonti da cui provengono dati, modelli, teorie e notizie. Se da un lato la denuncia mediatica di inefficienze politiche è una fondamentale missione civile, dall’altro i media dovrebbero dar maggiore risalto ai risultati positivi raggiunti nella difesa dai rischi, affinché la popolazione comprenda il valore della prevenzione e dei risultati che è possibile ottenere investendo oculatamente le risorse economiche collettive.

Gli stessi cittadini devono diventare più consapevoli della loro possibilità di incidere sulla sicurezza individuale e sociale. Informarsi sulle pericolosità del proprio territorio, accertarsi che gli edifici in cui si vive abbiano caratteristiche di sicurezza adeguate, conoscere i comportamenti che possono salvarci la vita durante un’emergenza, significa contribuire alla risoluzione o al contenimento dei problemi che possono affliggere l’intera comunità.

Da un lato i cittadini hanno il diritto di pretendere che lo Stato lavori per garantire la loro incolumità, dall’altro hanno il dovere di informarsi di più, per diventare più consapevoli del valore della prevenzione e dell’importanza di investire sulla propria sicurezza, e per essere in grado di valutare e sorvegliare l’operato di chi gestisce il territorio. L’ordinata società giapponese ci insegna che il rischio, anche se non del tutto eliminabile, può essere ridotto seguendo con responsabilità e disciplina semplici comportamenti virtuosi e pratiche corrette, in modo da non dover più correre almeno quei rischi che si possono evitare.

Le ragioni profonde di una cronica incapacità di prevenzione

Ma perché in Italia la prevenzione stenta a realizzarsi? Perché nel presente è così difficile pensare al futuro del territorio che abitiamo? In una prospettiva schiacciata sul presente, siamo portati a pensare, non senza ragione, che alla base del ritardo cronico nell’avviare estese politiche di prevenzione ci siano esclusivamente la difficoltà di reperimento di adeguate risorse economiche, l’inefficienza burocratica e la miopia delle classi dirigenti di questo paese. Ma forse queste “giustificazioni” non fanno che deviare l’attenzione dalla sostanza della questione, da quello che forse è principalmente un problema culturale, favorendo il perdurare di comportamenti attendisti e fatalisti nella società italiana.

Se come cittadini continueremo a pensare che per fare prevenzione i soldi siano sempre insufficienti, che la politica sia corrotta e la burocrazia incomba come un Moloch imbattibile, allora seguiteremo a sentirci quasi moralmente sollevati dalla responsabilità di dover prendere nelle mani il nostro futuro, aspettando che nella drammaticità dell’emergenza la nostra umana richiesta di aiuto venga accolta.

Ma come è possibile che una popolazione come quella italiana, capace di grandi slanci di solidarietà nei momenti di emergenza (dal cappotto, bene di lusso nel 1951, che il semplice cittadino donava allo sfortunato fratello del Polesine, fino al volontariato infaticabile del moderno sistema di Protezione Civile), non comprenda l’importanza di affiancare all’emergenza un’azione dagli effetti più sicuri e duraturi come la prevenzione?

Viene da pensare che il criterio guida del nostro agire sia condizionato dall’abitudine culturale a rimettere il nostro destino nelle mani del fato o di Dio, e nel contempo a considerare la solidarietà verso il prossimo in difficoltà come nostro unico, sufficiente adempimento morale: questo potrebbe giustificare la coesistenza della cronica trascuratezza nella prevenzione e del formidabile efficientismo in emergenza.

In un quadro simile, anche lo sviluppo di una società della conoscenza scientifica risulta azione gravosa per la collettività, mancando quel requisito di immediata utilità e semplicità necessario in una società sempre più confinata ed orientata da un flusso amorfo e inarrestabile di tweet, post e telegiornali fotocopia.

La prevenzione: una questione culturale

La prevenzione non è una cosa semplice: è un insieme di azioni che possono svilupparsi su periodi temporali anche lunghi, che richiedono una pianificazione oculata di risorse umane ed economiche. Il monitoraggio continuo dei fenomeni, l’identificazione delle aree a rischio, l’organizzazione di campagne educative alla popolazione, l'utilizzo di metodi di pre-allertamento, gli interventi di messa in sicurezza del patrimonio edilizio, la messa a punto di strumenti normativi, il coordinamento efficace tra i molteplici soggetti preposti alla difesa dai rischi, rappresentano le modalità attuative di una strategia preventiva che deve essere alla base di ogni politica del territorio.

Ma queste azioni restano insufficienti se non vi è una contemporanea azione sul piano culturale. Nella società italiana sembra mancare il riconoscimento dei valori su cui fondare il nostro agire in tema di prevenzione. La prevenzione, infatti, non è solo un vantaggio economico. E’ una risposta moderna, razionale e responsabile a quel diritto alla sicurezza che ognuno deve eticamente perseguire per se stesso e per la comunità a cui appartiene, assumendosi una parte di responsabilità, dal politico al tecnico, dallo scienziato fino al singolo cittadino.

Per costruire una vera cultura della prevenzione, occorre recuperare l’idea del territorio come bene comune, risorsa e vantaggio collettivo, elemento nel quale confluiscono gli interessi individuali e quelli di tutta la comunità. Per riconoscere il valore di quel bene per sé e per gli altri, per rispettarlo, difenderlo, conservarlo e trasmetterlo integro alle generazioni future, bisogna prima aver ricostruito all’interno della nostra comunità relazioni sociali solide, fondate su principi etici condivisi ed attuati.

Il territorio: bene comune e sostrato di identità

Una prospettiva reale al nostro paese non può non includere l’obbligo etico di investire sempre di più nella sicurezza del nostro territorio. La stretta relazione tra dissesto geologico e dissesto sociale sottolinea una disattenzione collettiva verso il territorio.

Il territorio non è semplicemente il luogo dove casualmente siamo nati o viviamo, ma è il supporto fisico delle nostre attività, una preziosa risorsa in termini economici, ma anche e soprattutto uno dei valori fondanti della nostra identità, dunque un bene da salvaguardare. Solo attraverso la riscoperta del valore identitario dei territori è possibile avviare quel cambiamento culturale che ci porti tutti a comprendere il vantaggio di perseguire politiche di tutela della bio- e geodiversità, di sviluppo di nuovi modelli economici, di valorizzazione delle specificità storico-artistiche esistenti, di prevenzione dai rischi naturali.

La conoscenza del valore del territorio è il primo mattone su cui costruire una nuova consapevolezza sociale, capace di avviare nelle nostre scuole la formazione di cittadini responsabilmente orientati verso un futuro in cui possa affermarsi un nuovo modo di pensare e gestire il territorio. Educare è già prevenire.

Geoetica: un nuovo modo di pensare e gestire la Terra

La geoetica, seppur nata e sviluppata nell’ambito più strettamente scientifico per analizzare le implicazioni etiche, sociali e culturali che accompagnano l’attività geologica, sta ormai dispiegando tutto il suo potenziale educativo e operativo, andando a comprendere problemi che investono nel suo complesso l’intera società [11]. La necessità di sviluppare un robusto quadro di riferimento di valori etici, sociali e culturali all’interno della comunità delle geoscienze è ormai esigenza inderogabile [12] [13], proprio in virtù del vasto ambito di applicazione di questo gruppo di discipline, che investigano fenomeni tra i più impattanti del nostro tempo, dai cambiamenti climatici all’inquinamento ambientale, dallo sfruttamento delle risorse ai fenomeni naturali distruttivi.

È significativo che la comunità geologica comprenda l’importanza di sviluppare, dapprima al suo interno, una nuova consapevolezza del ruolo sociale e culturale che i geologi sono chiamati a svolgere, e che tenti poi di trasmettere all’intera società un nuovo paradigma culturale.

La geoetica si sta rapidamente affermando come nuova prospettiva e modalità di intendere e relazionarsi al pianeta. Il vivace dibattito internazionale, il crescente numero di pubblicazioni dedicate alla riflessione sugli aspetti etici e sociali della ricerca e della pratica scientifica [14] [15] [16], la creazione di una grande associazione scientifica [17], che promuove la geoetica a livello nazionale e internazionale, formalmente riconosciuta come partner strategico dalle più prestigiose organizzazione di geoscienze del mondo, testimonia che qualcosa sta cambiando.

Ma la portata innovativa della geoetica va al di là del dibattito scientifico, dal momento che può fornirci le categorie corrette per discutere di prevenzione e per accrescere la consapevolezza della sua necessità sia nelle classi politiche che nella cittadinanza. La geoetica mira a costruire un quadro di riferimento di conoscenza e azione basato su valori considerati indispensabili, tenuto conto dei bisogni della società e dell’ambiente e dell’urgenza di riconsiderare il rapporto tra uomo e territorio, uomo e pianeta, un pianeta sul quale vivono ormai 8 miliardi di abitanti, che necessitano di risorse e di protezione da fenomeni naturali pericolosi.

Aristotele definisce l’etica come l’indagine e la riflessione sui valori che sono alla base del comportamento operativo dell’uomo. Per analogia la geoetica è stata definita come l’indagine e la riflessione sui valori su cui basare comportamenti corretti nei confronti del Sistema Terra [18]. Pertanto, essa ha lo scopo di identificare quei valori che devono orientare gli uomini nella gestione della Terra, alla conoscenza e al rispetto delle dinamiche naturali, ponendo particolare attenzione alla corretta e responsabile comunicazione delle conoscenze alla popolazione, inclusa l’educazione al concetto di rischio [19].

La geoetica richiama scienziati e società alle proprie responsabilità. Nella sua applicazione ai rischi naturali, essa trova una felice corrispondenza nella frase di Giuseppe Grandori (1921-2011), grande figura dell’ingegneria sismica, dotato di indubbio buon senso, che ben 30 anni fa affermava: “Difendersi dai terremoti significa ridurre le conseguenze dei terremoti (vittime e danni materiali) al di sotto di un limite che la società ritiene accettabile, tenuto conto dei costi che un’ulteriore diminuzione di tale limite comporterebbe” [20]. L’apparente cinismo che può colpire il lettore a una prima lettura, scompare una volta riconosciute nella frase la propositiva intenzionalità scientifica e la grande valenza operativa e culturale. Difendersi dai terremoti non è azione dalle sfumature fideistiche o ideologiche, ma il risultato di un percorso di conoscenza che si concretizza in un patto sociale, dove la dignità della ragione umana è un insostituibile strumento al servizio del bene comune.

In questo consiste la geoetica e la geoetica ci riguarda tutti.

* Ricercatrice dell’Istituto Italiano di Geofisica e Vulcanologia, esperta di rischi geologici, è tra le fondatrici a livello internazionale della “geoetica”. Si batte per lo sviluppo di una cultura geologica e della prevenzione in Italia.

NOTE

1. Sito Internet dell’INGV – Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia: http://www.ingv.it
2. Database Macrosismico Italiano 2015 (DBMI15), di Locati M., Camassi R., Rovida A., Ercolani E., Bernardini F., Castelli V., Caracciolo C.H., Tertulliani A., Rossi A., Azzaro R., D’Amico S., Conte S., Rocchetti E. (2016). Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Fornisce un set omogeneo di intensità macrosismiche provenienti da diverse fonti relativo ai terremoti con intensità massima ≥ 5 e d'interesse per l'Italia nella finestra temporale 1000-2014: http://emidius.mi.ingv.it/CPTI15-DBMI15/query_place/
3. Catalogo Parametrico dei Terremoti Italiani 2015 (CPTI15), di Rovida A., Locati M., Camassi R., Lolli B., Gasperini P. Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Fornisce dati parametrici omogenei, sia macrosismici, sia strumentali, relativi ai terremoti con intensità massima ≥ 5 o magnitudo ≥ 4.0 d'interesse per l'Italia nella finestra temporale 1000-2014: http://emidius.mi.ingv.it/CPTI15-DBMI15/query_eq/
4. Silvia Peppoloni, Convivere con i rischi naturali, 2014, p. 148, ISBN 978-88-15-25078-0, Il Mulino, Bologna.
5. Campagna di comunicazione nazionale “Io non rischio”, a cura del Dipartimento della Protezione Civile: http://iononrischio.protezionecivile.it/
6.Antonio Scalari, Terremoto e prevenzione: perché l’Italia non è come il Giappone: http://www.valigiablu.it/terremoto-prevenzione/
7. Pirro Ligorio, Libro di Diversi Terremoti, a cura di Emanuela Guidoboni, De Luca Editori D’Arte, Roma 2005.
8. Silvia Peppoloni, La lezione della terra: tutto quello che ci hanno insegnato i terremoti: http://www.corriere.it/cultura/eventi/notizie/lezione-terra-tutto-quello-che-ci-hanno-insegnato-terremoti-bec37350-9b9a-11e6-92af-45665cb81731.shtml?refresh_ce-cp
9. Peppoloni S. & Di Capua G. (2014). Geoethical aspects in the natural hazards management. In: “Lollino, G., Arattano, M., Giardino, M., Oliveira, R., Peppoloni, S. (Eds.). Engineering Geology for Society and Territory - Volume 7, Education, Professional Ethics and Public Recognition of Engineering Geology. XVII, 274 p., Springer”. http://media.wix.com/ugd/5195a5_0440718081d340228edd071b5b20fa0a.pdf
10. Struttura di missione “#italiasicura”: http://italiasicura.governo.it/site/home/italiasicura.html
11. Carlo Doglioni e Silvia Peppoloni, Pianeta Terra: una storia non finita, 2016, p. 160, ISBN 978-88-15-26376-6, Il Mulino, Bologna.
12. Peppoloni S. (2012). Ethical and cultural value of the Earth sciences. Interview with Prof. Giulio Giorello. Annals of Geophysics, vol. 55, p. 343-346, ISSN: 2037-416X, DOI: 10.4401/ag-5755. http://www.annalsofgeophysics.eu/index.php/annals/article/download/5755/6025
13. Peppoloni S. (2012). Social aspects of the Earth sciences. Interview with Prof. Franco Ferrarotti. Annals of Geophysics, vol. 55, p. 347-348, ISSN: 2037-416X, doi: 10.4401/ag-5632. http://www.annalsofgeophysics.eu/index.php/annals/article/download/5632/6026
14. Peppoloni, S. & Di Capua, G. (Eds). Geoethics: the Role and Responsibility of Geoscientists. Geological Society, London, Special Publications, 2015, 419, ISBN 978-1-86239-726-2.
15. Wyss M. and Peppoloni S. (Eds). Geoethics, Ethical Challenges and Case Studies in Earth Sciences (2014), pp. 450, Elsevier.
16. Peppoloni S. & Di Capua G. (2012). Geoethics and geological culture: awareness, responsibility and challenges. Annals of Geophysics, vol. 55, p. 335-341, ISSN: 2037-416X, doi: 10.4401/ag-6099. http://www.annalsofgeophysics.eu/index.php/annals/issue/view/482
17. Sito Internet della IAPG – International Association for Promoting Geoethics: http://www.geoethics.org
18. Peppoloni S. & Di Capua G. (2014). The meaning of Geoethics. In: “Wyss M. and Peppoloni S. (Eds), Geoethics: ethical challenges and case studies in Earth Science, 450 p., Elsevier”. http://media.wix.com/ugd/5195a5_0156301931f9429da6db4bc4843eb605.pdf
19. Peppoloni S. & Di Capua G. (2016). Geoethics: Ethical, social, and cultural values in geosciences research, practice, and education. In: Wessel G. & Greenberg, J. (Eds.). Geoscience for the Public Good and Global Development: Toward a Sustainable Future. Geological Society of America, Special Paper 520, pp. 17-21, doi: 10.1130/2016.2520(03).
20. Giuseppe Grandori, Introduzione. In: Benedetti D., Castellani A., Gavarini C., Grandori G. (a cura di), Ingegneria Sismica, Quaderni de “La Ricerca Scientifica”, n. 114, Vol. 6, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma, 1987, ISSN 0556-9664.

