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Emergenza Cultura online, 19 Aprile 2017 (c.m.c)

L’elezione di Venzone, in Friuli, a borgo più bello d’Italia è una potente iniezione di fiducia in noi stessi. Chi oggi ha meno di sessant’anni forse non sa che nel 1976 Venzone non esisteva più, raso al suolo da un terremoto. Dopo la terribile scossa del 6 maggio (che provocò 47 morti e gravi danni), ce ne fu una, fatale, il 15 settembre.

Poteva essere la fine di Venzone: c’era chi proponeva di ricostruirlo altrove, in forma moderna. E già dopo il 6 maggio le ruspe avevano inflitto danni irreparabili alle macerie degli edifici storici.

Ma lo shock di settembre provocò una straordinaria mobilitazione, culturale e civile: si costituì un Comitato di coordinamento per il recupero dei Beni culturali, e i cittadini chiesero di riavere Venzone «com’era e dov’era». E così fu: il sindaco requisì l’intero centro storico, che fu ricostruito come un unico organismo, un’unica opera pubblica. Il Duomo fu ritirato su con le sue stesse pietre, ricollocate ad una ad una, lasciando bene in vista i segni della devastazione.

Il libro che, meglio di ogni altro, racconta questa storia è “Le pietre dello scandalo”, scritto a più mani, uscito nel 1980 in una collana diretta da Corrado Stajano e nato «dalla convinzione, o dalla speranza, che il tentativo di salvare, per quanto era possibile, l’identità del Friuli distrutto dai terremoti del 1976, la lotta condotta per difendere da un’altra violenza, quella delle ruspe, beni che non andavano annientati, il lavoro fatto per impedire in particolare la cancellazione del centro storico di Venzone, svolto da un gruppo di volontari, possa servire come chiave di lettura non solo di quanto avviene nell’Italia dei terremoti, delle frane, delle alluvioni, della speculazione proterva, ma anche di quanto, in condizioni di “normalità”, dovrebbe essere cambiato per una reale salvaguardia del patrimonio storico-artistico italiano».

La scelta di Venzone come borgo più bello d’Italia dimostra oggi che non si trattava di un’utopia, ma di un progetto che potrebbe essere esteso a tutta l’Italia. Una lezione terribilmente attuale: visto che non decolla ancora, nel cratere dell’Italia centrale, la ricostruzione degli edifici storici.

A tutt’oggi i cantieri riguardano non più del 20 per cento di un patrimonio culturale che non riesce ad essere soccorso da «un ministero dei Beni culturali drammaticamente sprovvisto di mezzi e di persone. Al di là della facile propaganda e delle narrazioni rassicuranti, sono i crolli stessi degli edifici, uno dopo l’altro, a raccontare un’altra storia» (sono parole dello storico dell’arte Andrea De Marchi).

I cittadini di Amatrice hanno scritto un’accorata lettera aperta in cui denunciano che «stiamo perdendo, come Italiani, un pezzo della nostra storia, stiamo perdendo un pezzo dell’Italia». Eppure sarebbe possibile salvarlo: facendo come a Venzone. Così che, tra quarant’anni, il borgo più bello d’Italia possa essere uno di quelli che oggi è raso al suolo. Non è impossibile, dipende solo da noi.

Lo scandalo infinito. Ma al di lò del fiume di soldi finiti nel troiaio della corruzione, amcor più grande lo scandalo dell'oceano di soldi dissipato per un'opera inutile e dannosa. L'Espresso, 17 aprile 2017

Dopo le dimissioni il commissario straordinario Magistro si confessa con l'Espresso. E svela il sistema delle dighe mobili: costi aggiuntivi, finanziamenti in ritardo e un processo penale che ha colpito solo la punta dell'iceberg. Risultato? L'inaugurazione slitta almeno a fine 2021

Luigi Magistro, commissario governativo uscente del Consorzio Venezia Nuova (Cvn), ha tre costole rotte per una brutta caduta. Non c’è molto da fare. Si aggiustano da sole. Nel frattempo, sono dolori. C’è un parallelismo parziale con quello che è stato il lavoro di Magistro negli ultimi due anni e quattro mesi. Anche il Mose presenta guasti e procura dolori. Ma non si aggiusta da solo. Ci vogliono interventi, saldature, sostituzioni. È chirurgia infrastrutturale di precisione e costa soldi. Chi li metterà?

Le imprese socie del Cvn, il Golem privato creato dai soldi pubblici che sta costruendo le dighe mobili a salvaguardia della laguna, non intendono provvedere di tasca propria. Lo Stato latita, paralizzato da due imperativi categorici opposti. Il primo dice: basta emorragie finanziarie in laguna. Il secondo, per dirla con Luciano Spalletti, è: famo ’sto Mose.

Mentre a Roma sfogliano la margherita, Magistro si è dimesso a fine marzo, come ha anticipato la Nuova Venezia. Nelle motivazioni ufficiali date dal commissario c’è scritto «motivi personali», una causale che copre parecchio terreno. Fatto sta che l’ex protagonista di Mani Pulite, colonnello della Finanza, direttore dei Monopoli di Stato e dell’Agenzia delle Entrate, 57 anni, ha quasi finito di lasciare le consegne agli altri due commissari straordinari del Consorzio: Francesco Ossola, docente al Politecnico di Torino, e Giuseppe Fiengo, avvocato dello Stato.

A quanto trapela da ambienti dell’Anticorruzione, guidata da Raffaele Cantone, Magistro non sarà sostituito. Accetta di parlare con L’Espresso a una condizione. «Non vorrei che ci fosse una lettura negativa della mia uscita», dice. «I miei due colleghi sono persone molto capaci e ho lavorato benissimo con loro».

Ma se Magistro ha lavorato bene, come ha fatto, è difficile dare una lettura positiva. Nella triade dei commissari era soprattutto lui quello che, per formazione e storia, doveva fermare la corsa dei costi provocata da anni di corruzione. Era il gatto che doveva impedire ai topi di ballare. La controprova è arrivata poche ore dopo le sue dimissioni quando le imprese del Cvn, composto dalla padovana Mantovani, dai romani del gruppo Mazzi e di Condotte e da piccole aziende locali, hanno chiesto allo Stato 366 milioni di costi aggiuntivi. Il motivo? Ritardi nei finanziamenti pubblici.

Non è l’unico contenzioso, tutt’altro. Le stesse imprese che, manager più manager meno, sono responsabili del disastro hanno avviato una decina di liti contro lo Stato e contro i rappresentanti del governo. E viceversa. Soltanto nell’ultimo bilancio, Magistro, Fiengo e Ossola hanno chiesto agli azionisti del Cvn oltre 100 milioni di danni per un lungo elenco di malversazioni, dalle fatture false utilizzate a scopi corruttivi ai 61 milioni di euro per i leggendari massi importati dall’Istria e pagati come pepite d’oro.

«Non so nemmeno io quante cause abbiamo in piedi», dice Magistro. « So che da quando sono commissario i soci del Cvn mi hanno impugnato tre bilanci su tre: 2014, 2015 e 2016. Con i tempi della giustizia italiana ci vorranno dieci anni per sapere se ho ragione io oppure loro. Bisogna chiedersi se questo tipo di intervento dello Stato, in un contesto in cui la funzione pubblica non ha una grande forza, sia efficiente. Una cosa è il commissariamento della Maltauro per l’Expo 2015, con un appalto da 42 milioni di euro che andava portato a termine in tempi rapidi per una manifestazione limitata nel tempo. Altra cosa è il Mose, un sistema enorme, con moltissime imprese e con una prospettiva di gestione a lungo termine».

Una squadra che si vendeva le partite

Cantone ha spiegato con efficacia la posizione del governo sulla vicenda delle dighe mobili a margine di un incontro tenuto a Vicenza che aveva come tema principale il lancio della Pedemontana veneta, un’autostrada da 3,1 miliardi di euro. Il numero uno dell’Anac, negando che ci siano stati contrasti dietro l’uscita di Magistro, ha sottolineato che la priorità è «fare ripartire il sistema» e «siglare un nuovo patto con le imprese». Non sarà semplice.

Magistro è entrato in carica a dicembre del 2014 dopo il commissariamento del Cvn voluto dal governo Renzi sull’onda dei 35 arresti di sei mesi prima e firmato dall’allora prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro.
Per avere un’idea di quello che è stato il suo lavoro e il suo ruolo bisogna immaginare un allenatore mandato a guidare una squadra di calcio che si vendeva le partite e che deve concludere a tutti i costi il campionato senza possibilità di cambiare formazione, mentre i giocatori fanno causa sia al mister sia a quello che ha messo i soldi: il contribuente, in questo caso.

Non pochi soldi, bisogna aggiungere. Il prezzo delle dighe mobili è arrivato a 5,493 miliardi di euro ma l’insieme delle opere deliberate per la salvaguardia della laguna veneta raggiunge quota 8 miliardi. Di questa somma, restano da investire ancora 500-600 milioni.

Il sistema delle dighe mobili è stato lanciato a fine anni Ottanta, durante la Prima Repubblica. Ma i soldi veri sono arrivati a partire dall’inizio del secolo, con la legge obiettivo del governo Berlusconi e una previsione di completamento nel 2011. Due anni dopo, nel 2013, quando il Mose aveva già sforato la consegna, la magistratura ha incominciato a colpire i protagonisti del sistema, a partire dal manager di Mantovani, Piergiorgio Baita. La seconda ondata di arresti nel 2014, con il coinvolgimento del presidente del Consorzio Giovanni Mazzacurati, dei politici locali e nazionali e dei controllori del Magistrato alle acque, non hanno certo accelerato i tempi.

Fino allo scorso mese di marzo, il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio aveva fissato al 30 giugno il termine delle opere alle quattro bocche di porto. Niente da fare anche stavolta.

Pochi giorni fa è stato pubblicato il nuovo cronoprogramma ufficiale, con un annuncio congiunto firmato dai commissari e dal Provveditorato per le opere pubbliche del Veneto (nuovo nome dato dalla coppia Renzi-Delrio allo storico Magistrato alle acque).

Il termine dei lavori alle bocche di porto è stato spostato in avanti di sei mesi (31 dicembre 2018). La realizzazione degli impianti definitivi passa al giugno 2020 e la consegna delle opere è fissata al 31 dicembre 2021. L’inizio della gestione, che costerà almeno 80 milioni di euro all’anno rispetto ai 20 previsti, parte quindi dal Capodanno 2022.

Sono date attendibili? No, perché al momento mancano 221 milioni sui 5.493 di prezzo chiuso fissato dopo anni di revisioni che hanno più che raddoppiato i preventivi di spesa dai 2,4 miliardi originali. La somma non è stata stanziata nemmeno nell’ultima Legge di bilancio e, se il finanziamento non esiste, le date sono virtuali. In questo modo, lo Stato presta il fianco alle rivendicazioni delle imprese private che possono accollare la colpa dei ritardi alla parte pubblica.

Inoltre, in assenza di una linea di finanziamento per la manutenzione, tutto il sistema rischia di pagare pesantemente in termini di costi aggiuntivi. Un esempio? Le dighe di Treporti sono già in acqua da tre anni e mezzo con una manutenzione prevista ogni cinque anni. È molto probabile che debbano essere revisionate prima che il sistema entri in funzione.
Se entrerà in funzione.

Catastrofe nucleare

Il nuovo rinvio nel completamento del Mose è stato rivelato all’opinione pubblica in poche righe di comunicato che solo i media locali hanno riportato. Ma perché il Mose è in ritardo? Di chi è la colpa e chi dovrà pagare il conto di questo ennesimo rinvio?

Il Mose ad alto rischio può affondare Venezia

Le dighe mobili per la difesa della città lagunare somigliano sempre di più a un rottame: l'Espresso anticipa la perizia commissionata dal Ministero delle Infrastrutture. Il documento rivela il pericolo di cedimenti strutturali per la corrosione e per l'uso di acciaio diverso da quelli dei test

L’attenzione del governo, dal Mit all’Anac, nei confronti del Mose è parsa in calo di recente e questo ha forse influito sulla scelta di Magistro, anche se lui non conferma. Delrio, oberato dalla crisi Alitalia, ha delegato il grosso dei controlli al nuovo Provveditore, Roberto Linetti, nominato alla fine di novembre del 2016. Cantone si è concentrato sullo scandalo degli appalti Consip.
Intanto Magistro e i suoi due colleghi hanno dovuto affrontare la maggiore crisi tecnica da quando si parla di Mose quando L’Espresso ha anticipato la perizia metallurgica firmata dall’ex docente padovano Gian Mario Paolucci per conto del Provveditorato. In nove pagine Paolucci ha esposto i rischi, molto elevati, che le cerniere, lo snodo dove si inseriscono le paratoie applicate ai cassoni, siano danneggiate dal lavoro micidiale dell’ambiente marino.

Magistro, Ossola e Fiengo hanno ordinato una serie di perizie e ispezioni che hanno ridimensionato il problema. In parallelo, è partita una campagna strisciante per dire che la perizia Paolucci è destituita di fondamento, che difetta di informazioni e che, qui si dice e qui si nega, Paolucci ci ha capito poco.

Mose, il gioco trentennale delle perizie

Dopo che l’Espresso ha pubblicato il documento choc che indicava le cerniere delle dighe lagunari a rischio corrosione, i responsabili della grande opera sono corsi ai ripari con una controperizia in tempi record. Una pratica ricorrente nella storia dell'infrastruttura

Il perito metallurgico ferito nell’onore ha incassato con signorilità. Il punto è che, se il perito ha ragione sulle cerniere, è «la catastrofe nucleare», come dice una persona molto vicina al progetto. Non oggi, non domani, forse fra qualche anno, ma il Mose è da buttare.
Politicamente in questo momento nessuno, a destra o a sinistra, si può permettere un disastro che porta la firma congiunta di tutti i partiti esistenti tranne i grillini, troppo giovani per avere partecipato al grande happening lagunare.

Come la stessa perizia Paolucci si augurava, «l’unica cosa da fare è sperare che i danni che certamente si saranno verificati sui connettori femmina di Lido, San Nicolò, Malamocco, Chioggia, siano contenuti». Senza mettere in discussione le controperizie, la cronaca non lascia ben sperare. Finora tutto quello che si poteva guastare nel sistema Mose si è guastato.

Il catalogo è questo. I tensionatori si sono già arrugginiti anche se dovevano durare 50 anni e anche se, secondo il professor Ossola, materiali che durano 50 anni non ci sono nemmeno su Marte. Cambiarli tutti costerà 20 milioni. Per sistemare i danni alla porta della conca di navigazione di Malamocco ci vorranno 10-12 milioni di euro. Altri 2 milioni se ne vanno per la lunata del Lido crollata alla prima mareggiata poco dopo il collaudo. Un cassone è esploso nel fondale di Chioggia. Problemi assortiti si sono avuti alle tubazioni e alle paratoie.
Infine, la nave jack-up realizzata dal gruppo Mantovani per trasportare le paratoie in manutenzione dalla loro sede alle bocche di porto al rimessaggio in Arsenale ha ceduto al primo tentativo di sollevare una delle barriere e soltanto nelle prossime settimane potrà tornare in azione dopo mesi in officina. Il costo del jack-up è di 52,5 milioni di euro. Il Cvn ne aveva ordinati due (105 milioni in tutto). Il secondo è stato tagliato da Magistro e sarà rimpiazzato da un muletto che costerà intorno ai 10 milioni.

Collaudi e concorsi di colpa

Tutto quello che non ha funzionato era stato regolarmente collaudato dagli esperti convocati dal Ministero delle infrastrutture e pagati decine di milioni.

Sotto il profilo giuridico-amministrativo è un problema gigantesco. Anche se alla conca di navigazione stanno emergendo responsabilità dei progettisti, così come per i tensionatori, il lavoro delle imprese private è passato al vaglio della committenza statale, con esito favorevole.È vero che esistono le coperture assicurative. Ma chiunque abbia avuto un piccolo incidente stradale sa che significa trattare con una compagnia di assicurazioni.

Il vero match è, ancora una volta, fra i commissari del Cvn e i soci del Cvn che, nella peggiore delle ipotesi, puntano a un concorso di colpa. La battaglia sarà durissima e l’ipotesi di Magistro - scontare i costi aggiuntivi dei danni da altre commesse - non sarà di facile realizzazione.

Ma di facile l’allenatore mandato da Renzi, Delrio e Cantone non ha avuto nulla. La squadra gli ha giocato contro fin dall’inizio, chi più chi meno. Fra gli ostili c’è la Grandi Lavori Fincosit del gruppo Mazzi. Con un capitale schermato da due fiduciarie (Istifid e Spafid), dopo l’arresto di Alessandro Mazzi la società si è affidata per qualche mese a un ex boiardo di Stato riconvertito al privato, l’ex Eni, Stet, Autostrade e F2i Vito Gamberale. A gennaio 2016 Gamberale è uscito per cedere il posto all’ex Poste Massimo Sarmi, revocato un mese dopo per incompatibilità con l’incarico alla Milano-Serravalle e sostituito dal manager interno, Salvatore Sarpero.

Più sfumata è la posizione di Mantovani. Il gruppo padovano guidato da Romeo Chiarotto, 87 anni, è stato l’ultimo a entrare nel Consorzio Venezia Nuova rilevando la quota di Impregilo per un prezzo che non è mai stato quantificato in modo esatto. Chiarotto parla di 70 milioni, Impregilo di 50 e nei bilanci della Mantovani se ne vedono 15. Da piccola società di engineering in declino qual era, grazie al Mose Mantovani è cresciuta da 25 miliardi di lire alla fine degli anni Novanta al record di 443 milioni di ricavi nel 2013, seguito dal crollo successivo al commissariamento (186 milioni nel 2015).

Baita, ex azionista di minoranza e manager operativo di Mantovani, è stato il primo a finire agli arresti (febbraio 2013) e il primo a parlare del sistema corruttivo del Mose. Formalmente, è fuori dai giochi intorno al Mose ma forse soltanto formalmente. Chiarotto gli aveva promesso una causa per danni di cui non si è più avuta notizia.

Gestire il mostro

La gestione delle dighe mobili rappresenta un’altra delle difficoltà che la struttura commissariale ha dovuto affrontare senza trovare, al momento, soluzione.

Con Berlusconi al governo, Altero Matteoli al Mit e Galan in regione, il tandem Mazzacurati-Baita aveva predisposto le cose in modo che il business del dopo Mose restasse in house ossia, in parole povere, non uscisse dal perimetro ben presidiato dalle imprese del Consorzio.
Venduta come un affaruccio da poco (20 milioni di euro all’anno che saranno mai?) gestione e manutenzione sono state sottostimate ad arte perché potessero essere affidate alla Comar, un altro consorzio con gli stessi azionisti del Cvn.

Mettere a gara, magari europea, la gestione? Figurarsi. Il principio era che solo i realizzatori delle opere potevano sapere dove mettere le mani alle quattro bocche di porto.

Uno dei primi provvedimenti di Magistro è stato commissariare anche la Comar che, in questo modo, è sostanzialmente uscita dal match. Ma l’idea di conservare la gestione in zona laguna è stata semplicemente trasferita a un’altra società della galassia Cvn. È la Thetis. Controllata dalla Saipem (gruppo Eni) nella fase iniziale del progetto antecedente le privatizzazioni, quando era l’Iri l’azionista di Condotte e nel consorzio c’era ancora Impregilo e non Mantovani, Thetis ha rischiato la chiusura anche quando era pubblica. Poi è stata rilevata dallo studio di ingegneria Mazzacurati e, in fiammante conflitto di interessi, ha prosperato con le commesse che Mazzacurati presidente del Cvn dava a se stesso come proprietario di Thetis.

Mentre Comar aveva pochissimo personale, la Thetis, con sede all’Arsenale, è cresciuta nell’organico fino a oltre 100 dipendenti. Fra questi, c’erano alcuni rampolli illustri come Flavia Cuccioletta, figlia del presidente del Mav Patrizio, che ha patteggiato la pena, o come Eleonora Mayerle, figlia di Giampietro, vice di Cuccioletta.

Magistro puntava a liquidare anche Thetis, dopo Comar. L’obiettivo non è stato raggiunto. Oltre ai figli di padre noto, Thetis ormai è una realtà occupazionale importante, con personale qualificato ed è l’unica società di ingegneria nel centro di Venezia cannibalizzato dal turismo di massa. A difenderla sono intervenuti i sindacati (Filcams-Cgil) e il democrat Nicola Pellicani.

Le mazzette

L’inchiesta penale ha faticato parecchio a districarsi nel sistema delle complicità politiche ad alto livello fra Venezia e Roma. I protagonisti in laguna non andranno neanche a processo. Baita ha patteggiato e, secondo molti, continua a esercitare un ruolo discreto dietro le quinte dell’appalto. Mazzacurati, partito per la California, ha 83 anni ed è stato dichiarato dal medico legale incapace di partecipare al processo a causa di «gravissimi deficit delle funzioni mnesiche a cui cerca di sopperire con la confabulazione ossia inventando la risposta».

Finora fuori dal processo che marcia verso la prescrizione è anche Claudia Minutillo, promossa manager di Adria Infrastrutture dopo essere stata segretaria del governatore forzista ed ex ministro Giancarlo Galan, uno dei pochi condannati eccellenti.

