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Qui l'articolo con le quattordici domande a cui il Sindaco dovrebbe rispondere. Il link a un precedente articolo su eddyburg Monte Stella: il giardino dei giusti non può essere ingiusto, l'appello iniziale per fermare il progetto Il Giardino dei Giusti resti un Giardino; e il link per firmare la petizione.

Uscire dal fossile interrompendo immediatamente le estrazioni di petrolio e gas. Una rivoluzione per il sistema economico, ma é fondamentale che la riconversione non vada a gravare indistintamente su individui con capacità di reddito profondamente diversa. Qui l'articolo. (i.b.)


De-carbonizzare e fermare immediatamente le estrazioni di gas e petrolio significa riconvertire l'economia a partire dall'interrompere la dipendenza dai fossili. Cessare le concessioni di estrazioni e ricerca é un azione rivoluzionaria perchè obbliga fin d'ora a trovare soluzioni alternative alla produzioni di energia, ma anche a ridurre consumo energetico. Ma questa riconversione non può tradursi a un ritorno ai cavalli o alla schiavitù, come forze motrici, e non può essere pagata indistintamente da tutti.
In questo articolo dell' Altraeconomia si spiega che strumenti come “Carbon pricing”, "Emissions Trading System", “Cap and trade”, “Carbon tax”, seppur tra loro molto diversi, sono misure regressive, perché se applicate senza ulteriori misure gravano indistintamente su individui con capacità di reddito profondamente diverse, rischiando di scaricare la transizione sulle fasce della popolazione con i redditi più bassi.
Sulla portata rivoluzionaria dell'appello alla decarbonizzazione e stop a tutte le attività estrattive si legga l'articolo «Fermiamo l’estrattivismo ora» e si veda il sito del movimento “Extinction Rebellion”. (i.b.)

Per far fronte al pesante traffico automobilistico, il Lussemburgo eliminerà biglietti da treni, tram e autobus entro la prossima estate. E' già attivo il trasporto pubblico gratuito per i minori di 20 anni e tutti gli studenti delle scuole lussemburghesi. Qui l'articolo. (i.b.)

Un ulteriore aspetto della natura perversa del sistema capitalistico: anche gli sconvolgimenti climatici diventano incentivi per il suo mortifero sviluppo, fornendo profitti a coloro che si preparano a speculare sui disastri che il sistema stesso ha prodotto. (e.s)

L'articolo «Betting on a crash – confronting those speculating on our future» di Nick Buxton, pubblicato su Tni il 6 febbraio 2019, ci ricorda della capacità del capitalismo di cercare profitti nella più disperata delle situazioni e di una crescente industria globale che si prepara a trarre profitto dai cambiamenti climatici. Già il giornalista Mckenzie Funk nel suo libro «Windfall», uscito nel 2015 e non ancora tradotto in italiano, racconta di come banche, aziende energetiche, ingegneri e imprenditori stanno trasformato una crisi globale, dall'aumento del livello del mare, alle inondazioni, agli incendi e alla scarsità di cibo e acqua, in un'opportunità d'oro, raccogliendo profitti a breve termine.

In California ci sono i vigili del fuoco privati che si occupano di incendi sempre più intensi, speculatori che scommettono su dove le colture saranno costrette a muoversi mentre le temperature cambiano, società ag-tech che offrono colture geneticamente modificate in grado di far fronte a temperature estreme, società energetiche che pensano che gli estremi del cambiamento climatico porteranno effettivamente a un maggiore uso di energia, poiché le persone, per esempio, accenderanno più spesso i loro condizionatori d'aria.

L'autore dell'articolo spiega che dietro queste imprese, che speculano sul disastroso futuro che ci aspetta, ci sono moltissime società finanziarie e compagnie assicurative che ne sostengono gli investimenti, in quanto le previsioni indicano che i cambiamenti climatici genereranno profitti, ovviamente per pochi, pochissimi.

