«Le mani sulla città di Francesco Rosi sono davvero poca cosa: a Volla l’edilizia locale continua ad espandersi a dismisura senza alcuna programmazione per la realizzazione di servizi». Il FattoQuotidiano online, 1 aprile 2017 (p.s.)
Preoccupazione? neppure a parlarne. Il Consiglio comunale farà il proprio dovere. Nessuna sorpresa. Manca poco. Ci siamo quasi. Eccoci. "Permesso a costruire in deroga". E’ l’ottavo punto all’ordine del giorno, l’ultimo. Curiosa la circostanza: l’assemblea relega questa decisione, non da poco, a fine lavori consiliari preferendo, ad esempio, affrontare prima le complesse sfaccettature del regolamento dei nonni civici. Ci sono delle priorità. E’ vero, questa è una pura formalità. Come volevasi dimostrare.
Con nove voti a favore e otto contrari è approvato il nuovo progetto edilizio che prevede la realizzazione di due blocchi destinati al terziario-direzionale. E’ il 31 gennaio di quest’anno. Siamo a Volla, comune della provincia orientale di Napoli, con 28mila abitanti, 40 bar e un record da Guinness dei primati come certifica nel bollettino statistico ancora Bankitalia: elevato numero di sportelli bancari e costante incremento dei depositi sui conti correnti. Qualcuno sospetta che Volla sia una zona cuscinetto della camorra e un paradiso per i suoi prestanome.
Malelingue, detrattori, gufi invidiosi. Ciro Perdono, patron dell’impero immobiliare, è nella sala attigua l’aula consiliare, si trova a suo agio. E’ stato più volte consigliere comunale nella vicina Casalnuovo per il Pdl, conosce le liturgie della ‘politica’. Non molla un attimo lo smartphone e mostra di continuo le foto del suo progetto che, in attesa dell’approfondimento dell’Anac, a breve realizzerà. Il suo è un cognome pesante e legato al cosiddetto ‘sacco di Casalnuovo‘. Uno scandalo che fece il giro del mondo conquistando addirittura i media internazionali come France 2.
Fu un caso nato grazie ad alcuni controlli dei carabinieri per la sicurezza sul lavoro. Mentre effettuavano un sopralluogo i militari scoprirono – siamo a gennaio 2007 – dal nulla un intero rione composto da una settantina di edifici, costruiti senza permessi alle porte di Napoli e precisamente nell’area Casarea, un piccolo paese, nato dallo scorporo di Afragola. La cittadella si reggeva su di una montagna di carta straccia, la fabbrica degli atti falsi funzionava h24: certificazioni fasulle che facevano rientrare gli immobili nella sanatoria edilizia del 2003. Insomma, i costruttori esibirono documenti costruiti ad arte. Non servirono a nulla. Le case erano abusive. Ciro Perdono fu condannato a 5 anni di carcere mentre un altro costruttore Domenico Pelliccia a 9.
Sono cose che accadono. Occorre rialzarsi e andare avanti. Il Gruppo Perdono nelle sue tante declinazioni societarie è sempre sulla cresta dell’onda. Non manca il chiacchiericcio, le insinuazioni e perfino l’indagine denominata “Argine” e condotta dai carabinieri di Castello di Cisterna. Elementi investigativi che confluiranno e saranno parte della relazione del luglio 2004 della Commissione di Accesso che porta allo scioglimento del Consiglio comunale di Volla. Motivo? Sono attivi fenomeni di infiltrazioni e condizionamenti di tipo malavitoso. In particolare sotto la lente d’ingrandimento dei commissari nominati dalla Prefettura di Napoli finisce l’ufficio tecnico comunale: le indagini rilevano come la camorra abbia rivolto le proprie mire criminali nel settore dell’edilizia privata.
Sono trascorsi ormai 13 anni. Adesso le cose saranno cambiate? Con un atto di generosità Ciro Perdono dopo aver incassato il semaforo verde dal Consiglio comunale annuncia di voler costruire ed arredare a sue spese una piazza e donarla alla città. Poi dicono che mancano i valori.
Eppure le cose sono molto più semplici di quelle che malevolmente appaiono. Compri due pezzi di terra, presenti regolare progetto edilizio e l’ufficio tecnico accorda un veloce ok. Tocca al Consiglio comunale concedere il permesso in deroga agli strumenti urbanistici. Sì, perché Volla è uno straordinario laboratorio mattonaro. Le mani sulla città di Francesco Rosi sono davvero poca cosa: a Volla nonostante il piano urbanistico comunale abbia esaurito i suoi effetti da ormai più di un decennio, l’edilizia locale continua ad espandersi a dismisura senza alcuna programmazione per la realizzazione di servizi, sotto-servizi e nuove infrastrutture sulla carta.
Il rilascio delle autorizzazioni edilizie è surrettizia e ottenuta con applicazioni discutibili e continue forzature del cosiddetto “piano casa” ma anche mettendo in pratica una serie di trucchetti volti a bypassare e raggirare qualsiasi legge e regolamento. Basta fare quattro passi per le strade di Volla e notare i tanti cantieri aperti e i mega cartelloni delle attivissime società immobiliari legate ai costruttori che pubblicizzano i prossimi nuovi parchi di edilizia residenziale. I nomi sono originali: Mariasofia, Artemide, Farin, Hollywood, Florenzio, Partenope, Athena. Centinaia tra appartamenti, abitazioni e villette a schiera costruite rigorosamente in deroga. Una colata di cemento a pochi chilometri dal Vesuvio e nonostante la vicinanza con il vulcano, il comune di Volla, ‘stranamente’ non rientra per la Protezione civile nella nuova zona rossa dell’aggiornamento del Piano nazionale di emergenza.
Rotta la tregua, ricomincia all’alba l’espianto degli alberi nell’area del microtunnel per il gasdotto. Alta tensione tra il movimento No Tap» e l’ingente schieramento di poliziotti». il manifesto, 2 aprile 2017 (c.m.c.)
il manifesto
DALLA PARTE DEGLI ULIVI ,
LA RIVOLTA DI MELENDUGNO
di Patrizio Gonnella
L’ennesima giornata di passione vissuta a Melendugno inizia alle prime luci del giorno. Quando un imponente spiegamento di forze dell’ordine arriva al cantiere dei lavori, sospesi per due giorni, scortando i camion della ditta incaricata dal consorzio Tat di espiantare i 211 ulivi nell’area in cui dovrà arrivare il microtunnel del gasdotto (sino ad ora sono già 183 quelli sradicati), una conduttura sotterranea lunga circa un chilometro e mezzo, destinata a connettersi con il tratto sottomarino del tubo ad una distanza di circa 800 metri dalla costa.
Una ripresa dei lavori di cui la società aveva avvisato la prefettura di Lecce soltanto nella tarda serata di venerdì, ottenendo il via libera dalla questura, cogliendo di sorpresa i manifestanti, in presidio continuo all’esterno del cantiere. Una rottura di una tregua che secondo gli umori degli ultimi giorni sarebbe dovuta durare almeno sino a domani.
Così, alle 9 del mattino, con i lavori iniziati da alcune ore e altri 30 ulivi espiantati (diciannove piante cui se ne aggiungono altre undici parcheggiate negli spazi della società di vigilanza Almaroma), in centinaia arrivano dalla campagna per bloccare l’uscita del cantiere e al tempo stesso per impedire ad alcuni camion già usciti su strada, di raggiungere l’area della Masseria del Capitano, ceduta da un privato alla società Tap, dove le piante vengono messe in mora e custodite in attesa di essere reimpiantate nell’area del cantiere a lavori ultimati. Il blocco maggiore viene effettuato proprio all’esterno dell’area dove vengono parcheggiati» gli ulivi. La tensione è altissima: anche perché questa volta il blocco di persone che si frappone ai camion è costituito soprattutto da donne, bambini, anziani. Gente di Melendugno e dei paesi limitrofi accorsi per dar manforte ai manifestanti e ai tanti sindaci presenti sul luogo e in prima fila, in tutto una quindicina, primo tra tutti Marco Potì, primo cittadino di Melendugno.
A quel punto, l'obiettivo diventa quello di trovare una mediazione evitando altre tensioni: inizia così un lungo dialogo telefonico tra il sindaco di Melendugno, il prefetto di Lecce Claudio Palomba, la questura e il ministero degli interni. Dopo un paio di ore, viene deciso che i quattro camion rimasti bloccati su strada, faranno ritorno con il loro carico di ulivi all’interno del cantiere: altri sei camion pronti a partire a quel punto sono rimasti fermi. Al netto di quelli già espiantati e ancora da portare alla Masseria del Capitano (in tutto 25 piante) sono soltanto 18 gli ulivi ancora da sradicare per rendere operativo il progetto. Una decisione salutata con giubilo dai manifestanti, che però appare più una vittoria simbolica che altro. Non fosse altro perché l’accordo raggiunto tra le istituzioni, garantiva una tregua valida soltanto per la giornata di sabato. Già da questa mattina infatti, o al più tardi lunedì, i lavori potrebbero ripartire.
Intanto, in attesa di capire quel che accadrà, i sindaci del territorio salentino hanno realizzato un appello da far sottoscrivere a tutti i cittadini, indirizzato al presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio ed al governatore Michele Emiliano. Nell’appello, oltre ad evidenziare ancora una volta la totale contrarietà al progetto che se realizzato determinerà una violenta ed irreversibile ferita ad un territorio unico», si chiede la convocazione urgente di un incontro tecnico-politico propedeutico all’avvio di un’attività di ricerca di soluzioni più avanzate». In attesa dell’assemblea pubblica di questa sera nella centralissima piazza Sant’Oronzo a Lecce.
il manifesto
È STATO UN VERO BLITZ,
MA I CITTADINI HANNO RISPOSTO
COMPATTI E PACIFICI»
di Giammario Leone
Intervista. Parla il sindaco di Melendugno, Marco Potì, in prima linea insieme ai cittadini contro il gasdotto Tapl sindaco di Melendugno Marco Potì è in prima linea a difendere il suo territorio, fianco a fianco ai manifestanti, sin dal primo giorno.
Sindaco, è stata un’altra giornata vissuta sul filo della tensione. Non ve l’aspettavate.
Quello di questa mattina (ieri per chi legge, ndr) è stato un vero e proprio blitz. Nessuno, né la società Tap, né la prefettura e la questura, ci aveva avvertito che questa mattina sarebbero ripresi i lavori. La polizia è arrivata ancora una volta in un numero spropositato ancor prima dell’alba, scortando i mezzi e gli operai delle ditte addette ai lavori per conto di Tap e attuando blocchi al transito veicolare e pedonale di tutta l’area.
Lei anche nei giorni scorsi ha sottolineato l’ingente dispiegamento di forze dell’ordine, che di certo non contribuisce a rasserenare gli animi.
Assolutamente sì. Tra l’altro, lo ribadisco ancora una volta, siamo ancora alla fase zero di un progetto che dopo l’espianto degli ulivi dovrà fermarsi, in quanto per la realizzazione del microtunnel è stato riaperto il procedimento e quindi i lavori non possono partire: la militarizzazione del territorio e l’uso della forza nei confronti degli abitanti di questo territorio e di chi lo rappresenta, come il sottoscritto, la trovo davvero spropositata e inutile. Così come il blocco totale delle strade limitrofe al cantiere, che impediscono la libera circolazione dei cittadini.
La giornata di ieri si è conclusa con una vittoria simbolica dei manifestanti: questo anche grazie alla mediazione da lei attuata insieme a questura, prefettura e ministero degli Interni.
Voglio sottolineare innanzitutto che quella di oggi (ieri, per chi legge, ndr), a differenza degli altri giorni, è stata una manifestazione del tutto spontanea. Sono arrivate donne, bambini, anziani, semplici cittadini che ogni giorno incontro in piazza o al bar a Melendugno. I manifestanti hanno deciso di andare a presidiare il luogo dove vengono messi in mora gli ulivi espiantati, che dista 8 km dal cantiere. La partecipazione alla manifestazione è cresciuta di numero con il passare delle ore. Insieme a me c’erano altri 15 sindaci: a quel punto la priorità era garantire l’incolumità di tutti quei cittadini. E, d’accordo con le istituzioni e la società Tap, per fortuna ci siamo riusciti, riportando i camion all’interno del cantiere e sospendendo i lavori in corso.
La tregua, però, rischia di durare sino alle prossime 24 ore. Così come l’abbassamento della tensione generale anche tra i manifestanti.
L’accordo che abbiamo raggiunto riguarda soltanto la giornata odierna (ieri per chi legge, ndr). Da domani potremmo essere di nuovo punto e a capo. Vorrei però sottolineare che sino ad oggi le proteste sono state più che pacifiche. Basti pensare che molti manifestanti hanno aiutato gli autisti dei camion bloccati sulla strada, a dissetarsi visto il gran caldo. Siamo sempre riusciti ad isolare e ad evitare comportamenti violenti, anche se è chiaro che la tensione tra i cittadini salentini è altissima (sono in corso indagini da parte della questura per appurare l’origine delle due bombe carta esplose la scorsa notte all’esterno dell’hotel Tiziano di Lecce che ospita le forze dell’ordine impiegate al cantiere, ndr).
Cosa pensa della posizione di Emiliano che vuole spostare l’approdo in provincia di Brindisi?
L’approccio del governatore è sicuramente diverso da quello del suo predecessore Vendola. Emiliano vuole ottenere compensazioni ambientali, non economiche, dalla grandi aziende per risanare le ferite della Puglia in campo ambientale e sanitario: non so se ci riuscirà.
L’obiettivo, comunque, resta lo stop definitivo ai lavori?
Saremo sempre contro la realizzazione di quest’opera, che per noi non è né utile né strategica. Forse lo poteva essere quando fu presentata nel 2003, non più oggi. Abbiamo scritto un appello da far sottoscrivere ai cittadini, perché la nostra battaglia per la difesa del nostro territorio non si fermerà.
Piano paesaggistico della Sardegna: il PD, che con Soru l'aveva formatoo e approvato, sotto il berlusconiano Cappellacci difeso, ora con il PD Pigliaru lo smantella. La Nuova Sardegna, 1° aprile 2017
Non mi piace il disegno di legge sull'urbanistica. Non mancano ideeinteressanti tra i 113 articoli, ma purtroppo lo spirito selvaggio delpiano-casa è un tratto caratterizzantela proposta del governo Pigliaru. E non a caso si sta parlando soprattutto di questo. Berlusconi non avrebbe mai immaginato un successo tanto strepitoso delformat inventato nel 2009 (da lui in persona). Né che la sua tesi sullosviluppo eccitato dall'edilizia libera, sarebbe stata fonte d'ispirazione, e non solo a destra. E chissàla gioia: una legge sarda della sinistra che alimenta il sogno di spolpare l'odiato Ppr di Soru(2006).
Prevedibile dalle capriole dellacoalizione a guida PD. Prima schierata contro il piano-casa di Cappellacci –“piano villetta”, “grande inganno”,“illegittimo” (resoconto del Consiglio n. 41- 25/9/2009). Poi principale artefice di un piano-casa2, tramolte turbolenze.
Memorabile l'incidente nel corso del dibattito sulla legge n.8/2015, l'emendamento di FI – obiettivo la lievitazionedelle case nelle zone F turistiche – approvato con il voto segreto di consiglieri della sinistra.
Quindi il dietrofront imposto da Pigliaru; la figuraccia compensata dalgiuramento di salvaguardare la “fasciacostiera”, non solo la parte più vicinaal mare. E invece rieccolo nel Ddl il rinnovato “entusiasmo contro il tabù dei 300 metri” – ha scritto un attento conoscitore dellaSardegna come Manlio Brigaglia. “Con la scusa del turismo hanno fatto più dannidi undici secoli di invasioni moresche”.
Il turismo non cresce a trainodell'edilizia: inutile l'ampliamento ciclico delle dotazioni ricettive ascapito di luoghi tutelati. Nessunagaranzia che gli alberghi, ingranditi con SPA o balere pop, rimangano aperti oltre l' estate. Tant'èche pure quelli più attrezzatati chiudono a sttembre. Aspirazione realizzabile, si sa, incrementando i mezzi di trasporto a costiragionevoli.
Si rischia insomma di sbagliarela mira, da tenere “assai più alta” come sapevano gli arcieri prudenti diMachiavelli. Ma pure di eludere sentenze recenti della Consulta sul primatodella pianificazione paesaggistica rispetto ad altre attività economiche nelterritorio. Ed è possibile che nel Ddl ci siano vari articoli concontraddizioni, meritevoli di approfondimenti da parte del Consiglio.
Uno in particolare necessità di una tempestiva attenzione. È l'art.43: secondo il quale “programmi e progettiecosostenibili” possono essere promossia giudizio della Giunta. Destabilizzante fin d'ora, e si pensi all'uso che ne potrebbefare domani un governo spregiudicato.
Temo, al di là dei titolirassicuranti, che i “programmi eprogetti ecosostenibili” possano avere la dominante edilizia nonostante gliauspici della Giunta. So che saranno voluminosi e verosimilmente in contrastocon il Ppr. Per cui occorrerà addomesticarlo, aprendo varchi dove/quando serve.Confidando nel via libera del Mibact che difficilmente potrà concorrere allacolpa (e al ridicolo) di fare eccezioniin un quadro paesaggistico omogeneo.
Sarebbe meglio non caderci nell'abissodella deregolazione forever, semprecondannata dagli studiosi fuori e dentro le accademie (ora non so). Ancheperchè non ci mancano esperienze importanti. Come la disavventura dei piani territorialipaesistici di una ventina di anni fa, il flop degli “accordi di programma”nella cornice della sfigata LR 23 del 1993. Per farsi un'idea basta scorrere lesentenze di CdiS e Tar (ricorso di Grig): i Ptp cassati per altotradimento dei principi di tutela.
Spero che i “programmi e progetti ecosostenibili” non stiano in quelsolco, impegnando la politica in un estenuante conflitto (ricordate il masterplandi Costa Smeralda ?). Il buon senso suggerisce di evitare che ogniterritorio rivendichi il proprio piano oprogetto in deroga; e che la giostra si metta a girare con tutti i rischi. Tracui l'effetto domino temuto negli anniNovanta.
Sarebbe il caso di ritirarlo quell'articolo controverso. Aiuterebbe ilconfronto, utile per migliorare il Ddl a partire dalle norme sul territorio agricolo. Meglio una legge lungimirante, per “lasostenibilità di lungo periodo”, come consiglia il prof. Pigliaru nei suoilibri; e chiusa alle ingerenze degli illusionisti di questi brutti tempi.