Le cifre sono ancora più eloquenti. A parte gli sprechi e i costi gonfiati che sono ancora da definirsi in termini di danno erariale, il nocciolo finanziario del processo parla di 33 milioni di euro di fatture false utilizzate per tangenti pari a circa metà del valore delle fatture.

Su un investimento pubblico da 8 miliardi di euro, ci sarebbero quindi state mazzette per 15-16 milioni di euro. Più che un processo penale ci sarebbe da distribuire qualche onorificenza al merito di una gestione così onesta, per gli standard nazionali e internazionali. «Credo che queste cifre siano soltanto la punta dell’iceberg», dice Magistro.

Durante la gestione Mazzacurati, il Consorzio produceva costi per circa 40 milioni di euro all’anno scesi a circa un quarto durante la gestione commissariale, con grandi critiche da parte dei soci che hanno accusato i commissari di spendere troppo.

Il solo Mazzacurati, nei suoi anni di regno sul Cvn, ha incassato una somma complessiva di 54 milioni di euro fra emolumenti e una buonuscita da 7 milioni di euro che è anche questa oggetto di contenzioso incrociato fra l’ex presidente, in attesa di ricevere ancora più di 1 milione, e l’amministrazione straordinaria, che vuole farsi restituire tutta la cifra.

Questo elenco di guai senza fine è il motivo per cui gli uomini del governo hanno preferito mantenere le distanze dal Mose, con il risultato forse non voluto di isolare la gestione commissariale. Certo, per l’esecutivo Venezia significa guai. Non a caso il porto offshore per le petroliere, un progetto da 2,2 miliardi di euro già passato per una prima approvazione del Cipe, è stato cancellato dai radar appena uscito di scena Paolo Costa, ex presidente dell’autorità portuale veneziana. «Per fortuna», commenta Magistro. «Il porto offshore non era nemmeno da pensare».

Il commissario uscente chiuderà l’esperienza nei prossimi giorni, subito dopo Pasqua, e si dedicherà a un periodo sabbatico. Il suo commento finale merita di essere riportato. «Quello che ho visto a Venezia non l’avevo mai visto in vita mia. Una spudoratezza totale».
Se lo dice lui.

«Italia fanalino di coda per occupazione e pil pro capite. E per la sanità pubblica investiamo meno di Germania e Francia. Il governo firma un memorandum che lo impegna verso chi ha meno. Camusso: "Servono più risorse"» Articoli di A. Carra e A. Sciotto, il manifesto 15 aprile 2017

OTTO MILIONI DI POVERI,
E LA METÀ NON RIESCE A COMPRARSI ILCIBO
di Antonio Sciotto

Otto milioni di poveri in Italia, di cui più della metà (4,5milioni) è in uno stato di povertà assoluta (non può permettersi cioè neancheil minimo necessario per vivere): la fotografia di Noi Italia, ultimo rapportoIstat, è raggelante. Una serie di diapositive che ci fanno comparire agli ultimiposti in Europa per livelli di occupazione, pil pro capite e altri indicatoridel benessere.
I DATI DELLA POVERTÀ sono relativi al 2015:quella al livello assoluto coinvolgeva il 6,1% delle famiglie residenti (pari a4 milioni 598 mila individui). Il 10,4% delle famiglie – in tutto 2 milioni e678 mila – è relativamente povero, mentre le persone in povertà relativa sono 8milioni 307 mila (pari al 13,7% della popolazione). I valori risultano stabilirispetto al 2014, ma peggiorano soprattutto le condizioni delle famiglie conquattro componenti (passano in un anno dal 6,7% al 9,5%).
MALE ANCHE IL LAVORO: le cifresull’occupazione ci vedono agli ultimi posti in Europa. In Italia, spiega ilrapporto Istat, sono occupate poco più di 6 persone su 10 tra i 20 e i 64 anni,il dato peggiore nella Ue a eccezione della Grecia. Tra i 20 e i 64 anni nel2016 era occupato il 61,6% della popolazione con un forte squilibrio di genere(71,7% gli uomini occupati, soltanto al 51,6% le donne). Grande anche ildivario territoriale tra Centro-Nord e Mezzogiorno (69,4% contro il 47%). Nellagraduatoria comunitaria sul 2015 solo la Grecia ha un tasso di occupazioneinferiore, mentre la Svezia registra il valore più elevato (80,5%).
Pil pro capite a terra: quello dell’Italia, misurato in standarddi potere d’acquisto (per un confronto depurato dai differenti livelli deiprezzi nei vari paesi), risulta inferiore del 4,5% rispetto a quello mediodella Ue, più basso di quello di Germania e Francia (rispettivamente del 23,6%e 9,2%). Il valore italiano è però superiore del 5% al pil pro capite spagnolo.
LA PRESSIONE FISCALE risulta essere incalo. Nel 2016 in Italia è scesa al 42,9%, in riduzione di 0,7 puntipercentuali dal massimo del biennio 2012-2013. Tuttavia, il nostro Paese rimanefra quelli con i valori più elevati, superato, tra i maggiori partner europei,solo dalla Francia. Per quanto riguarda la spesa pubblica, lo Stato ha spesonel 2015 circa 13,6 mila euro per abitante, un valore sostanzialmente in lineacon quello medio della Ue. Tra le grandi economie dell’Unione, Germania, RegnoUnito e Francia presentano però livelli più elevati, mentre la Spagna spendemeno dell’Italia.
SANITÀ PUBBLICA, si spende meno deglialtri. Nel 2014 la spesa sanitaria pubblica italiana si è attestata attestaintorno ai 2.400 dollari pro capite, a fronte degli oltre 3 mila spesi inFrancia e dei 4 mila in Germania (fonte Ocse). Le famiglie italiane hannocontribuito alla spesa sanitaria complessiva per il 23,3%, e la quota è inleggero aumento.
IN ITALIA I DECESSI per tumori e malattiedel sistema circolatorio sono stati rispettivamente 25,8 e 31 ogni 10 milaabitanti nel 2014. Nel Mezzogiorno la mortalità per tumori si confermainferiore alla media nazionale, mentre quella per malattie del sistemacircolatorio è più elevata. La mortalità per queste cause è in continuadiminuzione e inferiore alla media Ue (27,4% e 38,3% nel 2013).
IL TASSO DI mortalità infantile, importanteindicatore del livello di sviluppo e benessere di un paese, continua a diminuire:nel 2014 in Italia è di 2,8 per mille nati vivi, tra i valori più bassi inEuropa. Spesa per la protezione sociale: nel 2014 nel nostro Paese harappresentanto il 30% del Pil e il suo ammontare per abitante ha sfiorato gli 8mila euro l’anno.
MEMORANDUM: Il presidente del Consiglio, PaoloGentiloni, ha firmato ieri il Memorandum di intesa con l’Alleanza contro lapovertà sull’attuazione della legge delega che istituisce il Rei, il reddito diinclusione, e ha spiegato che i decreti attuativi saranno pronti entro finemese. «Siamo passati dai circa 200 milioni del Sostegno inclusione attiva acirca 2 miliardi – ha spiegato il premier – un intervento che interesserà circa2 milioni di persone, tra cui ci sono 7-800 mila minori». Tra i firmatari ancheCgil, Cisl e Uil: «Messa una prima pietra, ma i fondi sono ancora insufficienti– ha commentato la segretaria Cgil Susanna Camusso – E oltre ai sussididobbiamo anche attuare politiche per l’inclusione nel lavoro».

SE LA POLITICA SI MISURASSE
SULLA FOTOGRAFIA DELL’ITALIA INEUROPA
di Aldo Carra
Abituati come siamo a rincorrere le statistiche quotidiane ed icommenti politici espressi in Tweet, analizzare il volume Noi Italia prodotto dall’Istat e al nono anno divita non è semplice. Si tratta infatti di 100 statistiche che inquadranol’Italia nel panorama europeo. Però una volta tanto vale proprio la pena diuscire dalla guerra quotidiana dei numeri in libertà e, vista anche laattualità del tema Europa, cercare di capire come ci collochiamo nelladimensione europea e soprattutto se miglioriamo o peggioriamo. Se, in sostanza,diventiamo più o meno europei.
Diciamo subito, ricopiando quello che nel rapporto si dice, chenella maggioranza degli indicatori analizzati l’Italia appare ancorasistematicamente collocata al di sotto della media europea. Questo valesoprattutto per la performance del sistema produttivo, con debolezze pesantinell’ambito dell’economia della conoscenza, della formazione e nel mercato dellavoro. Ma c’è un settore del quale possiamo andare orgogliosi: è quello delleeccellenze agroalimentari, fattore di competitività delle realtà agricolelocali dove i prodotti di qualità contribuiscono al mantenimento degliinsediamenti umani e dell’attività agricola di tante aree interne altrimentidestinate all’abbandono. Non casualmente, un altro campo nel quale l’Italia siposiziona addirittura meglio rispetto alla media europea è la tuteladell’ambiente, la promozione di una crescita economica sostenibile.
Come pure notizie positive riguardano innanzitutto la salute.Affermazione che cozza contro il senso comune: la spesa sanitaria pubblicaitaliana è inferiore a quella dei principali partner europei, ma gli indicatoridi mortalità ed altri indicatori della salute sono migliori della mediaeuropea. Altrimenti detto, la nostra riforma sanitaria ed il sistema di welfareconquistato, riescono ancora a resistere ai colpi di piccone dell’austerità, aifenomeni corruttivi e di ingerenza della politica.
Pesanti, invece, rimangono ancora i divari con l’Europa inmateria di istruzione e mercato del lavoro. Il tasso di abbandono scolastico èancora superiore alla media europea, la percentuale di laureati ancora moltolontana dal 40% fissato come media europea. Se passiamo al mercato del lavoroed al tasso di occupazione, per il quale la strategia europea prevedeva unaumento soprattutto nel campo della partecipazione femminile, abbiamo un belrecord. Siamo nell’ultima posizione rispetto ai partner europei, anzipenultimi: solo la Grecia ha un tasso di occupazione più basso del nostro.
Questo quadro generale suggerisce considerazioni. In questi anniil sistema economico europeo ha goduto di condizioni favorevoli (prezzo delpetrolio diminuito, euro svalutato, Quantitativeeasing). Mediamente i paesi europei hanno registrato tassi dicrescita modesti. L’Italia è cresciuta meno degli altri e quindi il divario tranoi e l’Europa è aumentato. Di chiacchiere e di promesse ne abbiamo sentite moltedi più, però. Forse qui, siano primi in Europa.
Seconda considerazione. È interessante che si comincia concentrare l’attenzione non più solo sul Pil, ma su altri indicatori cherispecchiano le condizioni non solo economiche ma anche sociali e culturali delnostro paese. Nella nuova legge finanziaria finalmente si cominceranno aprendere in considerazione anche gli indicatori Bes (Benessere EquoSostenibile). Quando si sarà in grado di sintetizzare questi indicatori in unmegaindicatore affiancabile al Pil si potrebbe registrare un paradosso: che ilPil non cresce, ma che il Bes al contrario cresce, oppure che il Bes cresce piùdel Pil. Ma stiamo parlando di un futuro non vicinissimo. A oggi siamo ancoralontanissimi dai livelli di Pil di prima della crisi e le nostre contraddizionie disuguaglianze aumentano.
Come attivare una ripresa economica, anche con investimentipubblici, che possa creare un circolo virtuoso di miglioramento di condizionieconomiche e di benessere sociale in una fase di risorse scarse. Comeaffiancare in sostanza una politica di nuova crescita ad una politica diredistribuzione di redditi, ricchezze, lavoro per avere maggiore uguaglianza.Sarebbe un bel compito per la politica collocarsi a questo livello edaffrontare questi che sono i problemi del futuro. Ma per adesso non se neparla. Siamo impegnati nelle prove muscolari tra i tre capi del populismoall’italiana.

«Territorio. Il decreto del governo Gentiloni cambierà in peggio la Valutazione d’impatto ambientale, producendo accentramento, sanatorie e regali alle lobby». il manifesto, 15 aprile 2017 (c.m.c.)

Contro il governo, che vuole escludere i cittadini e gli enti locali dall’esprimere il proprio parere nella Valutazione impatto ambientale (Via) delle grandi opere pubbliche, centinaia di associazioni, in tutta Italia, lanciano l’allarme. Nel dossier Questa non è la Via spiegano le criticità del decreto proposto per le nuove procedure di Valutazione di impatto ambientale, che in teoria dovrebbe limitarsi a recepire una direttiva comunitaria del 2014. Una riforma ritenuta «pericolosissima».

«Meno partecipazione, accentramento, sanatorie e regali alle lobbies. Il governo Gentiloni – viene denunciato nel documento – intende mettere il bavaglio a quanti vogliono parlare e capire». Su diversi punti il decreto, ora all’esame delle Commissioni parlamentari e della Conferenza Stato-Regioni, «oltre a rappresentare una vera e propria involuzione sul tema del rapporto tra comunità e interessi privati che sostengono i progetti, si rivela criminogeno e, in qualche passaggio, anche eversivo dello stato di diritto. Occorre coniugare procedimenti snelli e partecipazione popolare alle scelte, – dichiarano associazioni, comitati e movimenti – migliorando anche i contenuti degli studi di impatto ambientale che spesso sono carenti, se non fatti direttamente con il copia-incolla». E di proposte, in tal senso, ne vengono avanzate diverse.

Il decreto – fa presente il dossier – prevede di poter accedere in qualsiasi momento e per qualsiasi tipologia di opera alla Via «in sanatoria». «Addirittura c’è la possibilità di continuare i lavori anche se “scoperti” e realizzare un progetto (una cava, un gasdotto ecc.) senza Via; oppure, quando il parere Via, se esistente, è stato sospeso o annullato dal Tribunale amministrativo regionale. Il cantiere, in sostanza può andare avanti anche se irregolare. Tanto poi si rimedia».

«La verifica di assoggettabilità a Via, che oggi è un primo filtro per impianti anche pericolosi e distruttivi,- si evidenzia – praticamente diventerà un orpello. Infatti per ben 90 categorie di opere e impianti è stata eliminata completamente la fase di partecipazione per cittadini ed enti, che oggi hanno 45 giorni per presentare osservazioni. Il governo si arroga il diritto di decidere d’imperio».

Attualmente, per la procedura di Via, bisogna depositare il progetto definitivo ai fini delle analisi. Invece con il nuovo provvedimento aziende e imprese proponenti possono presentare anche «quattro schizzi, privi di dettagli tecnici fondamentali per verificare gli impatti oppure, come sta accadendo frequentemente, per accorgersi di eventuali abusi già commessi».

I componenti della commissione Via nazionale saranno scelti dal ministro espressamente, «senza fare ricorso a procedure concorsuali». Questa specifica viene introdotta dopo la bocciatura della Corte dei Conti della nomina di Galletti per la nuova commissione Via, bocciatura avvenuta proprio per l’assenza di criteri selettivi. «Il controllo partitico – è l’accusa – diventerà totale. Si cerca così anche di superare surrettiziamente l’esito referendario del 4 dicembre, quando è stata bocciata anche la riforma dell’articolo117 della Costituzione che prevedeva un forte accentramento».

«Molti dei progetti di estrazione del petrolio e di prospezione, con l’uso dell’airgun e di esplosivi, verrebbero esclusi dalla Via diretta. Inoltre il governo vuole fare un grande regalo da centinaia di milioni di euro alle multinazionali: permettere di non smontare piattaforme e gasdotti a fine lavorazione lasciandoli ad abbellire il paesaggio».

«L’idea di un tunnel sostitutivo nasce dopo il sisma del 1980. Il tracciato originale porta acqua a 1 milione e 300mila persone. In 37 anni scavati solo sei chilometri su 10». Il Fatto Quotidiano online, 15 aprile 2017 (c.m.c.)

A Caposele c’è chi ormai la chiama “la Tav dell’acqua”. Eppure la Pavoncelli Bis, che in questo Comune di 3600 abitanti in provincia di Avellino ha il suo imbocco, non sembra affatto paragonabile, per dimensioni e costi, alla Torino-Lione. Appena 10 chilometri di galleria, per una spesa totale di poco più di 163 milioni. «Ma è ugualmente dannosa per l’ambiente, e ugualmente inutile», protestano alcuni attivisti dei comitati che si oppongono alla realizzazione del tunnel, che dovrà costituire il tratto iniziale dell’Acquedotto Pugliese e sostituire la Pavoncelli originale, quella realizzata a inizio ‘900 e rimasta danneggiata dal terremoto dell’Irpinia.

Era il 1980. Trentasette anni dopo, la galleria sostitutiva non è ancora stata ultimata. Tanto che c’è chi parla anche di maledizione del conte Giuseppe Pavoncelli, banchiere di Cerignola e ministro dei Lavori pubblici del Regno d’Italia, che nel 1906 diede avvio agli scavi per la galleria che avrebbe portato il suo nome. «Ma i fantasmi del passato c’entrano poco», sbuffano gli abitanti di Caposele. Questa, dicono, «è una classica storia di grande opera all’italiana». Con tanto di promesse mancate, tempi che si dilatano, macchinari presentati come avveniristici che improvvisamente si bloccano in mezzo alla galleria.

L’odissea della galleria: progettata nel 1985, cantieri aperti nel 1990. Poi un lungo stallo – L’idea di costruire una galleria sostituiva, “la Bis”, nasce subito dopo il 23 novembre del 1980. La Pavoncelli ha retto al terremoto, ma le perizie evidenziano danni alla struttura. L’ipotesi di un crollo è preoccupante, dal momento che dalla galleria dipende l’approvvigionamento idrico di 1 milione e 300mila abitanti. Per scongiurare il rischio di un’interruzione, nel 1985 l’Ente Autonomo Acquedotto Pugliese realizza il progetto della Pavoncelli Bis: la galleria originale, si stabilisce, resterà in funzione fino a quando la nuova non sarà completata. I cantieri si aprono nel 1990, ma nel giro di pochi anni due contratti d’appalto vengono rescissi a seguito di contenziosi con le imprese. Si capisce subito che le cose si complicano. Si arriva al 1998, quando parte il valzer dei commissari straordinari. Senza che però la tanto attesa svolta nei lavori arrivi.

Roberto Sabatelli, lo “sblocca-cantieri” che dal 2005 sovrintende all’opera – Poi, nel 2005, arriva “lo sblocca-cantieri”. Così, almeno, si autodefinisce l’ingegnere Roberto Sabatelli. Barese, classe 1947, è lui il nuovo commissario straordinario. Carica che mantiene fino al 2010, quando il governo Berlusconi lo promuove Commissario delegato: nomina, quest’ultima, che gli conferisce il ruolo di stazione appaltante. Nonché uno stipendio annuo di 290mila euro. «Equivale allo 0,3% dell’importo a base d’appalto», precisa Sabatelli. Che da allora ha rischiato più volte di essere sollevato dall’incarico, salvo ottenere, puntuali, le conferme necessarie per poter andare avanti. L’ultima nel Milleproroghe del dicembre scorso, che prevede un rinnovo di altri 12 mesi.

La talpa incastrata: «È bloccata in un restringimento dall’agosto 2016» – Basteranno, perché la Pavoncelli bis venga conclusa? Sicuramente no. Perché nel frattempo la talpa scavatrice fatta arrivare appositamente dalla Germania nella primavera del 2014 si è bloccata. «Un imprevisto aumento di tensione», è la frase che Sabatelli utilizza per spiegare lo stop. In sostanza, questa fresa meccanica lunga 220 metri è rimasta incastrata in un restringimento della galleria. Era il 28 agosto del 2016, e non si è ancora riusciti a rimediare. Inutile, a distanza di oltre 7 mesi, anche solo pretendere di capire la causa dell’incidente. «Non la conosciamo», ammette il commissario. «Stiamo facendo degli studi per capire le possibili cause». Nell’attesa che il rebus venga sciolto, si continua anche a provare a rimettere in funzione la fresa. I vari tentativi, fin qui effettuati, si sono rivelati tutti fallimentari. «Siamo passati ora a soluzione più impegnative. Dopo Pasqua – annuncia Sabatelli – proveremo a muovere la talpa».

Dopo 32 anni, completati 6 chilometri su 10. «Le sacche di gas? A volte siamo costretti a sospendere gli scavi» – Risultato: dei 10,3 chilometri di galleria previsti, a 32 anni dal varo del progetto ne sono stati completati appena 6,2. «Siamo a buon punto», dice comunque Sabatelli. Che argomenta: «Dal momento in cui la talpa si sblocca, se non risulterà danneggiata in 5 o 6 mesi gli scavi termineranno. Poi ci vorrà circa un altro anno per ultimare i lavori». Sempre che, nel frattempo, non sorgano altri problemi. Come quelli legati alla presenza di gas, più volte denunciati dai comitati ambientalisti locali. «Delle sacche effettivamente ci sono, ma fin dall’inizio sapevamo a cosa saremmo andati incontro. Nel corso dei lavori sono state rilevate quantità superiori alle attese, e per questo abbiamo incrementato le misure di sicurezza per i lavoratori». Sabatelli ci tiene comunque a ridimensionare gli allarmi. «Quando si parla di rischio esplosione, non si deve pensare all’eventualità che la galleria salti in aria, a meno che qualcuno non vada lì con un accendino in mano. Semplicemente, quando il livello di gas rilevato supera i valori minimi di sicurezza, interrompiamo gli scavi e aspettiamo che tutto torni nella norma».