Barney Schauble, della società di investimento Nephila Advisors, ha dichiarato alla rivista Bloomberg: «Se riesci a vedere qualcosa che le altre persone semplicemente rifiutano di vedere, e puoi prendere decisioni su tale base, nel lungo periodo questo ti porterà buoni profitti». D'altronde il Wall Street Journal nel 2011 aveva pubblicato una guida apposita, scritta dall'imprenditore, investitore e scrittore James Altucher e il giornalista Douglas R. Sease proprio su come fare soldi vedendo opportunità laddove altri vedono pericoli (The Wall Street Journal Guide to Investing in the Apocalypse: Make Money by Seeing Opportunity Where Others See Peril). Non ci si può stupire quindi se sono in forte crescita industrie e mercati assicurativi che puntano su un futuro ancora più catastrofico del presente. Ovvio che questo nuovo mercato che specula sulle future disastri prospera anche grazie a un contesto politico globale nel quali i governi, anzichè mettere in atto azioni concrete per mitigare il cambiamento climatico come esortato dall'ultimo rapporto del IPPC, operano per promuovere azioni finanziarie che lucrano sui futuri disastri. Ci sono per esempio i 'cat bond' che vengono propagandati dall'OCSE, dalla Banca Mondiale e anche dall'ONU, come modi per proteggersi dalla catastrofe climatica. Ma come molti altri prodotti finanziari, oggi i 'cat bond' sono più utili a creare un nuovo flusso di profitti per i banchieri piuttosto che fornire sicurezza ai più vulnerabili.

Nick Buxton paragona questa situazione, di pericolosa speculazione da parte di queste corporazioni, potentissime in quanto sorrette dal potere politico ed economico, a un autista che si è impossessato delle chiavi della nostra macchina e che si sta dirigendo dritto dritto verso una scogliera, e che molto probabilmente non ci pensa nemmeno o al massimo sta riflettendo su come fare soldi dall'inevitabile incidente.

Conclude l'articolo citando un altro gruppo di scommettitori e speculatori: l'industria militare e delle produzioni di armi. Spiega come i militari sono le organizzazioni più attive quando si tratta di anticipare catastrofi, e si stanno ben preparando agli impatti dei cambiamenti climatici. E' confermato che l'attività di ricerca relativa a come affrontare i cambiamenti climatici e le conseguenze che questi porterebbero risale al 1990. Nel 2008, sia gli Stati Uniti che l'Unione Europea all'interno delle loro strategie di sicurezza hanno identificato il cambiamento climatico come un "moltiplicatore di minacce" segnalando che i cambiamenti climatici avrebbero intensificato i conflitti esistenti.

Non è difficile immaginare come il nostro futuro provocherà ulteriori diseguaglianze assicurando sicurezza e profitti solo a pochi. Diventa sempre più urgente non solo combattere i poteri politici, governi ciechi ed inetti, ma contrastare i grandi poteri economici e finanziari.

Firenze, 14 marzo 2019. Analisi del modello contrattuale realizzato per costruire una macchina che trasforma le risorse pubbliche in affari privati, presentato al ciclo di conferenze «La favola delle Grandi Opere» organizzato da PerunAltracittà. (e.s.)