«In Bretagna, tra i comitati stile No Tav che da anni bloccano il progetto del nuovo aeroporto. E la rivolta dilaga dove soffia il vento radicale “In Francia stop opere inutili”». la Repubblica, 1° aprile 2017 (c.m.c.)
Notre-Dame-des-Landes.«Insorgere è nostro dovere». Julien Durand è sulle barricate, anzi in mezzo a un “parco di bastoni”, migliaia di ceppi issati come una frontiera invalicabile a protezione della “Zone à défendre”. «La rivolta ce l’ho nel sangue» spiega l’agricoltore settantenne. «Durante la guerra, mio padre è scappato sei volte dai campi di prigionia » ricorda Durand, giubbotto di pelle e jeans, aria da eterno ragazzo. Il portavoce dell’Acipa, l’associazione che da anni lotta contro la costruzione dell’aeroporto a Nord di Nantes, ha il suo quartier generale in un piccolo capannone. «Basta con lo spreco delle terre e del denaro pubblico » è scritto su un cartello.
La protesta di Notre-Dame- des-Landes ha illustri precedenti. Negli anni Settanta anarchici, contadini, attivisti di estrema sinistra avevano dato battaglia contro l’allargamento di una base militare sull’altipiano del Larzac. Julien il ribelle, ovviamente, c’era. Il presidente socialista François Mitterrand aveva dovuto cedere e rinunciare al progetto. Già allora circolava l’ipotesi di inaugurare un nuovo scalo in Bretagna per far decollare il Concorde direttamente sopra all’Atlantico. Non se ne fece nulla. L’aereo supersonico è vissuto e morto nella prima estate del ventunesimo secolo, sempre a Roissy.
Eppure nel momento in cui si celebrava l’addio all’avventura del Concorde tornava l’idea di un nuovo aeroporto vicino a Nantes per sviluppare economia e turismo sulla costa Ovest. Il progetto è avanzato, con un costo di 500 milioni di euro, la gara d’appalto vinta nel 2008 dal gruppo Vinci e il via libera alle procedure di esproprio.
«Togliere la terra a un contadino è come chiudere una fabbrica per un operaio» commenta Durand che ha nel suo ufficio un manifesto di Jean-Luc Mélenchon, il leader di estrema sinistra candidato alle presidenziali. «Mi piace più il suo programma che il personaggio » commenta l’agricoltore “insoumis”, indomito, il nome di militanti del movimento di Mélenchon, “La France Insoumise”. Nessuno immaginava in quel momento che la landa desolata e paludosa a cinquanta chilometri da Nantes si sarebbe trasformata nella roccaforte degli irriducibili, con l’invenzione del nuovo concetto di “Zad”, replicato in altre parti del Paese. Da allora, decine di cantieri sono occupati da attivisti ostili a quelle che definiscono “Grandi opere inutili”.
Esiste ormai un Tour de France delle Zad, che va da Bure, in Lorena, dove dovrebbe sorgere un centro industriale per il stoccaggio dei rifiuti radioattivi, fino a Roissy, dove è previsto EuropaCity, il più grande centro commerciale del Paese, continuando al confine con il Belgio, dove c’è l’allevamento gigante “1000 vaches” accusato di distruggere le piccole aziende agricole.
Soffia un vento radicale sulla Francia. Al primo turno delle presidenziali, il 23 aprile, Mélenchon potrebbe superare Benoît Hamon che pure rappresenta la corrente più radicale del partito socialista. La Bretagna è da sempre una terra rossa. «A sinistra c’è una lunga tradizione di estremi » ricorda Thierry Pech, direttore associazione Terra Nova e autore del saggio Insoumissions portrait de la France qui vient.
«La vera novità - continua - sono le nuove forme di radicalismo a destra, con elettori che contestano il sistema politico, chiedono non più autonomia e libertà, ma più ordine, autorità, più chiusura, oggi sono questi gli irriducibili che dominano la scena». Il risultato è quello che Pech definisce «voti insurrezionali», dal Brexit all’elezione di Trump negli Stati Uniti alle presidenziali dove i due principali partiti di governo potrebbero essere spazzati via dal ballottaggio. «Ci sono masse di elettori che esprimono nell’urna la voglia di cancellare l’attuale sistema politico, cambiare le regole del gioco, senza poter tuttavia esprimere un’alternativa». È una spinta rivoluzionaria molto particolare, conclude il direttore di Terra Nova, perché ha interpreti, come i populisti, ma non pensatori, teorici: nessuno ha trovato un Montesquieu, un Rousseau, che possa dare forma e sostanza alla spinta insurrezionale che si propaga in Occidente.
Tra i “zadistes”, gli squatter che hanno occupato ruderi, costruito capanne, la priorità sembra l’insurrezione più del voto. «La prossima elezione? La nostra è un’esperienza di autonomia politica » dice un portavoce che, come tutti qui, si fa chiamare “Camille” per mantenere l’anonimato. La fattoria Vache qui Rit, la mucca che ride, è il punto di ritrovo della piccola comunità di duecento persone tra ruderi, baracche e roulotte su 1600 ettari attraversati da una strada provinciale ormai chiusa, su cui dovrebbero passare le due piste di atterraggio. Nel posto dov’è prevista la torre di controllo dell’aeroporto “Grand Ouest”, adesso c’è un spaccio alimentare, senza cassa, vige il baratto. La sera si svolgono le assemblee, una o due volte a settimana, con un’“autogestione orizzontale”.
Notre-Dame- des-Landes ha una fama che ha superato le frontiere, in passato ci sono stati scambi e incontri con i No Tav della Val di Susa. Tanti militanti stranieri sono chiamati in soccorso non appena si avvicina la minaccia di un’operazione di polizia. L’ultima tentativo delle autorità di evacuare la zona risale al 2012. Ci furono scontri, arresti, e tutto si fermò. Il primo ministro era allora il socialista Jean-Marc Ayrault, ex sindaco di Nantes, tra i più convinti sostenitori del progetto.
La morte di un attivista ventenne, Remi Fraisse, colpito nel 2014 da una granata dei gendarmi durante le manifestazioni contro la costruzione di una diga nel Sudovest del Paese, ha provocato un nuovo stop. François Hollande ha mediato, appoggiando l’idea di organizzare un referendum tra gli abitanti.
Nel giugno scorso la maggioranza si è espressa in favore della costruzione dell’aeroporto ma il progetto resta bloccato. E toccherà al prossimo governo decidere. Marine Le Pen si è dichiarata “personalmente” contraria al progetto ma vuole rispettare la volontà del popolo, e quindi il risultato del referendum. Emmanuel Macron è in dubbio, ha promesso di fare nuove consultazioni per decidere.
L’unico davvero chiaro è il candidato della destra François Fillon. A sinistra, Hamon e Mélenchon sono per archiviare il cantiere e non se ne parli più. Nella sua roulotte, Jean-Joseph fuma una sigaretta e sentenzia: «L’aeroporto non si farà mai, almeno non qui». Lo dice con lo sguardo velato di malinconia. Anche lui sa che il giorno in cui le autorità rinunceranno ufficialmente al progetto scomparirà anche la Zad.
Probabilmente a tutti noi, per un motivo o l'altro, capita di attraversare qualche volta il mercatino o mercatone rionale che si svolge vicino a casa, sfiorando o schivando una o due bancarelle di frutta, verdura... (segue)
Probabilmente a tutti noi, per un motivo o l'altro, capita di attraversare qualche volta il mercatino o mercatone rionale che si svolge vicino a casa, sfiorando o schivando una o due bancarelle di frutta, verdura, vestiti o paccottiglia varia. Altrettanto probabilmente, però, non ci è mai successo di ascoltare ad esempio una delle signore che frugano nel cestone delle offerte, sbuffare a proposito di «impianto normativo come fattore abilitante dello sviluppo». E nemmeno di orecchiare casualmente il ragazzo figlio di immigrati, che aiuta con le cassette della frutta, lamentarsi perché ci vorrebbe proprio una «ottimizzazione dell'assetto viabilistico e mobilità». Certo qualunque cliente del mercato ve ne potrebbe raccontare a decine, di consapevolissimi problemi legati alle regole di crescita della città, farraginose e che li hanno penalizzati anche gravemente in un momento o nell'altro della vita. E qualunque bancarellaro di quelli che state sfiorando nel vostro attraversamento, sa per esperienza quanto carente sia il sistema stradale urbano, quello dei parcheggi e delle piazzole per la sua attività, e poi le consegne, gli spostamenti per lavoro, le forniture. Ma certo non pensano ai propri problemi in termini di «fattori abilitanti dello sviluppo», e nemmeno di «assetto viabilistico»: non è il loro linguaggio, sono parole che significano poco o nulla, gli nascondono anziché evidenziare i concetti, li respingono anziché coinvolgerli. Allora perché mai, rivolgersi a loro con quel linguaggio a dir poco inadeguato?
Eppure è esattamente quel che sta succedendo col
Questionario per il nuovo Piano di Governo del Territorio di Milano, secondo «Linee Programmatiche, che pur ponendosi in continuità con le precedenti, imprimono un carattere nuovo alle politiche urbane […] ponendo tra le priorità l’ascolto della città e i processi di partecipazione» (come recita testualmente la Delibera di avvio del procedimento per un nuovo strumento urbanistico). Si vogliono stimolare e gestire processi di inclusione, ma come ha osservato recentemente
Luca Beltrami Gadola, lo si fa formulando «domande che sono solo un elenco di titoli e non una richiesta di opinione ed è difficile capire quale nesso abbiano molte domande rispetto alla determinazione di una scelta di natura urbanistica». Vorrei andare anche oltre questa critica di impianto e obiettivi, per aggiungere che al cittadino medio, diciamo pure alla quasi totalità dei cittadini, risulta difficilissimo capire addirittura il senso, di quelle domande, che sembrano compilate da un tecnico specializzato, o comunque da qualcuno addentro alla questione, con termini, costruzioni, accostamenti, che il cittadino medio può al massimo provare a interpretare, giocando al Piccolo Urbanista Dilettante. In altre parole, più che di inclusione o partecipazione il processo innescato pare essere una sorta di tentativo di cooptazione, dove l'uomo della strada si avvicina gradualmente alla mistica della programmazione del territorio assimilandone il linguaggio. Come se non fosse possibile esprimersi in altro modo.
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Foto F. Bottini |
Nel seminale
Rapporto Skeffington britannico sulla partecipazione in urbanistica (1969), pur non rinunciando certo del tutto a questa peraltro discutibile «cooptazione linguistica», le amministrazioni istruivano un processo di piano idealmente e letteralmente formando nuovi cultori della materia, provenienti da ogni classe sociale e di età, attraverso varie forme di comunicazione divulgativa. Se certamente la strategia di sviluppo territoriale urbana o ancor di più metropolitana era cosa complessa, impossibile da ridurre a qualche benintenzionato slogan o scarabocchio progettuale, allora meglio spiegarla in modo dettagliato organizzando addirittura «corsi o conferenze tematiche nei fine settimana, magari in collaborazione con altri enti o associazioni anche nazionali». Oltre naturalmente a pianificare e alimentare canali più tradizionali di comunicazione divulgativa, dalla stampa di informazione, a mostre, filmati, programmi radiofonici e televisivi, dibattiti pubblici, insomma una vera e propria alfabetizzazione. Cosa ben diversa, dal pretendere (non mi viene un verbo diverso) che la nostra dirimpettaia appassionata di fiori, o il barista che ci mette da parte l'ultimo cornetto alla crema, colgano al volo il senso di domande del tipo: «Quale importanza assegna, all'approccio integrato e sistemico, sul riassetto della componente geologica, idrologica e sismica»? Diciamo che si può, e si deve, fare di meglio, di molto meglio.
* Qui, per chi volesse ripassarsi alcuni passaggi chiave del Rapporto Skeffington sulla partecipazione in urbanistica, un estratto in italiano
* Qui, naturalmente (e caldamente consigliato in lettura critica) il Questionario del Comune di Milano per il Piano di Governo del Territorio: potete anche legittimamente compilarlo come «city user», per inciso
L'Italia dei Renzichenecchi e dei Franceschini è un paese nel quale l'utilità sociale dei beni culturali si misura sulla quantità degli incassi. Ecco alcuni esempi di ciò che stanno dissipando. E più degli esempi preoccupa la direzione del vento che essi indicano. la Repubblica, 30 marzo 2017
«Confrontare l’opere con le scritture»: questa fulminante definizione del compito della storia dell’arte si deve a Raffaello. Ed è tuttora verissima: non comprendiamo le immagini senza la conoscenza della loro storia. Nell’Italia di oggi, tuttavia, sembriamo pensarla al contrario. I nostri politici scrivono che quando la bellezza muore «al massimo può essere storia dell’arte, ma non suscita emozione». Così nella scuola l’”arte” e la “creatività” prendono il posto della storia dell’arte. E le biblioteche vengono “mangiate” dalle immagini, mostre, eventi.
Il caso simbolo è quello della biblioteca di un grandissimo storico dell’arte Giuliano Briganti. Diciottomila volumi e 50 mila fotografie che furono saggiamente acquistati dal Comune di Siena e destinati al grande complesso medioevale del Santa Maria della Scala. Era il primo stadio di un progetto ambizioso: qui dovevano arrivare anche i libri di altri storici dell’arte (Giovanni Previtali, Luciano Bellosi, magari anche quelli di Enzo Carli), qui doveva trasferirsi la Pinacoteca della città, qua anche il dipartimento di storia dell’arte: avremmo così avuto un centro di ricerca formidabile. Senza eguali in Italia.
Purtroppo quel progetto è stato risucchiato dalla grande crisi (economica, ma prima politica e culturale) della città del Palio, e qualche giorno fa un avviso ha informato della chiusura al pubblico della Biblioteca Briganti «almeno per il mese di marzo 2017»: ma di fatto senza un giorno certo per la riapertura. Ufficialmente la colpa è di certi lavori di manutenzione, ma quel che moltissimi senesi dicono (rigorosamente a “microfoni spenti”) è che la biblioteca sarà portata via dalla Scala, e confluirà in quella Comunale, venendo smembrata.
Perché? Il complesso della Scala è stato dato in gestione al gruppo Civita, che lo usa come contenitore per mostre ed eventi: una destinazione per la quale una biblioteca non solo non serve, ma intralcia. Il vento soffia in questa direzione. Nella non lontana Pisa la grande biblioteca della Sapienza (cioè dell’università, ma così importante da appartenere al Ministero per i Beni culturali) è chiusa da cinque anni, e ora i libri sono chiusi in casse, a Lucca: anche in questo caso furono all’inizio invocati danni all’edificio provocati dal terremoto dell’Emilia. Ma una vasta parte della importante comunità intellettuale pisana sostiene che il vero obiettivo era «sgombrare il palazzo della Sapienza dalla presenza di ospiti indesiderati: i libri» (Chiara Frugoni). Anche un’università può, dunque, scegliere di usare un palazzo storico come location di eventi, sfrattando gli strumenti della conoscenza. Una tendenza, ormai: nella stessa Pisa, la Domus Mazziniana era già stata svuotata dai libri, e ridotta a esposizione permanente di cimeli.
D’altra parte, il successo delle istituzioni culturali si misura ormai con i biglietti staccati. E in un’epoca in cui si paga anche per entrare in chiesa, le gratuite biblioteche appaiono irritanti, oltre che inutili. A Torino, qualche tempo fa, la Fondazione Musei ridusse da cinque a due giorni l’apertura della biblioteca della Galleria d’Arte Moderna per recuperare risorse per le mostre: e furono gli studenti a insorgere fino a riottenere l’accesso ai libri. Un bell’esempio di mobilitazione civile, che in questi giorni si replica a Cosenza, dove la gloriosa Biblioteca Civica non paga gli stipendi da quattro mesi perché la Provincia è stata cassata dalla Legge Delrio, e la Regione non ritiene di dover subentrare nei pagamenti. E così un’associazione di cittadini ha lanciato un messaggio assai chiaro: «La Città di Cosenza non può affrontare il futuro senza la sua Biblioteca».
A Napoli – dove i 300 mila libri di Gerardo Marotta sono ancora chiusi in casse – la Biblioteca dei Girolamini (sopravvissuta a un devastante saccheggio) è stata conferita al Polo Museale invece che alla Biblioteca Nazionale: e i progetti che circolano immaginano la grande Sala Vico come un’attrazione museale, e non come un luogo di studio e ricerca. La stessa cosa è successa a Modena, dove la gloriosa Biblioteca Estense è stata sottomessa alla direzione della Galleria: con il risultato che è stata chiusa una sala di consultazione per destinarla a ulteriore luogo espositivo, e che si pensa di smembrare le collezioni librarie storiche. Aggiungiamo che, nel 2018, le tre bibliotecarie dell’Estense andranno in pensione: un problema che riguarda tutti i libri pubblici italiani, visto che nei prossimi quattro anni «circa il 60% dei bibliotecari in organico lascerà il servizio», come ricordò l’anno scorso Giovanni Solimine dimettendosi dagli organi consultivi del Mibact.
Librò, il nuovo “esclusivo” bar della Biblioteca Nazionale di Roma, si autodefinisce «lo spazio ideale per tutti coloro che vogliono condividere emozioni e sogni », e vanta i suoi «arredi moderni, con inserti che richiamano una vera e propria biblioteca».
Tra un’emozione e un sogno, una mostra e un evento, dovremmo ricordarci che i libri non sono un arredo che possiamo spostare, imballare, smontare: senza le biblioteche, non solo i musei e le mostre, ma perfino i sogni e le emozioni, diventeranno presto incomprensibili.
Il Fatto Quotidiano, 29 marzo 2017
Una bozza di decreto che, nel tentativo di adeguare l’iter per la valutazione d’impatto ambientale alle direttive europee, favorisce e facilita in realtà la vita di petrolieri, imprenditori e costruttori: è all’esame delle commissioni Ambiente, Politiche Ue e Bilancio della Camera (che dovranno esprimersi entro il 25 aprile) e rende molto più semplice e veloce ottenere permessi per ricercare idrocarburi, trivellare o costruire. La Via. In pratica, tutto ciò che riguarda attività che hanno un impatto sull’ambiente deve ricevere la Via, la valutazione di impatto ambientale. È una sorta di autorizzazione a operare. Si vuole sondare il sottosuolo per scoprire se c’è il petrolio? Bisogna ottenere la Via. Si vuole fare un pozzo? Bisogna fare la Via. Si vuole costruire una centrale idroelettrica? Bisogna ottenere la Via. È, insomma, una procedura tecnico-amministrativa che ha lo scopo di individuare e valutare preventivamente gli effetti delle opere sull’ambiente e sulla salute, nonché di identificare le misure per prevenire, eliminare o renderne minimo l’impatto. Studi, progetti preliminari, pareri, previsioni di tutela ambientale e confronto con la popolazione: solo dopo essersi accertati che tutto questo sia in regola, si può procedere.