«La nozione di beni comuni, riscoperta negli anni 1980, conosce una popolarità crescente fra i militanti di sinistra. Dall’acqua pubblica ai software liberi, la gestione collettiva invalida il mito della privatizzazione come garanzia di efficienza».il manifesto Le Monde diplomatique n. 12, anno XXIII, dicembre 2016 (c.m.c.)

L’ 11 gennaio 2016, il segretario nazionale del Partito comunista francese Pierre Laurent faceva i suoi auguri per il nuovo anno e offriva un’immagine della «società che vogliamo»: «Un nuovo approccio allo sviluppo in cui sociale ed ecologia si uniscano a profitto dell’essere umano e del pianeta, per una società del benessere e del bene comune». «Bene comune»? Sull’altro fronte dello scacchiere politico, il fondatore del Movimento per la Francia, Philippe de Villiers, fa riferimento allo stesso concetto, ma per giustificare il proprio progetto di ridimensionamento dello Stato: «Lo Stato non esiste più come fornitore di bene comune. Non ha alcun diritto su di noi» (1).

Nel maggio 2016, alcuni mesi dopo l’annuncio del Ritorno dei beni comuni da parte dell’«economista sgomento» francese Benjamin Coriat (2), il liberale Jean Tirole pubblicava Économie du bien commun (3). Nella rubrica del suosito «Nostre idee», l’Associazione per la tassazione delle transazioni finanzia- rie e l’aiuto ai cittadini (Attac) sostiene l’importanza di «promuovere le alternative e recuperare i beni comuni».

Invece, l’Institut de l’entreprise, afferma, attraverso il suo segretario generale, che «le iniziative private si preoccupano del bene comune (4)». È raro incontrare concetti tanto malleabili. Molteplici le declinazioni in ambito politico o universitario: «bene comune», «beni comuni», «common», «commmons»... Da un lato, l’espressione «bene comune» – più o meno sinonimo di «interesse generale» – si è imposto come elemento del linguaggio imprescindibile per i dirigenti di ogni ambiente sociale. Dall’altro, la nozione di beni comuni porta un rinnovamento intellettuale e militante a un movimento sociale caratterizzato, a volte, da un letargo concettuale. È difficile orientarsi... ma non impossibile. Aprile 1985, Annapolis (Stati uniti). In occasione di una conferenza finanziata dalla National Research Foundation, accademici provenienti da tutto il mondo hanno presentato le proprie ricerche sui «commons».

Il termine evoca generalmente una storia antica: quella della trasformazione, all’alba dell’era industriale, delle terre lasciate a pascolo e gestite collettivamente in proprietà private delimitate da recinzioni. Il movimento delle enclosures è considerato come il momento fondante dello sviluppo del capitalismo. È il simbolo dell’emergere della proprietà come diritto individuale: una «rivoluzione dei ricchi contro i poveri», scrive Karl Polanyi (5). I ricercatori riuniti ad Annapolis riprendono il filo di questa storia, sottolineando l’esistenza di molti luoghi nel mondo in cui le terre, le aree di pesca o le foreste continuano a essere gestite come dei commons: risorse condivise all’interno di comunità che organizzano collettivamente il loro sfruttamento.

Secondo i ricercatori, questi sistemi di commons si dimostrano spesso efficaci e limitano lo sfruttamento indiscriminato delle risorse (6). Si assiste a un rovesciamento totale delle tesi elaborate da Garrett Hardin nel suo celebre articolo sulla «tragedia dei beni comuni (7)». È un attacco all’intera ortodossia liberale, per cui la proprietà privata esclusiva è sempre il miglior sistema di assegnazione delle risorse rare. Nel 1990, l’economista Elinor Ostrom ha fatto una sintesi dei principali passi avanti resi possibili dalle ricerche esposte ad Annapolis. Ha insistito soprattutto sulle condizioni isti- tuzionali che permettono di perpetuare i sistemi dei commons, sostenendo che un common non possa esistere sul lungo periodo in assenza di regole sul suo sfruttamento.

Inoltre, sottolinea come queste regole possano essere prodotte e applicate dalle comunità interessate, senza dover ricorrere alla sovrastante potenza dello Stato. Tra i molti esempi che cita, c’è il caso di un’area di pesca in Turchia, dove «a occuparsi del processo di controllo e di applicazione delle regole (...) sono gli stessi pescatori (8)». Nel 2009, queste ricerche le valgono il premio della Banca di Svezia per le scienze economiche in memoria di Alfred Nobel comunemente chiamato «premio Nobel per l’economia».

In Italia, la riscoperta dei beni co- muni si estende al campo della politica quando, nel 2008, una commissione, creata dal governo di Romano Prodi e presieduta dal giurista Stefano Rodotà, riferisce le proprie conclusioni. Propone una definizione di beni comuni come «quelle cose da cui dipendono l’esercizio dei diritti fondamentali e il libero sviluppo della persona». «Persone giuridiche pubbliche o private», poco importa lo status dei titolari di questi beni i loro «proprietari » (9). In compenso, la commissione insiste sul fatto che le risorse debbano essere gestite conformemente alla loro funzione, per permettere l’esercizio di un diritto.

Definire l’acqua un «bene comune» significa anche che la sua distribuzione, qualunque sia l’attore che la organizza, deve garantire l’accesso a tutti a un’ac-ua sana e in quantità sufficiente.

Sulla base dei lavori della commissione Rodotà, molti movimenti sociali e politici transalpini si sono impadroniti della nozione di bene comune per denunciare il settore privato e lo Stato neoliberale, entrambi incapaci di soddisfare i bisogni collettivi fondamentali (10). Forti di questo principio, nel giugno 2011, 25 milioni di italiani (sui 27 milioni di votanti) si sono pronunciati per via referendaria contro la privatizzazione dei servizi pubblici locali di fornitura di acqua potabile.

Il movimento per il software libero Ma la riscoperta dei beni comuni non si limita alle risorse naturali. Nel 1983, Richard Stallman, giovane informatico del Massachusetts Institute of Technology (Mit), ha lanciato un appello a contribuire al gruppo di discussioneUsenet, proponendo lo sviluppo di un sistema di condivisione liberamente distribuito. Così, fa la sua comparsa il movimento per il software libero, in reazione all’emergere di una fiorente industria del software, che trasforma i programmi informatici in beni commerciali sottoposti al diritto d’autore (copyright) e protetti da restrittive condizioni d’uso (11).

Qui, il codice informatico non è più conside- rato come proprietà esclusiva di un at- tore privato, ma costituisce una risorsa liberamente accessibile che ognuno può contribuire a migliorare. Questi principi di apertura e condivisione sono stati ripresi da diversi commons digitali e applicati alla produzione di enciclopedie (Wikipedia), di database (Open Food Facts) o a creazioni arti- stiche collettive regolate da licenze di Arte libera o di Creative Commons.

Malgrado le loro differenze, tutte le componenti del movimento per i beni comuni mettono in discussione la proprietà privata esclusiva. Il movimento italiano per i beni comuni contesta la privatizzazione dei servizi pubblici; l’interesse per i commons detti «fisici» risponde al selvaggio accaparramento delle terre. In merito invece allo sviluppo dei commons digitali, si oppone alla privatizzazione dell’informazione e della conoscenza: quest’ultima ha assunto un’entità tale che alcuni giuristi parlano di un «secondo movimento di enclosures (12)».

I commons assestano duri colpi a una delle istituzioni centrali del neolibera- lismo, rifiutando il dogma secondo cui il rafforzamento della proprietà privata garantisce una maggiore efficienza economica. I lavori di Ostrom invalidano questo postulato, che viene contraddetto anche nella pratica dallo sviluppo di numerose risorse condivise. Trattandosi di risorse fisiche, i commons poggiano spesso su forme di proprietà collettiva e, come nel caso francese, su strutture cooperative o associazioni fondiarie agricole (Groupements fon- ciers agricoles, Gfa). Quanto ai commons digitali, invece, sono protetti da licenze specifiche, che sovvertono le forme classiche di proprietà intellettuale per favorire la circolazione e l’arricchimento delle creazioni collettive:

General Public License (Gpl), Open Database License (Odbl)... I militanti dei commons, oltre a met- tere in discussione la proprietà privata, criticano anche l’uso deviato della pro- prietà pubblica in un contesto di liberalizzazione generalizzata. Quando lo Stato ha carta bianca per svendere le risorse di cui dispone per risanare le sue finanze, la proprietà pubblica offre le stesse garanzie della proprietà privata? Non si riduce forse a un semplice trasferimento della proprietà nelle mani di un attore che non necessariamente agisce nell’interesse di tutti (13)? Così, si capisce meglio la definizione proposta dalla commissione Rodotà. Insistendo sulla funzione sociale dei beni comuni, i giuristi italiani hanno voluto sostituire alla classica logica dello Stato sociale la proprietà pubblica come custode dell’interesse collettivo la garanzia incondizionata di alcuni diritti.

Questo cambiamento di prospettiva va di pari passo con una lotta contro la burocratizzazione dei servizi pubblici, vista come principale causa della loro incapacità di difendere l’interesse collettivo. La critica delle debo- lezze della proprietà pubblica è al tempo stesso un’esigenza di partecipazione civica, di cui l’esperienza napoletana di Acqua bene comune (Abc) offre un interessante esempio. Nell’enfasi del referendum del 2011, in effetti, la gestione dell’acqua di questa città è stata rimunicipalizzata e affidata a «un’azienda speciale» di diritto pubblico chiamata Abc. Il suo statuto è stato pensato per permettere una gestione democraticae partecipativa, grazie alla presenza di due cittadini nel consiglio di amministrazione e alla creazione di un comitato di sorveglianza a cui partecipano dei rappresentanti dei consumatori e delle associazioni.

In Italia, la risonanza politica del concetto di beni comuni mette in evidenza l’ambiguità del rapporto dei di- fensori dei commons con lo Stato. Il movimento dei commons, nato da una persuasiva critica alla proprietà privata e alle rinunce dello Stato neoliberale, ogni tanto si lascia andare al veemente elogio delle capacità di auto-organizzazione della «società civile». Il rischio è quello di diventare gli «utili idioti» del neoliberalismo, criticando la sacralizzazione della proprietà privata solo per far arretrare lo Stato sociale. Tuttavia, molti ricercatori e militanti sono con- sapevoli del pericolo. Come ricorda Benjamin Coriat, «i beni comuni hanno bisogno dello Stato per svilupparsi, perché deve creare le risorse (a cominciare dalle risorse giuridiche) di cui i commoners [i produttori di beni comuni] hanno bisogno per esistere (14)».

Proibire la vendita di computer abbinati a determinati software l’acquisto di un Pc corrisponde, in pratica, all’acquisto di un computer e di Windows in- centiverebbe per esempio lo sviluppo di software liberi.Si tratta quindi di riaffermare il ruolo dello Stato, riflettendo contemporaneamente sull’evoluzione dei suoi interventi. Questo implica l’elaborazione di un quadro giuridico in grado di favori- re i beni comuni e le strutture come le cooperative capaci di farsene carico, anche in ambito commerciale.