Le grandi opere inutilie dannose sono strumentali al funzionamento dell’impresa post-fordista, cheprospera attingendo ai beni e alle risorse pubbliche, che grazie alla messa apunto di un modello finanziario-contrattuale ad hoc permette il trasferimentodi fondi pubblici ai privati.
L’impresapostfordista, come afferma Ivan Cicconi è «una grande impresa virtuale cheinevitabilmente scarica, attraverso una ragnatela di appalti e subappalti, lacompetizione verso il basso e induce, anche nella piccola e media impresa, unacompetizione tutta fondata sullo sfruttamento del lavoro nero, grigio,precario, atipico»[1].
Questo modello per l’implementazione di grandi opere pubblichesi basa sulla privatizzazione della committenza pubblica. Attraverso uncontratto di concessione, si affida la progettazione, la costruzione e talvoltaanche la gestione dell’opera pubblica, ad una società di diritto privato (Spa),ma il capitale è tutto pubblico, così come il rischio del recuperodell’investimento. Le società coinvolte, appalti, subappalti, consulenzevengono così a operare in un regime di diritto privato fuori dalle regole e dalcontrollo della contabilità pubblica, spesso in un regime di monopolio ooligopolio collusivo. Le «attività economiche, controllate, determinate egestite da Consigli di Amministrazione delle Spa nominati dai partiti, in cuiil ruolo ed i rapporti fra politici, tecnici e imprenditori, si confondono ediventano sempre più intercambiabili e intercambiati»[2]. Si forma così un modello che permette, alla luce del sole, dipilotare la spesa pubblica in direzione di interessi privati (e nondell’interesse collettivo). Per estorcere denaro pubblico a fini privati non èpiù necessario ricorrere a transazioni occulte: il favoreggiamento di aziendeamiche da far lavorare e prosperare diventa lecito.
La rete illegale messa in evidenza da tangentopoli viene«ampiamente sostituita da un sistema di relazioni e di convenienze piùimmediato e più complesso, nel quale gli illeciti sono molto più difficilmentecontrastabili»[3].
Come tutti i modelli che si rispettano, c’è sempre una ‘fase di ideazione’,che nel nostro caso specifico ha consistito nell’introdurre la concessione.Segue la ‘fase di
sperimentazione’ con cui verificare l’idea in altri ambiti e contesti.Segue infine una ‘fase di messa a punto e collaudo’ del prototipo, che vienepoi ‘codificato’ e ‘applicato su grande scala’.
Fase di ideazione
Vale la pena difare un salto indietro nel tempo a quando si è introdotta l’idea dellaconcessione, ricordando quella che fu la prima “grande opera" italiana: larete delle autostrade. Fu costruita in Italia all’indomani della seconda guerramondiale, formalizzata con la legge Romita (L.463/1955),che ne disegnò l'impianto.
L’autostrada delSole tra Milano e Napoli, dà il via all’opera, realizzata attraverso unaconvenzione, firmata nel 1956, tra Anas e Società Autostrade Spa (SocietàAutostrade Concessioni e Costruzioni Spa). Siamo nella situazione in cui dei beni publici,la rete autostradale nella fattispecie, sono gestiti da società “concessionarie”che ne raccolgono i profitti pagando in cambio un canone allo stato. Fino alla fine deagli anni ’90 del secoloscorso queste società rimarranno pubbliche, proprietà di enti locali oppure statali,come nel caso della Società Autostrade che appartiene all’IRI (Istituto per laRicostruzione Industriale). Il concorso finanziario per l’autostrada del Sole prevedevadue agenti: lo Stato (circa 36%) e dall’altra parte la Società Autostrade Spache avrebbe emesso obbligazioni trentennali garantite da ipoteca sui lavorieseguiti con le quali si copriva il resto delle spese.
L’ introduzionedel sistema delle concessioni nella realizzazione della rete autostradale e grandiinterventi pubblici in generale preoccupava fin dall’inizio il grande ingegneredei trasporti Guglielmo Zambrini (ordinario di Infrastrutture e Pianificazionedei Trasporti presso la scuola di Urbanistica dello Iuav). La dura critica di Zambrini alle concessioniviene ricondara da Barp e Vittadini nell’ introduzione di un libro cheraccoglie alcuni dei suoi scritti. «La critica stringente di Zambrini sullaquestione autostradale e sulle distorsione delle priorità che deriva dalmeccanismo della concessione ha fornito un contributo, ancor oggi moltoimportante di analisi tecnica e consapevolezza politica. In teoria leautostrade in concessione avrebbero dovuto ripagarsi almeno per circa ¾ con pedaggi e ¼ con denari pubblici a fondoperduto. Succedeva invece che i costi d’ investimento assai superiori alprevisto (o entrambe le cose) [l'assenza di domanda adeguata - ndr] rendesseroi pedaggi largamente insufficienti acoprire i costi»[4]. Essendosocietà pubbliche, lo stato elargiva generosamente risorse pubbliche alleconcessionarie insolventi sottraendole ad altri investimenti. «La garanziadello Stato, la mancata riforma e il successivo prolungamento sistematico delleconcessioni giustificheranno la caustica definizione delle concessionarie come‘società a irresponsabilità illimitata’ in »Autostrade all’attaccoprogrammazione alle corde” che raccoglie gli editoriali di “S&T! [Strade eTraffico – ndr] dei primi anni settanta»[5].