Il favore. -Se però fino ad oggi alla Via doveva essere sottoposta gran parte dei progetti che hanno un impatto sull’ambiente, il decreto fa saltare diversi vincoli: in molti casi basterà infatti richiedere la cosiddetta “verifica di assoggettabilità alla Via”. Si potrà decidere se un progetto debba o meno richiedere la via. E in caso negativo, l’opera potrebbe iniziare con la sola assoggettabilità. Non sono più necessari quindi tutti i vincoli e i controlli ambientali richiesti dall’iter completo. “Ad esempio, viene prevista la sola verifica di assoggettabilità per tutte le prospezioni in mare con airgun (metodo controverso che utilizza potenti getti d’aria, ndr) o con gli esplosivi – spiegano dai Comitati no triv e dai Movimenti per l’acqua – E anche per progetti petroliferi di coltivazione di giacimenti con produzione fino a 182.500 tonnellate di petrolio o 182 milioni di Mc di gas: in sostanza, la gran parte di quelli del Paese”. Se con la Via obbligatoria bisognava poi depositare i documenti del progetto preliminare e uno studio preliminare ambientale (una decina di pagine generiche), seguiti da una fase di 45 giorni per le osservazioni del pubblico, con il nuovo decreto basterà solo lo studio preliminare. Inoltre è prevista una sorta di sanatoria per le opere iniziate senza aver chiesto la Via: le società scoperte in fallo avranno il tempo per mettersi in regola. Ma intanto potrebbero già aver provocato danni all’ambiente. E a supervisionare? Una commissione tecnica di 40 membri nominata senza concorso pubblico, con poltrone assegnate dal ministero dell’Ambiente.
Eccezioni. - Un altro punto riguarda invece la possibilità del ministero dell’Ambiente, in casi eccezionali, di esentare un progetto dalla valutazione di impatto ambientale qualora questa ostacoli il progetto stesso. “Purtroppo si tratta di un ‘potere’ di non poco conto – spiega Enzo Di Salvatore, professore di Diritto costituzionale a Teramo ed estensore dei quesiti del referendum no Triv – in questo modo si accorda al ministero un potere pressoché discrezionale, che si riassume nel far prevalere le ragioni delle finalità dei progetti sulle ragioni della tutela ambientale”. La possibilità è certo prevista dalla direttiva europea. “Ma si tratta appunto di una facoltà e non di un obbligo – spiega Di Salvatore – Il decreto del governo deve, inoltre, rispettare i principi e i criteri fissati dalla legge delega del Parlamento (la 114/2015), tra i quali c’è il ‘rafforzamento della qualità della procedura di valutazione di impatto ambientale’. E l’attribuzione di un potere discrezionale di quel tipo finisce, a mio avviso, per vanificare la volontà del Parlamento”. Piattaforme. Altro elemento scivoloso è nell’articolo 25. Nelle disposizioni per smontare le piattaforme petrolifere giunte a fine produzione – nonché gasdotti o oleodotti – si parla di un decreto con il quale si dovranno stabilire le linee guida per la cosiddetta dismissione mineraria. Ma c’è anche l’ipotesi di una “destinazione ad altri usi” di quelle stesse piattaforme abbandonate in mare. “Già immaginiamo i mille e fantasiosi usi che verranno proposti per queste strutture – spiegano i comitati –. In realtà è un vantaggio di centinaia di milioni di euro ai petrolieri, visto che ci sono decine di piattaforme da smantellare e centinaia di chilometri di tubazioni posate sul fondo marino da bonificare”. D’altronde, non è un mistero che la promozione governativa dell’astensione al referendum no triv serviva a evitare ai petrolieri anche questo fastidio.
«Quel che è in gioco non è il destino di alberi e spiagge, è il ripristino di una linea di comando. Le comunità, i territori, le autonomie locali non devono più ostacolare le decisioni centrali ma piegarsi e obbedire». il manifesto, 30 marzo 2017 (c.m.c.)
Le radici strappate alla terra sembra vogliano urlare: cresciute scavando e strisciando nel sottosuolo e ora innaturalmente sospese e accatastate. Imponenti, impotenti. E’ un’immagine straziante, che più d’ogni parola o pensiero o ragionamento racconta il massacro in corso in questi giorni sulla spiaggia di San Basilio, località San Foca, Comune di Melendugno.
Stanno espiantando 271 ulivi secolari per far posto a un impianto di raccolta che accoglierà il lunghissimo gasdotto proveniente dal Mar Caspio. Una scelta che con caparbia ostinazione, con malevola ottusità si è deciso che solo su quel placido litorale debba essere realizzata. Non qualche chilometro più a nord, per esempio, tra le centrali e le raffinerie di Brindisi, come proposto dalla Regione Puglia: purtroppo invano.
No, proprio lì, tra la Riserva naturale Le Cesine, dove spuntano le orchidee selvagge e i gigli di mare, e la Grotta del Poeta, dove un Adriatico esausto si riposa tra davanzali rocciosi e piscine naturali. In uno dei luoghi più suggestivi e rarefatti del Salento. Un territorio incompatibile con lo stoccaggio e la distribuzione di idrocarburi. Un territorio sostanzialmente integro, che proprio grazie alla sua meravigliosa natura e alla sua antica cultura è riuscito a valorizzare se stesso e ad avviare ragguardevoli processi di crescita economica.
Si consuma così un altro capitolo della furia devastatrice di un’economia rapace e violenta. Come succede nella vicina Basilicata dove si estrae il petrolio tra pascoli, frutteti e piantagioni. O come succede nella più lontana Val di Susa, dove per l’alta velocità si perforano montagne e vallate. E non si sentono ragioni. Si va avanti con i cantieri e i manganelli, e chissenefrega della gente, dei contadini, dei montanari, dei pescatori. Di chi cerca di spiegare che c’è un altro modo per garantire sviluppo e benessere: senza consumare risorse naturali, senza sciupare l’ambiente, senza violare diritti e mortificare sensibilità. Da giorni proseguono proteste e manifestazioni, brutalmente represse. Con i sindaci e le loro fasce tricolori in prima linea. Ma la razzia continua, le macchine strappano i tronchi, i tir se li caricano e se li portano via.
Ci si dice che sradicare quei pochi ulivi di Melendugno non è un gran danno: in Puglia ce ne saranno milioni; e poi resusciteranno, verranno reimpiantati poco lontano. Ma quel che è in gioco laggiù non è il destino di alberi e spiagge, è il ripristino di una linea di comando. Simbolicamente ed effettivamente. Le comunità, i territori, le autonomie locali non devono più ostacolare le decisioni centrali ma piegarsi e obbedire.
Non era in fondo questo uno degli obiettivi della revisione costituzionale, laddove stabiliva che nei casi di controversie istituzionali sarebbe prevalso l’indirizzo dello stato centrale sulle amministrazioni decentrate? Quella revisione è stata sonoramente bocciata dal referendum di dicembre, ma la si applica ugualmente: con le cariche della polizia.
«Mentre si rafforzano l’opposizione al progetto per il riuso degli Scali Ferroviari e le iniziative di contrasto di un comitato di residenti del quartiere di Città degli Studi sempre più numeroso e agguerrito, il Comune di Milano avvia le consultazioni per il nuovo PGT. E la partecipazione civica?» Arcipelagomilano.org, 29 marzo 2017.(m.c.g.)
con postilla
L’ultima entrata a gamba tesa delle Ferrovie dello Stato sarà l’annunciata esposizione con presentazione degli architetti e dibattito dei suoi progetti per gli Scali ferroviari nel quartiere clou del Fuorisalone del Mobile, vicino al nuovo passaggio che collega il Piazzale della Stazione di Porta Genova con la zona di Via Tortona: il Comune portato al guinzaglio da FFSS. Ma andiamo oltre per non indignarci troppo.
Il destino delle aree di Arexpo – con la collegata questione del trasferimento della Statale da Città studi -, gli scali ferroviari e l’avvio del percorso che porterà alla presentazione del nuovo Piano di Governo del Territorio sono i tre temi caldi del dibattito urbanistico in città e che, se non lo si fosse capito, son tre episodi che dimostrano quanto sia necessario fare chiarezza e abbandonare la strada sin qui seguita, se si è ancora in tempo, prima del classico naufragio sugli scogli della contestazione.
La contestazione è la più immediata conseguenza dell’assenza di autorevolezza di chi ha ruolo di governo e non, si badi bene, l’isterica manifestazione di un’opposizione preconcetta che affonda le sue radici nella durezza dello scontro politico.
L’osservazione attenta delle forze in campo vede nelle truppe della contestazione molta trasversalità, sia si tratti di professionisti dell’urbanistica e dell’architettura, della sociologia urbana o dell’economia territoriale, sia si tratti di comuni cittadini.
La mancanza di autorevolezza è a sua volta figlia della percezione che la platea degli interessati ha del modo di procedere, tra proposte estemporanee e spesso contraddittorie, malamente supportate da argomenti poco incisivi e non convincenti, e nutre la convinzione che si proceda sostanzialmente tra quello che chiamo “urbanistica delle emozioni” e l’urbanistica degli interessi forti non collettivi.
L’urbanistica delle emozioni ha le sue parole guida: verde, economia di suolo, compatibilità ambientale, densità edilizia, edilizia sociale, qualità della vita.
L’urbanistica degli interessi forti non collettivi ne ha altre: valorizzazione immobiliare per le Ferrovie dello Stato, sistemazione di buchi finanziari di Expo e Arexpo – con contorno di banche-, lotta all’interno del mondo della ricerca tra pubblico e privato, lotta di potere all’interno del mondo universitario e accademico.
La politica ha anch’essa una sua parola chiave, il passe par tout foglia di fico: partecipazione.
La composizione di questi interessi, quali del tutto legittimi e quali oltre la soglia del legittimo, devono trovare una composizione indispensabile per risolvere due problemi contigui: da un lato la necessità di regolare/autorizzare le trasformazioni territoriali con una velocità compatibile con un adeguato sviluppo economico e sociale del Paese, dall’altro lato allargare il più possibile la base di consenso per limitare le sacche di dissenso spesso strumentalizzate ai soli fini di lotta politica.
Il problema riguarda la formazione degli strumenti di politica urbanistica, il loro procedimento, i tempi, la correttezza metodologica, la condivisibilità e l’efficacia, sia si tratti di strumenti generali, il PGT, sia si tratti di strumenti attuativi come gli Accordi di Programma o persino grandi convenzioni tra pubblico e privato.
L’annuncio dato dal Comune dell’apertura delle consultazioni per la formazione del nuovo PGT e il lancio di un questionario indirizzato alla città pongono un problema metodologico urgente.
Un corretto approccio non può prescindere dalla redazione e assunzione da parte della pubblica amministrazione (PA) di un “protocollo” per la formazione degli strumenti delle politiche urbanistiche, accettato e condiviso dagli stakeholder e dai cittadini, in un ambiente trasparente e basato su di un’accessibilità facile e abilitante.
Come per qualunque protocollo di ricerca si dovrà individuare la materia e il risultato o i risultati attesi, e poi, solo a titolo di esempio, l’individuazione degli attori e gestori del processo, i dati disponibili, quelli da ricercare, la formulazione di prime ipotesi di lavoro, l’individuazione delle fasi e delle attività e la loro successione temporale, le consultazioni, l’adozione di momenti di partecipazione, l’eventuale predisposizione di simulazioni, la redazione del prodotto di ricerca, la sua presentazione per la discussione, la redazione finale.
Alcune delle fasi che ho indicato sono previste per legge: ad esempio per la redazione del Piano di Governo del Territorio, dove esemplarmente non si dice con chiarezza a che punto dell’elaborazione da parte degli uffici della PA debba avvenire la “consultazione”, spesso confusa con la partecipazione. Detto per inciso, chi è consultato deve sapere a che punto del percorso si chieda un suo intervento per dare la risposta appropriata.
Perché la discussione sia produttiva, la pubblica amministrazione deve chiarire cosa intenda per consultazione e partecipazione, attività distinte ma con ricadute reciproche fortissime.
Senza la presunzione di esaurire minimamente la questione largamente dibattuta, basta pensare ai tipi di consultazione open-call o selected-call, due segmenti del crowdsourcing*, oggi messe in atto dal Consiglio Comunale in maniera casuale sul tema del PGT e sul tema degli scali, legati entrambi alla strategia della democrazia partecipativa, detta anche inclusiva, e, per finire, alla “remunerazione” di chi partecipa attivamente alle operazioni di crowdsourcing.
Una prima notazione a proposito del questionario indirizzato ai cittadini: domande che sono solo un elenco di titoli e non una richiesta di opinione ed è difficile capire quale nesso abbiano molte (troppe?) domande rispetto alle determinazione di una scelta di natura urbanistica.
Meglio sarebbe dire che si tratta di un questionario generale dal titolo “la città che vorreste”, ossia ben al di là del perimetro dell’urbanistica come comunemente viene intesa.
Sugli obbiettivi e sull’uso di questo questionario deve ancora essere detto tutto.
* crowdsourcing significa affidare un compito a un vasto e indefinito gruppo di persone (crowd, la folla), tramite una open-call o una selected-call, ovvero una chiamata aperta cui chiunque può rispondere in quanto cittadino (open) o in quanto categoria di cittadini (selected).
«
Mentre si rafforza l’opposizione di accademici e professionisti al progetto per il riuso degli Scali Ferroviari e mentre, contro il trasferimento delle Facoltà scientifiche dell’Università Statale dal quartiere di Città degli Studi nelle aree exEXPO, si sviluppano le iniziative di contrasto di un comitato di residenti sempre più numeroso e agguerrito ("Salviamo città studi"), il Comune di Milano avvia le consultazioni per il nuovo PGT. E la partecipazione civica? Sarà affidata a un questionario, al quale i cittadini dovranno rispondere entro il 14 aprile (!). Il questionario è organizzato su tematiche generiche e astratte (attrattività e inclusione, rigenerazione urbana, resilienza, qualità degli spazi e dei servizi per il rilancio delle periferie, semplificazione e partecipazione); e, all’interno di ciascuna tematica, su una serie di quesiti dettagliati ai quali rispondere con una valutazione da 1 a 4 (quesiti rispetto ai quali nessun cittadino dotato di buon senso o di un po’ senso civico potrebbe astenersi dall’attribuire un punteggio alto). Insomma: una iniziativa retorica, inutile e particolarmente irritante, perché finalizzata a occultare la forte conflittualità che si sta manifestando nei confronti dell’amministrazione comunale da parte della cittadinanza attiva. Che ormai da decenni partecipazione e trasparenza siano considerate dall’amministrazione di Milano, una procedura meramente retorica la prima, e un inutile orpello la seconda (e, purtroppo, non solo a Milano,vedi l'articolo di Enzo Scandurra , La benedetta partecipazione) già lo sapevamo. Ma in questo caso, l’iniziativa dell’Assessore all’Urbanistica e del suo team di ‘esperti’ sfiora il ridicolo»
«Si tratta di una legge che rischia di portare l'Italia indietro di 40 anni e passerà alla storia come la più grave speculazione mai fatta sulle aree verdi italiane». il manifesto, 28 marzo 2017 (c.m.c.)
Ieri nell’aula di Montecitorio, dopo l’approvazione al senato, si è aperto il dibattito sulla riforma della legge 394/91 sui parchi italiani e le aree protette (relatore Enrico Borghi del Pd). Stando alle reazioni stizzite di quasi tutte le associazioni ambientaliste – sostenute da Sinistra italiana – viene da dire che dopo 26 anni di attesa forse il governo poteva sforzarsi di prestare più ascolto.
Solo Legambiente prova a vedere il bicchiere non proprio mezzo vuoto: il testo della legge 4144 sarebbe stato «migliorato» rispetto al passaggio al senato, eppure, dice la presidente Rossella Muroni, «non è la migliore riforma possibile, anzi a dire il vero non si capisce perché è stato necessario riaprire la 239/91 per introdurre queste modifiche». La sua sensazione è che si sia «persa un’occasione importante per aprire un confronto ampio e approfondito su come vada tutelata e gestita la biodiversità in Italia nel 2017». Più netta, invece, la bocciatura di chi sostiene che con questa legge i parchi diventerebbero «terreno di conquista per partiti e potentati» (Dante Caserta, vicepresidente del Wwf).
Tra gli ambientalisti di vecchia data Ermete Realacci (Pd) – oggi presidente della Commissione ambiente e territorio e lavori pubblici alla camera – intervenendo in un’aula deserta ha detto che questa legge è «un passo avanti per l’Italia che guarda al futuro». Sarà. Ma tra gli addetti ai lavori con referenze green sembra l’unico convinto che questa «riforma» renda le aree protette «un modello di sviluppo per l’intero paese, incrociando natura e cultura, coniugando la tutela e la valorizzazione del territorio e delle biodiversità con la buona economia».
Nonostante il giudizio complessivo non proprio esaltante, alcune note positive – non condivise da altri gruppi ambientalisti – vengono sottolineate da Legambiente, la sua ex associazione di cui è ancora presidente onorario.
In sintesi: sarebbe buono il piano nazionale triennale per le aree naturali protette che ripristina un luogo di concertazione tra regioni e governo con 10 milioni l’anno di finanziamenti, così come la destinazione di almeno il 50% delle risorse disponibili alle aree protette regionali e alle aree marine e anche la norma sulla parità di genere nelle nomine (su 23 parchi nazionali sono solo tre le donne con funzioni da direttore); funzionerebbe anche il rafforzamento di alcuni divieti (eliski e attività di estrazione di idrocarburi), il rispetto della normativa sull’uso dei prodotti fitosanitari, il divieto di introdurre cinghiali nel territorio e la proposta di una conferenza nazionale sui parchi da tenersi ogni tre anni.
Il problema dei problemi, secondo tutte le associazioni ambientaliste, Legambiente compresa, riguarda però la governance dei parchi, ovvero chi decide cosa e sulla base di quali priorità e criteri (o pressioni) di tipo economico.
A questo proposito le critiche al governo si fanno pesantissime. «La riforma – sostiene Italia Nostra – passerà alla storia per la più grande e grave speculazione mai fatta sui parchi e le aree verdi italiani. L’ennesimo piatto da spartire per garantire poltrone e favoritismi politici a danno di un patrimonio unico al mondo».