Questo presuppone inoltre l’accettazione che la proprietà pubblica non si limiti a un patrimonio di cui lo Stato può fare un uso discrezionale, ma comprenda l’insieme dei beni e dei servizi destinati all’uso pubblico, che di conseguenza devono essere gestiti nell’interesse di tutti. Bisogna inoltre ricordare che lo Stato sociale ha la vocazione di fornire agli individui gli strumenti temporali e finanziari per sviluppare attività indipendentemente dalla proprietà privata e della ricerca del profitto. I beni comuni invitano quindi a rivedere l’articolazione tra la sfera commerciale, i compiti dello Stato e quel che può essere lasciato all’autoorganizzazione dei collettivi liberamente costituiti. Una bella sfida per la filoso fia politica e, forse, anche una speranza per la sinistra.

(1) «Parlez-vous le Philippe de Villiers?», Bfmtv. com, 7 ottobre 2016.
(2) Benjamin Coriat (a cura di), Le Retour des communs. La crise de l’idéologie propriétaire, Parigi, Les Liens qui libèrent, 2015.
(3) Jean Tirole, Économie du bien commun, Pa- rigi, Presses universitaires de France, 2016.
(4) Frédéric Monlouis-Félicité, «Pour une élite économique engagée», Parigi, L’Opinion, 16
aprile 2015.
(5) Karl Polanyi, La grande trasformazione: le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, 2010.
(6) Cfr. National Research Council, Procee- dings of the Conference on Common Property Resource Management, Washington, DC, Na- tional Academy Press, 1986.
(7) Garrett Hardin, «The Tragedy of the Com- mons», Washington, DC, Science, vol. 162, n° 3859, 13 dicembre 1968.
(8) Elinor Ostrom, Governare i beni collettivi, Marsilio, 2006.
(9) Commissione Rodotà, conclusioni cita- te da Ugo Mattei, «La lutte pour les “biens communs” en Italie. Bilan et perspectives», Raison publique, 29 aprile 2014, www.raison- publique.fr
(10) Si legga Ugo Mattei, «Rendere inalienabili i beni comuni», Le Monde diplomatique/il ma- nifesto, dicembre 2011.
(11) Si legga «Lo strano destino del software libero», Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2014.
(12) Cfr. James Boyle, «The second enclosure movement and the construction of the public do- main», Durham (Stati uniti), Law and Contem- porary Problems, vol. 66, n° 1-2, inverno 2003.
(13) Cfr. Pierre Crétois e Thomas Boccon-Gibod (a cura di), État social, propriété publique, biens communs, Lormont, Le Bord de l’eau, 2015.
(14) «Ne lisons pas les communs avec les clés du passé. Entretien avec Benjamin Coriat», Contretemps, 15 gennaio 2016, www.contretemps.eu

(Traduzione di Alice Campetti)

Il libro Fuori raccordo. Abitare l’altra Roma è il frutto di un gruppo di lavoro interdisciplinare e prova a mettere al centro il punto di vista dell’abitare, inteso come casa e abitazione e come organizzazione spaziale e temporale nella vita di ogni giorno, come forma di appropriazione dei territori. comune-info, 22 dicembre 2016 (c.m.c.)

1. Quale Roma?

Roma ha attraversato profonde trasformazioni, che in questi anni stanno emergendo con forza. Non è più, ormai da molto tempo, una città focalizzata sul suo centro storico circondato da una periferia più o meno consolidata.

È una città-territorio che si estende per un’area molto vasta e molto articolata al suo interno, dove le persone vivono senza riferirsi (soltanto) al suo centro consolidato, più o meno ampio […]. I fattori nuovi sono diversi: il carattere integrato di tutti questi territori pur diversi tra loro; la vastità e la progressiva estensione (ormai ampiamente a carattere sovraregionale); il carattere di «territorio abitato», anche in quelli che possono sembrare «interstizi» o in quelli che una volta erano ambiti agricoli o inutilizzati (a tutto discapito peraltro dell’agro romano); una moltiplicazione e un’articolazione delle disuguaglianze; una diversa organizzazione spaziale che comporta anche una diversa organizzazione di vita degli abitanti (e quindi una trasformazione di ciò che intendiamo per «urbano»); di conseguenza, un cambiamento antropologico nei modi di abitare. E questo già a partire dalla fascia del Gra. Quando parliamo di territori circostanti, infatti, ci riferiamo non solo a quelli esterni al comune di Roma, ma anche a quelli «extra Gra».

L’obiettivo della ricerca è stato proprio quello di raccontare l’abitare e i suoi cambiamenti. L’idea forte di partenza del libro è l’assunzione di un altro punto di vista, quello degli abitanti, attraverso lo studio e la narrazione delle pratiche dell’abitare e dei fenomeni urbani connessi, per dare una restituzione complessa dei processi e dei fenomeni, e da lì ripensare le politiche e un progetto di convivenza. […]

2. Una ricerca sull’abitare.

Il libro intende documentare queste profonde trasformazioni, e intende farlo attraverso il punto di vista dell’abitare, inteso non solo come casa e abitazione, ma anche come organizzazione spaziale e temporale nella vita quotidiana, come forma di appropriazione dei luoghi, come interpretazione del mondo di significati che caratterizzano i territori. Attraverso questa lettura più vitale e più vissuta, si vuole fornire un’immagine più complessa della città. […]. Il libro è quindi l’esito del lavoro di tre anni di ricerca di un gruppo di lavoro interdisciplinare, composto da urbanisti, sociologi e antropologi […]

3. I territori romani nei grandi processi globali.

I territori romani sono inseriti in grandi processi globali di trasformazione dell’economia, della società e dell’urbano, che a Roma vengono poi declinati con proprie specificità.

Roma città globale?

[…] Non si può negare che Roma sia, a modo suo, una città globale, inserita in una rete di flussi di beni e servizi, economici e finanziari, di migrazioni, energetici ecc. di carattere fortemente internazionale. […] Roma, come noto, è più capitali insieme, che caratterizzano il suo diverso modo di essere «città globale». Oltre a essere capitale politica d’Italia, con tutti i pro e i contro di questo ruolo, è anche la capitale di un altro Stato, il Vaticano, e più in generale è la capitale della cristianità, nonché luogo di riferimento per molte fedi, destinazione di imponenti flussi religiosi e di eventi spesso fortemente caratterizzati dal punto di vista mediatico. È poi una capitale culturale, nella misura in cui detiene un patrimonio archeologico e storico-artistico unico al mondo, capace di attrarre notevoli flussi turistici (che si sommano a quelli del turismo religioso), imponenti rispetto alla popolazione residente (38 milioni di visitatori l’anno).

A fronte di questo suo carattere internazionale, si deve registrare una carenza se non una mancanza sia di politiche internazionali sia di politiche mirate all’internazionalizzazione (D’albergo – Lefèvre 2007) che rivelano una forte debolezza «strutturale» in questo campo. Infine, è un crocevia internazionale di importanti flussi migratori. Roma non è mai stata considerata una città industriale e alcune politiche dello Stato centrale storicamente hanno teso a evitare un eventuale sviluppo in questo senso. Nonostante ciò, quasi come una contraddizione, Roma è diventata la seconda città industriale d’Italia (dopo Milano) per numero di occupati. Si tratta, soprattutto, di piccola e media impresa; di un tessuto debole e diffuso, spesso dipendente dal mercato locale piuttosto che destinato all’esportazione.

Urbanizzazione globale e trasformazioni dell’urbano

Anche le trasformazioni che caratterizzano Roma, come vedremo successivamente nel dettaglio, si collocano dentro un processo globale di trasformazione dell’urbano, così come evidenziato da molti ricercatori (Brenner 2014; Schmid 2014) riprendendo peraltro le riflessioni sviluppate da Lefebvre ne La rivoluzione urbana già molti anni fa (1974).

Oggi rientrano nel processo di «urbanizzazione globale» (extendend urbanization), ovvero in quel processo complessivo di estensione dell’urbano sull’intero globo terrestre, attraverso le sue diverse forme: le reti infrastrutturali e di trasporto e i flussi di merci e persone; l’estrazione di risorse (e quindi di ricchezza) da tutti i territori, compresi quelli apparentemente più naturali (trasformando il pianeta in una grande miniera); la diffusione degli inquinanti e dei rifiuti (trasformando, d’altra parte, il pianeta in una estesa discarica); la diffusione dei sistemi insediativi urbani (e non solo delle città, per come le abbiamo conosciute storicamente) in maniera estensiva; ma soprattutto la diffusione planetaria dei modelli di vita e delle forme organizzative urbane (anche al di là della diffusione della «società dell’informazione» e delle reti immateriali). il cambiamento è quindi più forte nella dimensione sociale e culturale, più ancora che in quella dello stesso assetto insediativo. Ed è questo che caratterizza anche il vasto territorio abitato della città-regione romana.

Non si tratta solo di una regionalizzazione dello sviluppo insediativo (che è già di per sé rilevante), ma di una trasformazione dell’urbano, del modo stesso cioè di vivere la città. Ne è un caso emblematico la recente notizia che Amazon, la grande multinazionale dell’e-commerce, collocherà la sua nuova sede per il centro-sud italia nell’area industriale di Passo Corese, a ridosso di un grande snodo autostradale. […]

La periferizzazione del mondo
Lo sviluppo urbano di Roma è stato fortemente caratterizzato, dal dopoguerra a oggi, dalla crescita delle sue periferie, sia quelle pianificate che quelle abusive che quelle prodotte dalla speculazione. Sebbene la dicotomia centro-periferia non sia più valida in senso stretto, permane una condizione di «perifericità» (e quindi di «marginalità») di molti territori della città di Roma. La periferia è la parte prevalente della città; si potrebbe dire che «Roma è la sua periferia». […] Più che diminuire, la disuguaglianza sociale è invece cresciuta a Roma, come in altre città. […]

Tra Nord e Sud del mondo
Roma si colloca a cavallo tra Nord globale e Sud globale, un mix particolare che determina alcuni fattori fortemente caratterizzanti, dalla debolezza istituzionale e dell’interesse «pubblico» alla precarietà e difficoltà del sistema economico locale e alla rilevante informalità, che spesso ne fa una «città fai-da-te». […]. In particolare, intorno al tema dell’auto-organizzazione e dell’informalità si è concentrata molta attenzione, anche a livello internazionale. Roma e il suo territorio, infatti, offrono da questo punto di vista parecchi esempi, anche molto diffusi sul territorio (sebbene spesso non particolarmente visibili).

L’interesse internazionale è legato alla possibilità di ripensare le stesse forme di governo urbano o di gestione di alcune situazioni urbane (e persino di azioni realizzative), dalla gestione delle aree verdi al cohousing e al coworking, dal recupero di aree e immobili dismessi o abbandonati alla gestione degli spazi pubblici e dei servizi collettivi, dal problema della casa agli orti urbani, attraverso un maggiore coinvolgimento dei cittadini/abitanti, attraverso le loro forme organizzative e associative, siano esse formali o informali. Roma e il suo territorio sono sicuramente un laboratorio di esperienze e iniziative molto interessanti da questo punto di vista, sebbene non vi sia sempre un’intenzionalità e non vi siano politiche pubbliche realmente indirizzate in questo senso.

Anzi, molto spesso le iniziative di auto-organizzazione sono sollecitate dall’assenza dell’amministrazione pubblica o dalla mancanza di politiche pubbliche. Siamo quindi di fronte a esperienze molto diverse tra loro, alcune molto discutibili e che pongono diversi problemi (pensiamo alla rischiosa deriva dei consorzi di autorecupero nelle aree ex abusive), altre di grande interesse, che costituiscono una punta avanzata e potenzialmente un’opportunità, dove pratiche e processi di auto-organizzazione sono anche pratiche e processi di riappropriazione e di risignificazione dei luoghi, dove sono messe in gioco le capacità creative e progettuali degli abitanti, le dinamiche della cura e della responsabilizzazione, una gestione non economicista dei beni comuni.

4. Le specificità del territorio metropolitano.

Una polarità sovraregionale e gli effetti sulla vita quotidiana

Oltre a essere una città di riferimento a livello nazionale e internazionale, Roma continua a rappresentare una polarità estremamente forte a livello locale e regionale, costruendo un vasto territorio circostante di dipendenza. In particolare, costituisce un polo attrattore per tutta l’Italia centrale (e, in parte, anche rispetto all’Italia meridionale), per quanto riguarda l’occupazione, il sistema di opportunità, i servizi, in particolare quelli sanitari (…); le polarità commerciali (parchi commerciali, centri commerciali di grandi dimensioni, outlet ecc.); le polarità del tempo libero e del loisir; le università […]

Il territorio investito dallo sviluppo e la «periferizzazione»

L’area investita dallo sviluppo insediativo si accresce enormemente. Il vasto territorio «metropolitano» romano è prima di tutto un’estensione di Roma ed è il modo con cui Roma si è proiettata verso l’esterno, è la città che deborda oltre i confini tradizionali e storicamente costituiti della città consolidata. Questo è dovuto essenzialmente a due fattori. In primo luogo, la vastità del comune di Roma. Si tratta, come noto, del comune più esteso d’Italia, la cui superficie (pari a 1287,36 kmq) è paragonabile alla superficie della provincia di Milano. I grandi fenomeni insediativi si sviluppano e si sono storicamente sviluppati al suo interno. In secondo luogo, l’espansione insediativa e il grado di attrazione della città non hanno paragoni nei territori circostanti e determinano una fortissima preminenza e dominanza della capitale. […]

Vi è poi, come anticipato, una stretta correlazione con l’andamento spaziale del mercato immobiliare e del reddito. Il costo della casa a Roma è stato elevatissimo in passato (prima della crisi del 2008), ma è rimasto a livelli molto alti anche dopo la crisi […]

Il processo di «periferizzazione» dei territori, cui si accennava precedentemente, connesso al processo di diffusione urbana in corso, non fa quindi distinzioni sociali: si spostano all’esterno del territorio comunale di Roma tutte le categorie sociali, anche se con motivazioni diverse. Piuttosto si generano «confini interni» tra i diversi territori; sono questi a marcare le disuguaglianze sociali, piuttosto che una stretta gerarchia centro-periferica (che pure, in parte, sussiste ancora).