La vecchia galleria? «Potrebbe cedere con un’altra scossa» – Intanto la vecchia Pavoncelli continua a funzionare regolarmente. Tanto che c’è chi pensa che costruire un doppione sia inutile. «Lo pensa chi non conosce l’opera», protesta Sabatelli. «La galleria originale sta, come diciamo a Bari, tienimi che ti tengo. Presenta insomma vari problemi, in particolare legati al rialzamento della calotta di fondo. Potrebbe chiudersi del tutto se arrivasse una nuova scossa». E a quel punto, 37 anni dopo il terremoto del 1980, un’alternativa ancora non ci sarebbe.

Lo sfruttamento economico del nostro patrimonio culturale si arricchisce di nuove figure e di nuovi strumenti che, guarda caso, nei giorni scorsi, con il benestare di Regione Toscana e Comune, si sono dati convegno proprio a Firenze per celebrare la cosiddetta “Rigenerazione urbana a base culturale”.

Non ci vuol molto per capire che si tratta dell’ennesima trovata per giustificare e rilanciare il saccheggio del patrimonio storico, artistico e architettonico, di proprietà pubblica, da parte di società che fanno del suo sfruttamento il principio motore di una nuova fase di rilancio della redditività immobiliare ed economica.

Definiscono Cultural Real Estate questa attività. La cultura viene trasformata in elemento trainante della speculazione immobiliare. Il recupero degli immobili dismessi dovrebbe consentire di realizzare «valorizzazioni immobiliari-culturali capaci di generare valore, reddito e occupazione», ciò nella speranza di accontentare tutti, anche se in maniera profondamente sperequata e distruttiva di valori ambientali e sociali consolidati nel tempo.

Sono messi a valore non solo gli asset tangibili quali edifici, opere, musei, ma anche quelli che sono definiti asset intangibili, «espressioni identitarie ed eredità del passato da trasmettere alle generazioni future, quali le arti dello spettacolo, l’artigianato, il paesaggio».

In altri termini, concorrono alla formazione del valore non solo le qualità intrinseche del manufatto edilizio ed architettonico, ma anche le reti di relazioni, il savoir faire collettivo, la stessa costruzione sociale dell’intorno territoriale del manufatto acquisito, che fa di quel patrimonio un unicum irripetibile e per di più sottratto alla comunità locale.

La cosa che più irrita non è solo l’espropriazione del bene pubblico ma anche la sussunzione delle stesse forme di vita, della presenza fisica degli abitanti, del loro agire quotidiano, alla determinazione del profit speculativo. È una nuova forma di vassallaggio territoriale e culturale nei confronti dei ricchi di turno.

Ormai è un dato di fatto che investire in cultura conviene: è stato calcolato che la designazione a patrimonio culturale di un edificio ne incrementa il prezzo del 15% circa, mentre il valore delle abitazioni presenti in aree di interesse storico-culturale gode di un premio del 25%.

Alle incertezze del ciclo edilizio tradizionale, le società di Cultural Real Estate Development puntano proprio sull’acquisizione di immobili fortemente caratterizzati in senso storico e culturale per assicurarsi una stabilizzazione del rendimento economico. Sono investimenti unici, destinati a una categoria di clienti particolarmente ricchi che non conoscono i morsi della crisi e delle bolle immobiliari. E l’Italia ha un ricco bottino di cui i Developers vorrebbero appropriarsi: è il paese con il più alto numero di siti Unesco, ben 51, più della Cina (50) e più della Spagna (45). Cosa desiderare di più!

Sono pronti a scendere in campo investitori internazionali del calibro di Fondi sovrani, Banche di sviluppo, Compagnie di assicurazioni e Fondi pensione per finanziare campagne di acquisizione senza precedenti.

«Ci muoviamo nel solco di un approccio economico e finanziario al bene culturale, lo trattiamo come se fosse un asset economico e finanziario considerando il cash flow e la redditività presente e futura in relazione alla commercializzazione di beni e servizi che gli ruotano attorno»: questo è il freddo e utilitaristico linguaggio con cui gli operatori del settore si occupano di quel patrimonio culturale, intendendo con culturale monumenti, edifici, palazzi, tessuti urbani, che si è sedimentato nel corso dei secoli e che ora ci viene sottratto. Inaridito nelle sue funzioni e nella sua ricchezza di relazioni, viene banalmente consumato e ne viene precluso il suo valore di trasmissione della memoria collettiva per le generazioni future.

Sono gli stessi Cultural developer a riconoscere che si muovono su di un terreno accidentato «perché il patrimonio culturale costituisce un bene pubblico puro inalienabile (dello Stato o degli enti locali) e il rischio finanziario ha bisogno di garanzie». La certezza dell’investimento viene loro garantita dalle recenti politiche del Mibact di smantellamento della funzione di tutela costituzionale dei beni culturali, subordinata alla loro valorizzazione mercantile. A sottolineare questa nuova connotazione del Ministero è lo stesso Franceschini quando ricorda di essere a «capo del principale Ministero economico italiano»!

Non solo, ma è messa profondamente in discussione anche la cultura urbanistica di questi ultimi anni, che in parte ha saputo innovarsi e che ancora può proporre dispositivi di contenimento delle spinte speculative. Amministratori pubblici e addirittura esponenti dell’Istituto Nazionale di Urbanistica fanno a gara nel depotenziare gli strumenti urbanistici attuativi in favore di dubbie e generiche modalità puntuali di gestione del territorio, che perdono di vista la direzione pubblica delle trasformazioni e la visione sistemica della complessità dei fatti territoriali.

Non è un caso che durante quel consesso sia stato annunciato l’accordo con la famiglia Lowenstein per la trasformazione della Villa Medicea di Cafaggiòlo, al centro della tenuta di 385 ettari nei pressi di Barberino del Mugello. Patrimonio Unesco, progettata da Michelozzo e celebrata da Lorenzo il Magnifico si trasformerà in un resort “acchiapparicchi” con tanto di distruzione di valori ambientali, culturali e sociali. Comuni e Regione, servizievoli, si sono subito dichiarati disponibili a modificare i propri strumenti urbanistici, mentre sarà proposta anche una variante al PIT per gli impatti paesaggistici e l’aumento delle volumetrie.

Che non si venga a raccontare la favola dei posti di lavoro, perché tanto sappiamo che investimenti del genere sono ad alta intensità di capitale con basso ritorno di occupati, per lo più impiegati in forme precarie e stagionali!

Il presidente Rossi dichiara di essere soddisfatto e ricorda che «stavolta siamo riusciti a mettere d’accordo anche i comitati».

Al suo posto non sarei così sereno, vorrei ricordargli che invece esiste, per fortuna, un vasto fronte di comitati, di associazioni, di reti locali e di saperi istituzionali consapevoli del fatto che, ricordando Calvino, l’inferno dei viventi è qui e ora. Distinguere l’inferno da ciò che non è inferno è il nostro compito.

Continua a trasformarsi in Italia il sistema dei poteri: è la volta dell'unificazione di due monopoli privati, le ferrovie e le strade. Un pezzo alla volta si costruisce un nuovo Leviatano: la differenza è che è privato, non pubblico. la Repubblica online, 13 aprile 2017, con postilla

Semaforo verde al matrimonio tra Ferrovie dello Stato e Anas. Il primo via libera all'operazione di incorporazione della società che gestisce la rete stradale e autostradale - confermano fonti del governo - è arrivato nel consiglio dei ministri di questa mattina. Anas diventerà così una delle controllate del gruppo Fs e le azioni verranno trasferite a Ferrovie dello Stato. La norma che regola l'operazione - ha detto il ministro dei trasporti Graziano Delrio - è presente nel decreto di correzione dei conti che ha accompagnato la presentazione del Def. I ministeri avrebbero trovato un'intesa su uno dei punti che in questi mesi hanno bloccato la fusione, quella dei maxi contenziosi che pesano sul bilancio della società, attraverso l'autorizzazione di un piano triennale di definizione in via bonaria dei pendenti con l'accantonamento di riserve per 700 milioni di euro.

Un altro snodo fondamentale per il buon esito del matrimonio è che la norma permetta alla nuova entità di rimanere al di fuori del perimetro della Pubblica amministrazione, in modo da non sovraccaricare il debito che verrà contratto per gli investimenti sul bilancio dello Stato. Perché ciò sia assicurato, serve il placet di Eurostat (che “bollina” i grandi numeri del bilancio pubblico) ma sembra che su questo fronte siano arrivate le sufficienti rassicurazioni.

Con l'operazione, il nuovo soggetto avrebbe un fatturato di 10 miliardi di euro, una capacità di investimenti di 7 miliardi di euro e immobilizzazioni per circa 60 miliardi di euro Il nuovo soggetto avrebbe inoltre 75 mila dipendenti e 41 mila chilometri di reti gestite.

postilla

I liberali veri (alla Luigi Einaudi, se questo nome dice qualcosa agli abitanti di questo secolo) avevano idee molto chiare sulla concorrenza, sui servizi pubblici e sul monopolio. In sintesi, se c’era un bene o un servizio che non poteva non essere gestito in regime di monopolio (come una risorsa naturale scarsa e rara, o un servizio pubblico essenziale) il monopolio non doveva essere lasciato in mano a privati, ma doveva essere della nazione (dello Stato). Non sostenevano questo per ragioni ideologiche nè ideali, né parchè fossero “di sinistra”, ma per ragioni strettamente economiche: se un monopolio è in mano a privati la loro posizione li indurrà fatalmente a estorcere ai consumatori una “rendita”, cioè un sovrapprezzo, possibile grazie non a un’attività imprenditiva, ma solo alla loro posizione dominante. I liberali alla Einaudi si riferivano a singoli settori dell’attività di produzione o di servizio: per esempio, le ferrovie, o le comunicazioni telegrafiche ma oggi si parla d’altro: dell’unificazione di due grandi monopoli già privati: le ferrovie e le strade.
La decisione del governo Gentiloni è efficacemente sintetizzata dai due giornalisti quando affermano candidamente che «lo snodo fondamentale per il buon esito del matrimonio è che la norma permetta alla nuova entità di rimanere al di fuori del perimetro della Pubblica amministrazione». Ora la “nuova entità" è l’unificazione d due settori portanti delle comunicazioni terrestri, già debitamente privatizzati. Non è necessario galoppare con la fantasia per comprendere quali legami si costituiranno con il trasporto aereo e marino, con le telecomunicazioni via etere, le radioteletrasmissioni, gli altri rami della formazione e informazione, e poi giù giù fino alla salute e all’assistenza
L’immagine hobbesiana del Leviatano si affaccia prepotente, ma senza la correzione della democrazia rappresentativa. Il “sovrano” che dominerà ogni cosa non sarà il risultato di un pur insufficiente sistema istituzionale basato sul voto degli elettori, ma un gruppo di una ventina di persone sconosciute che da un un nuovo Olimpo collocato nella “infrastruttura globale” decidono giorno per giorno come deve svolgersi la vita quotidiana della moltitudine di cui facciamo parte.

«Gli "eventi" sono come dei tappeti volanti su cui la città prende il volo. Ma per chi ha responsabilità di governo è pronta un'insidia». la Repubblica online, ed. Milano, 13 aprile 2017
Milano migliore città d'Italia nella classifica "Cities of Opportunitiy". Milano con un incremento annuale di turisti più del doppio di quello di Roma. Milano attrattiva per gli investimenti stranieri. Milano locomotiva in un Paese che arranca. Gli eventi - Salone del mobile, Tempo di libri, settimana della moda eccetera - sono un ottimo combustibile per la locomotiva, soprattutto per quella mediatica.

Il bombardamento non dà tregua e, nell'euforia, è pronto l'ologramma di una Milano da bere 2 (anzi, 2.0): un totem per nuove danze tribali di cerchie ristrette (gli addetti ai lavori e gli appassionati del genere). Intendiamoci: prendere di mira gli eventi è come sparare sulla Croce Rossa. Ogni evento è una boccata di ossigeno, comunque confortevole per un corpo in asfissia. Il problema è un altro. Nell'immaginario alimentato dai media gli "eventi" sono come dei tappeti volanti su cui la città prende il volo; da cui il sogno di alcuni: dare continuità così da passare da un tappeto all'altro in una sorta di galleggiamento sulla realtà.

Per chi ha responsabilità di governo è pronta un'insidia. La concatenazione degli eventi distrae l'attenzione dei cittadini e allenta la pressione delle aspettative sul "palazzo": si forma una cortina fumogena dietro cui il manovratore può sentirsi protetto e alla fine consegnato a un ruolo di super manager al servizio della macchina- eventi. È una trappola da cui i primi a prendere le distanze dovrebbero essere proprio gli amministratori pubblici. La concatenazione serrata di eventi è la soluzione per i problemi della metropoli milanese?

O non piuttosto un modo per nascondere sotto il tappeto (volante o meno) lo stato della cose? La realtà vede incursioni del capitale finanziario che non ha alcun interesse ad attrezzare la "locomotiva", ovvero a mettere la metropoli milanese nelle condizioni di reggere la sfida della competizione internazionale e, insieme, di affrontare la questione sociale. Questione che, più che mai, ha nella carenza di lavoro il punto centrale. Se pure non mancano segnali positivi, persiste infatti una condizione drammatica, segnata da una crisi che, per quanto riguarda le opportunità di lavoro, non passa. È in primo luogo di questo che dovrebbero preoccuparsi coloro che hanno la responsabilità della cosa pubblica. Si sa: è complicato e poco remunerativo sulla breve distanza, ma le difficoltà non possono disarmare la politica: gli amministratori non possono ridursi al ruolo di promotori del fare per il fare, lasciando al mercato ogni decisione e regolazione.

Ma c'è qualcosa di più: gli eventi hanno via via affermato uno stile che la politica ha finito per mutuare: un modo di affrontare le scelte che bada più alla ricaduta mediatica che alla sostanza. Si veda la vicenda del riuso degli scali ferroviari. La sequenza logica vorrebbe che la pubblica amministrazione indicasse gli obiettivi strategici per la città e agisse di conseguenza. Obiettivi che non possono escludere la triade coesione sociale, qualità urbana, rafforzamento delle potenzialità strutturali dell'economia. Invece Palazzo Marino si pone nella veste di chi vuole indistintamente attrarre investimenti, dove l'afflusso di capitali è giudicato positivamente in sé, a prescindere dalla ricaduta sulla città.

Accade così che, da decenni, a Milano le scelte di trasformazione urbana siano demandate ai cosiddetti operatori mentre il Comune si è ritagliato un ruolo di facilitatore che arriva fino a quello di banditore, con la spettacolarizzazione dei progetti di

trasformazione sfornati dalle archistar. Un modello di gestione che tratta i cittadini come pubblico incolto e impotente: da avvolgere con la melassa della partecipazione ma da isolare quando, come a Città Studi, mostra piena consapevolezza dei valori urbani e competenza su ciò che li minaccia. Insomma il pericolo non sono gli eventi concatenati, ma l'eventopoli: una dinamica che consegna allo spettacolo l'assalto e il disfacimento stesso della città.

Cosa è e cosa non dovrebbe mai essere. Illuminante puntualizzazione sulla rigenerazione urbana che dovrebbe essere tenuta a mente nelle revisioni delle attuali leggi urbanistiche regionali. La città conquistatrice, 11 aprile 2017 (p. d.)

Si sottolinea spesso che se il terzo millennio presenta la sfida dell’urbanizzazione planetaria, al suo interno esistono tante altre sfide per nulla minori, prima fra tutte quel che si intende dire quando se ne parla. È il famigerato gioco delle «parole della città», su cui si impegnano folte schiere di azzeccagarbugli più o meno prezzolati (a volte solo altezzosamente ignoranti), per rigirare concetti come frittate, di solito azzerando o quasi gli sforzi di chi si impegna a studiare fenomeni ed escogitare politiche. Non sfugge al rischio ideologico e speculativo anche la «rigenerazione urbana», termine che nasce in sostanza nel quadro della deindustrializzazione delle città britanniche nella seconda metà del ‘900, e che apparentemente si caratterizzava in modo saldo e univoco. Che avrebbe dovuto significare, coerentemente? Facile: linee di intervento pubblico per riattivare la vitalità socioeconomica di aree cittadine fortemente colpite dalla disoccupazione, dalla dismissione, dal degrado complessivo da mancanza di investimenti, restituendo almeno in parte fiducia e prospettive agli abitanti. Questo doveva essere, la rigenerazione urbana, che in sé e per sé poteva anche comporsi di quote molto variabili, di quegli interventi a «riattivare la vitalità», ovvero certamente in qualche modo intrecciandosi con la riqualificazione edilizia e urbanistica, ma non per forza consistendo prevalentemente di quello.

Rigenerazione, riqualificazione, ricostruzione …
Del resto, perché mai qualcuno avrebbe dovuto prendersi la briga di coniare un termine nuovo, per descrivere una cosa vecchia e banale come le manutenzioni straordinarie, o nei casi più gravi la demolizione e ricostruzione edilizia? Per quello c’erano già consolidate denominazioni, dal restauro, al cosiddetto diradamento, fino al radicale urban renewal inventato dagli americani. Invece il termine nuovo stava nelle intenzioni a dire che nessuno voleva far passare necessariamente ruspe o imbianchini, idraulici e serramentisti nei quartieri, salvo all’interno di un programma nel quale la loro opera contribuisse al raggiungimento di quegli obiettivi: restituire vitalità locale, e magari innescare virtuosi processi di sviluppo. Ma non si erano fatti i conti con l’antica fede nell’edilizia come volano onnicomprensivo, nonché con l’idea piuttosto reazionaria (quella sì derivata dallo urban renewal pratico) che in fondo quelli non erano investimenti, ma spese di contenimento per una pressione sociale che si voleva in via di esaurimento. Chiudere la gente dentro qualche casetta un po’ risistemata, aspettando che la smettesse di pretendere altro, e magari lasciar speculare un po’ i privati interessati all’affare. È così che via via la «rigenerazione» ha cominciato a non rigenerare alcunché, riversando tutte le proprie risorse nelle trasformazioni edilizie e urbane, a volte addirittura nella sostituzione sociale detta propriamente gentrification. Che fare? Qui rispunta una idea «di sinistra» piuttosto ovvia, che però pareva essere sfuggita: ribadire i termini iniziali, manco fossimo in un Dizionario.

Tema, svolgimento
Ovvero che parlando di «rigenerazione» bisogna far riferimento a un marchio registrato, e che questa registrazione deve essere garantita, per esempio da chi eroga fondi e concede deroghe o facilitazioni. Cosa c’è di meglio, se non un vero e proprio «Manuale per avvicinarsi alla Rigenerazione dei Quartieri mettendo al centro i loro Abitanti»? Ci ha pensato l’amministrazione progressista della Grande Londra, specificando da subito che il vero processo Doc è quello applicato in modo circoscritto ai complessi di edilizia sovvenzionata per famiglie bisognose (ergo da rivitalizzare o garantire): lì dentro anche una relativa centralità dell’intervento edilizio, spesso giustificatissima per pregressa mancanza di investimenti in manutenzioni e adeguamenti, pare abbastanza ovvio metta al centro gli abitanti, le loro relazioni, e probabilmente anche la società urbana nel suo complesso. Gli obiettivi, molto tecnicamente parlando, sono qui riassumibili in tre grandi categorie: garantire abitazioni di qualità decorosa, magari anche sperimentando soluzioni innovative da vari punti di vista; rispondere alle nuove e vecchie domande residenziali e di composizione funzionale-sociale dei quartieri, dei servizi, degli equilibri con il contesto; migliorare complessivamente intere zone dal punto di vista socioeconomico e fisico, in modo diverso dal processo di valorizzazione immobiliare classico della «riqualificazione» privata. E fare tutto questo con più di un occhio di riguardo a grandi strategie di evoluzione metropolitana (per esempio dal punto di vista della mobilità sostenibile attraverso gli standard) e degli strumenti di programmazione del territorio. Con buona pace delle «visioni» di qualche riqualificatore a senso unico, in realtà mandato da chi vede un solo futuro per la città: farci molti soldi. Una visione poco progressista quest’ultima, no?

«Mentre sugli scali ferroviari siamo chiamati a dilettarci fra architetture ardite, rendering trompe-l’oeil e pecorelle urbane, i termini economici dell’accordo di programma che il Comune vuole “completare entro l’estate 2017” restano alquanto oscuri». arcipelagomilano.org, 12 aprile 2017 (m.c.g.)

Mentre sugli scali ferroviari siamo chiamati a dilettarci fra architetture ardite, rendering trompe-l’oeil e pecorelle urbane, i termini economici dell’accordo di programma che il Comune vuole “completare entro l’estate 2017” restano alquanto oscuri. Una meritoria iniziativa di dibattito pubblico della Casa della Cultura del 27 marzo scorso sul tema "Il recupero degli scali ferroviari: chi ci guadagna?" ha consentito di fare qualche chiarezza sui vistosi limiti dell’Accordo di Programma: quello bocciato in Consiglio comunale nel dicembre 2015 e riproposto fin qui come base di discussione senza indicazione alcuna sul suo aggiornamento.