L’associazione, inascoltata al pari di Wwf, ProNatura, Mountain Wilderness, Lipu, Enpa, Cts e Vas, sostiene che «il presidente resta di nomina politica e per la sua designazione non è richiesta nessuna competenza specifica e riconosciuta in materia ambientale e culturale».
Inoltre, la rappresentanza dello stato, dice Italia Nostra, sparisce dal consiglio direttivo per far posto a rappresentanze degli amministratori locali e «degli interessi produttivi»; e in più gli articoli sull’iter per gli interventi edilizi «non sono per niente chiari e rischiano di generare confusione di interpretazione».
E ancora, la legge riconosce royalty una tantum e non annuali quale contributo compensativo per lo sfruttamento delle realtà industriali che operano nei parchi (multinazionali delle acque minerali e petrolieri, per dire dei rapaci più aggressivi).
Il Wwf aggiunge che le aree marine protette saranno governate da un sistema frammentario disomogeneo e «fortemente condizionato dagli interessi locali» e che la gestione della fauna, non essendo ancorata alle direttive comunitarie, aumenta la possibilità di coinvolgere i cacciatori per gli abbattimenti selettivi.
Fulvio Mamone Capria, presidente della Lipu, ne è convinto: «Il cosiddetto controllo faunistico è interamente affidato ai cacciatori».
La presidente del Wwf, Donatella Bianchi, lancia un appello a tutti i deputati – e ai cittadini affinché si appellino ai presidenti di camera e senato – per convincerli ad accogliere modifiche che gli ambientalisti ritengono fondamentali. Per non «stravolgere il sistema delle aree protette e indebolire la natura».
la Repubblica, 28 marzo 2017 (c.m.c.)
Il Consiglio di Stato blinda il progetto del gasdotto Tap, che approderà in Salento, bocciando i ricorsi della Regione Puglia e del Comune di Melendugno e chiudendo il contenzioso amministrativo iniziato nel 2014. Dopo tre anni di ricorsi e controricorsi, la parola fine arriva nel momento in cui a Melendugno una piccola sollevazione popolare ha bloccato i lavori di costruzione dell’opera. L’espianto di 231 ulivi — primo passo per realizzare il gasdotto — è iniziato il 17 marzo e si è fermato il 21, dopo che circa duecento persone hanno posto i propri corpi davanti a camion e ruspe che avrebbero dovuto portare via gli alberi.
La tensione tra forze dell’ordine e manifestanti ha costretto il prefetto di Lecce Claudio Palomba a chiedere una sospensione a Tap e un parere sulla regolarità autorizzativa al ministero dell’Ambiente. La risposta positiva viaggia da Roma verso il Salento e consentirà alla Trans Adriatic Pipeline di ricominciare i lavori, forte anche della sentenza del Consiglio di Stato, che non influenza direttamente la questione relativa agli espianti ma ribadisce, in 68 pagine, la piena regolarità dell’Autorizzazione unica rilasciata dal ministero dello Sviluppo nel maggio 2015 e della Valutazione di impatto ambientale del ministero dell’Ambiente nel settembre 2014.
Non c’è stata alcuna irregolarità — scrivono i giudici di Palazzo Spada — nelle procedure con cui il Consiglio dei ministri ha preso in capo la questione gasdotto, non avendo raggiunto l’intesa con la Regione Puglia su un’opera che era stata dichiarata strategica a livello nazionale e comunitario. Né — aggiunge la sentenza — era necessario applicare al progetto la normativa Seveso o cercare altri approdi, dopo che erano state vagliate 11 soluzioni alternative a Melendugno.
Proprio la scelta di quel punto d’arrivo, in un’area a forte vocazione turistica, ha causato la levata di scudi di numerosi sindaci salentini, che si sono uniti alla crociata del primo cittadino di Melendugno, Marco Potì, alla quale partecipa da lontano anche il governatore pugliese Michele Emiliano, convinto che l’espianto degli ulivi non abbia ricevuto tutte le necessarie autorizzazioni regionali.
Per Tap, invece, le carte sono a posto e, incassata la sentenza del Consiglio di Stato, si attende solo la nota del ministero dell’Ambiente. Poi sarà tempo di espianti, ai quali — hanno fatto sapere gli attivisti che presidiano il cantiere — ci si continuerà ad opporre fermamente. L’appuntamento è all’alba, ad aspettare i mezzi Tap per provare a fermarli di nuovo. Il timore delle forze dell’ordine è che la tensione possa nuovamente salire, fino ad arrivare agli scontri.
«Per creare le condizioni di autonomia rispetto agli interessi locali, è necessario ricostituire quella dialettica tra funzioni comunali e sovracomunali, tra pianificazione urbanistica e di area vasta». millenniourbano, 28 marzo 2017 (c.m.c.)
Nel corso del 2016 alcuni comuni di province confinanti fanno sapere, con atti dedicati o attraverso modalità informali, di essere interessati ad entrare nel territorio amministrato dalla Città metropolitana di Milano. La bocciatura del referendum di dicembre ha reso il processo di modifica dei confini più complesso, ma viene da domandarsi guardando alle difficoltà in cui si muovono le città metropolitane (non solo Milano) se convenga realmente ad un comune entrare nella Città metropolitana.
Le province sono rimaste nella Costituzione, e anche se molto alleggerite nelle risorse (sia bilanci che personale) continuano a gestire funzioni importanti. Con gli amministratori comunali negli organi provinciali sono ora rappresentati i territori, più che i gruppi politici, e per via del voto pesato ponderalmente sugli abitanti sono il comune capoluogo e i comuni più grandi a contare veramente. Tuttavia anche i piccoli possono farsi sentire se riescono tra loro ad aggregarsi secondo alleanze territoriali.
Nelle città metropolitane invece il doppio incarico del Sindaco, imposto dalla legge, colloca il comune capoluogo in una situazione di assoluto dominio, ben diversa da quella primus inter pares del comune capoluogo negli organi delle province. Alcuni comuni di confine sono attratti dal passaggio alla città metropolitana immaginando facilitazioni nell’accesso a finanziamenti nazionali ed europei, che però saranno in gran parte intercettati dal Comune capoluogo e destinati ai propri cittadini.
Dopo un primo momento di disorientamento, successivo all’approvazione della Legge Delrio, i Sindaci delle città metropolitane, anche quelle dove lo statuto ha previsto l’elezione diretta, hanno cominciato ad apprezzare il potere che deriva loro dal doppio incarico, e difficilmente se ne priveranno, o permetteranno al legislatore nazionale di sottrarglielo. Dispongono di fatto di un territorio molto più ampio, oltre i confini amministrativi, da utilizzare per soddisfare i bisogni dei propri cittadini elettori andando a scaricare gli effetti indesiderati sui cittadini di altri comuni, e sui relativi Sindaci, ai quali quei cittadini rivolgeranno le proprie lamentele. Dispongono inoltre di un potere politico ampliato, anche oltre la semplice somma dei due incarichi, che proietta questi doppi sindaci verso il protagonismo nella futura scena politica nazionale.
Il documento con le linee di indirizzo per l’avvio del procedimento del nuovo PGT (Piano di Governo del Territorio) del Comune di Milano ha contenuti generici (1), e mancano indicazioni su alcuni dei temi oggi più caldi, come le aree degli scali ferroviari, l’edilizia sociale, l’inquinamento atmosferico, o inquietanti, come la scalata di ferrovie al metrò M5 o il rinnovato interesse dell’Amministrazione per la riapertura dei Navigli. Se nel documento poco si dice sulle questioni locali, praticamente assenti sono quelle sovracomunali.
A monte si dovrebbe, secondo logica, prima fare il piano della Città metropolitana, fissando obiettivi, riferimenti e azioni prioritarie sugli aspetti di area vasta, e solo dopo i PGT dei comuni (il piano strategico approvato la scorsa primavera non ha alcuna funzione utile a tale fine). Per contare nel sistema decisionale transfrontaliero e transcontinentale, che si sta formando tra le grandi città del mondo bisogna entrarci con il sistema metropolitano tutto, non con il solo comune capoluogo. Ma bisogna prima pensare a ristabilire condizioni dialettiche, tra due istituzioni, il capoluogo e la città metropolitana, che dovrebbero collaborare pur restando autonome, svolgendo ognuna in modo indipendente le funzioni che le sono proprie.
Pensare ad un’unica struttura che sviluppa sia il PGT del Comune capoluogo sia il PTM metropolitano, che ovviamente sarebbe in capo e controllata dal Comune (come ci insegna l’esperienza del Piano strategico dell’anno scorso), rischia di aggravare il cortocircuito istituzionale, già creato dal doppio incarico di Sindaco sulla stessa persona, confondendo le funzioni comunali dell’urbanistica con le funzioni sovracomunali di pianificazione della Città metropolitana. Le decisioni sugli aspetti di area vasta, di competenza dell’ente intermedio secondo la legge, devono essere prese da un organismo indipendente, autonomo rispetto agli interessi locali.
L’iniziativa del comune capoluogo non è di per se stessa un male, anzi. I problemi sono casomai generati dal doppio incarico imposto per legge. In alcune Province il Sindaco del Comune capoluogo è anche Presidente, ma è una scelta dei comuni, ed è revocabile. Quindi più facilmente negli organi provinciali possono mettersi in moto meccanismi di compensazione o correzione in caso il comune più grande mostri tentazioni egemoniche. In mancanza di organi politici eletti direttamente, che prima rappresentavano i cittadini dell’intera provincia, sono oggi le città capoluogo i quasi unici soggetti ad avere la forza politica e tecnica per promuovere iniziative aggregative all’interno degli organi provinciali.
A Milano si è invece stabilito con legge che l’incompatibilità tra cariche non esiste, qualunque cosa accada. Ma non è l’unico problema, a Milano non solo il capoluogo, ma la stessa Città metropolitana è molto più piccola, almeno in termini di superficie, del sistema metropolitano reale, che si estende fino ad includere polarità urbane e parti consistenti delle province confinanti, anche quella di Novara che si trova in Piemonte. Neppure il PTM sarebbe dunque luogo adeguato (figuriamoci dunque il PGT !) da cui partire per definire il futuro del sistema metropolitano, del quale il capoluogo Milano è motore e indiscusso riferimento nelle relazioni nazionali e internazionali, ma con il quale Milano è anche inestricabilmente connessa, tanto da non potere sopravvivere come soggetto internazionale senza il supporto dei territori con i quali vive in simbiosi (2).
Di tutto questo non si trova riscontro nel documento di linee guida. Da nessuna parte si parla del sistema metropolitano reale, forse anche perché il doppio sindaco non può su quest’ultimo esercitare il potere assoluto che invece gli compete sulla Città metropolitana. E quindi di questo il documento semplicemente non fa cenno, dimenticando che è stata l’OCSE, non un organismo qualunque, ad evidenziare già nel 2006 che il sistema metropolitano è molto più esteso dei confini della vecchia provincia.
L’avviso di avvio del procedimento e le allegate linee guida seguono un’impostazione generica e minimale nei contenuti, adempiendo secondo lo stretto necessario a quanto previsto da una legge regionale che vede l’avvio del procedimento e la relativa consultazione come un mero provvedimento amministrativo senza coglierne, o volutamente ignorando, le potenzialità di coinvolgimento dei cittadini.
La legge non chiede nulla in più di quello che Milano ha fatto, ma uno sforzo in più ci poteva stare visto che si tratta del primo importante atto di pianificazione successivo alla storica istituzione della Città metropolitana a gennaio 2015. Si poteva anche essere un po’ più innovativi nel metodo, oltre che un po’ meno avari nei contenuti. Le linee guida potevano essere basate su un serio rapporto di monitoraggio del PGT in vigore. Il monitoraggio è obbligatorio per legge, ed era stato programmato nella VAS del PGT vigente.
Con i dati del monitoraggio si sarebbe potuto costruire un rapporto per rendere conto sull’evoluzione del territorio e dell’ambiente, sullo stato di attuazione degli obiettivi del PGT vigente, sulla verifica di efficacia delle strategie del piano approvato nel 2012. Tutte informazioni che sarebbero state preziose per coinvolgere su questioni concrete, non su dichiarazioni retoriche, i rappresentanti degli interessi organizzati, i cittadini tutti, per valutare cosa ha funzionato e cosa no dell’esperienza precedente e proporre misure correttive.
Tornando alla discrasia tra Sistema metropolitano e Città metropolitana è evidente che prima del PGT, ma anche del PTM, bisognerebbe pensare a modalità e strumenti di governance che includano nelle scelte di grande scala le polarità urbane che sono esterne alla Città metropolitana ma interne al Sistema metropolitano. Una governance del sistema metropolitano che potrebbe magari essere promossa unitamente dal doppio Sindaco con la Regione, che si farebbe carico di garantire la partecipazione delle polarità urbane delle province confinanti, e potrebbe per Novara collegarsi con la Regione Piemonte.
Potrebbe essere un modo per ricostituire, non solo in via teorica, quella dialettica tra funzioni comunali e sovracomunali, tra pianificazione urbanistica e di area vasta, che è necessaria per creare le condizioni di autonomia rispetto agli interessi locali. Per passare dalla teoria all’operatività bisognerebbe capire se la Regione sia in grado di assumere un ruolo di coordinamento territoriale, funzione che ad oggi non ha mai svolto, a parte qualche tentativo ancora acerbo e preliminare nei piani territoriali regionali d’area e nella variante del PTR attualmente in discussione in Consiglio. Ma questo è un altro discorso, che lo spazio di questo intervento non consente di affrontare (3).
Note
(1) Come bene evidenzia Pierluigi Roccatagliata nel suo intervento su Arcipelago Milano del 22 marzo 2017, a commento delle linee guida che il Comune di Milano ha pubblicato per la consultazione formale di avvio del procedimento che si conclude il 31 marzo.
(2) Sulla discrepanza tra dimensione amministrativa e dimensione reale dei sistemi metropolitani vedere anche l’intervento dell’autore su Millennio Urbano del 4.11.2016 e nello specifico del caso Milanese gli interventi sempre dell’autore su Arcipelago Milano del 14.9.2016 e del 11.5.2016
(3) Il tema dell’adeguatezza del livello regionale nella funzione di coordinamento territoriale è trattato in un intervento dell’autore su Millennio Urbano del 14.04.2015.
». la Repubblica, 27 marzo 2017, con postilla
Un vento nuovo soffia sulle città: il respiro delle rovine urbane e della loro rigenerazione. Tre sono le cause principali che vanno seminando le città di rovine: la deindustrializzazione, con la sua scia di fabbriche abbandonate, ma anche di quartieri residenziali che si svuotano quasi da un giorno all’altro; l’abbandono dei centri storici, sempre più dedicati allo shopping e all’intrattenimento; infine, il crescere delle nuove povertà (che includono gli immigrati ma anche gli emarginati), con la conseguente formazione di ghetti urbani. In tutti questi casi, mentre la città perde la sua forma storica e si espande indefinitamente, sorgono nel suo vivo tessuto nuove barriere: i confini della città diventano confini nella città, dove gli abbienti s’insediano in aree più confortevoli, e gli altri si concentrano nei suburbi.
Potenti meccanismi di rimozione collettiva ci impediscono di cogliere questo processo nella sua preoccupante estensione; solo qualche volta ne vengono a galla aspetti che colpiscono l’immaginazione, come in quella che fu la capitale americana dell’automobile, Detroit, dove dopo le rivolte urbane del 1967 e una crisi che continua fino a oggi, i grattacieli del centro convivono con le baraccopoli tutto intorno, e intanto centinaia di abitazioni abbandonate crollano via via, e la campagna guadagna spazio sulla città, in una sorta di imprevisto ritorno alla natura.
Anche nello stato di New York (per esempio a Buffalo) sono numerosissime le zombie homes, abitazioni abbandonate da chi, dopo la “bolla immobiliare”, non riusciva a pagarne il mutuo e ha preferito sparire nel nulla. Ma «nelle rovine si nasconde la ricostruzione», come ha scritto Béla Tarr (Le armonie di Werckmeister), e nelle città più colte (e più prospere) il recupero delle rovine urbane genera progetti ed esperienze del più grande interesse. L’esempio migliore è lo High Line Park a West Manhattan. Corre lungo la West Side Line, una linea ferroviaria che per cinquant’anni servì una zona di New York a forte densità industriale, poi cessò di operare verso il 1980, e parve destinata alla demolizione. Ma dopo oltre vent’anni di abbandono se ne è fatto un bellissimo, funzionale parco urbano, poco più largo dello spazio occupato dai binari ma lungo oltre due chilometri; una delle destinazioni più popolari di New York, che contribuisce anche alla conoscenza della città, osservata dall’alto.
I binari sono stati lasciati in vista lungo quasi tutto il percorso, e questa preesistenza “archeologica”, insieme con le vedute sulla città e sul fiume, dà alla passeggiata lungo la High Line il gusto e il tono di un’esplorazione della memoria, ma anche di una promessa per il futuro. Non v’è città al mondo che abbia rovine urbane più di Roma; e non penso qui alle baraccopoli e ai suburbi, che pure vi sono, ma proprio alle rovine della Roma antica. Monumenti che sono lì non da vent’anni, ma da venti secoli, ma stiamo rischiando di non vederli più (un antico sottosegretario ai Beni Culturali ha chiamato il Colosseo «un inutile dente cariato »).
La lunghissima convivenza con i resti della Roma pagana e imperiale ha finito col farle apparire come una sorta di quinta teatrale, senza una vera funzione se non quella di alimentare sogni imperiali; e infatti i principali rimaneggiamenti nell’area dei Fori furono fatti in occasione della visita di Carlo V (1536), poi in epoca napoleonica, e infine da un governo fascista che vantava, a vuoto, il ritorno dell’impero sui colli fatali di Roma. Ma non siamo mai riusciti a venire veramente a patti con l’intensa presenza delle rovine, che a Roma penetrano in ogni quartiere, anche nelle periferie. Attorno alla nuda pietra, per citare il titolo di un bel libro di Andreina Ricci (Donzelli), non siamo riusciti a costruire un progetto urbano che integri quelle rovine nello spirito e nella vita della città. Parliamo astrattamente della loro tutela, ma non di come integrarle nella città, da cui anzi ritagliamo con burocratica cecità “parchi archeologici” e aree vanamente “protette”, senza che il cittadino comune sappia nemmeno bene perché.