L’articolo di Casabellan. 496 del 1983 «Buchi nei conti, buchi nei tubi, buchi nei monti» rende benecome già allora Zambrini vedesse nelle grandi opere infrastrutturali latendenza ad essere inutili (buchi nei monti) , dispensiose oltre misura (buchinei conti) e a scapito di opere indispensabili come l’approvigionamento idrico(buchi nei tubi)[6].
Fase di sperimentazione
Un’ ulterioreelaborazione del modello della concessione avviene con il MoSE (Modulosperimentale elettromeccanico) spacciato per essere un sistema di alta tecnologiacapace di salvare Venezia. Con il Mosesi introduce il modello della ‘concessione unica’. Si rimanda all’eddytoriale174[7] perconoscere i dettagli dell’operazione, ma è opportuno ripercorrere due episodi.
Nel 1982, mentreil Comune di Venezia lavorava alacramente per affrontare il riequlibrio complessivodell’ecosistema lagunare, si costituisce il Consorzio Venezia Nuova (CVN).Quattro imprese, diversamente legate al mondo del cemento armato, ne fannoparte: Italstrade, Grandi Lavori Fincosit, Società italiana per Condotted'Acqua e Mazzi Impresa Generale di Costruzioni. Due anni dopo, mentre ilParlamento discuteva ancora sulle modalità con qui affrontare il problema dellasalvaguardia della Laguna, per decisione del ministro Franco Nicolazzi (governoCraxi) il Magistrato alle Acque di Venezia (Ministero dei Trasporti) affidatutte le opere e gli interventi necessari alla difesa della Laguna al ConsorzioVenezia Nuova.
La concessione unicaè un affidamento esclusivo e omnicomprensivo, che ha consentito a un solooperatore privato, il Consorzio Venezia Nuova, di disporre di tutte le risorseche lo Stato trasferiva per la salvaguardia di Venezia. Un consorzio che decideautonomamente la progettazione del sistema e le soluzioni tecnologiche dautilizzare. Rispetto alla concessione delle autostrade il concessionario ora éinteramente privato.
Il sistema Mose èstata una vera e propria sperimentazione in cui sono stati coinvolti, dirigentiregionali e ministeriali, finanzieri, centri di ricerca, università. Attraverso consulenze, collaudi, direzionelavori si sono co-optate moltissime persone, inclusi ricercatori e intellettuali,enti pubblici e privati. Attraverso incarichi e relativi compensi il Mose si ècomprato il consenso di un ampia fetta della società veneziana.
Con il Mose ilmodello non è ancora del tutto a punto e non sono ancora codificate le regoleper disciplinare i rapporti tra stato e impresa. Tanto è vero che perraggiungere gli obiettivi affaristici è ancora necessario ricorrere allostrumento della corruzione. Nel frattempo la magistratura reagisce e il 4 giugno2014 avvengono numerosi arresti per tangenti.
Due elementi, chediventeranno delle costanti delle grandi opere inutili, emergono con evidenzadall’operazione Mose:
lievitazionedei costi (dalla previsione iniziale di un costo pari a€1.600 milioni alconsuntivo al 2018 pari a €5.493)
prolungamentoall’infinito dei lavori (e ulteriore aumento dei costi)
sottrazionedi risorse per le grandi opere realmente necessarie.
La fase di collaudo
Il 7 agosto 1991veniva presentata in pompa magna l’Altavelocità ferroviaria, che prevedeva la realizzazione di sette nuove tratte(Milano-Bologna, Bologna-Firenze, Roma-Napoli, Torino-Milano, Milano-Verona,Verona-Venezia, Genova-Milano) dedicate al trasporto passeggeri. I contrattiiniziali prevedevano un costo complessivo pari a 14 miliardi dieuro e si prometteva la realizzazione in 7 anni.
A Paolo Cirino Pomicino va dato il “merito” di avere postoun’altra pietra miliare dell’architettura contrattuale delle grandi opere!
Le Ferrovie, attraverso la Tav Spa (una società delGruppo Ferrovie dello Stato fondata appositamente per la pianificazione e laprogettazione della Tav) danno incaricodi costruire le line ferroviarie a un general contractor, che poi appalterà ilavori a terzi (consorzi e aziende), che si spartiranno le commesse senza veregare d’appalto. Il general contractor, privato, non ha alcuna responsabilitànella gestione finanziaria: non mette soldi, non gestirà l'opera, non rischiasul rapporto costi-guadagni. In meritoalla Tav ricordiamo due favole:
1. Si giustificaval’affidamento a un general contractor della Tav per dimezzare i tempi direalizzazione. In realtà tutte le tratte hanno subito ritardi; per esempio latratta Tav Bologna-Firenze ha più che raddoppiato i tempi e quadruplicato icosti!
2. Con l’affidamentoa un general contractor privato si voleva fa credere che il sistema Tavitaliano fosse frutto di investimenti pubblici e privati, ma di investimentoprivato non c’è mai stata l’ ombra perchè l’unico azionista è lo stato[8].
Al “collaudo” ilmodello non passa: criticato dall’Antitrust il ministro Bersani azzera icontratti, elimina questo strumento e torna alle gare per i lavori ancora nonavviati. Ma la sosta del sistema affaristico dura poco: arrivano i governiBerlusconi che codificheranno il metodo, legalizzandolo e rendendolopraticamente infallibile.
La fase di codifica: tre leggi
Nel 2001 siapprova la Legge Obiettivo n.443/2001 per le cosiddette grandi operestrategiche volute da Berlusconi, con la quale si perfeziona il general contractor. Nel mondoanglosassone il general contractor (persona fisica o società giuridica) siassume la responsabilità integrale in merito alla realizzazione di un’opera,avvalendosi sia di competenze interne, sia di subappaltatori specializzatireperibili sul mercato e si accolla ilrischio del lavoro.
Il general contractor all’italiana invece può facilmente ricorrerealle varianti (relative a costi e tempi) per mantenere in positivo il suomargine o per aumentarlo, non si assume rischi e ha interesse a dilatare tempie andare avanti all’infinito.
Rispetto almodello concessionario originario il modello successivo con il generalcontractor agisce in regime privatistico e potrà affidare i lavori a chi vorrà,anche a trattativa privata, e qualunque cosa faccia sarà difficilmenteperseguibile per corruzione: le eventuali tangenti diventano soltantoprovvigioni!. L’allora dirigente del Ministero delle Infrastrutture ErcoleIncalza condiziona così i lavori pubblici di autostrade, porti e alta velocitàper 25 miliardi di euro e la ditta di Ingegneria SPM (Stefano Perotti) siassicura sempre una fetta significativa dei fondi, che a forza di variantifanno lievitare i costi spropositatamente.
Nella sua «Indagine relativa agli interventi gestiti da TAV S.p.A.», l’Autorità per laVigilanza sui Contratti Pubblici attestava che questi risultano caratterizzatida “gravi infrazioni ai principi della libera concorrenza e della nondiscriminazione” e che “hanno subìto, in corso di esecuzione, notevoliincrementi di costo e del tempo di realizzazione[9].
Nel frattempovengono trasformate anche quelle operazioni di vecchia data, infatti nel 1999,la stessa Società Autostrade viene privatizzata e subentra all’IRI
un nucleo stabiledi azionisti costituito da una cordata guidata da Edizione (controllata dallafamiglia Benetton). La società, che dal 2007 si chiama Atlantia Spa controllaoltre 3.000 chilometri di autostrade italiane.
Nel 2002 siapprova anche la Legge Salva-deficit n.112/15 giugno 2002 – detta anche LeggeTremonti. Una normativa prettamente economica che istituisce dal nulla,rispettivamente agli articoli 7 e 8, due società di capitale pubblico ma didiritto privato: la “Patrimonio dello Stato Spa” e la “Infrastrutture Spa”.
La “PatrimonioSpa” ha la funzione di «valorizzare, gestire e alienare il patrimonio delloStato», nonché di finanziare la “Infrastrutture Spa”. Quest’ultima è una società pubblico-privato,inizialmente partecipata solo dal Ministero dell’Economia e istituita dallaCassa Depositi e Prestiti che – con il beneplacito del ministro – può cedere almercato proprie azioni fino al 50 per cento. La Infrastrutture Spa adempiendoalle sue funzioni di finanziamento e garanzia delle grandi opere può aumentarela sua capacità di indebitamento tramite la svendita o l’emissione di titoli subeni di fondamentale valore culturale e paesaggistico. Cioè questi benientrando a far parte del patrimonio di una società a maggioranza privata, sonoesposti ad eventuali procedure fallimentari nel caso di insolvenza dellasocietà medesima. Il rischio è che ci pagheremo le grandi opere Inutili con ilnostro patrimonio pubblico ambientale, culturale e artistico.
Con la leggedelega sulle infrastrutture n.166/2002, (idea di Pietro Lunardi) si stravolgela precedente legge Merloni sui lavori pubblici e il project financing risalential 1994.
Il project financing è una complessa operazione economico-finanziaria rivolta ad uninvestimento specifico per la realizzazione di un’opera e/o la gestione di unservizio, che presuppone il coinvolgimento di soggetti e finanziatori privati.