L’Accordo di programma del 2015 è assi diverso rispetto alle precedenti stesure del 2005 e 2007: come ha mostrato Giorgio Goggi al convegno, esso non prevede più il totale reinvestimento dei plusvalori emergenti sulla rete ferroviaria da parte di FS, mutando in maniera sostanziale la filosofia di fondo in senso privatistico. Non vogliamo qui entrare su problemi più generali, ma solo attrarre l’attenzione sui vantaggi finanziari che al Comune spetterebbero e sulle procedure che occorre riportare su binari giuridicamente corretti.

Il testo dell’Accordo non considerava che, già prima della sua sottoscrizione, avvenuta il 18 novembre 2015, da parte dei rappresentanti del Comune, della Regione e di Ferrovie, il Testo Unico in materia Edilizia era stato modificato dal cosiddetto decreto Sblocca Italia (settembre 2014), il quale aveva introdotto una innovazione di grande portata istituzionale ed economica in tema di oneri dovuti per il rilascio del permesso di costruire: un “contributo straordinario”, in aggiunta ai tradizionale oneri, da pagare in caso di varianti urbanistiche, pari ad almeno il 50% dei plusvalori generati dalla variante stessa (1).

Questa innovazione è applicabile all’Accordo di programma per gli scali ferroviari, che è stato fin dall’inizio concepito in variante alla pianificazione urbanistica comunale. La mancata considerazione dell’innovazione nel 2015 è dipesa, presumibilmente, dalla circostanza che il testo dell’Accordo era stato formato già prima del 2014 e ci si era dimenticati di adeguarlo alla novità legislativa allora intervenuta. Ma oggi non è possibile continuare a dimenticarsi di quella novità, assai rilevante per l’Accordo. In mancanza dell’Accordo di programma, per le aree degli scali ferroviari il PGT consente esclusivamente interventi di manutenzione o ampliamento di impianti strumentali all’esercizio ferroviario (art. 8, comma 4, delle norme di attuazione del documento di piano del PGT). È dunque certo che l’Accordo di programma configura una variante urbanistica e che pertanto è soggetto alla disciplina introdotta nel 2014.

Il testo dell’Accordo non fa menzione di questa disciplina, ma ne adombra suggestivamente il contenuto indicando che, oltre ai normali oneri (i famosi 50 milioni anticipati da FS), si riconoscerà al Comune il 50% su eventuali plusvalenze. Ma il testo costruisce una definizione del tutto fantasiosa e fuorviante del computo di tali plusvalenze: esse risulterebbero dalla differenza fra “i valori di cessione delle aree (…) e i valori netti contabili delle aree al momento delle cessioni delle stesse (VNC)” (art. 14.5.a dell’AdP).

Questa definizione dei valori netti contabili (cioè in sostanza del valore economico dell’intero programma di trasformazione urbana) è quella che vige nella tassazione statale dei redditi di impresa e dei capital gain, ma non ha nulla a che fare con quella che governa la tassazione locale delle trasformazioni urbane, che fa riferimento alle plusvalenze realizzate grazie alla variante rispetto alle vigenti disposizioni di piano in materia di usi del suolo e volumetrie costruibili (2).

Attraverso opportune rivalutazioni dei cespiti fondiari e immobiliari prima della loro vendita, ogni impresa potrebbe sempre azzerare le plusvalenze ai fini del contributo da pagare al Comune! Questa indicazione dell’AdP ha già fuorviato in modo sostanziale quel poco di dibattito politico sull’economia dell’Accordo (il M5S ha addirittura presentato una interrogazione parlamentare sui valori delle aree nel bilancio FS, una questione che appare invece irrilevante per il caso milanese).

A quanto corrisponderebbe l’onere per Ferrovie derivante dalla vigente legislazione sugli oneri urbanistici? Una valutazione cautelativa di larga massima – effettuata partendo dalla destinazione attuale dei suoli nel PGT di Milano e scontando tutte le previsioni di costi indicate nell’allegato finanziario dell’AdP – presentata da Gabriele Mariani alla citata conferenza della Casa della Cultura e da cui non abbiamo motivo di discostarci dopo ripetute riflessioni, indica il valore delle plusvalenze complessive realizzabili dal programma in un miliardo di euro e il conseguente pagamento al Comune in 500 milioni (da aggiungere agli oneri tradizionali). C’è all’evidenza una certa differenza rispetto ai 50 milioni promessi, per cui è lecito parlare di penalizzazione dell’interesse pubblico.

La giustificazione che l’AdP implicitamente fornisce si lega al dettato dell’art. 31.3 delle norme di attuazione del Piano delle regole, che rinvia per le destinazioni e le volumetrie delle aree ferroviarie proprio all’Accordo di programma (già a quel tempo avviato). Ma quella disposizione non muta il carattere di variante della pianificazione comunale dell’Accordo stesso, come riconosciuto in più punti dallo stesso testo dell’Accordo. L’Accordo di programma deve dunque rispettare la norma statale introdotta nel 2014 sul contributo dovuto al Comune per il plusvalore derivante dalle variazioni di piano.

Infine: nel documento del Comune di Milano del novembre 2016 sulle linee di indirizzo per rilanciare l’Accordo di programma non si fa menzione di un elemento cruciale. Il vecchio Accordo è decaduto per la sua mancata ratifica da parte del Consiglio comunale entro il termine di trenta giorni dalla sua sottoscrizione, e con tale bocciatura ha cessato di generare aspettative di automatico recepimento del PGT vigente. È ben possibile riavviarlo, facendo salve molte analisi e molti accordi (non quelli finanziari però!); ma esso avrà bisogno di avere una esplicita accettazione, ancora una volta come variante totale.

L’AdP ora in discussione è un nuovo Accordo, del tutto distinto da quello bocciato. C’è la possibilità di ripensarlo, anche interpretando le ragioni della precedente caduta: nelle volumetrie, che in una città già densa paiono eccessive, nella visione che deve aprirsi alla città metropolitana e negli obblighi delle parti. In particolare occorre chiarire entità e qualità degli investimenti di Fs sulla rete, anche considerando che una parte rilevante sarà realizzata a fronte di oneri dovuti, evitando che si addossino al programma piccoli investimenti, casuali, che Fs deve effettuare comunque per fornire un servizio adeguato (come si fa nell’AdP).

Il Comune dovrà pensare attentamente a firmare impegni penalizzanti per le sue finanze, trascurando l’innovazione introdotta nel 2014 che impone di riservare al Comune almeno la metà del plusvalore generato dalla variazione di pianificazione insita nell’Accordo di programma. Gli amministratori che non ne tenessero conto si esporrebbero a responsabilità amministrativa patrimoniale nei confronti del Comune, per aver omesso un’entrata doverosa. E l’intera procedura giuridico-urbanistica-fiscale dovrebbe essere improntata a nuovi criteri di trasparenza, data la natura pubblica di tutti i partner e la natura di beni di interesse comune che queste aree posseggono.

Politecnico di Milano e Università Statale di Milano

1) L’art. 18, comma 4, del testo unico dell’edilizia (d.P.R. 380/2001), come modificato dall’art. 17 del decreto Sblocca Italia (d.l. 12 settembre 2014, n. 133, conv. in l. 11 novembre 2014, n. 164) stabilisce che «L’incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria è stabilita con deliberazione del consiglio comunale in base alle tabelle parametriche che la regione definisce per classi di comuni in relazione: (…) d-ter) alla valutazione del maggior valore generato da interventi su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d’uso. Tale maggior valore, calcolato dall’amministrazione comunale, è suddiviso in misura non inferiore al 50 per cento tra il comune e la parte privata ed è erogato da quest’ultima al comune stesso sotto forma di contributo straordinario, che attesta l’interesse pubblico, in versamento finanziario, vincolato a specifico centro di costo per la realizzazione di opere pubbliche e servizi da realizzare nel contesto in cui ricade l’intervento, cessione di aree o immobili da destinare a servizi di pubblica utilità, edilizia residenziale sociale od opere pubbliche.»

2) Nel caso del Comune di Roma, in cui il contributo straordinario è nato giuridicamente, le plusvalenze sono infatti computate proprio così.

Emergenza cultura online, 12 aprile 2017

Si è infine sentita la la voce del ministro che su Repubblica (6 aprile) mette anche la sua firma sotto questo articolo 68 infilato da un emendamento corsaro, in senato, seconda lettura, nel disegno di legge per la concorrenza e il mercato (per promuovere concorrenza e mercato). Appunto “per favorire la circolazione dell’arte contemporanea”, che non sembra propriamente compito del ministro per i beni culturali, “la soglia temporale per il vincolo, dice, è portata a 70 anni”. Ma il ministro non dice, forse perché non lo ha inteso, che quel limite dall’arte contemporanea è stato esteso per trascinamento, ben oltre il fine, a ogni specie di beni del cui interesse culturale si possa discutere, beni immobili compresi, ben fermi lì dove stanno.

E garantisce che l’art. 68 “è frutto del lavoro di parlamento, governo e associazioni”, non certo quelle per la tutela che dovrebbe sentire più vicine, ma il gruppo di interesse formato dai mercanti d’arte all’insegna, come si è letto, di “Apollo 2”, assistiti da professionalità di eccellenza che, non smentita, si è presa il merito di aver dettato testualmente la nuova disciplina Parla di governo, il ministro, non specificamente del suo mibact, al quale si addicono modi di iniziativa del tutto diversi per promuovere la riforma di ben nove ed essenziali articoli del codice dei beni culturali. E nella stesura di questo articolo 68, che mal si armonizza nel testo del disegno di legge, si stenta francamente a riconoscere il contributo del ministero per i beni culturali, mentre integralmente risultano soddisfatte le rivendicazioni tradizionali della lobby degli antiquari, anche al costo di cancellare un principio generale fermissimo fin dalla legge Rosadi, quello per cui sono sufficienti cinquant’anni dalla esecuzione del bene perché possa essere espressa una valutazione critica sicura sul suo interesse culturale.

E’ vero che questo principio aveva subito una singolare eccezione nel 2011, con il dichiarato proposito di “riconoscere massima attuazione al federalismo demaniale” e così spostare a ritroso fino a settant’anni lo spazio temporale di libera disponibilità al trasferimento dei beni immobili dello stato ai comuni, fuori da ogni controllo della istituzione di tutela. La modifica al codice dei beni culturali andò oltre questo dichiarato fine e introdusse la nuova regola per tutti i beni immobili appartenenti non solo agli enti pubblici, ma pure a quelli ad essi assimilati dall’art.10 comma 1 del codice, enti ecclesiastici e persone giuridiche private, le fondazioni innanzitutto, senza fine di lucro. Uno strappo nel tessuto coerente e compatto della tutela che certo, per la irragionevole disparità di trattamento (in ragione della natura del bene, mobile e immobile, e per la titolarità proprietaria), si espone a rilievi di legittimità costituzionale. Un rischio che si è voluto evitare nella disciplina dei controlli all’esportazione – uscita dei beni culturali e quindi ne è risultato elevato generalmente alla soglia dei settant’anni, per beni immobili e mobili, di appartenenza pubblica e privata, il tempo per così dire di attesa. E così si pensa di aver messo al sicuro da ogni dubbio di costituzionalità anche lo sgarro del federalismo demaniale. Ma è un colpo grave alla consistenza stessa del patrimonio storico artistico della nazione, una ulteriore amputazione per corrispondere alle rivendicazioni del mercato antiquariale.

Nell’elenco dei “tipi” di bene culturale dell’art.10, comma 2, del “codice” l’art.68 introduce una singolare nuova categoria di beni – lettera d-bis – in ragione dell’interesse “eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione” che in quell’elenco non trova una autonoma obbiettiva caratterizzazione intrinseca, riflettendo soltanto il grado elevato dell’interesse culturale richiesto, particolarmente importante per i beni di appartenenza privata (tributo al terribile diritto di proprietà privata), mentre un non qualificato interesse è requisito sufficiente per la tutela del bene pubblico. E’ il consecutivo comma 5 che dà ragione di questa nuova anomala categoria di beni per i quali, siano mobili o immobili, di appartenenza pubblica o privata, vale la più breve soglia temporale dei cinquant’anni. Insomma è il recupero estremo ed eccezionale dello spazio di tempo, prospettiva a ritroso, cui da oltre un secolo si è fatto costante e generale riferimento per il riconoscimento del bene culturale. Ma a ben vedere è la spia di irragionevolezza della discriminazione e dello stesso allungamento dei tempi a settant’anni. Il diverso grado dell’interesse (particolarmente importante, eccezionale) non può dare giusto motivo alla diversa disciplina dei tempi di riconoscimento e il più breve termine, solo eccezionalmente ammesso, sufficiente per consentire l’apprezzamento al riguardo, non può non valere generalmente per il riconoscimento del bene culturale. Questione di legittimità costituzionale non certo infondata. Ma la ragione della invenzione di questa nuova categoria di beni culturali si deve esclusivamente trovare nella copertura alla innovazione della disciplina dell’esportazione tutta orientata alla facilitazione della circolazione dei beni che costituiscono l’oggetto del mercato dell’arte. Su questa nuova categoria si fonda il dispositivo, in realtà meramente virtuale, che dovrebbe contenere gli effetti estremi dell’ampia apertura all’esportazione, essendo dato al soprintendente il potere di negare l’autorizzazione pur nel difetto del requisito del minimo valore o del mancato raggiungimento della soglia dei settanta anni (sempre che sia stata superata quella dei cinquanta) se avrà rilevato nello specifico bene a lui presentato per il vaglio all’uscita quell’eccezionale interesse. Ma non basta il suo giudizio per fermarlo, perché, deviazione dall’ordine normale delle competenze, la questione sarà decisa dal “competente organo centrale del ministero” (il direttore generale deve intendersi). Procedimento anomalo e attardante che scoraggia l’esercizio della eccezionale facoltà.

Nella modifica dell’art. 63 del “codice” sta il cuore di questa obliqua riforma e la fonte della sua ispirazione. L’art.63 ha origine, come è ben noto, in una lontana disposizione del t. u. delle leggi di pubblica sicurezza (1931) sul commercio dell’usato, che fu ripresa in funzione dell’esercizio della tutela nel testo unico del 1999 in materia di beni culturali e ambientali. Si vuole dunque oggi che già nella bottega dell’antiquario si formi e si consolidi la qualificazione degli oggetti del suo commercio, secondo due distinti elenchi (del registro tenuto in formato elettronico), quello dei beni che, se se ne volesse programmare l’esportazione, dovranno essere presentati al soprintendente; e quello dei beni che ne sono invece esenti secondo un attestato rilasciato in modalità informatica (dallo stesso soprintendente deve intendersi). Ed è poi il consecutivo art. 65 contestualmente modificato che fissa la disciplina della esenzione. Certo, al soprintendente è data la facoltà di richiedere la presentazione del bene incluso nell’elenco (da lui consultabile, dice l’articolo, in tempo reale) dei beni esenti , ma dovrà sbrigarsi perché l’elenco riguarda le vendite e dunque il bene già è passato nella disponibilità dell’acquirente che è fornito dell’attestato rilasciato in modalità informatica e, se è questa la sua intenzione, lo potrà liberamente esportare.

Insomma un sistema di massima garanzia per l’antiquario e per il suo acquirente, cui corrisponde per contrappasso un debolissimo presidio della tutela, valendo paradossalmente il sistema informatico di libero accesso al registro come presunzione di conoscenza da parte del soprintendente, i cui uffici, specie dopo la recente riforma dell’organizzazione, stanno in drammatico affanno. L’art.65 riformato ci dice infine quali beni debbono essere iscritti nell’elenco dei beni esenti, che sono quelli “il cui valore sia inferiore ad euro 13.500” e considera l’ipotesi di uscita definitiva del bene a richiesta del possessore che, deve intendersi, non sia già fornito dell’attestato rilasciato in via informatica se lo ha acquistato dall’antiquario e il soprintendente non abbia allora richiesto la fisica presentazione. La facoltà per il soprintendente di richiedere la presentazione del bene non sembra neppure contemplata se è il possessore ad accedere all’ufficio di esportazione con la istanza di esenzione dalla autorizzazione, perché l’onere di provare che il bene rientra “nelle ipotesi per le quali non è prevista l’autorizzazione” è adempiuto attraverso l’autocertificazione, “ai sensi del testo unico di cui al D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445”, che ha valore di prova fino a querela di falso, il soprintendente la deve assumere come fondata e solo se avrà individuato in quel bene l’interesse “eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della nazione” potrà avviare il procedimento di dichiarazione che si concluderà, come già si è dato atto, entro sessanta giorni “con decreto del competente organo del ministero”. Non è neppure il caso qui di insistere sull’assurdo parametro del valore commerciale in funzione del riconoscimento dell’interesse culturale (in linea di granitico principio mai condizionato dall’apprezzamento economico) quando in ogni caso del tutto arbitraria è la determinazione del limite convenzionalmente assunto. Ma il valore commerciale non è certo un dato obbiettivamente misurabile e stabile, affidato come è all’imponderabile umore del mercato e dunque è espressione di un apprezzamento soggettivo che, come tale, non può razionalmente costituire (così per altro la stessa indicazione del tempo di esecuzione dell’opera, spesso opinabile) oggetto della formale certificazione presidiata dalla presunzione legale di verità.

Ben sappiamo che la inconsulta riforma di organizzazione della trama diffusa della tutela con l’accorpamento delle soprintendenze e la creazione dei poli museali (destinazione preferita dei funzionari storici dell’arte) ha messo in grave crisi l’esercizio della funzione di “dogana” e converrà allora, recondita consapevolezza, formalizzare con questo articolo 68 dello statuto di mercato e concorrenza la resa definitiva alla vivacità del mercato.

«Il Def congela l'ipotesi autostradale e apre all'adeguamento dell'Aurelia da Grosseto a Civitavecchia. Ambientalisti soddisfatti, ma sui finanziamenti per ora ci sono solo 120 milioni ». il manifesto, 11 aprile 2017 (c.m.c.)

Ritorno al duemila per la Tirrenica, l’anno in cui – dopo una prima bocciatura della valutazione di impatto ambientale – i governi dell’epoca (D’Alema e poi Amato) ipotizzarono una superstrada a quattro corsie da Grosseto a Civitavecchia. Passati ben 17 anni fra maxi progetti autostradali, interni o costieri, e una opposizione sempre più radicata sul territorio maremmano, ora il Documento di economia e finanza congela l’ipotesi autostradale. Più per i problemi dell’iter amministrativo, visto che la concessione data senza gara dallo Stato a Sat (Società autostrada tirrenica) portava dritta all’apertura di una procedura d’infrazione Ue, che per dare, una volta tanto, ragione ai contestatori. Ma attenzione: «Ci auguriamo che Anas sia stata incaricata dal ministero alle infrastrutture e trasporti di predisporre le risorse – osserva Anna Donati di Green Italia – quindi il nostro impegno continua per arrivare davvero alla messa in sicurezza dell’Aurelia».

Tecnicamente sulla grande opera verrà fatta una “project-review”. «Con valutazione delle possibili alternative – è scritto nel Def – inclusa la riqualifica dell’attuale infrastruttura extraurbana principale». «Del resto la Conferenza dei servizi è ancora aperta», ha osservato sul punto un fan dell’autostrada come il il viceministro Riccardo Nencini. Comunque le associazioni ambientaliste festeggiano. Italia Nostra, che per prima denunciò i problemi dell’intervento infrastrutturale, ricorda: «Nella battaglia si sono unite a noi le altre grandi associazioni nazionali, come Lega Ambiente, Fai e Wwf. Ma sono soprattutto le tante associazioni locali come Colli e laguna di Orbetello, Maremma viva di Capalbio e la Lega dei comitati di Grosseto, oltre ad altre sigle ugualmente importanti, che ci hanno permesso di tenere duro». In altre parole la civile contestazione ambientalista ha trovato terreno fertile lungo l’intera Maremma.

Dal canto suo Legambiente, con Angelo Gentili, riepiloga quanto successo nell’ultimo periodo: «Dopo la bocciatura del progetto da parte dei Comuni interessati e delle associazioni, si blocca un progetto impattante sul profilo ambientale che non rispetta le esigenze del territorio e delle comunità, con pedaggi salati, complanari inadeguate, e flussi di traffico che non giustificano affatto un’opera autostradale. Ora quello che serve sono cantieri per mettere in sicurezza subito i punti più critici, partendo dai pericolosissimi tratti a due corsie e dagli incroci a raso».

Il problema è che, al momento, l’Anas ha stanziato solo 120 milioni, per la manutenzione del tratto già a quattro corsie – la Variante Aurelia – che va da Rosignano fino a Grosseto. Lavori comunque indispensabili, visto che quei 120 chilometri erano stati da anni abbandonati a se stessi, forse per forzare la mano da parte dei fan autostradali. Ma da Grosseto al confine con il Lazio di soldi ne occorreranno molti di più. Circa un miliardo, lavorando con oculatezza.