Sarà forse più facile intervenire su una ferrovia abbandonata a New York che su rovine vecchie di secoli in Europa? Ma allora perché ad Atene sono riusciti a trasformare tutta l’area intorno all’Acropoli in un mirabile parco urbano, una trama di sentieri che raggiunge i Propilei e si snoda lungo le antiche mura, ma anche verso il monumento di Filopappo, secondo il geniale disegno di Dimitris Pikionis? In Italia questo esempio è stato sì riconosciuto (premio Carlo Scarpa della Fondazione Benetton, 2003), ma non capito né preso a modello. La sua sostanza è presto detta: traformare un’“area archeologica”, che come tale rischia di essere uno spazio dell’esclusione, in un vero e vivo pezzo di città, prezioso ma per tutti, senza biglietto di accesso; e dunque farne uno strumento di conoscenza per i cittadini, che è la sola base per una vera tutela.
C’è un nesso fra questa cura sottile, colta, mirata delle preesistenze archeologiche e la recente decisione delle autorità greche di vietare (per quanto ben pagata) una sfilata di moda sull’Acropoli, perché incompatibile con la dignità del luogo? Sì, il nesso c’è: perché fra coltivare la memoria storica mediante i rituali della cittadinanza (una passeggiata intorno all’Acropoli, o sulla High Line) e svendere i monumenti al migliore offerente, considerandoli un’inutile scatola vuota da riempire di “eventi”, c’è davvero un bivio radicale. A Roma, la scelta è: integrare pienamente le rovine nella città facendone patrimonio di conoscenza dei cittadini, o ritagliarle come pompose scenografie di un qualche business da quattro soldi?
postilla
Peccato che Salvatore Settis dimentichi il grande sogno, alimentato da uomini illustri, esponenti di numerosi saperi e animati da profonde passioni (ricordiamo solo Adriano La Regina, Antonio Cederna, Italo Insolera, Vittorio Gregotti, Leonardo Benevolo, Vezio De Lucia) che reiteratamente proposero di fare della ricostituzione dell'unità dei Fori il fulcro d'una rigenerazione dell'intera città, e il grande sindaco Luigi Petroselli che avviò la relizzazione di quel sogno, finalmente divenuto progetto. Si vedano su eddyburg i numerosi articoli contenuti in proposito digitando "progetto fori" nello spazio a sinistra della piccola lente, magari cominciando dall'articolo di Vezio De Lucia Antonio Cederna, Luigi Petroselli, il progetto Fori e dalla sua lezione alla Scuola di eddyburg 2009: L'Appia Antica e il Progetto Fori
Lo chiamano "sviluppo bloccato" quello "sviluppo insensato che sta portando alla catstrofe il nostro pianeta. Gli industriali, vigili solo sui loro interessi, si lamentano, noi guardiamo con speranza ai "bloccatori". il Sole 24ore, 25 marzo 2017
L'ultimo caso è freschissimo. Risale a ieri. La multinazionale britannica Rockhopper, ha avviato le procedure per rivalersi economicamente nei confronti dell’Italia. Motivo: l’impossibilità di sfruttare il giacimento di Ombrina Mare, in Abruzzo, di cui era titolare. Un giacimento a 6 km dalla costa, finito nel mirino dei “no triv” e del provvedimento del governo di fine 2015 che vietava lo sfruttamento di giacimenti entro le 12 miglia marine.
Ora la compagnia Rockhopper presenta il conto: la richiesta di risarcimento contro il Governo italiano, per violazione del trattato Energy Charter Treaty, potrebbe essere di molti milioni di dollari (si veda il Sole 24 Ore di ieri).
Il caso Ombrina Mare fa parte dei 342 casi di sviluppo bloccato censiti dal rapporto annuale 2016 (a valere sul 2015) dell’Osservatorio Nimby forum. La multinazionale Rockhopper è in buona compagnia, con la Tap (Trans adriatic pipeline) tornata agli onori delle cronache in questi giorni, o la Tav Torino-Lione, o ancora la rete ad alta tensione in Val Formazza (Verbano Cusio Ossola) per l’interconnessione con la Svizzera: un’altra opera strategica che coinvolge anche le province di Novara e Milano.
I progetti bloccati
Numero di impianti per settore industriale (Fonte: Nimby Forum)
Questi tre progetti sono tra i più osteggiati, secondo il monitoraggio del Nimby Forum, insieme all’impianto di co-incenerimento di rifiuti non pericolosi Terni Biomassa, di Terni, e al permesso di ricerca per idrocarburi liquidi e gassosi denominato “Monte Cavallo”, di Shell Italia, in un’area che ricade tra Campania e Basilicata.
L’ultimo Osservatorio Nimby Forum ha censito 13 casi di sviluppo bloccato in meno rispetto al rapporto precedente. Ma non c’è da rallegrarsi.
Innanzitutto perché «il calo riscontrato è del tutto risibile» spiega Alessandro Beulcke, presidente dell’Osservatorio. E poi perché il calo è probabilmente ascrivibile «al progressivo abbandono dei progetti da parte delle imprese proponenti, che dirottano investimenti e risorse verso altre iniziative industriali, spesso fuori dai confini italiani» si legge nel rapporto.
LA RICERCA #N02.0
28 Aprile 2015
Se la sindrome «nimby» diventa virale
Del resto lo scenario è disarmante, come sottolinea Beulcke. «Ricordo il caso della Shell a Priolo: solo per la presentazione del progetto e le procedure sull’impatto ambientale la multinazionale spese una trentina di milioni». Insieme a Shell anche Erg lancia la spugna e sfuma così un piano di investimenti di circa mezzo miliardo. E quello di Priolo non è neppure il caso più clamoroso: cinque anni fa, nel marzo 2012, proprio al Sole 24 Ore British Gas annuncia l’addio all’Italia e al progetto di rigassificatore a Brindisi. Troppi undici anni di lungaggini e una spesa di 250 milioni per nulla. Addio a un progetto da 800 milioni e a 1.100 occupati.
«Altrove, come in Francia ad esempio, le procedure durano 6-8 mesi, da noi invece servono anni – conferma Alessandro Beulcke –: un’azienda pensa di ottenere risposte sulle valutazioni ambientali entro 180 giorni (come dovrebbe essere), invece l’iter diventa spesso di 360 o più. E poi sono quasi automatici i ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato da parte degli oppositori». Ricorsi che spesso finiscono in niente – come le decine contro le richieste di ricerche sugli idrocarburi, rigettate nei mesi scorsi –: «Si tratta sovente – sottolinea il presidente dell’Osservatorio – di ricorsi temerari che, però, non vengono sanzionati».
INFRASTRUTTURE
21 marzo 2016
Per la Torino Lione 400 milioni di sovra costi contro i No Tav
A sollevare le maggiori opposizioni sono soprattutto i progetti energetici (196 casi), poi la gestione dei rifiuti (130 tra discariche e termovalorizzatori), quindi le infrastrutture (strade e ferrovie). Un primato tutto italiano frutto di «lungaggini buracratiche, complicazioni politiche e un uso distorto delle informazioni, con una critica che raramente è costruttiva» spiega Beulcke. Il risultato di questo mix è che la politica spesso sceglie, soprattutto sui territori, di «assecondare la protesta. Mentre sulle opere strategiche dovrebbe decidere solamente il governo centrale. Il caso Tap è emblematico e oltretutto si parla di lavori di una banalità ingegneristica sconvolgente. Dall’effetto Nimby – sottolinea Alessandro Belcke – si sta passato al Nimto: not in my terms of office, non nel mio mandato».
Arboreto salvatico. doppiozero online, 26 marzo 2017 (c.m.c.)
Questo, per me, è il tempo del faggio: ogni mattina entro nella legnaia dove ho riposto la legna secca dopo che per un anno era rimasta accatastata al sole e al riparo dalla pioggia al muro sud della casa. Ora il faggio brucia con chiara fiamma dentro la stufa donandomi un tepore sano e buono; così che alzando la testa dal tavolo e vedendo l’inverno sulle montagne e sui boschi è ancora più piacevole riprendere la lettura o un foglio bianco per scrivere a un amico.
Ho incominciato da ragazzo a “sentire” il faggio come albero felice agli dei, e non lo sapevo. Avevo forse dieci anni, quando per la prima volta seguii i famigliari e mio padre nel bosco per aiutare a raccogliere i polloni e i rami dell’assegnazione d’uso civico. I forti cavalli nell’autunno portavano i pesanti carri verso le case degli uomini e davanti a ogni abitazione, nei cortili o nella strada, stavano i mucchi in bell’ordine. Con i segoni a due manici, abbandonati qui dalla Grande Guerra, si segavano i pezzi a misura del focolare e delle stufe e poi con la scure, anche questa residuato bellico, si aprivano i pezzi in quarti. Per il paese e per le contrade era tutto un fervore, e dove c’erano vedove o vecchi c’era sempre qualcuno che dava una mano a preparare la legna.
Con il fratello del nonno, che da poco era ritornato dall’America, anch’io segavo i lunghi tronchi appoggiati su un cavalletto. Ma volevo anche essere rivolto verso un poggiolo dove c’era una ragazzina che usciva a guardarmi. L’odore buono del faggio, anzi della segatura che usciva dal taglio (seppi più tardi che era dovuto ai fenoli dai quali si ricava il prezioso creosoto), si confondeva con quello della neve che dalle montagne a nord si avvicinava al paese.
Da particolari tronchi, dovevano essere diritti e a venatura compatta, venivano conservati i pezzi vicino alla base che poi, spaccati con precisione lungo la venatura, venivano messi a stagionare sotto il portico appesi a uno spago. Da questi pezzi uscivano i manici per ogni uso: scuri, mazze, martelli, picconi, scalpelli perché il faggio è il legno che meglio di ogni altro si adatta alle mani dell’uomo, e ben lo sapevano i veneziani che saggiamente amministravano le faggete per avere gli alberi da remi per le loro navi.
Dove un bel ramo si innestava al tronco con giusta inclinazione, il pezzo veniva scelto per costruire la slitakufa, slittastorta: dal tronco smussato in punta si ricavava lo scivolo e il ramo faceva da stanga, tutto in un unico pezzo. Se poi si mettevano su un asse di ferro e due ruote si otteneva un carrettino per uso di bosco o di campo. Ma noi ragazzi si cercava tra i tronchi quello da cui, segato in tavole e dopo due anni di stagionatura, Giacometto Bhet, il falegname, ci avrebbe ricavato gli sci.
Forse per tutti questi ricordi ho voluto che nel brolo trovassero il loro posto anche tre faggi. Li avevo trapiantati dal bosco comunale una primavera piovosa, prima che comparissero le foglie; erano alti meno di un metro, e siccome è specie che ama l’ombra e l’umidità li ho messi a dimora tra gli abeti e i sorbi. E lì crescono portando i rami verso l’alto; poi, quando gli abeti saranno giunti al punto che dovranno essere diradati, anche i faggi allargheranno la loro chioma, prendendo quell’aspetto rotondiforme che li farà solenni. Ma a godere di questo spettacolo della natura saranno i miei nipoti.
L’anno scorso in autunno, perché questa è la stagione più bella per la foresta di latifoglia, sono andato a visitare forse la più classica faggeta d’Europa. Si trova in Jugoslavia dalle parti dei laghi di Plitvice; e lì tra quelle fustaie eccelse ho voluto raccogliere una manciata di faggiole appena cadute dai rami. Portate a casa e messe in un vaso a fior di terra (sono epigee), questa primavera hanno germogliato; ora le piantule sono alte pochi centimetri ma tra cinquant’anni richiameranno l’attenzione dei passanti.
Il Fagus silvatica L. è albero socievole ed è dotato di facoltà pollonifera, ossia dopo essere stato reciso rigenera dalla base. Il fusto è diritto e regolare, nel bosco i rami sono raccolti nella parte superiore, ascendenti; negli alberi isolati i rami sono più grossi e la chioma è arrotondata. La corteccia è di colore grigio chiaro, liscia, sovente chiazzata di licheni biancastri e, verso il pedale, da muschi dal verde intenso. I rami più giovani tendono al grigioverde. Le foglie sono caduche, lunghe cinque–dieci centimetri, ovali e brevemente appuntite, leggermente ondulate, di colore verde brillante nella parte superiore, più pallide e un po’ pelose nella pagina inferiore. Quando fuoriescono dalla gemma hanno un colore verde tenerissimo e qualche volta, nel ricordo di una fame tra le montagne dell’Austria, le mastico e le mangio come lattuga. Le gemme sono lunghe e sottili, ricoperte da squame brune. Ma è nell’autunno, tra l’ottobre e il novembre, che le faggete prendono quel color giallo rosso squillante che rallegra la selva.
Le radici del faggio sono ben sviluppate e ben “radicate”. Qualche volta, da noi, avvolgono i sassi, penetrano tra gli interstizi della roccia, si sprofondano a cercare la vita dove il tempo ha fatto l’humus con l’aiuto delle specie pioniere. I ceppi di questi faggi ci danno una legna da bruciare compatta e soda, di grande resa: ceppi da notte di Natale.
L’albero del faggio è monoico: gli amenti maschili sono giallastri, penduli dai rametti; gli amenti femminili sono invece eretti e raccolti. I frutti maturano alla fine dell’estate; sono a cupola chiusa, un po’ spinosa, a quattro valve coriacee che contengono da uno a tre acheni di forma trigona, lunghi circa un centimetro e mezzo.
L’areale di questa latifoglia è tipicamente oceanico e non continentale; dalla Norvegia scende al mar Nero e dalle Alpi Transilvaniche si estende sino in Italia; lo troviamo anche sugli Appennini e sui monti della Sicilia; ancora sui Pirenei, in Francia, in Inghilterra. Le caratteristiche del faggio hanno consentito agli studiosi di definire un’area fitoclimatica particolare: il Fagetum che sta tra il più caldo Castagnetum e il più rigido Picetum.
Le foreste possono essere pure ma anche miste con l’abete bianco e altre latifoglie; ma si associa anche al larice, al peccio, al pino silvestre. Preferisce i terreni sciolti, permeabili e freschi, e per le sue qualità di crearsi le condizioni vitali, il terreno della faggeta è uno tra i più fertili. Il faggio si costruisce e conserva la foresta!
la Repubblica, 25 marzo 2017
«È un intervento a gamba tesa della vecchia politica: vogliono trasformare i parchi in un pensionato per notabili a fine carriera. E il sistema è semplice: basta far saltare le competenze tecnico-scientifiche e il gioco è fatto. Fuori i naturalisti, fuori i biologi, fuori gli esperti, dentro chi è pronto a tutto pur di non scontentare i potentati locali». È dura l’accusa di Francesco Mezzatesta, l’ex segretario Lipu che è stato tra i protagonisti della battaglia per la legge quadro sui parchi.
Oggi quella legge, la 394, porta i suoi 26 anni con qualche ruga. I parchi hanno perso un po’ di slancio. Hanno giocato bene in difesa: quando erano assediati dal cemento si sono validamente difesi. Ma adesso bisognerebbe passare all’attacco: fare della natura protetta il motore di un’economia leggera, a basso impatto ambientale. Dunque una riforma sarebbe opportuna, ma quella che lunedì sarà discussa dall’aula di Montecitorio ha suscitato una rivolta nel mondo ecologista. «È una pietra tombale sulla natura italiana», protesta Fulco Pratesi, presidente onorario del Wwf. «I parchi danno fastidio perché costituiscono una barriera contro gli interessi delle lobby locali pronte a dare il via libera a un albergo in zona franosa o a trasformare un sentiero in pista da motocross in cambio di un pugno di voti».
Al centro delle polemiche c’è la governance dei parchi. Le associazioni ambientaliste chiedevano parametri più rigorosi per la nomina dei presidenti. È avvenuto l’opposto. I presidenti continuano a essere di nomina esclusivamente politica e s’indebolisce la figura chiave del direttore: oggi è scelto all’interno di un albo riservato a figure rappresentative della difesa della natura; con la riforma l’obbligo di competenze naturalistiche salterebbe.
«Il direttore verrebbe eletto dal presidente del parco su proposta di una commissione a maggioranza indicata dallo stesso ente parco: sarebbe invece più corretto un concorso con un vincitore secco eletto per titoli», osserva Antonio Nicoletti, responsabile Legambiente per le aree protette. «Quanto al presidente, la riforma prevede di escludere i parchi dalla legge Severino: così potrebbe essere eletto anche un parlamentare in quiescenza, cioè con il vitalizio. Peccato, perché la legge è stata migliorata durante il passaggio in commissione Ambiente».
Se a questi punti aggiungiamo la mancata creazione del parco nazionale del Delta del Po, si ottiene il quadro degli elementi che hanno scatenato la protesta. La valutazione però non è unanime. Federparchi appoggia la norma sottolineando gli aspetti positivi: 10 milioni di risorse finanziarie; un piano triennale che include i parchi regionali e le aree marine protette; il rafforzamento delle sanzioni contro gli abusi; la conferenza triennale sulla Natura dell’Italia.
«Sul profilo ambientale delle persone che assumono la guida dei parchi serve una modifica del testo che spero passerà nel voto in aula», afferma Ermete Realacci, presidente della Commissione Ambiente di Montecitorio. «Ma io difendo questa legge. I sindaci non sono per definizione un nemico: bisogna creare un dialogo. Inoltre viene introdotto il divieto di trivellazione e di eliski ed è stato eliminato l’emendamento che aumentava la pressione della caccia nelle aree contigue ai parchi». Resta però irrisolto il nodo della governance. Da lunedì toccherà al Parlamento decidere.
La tassa regionale stravolge il senso del project financing con il risultato contrario rispetto agli obiettivi per i quali è nato, cioè di far pagare agli utilizzatori l’autostrada e non a tutti i cittadini come si prospetta con questa tassa. Il Fatto Quotidiano on line, 24 marzo 2017, con riferimenti (m.p.r.)
Per continuare a finanziare la Pedemontana veneta, 94 km con un costo stimato di oltre tre miliardi di euro, la Regione Veneto vuole introdurre un’addizionale Irpef “temporanea” per i suoi cittadini in alternativa all’aumento dei futuri pedaggi (che sarebbero già doppi rispetto a quelli della media nazionale). Il motivo? L’aumento dei costi dell’opera, frutto di previsioni sbagliate e sottostimate. La tassa regionale, però, stravolgerebbe il senso del project financing con il risultato contrario rispetto agli obiettivi per i quali è nato, cioè di far pagare agli utilizzatori l’autostrada e non a tutti i cittadini veneti come si prospetta con questa tassa.
Eppure il project financing doveva essere approvato solo se avesse avuto una base di fattibilità economica. Ora, invece, il committente pubblico (Regione e Stato) deve spiegare “perché” quest’opera ha avviato la sua realizzazione “come se fosse” un project financing: è evidente che il fine è stato solo per poter dire, sul piano politico, che l’infrastruttura si sarebbe realizzata con finanziamenti privati.