Nelle proclamateintenzioni il finanziamento dell'iniziativa è basato soprattutto sulla validitàeconomica e finanziaria del progetto che deve essere potenzialmente in grado digenerare flussi di cassa positivi, sufficienti a ripagare i prestiti ottenutiper il finanziamento del progetto stesso e a garantire un'adeguataremunerazione del capitale investito, che deve essere coerente con il grado dirischio implicito nel progetto stesso.
Uno degli esempi di project financing all’italiana è laPedemontana Veneta, un infrastruttura stradale che nasce come superstrada apedaggio[10] [9].Ricordiamo qui solo alcuni passaggi della vicenda assai complicata di questaopera che subordina gli interessi sociali, economici edambientali della collettività alle logiche affaristiche. Nel 1995, nel contesto di un drastico taglio dellaspesa pubblica il Presidente della Autostrada A4 Serenissima si offre direalizzare la Pedemontana come autostrada in concessione “senza oneri per loStato”. La proposta sembra allettante. ANAS, senza aspettare alcuna valutazionepreventiva, indice una gara a licitazione privata per il progetto definitivodell’autostrada, che viene vinto nel gennaio del 2000 dalla società diprogettazione Bonifica Spa. Per comprendere la mossa apparentemente azzardatadella Autostrada A4 Serenissima e dell’ANAS bisogna sapere che nelle leggifinanziarie di fine anni ’90 si stanziavano denari per la realizzazione dellaPedemontana, sebbene questa si sarebbe dovuta costruire “senza oneri per loStato”. Dal 2001, la Pedemontana è una delle opere presenti nella leggeobiettivo e oggetto di trasferimento dicompetenza alla regione. Nel 2002 la società Pedemontana Veneta Spa presentail progetto di project financing. A 10 anni dall’approvazione, l’avanzamentodell’infrastruttura pone grossi problemi: viene meno completamente il rischiodel concessionario e si presentano problemi ambientali e idraulici notevoli, checontinuano a far lievitare i costi. La pedemontana è emblematica di comenelle grandi opere le mancanze progettuali e gli errori del concessionario sonoa spese dello stato.
Conclusioni
Con l’uso diquesti nuovi istituti contrattuali, tra cui la concessione e il generalcontractor, si è costruita una macchina infernale che trasferisce soldipubblici ai privati attraverso la creazione di grandi opere inutili e dannose.
Le grandi operenon sono ideate e fortemente volute dai governi perché soddisfano rilevantibisogni sociali. La Tav, la Pedemontana Veneta, il Mose hanno dimostrato in tuttiquesti anni di denuncie, critiche e puntuali analisi scientifiche di non essereprogetti indispensabili per il miglior funzionamento del paese. Altre opere, apartire dalla manutenzione della rete ferroviaria esistente, sarebbero statepiù necessarie. Il confronto tra i benefici che una data opera porta a unacomunità e i costi, compresi quelli ambientali, che essa deve sopportare hadimostrato che queste opere non si sarebbero dovute fare.
Si continuano aportare avanti perché servono a chi le costruisce. Le imprese, le ditte, iconsulenti, gli studi di progettazione ottengono lavori lautamente remunerati. Siccome i rischi e i finanziamenti sonopubblici, ovvero a carico dei contribuenti, i concessionari hanno interesse adilatare i tempi, aumentare le opera da realizzare, fare errori che comportanoulteriori variazioni ai progetti, creare problemi, anche ambientali, producendocosì altre occasioni di affari.
Queste opere offrono opportunità straordinarie anche a queisoggetti che, oltre a disporre di denaro a costo zero, hanno l’esigenza diriciclare capitali di provenienza illecita. La filiera dei subappalti siallunga e rende più difficile il contrasto alla mafia e alla corruzione,perché le misure elaborate per combattere gli illeciti erano state concepiteper un sistema degli appalti ormai completamente sostituito dal meccanismocriminoso che si è appena descritto.
Questo immane impiego di risorse per opere sbagliate eliminala possibilità di investire risorse e lavoro in interventi necessari nei campidella difesa del suolo, della salute, della formazione e via dicendo, cioè inopera socialmente utili.
Di fronte alle critiche e analisi che comprovano l’inutilitàdelle grandi opere in atto ritorna una propaganda vecchia e bieca, che misuralo sviluppo in termini di infrastrutture fisiche. Una propaganda che ricorreanche all’alibi dei posti di lavoro che si perderebbero con l’annullamentodell’opera. Ma come detto poc’anzi non si tratta di perdere lavoro – tral’altro basato sullo sfruttamento,sul nero, sul precario – ma ri-indirizzarlo verso impieghi socialmente eambientalmente utili.