Proprio di finanziamenti sembra parlare la senatrice Alessia Petraglia di Sinistra italiana: «Sono stati persi anni importanti per una ostinazione che non rispondeva alle richieste che arrivavano dal territorio. Adesso il governo, il Pd e lo stesso Enrico Rossi si impegnino a mettere in sicurezza la strada, velocemente. Se non si può recuperare il tempo perso dietro alla loro ostinazione, magari si può provvedere alla sicurezza di chi utilizza tutti i giorni quel tratto di strada». In quel “velocemente”, a due mesi dalle elezioni amministrativa e a dieci dalle politiche, c’è il senso dell’ennesima, possibile beffa di un adeguamento superstradale apprezzato dagli elettori, ma poi bloccato sine die dalla mancanza di risorse.

Per certo anche il Pd toscano, con il capogruppo (e maremmano) Leonardo Marras avverte: «Se confermate, le anticipazioni sulla Tirrenica sono in linea con le richieste del partito. Credo che quella del ministero sia la scelta più saggia, a patto però che la revisione del progetto e la decisione definitiva avvengano in tempi rapidi». Visto che la Conferenza dei servizi è ancora aperta, non resta che stare a vedere. Per scoprire eventuali bluff, sulla Tirrenica non sarebbe la prima volta.

Durante una conferenza stampa affollata di autorità - sindaco, prefetto, questore, sopraintendenza, giornali locali e nazionali - il 7 aprile 2017 è stato presentato il progetto ... (segue)

Durante una conferenza stampa affollata di autorità - sindaco, prefetto, questore, sopraintendenza, giornali locali e nazionali - il 7 aprile 2017 è stato presentato il progetto per il restauro dei Giardini reali di Venezia, promosso dalla Venice gardens foundation in partnership con assicurazioni Generali.

Il coinvolgimento dei due soggetti privati nell’operazione ha origine in due decisioni adottate dal comune di Venezia, tra il 2014 e il 2015, durante l’amministrazione straordinaria del commissario Vittorio Zappalorto.

La prima è la firma, il 23 dicembre 2014, di un protocollo d’intesa con la Venice gardens foundation onlus un’associazione che “attraverso il sostegno di mecenati” (all’epoca non meglio identificati) si era offerta di occuparsi del restauro dei giardini, dal costo previsto di tre milioni e ottocentomila euro, in cambio della concessione a gestirli per diciannove anni.

L’intesa era stata molto elogiata dai rappresentanti delle pubbliche istituzioni. «Quasi un regalo di Natale per la città» l’aveva definita l’allora sopraintendente Renata Codello che aveva sottolineato «l'affidabilità della fondazione che ha avanzato una proposta di qualità».

La seconda decisione è la chiusura, il 6 marzo 2015, del contenzioso che il comune aveva con Generali, con l’accettazione di fatto di tutte le pretese circa le destinazioni d‘uso delle Procuratie Vecchie - la costruzione di cui la società è proprietaria e che con i suoi centocinquantadue metri di lunghezza delimita l‘intero lato nord di Piazza San Marco - inclusa la possibilità di realizzarvi delle residenze per ricchi, pudicamente denominate foresteria per studiosi.

All’epoca, tra le due decisioni non era emerso nessun collegamento; sembravano solo due dei tanti regali ai privati che ormai non fanno più notizia.

Nel 2016, però, fondazione e Generali hanno sottoscritto un accordo in seguito al quale Generali diventa sponsor unico del restauro dei giardini e mette a disposizione due milioni e cinquecentomila euro per i lavori, mai partiti sebbene l’intesa con il comune ne prevedesse l’inizio nel 2015. Ora i promotori assicurano che saranno completati in tempo per poter partecipare alla prossima Biennale di Architettura, nel 2018.

I termini di questo accordo, che si potrebbe definire una sorta di mecenatismo in subappalto, non sono stati resi noti. Forse i due soggetti privati, l’un dell’altro mecenate, non sono obbligati alla trasparenza, ma lo sono certamente le pubbliche istituzioni grazie alla cui operosità si è arrivati alla situazione odierna e che, invece, non fanno sapere né i criteri in base ai quali il comune ha firmato l’intesa con la fondazione, senza garanzia della effettiva disponibilità dei fondi, né quali benefici la fondazione trasferisce o concede alle Generali in cambio della elargizione in denaro. Nessuna informazione è stata data neppure circa l’eventualità che, in occasione di eventi e cerimonie di rappresentanza, alle Generali sia riservato l’uso esclusivo dei giardini trasformati in prestigiosa porta d’acqua della propria sede.

Al riguardo nulla ha detto Adele Re Rebaudengo, presidente della Venice gardens foundation, che ha calorosamente ringraziato Generali “a nome dei veneziani”. E nulla ha detto Philippe Donnet, amministratore delegato della società, che si è attenuto al ruolo di elegante padrone di casa durante tutta la cerimonia, nel corso della quale, con un’accurata regia i due mecenati, dopo essersi elogiati a vicenda, hanno concesso la parola ai rappresentanti delle istituzioni che hanno fatto a gara nel profondersi in ringraziamenti.

Il direttore dell’agenzia del demanio Roberto Reggi ha esordito dicendo «io rappresento lo stato», ma si è subito corretto aggiungendo «lo stato non ha risorse, quindi grazie al moderno mecenate, grazie a Franceschini, e grazie a Generali».

In quanto rappresentante dello stato, avrebbe dovuto ricordarsi che, dei due milioni e cinquecentomila euro “donati” dalle Generali (cifra inferiore al compenso ufficialmente percepito nel corso del 2016 da Philippe Donnet) il 65 % viene recuperato dalla società come credito d’imposta e il resto è vincolato all’uso deciso dal mecenate. Il che significa che, mentre un contribuente veneziano normale paga l’irpef per comprare armi, l’addizionale regionale per pagare autostrade inutili, l’addizionale comunale per pagare il carnevale e la tassa rifiuti per rimuovere l’immondizia prodotta dai turisti, Generali pagano per mettere a posto il giardino davanti a casa loro. Più che di mecenatismo, quindi, si tratta di un classico esempio di improvement business district, che è il modello a cui ormai si ispirano i pubblici funzionari. Come ha detto la rappresentante della sopraintendenza, infatti, «è stato un percorso molto emozionante, mostra l’importanza del settore privato, è proprio la strada da seguire».

Emozionato si è dichiarato anche il sindaco Brugnaro e molto soddisfatto per il «bel rapporto tra pubblico e privato». Un bel rapporto, grazie al quale il progetto descritto nell’intesa del 2014 è stato in parte modificato, cosicché ora il restauro dei giardini include la costruzione di ventuno (!) bagni. Una dotazione palesemente sovradimensionata per un giardino di cinquemila e cinquecento metri quadrati, ma forse è questo il piano di gestione dei flussi turistici annunciato dal comune.

Sommerso dai ringraziamenti, Donnet non ha risposto come avrebbe fatto Crozza/Marchionne «non voglio che mi si dica grazie», ma ha sottolineato che anche lui si considera cittadino di Venezia, perché vi possiede casa, dando prova di quella concezione medievale della società, secondo la quale il diritto di cittadinanza si basa sulla proprietà, che è il tratto distintivo dei mecenati dei nostri tempi.

Postilla

in fondo, in secondo piano, le arcate delle Procuratie vecchie

La vicenda denunciata da Paola Somma è un anello d’una catena di eventi (criminosi, verrebbe voglia di dire) che inizia da lontano. È utile ricordarle non solo per indicare le responsabilità di chi ha preparato gli eventi che oggi ci colpiscono ma anche per ricordare che la difesa dei patrimoni collettivi richiede un'attenzione continua: ed è anche per questo che ci sforziamo di aggiornare questo sito.

Nella documentazione raccolta sueddyburg il primo anello lo troviamo il 26agosto 2001, in un articolo di Luigi Scano (L’associazione Polis sulle Procuratie vecchie) che denunciava il tentativo delle Assicurazioni generali di utilizzarealcuni piani del complesso della parete Nord di Piazza San Marco per residenze,e racconta gli “errori" della Giunta Massimo Cacciari-Roberto D’Agostinoche, “liberalizzando” il piano regolatore, aprì tra l’altro la strada all’iniziativa delleAssicurazioni. La questione riemerge 14 anni dopo. Lastampa locale dà notizia della riproposizione da parte delle Assicurazioni delloro progetto. Il 9 marzo 2015 Paola Somma domanda,su eddyburg, Di chi èPiazza San Marco? Il 21 Marzo, in una newsletter dell’associazione "Venezia Cambia 2015", Giampietro Pizzodenuncia a sua volta l’iniziativa e riprende l’articolo di Luigi Scano del 2001 (Giùla mani da Piazza San Marco). 1l 25 aprile Enrico Tantucci descrivesu La Nuova Venezia il progetto e riporta la durissima critica di Lidia Fersuoch, (ProcuratieVecchie, spuntano gli alloggi).
Le date successive, e i relativi eventi, sono ancora da scrivere. (e.s.)

«Una storia «in cui si intrecciano tanti fattori quali il problema dei poveri, la questione delle abitazioni, la religione, il paternalismo, l’assistenzialismo, il capitalismo, gli esiti della rivoluzione industriale, l’utopia, la lotta di classe, l’urbanistica, l’archeologia industriale». il manifesto, 6 aprile 2017

Renato De Fusco è professore emerito di Storia dell’architettura all’Università Federico II di Napoli. Un fattore particolare sembra legare i numerosi scritti da lui pubblicati nel corso degli anni: il fatto di presentare tanti motivi di interesse anche per chi non sia particolarmente addentro alle questioni architettoniche pure.
NON SI TRATTA, in questo caso, di voler fare divulgazione della disciplina, ma piuttosto di offrire uno sguardo ampio che, pur rimanendo all’interno del contesto storico-architettonico, faccia emergere questioni, temi, problematiche interessanti e coinvolgenti anche per chi architetto non è. Basti pensare, a tale proposito, al confronto instaurato nei suoi saggi a partire dagli anni Settanta del secolo scorso tra storiografia architettonica e strutturalismo o al tentativo di delineare una teoria semiotica dell’architettura. Uno sguardo, poi, sempre penetrante e in grado di offrire interpretazioni illuminanti di edifici, costruzioni, manufatti. Come nel caso dell’analisi della Rotonda palladiana o di Sant’Ivo alla Sapienza, solo per fare qualche esempio.

TALI CARATTERISTICHE si ritrovano limpidamente intatte nell’ultimo lavoro pubblicato da De Fusco insieme ad Alberto Termino, intitolato Company town in Europa dal XVI al XX secolo (Franco Angeli edizioni, pp. 144, euro 19) e dedicato, appunto, a quegli «insediamenti di natura industriale nati per conciliare le esigenze di unire casa e lavoro in un unico centro abitato funzionale agli interessi dell’imprenditore e di quelli dell’operario, a seconda delle idee che stanno alla base della iniziativa imprenditoriale».
Il libro, dopo aver delimitato il proprio oggetto dal punto di vista del tempo, dello spazio e della sua definizione, si presenta come un’analisi accurata degli antecedenti – come i Beghinaggi, la Fuggerei di Augsburg o l’insediamento manufatturiero e agricolo di San Leucio presso Caserta – e delle vere e proprie Company town sorte in Europa con la rivoluzione industriale.

Non mancano, naturalmente, le esperienze più note, come New Lanark di Owen o il Falansterio di Fourier o le colonie Krupp ad Essen, ma si ritrovano anche esperienze meno conosciute o addirittura ignote, almeno per chi non è esperto della materia, come il Familisterio di Godin o Saltaire vicino Leeds.

IL DISCORSO si snoda tra analisi architettoniche ed urbanistiche, esigenze di razionalizzazione, paternalismo e tentativi di controllo ispirati al Panopticon di Jeremy Bentham. Non mancano raffronti con il resto, la maggioranza, della classe operaria esclusa da tali esperienze sulla scorta della famosa analisi engelsiana sul proletariato inglese.

AD EMERGERE non sono le figure di architetti e progettisti ma quelle degli imprenditori, veri artefici di tali siti abitativi. Ma soprattutto le Company town si confermano essere, secondo la tesi enunciata in apertura dagli autori, una sorta di «storia minore» all’interno dell’Architettura, uno snodo complesso e fondamentale, «un’occasione forse irripetibile» in cui si intrecciano tanti fattori quali «il problema dei poveri, la questione delle abitazioni, la religione, il paternalismo, l’assistenzialismo, il capitalismo, gli esiti della rivoluzione industriale, l’utopia, la lotta di classe, l’urbanistica, l’archeologia industriale».

la Repubblica online, blog "Articolo 9".6 aprile 2017

La Grecia aveva detto no. No ai 56 milioni offerti da Gucci per sfilare sul Partenone. Il perché l'aveva spiegato bene un poeta greco, Pantelis Boukalas:

«Il Partenone è parte del patrimonio culturale dell’umanità non solo perché è bello, ma perché è un luminoso simbolo di democrazia. L’ultimo tentativo di umiliarlo è stata una richiesta della casa di moda Gucci di tenere una sfilata di moda sull’Acropoli, usandolo come sfondo. L’argomento a favore sarebbe che ciò promuoverebbe la libertà dell’espressione artistica e l’innovazione creativa. Questa artificiosa giustificazione non riesce a spiegare perché la libertà artistica dovrebbe passare attraverso la sottomissione di uno dei più grandi simboli dell’umanità a interessi commerciali. Il valore simbolico del Partenone è stato minacciato anche quando è stato recentemente chiuso al pubblico in occasione della visita del presidente americano Barack Obama, ma il danno sarebbe esponenzialmente più grande se il monumento fosse usato come fondale di un evento commerciale. L’argomento che esso beneficerebbe dell’enorme compenso o della pubblicità dell’evento è solo il travestimento di un cinismo abbietto».

Ora Gucci ha vinto: giocando in casa, cioè a Firenze. E ha risparmiato 54 milioni: per due milioncini tondi la sfilata rifiutata da Atene si farà nelle sale della Galleria Palatina di Palazzo Pitti. Cioè nel museo più sputtanato d'Italia, tra addii al celibato di milionari, prestiti imposti dalla politica, mostre di stilisti.

«Sputtanato»: questa è la parola giusta. Perché è chiaro che non si tratta di un progetto culturale, ma di prostituzione. Durante la conferenza stampa fiorentina il ceo di Gucci ha chiarito come stanno le cose, ironizzando in modo sciacallesco sul disastro della Grecia: «Evidentemente il bilancio greco è più solido di quello italiano...». Dunque, ecco come stanno le cose: prostituzione per povertà.

E ci volevano un direttore tedesco e un consiglio scientifico muto come una sfinge per raggiungere questo mirabile risultato.

Infine, l'immancabile benedizione del ministro Dario Franceschini: «anche la moda è parte del patrimonio culturale e della storia del nostro Paese dove il gusto, l'eleganza e l'educazione al bello fanno parte del nostro quotidiano. Il legame tra moda e arte è sempre stato molto stretto e ha spesso favorito occasioni di incontro suggestive e uniche. Come avviene oggi con un marchio prestigioso dello stile italiano che decide di investire in modo significativo su una grande istituzione culturale nel pieno rispetto della sua missione ... Ritengo molto positivo che queste due eccellenze, parti integranti della cultura e della creatività, stiano dialogando con sempre maggior coraggio».

Ciascuna delle affermazioni di questo vaniloquio, semicolto e in malafede, si può smontare e rovesciare nel suo contrario. L'educazione al bello è sempre stata congiunta all'educazione al giusto: qua siamo di fronte a grandi multinazionali che usano i beni comuni come location per vendere meglio i loro prodotti. Proprio i luoghi che ci dovrebbero liberare dal dominio incondizionato del mercato vengono sottomessi ed umiliati. E non è vero che la moda fa parte del patrimonio culturale come i musei: sono cose del tutto diverse. E la principale differenza sta nel vaglio del tempo: la Galleria Palatina accoglie opere che hanno superato un giudizio plurisecolare. Che senso ha metterle sullo stesso piano dell'ultimo modello di Gucci?

È una sorta di autoglorificazione del presente, che si arrampica sulle spalle del passato: autopromozione a buon mercato, attraverso un falso storico. E se a Pitti troviamo gli stessi abiti che popolano le vetrine delle strade che abbiamo percorso per raggiungere il museo, che cosa abbiamo fatto? In gioco non c’è la dignità dell’arte, ma la nostra capacità di cambiare il mondo. Il patrimonio culturale è una finestra attraverso la quale possiamo capire che è esistito un passato diverso, e che dunque sarà possibile anche un futuro diverso. Ma se lo trasformiamo nell’ennesimo specchio in cui far riflettere il nostro presente ridotto a un’unica dimensione, quella economica, abbiamo fatto ammalare la medicina, abbiamo avvelenato l’antidoto. E quale «dialogo» ci potrà mai essere tra i vestiti di Gucci e le pale d'altare di Andrea del Sarto, o le Madonne di Raffaello?

La Grecia ha un bilancio messo peggio del nostro. Ma noi abbiamo perso la dignità, grazie ad una classe politica abissale e a un ceto di intellettuali servile fino al grottesco. E ora anche grazie al patrimonio culturale più sputtanato del mondo.

la Repubblica, 5 aprile 2017

I detrattori lo chiamano “Svendiarte”. I fautori, al ministero dei Beni culturali, parlano di “facilitazione”. Ora, alla Camera, all’interno della Legge 2085 per il mercato e la concorrenza – su cui è stata posta la fiducia – si vota anche per il fantomatico articolo 68: che riguarda la circolazione internazionale delle opere d’arte. La soglia temporale perché un bene possa essere dichiarato culturale passa dai cinquanta ai settanta anni (come era già per i beni immobili pubblici). Si introduce poi un tetto di valore economico: 13.500 mila euro. Opere del valore uguale o inferiore potranno essere esportate dall’Italia senza autorizzazione, anche se realizzate più di settant’anni fa da un autore scomparso. Nascerà un registro informatico e un passaporto per favorire la circolazione. Da cui restano esclusi, però, reperti archeologici o provenienti da monumenti smembrati, così come i manoscritti o i testi a stampa più antichi
Tutto bene così? No, perché basterà una semplice autocertificazione con cui il proprietario potrà dimostrare di rispettare i parametri per portare i suoi beni oltre confine. Ed è su questo punto più fragile che i nemici della nuova normativa danno battaglia. Italia Nostra ha lanciato un appello e inviato una lettera al presidente della Repubblica, chiedendo lo stralcio dell’articolo 68. «È una legge fatta apposta per il mercato dell’arte. A perderci sono lo Stato e il nostro patrimonio – dicono dall’associazione – Significa mettere su piazza i tesori artistici del Novecento, regalandoli ai mercanti internazionali».

Nel mirino c’è anche il gruppo di interesse Apollo 2, che rappresenta case d’asta, antiquari e galleristi e che avrebbe ispirato la norma. Dal ministero smentiscono: «Con Apollo 2 abbiamo dialogato come con tante realtà, ma gli antiquari sperano da anni nella liberalizzazione del mercato
tourt court e chiedono la libera circolazione di opere antiche anche di duecento anni. Tutto ciò che è bene vincolato non potrà mai uscire dallo Stato. Un’opera di Lucio Fontana del 1961, quindi realizzata meno di settant’anni fa, sarà bloccata lo stesso per il suo interesse culturale: ci sarà una norma di salvaguardia. Con questo provvedimento snelliamo le procedure: oggi per portare all’estero una collezione di Oscar Mondadori storici ci si deve rivolgere alle autorità. Si arriva ad eccessi assurdi»
Ma non è rischioso affidare tutto a un’autocertificazione, permettendo che opere denunciate a un valore basso possano essere rivendute all’estero a prezzi clamorosi? Al Mibact c’è chi dice che la nuova legge scontenta i funzionari che prima avevano il potere di decidere sulle esportazioni: «C’è un giro molto intrecciato di interessi – dice una fonte che vuole rimanere anonima – anche di quelli che fanno l’expertise delle opere. Alcuni soggetti saranno costretti a prendere meno decisioni. Ci sarà comunque chi vigilerà. La norma non è mai pericolosa, semmai sono gli individui che devono applicarla bene. La legge favorirà il mercato? Tra i parametri europei di valore delle opere è stato scelto quello più basso: la soglia di 13.500 euro ». In Francia, in effetti, si possono esportare opere che valgono fino a 150mila euro; in Germania il tetto è di 300mila per beni da esportare all’interno dell’Unione Europea e 150mila per quelli extra Ue. «Ma se adottassimo anche noi la soglia di 150mila euro, come pure qualcuno vorrebbe fare, dal nostro Paese uscirebbe di tutto – spiega il presidente di Italia Nostra Marco Parini – Non possiamo paragonarci a un altro Stato: nessuno può vantare lo stesso patrimonio. Eppure oggi i beni culturali vengono ridotti a merce. Un articolo che li disciplina è stato discusso all’interno della Commissione Industria, non in quella Cultura, tra provvedimenti pensati per i taxi. Si favorisce l’aspetto mercantile».
Qualcuno, in verità, applaude. «Sì, una norma del genere può dare una piccola mano al mercato che ha vissuto un’annata non delle migliori – precisa Mauro Stefanini, presidente dell’Associazione nazionale gallerie d’arte moderna e contemporanea – Permettere a un’opera che ha meno di settant’anni di uscire dall’Italia significa promuovere la conoscenza dell’arte contemporanea all’estero. Alzare le barricate è assurdo. Con una soglia di 13.500 euro dire che il patrimonio è tutelato è dire poco».
Chi conosce bene il mercato del contemporaneo sa però che un provvedimento del genere non può incidere più di tanto: «Tredicimila euro? È la cifra che può valere un capolavoro tutto da scoprire. Il mercato dell’arte in Italia è frenato dalla burocrazia – spiega Alessandro Rabottini, direttore della fiera Miart, che ha appena chiuso la sua ventiduesima edizione – Si tende a proteggere il nostro patrimonio, ma poi i musei italiani non sono messi in condizione di fare nuove acquisizioni per mancanza di budget. E i collezionisti non dialogano con le nostre istituzioni: non cedono opere in comodato d’uso perché non possono usufruire di seri sgravi fiscali. In Italia manca ancora un sistema virtuoso dell’arte». E forse anche un tavolo lungo abbastanza per far accomodare tutti i soggetti che dovrebbero tentare di costruirlo.