Si determinano quindi spesso situazioni di mescolanza urbana e sociale, come quelle che caratterizzano l’area di Roma est e i comuni limitrofi, Guidonia, fonte Nuova, Tivoli (si veda il contributo di Elena Maranghi, infra, pp. 95-109). In questi contesti sembra generarsi un fenomeno di mixité sociale, ma in realtà si tratta di una giustapposizione di situazioni che non dialogano tra loro: complessi residenziali esclusivi all’interno di campi da golf, aree residenziali abusive, poli tecnologici, aree industriali, aree agricole intercluse, quartieri residenziali ordinari, attrezzature di servizio anche di livello sovralocale, la «città del gioco» (poli del gioco d’azzardo di livello metropolitano), campi rom.

Conflitti e disuguaglianze

Allo stesso tempo si generano notevoli conflitti soprattutto di carattere ambientale (d’albergo – Moini 2011). […] Le diseguaglianze territoriali determinano forti e nuove conflittualità, sia tra il centro e la periferia (ovvero tra il comune di Roma e alcuni territori contermini), sia all’interno dei territori stessi: 1) conflitti intorno ai temi ambientali (ad esempio, la localizzazione delle nuove discariche o degli inceneritori); 2) conflitti intorno all’inadeguatezza dei servizi (ad esempio, il grande problema dei pendolari, o i conflitti connessi alla chiusura degli ospedali e dei servizi sanitari delocalizzati sui territori, in forza di una politica incentrata sul taglio del welfare e sull’accentramento e la specializzazione dei poli della sanità); 3) conflitti tra residenti più storici e nuove popolazioni, ovvero intorno a questioni di identità.

Allo stesso tempo, nascono forme nuove di auto-organizzazione o di collaborazione tra istituzioni e cittadini (in alcuni casi, grazie anche alla cooperazione con le amministrazioni comunali locali; ad esempio, nella gestione degli spazi verdi o dei problemi sociali), come risposta delle popolazioni investite dallo sviluppo alle nuove situazioni che si sono create. Particolarmente rilevante il fenomeno dei Gas (Gruppi di acquisto solidale) e delle «economie a chilometro zero», che esprimono lo sforzo di ricostruire una più stretta relazione tra produttori e consumatori e tra aree urbane e territori contermini, favorendo il recupero o la riattivazione (se non addirittura il nuovo impianto) di attività produttive soprattutto nel settore primario, così caratterizzante nel passato il contesto romano.

5. Processi di urbanizzazione: una stratificazione insediativa e un policentrismo problematico.

[…] All’interno del solo comune di Roma circa un terzo del tessuto urbano residenziale è di origine abusiva e una percentuale analoga della popolazione vive in aree nate come abusive (cellamare 2013e). Si tratta di valori particolarmente eclatanti per una capitale di un paese occidentale (compreso tra i G8). […] Sono processi non più legati all’emergenza abitativa; si tratta piuttosto di abusivismo di convenienza se non di carattere speculativo, che mira a realizzare residenze di qualità al di fuori del mercato formale, creandone di fatto uno parallelo.

Altri fenomeni hanno invece carattere innovativo: – il grande sviluppo di alcune polarità, connesse anche alla politica delle «centralità» sostenuta con il nuovo Prg di Roma del 2008 […]; – Lo sviluppo di alcune «città nuove», spesso senza alcuna connessione con la città consolidata. […]; – Lo sviluppo, anche nei territori contermini, di agglomerati insediativi senza alcuna relazione coi centri storici o consolidati e connessi piuttosto alle grandi infrastrutture autostradali e ferroviarie, spesso a ridosso dei caselli autostradali o delle stazioni ferroviarie […]; – Ancora più emblematico è lo sviluppo della cosiddetta «città del Gra» (…), l’evoluzione del Grande raccordo anulare da confine tra città (consolidata) e campagna a grande boulevard urbano, asse strutturante (e attrattore) dello sviluppo insediativo (…). […], – Una riorganizzazione delle gerarchie urbane, in relazione in particolare ai servizi, nei territori contermini, con situazioni diversificate [….]; – Una rinnovata attenzione ai territori agricoli periurbani e alle aree naturali e, in particolare, ai parchi che sono progressivamente attorniati dallo sviluppo insediativo […]

6. Una mutazione antropologica, un modo diverso di abitare.
Insieme all’assetto spaziale dei territori, cambiano anche i fenomeni socio-spaziali stessi. Questo cambiamento è riscontrabile in relazione, ad esempio, ad alcuni aspetti principali:

– i comportamenti sociali causati dai nuovi assetti territoriali o i cambiamenti nell’organizzazione di vita degli abitanti: pensiamo al ruolo che il loisir e il tempo libero hanno assunto nell’organizzazione di vita degli abitanti; o ai tempi di spostamento che si è disposti a sostenere […];

– le relazioni che evolvono nei confronti della città di Roma: molte ragioni alla base degli spostamenti hanno come riferimenti luoghi e attività distribuiti sul territorio esteso romano e non collocati all’interno della città consolidata; molti poli attrattivi collocati all’esterno della città tradizionale e consolidata – e non solo del centro storico – determinano un cambiamento dell’orientamento dei flussi

– ovvero dall’interno verso l’esterno; cambia il riconoscimento dei valori e della significatività dei luoghi; si invertono i flussi – anche se limitatamente – anche da Roma verso l’esterno non solo per funzioni e attività particolari come avviene per la costa (e le relative attività turistiche e del tempo libero), ma anche per le attività ordinarie e quotidiane;

– le relazioni che gli abitanti hanno con i propri contesti di vita. Ad esempio, la residenza (come attività sociale complessa) è sempre più avulsa dal territorio (in termini spaziali e localizzativi) in cui si colloca. Molte attività (compresa la scuola) si svolgono altrove, ovvero in territori che non appartengono allo spazio di azione quotidiana. […]

7. Il locale come risorsa.

Nel gioco tra distanze, allontanamenti e ricerca di autonomia da parte dei territori locali, e vicinanze e inglobamenti, spesso anche soffocanti, da parte dell’area urbana centrale, si creano nei territori, oltre che conflitti, anche dinamiche di nuovo radicamento. Quest’ultimo, sebbene in molti casi di non grande portata, si affianca a un radicamento «primario», in cui le popolazioni locali residenti da lungo tempo continuano a difendere la propria identità locale. Questi processi possono avere un carattere «subalterno», ovvero di minore portata rispetto alla fondamentale dipendenza nella quotidianità da Roma, e di «seconda generazione», ovvero interessare la nuova popolazione arrivata.

I nuovi abitanti possono recuperare, in alcuni casi, identità locali preesistenti e ormai superate, ma di cui rimangono gli immaginari, facendo propri comportamenti della popolazione autoctona (le sagre, una finta popolanità, le feste tradizionali e/o in costume ecc.). In altri casi, invece, il nuovo radicamento della popolazione che si sposta nei territori esterni può costituire l’esito di una scelta intenzionale e di valore per una differente qualità della vita o semplicemente l’effetto di una quotidianità, che per esempio le famiglie giovani costruiscono attraverso la scuola dei figli o i servizi locali.

Tutti questi sembrano sintomi dell’attivazione (o riattivazione) di un processo di ricostruzione di relazioni con il contesto locale, pur se i processi generali hanno un carattere di prevalente estraniazione e gli abitanti vivono una molteplicità di relazioni anche extraterritoriali. Si possono quindi riconoscere nei territori locali forme di riappropriazione e di autogestione e anche un protagonismo sociale che è forse anche una risposta alla generale mancanza di governo e di progettualità.

8. L’assenza della politica.

Il dibattito sull’«area metropolitana» romana degli anni ottanta e novanta era stato in gran parte inconcludente, pervaso com’era di retoriche e privo di rapporti con i processi reali che avvenivano sui territori. La ripresa del dibattito negli ultimi anni sulla «città metropolitana» e su «Roma capitale», che sta portando a una profonda riorganizzazione – più amministrativa che istituzionale –, ha il medesimo carattere inconcludente e retorico. […]

9. Roma «fuori Raccordo».

La ricerca di cui si dà conto in questo libro si è sviluppata, come detto, a diversi livelli. Per comprendere le dinamiche reali in atto si è ritenuto opportuno e necessario «andare sul campo», sviluppare cioè attività di ricerca che interessassero direttamente i territori, attraverso sia studi indiretti che studi diretti sul campo, utilizzando un approccio interdisciplinare […] Il presente volume non avrebbe senso se non avesse l’obiettivo di sollecitare un dibattito sulla città, sull’area metropolitana e sulle sue prospettive. Un dibattito che si prefigura in maniera più esplicita nell’ultima parte del libro […].

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Fuori raccordo. Abitare l’altra Roma (edito da Donzelli) raccoglie saggi di: Giovanni Attili, Alessandro Balducci, Antonella Carrano, Giovanni Caudo, Carlo Cellamare, Pierluigi Cervelli, Alessandro Coppola, Ernesto d’Albergo, Alessandro Lanzetta, Maria Immacolata Macioti, Elena Maranghi, Giulio Moini, Francesco Montillo, Valerio Muscella, Dorotea Papa, Lidia Piccioni, Barbara Pizzo, Monica Postiglione, Irene Ranaldi, Enzo Scandurra, Federico Scarpelli, Nicola Vazzoler.

«No Drill president. Reazioni indispettite dalla lobby dei petrolieri che sta per fare il suo ingresso sul tappeto rosso della Casa bianca. Mentre il Canada di Trudeau aderisce alla norma di salvaguardia». il manifesto, 22 dicembre 2016 (c.m.c.)

Il presidente Obama ha annunciato il divieto permanente di operare trivellazioni per l’estrazione del petrolio e del gas in una vasta area della regione artica e della costa atlantica. Per fare ciò Obama ha fatto ricorso ad un’oscura legge risalente a 63 anni fa, compiendo una mossa che il presidente entrante Donald Trump non dovrebbe essere in grado di invertire e che sicuramente non sta gradendo. La norma imposta da Obama vieta tutti i futuri contratti di locazione di petrolio e gas nel Chukchi Sea, così come nella stragrande maggioranza del Mare di Beaufort.

L’annuncio di Obama è stato seguito, poco dopo, da quello del primo ministro canadese Justin Trudeau che a sua volta ha annunciato il divieto di nuove trivellazioni off-shore in acque artiche canadesi. Queste due risoluzioni combinate creano una cintura di protezione dell’Artico e mettono di fatto in salvo una zona delicatissima e vitale per l’ambiente e valgono, da sole, più di molti trattati e buone intenzioni messe nere su bianco ma che possono essere facilmente vanificate da un cambio di presidenza, mentre il destino di questa nuova norma voluta da Obama potrà essere cambiato solo con grande sforzo dei tribunali federali a cui Trump dovrà fare ricorso per rovesciarla, in un processo lungo e non completamente prevedibile.

La legge a cui ha fatto ricorso Obama – la Continental Shelf Outer Lands Act – che gli ha dato l’autorità di agire unilateralmente, era stata già usata in passato da alcuni presidenti per proteggere temporaneamente piccole porzioni di acque federali, ma la mossa di Obama, invece, è un divieto di perforazione permanente che riguarda una zona molto vasta, e coinvolge una porzione dell’oceano che va dalla Virginia al Maine e coinvolge gran parte della costa dell’Alaska.

«Non è mai stato fatto niente del genere prima – ha dichiarato Patrick Parenteau, professore di diritto ambientale alla Vermont Law School – Non esiste quindi alcuna giurisprudenza su questo tema che coinvolge acque ancora inesplorate».

Il divieto di perforazione Obama riguarda la circa il 98 per cento delle acque artiche di proprietà federale, una regione incontaminata dove vivono molte specie in pericolo tra cui orsi polari e balene. «Queste azioni, e le azioni parallele del Canada, sono volte a proteggere un ecosistema delicato e unico che è diverso da qualsiasi altra regione al mondo – ha detto Obama nel comunicato a seguito della legge – Le azioni che abbiamo intrapreso riflettono valutazioni scientifiche. Anche con gli standard di sicurezza elevati che entrambi i nostri Paesi hanno messo in atto, il rischio di una fuoriuscita di petrolio in questa regione resta significativo mentre la nostra capacità di ripulire l’ambiente da una fuoriuscita di petrolio, viste le condizioni difficili della regione, è molto limitata».

«Permanente? Non vediamo come questo divieto possa essere permanente», ha dichiarato immediatamente dopo la diffusione della notizia, Andrew Radford, consulente senior dell’American petroleum institute, che opera per le compagnie petrolifere. Certamente molti dei nuovi attori politici messi in campo da Trump faranno tutto il possibile per rovesciare questo provvedimento, primo tra tutti il nuovo Segretario di Stato Rex Tillerson, a capo della multinazionale del petrolio Exxon ma, fanno notare i docenti di legge, non è Obama il primo ad appellarsi al Continental Shelf Outer Lands Act: Eisenhower, Nixon, George Bush e Bill Clinton hanno utilizzato quella legge per proteggere porzioni di acque federali e nessuno di questi veti è stato annullato.