Con la recente invenzione del canone di disponibilità e della tassa, Zaia garantisce la remunerazione alla società concessionaria Sis mentre la Regione e lo Stato si accollano tutto il rischio dell’opera, come se l’avessero realizzata con un appalto tradizionale. In tal modo è venuta meno un’altra ragione per il ricorso al project financing: minimizzare le risorse pubbliche impegnate e non far ricadere totalmente l’investimento sulla spesa pubblica.
È evidente che, al netto di ogni considerazione ambientale, il progetto non aveva basi di fattibilità economica perché il committente ha voluto fin dall’inizio sgravare la società concessionaria dal rischio imprenditoriale, accollandolo tutto alla mano pubblica, compreso il nuovo prestito di 300 milioni richiesto alla Cassa depositi e prestiti.
La Pedemontana veneta, come era stata pensata, non serve più visto che è stato ammesso che dai 33mila veicoli giornalieri previsti si passerà (forse) a 18mila. Così, anziché studiare una via d’uscita, ad esempio una riduzione della lunghezza della tratta e la riduzione delle carreggiate, con minor consumo di suolo e minori costi, si vuole proseguire su una strada fallimentare.
Strada che ha aperto uno strascico legale con l’inevitabile ricorso di Salini, secondo classificato nella gara del 2009, che ora denuncia come, per dirla chiaramente, le carte in tavola non si possono cambiare: Salini ha denunciato come che il Consorzio Sis non stia adempiendo ai suoi obblighi di convenzione e non stia riuscendo neppure ad acquisire le risorse finanziarie che era tenuto a reperire per realizzare l’opera nel rispetto della convenzione sottoscritta. Il tutto mentre la Pedemontana lombarda, 87 km di asfalto per un costo di 4,6 mld di euro, è ferma da due anni a un terzo dell’opera. Qui, il miracolo di portare avanti i lavori è stato chiesto a Antonio Di Pietro.
Quella dell’ex magistrato di Mani pulite è l’ultima, disperata carta che gioca il governatore lombardo Roberto Maroni per un’opera impossibile da realizzare per motivi finanziari e ambientali: l’ultimo piano finanziario, approvato dal Cipe nel 2014, non prevedeva che dopo un aiuto di 350 milioni di defiscalizzazione anche la recente garanzia “rischio traffico” (di 450 milioni) per la realizzazione della Pedemontana lombarda.
Tariffe troppo alte e traffico pendolare e residenziale (di corto raggio) tengono distanti automobili e tir rendendo impossibile l’equilibrio del piano finanziario a pochi mesi dall’apertura di 22 km di rete. In Veneto come in Lombardia non servono nuove autostrade ma l’eliminazione dei “colli di bottiglia” e una buona gestione e manutenzione della rete esistente.
La foglia di fico del project financing non tiene più per le due “bandiere federaliste” autostradali di Veneto e Lombardia: per andare avanti ci vorranno ancora nuovi aiuti e nuove garanzie di Stato. Teem e Brebemi, le nuove autostrade lombarde, sono la prova del fallimento: tristemente vuote, non incassano neppure i pedaggi sufficienti per pagare le spese di gestione, facendo restare i debiti da pagare sul groppone pubblico.
Questi esempi dimostrano che i project financing (farlocchi) italiani non sono strumenti per realizzare opere pubbliche con risorse e rischi privati, ma “creatori di debito occulto” per le casse dello Stato. L’unico risultato raggiunto: disperdere ricchezza anziché crearla con opere più utili.
Sulle previsioni di traffico sbagliate si veda l'analisi di Carlo Giacomini. Su eddyburg è possibile ripercorrere la vicenda. I comitati avevano tenacemente provato a contestare «l’iperviabilizzazione privata con soldi di noi tutti, devastatrice per il territorio e il bilancio», si legga a proposito Nuovo stop alla Pedemontana Veneta.
“Resistere alla cementificazione” di Federico Simonelli, e non erano mancate analisi di esperti che documentavano le distorsioni normative «al solo scopo di consentire al concessionario di ripagarsi l’opera che non regge con i soli ricavi da pedaggio» come quella di Anna Donati Grandi opere e consumo di suolo sempre su eddyburg, dove numerosi sono gli articoli sulla vicenda della Pedemontana. Ora il presidente Zaia per completare l'opera è «Costretto a tassare i veneti ma non è un tradimento», lo stesso presidente che quando il Tar aveva bloccato l'opera per il ricorso di un cittadino aveva commentato che era stato «per un eccesso di democrazia».
«Per le ferrovie i 40 miliardi di euro previsti sono interamente destinati all’Alta velocità. La maggior parte degli interventi risultano privi di “obbligazioni giuridiche vincolanti”. Significa che si potrebbero ancora cancellare». Altraeconomia, 23 marzo 2017 (c.m.c.)
Nel Paese delle “grandi opere”, c’è chi attende con trepidazione il 10 aprile. Entro quel giorno, infatti, il Consiglio dei ministri dovrebbe licenziare il nuovo DEF (Documento di economia e finanza) per il 2017, e il primo DPP, ovvero il “Documento pluriennale di pianificazione”. Si capirà, insomma, se il governo –che nel 2017 dovrebbe tagliare altri 1,6 miliardi di euro alle Province– continuerà ad allargare i cordoni della borsa per finanziare le grandi infrastrutture. Quel che è certo, intanto, è che tra il 31 marzo e il 31 dicembre del 2016 sono state stanziate risorse pari a circa 6 miliardi di euro per “coprire” gli interventi sulle cosiddette “infrastrutture strategiche”.
Una fotografia dello stato dell’arte è scattata nella nota di sintesi elaborata dal Servizio studi della Camera dei deputati in merito allo “stato di attuazione del programma”, che fa riferimento alla fine dello scorso anno (e pubblicato a marzo). Spiega che il valore complessivo delle future “grandi opere” è pari a quasi 280 miliardi di euro. La lettura integrale della relazione offre però ulteriori spunti di analisi.
1) Non è più possibile stabilire con certezza, né ha alcun valore giuridico farlo, quante siano in totale le “grandi opere”. È vero che vengono elencate le 25 opere considerate “prioritarie”, ma per quelle “non prioritarie” anche nell’analisi del Servizio studi della Camera si fa ormai riferimento a “lotti”, in totale 981. Gli interventi infrastrutturali, infatti, possono anche avanzare per fasi successive, e anche tutte quelle attività che dovrebbero essere considerate propedeutiche -come la progettazione e la copertura del finanziamento- possono essere completate in momenti successivi: non c’è alcune certezza, insomma, che un’opera di cui viene posata la prima pietra verrà in futuro effettivamente terminata; la legge offre infatti anche la possibilità di procedere alla realizzazione di “lotti costruttivi non funzionali”.
Un effetto di questo paradosso -senza entrare per il momento nel merito degli interventi- è che mentre mancano 25,5 miliardi di euro al fabbisogno delle “opere prioritarie”, il CIPE (Comitato interministeriale per la programmazione economica) ha già deliberato finanziamenti per 74 miliardi di euro a favore di lotti di opere non prioritarie.
2) A leggere in modo superficiale l’elenco delle opere prioritarie, si potrebbe immaginare che (alla fine) l’esecutivo si sia adeguato alle richieste di chi, come il Wwf o Legambiente, criticava da anni la netta prevalenza di strade e autostrade tra le infrastrutture strategiche ereditate dalla legge Obiettivo del 2001. Oggi, infatti, il 63% delle opere, in valore, riguarda progetti per la mobilità collettiva, ferrovie (per 41,08 miliardi di euro, pari al 46% del costo complessivo delle 25 opere prioritarie) e metropolitane (per 14,94 miliardi di euro, il 17% del totale).
Alle “strade” restano appena 28 miliardi di euro, cioè il 31% del totale. Le ferrovie di cui si parla, però, sono esclusivamente nuove linee ad Alta velocità: 26 miliardi di euro servirebbero per quello che la relazione definisce un “completamento” della rete al Nord (comprende il Terzo Valico tra Genova e l’alessandrino, la Torino-Lione attraverso la Valsusa, la Brescia-Padova, la galleria di base del Brennero, tutte opere contestate da comitati locali ed organizzazioni ambientaliste, e in alcuni casi anche al centro dell’interesse della magistratura per casi di corruzione e di infiltrazioni da parte della criminalità organizzata, mentre è in corso di revisione l’intervento per il sotto-attraversamento di Firenze); altri 15,1 miliardi di euro, invece, andranno a finanziarie due itinerari nel Meridione, cioè la Napoli-Bari e la Palermo-Catania-Messina (ricordiamo che il governo Renzi con lo Sblocca-Italia ha “sottratto” queste due infrastrutture ai normali iter procedurali, assegnandone la gestione ad un commissario straordinario che sta procedendo a colpi di ordinanze, ben 27, emesse tra il dicembre del 2014 e il primo dicembre 2016).
3) Allargando lo sguardo a tutto l’elenco delle opere strategiche, si scopre che «il 59% del costo complessivo delle opere non prioritarie, 112,2 miliardi su 188,6 miliardi totali, riguarda opere stradali». Per questi interventi, il CIPE ha già impegnato il 38% dei finanziamenti richiesti, pari a oltre 42 miliardi e mezzo di euro; il 62% delle opere (in termini di costi) risulta in fase di progettazione.
4) Nella nota di sintesi viene utilizzato un acronimo (da addetti ai lavori) che potrebbe rappresentare l’architrave di un cambiamento, se davvero il governo volesse arrivare a ridiscutere le “infrastrutture strategiche” per il Paese. È OGV, e sta per “obbligazioni giuridicamente vincolanti”. Indica, cioè, quelle opere per cui esiste un contratto, e quindi un legittimo vincolo nei confronti di un soggetto che si è aggiudicato o è stato incaricato dell’esecuzione dell’opera. Sono quelli, cioè, che in caso di cancellazione, potrebbero aprire per lo Stato la porta di contenziosi.
Ecco, la maggioranza delle opere non risulta coperta al 31 dicembre 2016 da obbligazioni giuridicamente rilevanti: ben 178 miliardi di euro, pari al 64% del totale, riguardano infatti opere «in fase di progettazione (circa 152 miliardi), in gara o aggiudicate (circa 25 miliardi) e con contratto risolto (meno di 1 miliardo), che dovrebbero rappresentare le opere senza OGV». Così è scritto nella nota di sintesi del Servizio studi, che nell’elaborazione si è avvalso della collaborazione dell’Autorità nazionale anticorruzione, che svolge anche la funzione di autorità di vigilanza sui contratti pubblici. Se consideriamo che «l’84% del costo delle opere senza OGV, pari a circa 150 miliardi di euro, riguarda opere non prioritarie», è plausibile auspicare un ripensamento. E un rimaneggiamento dell’elenco delle infrastrutture strategiche, in particolare per quanto riguarda l’Alta velocità e le autostrade.
5) A meno che governo e Parlamento non subiscano l’influenza di portatori di interesse come AITEC, l’associazione italiana dell’industria cementiera. Nel mese di febbraio, in audizione di fronte alla Commissione lavori pubblici del Senato, i rappresentanti dell’organizzazione confindustriale hanno chiesto «il rilancio di una politica infrastrutturale italiana effettuata con risorse pubbliche credibili». Di fronte al “fenomeno della corruzione”, che viene definito “un problema grave” e riguarda -secondo la campagna “Riparte il futuro”- oltre la metà delle infrastrutture strategiche, si spiega che «inseguire il ‘sistema perfetto’ non deve fermare la macchina di investimenti pubblici che alimenta e, in questi anni di crisi tiene in vita, la filiera dei lavori pubblici e dei materiali da costruzione».
Tra il 2007 e il 2016 la produzione di cemento in Italia è calata del 59,3%, da 47,5 a 19,3 milioni di tonnellate. Guardando ai bilanci delle aziende del comparto, tra il 2010 e il 2015 si è registrata una perdita complessiva pari a 1,23 miliardi di euro, solo parzialmente mitigata dalla possibilità di vendere sul mercato i “diritti di emissione” assegnati gratuitamente dalla Commissione europea.
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l Mercato divora tutto. I suoi padroni e i suoi servi sono diventati sempre più abili: trasformano i gioielli del nostro patrimoni storico e artistico in lustrini da appiccicare sulle sue merci, e le fragili menti drogate dei consumatori penseranno che quella è la loro unica ragione di essere. il Fatto Quotidiano online, blog di Manlio Lilli, 23 marzo 2017
«Abbiamo condiviso la necessità di sviluppare un sistema di relazioni più efficace e di stipulare un accordo finalizzato a qualificare e rendere più competitiva l’offerta turistica territoriale. Il fine è anche sensibilizzare e coinvolgere tutti gli attori locali e le comunità promuovendo e diffondendo i principi legati alla “cultura di sistema” e alla “cultura dell’accoglienza turistica” con l’obiettivo di incentivare e sostenere la pianificazione e la riqualificazione territoriale in relazione alle esigenze di sviluppo turistico. È necessario incrementare i flussi turistici attraverso l’attuazione di una politica di sviluppo più efficiente e indirizzata a favorire la destagionalizzazione delle presenze». A parlare così è Domenico Casagrande, direttore del Palmanova Outlet Village, il villaggio commerciale appena oltre il casello di Palmanova (Udine) lungo l’autostrada A4.
Cosa c’entri “il primo outlet del Nord-Est dell’Italia e il primo a richiamare visitatori non solo dall’Italia ma anche da Slovenia, Croazia e Austria”, con “l’offerta turistica territoriale” e “lo sviluppo turistico”, è presto detto. Un comunicato del Comune, celebre per la fortezza cinquecentesca a pianta poligonale a stella con nove punte, chiarisce tutto. “Il Palmanova Outlet Village, la città di Palmanova, candidata Unesco, e la Fondazione Aquileia, che opera al fine di valorizzare la città romana, uniscono le forze e guardano alla promozione dello sviluppo turistico regionale a beneficio dei cittadini … È stata, infatti, siglata una convenzione (durata 3 anni) tra Palmanova e l’Outlet Village, che prevede lo sviluppo di strategie e l’organizzazione di eventi d’interesse per la collettività”.
Diversi soggetti uniti per valorizzare il patrimonio storico-artistico-archeologico di un comprensorio ricco di potenzialità. Un progetto condiviso di sviluppo del territorio. “Ogni accordo e strumento che permette di far conoscere, a livello nazionale e internazionale, la bellezza e unicità di Palmanova è valutato positivamente dall’amministrazione comunale. In sintonia con il Palmanova Outlet Village e Aquileia pensiamo di far crescere turisticamente il territorio”, ha commentato il sindaco di Palmanova, Francesco Martines. Insomma, nessun dubbio. Evviva l’accordo. Con questa accezione la notizia è pubblicata da diversi quotidiani e rilanciata anche dall’Ansa.
D’altra parte ci sarà anche una serie di iniziative “in occasione dei principali eventi in programma nella città stellata”. E sono proprio queste iniziative che possono permettere di farsi un’idea più precisa. Di verificare la bontà dell’operazione. Quindi avanti con il “Palmanova Shuttle”, che vedrà impegnati il Comune di Palmanova, l’associazione “Palmanova Città da Vivere”, il Palmanova Outlet Village e la Fondazione Aquileia. Si tratta di “un’operazione turistico-culturale che proporrà, per i mesi di giugno e luglio, ogni martedì, un tour culturale-esperienziale. Si parte la mattina in pullman da Grado per arrivare nella città stellata dove si ammireranno Piazza Grande, Borgo Cividale, la Fortezza e le fortificazioni. Nel pomeriggio una visita ai siti archeologici della città di Aquileia, quindi il ritorno a Grado. Tutto totalmente gratuito. Alle guide che accompagneranno le comitive provvederà il Comune, al pullman l’Outlet. Ma non è tutto.
Il tour-culturale-esperienziale prevede altro. “Alle 12.30 partenza per il Palmanova Outlet Village dove la struttura metterà a disposizione dei turisti un menù a prezzo agevolato/convenzionato in uno o più ristoranti”. Poi, fino alle 16 “i clienti potranno fare visita agli store dello shopping center friulano, beneficiando di particolari sconti grazie alla carta fedeltà”. Così il pacchetto è pronto. Già, perché, nonostante i toni entusiastici del sindaco di Palmanova, del direttore dell’Outlet e di quello della Fondazione Aquileia, un dubbio rimane. Più che legittimo.
E’ proprio sicuro che il “Palmanova shuttle” valorizzi il patrimonio culturale di quella provincia? L’impressione è che piuttosto di un viaggio attraverso il patrimonio culturale di Grado, Palmanova e Aquileia sia una di quelle gite a prezzi stracciati che qualche anno fa andavano di gran moda. Con poca spesa si andava in pullman in varie località italiane. Anche in quelle occasione era prevista una sosta. Per l’acquisto di set completi di pentole, articoli per la casa o enciclopedie. Anche in quelle occasioni era previsto il pranzo. Tutto compreso, allora come ora.
Qualcuno penserà che si tratti di snobismo elitario. In realtà si tratta di qualcosa di molto diverso. Soprattutto più democratico. Il timore che le visite ai monumenti si possano trasformare in viaggi organizzati. Per fare shopping all’outlet di zona.
Venduta gratis come Vetrina del "sistema veneto" (esposizioni di automobili sul Canal Grande, decantate dai giornali di ieri) alla trasformazione delle isole, storicamente adibite a spazi e attrezzature comuni) in recinti riservati ai ricchissimi: questo diventa Venezia nell'indifferenza dei suoi abitanti.
Italia Nostra Venezia on line
SANTA CRISTINA,
L'ISOLA EX INCANTATA
La bella isola di Santa Cristina, dietro Burano e dietro Torcello, è da sempre meta di escursioni a remi, a vela al terzo, poi a motore, da parte dei veneziani. Un angolo tranquillissimo di natura veramente lagunare. Troppo bello e troppo lagunare per rimanere a lungo ignorato. Ecco infatti una grande compagnia alberghiera che se n’è accorta. Per 17 mila euro una coppia potrà dimorarci per tre giorni (più altri due in un altro albergo), disturbata solo dalla vista delle “pittoresche” vele colorate dei diportisti locali e da qualche indigeno che laggiù in fondo sta raccogliendo caparossoli o vongole filippine.
L’articolo della Nuova Venezia che riportiamo ricostruisce concisamente ma efficacemente la secolare storia dell’isola. Speriamo soltanto che l’atmosfera incantata dell’insieme sia sufficiente per spingere i piloti di lance e taxi in servizio per l’albergo a moderare la velocità, a far quasi tacere i motori, a non emettere troppi fumi, a non far fuggire tutte le garzette (come sono fuggite dagli alberi in riva alle Vignole, dal Lazzaretto Nuovo, da Sant’Erasmo…).
postilletta
Sembra che Italia nostra si accontenti di poco.