Spazi pubblici e gentrification. Piccola testimonianza dell'effetto High Line di New York. La riprendiamo un articolo del Chicago Tribune, nella traduzione (e dal sito) di Fabrizio Bottini. La Città Conquistatrice online, 1 aprile 2017

Premessa – La breve storiella che segue non è nulla di particolare: cronaca soggettiva di un processo di sostituzione sociale del tipo piuttosto classicamente «pianificato» da una municipalità con l’idea di migliorare un quartiere, di fatto impoverendone la composizione sociale e la vitalità complessiva. La cosa particolare è che si tratta di una lettera a un giornale locale, infilata nella rubrica, un vero e proprio trafiletto tra i tanti, che però è unico nella sua triste banalità (n.d.t.)

Nel 1991, mia nonna e le mie due zie — lavoratrici da poco immigrate dal Messico alla ricerca del Sogno Americano — decisero di comprarsi casa in un edificio ad appartamenti un po’ mal messo. Nulla di particolare a prima vista, tra i viali di Central Park e Armitage, ma a distanza di parecchi anni, di alti e bassi, l’appartamento significa molto ma molto di più. Nel raggio di tre isolati c’erano un negozio di liquori, un mercato, un tratto ferroviario abbandonato, e dopo vent’anni e più il negozio ha cambiato nome, nelle scuole si tengono seminari di aggiornamento multitematici, e la ferrovia abbandonata è stata oggetto di un progetto di riuso sul modello della High Line di New York. Un percorso dove passano a centinaia, a piedi, in bicicletta, sereni e tranquilli là dove io da ragazzina avevo assoluta proibizione di andare, nonostante fosse lì sotto casa. Dove le bande si ritrovavano a fumare, bere, e spararsi e ammazzarsi.

Con la realizzazione del nuovo percorso ciclabile e pedonale, il mio appartamento vale quattro volte quanto è stato pagato. Parrebbe una gran fortuna, salvo che ovviamente sono anche aumentate le tasse immobiliari. Lentamente le persone con cui sono cresciuta hanno cominciato ad andarsene, il flusso continua, e il mio quartiere si popola di estranei continua. Sparite tutte le case economiche nella zona di Logan Square, e lungo la strada 606 si tirano su nuovi condomini buttando giù man mano tutte le vecchie case: certo quella via non è in sé la causa o l’inizio della gentrification, ma è un punto in cui si catalizza. Passeggi per strada e vedi tutti questi uomini con la barba e i capelli lunghi. O quelle donne tutte vestite in modo culturalmente corretto. Entrano ed escono dalle caffetterie o dai ristoranti vegani, à dove c’erano negozi di liquori o botteghe messicane. Sugli angoli dove un tempo bighellonavano le bande di strada, adesso stanno cagnolini col cappotto e le babbucce.

Per tutta l’estate, l’autunno e l’inverno 2016 ho bussato alle porte a raccogliere firme per chiedere una delibera che impedisca l’espulsione delle famiglie, che mantenga abitazioni economiche. In genere tendo ad essere piuttosto fiduciosa, mi aspetto che la gente capisca, che condivida. Ma trovo anche parecchi ignoranti, fra gente piena di titoli di studio, che paga anche tremila dollari d’affitto al mese, ma non riesce proprio a cogliere le conseguenze della gentrification. Senti spessissimo frasi come «Beh, il quartiere adesso è più sicuro», oppure «Certamente le cose stanno molto migliorando», quando giri, ma sono cose che non significano nulla per una famiglia di quattro persone cacciata dalla casa dove ha abitato per vent’anni. Da quello che è già accaduto nell’area di Logan Square non si può certo tornare indietro, ma credo che contribuire a mantenere qui quelle famiglie, a mantenere diversificato il quartiere, debba essere una priorità anche per i nuovi che arrivano. Tutte le trasformazioni sulla strada 606 sono scelte del sindaco Rahm Emanuel, pensate senza badar molto a certe conseguenze, e quindi dobbiamo pensarci noi cittadini a opporci, a far qualcosa per chi ha costruito tutta questa vitalità, che deve essere mantenuta.

Dal Chicago Tribune, 1 aprile 2017 – Titolo originale: «An old train track» – traduzione di Fabrizio Bottini» – traduzione di Fabrizio Bottini

». il manifesto, 4 aprile 2017 (c.m.c.)

La sala convegni del Parco Regionale di Colfiorito è strapiena e contiene a malapena le circa 70 persone accorse all’incontro «Gasdotto e terremoti. Diritti delle popolazioni e tutela del territorio». Ciascuno in rappresentanza di movimenti, comitati, associazioni e realtà che a vario titolo combattono una battaglia contro un nemico comune: il gasdotto Rete Adriatica Brindisi-Minerbio. Sono tutti qui per la costituzione del Coordinamento nazionale No Tubo.

Il progetto di metanodotto proposto nel 2004 dalla società Snam Rete Gas, classificato come «strategico» e inserito nei Progetti di Interesse Comunitario nel 2013 dalla Commissione europea, incontra infatti fin dal principio la fiera opposizione di tante realtà che con questo primo incontro nazionale hanno deciso di unire tutte le battaglie. «Perché – dice a il manifesto Cristina Garofalo, dell’associazione Mountain Wilderness, tra i principali organizzatori dell’evento – Grande Opera, Grande Vertenza».

La necessità di fare rete è la grande protagonista dell’evento, evocata da quasi tutti i partecipanti tra cui il rappresentante del collettivo Altreventi, della Valle Peligna: «Dopo più di un anno che seguo questa lotta solo oggi ho conosciuto i compagni dell’Umbria che fanno il mio stesso lavoro», spiega. Ma se un simile tavolo è stato convocato solo oggi, dopo oltre un decennio di vertenze locali e isolate, è soprattutto perché ora è chiaro a tutti che gasdotto ed eventi sismici costituiscono un binomio che rischia di essere devastante. E il progetto del gasdotto Snam, di 687 km, interessa praticamente l’intero sistema di faglie attive dell’Appennino Centrale.

Arcangelo, del comitato civico Norcia per l’Ambiente, ricorda :«Ci accorgemmo fin da subito che il progetto attraversava il 60% di aree protette Sic e Zps, passando su zone sismiche. Snam ci rispose che in caso di terremoto, la fuoriuscita di gas sarebbe stato il nostro ultimo problema. Ci dissero che non c’era pericolo, ma la galleria in cemento armato di Forca Canapine (sopra a Norcia, ndr) si è spostata di 70 cm. Una galleria si sposta e i tubi del gas no? Eppure entrambi starebbero sulla stessa faglia».

Ad approfondire i rischi derivanti dalla costruzione del metanodotto Snam in queste zone provvede il geologo Francesco Aucone, esperto di effetti di vibrazioni del terreno e conseguenze di eventi sismici, che esponendo il suo studio condotto sul tratto di gasdotto tra Foligno e Sestino, afferma: «Snam sostiene che una struttura interrata come i tubi del gas subisce meno vibrazioni, ed è vero, ma è anche vero che non tutti i terremoti sono uguali.

Ad Amatrice ad esempio è rimasta in piedi la torre civica di 25 metri, mentre a subire più danni sono stati gli edifici più bassi. Inoltre – aggiunge – una simile opera, rigidamente ancorata al terreno, è più sensibile alla fagliazione, e non c’è struttura umana in grado di sopportare lo sforzo tettonico: miliardi di miliardi di tonnellate in movimento. Siamo di fronte a un’opera strategica e andrebbe fatto uno studio di risposta sismica locale, che manca. Al suo posto – spiega ancora Aucone – è stato usato l’approccio semplificato, basato su dati bibliografici, con pochissime indagini fatte, una sottostima della vulnerabilità sismica del territorio, un’insufficienza di indagini geomeccaniche e geochimiche e nessuna indagine sugli effetti della fagliazione».

Nel seguire i tracciato del metanodotto si incontrano alcune delle località più colpite dal recente sisma, come Norcia, Visso, Cascia, Preci, L’Aquila. Ma non solo. A Sulmona è prevista una centrale di compressione del gasdotto. Il sito prescelto è a soli 2 chilometri dalla faglia del monte Morrone, silente da oltre 1900 anni.

A Norcia, tra due mesi, ci sarà il prossimo appuntamento del neonato Coordinamento Nazionale No Tubo, con la precisa volontà di arginare lo spopolamento dell’Appennino dopo il sisma. Un fenomeno – spiegano – che bisogna arginare in ogni modo anche perché indebolisce la resistenza al progetto Snam.

Singolare iniziativa dell'università Iuav di Venezia, gestita e partorita durante la recente Biennale di architettura e battezzata oggi, "magna com laude", dal giornale della Confindustria. Una performance splendida per sviluppare il tema drammatico dell'accoglienza. il Sole 24 ore, 3 aprile 2017 , con postilla

Spesso un esperimento virtuoso diventa un bel progetto. Un esempio è Casa Flora (www.casafloravenezia.com), appartamento acquisito da Gioele Romanelli di fianco al suo hotel a Venezia, anch'esso Flora, per farci un spazio nuovo per l'ospitalità. Non un altro albergo però – sarebbe stato il terzo contando anche il Novecento –, non il solito bed and breakfast, piuttosto un appartamento dove sentirsi “veneziani” anche se per poco tempo. Serviva un'idea giovane, fresca, innovativa. E chi, se non degli studenti di design e architettura, poteva suggerirla?

Lo scorso anno, durante la Biennale di Architettura, è stato organizzato un workshop residenziale con sei studenti, due dello Iuav di Venezia, due di Domus Academy a Milano e due della Parsons di New York, i quali, sotto la guida Diego Paccagnella, fondatore di Design-Apart, dell'architetto Matteo Ghidoni e del professor Stefano Micelli, hanno immaginato come trasformare una vecchia casa veneziana in un appartamento moderno e funzionale.

Come prima cosa, hanno suggerito di abbattere le pareti che dividevano gli spazi della zona giorno, per creare un continuum fluido tra salotto e sala da pranzo, con la cucina a vista al centro che ricorda un banco del Mercato di Rialto. La zona notte invece è separata e chiusa dal resto dell'open space. Durante il soggiorno nella casa, i ragazzi hanno visitato alcune aziende partner, tra cui Berto, che ha fatto i letti e i divani, Ex Novo che si occupa di illuminazione e Tm Cucine.
Concluso il workshop con gli studenti, Diego Paccagnella ha ripreso la direzione artistica del progetto coinvolgendo più di 20 artigiani e aziende italiane per arredare la casa. Così Mingardo, recentemente premiato da Wallpaper per un progetto di portabiciclette, ha fatto i guardaroba, le porte in vetro e ferro dei bagni e gli altri oggetti in metallo; Rubelli i tessuti, Xilia le porte e il tavolo da pranzo in radica, Salviati la preziosa collezione di vetri.

Ma si potrebbe continuare a lungo, perché ogni dettaglio è frutto di una ricerca e di una scelta accurata di prodotti italiani, dai cosmetici siciliani Ortigia ai prodotti per i capelli AccaKappa, alle porcellane artigianali Paravicini. Stesso approccio per libri e foto dell'appartamento: i volumi d'arte sono scelti da Bruno, una delle librerie più innovative della città, e le immagini appese, spesso inedite e in bianco e nero, provengono dall'archivio Camera Photo, che ne possiede circa 300mila. Piante e fiori invece non hanno solo funzione decorativa, ma di benessere. Il verde - afferma il fiorista e vivaista Gabriele Bisetto Trevisin che ha curato l'allestimento – assorbe la polvere, l'anidride carbonica, le polveri sottili, migliora persino l'acustica dell'ambiente grazie alla fonoassorbenza. In base alle proprietà, ha scelto piante della famiglia delle aracee, e le ha strategicamente sistemate in soggiorno, in sala da pranzo, nei bagni-serra e persino nei comodini con vaso fatti disegnare da Mingardo perché, al contrario di quel che si crede, addirittura migliorano la qualità del sonno.

Cercare ed esporre l'eccellenza made in Italy in un appartamento è un modo virtuoso per unire ospitalità e design: diventa una show-room da abitare, l'evoluzione della boutique, secondo Paccagnella. Durante il soggiorno a Casa Flora, gli oggetti si usano, si toccano, se ne verifica la funzionalità, si vedono contestualizzati e interpretati, e se piacciono si possono comprare uguali o con le variazioni necessarie.

Gioele Romanelli non voleva creare una dépendance dei suoi alberghi, bensì un luogo dove gli ospiti potessero vivere da veneziani. Ma: dove va un cittadino a fare la spesa o a mangiare bene? Dove fa shopping? Quali sono i ritrovi? Perciò Gioele e la moglie Heiby, che veneziani ricercati sono nella vita quotidiana, hanno selezionato alcune esperienze per gli “abitanti” di Casa Flora. Su richiesta, i fratelli Alberto e Dario Spezzamonte dell'enoteca con cucina Estro preparano a domicilio colazione e pranzi e organizzano corsi per fare il baccalà mantecato, le sarde in saòr e altre ricette tradizionali attualizzate. Insomma all'arrivo, gli ospiti non vengono abbandonati a se stessi, come in una qualunque casa in affitto, ma trovano il taxi di Magillino che li aspetta alla stazione, e una serie di indirizzi collaudati a cui attingere, compreso quello di Gabriele Gemeiner, che viene a casa su appuntamento e fa le scarpe su misura. Senza dimenticare che, scostando le tende, e seduti su una comoda poltrona in vimini, tra le dimore addensate e irregolari, si intravvede il cupolone della Basilica della Salute. Segno che ci si trova nella Venezia più autentica.

postilla

Il progetto è stato elaborato all'Iuav mentre alla Biennale architettura - sia pure nei limiti mercantili della sua gestione - si discutevano progetti ispirati a una visione realisticamente drammatica del mondo di oggi, dei suoi drammi e conflitti, e alla necessità dare risposte alle esigenze dei più poveri, fragili e sfruttati, a partire dagli "sfrattati dallo sviluppo". L'Iuav (o almeno un gruppo dei suoi docenti) stava dalla parte opposta. Evidentemente, in compagnia del Sindaco della loro città l'architetto Luigi Brugnaro, che alla Biennale esponeva il suo progetto dei cento grattaceli a Porto Marghera e nella sua testa preparava già il progetto della "cittadella dei poveri", dove rinchiudere quanti, non essendo benestanti, deturpano con la loro presenza il decoro della città).

A meno che (e in questo caso ci scuseremmo con i promotori dell'iniziativa) non si intenda dare ospitalità ad alcune famiglie siriane reduci dalle macerie di Mossul o di Aleppo, ospitandoli in «una vecchia casa veneziana trasformata in un appartamento moderno e funzionale». (e.s.)

«Nel contestato maxi-progetto per portare il gas dell'Azerbaijan in Puglia spuntano manager in affari con le cosche, oligarchi russi e casseforti offshore. L'inchiesta integrale sul'Espresso in edicola domenica». l'Espresso, 1° aprile 2016

Il Tap è la parte finale di un gasdotto di quasi quattromilachilometri che parte dall'Azerbaijan. Il costo preventivato è di 45 miliardi.In Salento, a Melendugno, sono iniziati gli scavi del tunnel in cementoautorizzato dal ministero dell’Ambiente per passare sotto la spiaggia. Da lìsono previsti altri 63 chilometri di condotte fino a Mesagne. Il consorzio TapAg prevede di dover trapiantare, in totale, circa diecimila olivi.

L'Espresso ha potuto esaminare documenti riservati della Commissione europea,che svelano il ruolo cruciale di una società-madre, finora ignota: l’aziendache ha ideato il Tap. Si chiama Egl Produzione Italia, ma è controllata dalgruppo svizzero Axpo. Le carte, richieste dall’organizzazione Re:Common,dimostrano che Egl ha ottenuto, nel 2004 e 2005, due finanziamenti europei afondo perduto, per oltre tre milioni, utilizzati proprio per i progettipreliminari e gli studi di fattibilità del Tap. Gli ultimi fondi pubblici sonoarrivati nel 2009. I ricercatori avevano chiesto altri atti, ma la Commissioneli ha negati «per rispettare segreti industriali, sicurezza e privacy» dellemultinazionali interessate.

In questa Egl, la società-madre del Tap, anchel’amministratore delegato è un cittadino svizzero: Raffaele Tognacca, unmanager che in Italia ha lavorato anche con il gruppo Erg. Tornato in Svizzera,ha lanciato la finanziaria Viva Transfer. Che un'indagine antimafia ha additatocome una lavanderia di soldi sporchi. Intervistato dalla tv svizzera italiana,il pm Michele Prestipino descrisse la vicenda come «un caso esemplare diriciclaggio internazionale di denaro mafioso».

Tutto inizia nel 2014, quando la Guardia di Finanza scopre un presunto clan dinarcotrafficanti collegati alla ’ndrangheta. Il gruppo, capeggiato dalcalabrese Cosimo Tassone, è accusato di aver importato oltre mezza tonnellatadi cocaina. E viene intercettato mentre deve versare un milione e mezzo di euroai narcos sudamericani. I calabresi reclutano un promotore toscano e i suoi duefigli, che accettano di «portare quei soldi in contanti, dentro due trolley, aLugano, nella sede della Viva Transfer», come confermano le confessioni deglistessi corrieri poi arrestati. A ricevere i pacchi di banconote è «RaffaeleTognacca in persona». Proprio il manager che ha tenuto a battesimo il Tap.

ra sudamericani e calabresi scoppia anche una lite: i narcoshanno ricevuto mezzo milione in meno. Tassone sospetta dei corrieri toscani:«Gli spacco la testa!». Un figlio del promotore viene sequestrato in Brasile.Finché il clan si convince che è Tognacca ad aver incamerato una parcella dioltre 400 mila euro («il 35 per cento!»). Quindi scattano gli arresti. Alprocesso, in corso a Roma, i pm hanno formulato una specifica accusa diriciclaggio. E hanno chiesto ai magistrati svizzeri di indagare sulla parteestera. Tognacca si è difeso pubblicamente dichiarando di «non essere statooggetto di nessuna misura penale». Per i pm italiani il reato resta assodato.Ma i giudici elvetici potrebbero aver archiviato per «mancata prova del dolo»:Tognacca poteva non sapere che erano soldi di mafia. Magari mister Tap pensavadi aiutare onesti evasori.

Dopo aver ottenuto i fondi europei, la Egl è stata cancellata e assorbita daAxpo. Questo spiega perchè oggi il gruppo svizzero è azionista della Tap Ag conl'inglese Bp, l’italiana Snam, la belga Fluxys, la spagnola Enagas e l’azeraAz-tap.

L'articolo integrale de l'Espresso racconta molti altriretroscena . Come un accordo segreto per favorire un oligarca russorappresentato da amici di politici italiani. E le tesorerie offshore,documentate dai Panama papers, dei manager di Stato in Azerbaijan e Turchia. <

«I costi per Juve (155 milioni), Sassuolo (3,75 milioni) e Udinese (500 mila euro all'anno) sono stati irrisori. Per impianti non nuovi. Mentre Roma (1 miliardo) e Fiorentina (420 milioni) fanno mega progetti. I rischi». Lettera43, 3 aprile 2017 (c.m.c.)

Famostistadi. Nella versione al plurale non è ancora diventato un hashtag, ma intanto la vicenda dello stadio della Roma ha fatto compiere uno scatto in avanti. I giorni delle polemiche tra la società giallorossa e la Giunta romana guidata da Virginia Raggi sono per il momento messi alle spalle. Non è detto che lo siano definitivamente, poiché la storia sembra tutt’altro che risolta. Molte cose vanno ancora messe a fuoco, e in ogni caso entrambe le parti vogliono provare a rimaneggiare la soluzione di compromesso raggiunta, per tirarla un po’ più verso sé.

Ottimismo sulle prospettive. Ma intanto la conseguenza immediata dell’accordicchio raggiunto è stato il modificarsi del clima intorno al dossier degli stadi privati. Perché da un giorno all’altro è parso che gli umori siano mutati in positivo, facendo percepire come più prossima un’innovativa stagione dell’impiantistica sportiva in Italia: quella degli stadi privati, posti sotto il controllo dei club calcistici con prospettiva d’incremento esponenziale dei ricavi.