Non è insolito che i presidenti vengano colti da un’urgenza nelle loro ultime settimane in carica, in questo caso è però esasperata dalla incompatibilità di vedute dei due soggetti coinvolti nel passaggio di consegne: Trump ha la dichiarata intenzione di smantellare tutto il lavoro compiuto dal suo precedessore. La scorsa settimana, l’Amministrazione Obama ha promulgato una legge che protegge economicamente i centri di pianificazione familiare federali, i Planned Parenthood, e gli altri centri sanitari che procurano aborti: entrerà in vigore due giorni prima che Trump entri alla Casa Bianca.

«La storia straordinaria di Italo Ferraro, che da trent’anni, armato di matita, lavora a un atlante completo della città. Atlante della città storica che ora si arricchisce del decimo tomo, dedicato a Posillipo». La Repubblica, 22 dicembre 2016 (c.m.c.)

La scoperta di un chiostrino quattrocentesco provocò in Italo Ferraro una sensazione di euforia. Euforia che non sembra abituale in lui, almeno da come sommessamente è arredato il suo studio d’architetto, tre stanze ricavate in cima a una scala un po’ arruffate, con il soffitto basso e dove ci si muove a stento.

Tutti davano il chiostrino per distrutto durante i lavori del Risanamento che a fine Ottocento sventrarono il centro antico di Napoli. Lui non si fidava di un’accreditata letteratura e calandosi in un locale caldaia da una finestra dell’ospedaledell’Annunziata, se lo trovò davanti agli occhi. Poi ne seguì il tracciato in un negozio lì a fianco dove i proprietari ne avevano incorniciato i reperti. Ed ecco che, un pezzo per volta, il chiostrino riprese forma nel rilievo che Ferraro tracciò su un quaderno. Un disegno minuto, millimetrico.

È così che Italo Ferraro, professore in pensione di progettazione architettonica, procedendo edificio per edificio, isolato per isolato, quartiere per quartiere, va componendo un mastodontico atlante di Napoli, una mappa che aspira alla totalità di quel che si è costruito nei secoli, antico e moderno, bello e brutto, sontuoso e sberciato, frutto d’ingegno progettuale e di sfacciata speculazione.

«Senza pregiudizi », aggiunge, «perché la città respinge i pregiudizi e Napoli più di ogni altra non è responsabile di quel che le hanno fatto. Nessuna città è un oggetto perfetto e la bellezza la scopro ovunque, non è mai del tutto sopraffatta».

Ferraro, settantacinque anni, quaranta passati a insegnare, un paio di baffi ben pettinati, volge lo sguardo allo scaffale di fronte dove si allineano i nove volumi fin qui pubblicati di Napoli. Atlante della città storica che ora si arricchisce del decimo tomo, dedicato a Posillipo. Li osserva, li avvolge con il fumo di una sigaretta e li accarezza con la sua molle e colta parlata napoletana. Ogni volume è intitolato a una zona della città — i Quartieri Spagnoli, dallo Spirito Santo a Materdei, Stella, Vergini e Sanità, Chiaia, il Vomero… -, conta settecento pagine, misura 30 centimetri per 24, pesa quattro chili e costa 200 euro.

Lo schema si ripete. I tomi sono composti di saggi storici (non solo suoi, anche di illustri colleghi: Gaetana Cantone, Attilio Belli, Benedetto Gravagnuolo…) seguiti dalle mappe dei piani terra e dai prospetti delle facciate di tutti, ma proprio tutti, i palazzi, i monumenti, le chiese, i monasteri, gli edifici pubblici, gli stabilimenti, ai quali sono dedicate corpose schede, arredate di foto, antiche vedute e cartografie.

Il rilievo e la mappatura vanno avanti da trent’anni e sono frutto anche del lavoro dei tanti studenti dei corsi di Ferraro. La parte sul centro storico è stata utilissima quando, negli anni Novanta, si è avviato il piano regolatore della città che ha introdotto una stringente tutela. Dal 2003 è iniziata la pubblicazione dei libri, che hanno avuto cadenza regolare, grazie al finanziamento della Società Metropolitana di Napoli e al sostegno del Premio Napoli quando a dirigerlo erano Ermanno Rea e poi Silvio Perrella.

Questi dieci volumi sono un unicum. Ferraro assicura che non c’è nulla di simile per nessun’altra città, ma «Napoli è Napoli, conserva strato su strato i tempi delle sue trasformazioni e ognuno può sperimentare le vie del centro antico come alcune migliaia di anni fa. Nulla si perde della cultura materiale delle prime epoche». All’inizio dell’impresa, Ferraro voleva limitarsi al centro storico. Poi, con i suoi collaboratori (i cui nomi ricorrono in ognuno dei volumi), ha verificato che molta storia figura nelle zone dell’espansione novecentesca, per cui «a Posillipo non c’è grande edificio che non sia costruito su un altro edificio: Napoli è cresciuta su sé stessa, persino quando sembrava spingersi oltre i confini». E così quando uscirà l’undicesimo volume su Fuorigrotta, quasi tutto il territorio comunale sarà coperto da questa imponente, minuziosa cartografia, che nella cura del dettaglio conserva qualcosa di giocoso.

Ferraro disegna e scrive a mano. I fogli che custodiscono la sua ordinata calligrafia sono sul bordo della scrivania, impilati a blocchetto. Ha già uno schema di quel che farà. Vuol mappare i quartieri periferici di Secondigliano, Barra e Ponticelli, quelli dell’edilizia popolare, delle Vele (che nel frattempo saranno abbattute). «Il secondo Novecento non è solo la cronaca di un massacro, basta guardare le opere di un architetto come Luigi Cosenza, dallo stabilimento Olivetti a Pozzuoli fino a villa Savarese a Posillipo ». Dopo essersi spinto a Scampia, deciso a sottrarre lo stigma famigerato che l’opprime, Ferraro rimetterà mano ai primi volumi. Ha scovato all’Archivio di Stato le carte di contenziosi giudiziari che permettono di meglio dettagliare i particolari di diversi edifici. I proprietari sono evocati maniacalmente, sfilano signori e poveracci, prelati e badesse, geografia e storia s’incrociano perché non sfugga neanche un’inezia topografica.

Ferraro è nato al rione Sanità, il quartiere che mescola i mattoni e il tufo del suolo, gli sfarzosi palazzi Sanfelice e dello Spagnuolo, le catacombe paleocristiane e le cittadelle conventuali. Nel romanzo postumo di Rea, Nostalgia, Ferraro compare con uno dei volumi come guida del narratore nei percorsi dentro il rione dove «il ricordo dei morti si trasformava in una sorta di ossessione collettiva, in una forma di religiosità venata di pagana follia».

La storia della città non finisce mai di condizionare il presente. Ferraro aveva svolto lo stesso ruolo in un precedente romanzo di Rea, Napoli Ferrovia. Ma alla Sanità il presente parla della violenza camorrista fronteggiata dai ragazzi delle cooperative riunite intorno alla Basilica di Santa Maria della Sanità e al suo parroco, don Antonio Loffredo. «Non me la sento di dire che l’Atlante contribuisca al riscatto di quello come di altri quartieri di Napoli», confessa Ferraro, «m’interessa però mettere le cose in chiaro. Io giro per la Sanità e attuo tutti i mezzi per stanarne la bellezza. Purtroppo gli stereotipi sono troppo forti, a partire da quello che ci descrive come un paradiso abitato da diavoli, il più falso di tutti».

«“Green infrastructure”: l’infrastructure è l’autostrada/tangenziale e il green è quello che c’è già, va solo pettinato meglio per attenuare il grigio e i rumori. È la versione emiliana della dialettica di Hegel: il simulacro di tesi, antitesi e sintesi in un unico partito e blocco di interessi». Internazionale online, 21 dicembre 2016 (p.d.)



Pubblichiamo la terza ed ultima puntata del reportage in tre puntate condotto da Wolf Bukowski e Wu Ming sul Passante di Bologna (la prima puntata la trovate qui, la seconda qui).

Abbandonàti (e perciò sopravvissuti)

Il torrente Sàvena Abbandonato striscia ai margini del nuovo casello autostradale, inaugurato nel 2006 come accesso diretto dall’A14 alla Fiera di Bologna. L’acqua color cartone s’infila tra due sponde di calcestruzzo, passa sotto lo svincolo e riemerge dalla parte opposta. La riva sinistra segna il confine del parco Nord, sede di concerti, giostre e feste dell’Unità. Un misto di tensostrutture e vecchie case coloniche. Poco avanti, prima del camping cittadino, l’immancabile rotonda sorveglia un incrocio di strade che vedrà passare dieci auto all’ora. Sulla destra, acquattata nel boschetto ripariale, s’intravede una striscia di orti clandestini, con tralicci di canne, bidoni di plastica, baracche da attrezzi (e forse da persone). Oltre gli orti si spalanca l’asfalto, uno spiazzo che subito si restringe a imbuto. All’imbocco, in un abbraccio di rovi, un cartello giallo recita: “Lavori III^ corsia – accesso urbano – 16 Nord”. La scritta nera si riferisce all’ultima ondata di interventi sul Nodo bolognese: terza corsia “dinamica” in autostrada, riqualificazione della tangenziale, nuovo casello Fiera. Lavori costati 247 milioni di euro che il Passante di Bologna in parte vanificherebbe, rimettendo mano a terrapieni, svincoli e barriere antirumore inaugurati nel 2008. Dunque il cartello è abbandonato, come il vecchio corso del Sàvena, e sta lì senza scopo da una decina d’anni. E sono abbandonati i muretti jersey che delimitano l’accesso all’area, tutti scrostati “in duplice filar”. È abbandonata la strada di servizio, mangiata dalle buche e coperta di fango. È abbandonato l’asfalto del grande piazzale, dove ormai – come un rimosso freudiano – crescono erba, cespugli, pioppi, contribuendo al fascino perturbante di questo spazio, indeciso fin dall’appellativo con cui compare nelle carte. In quelle di Bologna & Fiera Parking si chiama Parcheggio Romita, mentre in quelle del Passante di Bologna è l’Area ex Michelino.

Via Michelino, a dispetto del nome da fumetto Disney, è un’antica strada della campagna bolognese, appena fuori dalle mura della città. Il toponimo compare già nei documenti di quattrocento anni fa, mentre il suo percorso è attestato nella famosa Carta di Andrea Chiesa datata 1740. Oggi la via è spezzata in tre brandelli, tra la tangenziale, il nuovo casello, la Fiera e un vialone a sei corsie. Il primo troncone è ormai un’arteria della periferia storica. Il secondo ospita un parcheggio multipiano da 5.500 posti, costruito tramite project financing, talmente in perdita che gli investitori privati – tra cui Autostrade e il consorzio Ccc – chiedono al comune un indennizzo milionario per i mancati incassi. Il terzo segmento, ancora rurale, conduce alla pieve di San Nicolò di Villola. Si trova proprio all’uscita del piazzale abbandonato, ma chissà perché gli hanno cambiato nome. L’Area ex Michelino ha una superficie di due ettari e mezzo, circa quattro campi da calcio regolamentari. Nelle mappe regionali sull’uso del suolo, fino al 2003 non se ne vede traccia. Tutta la zona è registrata con il codice 2121: seminativi semplici irrigui. Ovvero: campi coltivati. In una foto dall’alto del 2006, invece, ecco apparire la macchia, abbacinante sotto il sole meridiano. I campi furono costretti ad accogliere un’“autorimessa temporanea”, che negli atti del comune ha un altro nome ancora: “Cadriano-Romita”. Il parcheggio servì come “compensazione delle aree di sosta perdute”, perché i cantieri per il casello Fiera, e poi quelli per il parcheggio multipiano, avevano occupato 500 posti auto. Inoltre, a giudicare dal cartello giallo, lo spazio consentì anche l’accesso di ruspe e automezzi che lavoravano alla nuova uscita dell’A14.
Nubi di ieri sul nostro domani odierno

Oggi, tra le opere di bene promesse alla città grazie al Passante di Bologna, figura anche la deimpermeabilizzazione dei due ettari e mezzo dell’Area ex Michelino. Lo strato di catrame che la ricopre sarà rimosso, affinché la terra possa di nuovo assorbire l’acqua piovana e le piante crescere senza troppa fatica. In questo modo, quei due ettari e mezzo contribuiranno a totalizzare i 130 ettari “di verde” gentilmente distribuiti da Autostrade per l’Italia, come risarcimento per il suolo consumato dalla nuova infrastruttura (20 ettari secondo il dossier del progetto, 24 secondo il sito ufficiale). Ma se il dissesto dell’area è un “effetto collaterale” di vecchi cantieri di Autostrade, allora il suo riciclo dovrebbe essere considerato un intervento relativo a quei lavori, e non un valore aggiunto, quasi un regalo, della nuova opera appena approvata.

Nel dossier del Passante di Bologna i cantieri rientrano nella categoria delle “occupazioni temporanee”, e coprono in tutto una superficie di 20 ettari. Ma se “temporanee” significa “per molti anni”, come nel caso dell’Area ex Michelino, e magari anche di più, qualora non arrivi un nuovo progetto a finanziare la deimpermeabilizzazione, allora quei 20 ettari di terreno “temporaneamente” occupati diventano l’ennesima bugia, e faremmo meglio a considerare che almeno 40 ettari di suolo saranno impattati dall’infrastruttura, nel significato etimologico di “calpestati, trasformati in pattume”. Lungo il Sàvena Abbandonato, sulla riva opposta rispetto al casello Fiera, c’è un terreno agricolo e alberato di circa 23 ettari, undici dei quali saranno “temporaneamente” occupati da un cantiere del Passante, completo di campo base, officina, deposito mezzi e materiali di scavo, campo travi dei cavalcavia, impianti di produzione del calcestruzzo e del conglomerato bituminoso. Come si fa a sostenere che quel suolo non sarà “consumato” da un simile ingombro? Come si può pensare che, dopo tanta devastazione, torni a essere quello di prima? E il Sàvena Abbandonato – ritenuto “risorsa ecologica e ambientale” – come resisterà nella morsa tra un simile cantiere e lo svincolo autostradale, che ormai lo affianca fino a che morte non li separi?