Note


[1] IvanCiccone, Alta Velocità: grandi opere e capitalismo, in «Il granello di sabbia»,n.11 aprile 2014, raggiungibile su eddyburg.
[2]ibidem.
[3] Ibidem.
[4] A. Barp, M. R.Vittadini «Introduzione» in Guglielmo Zambrini «Questioni ditrasporti e di infrastrutture. Teorie, concetti e ragionamenti per una buonapolitica dei trasporti», Marsiglio, 2011.
[5]Ibidem.
[6] SullaTav si legga l’articolo di Anna Donati e Maria Rosa Vittadini “Ancora sullaTorino-Lione: buchi nei monti, buchi nei conti” consultabile su eddyburg.
[8] Persapere chi ci metterà i soldi per costruire la TAV si legga l'articolo diAttilio Giordano (2006) "Chesiate pro o contro la TAV, forse volete sapere chi la paga" nelquale si chiarisce che c'è un grande equivoco sul fatto di che la TAV sarà ilrisultato di investimenti pubblici (al 40 per cento] e privati (al 60 per cento).
[9] Sugli alti costi della Tav, gonfiati daicosti di mazzette, tangenti e più in generale corruzione si legga "Treni etangenti, quanto ci costa l'alta velocità" (2015) diGloria Riva e Michele Sasso.
[10] Sulla pedemontana Veneta si leggal’articolo di Maria Rosa Vittadini «La Pedemontana veneta: un caso da cui trarreinsegnamento», consultabile su eddyburg.
Questo articolo é il completamento e lo sviluppodi una relazione tenuta a Firenze il 14 marzo, giornata di studio dedicata a«Decisori o impostori. Decostruire il modello decisionale» nell’ambito delciclo di conferenze su «La favola delle Grandi Opere» organizzato da PerunAltraCittà di Firenze.

21 marzo 2019. Nella giornata in ricordo delle vittime innocenti e dell'impegno contro le mafie organizzata da Libera, qui un'introduzione al fenomeno dell'ecomafia nel Nord Est, una mostruosa piovra che con i suoi tentacoli invisibili avviluppa l’economia e la politica. (i.b.)

La Mafia in Veneto, prende forma come crimine d’impresa con alleati preziosi dentro la Pubblica amministrazione che in certi contesti si è elevata a sistema, promuovendo e condizionando l’avvio di iniziative economiche impattanti per la comunità (quando non estremamente pericolose), di opere pubbliche infrastrutturali inutili e dannose come il Mose o la Pedemontana, forme occulte di abusivismo edilizio, autorizzazioni improprie o illegittime per l’esercizio di discariche.

Le recenti indagini della Procura distrettuale antimafia di Venezia, la guardia di finanza e la Polizia di Stato dimostrano che le cosche storiche si sono insediate anche nella regione Veneto, prendendo il controllo della criminalità e allacciando rapporti con l’imprenditoria e la politica.

I camorristi, insediati a Eraclea da oltre vent’anni, ottenevano il pizzo da imprese dell’edilizia e della ristorazione, controllavano il narcotraffico e la prostituzione e rifornivano le aziende di lavoratori in nero. Costituivano ditte destinate alla bancarotta e producevano false fatture. Insomma, avevano intrecciato stretti legami con l’imprenditoria locale, diventando protettori, dispensatori di favori e soci in affari.

È del 12 marzo 2019, la notizia di trentatré ordinanze cautelari verso gli appartenenti a un’organizzazione criminale di matrice ‘Ndranghetista operante a Padova e dedita alla commissione di gravi reati, tra cui, l’associazione per delinquere di stampo mafioso, estorsione, violenza, usura, sequestro di persona, riciclaggio, emissione e uso di fatture per operazioni inesistenti.

L’ecomafia é diventata un altro tassello fondamentale, spesso non considerato, nel grande puzzle dei danni ambientali. L’opaco binomio tra corruzione, mafia e saccheggio ambientale é una tra le cause principali degli effetti nocivi sul nostro territorio e sulla nostra salute. L’ultimo Rapporto Ecomafia di Legambiente indica che il fatturato dell’ecomafia è salito a 14,1 miliardi, una crescita dovuta soprattutto alla lievitazione nel ciclo dei rifiuti che è sempre di più il cuore pulsante delle strategie ecocriminali.

Le finte operazioni di trattamento e riciclo per ridurre i costi di gestione e per evadere il fisco sono tra le forme criminali predilette dalle organizzazioni di stampo mafioso. Lo smaltimento dei rifiuti è infatti un settore di grande valore economico gestito da funzionari pubblici e singoli amministratori che hanno un ampio margine di discrezionalità. Così, coloro i quali dovrebbero in teoria garantire il rispetto delle regole e la supremazia dell’interesse collettivo su quelli privati, creano l’humus ideale per le pratiche corruttive. L’aumento delle inchieste sui traffici illegali di rifiuti è anche all’origine dell’incremento registrato degli illeciti ambientali, di persone denunciate e dei sequestri effettuati.