La Nuova Venezia
AMAN, UN RESORT DI LUSSO
NELL'ISOLA DI SANTA CRISTINA
Soggiorno vip: 5 notti a 17 mila euro
Venezia. Anche la piccola isola di SantaCristina, nella laguna nord, diventa ora un resort di lusso “agganciato” all’hotel Aman, il 6 stelle veneziano ricavato sul Canal Grande all’interno di Palazzo Papadopoli - già sede del Provveditorato agli Studi - e dove si sono tra l’altro sposati George Clooney e Amal Alamuddin.
Santa Cristina un tempo era conosciuta come San Marco per via di una chiesa con un monastero di benedettine fondati qui dai Falier (VII secolo). Il nome fu mutato nel 1325, quando vi furono collocate le reliquie dell’omonima santa dopo essere state trafugate da Costantinopoli. Nel 1340, viste le difficoltose condizioni ambientali, alla maggior parte delle monache fu concesso di trasferirsi a Murano. Il complesso continuò in qualche modo a funzionare sino al 1452, dopo che anche l'ultima monaca rimasta, la badessa Filippa Condulmer, passò a Sant’Antonio di Torcello.
Le reliquie di Santa Cristina furono pure portate a Torcello, ma in seguito passarono a San Francesco della Vigna dove riposano tuttora. L’isola fu dunque abitata da alcune famiglie di contadini che la sfruttarono come terreno agricolo.Abbandonata dagli anni Trenta del secolo, l’isola è stata recuperata solo di recente, quando un privato, appartenente alla famiglia Swarovski, l’ha acquistata costruendovi un villino con giardini, orti e valli da pesca. Ora Santa Cristina diventa anche una “dependance” di lusso dell’hotel Aman. Settantacinque acri di aree di pesca biologiche, frutteti e vigneti sono incoronati da una grande villa, con piscina circondata da un deck in legno e vari gazebo, oltre a una altana sul tetto che offre viste panoramiche su un lago privato. Una cappella privata si affaccia su un boschetto abitato da pavoni selvatici, sopra il quale volteggiano uccelli marini. Proposto un soggiorno di cinque giorni - tre notti all’Aman e due a Santa Cristina - a 17 mila 800 euro (+ Iva) per coppia.
«La Regione Calabria finanzia uno scalo fra la Riviera dei Cedri e la costa di Maratea. Italia Nostra e Legambiente presentano una denuncia al Ministero dell’Ambiente: “Non potrà mai funzionare, è rischioso e contro le leggi». la Repubblica online, 22 marzo 2017 (p.s.)
Scalea. Politici e imprenditori da mesi non parlano d’altro: “Costruiremo strade e alberghi. Villaggi turistici e stabilimenti balneari. Grazie al nuovo aeroporto porteremo i turisti di tutto il mondo nelle nostre meraviglie”, dicono. Ed effettivamente non hanno tutti i torti: perché chi mai atterrerà a Scalea, Calabria, un passo dalla Riviera dei Cedri e dalla costa di Maratea, lo farà proprio all’interno di una di quelle meraviglie, il letto del fiume Lao, dove da quasi un anno stanno realizzando la nuova aerostazione.
Per crederci basta guardare le foto dall’alto che Italia Nostra e Legambiente hanno scattato e inviato all’autorità giudiziaria, alla Regione e al Ministero dell’Ambiente per denunciare «l’assurdità di questo aeroporto che non potrà mai funzionare, è contro ogni legge e mette tutti a rischio: serve soltanto per far guadagnare soldi pubblici a imprenditori e non solo», spiega Renato Bruno, consigliere comunale del Movimento 5 Stelle che da mesi sta conducendo una battaglia contro la realizzazione dello scalo.
Le parole di Bruno non sono casuali. Perché due milioni di soldi pubblici sono già stati spesi, lo scalo chissà se mai aprirà ma certamente qualcuno ci ha già guadagnato: la ‘ndrangheta. Un’ultima inchiesta della procura Distrettuale antimafia di Catanzaro ha documentato come Luigi Muto, figlio del boss Franco, pretendeva una tangente dello 0,7 per cento del finanziamento pubblico intascato dal gruppo Barbieri. E - così per lo meno si evince dalle intercettazioni - Barbieri pagava.
Tant’è che in azienda si meravigliano del fatto che arrivi una seconda richiesta estorsiva: quando i dipendenti trovano una bottiglia piena di benzina e un accendino davanti al cantiere prima provano a non fare la denuncia («Queste sono cose di cui mi occupo io e basta!! Non se ne deve occupare nessun altro, sono cose che faccio io!!...perché io ce sono da cinquant'anni in questa cazzo di terra e sono cazzi miei queste cose qua, ok??!..» grida Barbieri al socio che premeva per installare la videosorveglianza al cantiere), e poi costretti dal passaparola portano una copia della denuncia proprio al boss, per dimostrare che era contro ignoti.
Ora al di là dell’interesse della ‘ndrangheta per l’opera, resta da capire se davvero un aeroporto in un fiume potrà mai aprire. La questione, come sempre in questi casi, da un punto di vista burocratico è assai complessa. La pista (lunga poco meno di duce chilometri e larga 30) è stata realizzata nel 2001 quando è stata creata l’aviosuperficie che fino a qui ha ospitato aerei leggeri o al massimo scuole di paracadutismo. Qualche tempo fa si decide però di fare il salto di qualità: utilizzando i fondi europei viene appaltato in project financing la realizzazione di un vero e proprio aeroporto.
Il pubblico mette sul piatto due milioni di euro, il privato ne promette circa cinque e in cambio intasca la gestione dello scalo per i prossimi 25 anni. «Faremo decollare charter turistici e compagnie aeree regionali, atterreranno aerei anche con 200 persone» spiegano dalla ditta Barbieri che ha vinto il bando. Un anno fa partono i lavori per realizzare terminal, strade, in attesa di ottenere dall’Enac, l’ente nazionale civile, le abilitazioni per fare atterrare un certo tipo di aerei. Arriveranno mai? «Certamente» dicono dall’azienda. «Sarebbe una follia» incalzano gli ambientalisti. «Secondo l’autorità di Bacino» denuncia il presidente regionale di Legambiente, Francesco Falcone, «si tratta di un’area soggetta ad alluvione e quindi in grado di dare problemi all’incolumità delle persone».
«E’ una zona naturale di interesse comunitario, tutelata da Bruxelles, con l’erosione del suolo richia di mangiarsi tutto» dicono quelli di Italia nostra.«Si sta creando un caso sul nulla» rispende però l’ingegner Alberto Ortolani, amministratore delegato della società Aeroporto di Scalea. «Non c’è nessun pericolo idrogeologico, il fiume ha la giusta distanza, la autorizzazioni sono a posto dal 2001 quando fu creata l’aviosuperficie, ora stiamo realizzando soltanto le infrastrutture attorno» Ma ci sarà una differenza se fare atterrare un superleggero o un charter? «No», dice Ortolani. Una posizione che non convince tanto ambientalisti, 5 Stelle e ora anche ministero dell’Ambiente che, dopo la denuncia di Italia Nostra, ha chiesto chiarimenti alla Regione Calabria dando di fatto una sorta di stop ai lavori.
«Ci sono dei ritardi, è vero, difficilmente si farà tutto entro il 2017 quando era previsto. Ma stiamo lavorando, il via libera dell'Enac è soltanto una formalità, ce la faremo» giura Ortolani, battezzando così il primo aeroporto anfibio del mondo.
La Nuova Venezia, 22 marzo 2017 (m.p.r.) con riferimenti
Vicenza. Nuovo blitz degli ambientalisti a Borgo Berga, il “mostro” urbanistico costruito sull’area ex Cotorossi a Vicenza, alla confluenza dei fiumi Bacchiglione e Retrone e all’ombra delle ville palladiane. Un gigante di cemento che rischia di trascinare nel fango anche il tribunale costruito proprio su quell’area, ora al centro di un’inchiesta: domani, il tribunale del riesame si dovrà pronunciare sulla richiesta di sequestro dell’area, che il gip ha bocciato. Proprio per questo ieri attivisti del gruppo “Vicenza si solleva” si sono barricati nella gru che svetta nel complesso residenziale a pochi passi dalla Rotonda. Altri invece si sono incatenati all'interno del cantiere per bloccare i lavori nel mirino della procura, la quale ha chiesto il sequestro dell'area per presunti abusi edilizi.
Quello di ieri è solo l'ultimo di una serie di raid che “Vicenza si solleva” ha compiuto nell’area in cui sorgono il nuovo tribunale, un supermercato, palestra, negozi e appartamenti. La presenza di manifestanti dentro l’area è stata confermata dalla polizia, presente con due pattuglie e con i dirigenti della Digos, che identificheranno i manifestanti. Da quanto si è appreso, i responsabili della società “Cotorossi” proprietaria dell'area, non hanno richiesto lo sgombero del cantiere. Sulla vicenda ha preso posizione il senatore Enrico Cappelletti (M5S): «Alcuni cittadini hanno manifestato all'interno dei cantieri di Borgo Berga per bloccare i lavori, cosa che avrebbe dovuto fare la politica vicentina che invece si è dimostrata totalmente incapace di fermare la più grande speculazione edilizia mai realizzatasi nella città di Vicenza. E' assurdo come si sia consentita una cementificazione. Ci siamo battuti per anni assieme a numerosi comitati di cittadini ed associazioni perché venisse detta una parola di verità sulle numerose irregolarità che hanno connotato la realizzazione di questo autentico sfregio alla città. L’amministrazione se ne deve assumere tutta la responsabilità» continua il senatore M5S.
«Ora grazie al lavoro della Procura abbiamo la ragionevole certezza che l'opera sia abusiva, realizzata in violazione delle distanze dai corsi d’acqua, dei vincoli storico-architettonici, delle norme sugli appalti, e dell’obbligo della valutazione ambientale. Sappiamo che oltre alla devastazione del territorio e al rischio idrogeologico vi sono stati danni milionari al Comune derivanti dalle cessioni di terreni pubblici e dalla costruzione delle opere di urbanizzazione. Ci auguriamo che l'amministrazione prenda finalmente le misure necessarie per porre fine a questo scempio ed avviare le procedure di demolizione» conclude il senatore Enrico Cappelletti.
Ampia analisi dei problemi che pongono a Firenze e ai suoi cittadini il turismo sregolato di massa e la svendita della città al turismo "ricco". la città invisibile, 21 marzo 2017 (c.m.c.)
«Il testo è la trascrizione dell’intervento al convegno promosso dall’Assemblea dei Comitati Fiorentini e dalla ReTe dei Comitati per la Difesa del Territorio, Città pubblica vs città oligarchica. Vita immaginata e desiderata, politica subìta, Firenze»
La riflessione che segue tenta di dare delle prime risposte, certamente molto perfettibili, a tre domande fondamentali:quali sono le caratteristiche quantitative e qualitative del turismo a Firenze, chi ne trae i benefici e chi ne paga i costi, tenendo conto che l’impatto del turismo sulla vita dei cittadini varia in ragione dell’età e del luogo di residenza; quali sono alcuni caratteri peculiari della popolazione residente e come sono distribuiti nelle varie parte delle città; infine; quali politiche potrebbero o dovrebbero essere attuate per migliorare la qualità dei vita dei fiorentini (e anche dei turisti-ospiti).
Turismo
Quanti sono i turisti che vengono a Firenze?
Nel 2015 sono stati registrate ufficialmente oltre 9.200.000 presenze, con quasi 7 milioni di stranieri, mediamente di oltre 25.000 unità giornaliere. La spesa annuale delle sole presenze registrate è superiore a 1 miliardo e 200 milioni [1] ed è interessante chiedersi dove va a finire questo fiume di denaro, quante tasse siano pagate e quanto torni alla città, di fronte ai costi diretti dei servizi forniti ai turisti e a quelli indiretti legati all’uso della città.
Tuttavia questi dati sottostimano l’impatto turistico, perché non sono conteggiate né le presenze in nero degli affittacamere che lavorano con Airbnb o Homelidays, né il turismo “mordi e fuggi” che arriva a Firenze con i pullman. Inoltre, la distribuzione delle presenze turistiche varia stagionalmente e in certi periodi può superare le 50.000 unità, una popolazione dello stesso ordine di grandezza dei residenti nel Quartiere 1 (67.000 abitanti), ma concentrata sul quadrilatero centrale, quello che va da Piazza del Duomo ai Lungarni e da via Verdi a via Tornabuoni, con un’appendice Oltrarno. Le conseguenze sono note.
La prima è una progressiva desertificazione delle attività al servizio dei residenti, i negozi della “quotidianità”, sostituiti da negozi di lusso e comunque rivolti alla domanda turistica nell’area più centrale e una proliferazione pervasiva della somministrazione di cibo e bevande con l’occupazione dello spazio pubblico da parte dei dehors e la conseguente movida nelle aree circostanti: secondo stime di Confcommercio, negli ultimi 25 anni hanno chiuso oltre 30 mila attività legate alle tradizioni [2].
La seconda è una torsione del mercato immobiliare a favore degli affitti brevi a visitatori stranieri; ne segue che, come a Venezia, una parte consistente del patrimonio immobiliare è destinata a una domanda “ricca” cui non possono competere né i fiorentini, né altri tipi di utenti più deboli, come gli studenti universitari che costituiscono una popolazione considerevolmente numerosa e sicuramente una linfa vitale per la città: sono circa 50.000, di cui il 30% fuori sede (15.000).
In sintesi, tutto il mercato immobiliare, sotto la spinta dell’amministrazione fiorentina, si sta orientando verso il lusso e i clienti ricchi, mentre ci si dimentica del disagio abitativo che interessa gli strati più deboli della popolazione, né viene messa in cantiere alcune azione concreta per colmare il gap tra richiesta ed offerta di edilizia sociale; quest’ultima relegata come contentino per rendere accettabili presso l’opinione pubblica le operazioni speculative.
I cittadini di Firenze
Il turismo affidato solo al mercato è certamente una causa del deterioramento della vivibilità della città, sia da un punto di vista strutturale, per le distorsioni nel mercato immobiliare, degli affitti e dell’offerta commerciale, sia dal punto di vista della quotidianità, per l’occupazione e l’uso dello spazio pubblico.
Ma chi sono i fiorentini, accettando in prima approssimazione di identificarli con i residenti a Firenze? E quali sono i punti di maggiore attrito con i flussi turistici che ormai raddoppiano la popolazione nell’area centrale? Infine, quali sono le politiche per migliorare la qualità di vita dei fiorentini, ora paradossalmente sempre più estranei alla loro città?
La prima considerazione è che le politiche urbane non agiscono indifferentemente sulle varie fasce di età (oltreché reddituali, ma non abbiamo dati a questo proposito). Ciò che può essere gradito ai giovani (la movida, ad esempio) può essere estremamente fastidioso per gli anziani; la domanda di mobilità e l’uso dei mezzi di trasporto possono essere altrettanto diversificati tra ragazzi, giovani, classi centrali e classi anziane.
L’età è quindi un fattore fondamentale per l’orientamento e il gradimento delle politiche urbane. Come è distribuita da questo punto di vista la popolazione fiorentina?
I dati aggiornati al 2016 ci mostrano una popolazione fiorentina molto più anziana (65 anni e oltre) della media nazionale (il 26% contro il 21% della popolazione italiana), con un indice di vecchiaia pari a 213 punti contro una media nazionale di 161 punti. Significa che per ogni fiorentino nell’età da 0 a 14 anni vi è un numero più che doppio di ultra sessantaquattrenni. Da notare che la distribuzione della popolazione per fasce di età non è omogenea per quartiere: gli indici di vecchiaia variano da quartiere a quartiere con un massimo nei Quartieri 2 (Campo di Marte) e 3 (Gavinana-Galluzzo), per scendere leggermente nel Quartiere 4 (Isolotto Legnaia) un po’ più marcatamente nel Quartiere 5 (Statuto -Novoli), mentre la popolazione è decisamente più giovane nel Quartiere 1 (centro storico) e ha perciò anche un indice di dipendenza molto più basso (circa il 50%, mentre negli altri quartieri si attesta tra il 61% e il 68%)
Questo dato è interessante e dipende dal fatto che la classe degli ultra sessantaquattrenni nel centro storico è meno numerosa rispetto al resto della città, in particolare i quartieri 2 e 3, ciò che non può che essere dovuto a un deflusso della popolazione più vecchia e più debole a favore dell’affitto agli stranieri o dei cambi di destinazione. Analogo è l’andamento dell’indice di dipendenza strutturale. Sulla composizione demografica sicuramente hanno avuto un peso i movimenti migratori, soprattutto provenienti dall’estero.
Firenze, negli ultimi 14 anni ha contato 223.586 immigrati contro 156.692 emigrati, con una componente straniera di oltre 63.000 unità e un numero complessivo di residenti a Firenze nati all’estero pari a 67.115 unità. In sintesi il 18% della popolazione residente a Firenze è nata all’estero e si concentra soprattutto nel centro storico, dove è un quinto della popolazione residente (nel Quartiere 1). Riassumendo: la popolazione residente a Firenze è molto più anziana rispetto alla media nazionale e non è distribuita in modo omogeneo nei diversi quartieri. Il centro storico ha subito un processo di ringiovanimento per effetto dell’immigrazione dall’estero e dell’allontanamento o la non sostituzione della popolazione anziana. Un sesto della popolazione fiorentina è costituita da immigrati dall’estero, con una distribuzione non uniforme per quartiere.
La città attuale
Le politiche del Comune di Firenze nell’ultimo decennio, non hanno tenuto in alcun modo, né della struttura demografica (quindi anche sociale) della popolazione residente, né dei problemi di vivibilità che la pressione turistica creava sulla città. Non solo il turismo viene gestito dal mercato, ma l’amministrazione fiorentina ha seguito e incoraggiato il mercato in una tendenza evolutiva sempre più a favore della domanda ricca, conseguenza a sua volta di una distribuzione della ricchezza sempre più ineguale a livello mondiale.