Ci ho pensato su, non consumo più

L’espressione “contenere il consumo di suolo”, proprio come “promuovere la partecipazione”, è diventata un’antifrasi. Ormai tutti si esprimono contro il consumo di suolo, e chi per anni lo ha combattuto si sente dire dai suoi avversari: “Visto? Adesso anche noi siamo d’accordo con te. Ci hai convinti, hai vinto, che altro vuoi?”. Intanto, dietro la cortina fumogena, si continua ad aggredire il territorio, come prima, più di prima. “Dobbiamo cambiare terminologia”, ci suggerisce Paola Bonora, geografa. “Bisogna inventarsi parole nuove, oppure tornare a termini antichi, ma chiari, come ‘cementificazione’. L’espressione ‘consumo di suolo’ è ormai un paravento. Gli amministratori che ne parlano come di un’emergenza sono gli stessi che vogliono approvare la nuova legge regionale emiliana ‘sulla tutela e l’uso del territorio’”. Secondo quel testo – avverte una lettera aperta, firmata anche da Bonora – ogni comune può prevedere un consumo di suolo pari al 3 per cento del territorio urbanizzato. Un limite severo solo in apparenza, perché nel calcolo di quel 3 per cento non sono compresi: i suoli per opere d’interesse pubblico per le quali non sussistano ragionevoli alternative (ma tanto l’interesse pubblico quanto la mancanza di alternative sono concetti tutt’altro che obiettivi); gli ampliamenti di attività produttive; i nuovi insediamenti produttivi d’interesse strategico regionale, nonché gli interventi previsti dai piani urbanistici previgenti autorizzati entro tre anni dall’approvazione della nuova legge. Il risultato è che “il consumo di suolo consentito sarà di gran lunga superiore, fino al doppio o al triplo, del previsto 3 per cento della superficie urbanizzata. Come nei piani urbanistici degli anni della grande espansione”.

Ma non basta, perché con la scusa della “semplificazione”, il progetto di legge si spinge “fino alla negazione della stessa disciplina urbanistica”. L’articolo 32 dichiara infatti che un comune non può stabilire quante saranno e dove saranno ubicate le nuove residenze e attività produttive. La decisione “spetta agli accordi operativi derivanti dalla negoziazione fra l’amministrazione comunale e gli operatori privati”. In sostanza, la pianificazione dei comuni evapora, sostituita dall’esame, caso per caso, delle proposte dei costruttori. Proprio come era previsto da una proposta di legge di Maurizio Lupi, risalente al 2005, a dimostrazione dell’uniformità di vedute in materia di cemento tra centrodestra e centrosinistra. “È un ribaltamento totale della prospettiva”, continua Bonora. “Mentre un tempo la pianificazione serviva ad accreditare la dimensione pubblica della territorialità, oggi è l’esatto contrario, e sono gli investimenti privati che vanno salvaguardati. In Emilia vantiamo la pianificazione come grande scelta pubblica degli anni sessanta-settanta, mentre oggi ci troviamo a essere capofila della privatizzazione”.

Vestita di verde

Comincia proprio con un peana al bel tempo che fu, con lodi di architetti e ingegneri per l’urbanistica bolognese, l’incontro “Qualità urbana, ambiente e paesaggio”, inserito tra gli appuntamenti del Confronto pubblico sul Passante di Bologna. Gli organizzatori, per l’occasione, hanno scelto la cappella Farnese, una delle più belle stanze di palazzo d’Accursio. D’altra parte, la riqualificazione delle periferie è il proverbiale “fiore all’occhiello” di tutto il progetto, un fiore che deve far dimenticare quanto vecchia, logora e impresentabile sia la giacca sul quale è appuntato. Rispetto agli incontri di quartiere, come quello della Birra (vedi la seconda puntata), la scenografia è molto più tradizionale, da conferenza. Tavolo degli esperti, microfoni, bottigliette d’acqua e slide. In platea, circa 80 persone. Poche, se si considera che questa mattina saranno rivelati i dettagli degli interventi paesaggistici, magnificati ma avvolti nel mistero per oltre due mesi di confronto pubblico.

L’assessora Valentina Orioli – responsabile di ambiente e urbanistica – introduce i lavori parlando delle opere di inserimento e mitigazione del Passante come di una “vera e propria infrastruttura ecologica che accompagna la strada”. Il concetto di “green infrastructure” ritornerà più volte nel corso della mattinata, con l’aggiunta di un pizzico di orgoglio patriottico, perché si tratta di una strategia adottata dall’Unione europea nel maggio 2013 su iniziativa dell’italiana Pia Bucella. Tuttavia, l’idea originaria di cucire tra loro le aree naturali di un territorio qui si traduce in un obiettivo più terra terra: l’infrastructure è l’autostrada/tangenziale e il green è quello che c’è già, va solo pettinato meglio per attenuare il grigio e i rumori. L’architetto Carles Llop, come da copione, si dice onorato di lavorare a Bologna, ricordando quando i professori gli facevano studiare questa città modello e Pier Luigi Cervellati – assessore urbanista dal 1965 al 1980 – era il suo idolo intellettuale. Peccato che Cervellati sia seduto tra il pubblico, schierato con i cittadini che si oppongono al Passante. Llop fa partire una presentazione con 78 slide, fitta di mappe, rendering, tavole a colori. I materiali sono organizzati in base a cinque parole chiave: parchi, percorsi, passaggi, opere d’arte e porte.

Le porte sono una tipica ossessione bolognese, ma il trucco vale per qualunque altra città. Si prende un elemento del paesaggio urbano, carico di storia, caro ai cittadini, ricco di simbologie. Nel nostro caso, le dieci porte superstiti delle antiche mura. Quindi, si assimila a quell’icona una nuova architettura, potenzialmente sgradita, per presentarla come un’espressione del genius loci. A Bologna è già successo con la ripugnante porta Europa, un ecomostro per uffici del gruppo Unipol, che scimmiotta i casseri medievali fin nelle finte merlature, e che dovrebbe essere l’arco trionfale di accesso alla città dalla Fiera, dalle Alpi, dal resto del continente. Un’architettura pensata per favorire incontri e passaggi, ma affollata solo dalle auto che ci scorrono sotto. Ecco perché, quando sentiamo parlare degli svincoli del Passante come delle nuove “porte” di Bologna, un brivido ci scuote. Per carità, l’idea di rampe d’accesso e sottopassaggi che non siano un incubo ciclopedonale è senz’altro meritevole, ma quando si comincia a raccontarli come luoghi di scambio e identificazione, forse si sta esagerando con le pie illusioni. Perché una strada in rilevato a dodici corsie non la cancelli con quattro salici, il wi-fi diffuso e qualche bel lampione. E se la schiaffi in mezzo a una periferia, non sarà mai un polo d’attrazione. Ma su questo, Llop è molto chiaro: non spetta a lui giudicare l’opera. Il suo compito è migliorarne l’inserimento. Insomma, lo stesso obiettivo che i facilitatori hanno indicato ai cittadini durante il percorso partecipativo: essere propositivi, suggerire qualche abbellimento e contribuire a gonfiare una bolla di consenso intorno al Passante di Bologna e ai suoi promotori.

L’intervento sui parchi è affidato alle parole di Andreas Kipar, dello studio Land, già coinvolto nella gentrificazione del quartiere Isola a Milano. Anzitutto, scopriamo che i parchi hanno una doppia funzione, come luoghi del tempo libero e spazi di mitigazione dell’opera. Grazie a questo duplice obiettivo, rientra nella definizione anche una zona interclusa, un filare di pioppi, un’aiuola spartitraffico. Accade con i parchi quel che abbiamo già visto per le “porte”. Anche questa è un’idea passepartout, un lasciapassare: chi semina parchi è sempre benvenuto. Eppure, non è affatto detto che un parco sia sempre e comunque una buona notizia. I paesaggi che accompagnano la tangenziale bolognese sono un impasto molle, in precario equilibrio chimico, di ruderi, palazzoni, squarci di campagna, canali, colonie feline, fasce boscate, rimesse di ferraglia, artigiani in baracche, sfasciacarrozze, centri commerciali, sottopassaggi dormitorio, cartelli “vendesi”, scavatrici, arredi da parco urbano spruzzati sui prati, sentieri nascosti, orti, studi di registrazione e startup ricavati in vecchi fienili. Un territorio nel quale qualsiasi intervento di “riqualificazione urbana” deve stare attentissimo a non cancellare ricordi e uniformare differenze, accorciando insieme all’erba anche il respiro delle storie.

Ci vuole l’albero

In via Frisi, all’Arcoveggio, c’è un parco con vista sulla tangenziale. Lo spazio verde, coltivato e agricolo fino tutti gli anni novanta, dopo vari accanimenti edilizi, era diventato un prato residuale e in abbandono. I lavori per la terza corsia dinamica l’hanno ulteriormente calpestato, in cambio di qualche metro di barriere acustiche, che il rumore aggira come la corrente di un fiume intorno a un masso. Di recente il comune ha riqualificato la zona. Ha tracciato un sentiero di ghiaia e disegnato una piazzetta. Ha piantato qualche alberello e promette di piantarne altri, per mascherare il Passante e accreditarsi un ettaro di “verde” in più. Ci sono panchine in alluminio, dove d’estate potresti grigliare salsicce, e una fontanella malata, sempre d’alluminio, che in agosto produce acqua bollente. Un sottovia tristo e fangoso porta alla fascia boscata di là della tangenziale. In origine, consentiva il passaggio di una carrareccia. La carrareccia conduceva a un casale. Poi il casale è stato abbattuto e lo stradello che lo serviva non gli è sopravvissuto a lungo. Ma un’apertura nella grande muraglia autostradale è preziosa, e così, durante i lavori degli anni zero, la posterla fu ampliata e rinforzata. Non sappiamo cos’avesse in mente il comune, oltre alla necessità tecnica di allargare in quel punto l’infrastruttura sovrastante. Quale che fosse il progetto, dev’essere rimasto incompleto, vista la melma che trabocca dal tunnel. Un risultato che spinge a dubitare delle “riqualificazioni” pensate per accompagnare le grandi infrastrutture. Perché alla fine dei conti l’opera va avanti, a ogni costo, mentre la riqualificazione può sempre attendere, ridimensionarsi, fermarsi a metà o peggio marcire in poco tempo, dopo il taglio del nastro a favore di telecamere. I paesaggisti del Passante promettono di riqualificare “la superficie ammalorata interna” del sottovia, “mediante l’applicazione di materiali […] di gradevole aspetto estetico”. Ci auguriamo che altrettanta premura la riservino anche a Joseph, che di sicuro non compare sulle loro mappe, ma lì sotto ci dorme sul suo materasso.
Costeggiando la tangenziale in direzione del tramonto, si arriva al limite occidentale del parco, dove scorre il canale Navile. L’accostamento è talmente brusco, che il comune ha piazzato una staccionata di legno a guardia della soglia. Il canale è un corteo vivace di fabbriche in rovina, filari di vite, ponti e chiuse idrauliche rinascimentali, alloggi di fortuna, animali da cortile. Sulle sue sponde puoi trovarci chiunque, dal ciclista al tossico, dall’agricoltore al flâneur, perché è un corridoio meticcio, che non chiede i documenti a chi vuole percorrerlo. Il parco, invece, con la sua pretesa di darsi un’identità, finisce per essere un corpo estraneo. E infatti, se si escludono le coppie cane/padrone, è difficile trovare qualcuno che ci si fermi per più di due minuti. A sedersi sulle panchine si viene assaliti dalla sensazione di essere dentro un rendering e dal timore di tramutarsi in figurine di pixel. “Si cerca di trasformare il territorio nel suo messaggio”, ci ha detto ancora Paola Bonora. “Ogni luogo diventa un cartellone pubblicitario, ma in un cartellone pubblicitario non si vive. Qualcosa di simile sta succedendo anche con gli orti. È un’ossessione. Ce n’è uno anche in galleria Cavour, tra le vetrine di negozi come Gentryportofino e altre firme di lusso. Un grande vaso con dentro una pianta e il cartello ‘pomodoro’”.

Kipar mostra i rendering del nuovo parco Nord, che sarà rinverdito, riforestato, rinaturalizzato. Nell’immagine, si vede un tizio che va in monociclo sull’erba e sullo sfondo, oltre una fioritura di pruni, spiccano le due torri, che da parco Nord non si vedono manco con il binocolo. A ulteriore illustrazione del futuro dell’area, una foto mostra un concerto sul prato… del parc de la Villette, a Parigi. Grande spazio viene dato all’idea di connettere i parchi tra loro, con piste ciclabili, sottopassi pedonali e sentieri. Nelle slide che scorrono sul telo, non c’è l’ombra di un’automobile, eppure il motivo per cui siamo qui è una strada a 12 corsie. Kipar parla di trasformarla da ferita che taglia il territorio a sutura che lo tiene insieme, ma ripete troppo spesso “basta con l’ornamentalismo, basta con i giardinetti in mezzo alle rotonde” e l’impressione è che voglia scacciare un fantasma. Infatti, dopo aver parlato di ecotoni e biodiversità, l’architetto tedesco si lascia scappare una frase rivelatrice: “L’albero è un’architettura vegetale che piace sempre di più”.