Una narrazione di fortissima presa, costruita con semplificazioni spesso ai limiti del rudimentale, e condotta con l’utilizzo di un registro emotivo del discorso. Il risultato è una rappresentazione delle cose fondata sull’equazione “stadi privati = nuova età dell’oro”. Con la creazione di un mito sociale difficilissimo da confutare, perché la forza del ragionamento sarà sempre deficitaria rispetto alle passioni tifose, e perché il già carente senso italico per i beni collettivi non ha possibilità alcuna contro gli impeti da Curva Sud.

Anche Lolito ci riprova. E dunque, ecco che il sofferto compromesso raggiunto fra l’As Roma e la Giunta della capitale attizza le mire delle altre società calcistiche (e dei relativi gruppi d’interesse), incoraggiate a rilanciare progetti che parevano accantonati. Il primo è stato Claudio Lotito: al presidente e proprietario della Lazio non è parso vero di poter tornare alla carica per la costruzione del suo stadio. Ci aveva provato qualche anno prima proponendo l’edificazione di un impianto sulla via Tiberina, un’idea bocciata dalla giunta di Walter Veltroni. Ma adesso che l’altro club romano si è visto dare l’ok la prospettiva cambia, e il massimo dirigente laziale l’ha messa sul piano del diritto alla par condicio: se la sindaca ha detto sì alla Roma non può dire no alla Lazio. E che non si parli di ristrutturazione dello Stadio Flaminio, ché di contentini Lotito non vuol proprio saperne.

Dobbiamo credere in modo acritico al fatto che una nuova generazione di stadi di proprietà possa essere la panacea per il calcio italiano?

E dunque eccoli tutti lì, pronti e schierati per avventarsi su un business che se si fondasse soltanto sulla retorica avrebbe già prodotto perlomeno 5 punti di Pil. A sentire il coro, sembra quasi che ci sia un ventaglio di chance che aspettano soltanto di essere colte, con una cascata di soldi che aspetta soltanto di veder liberare le chiuse per potersi riversare sul calcio italiano.

Una narrazione contro i "Gufi". Se ciò tarda a succedere, continua la narrazione, è soltanto perché vi sono elementi esterni al calcio che ritarderebbero l’evento: dapprima le lentezze della legislazione nazionale, poi la miopia e i ritardi dalla politica e delle burocrazie di livello locale, e infine il vituperato comitatismo che nella lettura del Ptf (il Partito trasversale del fare, che nel mondo del calcio allinea una delle sue sezioni più parolaie) esprime nei territori una nuova forma di luddismo anti-pallonaro. Una sorta di Santa alleanza contro la modernità del calcio italiano cui addebitare ogni colpa. Ma le cose stanno davvero così? E soprattutto, dobbiamo credere in modo acritico al fatto che una nuova generazione di stadi di proprietà possa essere la panacea per il calcio italiano?

In Italia ci sono tre impianti sotto il controllo dei club: lo Juventus Stadium, la Dacia Arena dell’Udinese e il Mapei Stadium del Sassuolo. In nessuno dei casi si può parlare di "nuovo" stadio

Bisogna partire proprio da quest’ultimo punto, e dallo stato dell’arte. Che in Italia parla della presenza di tre stadi interamente sotto il controllo dei club: lo Juventus Stadium, la Dacia Arena dell’Udinese e il Mapei Stadium del Sassuolo. Tre storie diverse sotto tutti gli aspetti, ma accomunate da un dato: in nessuno dei casi si può parlare di nuovo stadio.

Il J-Stadium? Quasi come Higuain. Lo Juventus Stadium, che pure è quello per il quale sono state necessarie le opere più radicali, nasce dalle macerie (anche economiche e morali) dello Stadio delle Alpi. Cioè uno dei monumenti allo spreco di cui è costellata la storia di Italia 90. Disegnato su una capienza quasi dimezzata rispetto all’impianto antecedente (da poco meno di 70 mila a 41.500 mila posti a sedere), lo J-Stadium è stato inaugurato nel 2011 e realizzato in due anni con una spesa di circa 155 milioni di euro. Se si considera che nell'estate del 2016 il club bianconero ne ha spesi quasi 100 per strappare Gonzalo Higuain al Napoli, si capisce quanto relativa sia la cifra.

Per quanto riguarda la Dacia Arena, altro non è che il vecchio Stadio Friuli sottoposto a ristrutturazione e concesso per 99 anni all’attuale proprietà del club bianconero, retta dalla famiglia Pozzo. Costo delle opere: circa 50 milioni. Che spalmati su una concessione di 99 anni fa 505 mila euro e rotti all’anno. Non indicizzati. Il budget per una modesta società di serie D. Anche in questo caso la capienza è stata drasticamente ridotta: poco più di 25 mila, rispetto ai quasi 40 mila dei tempi di Italia 90.

Dacia , la colorazione "Anti-vuoto". Un quasi dimezzamento che non ha avuto effetti apprezzabili sugli ampi vuoti delle gare di campionato. Si è provato a tamponare l’effetto-stadio vuoto piazzando sugli spalti i seggiolini colorati, un’idea copiata da dal nuovo Alvalade, lo stadio dello Sporting Clube de Portugal rinnovato in occasione degli Europei 2004. Con la differenza che nello stadio di Lisbona i seggiolini colorati vengono occupati da spettatori in carne e ossa.

Scontro sul nome dell'impianto. Un’ultima annotazione sul “nuovo” stadio dell’Udinese: riguarda la denominazione “Dacia Arena”, che è stata oggetto di proteste "identitarie" da parte di una frangia della tifoseria (schierata in difesa del nome “Friuli”, espressione del legame col territorio), nonché tema di dispute da sudoku giuriduco in sede di istituzioni locali. Attualmente la questione è sotto la lente del Consiglio di Stato, con l’Udinese che giura non si tratti di pubblicità, ma di “naming right”. E adesso si attende il parere che farà giurisprudenza, però intanto si può dire che è molto difficile distinguere il confine fra pubblicità e naming right.

E infine c’è il Mapei Stadium. Che è lo stadio del Sassuolo, ma non ha sede a Sassuolo. Si trova a Reggio Emilia, ed è finito nelle mani della società neroverde capitanata dall’ex presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, attraverso un’asta fallimentare. Costo dell’acquisizione: 3,75 milioni, il prezzo di un buon calciatore di serie B. Anche in questo caso c’è un naming che potrebbe far discutere, ma la verità è che parlando dello stadio-del-Sassuolo-che-non-ha-sede-a-Sassuolo si entra in contatto con la sfera delle deformazioni della realtà e dell’indicibile.

Lo stadio Giglio,un autogol. Perché ci si sforza di vederlo come “lo stadio del Sassuolo” e intanto si rimuove la sua storia. Che è la storia dello Stadio Giglio, il primo impianto calcistico privato nella storia italiana. Nuovo di pacca - altro che J-Stadium e Dacia Arena -, sorto su impulso della Reggiana in un momento di hybris del club granata. La squadra era in serie A nella prima metà degli Anni 90, e pensava come se ci dovesse rimanere in pianta stabile. Per questo volle dotarsi di un impianto nuovo, sorto da un progetto ambiziosissimo ed esageratamente costoso per quella che era la dimensione del club: 25 miliardi di lire.

Come sia andata a finire, è noto: la Reggiana disputò soltanto altri due campionati di A nel giro di tre anni, poi a partire dalla fine della stagione 1996-97 cominciò a sprofondare nelle categorie inferiori. Il carico di debiti generato dalla costruzione dello Stadio Giglio portò al fallimento della società nell’estate del 2005, con ripartenza dalla serie C2 grazie al Lodo Petrucci.

Tribune riempite dagli ospiti. E dal fallimento veniva interessato anche lo stadio, messo all’asta dal curatore. Una prima asta tenuta nel 2010, con base di 6 milioni, andò deserta. Tre anni dopo, la svendita a 3,75 milioni. Per la serie: il grande business degli stadi privati. Ma, per carità di patria, di questo non si parla. Meglio dire che «il Milan ha vinto in trasferta a Sassuolo», cancellando pure l’evidenza della dislocazione. Ultima annotazione: gli spalti del Mapei Stadium sono popolati soprattutto dalle tifoserie avversarie. Altro dato di fatto su cui vige la congiura del silenzio.

Tutto ciò per dire che siamo ancora alle premesse di una vera stagione degli stadi privati. Che gli esempi citati fin qui, di nuovo, hanno poco o punto. E che sull’unico, reale precedente di stadio privato costruito ex novo, come si è visto è meglio stendere un velo pietoso, altro che boom di entrate e economie di scala. Questi ammonimenti vanno tenuti presenti intanto che altri due nuovi progetti vengono magnificati: lo stadio della Roma a Tor di Valle e quello della Fiorentina nell’area Mercafir.

Solo suggestive presentazioni. Due interventi di ben altra portata, anche in termini di costi: circa 1 miliardo di euro per l’impianto giallorosso (che invero è soltanto minima parte dell’intera operazione fondiaria), “soltanto” 420 milioni per quello della società viola. Costi enormi, con ritorni la cui certezza e i cui tempi sono tutti da dimostrare. Sempre che nel frattempo si esca dalla vaghezza. Perché bisognerà vedere in che modo riaggiustare il progetto dello stadio romanista dopo la soluzione di compromesso. E perché l’impianto della Fiorentina, al momento, è una suggestiva presentazione in power point e poco altro.

Le cubature salveranno il calcio. Tutto il resto è da scrivere, a partire dal piano finanziario e dall’individuazione dei privati che dovrebbero metterci il capitale di rischio. Ma l’importante è continuare a raccontarsi la favoletta. Dateci le cubature e faremo tornare il calcio italiano all’età dell’oro.

. Il Fatto Quotidiano online, 2 aprile 2017 (p.s.)

Non c’è regione in Italia che possa contenderle il triste primato. Che siano 149, come si legge nell’elenco regionale, pubblicato dall’ufficio speciale di coordinamento delle attività tecniche e di vigilanza sulle opere pubbliche della Regione, o 113 come registrato sul sito del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, poco importa. La Sicilia è l’indiscussa leader delle infrastrutture nazionali incompiute. Nelle campagne di Caltagirone, al confine tra il territorio di Aidone in provincia di Enna e quello di Mineo nel Catanese, sul fiume Margherito, c’è uno di quei relitti. La diga di Pietrarossa, l’infrastruttura che avrebbe dovuto potenziare la copertura di irrigazione dei campi della Piana di Catania, è lì, da 27 anni.

Incompleta e abbandonata. Ma non dimenticata. Hanno promesso di portarla a termine non solo Rosario Crocetta, l’attuale Presidente della regione siciliana, ma anche Raffaele Lombardo e Totò Cuffaro, i suoi predecessori. Gli agricoltori dei Consorzi di bonifica che sono nell’area ne chiedono il completamento, la politica regionale s’impegna. A parole. Così a febbraio la questione è riproposta da Nello Musumeci, deputato della Lista Musumeci verso Forza Italia, che presenta un’interrogazione «al governo regionale per completare i lavori». Insomma sembra proprio l’ennesima storia di un’opera pubblica mai terminata che invece sarebbe utile completare. Non è così. «La diga di Pietrarossa è un’opera pubblica abusiva, che va demolita, con il conseguente ripristino dei luoghi e uno studio archeologico dell’intera zona, finalizzato al pieno recupero dei reperti dell’insediamento romano venuti alla luce in contrada Casalgismondo», proponeva nel 2010 Sebastiano Russo, presidente del circolo “Il Cigno” di Legambiente di Caltagirone.

«La diga di Pietrarossa è un’opera da demolire. Oltre a essere un abuso in un sito archeologico, si caratterizza per irregolarità e violazioni di legge». Roberto De Pietro, l’ingegnere autore di un particolareggiato studio sull’opera, è categorico. Eppure la diga è stata realizzata al 94,61% e sono stati spesi 75.147,869 euro stanziati dalla Cassa per il Mezzogiorno. «La diga è stata pensata in un periodo in cui opere simili si realizzavano in Sicilia, violando leggi, a volte in modo sfacciato», spiega l’esperto. Il lungo iter dell’infrastruttura inizia nel 1988, prima con lo stanziamento dei soldi pubblici e dopo con la Lodigiani spa – CO.GE.I spa che si aggiudica l’appalto. E’ il 1990 quando i lavori lavori affidati al Consorzio di Bonifica 7 Caltagirone, in regime di concessione dall’Agenzia per la Promozione dello Sviluppo del Mezzogiorno, iniziano. «Senza autorizzazioni, sprovvisti del preventivo nullaosta della Soprintendenza di Enna e senza essere sottoposti a una valutazione di impatto ambientale», scrive De Pietro.

Nonostante la procura di Enna abbia avviato un’inchiesta già da tempo, il cantiere subisce un primo stop soltanto nel 1993. Già perché nel frattempo è stato scoperto un vasto insediamento romano, solo parzialmente indagato. Il fermo dura poco. I lavori riprendono per poi arrestarsi definitivamente nel 1997 quando i magistrati di Enna emettono il provvedimento di sequestro della diga e dodici avvisi di garanzia per abuso, rifiuto di atti d’ufficio, deturpamento di bellezze naturali e archeologiche.

Due anni prima, un altro capitolo della storia. Sulla struttura si rilevano alcune lesioni. La Lodigiani-Cogei chiede un nuovo finanziamento. Ulteriori 20 miliardi di lire per provvedere ai lavori imprevisti. Colpa del sisma del 1990, afferma l’impresa. Ma non è così. Un’inchiesta della procura di Caltagirone accerta che i danni danni sarebbero dovuti a errori nella costruzione e che l’impresa avrebbe tentato una truffa. Il fermo lavori del 1997 non è senza conseguenze.

L’impresa di costruzioni Imprepar-Impregilo Partecipazioni spa, subentrata alla Lodigiani-Cogei, avvia una causa di risarcimento per danni subiti a seguito della sospensione. Una sentenza del Tribunale di Catania ne quantifica un credito nei confronti del Consorzio di Bonifica 7 Caltagirone pari a circa 4,7 milioni di euro. Nel 2014 con un atto di Pignoramento notificato presso la Regione Sicilia la società Imprepar-Impregilo Partecipazioni spa ha pignorato tutte le somme a qualsiasi titolo dovute dall’Assessorato regionale dell’Agricoltura al Consorzio di Bonifica 7 Caltagirone. Non è tutto. Il Consorzio a sua volta avvia una causa civile contro l’impresa. Il Motivo? Risarcimento danni.

Introduzione ad un lavoro di rigorosa analisi di un fenomeno devastante (per Venezia e non solo), con la proposta dei possibili rimedi. In calce potete scaricare il testo integrale dello studio, aggiornato al marzo 2017

Venezia è una città molto fragile. E’ fragile in senso strutturale perché la sopravvivenza della città costruita sull’acqua richiede la preservazione della laguna che la circonda, ed è fragile nella sua composizione sociale, a causa dell’esodo della popolazione residente. E’ poi fragile perché il patrimonio artistico di cui dispone è molto delicato, deve essere mantenuto e preservato e ciò richiede un grande impegno culturale e finanziario. L’afflusso turistico incentiva l’esodo della popolazione attraverso l’aumento del valore degli immobili; l’esodo è fenomeno di lunga durata, e va affrontato creando condizioni di lavoro e rendendo di nuovo appetibile il vivere in città.


La crescita ininterrotta dei flussi turistici di questi ultimi anni, a livello globale, rende evidente a un qualsiasi osservatore attento che Venezia è una risorsa deperibile il cui uso diventa di fatto “rivale”, nel senso che l’uso di alcuni va a scapito dell’uso da parte di altri e, in questi casi, la soluzione razionalmente più conveniente è quella di introdurre delle limitazioni all’uso della risorsa, renderne l’uso quindi “escludibile”. Si deve fare una selezione se si vuole mantenere la residenza in città.

Una selezione è necessaria anche se può essere difficile in una città come Venezia; si possono fare dei tentativi che vanno gestiti con molta accortezza. Il primo e più facile consiste nel limitare l’accesso alla città in via indiretta, attraverso la costituzione di una ampia zona a traffico limitato e l’istituzione di adeguati parcheggi scambiatori, dove si possa accedere a navette acquee che portino alla città. Questa politica può essere associata alla costruzione di centri di accesso che “anticipino” ai potenziali visitatori aspetti della città rendendo la visita più consapevole e interessante, incentivino l’arrivo di mezzi meno inquinanti (se la politica tariffaria è adeguata) e scoraggino, almeno in parte l’escursionismo di più ridotta permanenza perché comunque allungano i tempi di ingresso.

La gestione degli accessi può generare nuovi introiti (i parcheggi e le infrastrutture connesse) che sono sempre più necessari alla manutenzione della città. Nel seguito queste misure potranno essere rafforzate con una qualche forma di controllo degli ingressi a luoghi simbolo della città, come Piazza San Marco.

Vanno invece fatti pagare i costi collegati al turismo che devono venire internalizzati a livello locale con un efficace sistema di tassazione per cui il turista paga i costi esterni alla stregua dei residenti e si fa carico del mantenimento della città. I turisti che visitano la città in qualità di escursionisti sono difficilmente tassabili; l’unico strumento cui si può fare ricorso è la prenotazione. La prenotazione ha un costo e chi non prenota la visita è fortemente limitato nell’accesso e nell’uso dei servizi (ad esempio il trasporto può divenire molto caro e/o alcuni percorsi possono essere preclusi). Attualmente i turisti escursionisti spendono in città meno di un residente e generano maggiori costi esterni (diseconomie che non vengono pagate).

E’ necessario poi promuovere forme di permanenza di medio periodo che interagiscano con la residenza e creino con essa dei legami positivi; il viaggio e il soggiorno in un'altra città sono ormai scelte di vita usuali da parte delle classi medie occidentali, una irrinunciabile condizione di libertà e di arricchimento. Si deve in altre parole costruire un modello di accoglienza governata che cerchi di intersecare diversi tipi di mobilità della società contemporanea: la mobilità della componente turistica che è necessaria alla vita economica della città, la mobilità delle nuove forme di residenza urbana, la mobilità della componente studentesca che è meno ricca economicamente, ma stabile e aperta alla vita della città, la mobilità dei lavoratori pendolari che pur non pernottando a Venezia costituiscono elementi fondamentali per mantenere in città un moderno ed efficace settore produttivo. Il settore dei servizi deve alimentarsi di eventi culturali, della nautica e dell’acqua, di congressi che interagiscano con lo sviluppo in città, di istituzioni per lo sviluppo dell’istruzione superiore e della ricerca.
A Venezia il turismo non deve essere affrontato come si trattasse di una emergenza che per altro si ripete negli anni. La politica del turismo deve essere fondata su di una strategia consapevole che trasformi il turismo da fonte di conflitto a pilastro dell'economia di una città viva.
Permane ancora il richiamo internazionale della città. In via XXII Marzo si alternano i grandi nomi della moda e del lusso, e tuttavia l’attrattiva della città potrebbe venir meno se il suo spazio non fosse più percepito come l’emblema del bello, ma la città diventasse una qualunque Las Vegas, sempre affollata ma fasulla. Sulla città insistono pressioni molto forti d’interessi privati immobiliari e commerciali che spingono per la trasformazione del centro storico in un insieme di “beni turistici privati” da consumarsi per lo più individualmente. Molti campi, luogo tradizionale di svago dei bambini veneziani e di incontro degli adulti, sono ora appannaggio esclusivo del turismo, le “botteghe” sono trasformate in bugigattoli che vendono souvenir, pacottiglia cinese, pizze al taglio e kebab.

E’ necessario intraprendere una nuova strada. Il governo della città sa che il centro storico di Venezia è un bene unico e quindi non sostituibile, ma deve essere anche consapevole che l’attrattività della città non è garantita: un pasto cattivo, un trasporto pubblico affollato all’inverosimile, servizi inaffidabili e svolti con supponenza deteriorano la qualità del bene Venezia come risorsa economica. La promozione della residenzialità, il mantenimento degli spazi pubblici con la loro diversità, il controllo e la limitazione delle licenze sono tutti provvedimenti che avranno effetti nel medio e lungo periodo, ma che sono necessari per contrastare il rafforzamento della monocultura turistica, e costituiscono la migliore garanzia perché la ricchezza generata dal turismo continui nel tempo. L’attrattività della città è legata all’esistenza di una città viva, non di una città che si sta trasformando rapidamente in un parco tematico, con una qualità dell’offerta in rapido declino.

Qui potete scaricare il file im formato .pdf: Giuseppe Tattara, Per un turismo sostenibile a Venezia

Pubblichiamo il contributo di un lettore di patrimoniosos che ha analizzato in maniera puntuale ed esaustiva i gravi rischi che il patrimonio culturale della Nazione correrà se verrà approvato l'articolo 68 della legge annuale sul mercato e sulla concorrenza (sulla quale verrà posta la fiducia il prossimo 5 aprile). patrimonioSOS, 1 aprile 2017




Legge annuale per il mercato e la concorrenza in approvazione con voto di fiducia alla Camera il 5 aprile 2017.
Disposizioni riguardanti i beni culturali che mettono in grave pericolo il patrimonio culturale nazionale

Segnalazione e appello urgente affinché dalla legge si stralciato l'articolo 68

Premessa

Il disegno di legge è giunto ormai al terzo passaggio alla Camera che avverrà il 5 aprile e sarà blindato con voto di fiducia. È dunque assolutamente necessario che l’articolo, il 68 del testo finale, sia stralciato dalla legge e non venga approvato, soprattutto con voto di fiducia.