Questo è avvenuto fondamentalmente in tre direzioni. La prima è stata quella di accentuare il ruolo di “salotto buono” del centro di Firenze, con la destinazione di risorse e con la pedonalizzazione dell’area più interna; pedonalizzazione [3] che (in assenza di una politica decente dei trasporti) ha spostato il traffico sulla cintura immediatamente circostante e in qualche strada “disgraziata”. Inoltre in alcune aree limitrofe si sono spostate attività lecite, ma fastidiose o illecite o “border line” come il gioco d’azzardo. Un esempio emblematico è la situazione di via del Palazzuolo descritta in modo molto puntuale ed efficace in uno scritto di Marta Baiardi che andrebbe riletto con attenzione: «Spaccio, risse, violenza, ludopatia, illegalità diffusa sono esperienza quotidiana di chi qui vive e lavora, con un restringimento di spazi di vivibilità per tutti e un abbassamento della qualità della vita inquietante».
La seconda direzione è quella della vendita effettuata o promossa dal Comune di immobili pubblici dismessi con Variante incorporata verso la destinazione di alberghi o residenze di lusso e in subordine, di attività commerciali sempre di lusso: un centro di Firenze tutto destinato al mercato più ricco. Vale a dire che via via che edifici e complessi pubblici vengono dismessi – si pensi al tribunale di Firenze, alla scuola militare di Costa San Giorgio, alla Manifattura Tabacchi, alle Murate, alle Poste centrali di Michelucci, al Panificio militare, ma vi sono decine di esempi – le nuove destinazioni sono scelte esclusivamente sulla base dei desiderata dell’eventuale compratore, cioè delle preferenze del mercato.
La terza direzione è complementare alla precedente e consiste un sostanziale abbandono delle periferie (che fine ha fatto il progetto concorso per 10 nuove piazze di Firenze e successivamente gli ulteriori concorsi, ad es. piazza dell’Isolotto?). Meno traffico in centro, più traffico nelle periferie, martoriate anche dalle linee della tramvia veloce progettate come binari e non come occasioni di riqualificazione dello spazio pubblico. Inoltre, la tramvia consente a una quota di pendolari di rinunciare all’uso dell’automobile (il 25% a seguito dell’entrata in esercizio della linea1, con una media giornaliera tra i 30.000 e i 40.000 passeggeri), ma non risponde alla domanda di spostamenti interni che ha bisogno di mezzi più distribuiti, più capillari e più flessibili.
Le vicende di Villa Fabbricotti potrebbero (lotteremo perché ciò non avvenga) essere esemplari di una politica che considera complessivamente la città come merce da vendere al migliore acquirente. Villa Fabbricotti, di proprietà della Regione e con destinazione a uso pubblico, è stata recentemente messa in vendita. L’iter è il solito: vendita alla Cassa Depositi e Prestiti e da questa a qualche investitore privato con Variante “a la carte” del Comune di Firenze. L’ipotesi non tanto peregrina è che il complesso sia trasformato in albergo o residenze di lusso e il parco venga privatizzato. Attualmente il parco ha un altissimo valore d’uso, perché utilizzato da centinaia di cittadini (e dai loro cani). Il cambio di destinazione farebbe crollare il valore d’uso – da molti a pochi utenti – mentre aumenterebbe in modo simmetricamente opposto il valore di scambio: quella che viene chiamata “valorizzazione” non è altro che la trasformazione del valore d’uso in valore di scambio, con qualche spicciolo di compensazione.
Questo è comunque l’iter seguito finora e che l’amministrazione di propone di proseguire. La radice è di natura politica e prima ancora culturale, di chi non vede altra via di sviluppo se non quello immobiliare e infrastrutturale, nell’offerta di contenitori vuoti che non possono che essere riempiti dal mercato, vale a dire da investitori con orizzonti temporali e “opzionali” assai limitati, perché il circuito investimento-profitto deve essere più breve possibile. Perciò la risposta di un’opposizione che voglia diventare governo non può che essere prima di tutto culturale e politica. Questo convegno e un primo passo in questa direzione.
La città desiderata
Una città amica di anziani, donne e bambini
Una pianificazione urbanistica attenta ai mutamenti sociali e demografici dovrebbe tenere conto di tutto ciò, sia nelle scelte infrastrutturali, sia nelle politiche della casa e dei servizi, sia nell’organizzazione dello spazio pubblico (v. punto seguente).
Un primo fattore di cui tenere conto è che invecchiando sempre meno si usa l’automobile individuale, a maggior ragione nel congestionato traffico della città, sempre si più amano gli spostamenti a piedi o in bicicletta (otre che con un efficiente trasporto pubblico). Il modello urbanistico fatto di grandi attrattori decentrati, in primis i centri commerciali raggiungibili solo con mezzi di trasporto privati e, in generale, un sistema di spostamenti da casa basati sull’automobile, non solo consolida le fonti di inquinamento, ma è obsoleto perché basato sulla struttura demografica tipica degli anni ’60, fatta di famiglia giovani con figli numerosi, mentre nel 2016 a Firenze la famiglia media è costituita da due persone.
A distanza di 50 anni, l’idea di crivellare la città con parcheggi sotterranei, oltre a quanto si è accennato in precedenza, si rivela una scelta non a favore degli abitanti ma degli interessi immobiliari – salvo casi particolari – e rende permanente il traffico attorno alle aree pedonalizzate. Significa fin da ora rinunciare a una prospettiva, non certo immediata ma possibile, di una città sempre più libera dalle automobili e dal traffico.
Un secondo ordine di considerazioni riguarda la popolazione più giovane. Fino a dieci anni fa vi era in alcune città italiane (non a Firenze) una certa attenzione alle problematiche della “città dei bambini” e in alcuni casi le buone intenzioni sono state tradotte in esperienze concrete. Non deve stupire che una città amichevole e fruibile dai bambini sia anche particolarmente adatta per le persone anziane (spesso le due figure si accompagnano, quando i genitori sono al lavoro). Le implicazioni sociali e urbanistiche sono da una parte un’estesa pedonalizzazione che renda sicuro e piacevole camminare in città, dall’altra una localizzazione di servizi e di attività commerciali che sia ben distribuita e che non implichi la necessità di spostamenti in macchine per gli acquisti o le prestazioni di servizio di tutti i giorni: il contrario della tendenziale (e in molte aree già attuata) desertificazione delle attività a supporto dell’abitare a favore di quelle rivolte al turismo.
E poiché sono spesso le donne che reggono sulle spalle l’assistenza agli anziani e la cura dei bambini, una città amichevole per entrambi è amichevole anche verso le donne, ne rende meno stressante la vita e forse, costituisce un incentivo alla natalità più che operazioni pubblicitarie o mance una tantum. Centrale, in questo recupero della città in favore dei bisogni e della qualità della vitta dei cittadini e il ruolo dello spazio pubblico sia da un punto di vista quantitativo che – soprattutto – qualitativo.
Una città che recupera ed estende lo spazio pubblico
Lo spazio pubblico di Firenze è il risultato di una grande costruzione collettiva durata vari secoli e arricchita dalle generazioni che via via hanno abitato la città. Lo spazio pubblico costituisce la “struttura” della città che ne tiene insieme le varie parti, non solo collegandole funzionalmente, ma integrandole e arricchendole di edifici collettivi e monumenti. Caratteristiche precipue dello spazio pubblico, così come si è venuto configurando storicamente, sono la sua multifunzionalità (essendo contemporaneamente spazio economico, commerciale, religioso, politico), la sua “continuità”, rendendo permeabile e percorribile l’intera città, la sua gerarchizzazione, essendo le emergenze collegate e orientate verso il centro in modo da essere fruibili da tutti i cittadini: qualità tutte negate dalle trasformazioni degli ultimi decenni e neanche prese in considerazioni dalle politiche urbanistiche più recenti che, invece, favoriscono consapevolmente la privatizzazione dello spazio collettivo.
Una politica di ricupero e valorizzazione dello spazio pubblico esistente e di costruzione dello spazio pubblico dove questo manca come nelle recenti periferie, implica una riduzione del traffico automobilistico e una conseguente pedonalizzazione della città, soprattutto nelle zone dove piazze e strade sono diventate parcheggi di superficie. Significa, in modo complementare, valorizzare gli spazi aperti residui nel tessuto urbano, anche quelli interni agli isolati (di cui l’amministrazione Domenici ha promosso colpevolmente la saturazione) recuperandoli all’uso pubblico, preferibilmente come giardini o spazi naturali. L’obiettivo finale è una città “permeabile”, dotata di uno spazio pubblico continuo, fatto non solo di piazze, parchi e giardini, ma anche di spazi minori, più intimamente legati al quartiere in cui sono collocati, fruibile a piedi o in bicicletta per mezzo di una rete di percorsi protetti e dove possibile, indipendenti da quelli destinati al traffico motorizzato. La costruzione delle linee della tramvia veloce era un’ottima occasione per integrarne la progettazione con quella dello spazio circostante, promuovendo, come è accaduto in Francia in analoghe circostanze, un’ampia ristrutturazione della città dove questa è particolarmente carente di spazi di socializzazione.
Un’occasione non solo persa, ma neanche presa in considerazione dall’amministrazione fiorentina, dove tutto viene progettato e gestito in modo settoriale e scoordinato. Una politica di (ri)costruzione dello spazio pubblico implica un’estesa e effettiva partecipazione di cittadini alle scelte urbanistiche a monte e una progettazione condivisa e contestuale delle infrastrutture di supporto. La partecipazione promossa dall’amministrazione fiorentina è stata finora solo la ricerca di consenso su opere già decise o un inutile esercizio perché le proposte dei cittadini e associazioni non sono state prese in considerazione, né hanno lasciato traccia nelle successive politiche. Inutili concorsi hanno solo rappresentato uno spreco di risorse (come quello per la creazione di una serie di piazze periferiche, mai realizzate, sotto l’ironica etichetta di “progettare insieme”).
Un’idea di città e il ruolo di Firenze. Il Sindaco La Pira pensava a un ruolo di Firenze come ambasciatrice della pace nel mondo. A prescindere dai contenuti utopici della proposta, La Pira aveva compreso che la fama di Firenze, il suo prestigio artistico e culturale, offrivano alla città la chance di ritagliarsi un ruolo di livello internazionale e che la sua attrattività poteva essere una carta da giocare per obiettivi più “alti” dello sfruttamento banale del turismo. Nel periodo che ha separato gli anni ’60 dai nostri giorni, una proposta innovativa e intelligente sul ruolo di Firenze è venuta negli anni ’80, durante l’amministrazione Bogianckino, da Giacomo Becattini, economista di grande caratura, che ha sostenuto, in varie occasioni e con ampie argomentazioni, la grande opportunità della città di diventare un laboratorio culturale di livello mondiale.
Da una parte, si proponeva di mettere in rete e potenziare le numerose istituzioni culturali, pubbliche e private, operanti a Firenze, come dipartimenti universitari italiani e stranieri, musei, centri di ricerca, opifici, biblioteche, gallerie, per creare un sistema collaborativo e aperto (si noti che senza internet, all’epoca l’impresa era molto più ardua di quanto possa essere adesso).
Dall’altra si trattava di riconvertire, almeno parzialmente il turismo di massa, che doveva essere gestito e rieducato, in un turismo “stanziale” di studio e di ricerca, cui avrebbero potuto contribuire anche imprese multinazionali in cerca di sedi fiorentine gradite ai loro quadri tecnici e dirigenziali. Patrimonio culturale, qualità della vita urbana, bellezza delle architetture e del paesaggio, potevano costituire la base sinergica e “strutturale” su cui progettare un nuovo e importante ruolo culturale e scientifico di Firenze.
Questa proposta, accolta inizialmente con favore, ma solo a parole, dalle forze politiche, è stata completamente dimenticata; di più: nessuna proposta alternativa, nessun disegno di pari livello è stata fatta negli ultimi trenta anni e l’argomento è stato abbandonato. Ne sono prova le ultime campagne elettorali, dove gli obiettivi proposti ai cittadini sono la realizzazione di infrastrutture come uniche produttrici di reddito e di occupazione e come se non esistessero altre chances e altre opportunità. Di nuovo gli strumenti, in questo caso le grandi opere, sono proposte quali finalità ultime, indipendentemente dal fatto che siano utili o meno. Nessun disegno complessivo per Firenze, i cui destini sono lasciati al mercato, di cui il Sindaco stesso è diventato promotore e facilitatore.
Il disegno di Firenze come grande laboratorio culturale aperto al mondo non ha perso la sua validità e potrebbe guidare le destinazioni da assegnare agli edifici dismessi in un disegno organico, a seconda delle obiettive opportunità urbanistiche, come l’accessibilità, le possibilità di integrazione con altre attività, lo stato dei luoghi, il tessuto sociale in cui si inseriscono. Perciò una importante rivendicazione da avanzare è la richiesta di un disegno organico e innovativo per una Firenze che diventi luogo di ospitalità per un turismo colto, di studio e ricerca, oltre che di affari e di convegnistica.
Le varie opportunità si integrano e possono benissimo mettere d’accordo interessi pubblici e privati, senza la distruzione del tessuto sociale e fisico della città.
Note al testo
[1] Distribuiti alla popolazione fiorentina equivarrebbero a 3.200 euro pro-capite.
[2] Spiega Aldo Cursano, presidente toscano Federazione pubblici esercizi: «Ha retto soltanto il dieci per cento delle botteghe storiche». Uno stillicidio. Una città sempre più a misura di visitatore, poco attenta ai residenti. «Prima, uscendo di casa, salutavo tutti, e tutti salutavano me — racconta un ex residente —, oggi invece non conosco più nessuno e se ho bisogno di una mano, nessuno mi aiuta».
[3] Il cuore di Firenze, dopo che l’allora sindaco Renzi decise a sorpresa di pedonalizzare piazza Duomo e cancellare il contestato passaggio della linea 2 accanto al Battistero, dal 2009 è rimasto senza un servizio di trasporto pubblico forte.
». il manifesto, 22 marzo 2017 (c.m.c.)
Frutto del generale decadimento culturale, stiamo assistendo a una progressiva banalizzazione del ruolo delle aree protette, considerate a volte semplici agenzie di sviluppo locale, a volte nuovi enti intermedi da amministrare secondo le logiche della politica locale.
Si rischia così di annullare il loro autentico ruolo che è quello di esprimere e di tradurre in concreto una visione alta dei problemi che riguardano il territorio e la conservazione della natura.
Il rischio è ormai prossimo. È in corso in un Parlamento distratto, e con un’opinione pubblica ignara, un processo diretto a modificare l’attuale ottima legge-quadro (la 394 del 1991) che rappresenta una vera e propria controriforma. Siamo alle battute finali: in questi giorni la Commissione ambiente della Camera ha votato gli emendamenti a un pessimo disegno di legge approvato a novembre dal Senato e certo non lo ha migliorato; la discussione in Aula è già stata calendarizzata per il 27 marzo; dopo di che la proposta tornerà al Senato per il probabile voto finale.
Fortissima è l’opposizione del movimento ambientalista che in questi mesi proprio su tale questione ha ritrovato l’unità: grazie al “Gruppo dei Trenta”, che è riuscito a interrompere una posizione troppo attendista, e alla determinazione di due donne, le presidenti del WWF e di Legambiente, ben 16 associazioni ambientaliste stanno lottando contro questa controriforma. Sollecitate dall’apparente interesse e dalle richieste del presidente della Commissione Realacci e dal relatore Borghi, hanno anche presentato precise proposte con due rivendicazioni centrali: organi di governo dei parchi nazionali qualificati; pari dignità tra parchi nazionali e aree marine protette, perché queste costituiscono l’anello debole del sistema.
Nessuna delle proposte più significative è stata accolta e per di più il presidente ha impresso una forte accelerazione al processo nell’evidente intento di chiudere ogni discussione, creando oltre tutto grave imbarazzo in quella parte del movimento (Legambiente) che a lui fa riferimento.
Eppure le critiche delle associazioni sono più che fondate. La proposta, pur se contiene alcune misure positive, cancella proprio gli ingredienti che hanno decretato il successo della legge-quadro e che riguardano i parchi nazionali: sapiente dosaggio tra interessi nazionali e interessi locali, significativa presenza della rappresentanza scientifica, effettiva partecipazione delle comunità locali. Ma ciò che appare più grave è proprio l’assoluta dequalificazione degli organi di governo: il presidente è sufficiente che sia un soggetto di generica «comprovata esperienza nelle istituzioni o nelle professioni»; per il consiglio direttivo, fino a oggi composto dai rappresentanti degli interessi generali, si prevede, per un verso, l’ingresso delle organizzazioni professionali degli agricoltori e dei pescatori , cioè degli interessi corporativi, e, per altro verso, l’esclusione del mondo scientifico.
Certo, la proposta prevede il possibile inserimento di un rappresentante delle «associazioni scientifiche maggiormente rappresentative», ma tale previsione tradisce ipocrisia e incultura: infatti quel rappresentante è inserito in alternativa all’Ispra, che istituto scientifico non è; la scelta è frutto non dell’autonoma designazione del mondo scientifico (Accademia dei Lincei.
Università, Cnr), come era stabilito originariamente dalla legge-quadro, ma della diretta indicazione del ministro dell’ambiente; e soprattutto la proposta dimostra scarsa consapevolezza, se non disprezzo, del ruolo della scienza della quale offre, con il riferimento a un’impossibile maggiore rappresentatività, una concezione di tipo “politico-sindacale”. Viene così mortificato quel mondo che ha illustrato la storia oramai secolare dei parchi nazionali italiani e il cui contributo oggi diventa necessario perché i problemi della gestione del territorio e della conservazione della natura esigono sempre di più un approccio autenticamente scientifico, fondato cioè sul principio dell’autonomia.
Completano questo degrado le norme sul direttore, nominato a seguito di selezione pubblica. I titoli sufficienti per partecipare alla selezione sono la laurea in una qualsiasi disciplina nonché una «particolare qualificazione professionale» e una «comprovata esperienza di tipo gestionale», espressioni queste insignificanti; non si richiedono altri titoli né esami. Se poi si considera che viene selezionata una terna e non un vincitore, che la commissione valutatrice è scelta per due terzi dal consiglio direttivo e che la nomina compete al presidente del parco, diventa ovvia la conclusione: se la proposta verrà approvata i Parchi nazionali saranno gestiti esclusivamente in base alle scelte e ai condizionamenti imposti dalla politica locale.
Trapela da queste norme un’aberrante visione confermata dalla soppressione, nascosta nelle pieghe dell’articolato, della Carta della natura: viene così rovesciato il significato delle aree naturali protette, tradita la centralità della natura, alterato il sistema di valori che in tutto il pianeta è alla base della istituzione e della diffusione dei parchi nazionali.
Ha ragione Vittorio Emiliani quando nel suo appello al presidente Gentiloni scrive: «Ciò che non riuscì ad Altero Matteoli e a Stefania Prestigiacomo sta riuscendo al Pd e al governo».