Gli fa eco Paolo Desideri dello studio Abdr, orgoglioso responsabile di quelle che negli appalti italiani si chiamano ancora “opere d’arte”, quasi a voler preservare la gloriosa tradizione romana di coniugare architettura e ingegneria. Desideri quindi si occuperà di barriere antirumore, cavalcavia, viadotti. E soprattutto della galleria acustica di San Donnino, fiore all’occhiello sul fiore all’occhiello, grande sfoggio di attenzione per i cittadini del quartiere più segnato dal passaggio dell’A14/Tangenziale. Non a caso, di tutti i rioni che abbiamo visitato lungo l’infrastruttura, San Donnino è quello che più fa sentire la sua opposizione al passante, con striscioni, tazebao e volantini. Uno di questi ritrae uno scheletro intento a fare jogging. La didascalia recita: “Andava tutti i giorni a correre nel giardino pensile sul Passante di Bologna”. Giardino pensile, ecodotto, galleria fonica: comunque lo si voglia chiamare, si tratta di un tunnel artificiale, steso sopra le 12 corsie della nuova strada, e rivestito da “un panneggio ambientale”, un “manto verde”, secondo le parole dello stesso Desideri. E dunque alberi, perché piacciono sempre di più, e giardini usati come camouflage. A dispetto del grande impegno progettuale, l’obiettivo reale di questi interventi emerge dai lapsus linguae. L’elemento naturale serve a infilare il pugno d’asfalto in un guanto di velluto verde.

Racconti che la benzina quasi quasi quasi purifica l’aria

Ma non basta. Con ardita sineddoche la carta da regalo verde che impacchetta l’infrastruttura finisce per la rappresentarla nella sua interezza, così il Pd chiama l’opera, durante la campagna elettorale, “Passante verde di mezzo”. Un verde che poi, levandosi in cielo, si fa azzurro, l’azzurro di un’aria pulita. A luglio il comune pubblica su YouTube un video in cui promette, grazie al Passante, la riduzione del 50 per cento di “alcuni inquinanti” nelle ore di punta. In modo un po’ imbarazzante un filmato del tutto uguale, uno stesso diagramma e un frameidentico (a parte la cifra sovrimpressa!) promettono, sulla home page del Confronto pubblico, un ripulitura dell’atmosfera del solo 40 per cento. Facesse così un negozio d’abbigliamento durante i saldi, rischierebbe una multa. Saranno la fluidificazione del traffico dovuta all’aumento delle corsie, l’istituzione di limiti di velocità a 80 chilometri orari e “l’evoluzione del parco auto” a dare “un notevole beneficio in termini di emissioni con una riduzione delle stesse che per alcuni inquinanti può superare il 40 per cento”, assicura il dossier di Autostrade. Gli inquinanti di cui si promette un così vistoso abbattimento sono gli ossidi di azoto, NOx. Ma andiamo a curiosare, a scomporre nei suoi elementi costitutivi questo “notevole beneficio”. Nelle proiezioni di Autostrade al 2025, una riduzione di NOx del 42 per cento ci sarebbe anche senza fare il Passante, per il solo effetto del “rinnovo parco veicolare”, cioè il progressivo prevalere dei modelli “euro 5”, “euro 6” e così via. Facendo anche il Passante, quella riduzione arriverebbe al 50 per cento. Chiunque si chiederebbe, a questo punto, se non ci siano altri interventi meno impattanti per recuperare un modesto 8 per cento di differenza. Istituire da subito il limite di velocità? Fare uno sforzo decisivo sul servizio di trasporto pubblico?

In realtà la risposta alla domanda è fin troppo facile, e altrettanto deludente: le proiezioni fatte da Autostrade sono fondate su pensieri speranzosi, più che su solide realtà. Il ritmo con cui gli automobilisti cambiano la vettura è condizionato dai redditi in calo e dalla precarietà lavorativa, e i dati delle emissioni dei nuovi modelli di auto sono notoriamente poco affidabili. Inoltre il governo Renzi, dello stesso segno dell’amministrazione bolognese, si è caratterizzato come uno dei meno virtuosi: “Tra i paesi dell’Europa occidentale l’Italia veramente balza all’occhio come quella che vuole rinviare e indebolire” norme più stringenti sui test per le emissioni dei veicoli, dice Julia Poliscanova dell’associazione Transport & Environment a Radio 24. Infine andrebbe sempre ricordato che costruire un’auto nuova inquina quanto guidarla per tutta la sua vita utile, quindi sarebbe doppiamente saggio frenare gli entusiasmi attorno al “rinnovo parco auto”. Il wishful thinking di Autostrade è interessato: dire che le nuove auto quasi quasi quasi purificano l’aria è parte della campagna comunicativa che conduce, anche per conto delle istituzioni, a favore del Passante di Bologna. Ma non è un caso isolato: una schiera di ideologi di un modello di città integralmente privatizzata va ripetendo la stessa presunta profezia. Il milanese Giacomo Biraghi, già uomo dei social di Expo 2015, scrive: “Nonostante un decennio di lotta allo sviluppo della mobilità individuale e di investimenti sulla mobilità collettiva, le auto resteranno protagoniste delle nostre città. Saranno sempre meno a combustione e sempre più a trazione elettrica, con versioni innovative che si guidano da sole […]. Dovremmo cominciare a ripensare all’equilibrio di attenzione, spesa corrente e investimenti tra trasporto pubblico e nuovi sistemi di mobilità personale”. Il contenuto politico è chiaro: il ritorno delle auto ovunque e il disinvestimento nel trasporto pubblico. A Bologna in tanti pensano esattamente lo stesso, ma la comunicazione risulta distorta dal mito autocompiaciuto del buongoverno emiliano. Così si arriva a sostenere che allargare autostrada e tangenziale è l’atto inaugurale di una stagione di riscatto… per la mobilità ferroviaria!

Lo scarico calibrato e un odore che non inquina

È Fiorella Belpoggi, che fa parte del comitato scientifico del Confronto pubblico, a suggerire questo incredibile nesso causale durante l’incontro “L’ambiente e la salute” del percorso partecipativo. Belpoggi prima conferma tutti gli argomenti della propaganda del Passante: la fluidificazione del traffico grazie all’allargamento, la limitazione degli stop and go, il rinnovo del parco auto. Poi, sdoppiandosi retoricamente, si domanda se siano davvero validi; infine si risponde da sola. È la versione emiliana della dialettica di Hegel: il simulacro di tesi, antitesi e sintesi in un unico partito e blocco di interessi. Belpoggi, forse involontariamente, ne fornisce solo l’ennesima interpretazione, intervallata alle solite lodi al tempo che fu: “Oggi ho seguito con attenzione le presentazioni [dei consulenti dei Comitati contrari al Passante di mezzo] e ho visto che [il miglioramento della qualità dell’aria] non è proprio una cosa sicura, però mi dico: al massimo rimaniamo come siamo! E voi direte: ma dottoressa, tutta questa confusione per rimanere al massimo allo stato in cui siamo? Io dico: è un’occasione! […] La mia città è stata un simbolo, un simbolo di buona gestione e io sono stata orgogliosa per anni di dire che ero di Bologna: vogliamo riprendere la città in questo modo, cioè qualificarla dal punto di vista ambientale ma con delle azioni che non siano puntiformi. Allargo l’autostrada, chiusa lì? No! Vogliamo delle uscite autostradali connesse possibilmente con delle stazioni ferroviarie, vogliamo dei parcheggi per le biciclette, vogliamo dei punti di ristoro sui quali poter riprendere un momento fiato durante le corse verso il lavoro e al ritorno dal lavoro…”. Ecco che di nuovo precipitiamo in un rendering. Le parole di Belpoggi ci fanno immaginare una proiezione in 3d. Ci sono allegri precari in bicicletta, eternamente giovani e belli (è un rendering, che ci vuole?), che hanno parcheggiato l’automobile appena usciti dalla nuova tangenziale, hanno estratto la bici dal bagagliaio e ora sostano davanti al chiosco del punto di ristoro. Sulla lavagnetta decorata coi gessi colorati leggono: “Da Maria Antonietta, oggi brioches a 1 euro”, e decidono di fermarsi: “Dobbiamo pur riprendere fiato mentre corriamo al lavoro…”. Intanto, sotto il cavalcavia di argomentazioni così modeste, corre il tema di quel 42 per cento di riduzione degli inquinanti affidato al “rinnovo parco auto”. No, non è solo un trucco per inserire un dato arbitrario in un bilancio di inquinanti, ma un subdolo messaggio iperliberista. La città soffoca, i tuoi figli si ammalano? Colpa tua, pezzente, non hai cambiato l’automobile. Noi facciamo grandi progetti, grandi autostrade a favore del trasporto ferroviario e della pulizia dell’aria; poi se tutto fallisce è perché metti i soldi sotto il materasso e non compri un’euro 6.

Il racconto del Passante di Bologna si arricchisce così di un terzo livello di privatizzazione, dopo quelli che abbiamo già visto nelle puntate precedenti. Il primo è nel rapporto ombelicale con Autostrade, che condiziona tutte le scelte sulla mobilità; il secondo consiste nella privatizzazione ed esternalizzazione del rapporto tra cittadini e amministratori; quello definitivo, nella privatizzazione della politica ambientale, ridotta a semplice questione di consumi individuali. Stabilita questa equazione mistificante, si possono tranquillamente condurre politiche che generano traffico (e cementificazione) senza ritenersi responsabili delle conseguenze. Si promette la fluidificazione del traffico grazie al Passante di Bologna, e nello stesso tempo si genera traffico con Fico, parco tematico fintissimo ma vero centro commerciale della smisurata galassia Coop. Fico ambisce a milioni di visitatori; gran parte di loro sono attesi in automobile e dunque andranno a intasare nuovamente l’infrastruttura – ma questa contraddizione svanisce nella bolla di irrealtà in cui è immersa Bologna, e si perde nel gioco di rifrazioni della dialettica emiliana. Il giorno dopo la sconfitta al referendum costituzionale viene presentato un “ordine del giorno” in consiglio comunale. Il documento si limita a chiedere un maggiore coinvolgimento dei consiglieri nelle decisioni che riguardano il Passante. La prima firmataria è un’alleata esterna, Amelia Frascaroli, ma il testo è approvato grazie ai voti favorevoli (e alle astensioni) nelle file del Partito democratico. Il sindaco Merola la prende molto male, l’assessora Priolo reagisce in modo scomposto. L’accusa che rivolge a Frascaroli e, implicitamente, ai consiglieri Pd che ne hanno sostenuto la mozione, è quella di non essere stati presenti “al percorso di condivisione con i cittadini, quando c’erano da prendere i pomodori in faccia”, e di presentarsi solo “alla fine (a pomodori scansati, ad assemblee pubbliche durate fino all’una di notte, a più di mille cittadini ascoltati)”. Noi in quelle assemblee c’eravamo e non abbiamo visto volare pomodori, nemmeno quelli Gentry della galleria Cavour. A quanto pare, la scarsa consuetudine con il conflitto porta a scambiare per ortaggi le fin troppo disciplinate critiche di un pugno di bolognesi, peraltro vigilati da uno stuolo di esperti e difficilitatori. Ma come abbiamo visto, la dialettica del Pd è autoreferenziale, al punto da inventarsi agguerritissime opposizioni, nei confronti delle quali ergersi a eroici e coraggiosi paladini.

Noi, per non assecondare quest’epica farlocca, i pomodori ce li siamo mangiati e abbiamo preferito scrivere quest’inchiesta in tre puntate. Per mettere un freno al verde fasullo, alla partecipazione bugiarda e alle immagini finte della nostra città.

Nel corso dell’inchiesta siamo stati accompagnati da versi di canzoni, utilizzati come titoletti dei diversi paragrafi.

Quelli della prima puntata sono questi:
Guarda la fotografia (La fotografia, di Enzo Jannacci, 1991)
Col trattore in tangenziale(Andiamo a comandare di Fabio Rovazzi, 2016)
I lupi e gli agnelli (Lupi e agnelli, di Fausto Amodei, 1965)
Chilometri da odiare (Autostrada, di P. Cassella e D. Baldan Bembo, 1981)
E si aggrappa al passante più vicino (She’s lost control dei Joy Division, 1979)
Scopri sempre che c’è un’alternativa (Un’alternativa di Irene Grandi, 2015)
Stasera pago io (di Domenico Modugno, 1962)
Luglio, agosto, settembre (nero) (degli Area, 1973)

La playlist della seconda puntata è questa:
Per vedere di nascosto l’effetto che fa (Vengo anch’io. No, tu no di Jannacci, Fo e Fiorentini, 1968)
Libertà è partecipazione (La libertà di Giorgio Gaber, 1972)
(Non) sarà un’avventura (Un’avventura di Battisti e Mogol, 1969)
Anagramma (quasi) perfetto di facilità (Ballando con una sconosciuta, di Francesco Guccini, 1990)
Viaggi e miraggi (di Francesco De Gregori, 1992)
L’ultima occasione (di Del Monaco, Fontana e Meccia. Incisa da Mina, 1965)

La colonna sonora di quest’ultima parte è:
Abbandonàti (e perciò sopravvissuti) (Il mio canto libero, di Battisti e Mogol, 1972)
Nubi di ieri sul nostro domani odierno (di Elio e le Storie Tese, 1989)
Ci ho pensato su, non consumo più (Cicciottella di Lauzi, Caruso e Baudo. Incisa da Loretta Goggi, 1979)
Vestita di verde (Verde, dei Diaframma, 1990)
Ci vuole l’albero (Ci vuole un fiore di Bacalov, Endrigo e Rodari, 1974)
Racconti che la benzina quasi quasi quasi purifica l’aria (Ma è un canto brasileiro di Battisti e Mogol, 1973)
Lo scarico calibrato e un odore che non inquina (Il motore del 2000 di Dalla e Roversi, 1976)

Un accordo per svendere e privatizzare in blocco l'immenso patrimonio pubblico delle isole minori della Laguna, storicamente utilizzate per gli usi della collettività. Il Sole 24Ore, 18 dicembre 2016

È stato firmato oggi un Protocollo di Intesa tral'Associazione Italiana Confindustria Alberghi e l'Agenzia del Demanio che hacome obiettivo quello di individuare ambiti di azione comuni volti avalorizzare il patrimonio immobiliare pubblico in un settore strategico comequello del turismo italiano, che rappresenta una chiave di rilancio perl'economia del Paese. L'accordo, firmato nelle sale dello Starhotels Hoteld'Inghilterra dal presidente Confindustria Alberghi, Giorgio Palmucci, e daldirettore dell'Agenzia del Demanio, Roberto Reggi, si inquadra in un rapportodi collaborazione avviato da tempo che mira ad una condivisione dei criteri perindividuare il patrimonio immobiliare dello Stato da destinare al segmentoturistico.