L’articolo è stato inserito nel disegno di legge in itinere mediante un emendamento discusso la scorsa primavera durante il passaggio al Senato avvenuto presso la Commissione Decima Industria, con parere favorevole dato dalla Commissione Cultura. La versione attuale è quella che corrisponde al testo numero 3.

L’emendamento è stato inserito su richiesta e pressione diretta del gruppo d’interesse Apollo 2 che rappresenta case d'aste internazionali, associazioni di antiquari e galleristi di arte moderna e contemporanea e soggetti operanti nel settore della logistica di beni culturali, rappresentato dall’avvocato Giuseppe Calabi di Milano, avvocato di fiducia di Sotheby’s, che ha materialmente redatto il testo della legge concordandolo, come si legge in un trafiletto uscito su Plus24 del Sole24 n. 667 del 13 giugno 2015, direttamente con l’allora Presidenza del Consiglio e l'attuale Ministro.

La legge annuale per il mercato e la concorrenza è strumento nuovo introdotto dalla «legge sviluppo» del 2009, al fine di rimuovere gli ostacoli regolatori, di carattere normativo o amministrativo, all’apertura dei mercati, di promuovere lo sviluppo della concorrenza e di garantire la tutela dei consumatori, anche in applicazione dei principi del diritto dell’Unione europea, nonché delle politiche europee in materia di concorrenza (vedi nota alla fine del'intervento).

Non è dunque la sede adatta per infilare di sottecchi e mediante un colpo di mano che ha evitato qualsivoglia discussione nelle sedi deputate, una norma che incide in maniera così profonda e irreversibile sul patrimonio culturale nazionale cambiando in maniera sostanziale l’oggetto della tutela, definito dall’articolo 10 del Codice dei beni culturali, con il falso e ridicolo pretesto di “semplificare le procedure relative al controllo della circolazione internazionale delle cose antiche che interessano il mercato dell'antiquariato”.

Commento

L’articolo innova infatti in maniera sostanziale l’articolo 10 del Codice dei beni culturali che individua il patrimonio culturale da assoggettare a tutela, innalzando l’età minima che un oggetto deve avere per farne parte, che passerà dai 50 anni (termine per altro vigente in tutta Europa e negli USA, ad esempio) ai 70 anni, e introducendo, per ora limitatamente alle norme riguardanti l’uscita dal territorio nazionale (ma il Codice dei beni culturali è costruito in modo tale da prevedere simmetria assoluta fra l’articolo 10 e il 65 che stabilisce cosa vada sottoposto al controllo del Ministero in caso di uscita dal territorio) il pericoloso, scorrettissimo e quanto mai aleatorio, ondivago e soggettivo concetto del valore economico quale indice (primario fra l’altro) di valutazione dell’interesse culturale. Cosa che evidentemente non può essere.

L’articolo, restringendo gli ambiti di applicabilità del Codice dei beni culturali, di fatto elimina dal patrimonio culturale della Repubblica, costituzionalmente protetto dall’articolo 9, un’ampia e importante fetta di beni mobili e immobili (che peraltro nulla hanno a che vedere con la circolazione internazionale) che oggi vi rientrano e/o possono rientrare. Tutti i beni, ivi compresi quelli di proprietà pubblica ed ecclesiastica, che oggi hanno fra i 50 e i 70 anni e gli immobili di proprietà privata che oggi hanno fra i 50 e i 70 anni, non saranno più protetti né proteggibili.

L’articolo senza procedere a un esame coordinato e strutturato della legge di tutela, senza il necessario contraddittorio sull’argomento con il Parlamento e con i cittadini, depaupera in maniera indiscriminata e irrimediabile il patrimonio culturale che è di tutti, a solo ed esclusivo vantaggio di una minima parte di essi, i mercanti internazionali di arte e le grandi case d’aste. L’articolo viola la Costituzione. L’articolo va stralciato dalla legge in approvazione perché la tutela e anche la valorizzazione del patrimonio culturale nulla hanno a che vedere con il mercato e la concorrenza.

Quelli che si cerca di fare passare per inutili controlli paralizzanti il mercato antiquariale sono in realtà controlli sostanziali volti a verificare se fra le cose presentate a uno dei 18 uffici esportazione del Ministero vi siano potenziali beni culturali prima incogniti all’Amministrazione. Qualora tali beni, sulla base di un’approfondita disamina tecnico-scientifica, siano riconosciuti come tali, vengono fermati e assoggettati al regime di tutela che, fra le altre cose, comporta l’inclusione in forma espressa nel patrimonio culturale nazionale e il divieto di uscita definitiva dai confini del territorio.

L’articolo in parola, restringendo in forma massiva e indiscriminata l’ambito delle cose che necessitano di autorizzazione all’uscita, di fatto depaupera in maniera irreversibile il patrimonio culturale nazionale. Il tutto senza più avere l'obbligo di presentazione degli oggetti in uscita alla visione diretta degli uffici esportazione e solo dietro autocertificazione da parte dei richiedenti (ci si domanda peraltro come si possa autocertificare un prezzo ai sensi del DPR 445/2000 che non lo prevede).

L’articolo mette dunque in pericolo il concetto stesso di patrimonio e l’articolo 9 della Costituzione della Repubblica e va soppresso.

L’eliminazione a monte della possibilità di controllo all’uscita da parte del Ministero di tutti gli oggetti che abbiano meno di 50 anni e di tutti quelli di qualsiasi età, tipologia ed epoca (ad esempio, dipinti, disegni, sculture, mobili, opere di design, oreficerie, libri, stampe, incisioni, manoscritti, documenti, beni etnografici, strumenti musicali, archivi, carteggi, ecc.) che abbiano un valore economico sotto i 13.500 euro, sulla base di una semplice autodichiarazione, è inaccettabile.

Dettaglio

Le norme relative alla circolazione internazionale hanno quale unico scopo quello di evitare l'uscita definitiva dal territorio della Repubblica, e dunque la perdita, di beni culturali. Rispondono al principio della tutela del patrimonio culturale sancito dall’articolo 9 della Costituzione. A tal fine gli uffici esportazione del Ministero dei beni culturali svolgono un controllo preventivo sulle cose che, in base a determinate caratteristiche, sono potenzialmente suscettibili di essere beni culturali.

Attualmente i requisiti che rendono obbligatorio il passaggio negli uffici esportazione (articolo 65 del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 recante il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio) per l’uscita definitiva sono l'interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, ecc., l'essere opera di autore non più vivente, l'esecuzione da oltre 50 anni. Gli stessi che, come è ovvio, presiedono all'individuazione dei beni culturali in generale (articolo 10 del Codice).

L’articolo in questione, oltre ad innalzare la soglia di obbligatorietà (e, per simmetria, anche i criteri per l'individuazione di tutti i beni culturali, compresi gli immobili) ai 70 anni, introduce - solo nella disciplina della circolazione internazionale - un nuovo parametro, mai prima preso in considerazione dalla normativa nazionale, quello del valore economico, sottraendo al controllo degli uffici esportazione tutte le cose che, indipendentemente dalla loro età ed interesse culturale, stanno sottosoglia.

La norma stabilisce che sia l'età che il valore venale sono autocertificati dal richiedente e che su tali dati il rilascio degli attestati e certificati avvenga in automatico: non si dà alcun potere agli uffici esportazione di controllare tali dati, di stabilire se la somma indicata è congrua, di vedere se davvero il bene ha gli anni dichiarati. Ciò è del tutto folle e troppo sbilanciato a disfavore della Pubblica Amministrazione e rende davvero inutile l'esistenza di un ufficio.

Nella disciplina attuale, il valore venale dei beni non costituisce un indice d'interesse culturale, come è giusto che sia visto che gli andamenti del mercato sono ondivaghi, spesso legati a fenomeni esterni che nulla hanno a che vedere con il reale valore culturale del bene. Il mercato ha leggi diverse. Il mercato è influenzato dalle mode e dai gusti.

Il valore di mercato non è dunque un elemento oggettivo, dato una volta per tutte, ma oscillante e mutevole nel tempo e nei luoghi. Il mercato è fatto da chi compra e chi vende. È dunque un parametro troppo empirico ed aleatorio per pretendere di affidarvi il discrimine fra ciò che è bene culturale e ciò che non lo è. Quello che il mercato stabilisce infatti non è il valore dell'opera, ma la sua quotazione, ovvero la stima probabilistica che le attribuisce chi compra e scambia. Una sorta di spread, di indice di credibilità e affidabilità che nulla ha a che vedere con il valore culturale. E nemmeno con quello venale visto che può capitare che opere stimate sottosoglia vengano poi vendute in asta con valori superiori.

Oggi il valore venale è autodichiarato in sede di richiesta di rilascio dell'attestato di libera circolazione al solo scopo di avere un prezzo sulla base del quale effettuare l'eventuale acquisto coattivo per le raccolte dello Stato.
Poiché il valore venale sarà dichiarato mediante autocertificazione, il risultato pratico sarà l'uscita definitiva della stragrande maggioranza dei beni che costituiscono il patrimonio culturale del nostro Paese, senza alcuna possibilità di controllo.

Il patrimonio culturale diffuso, quello che rende l'Italia unica, sarà depauperato in brevissimo tempo, senza alcun vantaggio per il mercato che, dalla sovrabbondanza di offerta risulterebbe soltanto deprezzato e svalutato, e con reale perdita per il Paese, di certo meno attrattivo in termini di turismo e sviluppo economico. La norma in esame di fatto deprime i territori, le autonomie locali, il turismo, ed è espressione di una visione ristretta e passatista del patrimonio culturale del tutto contraria all'incentivazione del mercato che pretenderebbe di favorire.

Se davvero si volesse rilanciare il mercato italiano dell'arte altri dovrebbero essere i provvedimenti da adottare. Anziché modificare la normativa di tutela, bisognerebbe intervenire sulle aliquote IVA e doganali all'importazione che in Italia sono maggiori che negli altri Paesi. La semplificazione dovrebbe essere strutturata in modo tale da attirare nel Paese il mercato internazionale dell'arte e non da farlo fiorire unicamente fuori dai nostri confini. Di fatto quello che si incentiva è l'uscita e non l'entrata. Allungare il periodo già individuato quale soglia per l'uscita dal territorio nazionale non è misura per rilanciare il mercato italiano ma soltanto per deprimerlo ulteriormente e depredare il patrimonio di tutti.

Stabilire che d'ora in poi il patrimonio culturale della Nazione non potrà più comprendere beni che abbiano meno di 70 anni è cosa gravissima: vuol dire negare in blocco tutta la cultura italiana del Novecento a partire dal secondo Dopoguerra. Non solo sotto il profilo mobiliare ma anche sotto quello immobiliare, visto che l’articolo impone il termine dei 70 anni anche per le cose immobili di proprietà privata, che oggi hanno i 50 anni.

Si arriva così all’assurdo che mentre il mercato internazionale cerca in tutti i modi di approvvigionarsi di opere e pezzi di design italiano degli anni ’50 e ’60, il Paese di provenienza se ne libera dimostrandosi incapace di comprenderne il vero valore culturale e venale. Difficile credere che sul lungo periodo una così scarsa "autostima" possa giovare al mercato internazionale dell'arte.

Il sistema dell’acquisto coattivo all’esportazione ha consentito allo Stato di acquisire talvolta per poche migliaia di euro di pezzi molto importanti che sono diventati patrimonio dei musei.
D’ora in poi questa possibilità è impedita all’origine, viceversa è offerta su un piatto d’argento ai musei esteri.

Il regime dell'autocertificazione non consente più di procedere in tal senso: è infatti applicabile solo per i beni che necessitano di autorizzazione per uscire e quindi che abbiano valore venale superiore ai 13.500 euro. Quello che invece era ed è, e sarebbe ancora, interessante è la possibilità di fare acquisti coattivi sui beni poco costosi (politica che si è sempre tenuta) comprare ad esempio disegni e sculture di grandi maestri e dunque eccezionalmente importanti per il patrimonio, ma anche dipinti, magari di nomi meno conosciuti ma fondamentali per la storia dell'arte, perché facenti parti di pale, polittici, opere che un tempo ornavano chiese, cattedrali, grandi palazzi, per poche migliaia di euro.

Riflessioni ulteriori

Le norme relative alla circolazione internazionale hanno quale unico scopo quello di evitare l'uscita definitiva dal territorio della Repubblica, e dunque la perdita, di beni culturali. Si tratta di un obbligo costituzionale sancito dall'articolo 9. L'articolo 10 del Codice dei beni culturali e del paesaggio definisce i beni culturali e i criteri per individuarli facendo riferimento a tre elementi esterni oggettivi e facilmente conoscibili: assetto proprietario, età, paternità (autore non più vivente). I controlli sull'uscita definitiva stabiliti dall'articolo 65 del Codice sono dunque conformi e simmetrici al dettato dell'articolo 10 e hanno quale unica ratio quella dell'individuazione e salvaguardia di beni culturali non ancora riconosciuti come tali perché sino a quel momento incogniti all'amministrazione.

L'articolo 68 della Legge in approvazione introduce in maniera asimmetrica, vale a dire soltanto in relazione alle norme che regolano la circolazione internazionale, un elemento sinora mai preso in considerazione dalla nostra legislazione e in ogni caso non inserito nell'articolo 10 dal quale il 65 discende e consegue: il valore venale. Al di là del merito, già discusso più sopra, per cui non pare possibile affidare il discrimine fra cosa può o non può essere bene culturale a un dato presuntivo, non oggettivamente misurabile e soprattutto mutevole nel tempo e nei luoghi quale la quotazione economica, se l'articolo 10 stabilisce che determinate cose sono beni culturali indipendentemente dal prezzo e la Costituzione sancisce il principio secondo cui la Repubblica tutela il patrimonio culturale della nazione, il fatto che la nuova formulazione dell'articolo 65 del Codice dei beni culturali ammetta la perdita di beni culturali individuati ai sensi dell'articolo 10, soltanto perché autocertificati con un prezzo inferiore ai 13.500 euro, è del tutto anticostituzionale.

Pare schizofrenico, contrario a ogni logica ed egualmente anticostituzionale che la stessa identica cosa possa essere bene culturale ai sensi dell'articolo 10 del Codice e non esserlo ai sensi dell'articolo 65. E dunque essere dichiarata d'interesse culturale e sottoposta a tutela a termini del procedimento di cui all'articolo 10 e seguenti del Codice ad eccezione del caso in cui in cui l'amministrazione ne sia venuta a conoscenza in virtù di una richiesta di uscita definitiva dai confini nazionali. Con le ovvie e inevitabili disparità di trattamento fra cittadini (a disfavore dei proprietari e a favore dei mercanti) e con l'ancora più nefasta conseguenza che basterà munirsi di un attestato di libera circolazione ottenuto in automatico autocertificando un valore sottosoglia e poi rientrare sul territorio nazionale chiedendo la certificazione in ingresso prevista dall'articolo 72 del Codice dei beni culturali che comporta la non applicabilità della legge di tutela, per sottrarre in forma legalizzata e inappellabile al patrimonio culturale nazionale beni che nell'attuale ordinamento avrebbero potuto, e dunque dovuto, farne parte.

Nota: Il Ddl attualmente all’esame della Camera è stato il primo ad essere presentato dal governo dal 2009. In base alla «legge sviluppo» del 2009 (art. 47, legge 23 luglio 2009, n. 99) le segnalazioni dell’Autorità garante per il mercato e la concorrenza (antitrust) costituiscono la base per la predisposizione, da parte del Governo, del disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza. A seguito di tale innovazione normativa, l'Autorità dal 2009 ha inviato al Parlamento e al Governo, ai sensi degli artt.21 e 22 della legge n. 287/90, segnalazioni generali su proposte di riforma pro-concorrenziale del quadro normativo e regolatorio. Ebbene, nessuna delle segnalazioni dell’Autorità, l’ultima delle quali risale al 2014 reca traccia di provvedimenti inerenti la semplificazione del commercio internazionale dei beni culturali. Per fare un esempio fra i settori indicati dall’Autorità, vi sono: le assicurazioni, con particolare riguardo al campo della RC Auto; i fondi pensione; le comunicazioni; i servizi postali; l’energia e la distribuzione in rete di carburanti per autotrazione; le banche; le professioni; la distribuzione farmaci, ecc.

Art. 68.
(Semplificazione della circolazione internazionale di beni culturali)
1. Al fine di semplificare le procedure relative al controllo della circolazione internazionale delle cose antiche che interessano il mercato dell'antiquariato, al codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 10:
1) al comma 3, dopo la lettera d) è inserita la seguente:
«d-bis) le cose, a chiunque appartenenti, che presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico eccezionale per l'integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione»;
2) il comma 5 è sostituito dal seguente:
«5. Salvo quanto disposto dagli articoli 64 e 178, non sono soggette alla disciplina del presente titolo le cose indicate al comma 1 e al comma 3, lettere a) ed e), che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre settanta anni, nonché le cose indicate al comma 3, lettera d-bis), che siano opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni»;
b) all’articolo 11, comma 1, lettera d), la parola: «cinquanta» è sostituita dalla seguente: «settanta»;
c) all’articolo 12, comma 1, la parola: «cinquanta» è sostituita dalla seguente: «settanta» e le parole: «, se mobili, o ad oltre settanta anni, se immobili» sono soppresse;
d) all'articolo 14, comma 6, è aggiunta, in fine, il seguente periodo: «Per le cose di cui all'articolo 10, comma 3, lettera d-bis), la dichiarazione è adottata dal competente organo centrale del Ministero»;
e) all'articolo 54:
1) al comma 1, lettera d-ter), la parola: «cinquanta» è sostituita dalla seguente: «settanta»;
2) al comma 2, lettera a), la parola: «cinquanta» è sostituita dalla seguente: «settanta» e le parole: «, se mobili, o ad oltre settanta anni, se immobili,» sono soppresse;
f) all'articolo 63, comma 2, dopo il primo periodo, sono inseriti i seguenti: «Il registro è tenuto in formato elettronico con caratteristiche tecniche tali da consentire la consultazione in tempo reale al soprintendente ed è diviso in due elenchi: un primo elenco relativo alle cose per le quali occorre la presentazione all'ufficio di esportazione; un secondo elenco relativo alle cose per le quali l'attestato è rilasciato in modalità informatica senza necessità di presentazione della cosa all'ufficio di esportazione, salva la facoltà del soprintendente di richiedere in ogni momento che taluna delle cose indicate nel secondo elenco gli sia presentata per un esame diretto»;
g) all'articolo 65:
1) al comma 2, lettera a), la parola: «cinquanta» è sostituita dalla seguente: «settanta»;
2) al comma 3, lettera a), la parola «cinquanta» è sostituita dalla seguente: «settanta» e sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «, il cui valore, fatta eccezione per le cose di cui all'allegato A, lettera B, numero 1, sia superiore ad euro 13.500»;
3) il comma 4 è sostituito dai seguenti:
«4. Non è soggetta ad autorizzazione l'uscita:
a) delle cose di cui all'articolo 11, comma 1, lettera d);
b) delle cose che presentino interesse culturale, siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni, il cui valore sia inferiore ad euro 13.500, fatta eccezione per le cose di cui all'Allegato A, lettera B, numero 1.
4-bis. Nei casi di cui al comma 4, l'interessato ha l'onere di comprovare al competente ufficio di esportazione, mediante dichiarazione ai sensi del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, che le cose da trasferire all'estero rientrino nelle ipotesi per le quali non è prevista l'autorizzazione, secondo le procedure e con le modalità stabilite con decreto ministeriale. Il competente ufficio di esportazione, qualora reputi che le cose possano rientrare tra quelle di cui all'articolo 10, comma 3, lettera d-bis), avvia il procedimento di cui all'articolo 14, che si conclude entro sessanta giorni dalla data di presentazione della dichiarazione»;
h) all'articolo 68:
1) al comma 4, le parole: «dal Ministero» sono sostituite dalle seguenti: «con decreto del Ministro»;
2) al comma 5, la parola: «triennale» è sostituita dalla seguente: «quinquennale»;
i) all'articolo 74, comma 3, le parole: «sei mesi» sono sostituite dalle seguenti: «un anno» e la parola: «trenta» è sostituita dalla seguente: «quarantotto»;
l) all'allegato A, lettera A, nel numero 15 e nella nota (1), la parola: «cinquanta» è sostituita dalla seguente: «settanta».
2. Il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, con proprio decreto da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge:
a) definisce o aggiorna gli indirizzi di carattere generale cui gli uffici di esportazione devono attenersi per la valutazione circa il rilascio o il rifiuto dell'attestato di libera circolazione, ai sensi dell'articolo 68, comma 4, del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, nonché le condizioni, le modalità e le procedure per il rilascio e la proroga dei certificati di avvenuta spedizione e di avvenuta importazione, ai sensi dell'articolo 72, comma 4, del medesimo codice;
b) istituisce un apposito «passaporto» per le opere, di durata quinquennale, per agevolare l'uscita e il rientro delle stesse dal e nel territorio nazionale.

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