Negli ultimi anni l'offerta turistica italiana - si legge inuna nota congiunta - ha modificato il proprio profilo sul mercato mostrando unaumento del 22,5% per gli alberghi di fascia alta che, rispetto al 14,5% del2008, rappresentano il 18,2% del totale. Secondo l'Italy Hotel Investmentsnapshot di EY Hospitality, il 2015 è stato un anno particolarmente importanteper il settore, con un volume di transazione di 795 mln di euro (+47% rispettoal 2014). Il trend positivo è proseguito anche durante il corso del 2016, chedovrebbe chiudersi con un volume di transazioni di un mld di euro.
«Gli investitori esteri sono attratti dal mercatoalberghiero italiano e grande interesse è rivolto alle strutture già esistentisu Roma, Milano, Firenze e Venezia soprattutto quando ad affacciarsi sono glioperatori provenienti dall'Asia – ha dichiarato Giorgio Palmucci –. L'Italia èconsiderata un mercato stabile e sicuro su cui investire e per questo spingiamosulla promozione del prodotto alberghiero partecipando, anche con l'Agenzia delDemanio, come Italia Hospitality presso l'International Hotel Investment Forumdi Berlino. Il settore è ancora caratterizzato da un'eccessiva frammentarietàdell'offerta dovuta anche alle dimensioni delle strutture. Prendere parte adappuntamenti fieristici, di respiro internazionale, alla presenza di enti eistituzioni importanti come l'Agenzia del Demanio consente di trasmettere conpiù forza le reali sinergie tra settore pubblico, associazioni e settoreprivato. Il nostro obiettivo è quello di intercettare investitori e operatoriinternazionali interessati al prodotto turistico del Bel Paese. Con ilprotocollo siglato oggi aggiungiamo un nuovo tassello al quadro di rilancio delturismo italiano».

«Da Palermo a Venezia. Lo strazio dei territori e delle città: una devastazione civica che comporta vere e proprie patologie». Il Fatto Quotidiano, 21 dicembre 2016 (p.d.)

In questa Italia delle crisi e dei veleni, sempre più fuoco cova sotto sempre meno cenere. Lo segnalano con forza crescente le battaglie per il diritto al lavoro, ma anche quelle per il diritto al paesaggio, sancito dalla Costituzione ma calpestato dalla bassa politica. Dagli orrori che ci circondano può venire qualche speranza? Forse. A Palermo due convegni rivali, convocati sullo stesso tema lo stesso giorno (16 dicembre), hanno gettato sul tappeto il tema del recupero della costa sud-est, sette chilometri di discariche e pessima edilizia in un paesaggio che fu di miracolosa bellezza, e questo mentre in Comune si lavora a possibili piani di recupero, in bilico fra vera resurrezione di un’area deturpata e pretese esigenze di un turismo straccione. È dunque tempo di parlare dei meccanismi che devastano non solo città e paesaggi, ma anche la cultura civile e giuridica sulla quale per secoli si è fondata la loro tutela e la loro bellezza. La dimensione di questo tradimento obbliga a pensare con urgenza alle prospettive di un possibile riscatto, prendendo coscienza di un dato elementare ma dimenticato: la difesa dell’ambiente e dei paesaggi non è un lusso estetico di anime belle, ma un diritto da reclamare nell’interesse della collettività.

Con perversa metamorfosi, le nostre città si tramutano in agglomerato di periferie, divorando al tempo stesso il loro cuore antico (il “centro storico”) e la circostante campagna o, come a Palermo, la costa. Dobbiamo ormai considerare sotto una stessa rubrica nozioni un tempo opposte, come centro/periferia o città/campagna. Fra l’una e l’altra corrono confini difficili da fissare, da regolare, da vivere. Periferie, spazi residuali, non-luoghi, “zone grigie”, junk space, rovine urbane: queste e altre categorie del discorso frammentano la forma della città, appestano il paesaggio storico. Abbagliati da una colpevole estetizzazione dello spazio, anche se devastato, tendiamo a non vedere intorno a noi croniche topografie del disagio individuale e sociale, e ci allarmiamo solo quando i veleni dell’ambiente minacciano la nostra salute. Ma il destino dei viventi e la qualità degli spazi sono due facce della stessa medaglia: fra l’inquinamento ambientale e l’inquinamento antropico prodotto dal dilagare di pessime architetture non c’è poi una gran differenza. L’uno colpisce la salute del corpo, l’altro la salute della mente. In una rincorsa al peggio, le brutture delle periferie e gli orrori delle discariche si nascondono a vicenda, ci accecano, ci impediscono di cogliere l’enormità del disastro che ci colpisce.

Nuove ricerche di sociologi, psicologi, antropologi definiscono lo spazio in cui viviamo come un formidabile capitale cognitivo che fornisce coordinate di vita, di comportamento e di memoria, costruisce l’identità individuale e quella, collettiva, delle comunità. Il grado di stabilità dei luoghi in cui viviamo è in diretta proporzione a un senso di sicurezza che migliora la percezione di sé e dell’orizzzonte di appartenenza, favorisce la produttività degli individui e delle comunità, innesca la creatività. Per converso, la frammentazione territoriale, la violenta e veloce modificazione dei paesaggi, l’obesità delle periferie provocano severe patologie individuali e sociali. Due formule vengono alla mente: “angoscia territoriale” e “di smorfofobia”. “Angoscia territoriale” non più nel senso (De Martino) di sradicamento dell’emigrante strappato ai propri orizzonti, ma come ansia di chi resta nei propri luoghi e non li riconosce più perché devastati da mostri di cemento o da montagne di detriti che ne annientano la familiarità. La nozione complementare di dismorfo-fobia descrive bene il passaggio dalla dimensione individuale a quella collettiva: nella pratica psichiatrica essa definisce i disturbi psichici di chi non accetta il proprio corpo come è, e lo vive come una “forma distorta” (questa l’etimologia greca di dis-morfo). Ma anche la forma distorta della città e dei paesaggi provoca sofferenze individuali e disturbi del corpo sociale. Più grave di ogni dismorfo-fobia individuale è la dismorfo-fobia delle comunità.

Il progressivo abbandono dei centri storici (a Palermo come a Venezia) da parte della popolazione residente lascia dietro di sé una scia di edifici in abbandono, che presto si trasformano in precari insediamenti di immigranti, nuovi poveri, disoccupati, esclusi. Edifici storici anche di massimo pregio vanno in rovina, e la sola ricetta finora escogitata per rimediarvi è una frettolosa gentrification, che comincia con l’espulsione dei meno abbienti e agghinda i fabbricati aggiornandone non solo gli impianti igienici, ma l’intera struttura, a scapito delle sue caratteristiche storiche.

Ma non è questo il percorso di riscatto di cui le nostre città hanno bisogno. Città, paesaggio circostante, patrimonio artistico, ambiente formano un ecosistema di cui gli abitanti sono componente essenziale. Rigenerazione urbana e rigenerazione umana sono due facce della stessa medaglia, e non c’è salvezza per le città e i paesaggi che non passi per una politica del lavoro, massimamente per i giovani. Precisamente il contrario di quel che vanno facendo i nostri governi, puntando sull’edilizia in nome non dei cittadini ma delle imprese e soffiando sul fuoco di un’austerità eterodiretta che incrementa la disoccupazione. Senza neppure accorgersi che il restauro dei paesaggi e la messa in sicurezza del territorio e dell’ambiente è la sola grande opera di cui il Paese ha bisogno, e che merita fortissimi, immediati investimenti.

Un tal riscatto deve incidere sulla realtà, trasformandola in nome di un orizzonte di diritti, in cui democrazia e legalità costituzionale facciano tutt’uno. Sfidando i confini difficili dentro e intorno alla città, ripudiando il ruolo di spettatori passivi che il cinico uso speculativo degli spazi sembra averci riservato. Ma i cittadini (e le associazioni) lo sanno sempre più chiaramente: è venuta l’ora di vedere nello spazio che abitiamo non una merce passiva da sfruttare ma il vivo scenario di una democrazia futura, innervata dal diritto al paesaggio (art. 9 Cost.) e dal diritto al lavoro (art. 4).

Difficile pensare che a Venezia, città di millenaria saggezza e civiltà, nei secoli accogliente di persone respinte dagli altri, potesse esprimere un sindaco la cui ideologia, sensibilità, cultura sia simile a quella declamata (ma non ancora praticata) da Donald Trump. Per fortuna che un prete c'è. Il Fatto Quotidiano on line, 20 dicembre 2016

Il sindaco Luigi Brugnaro non poteva scegliere momento meno opportuno per lanciare la sua crociata contro la povertà, o meglio contro la povertà visibile nel centro di Mestre, la città veneziana di terraferma. A pochi giorni dal Natale, con le strade abbellite dalle luminarie e con le vetrine dei negozi piene di merci che fanno stridere ancor di più i contrasti sociali, ha lanciato la proposta di realizzare una “cittadella della povertà”. Ha usato proprio questa espressione. Come esiste, a piazzale Roma, la “cittadella della giustizia”, ovvero il Tribunale lagunare, come a Venezia esiste da pochi mesi il “palazzo del lusso” a due passi di Rialto, allo stesso modo Brugnaro vuole localizzare, in un punto per ora imprecisato della periferia, una struttura dove possano essere dirottati barboni e clochard, poveracci italiani e immigrati in cerca di aiuto.

Il primo cittadino aveva cominciato la scorsa settimana dichiarando che è venuto il momento di spostare le mense dei poveri che ogni giorno sfamano a Mestre centinaia di persone. Via dal centro, dalla passeggiata pedonale di piazza Barche o piazza Ferretto, perché il via vai di disperati crea problemi di decoro e degrado urbano. A Mestre ci sono due mense, Ca’ Letizia in via Querini e una struttura gestita dai frati in via Cappuccina. Siccome entrambe sono della diocesi, il patriarca Francesco Moraglia non ha gradito l’entrata a gamba tesa in un campo, quello della carità, in cui la chiesa veneziana è impegnata da sempre. Così ha preso spunto da un incontro pubblico per esprimere il suo dissenso. “Una città non può emarginare realtà che appartengono al vivere sociale. Se ci sono problemi che richiedono di organizzare meglio le mense, ci impegneremo perché questo avvenga, ma portare tutto in un luogo deputato alla carità, quasi come se ci fossero barriere divisive all’interno della comunità civica e sociale, questo no”. Parole severe contro gli steccati e l’illusione di risolvere i problemi buttando la polvere sotto il tappeto.

Moraglia ha aggiunto: “Immagino che l’iniziativa abbia buone intenzioni, eppure spostare le mense non è solo nascondere la povertà, ma è creare una disparità tra una società che crede di avere eliminato la sofferenza e una realtà che, per i suoi bisogni primari, vive al margine della società e accede alla società vedendola come un mondo proibito”. Poi ha concluso, escludendo l’eventualità di far traslocare le mense. “Se c’è da mettere a posto alcune organizzazioni dobbiamo farlo, perché dobbiamo evitare difficoltà anche a chi vive nel quotidiano, ma dobbiamo anche prendere atto che nella società ci sono ricchezza, povertà, bambini, nonni, adulti, sani e malati. E bisogna cercare, nel rispetto, di offrire servizi migliori a tutti rimanendo attenti all’uomo concreto, alle sue stagioni e sofferenze”.

La proposta di Brugnaro nasce dal fatto che i residenti della zona dove si trovano le mense si lamentano. Sostengono che è difficile la convivenza con i frequentatori, non solo stranieri, ma anche italiani. Da apripista aveva fatto l’assessore alla Coesione sociale, Simone Venturini, un paio di mesi fa. Poi il primo cittadino ha dato l’annuncio in modo ufficiale. Ieri, dopo le parole del Patriarca, Brugnaro è tornato sull’argomento: “Sto pensando a una cittadella della povertà. L’idea è di concentrare i servizi per avere più risultati”. E avrebbe anche individuato l’area, per ora top secret. Lapidario il vicario episcopale don Dino Pistolato: “Bisogna fare attenzione a costruire dei ghetti, non usiamo la politica per nascondere. Chi va nelle mense sono persone che si muovono, che senso ha costruire una città per loro? In tutte le grandi città, da New York a Parigi, i poveri stanno vicino a dove c’è la ricchezza”.

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