Solo un anno fa abbiamo assistito all’inchiesta “Blood Money” del giornale napoletano Fanpage sul business del ciclo di rifiuti che, dalla Campania si sarebbe diramato al Nord, e riguardava un possibile affare legato allo smaltimento di rifiuti mediante una costruzione di un sito di stoccaggio a Marghera che avrebbe dovuto contenere rifiuti frutto di un sequestro degli anni 2004- 2005.

E ancora, il sequestro di due cave nel 2018, riempite di immondizia a Noale, in provincia di Venezia, e a Paese, in provincia di Treviso dove, anziché trattare i rifiuti, eliminando amianto e metalli pesanti si attuava una miscela con altri rifiuti, meno inquinati, aggiungendo calce e cemento per produrre un amalgama da usare nell’edilizia o nelle grandi opere stradali. Risultato: 280mila tonnellate di materiale contaminato da metalli pesanti e da amianto utilizzato per lavori come il Passante di Mestre, il casello autostradale di Noventa di Piave, l’aeroporto Marco Polo di Venezia e il parco San Giuliano di Mestre. Due giorni fa, il 19 marzo, nel Basso Vicentino è stato scoperto un capannone, di proprietà di un noto istituto bancario di livello nazionale, in cui erano illecitamente occultate circa 900 tonnellate di rifiuti non riciclabili derivanti anche da processi di lavorazione industriale.

Il Veneto non è nemmeno immune alle Agromafie, altro settore illecito in crescita, correlato ai fenomeni della contraffazione, del riciclaggio e del Caporalato. Nell’agricoltura e nell’allevamento il capolarato è una piaga che toglie dignità al lavoratore mediante abusi, sfruttamento e salari inferiori rispetto alle regolari tariffe del mercato. Le condizioni lavorative disumane a cui sono costretti i braccianti sono difficilmente denunciate per paura di perdere il lavoro. Ciò accade perché la posta in gioco per i lavoratori, molto spesso extracomunitari regolari, è troppo alta: avere un’occupazione è condizione imprescindibile per mantenere il permesso di soggiorno, per cui una denuncia potrebbe causare effetti ancora più gravi come il non riuscire più a rinnovare il permesso di soggiorno, in quanto per la legge Bossi-Fini per rimanere regolarmente in Italia è necessario avere uno stipendio.

Tre anni fa, nel veneziano, si era scoperta una baraccopoli in cui vivevano in condizioni sanitarie pessime alcuni braccianti bengalesi che lavoravano sette giorni su sette a 150-200 euro al mese. Mentre, a settembre 2018, è stata sgominata una rete di caporalato che faceva riferimento a due cooperative fittizie le quali reclutavano in nero la manodopera dall’Albania e dalla Romania, facendo fare ai lavoratori la spola fra i campi del Veneto e della Toscana.

Grazie alla l.68/2015 che disciplina gli ecoreati e che li ha introdotti nel Codice penale, si sono compiuti molti passi in avanti. Tuttavia ciò non basta, soprattutto dopo l’abolizione del divieto di vendita dei beni sequestrati alle mafie, in sostanziale modifica alla L.109/1996 la quale prevedeva il loro riuso prevalentemente per fini pubblici e sociali creando un autentico e pulito riscatto economico e sociale.

Infatti, il Decreto-legge Sicurezza, ora convertito in L.132/2018, non è altro che un regalo alle Mafie. Vendendo i beni immobili confiscati ai privati implicitamente si favoriscono i clan, che potrebbero riacquistare i beni attraverso prestanomi e riciclare i patrimoni e le ricchezze accumulate illecitamente.

Inoltre, con la nuova manovra, le pubbliche amministrazioni potranno sostenere spese fino a 240.000 euro senza fare gare o appalti: ciò significa che la Mafia non dovrà nemmeno fare uno sforzo per partecipare.


Breve bibliografia di riferimento

Gianni Belloni e Antonio Vesco, Come pesci nell'acqua. Mafie, impresa e politica in Veneto. Mafie, impresa e politica in Veneto, Donzelli, 2018.

Legambiente, Rapporto ecomafia, 2018.

Antonio Pergolizzi, Emergenza Green Corruption. Come la corruzione divora l'ambiente, Andrea Pacilli Editore, 2018

Visula Lab - Gruppo Gedi, Atlante criminale Veneto, 2018

Osservatorio Placido Rizzotto - Flai Cgil, Quarto rapporto agromafie e caporalato, 2018
Fanpage, Bloody Money, 2018

Tra le grandi opere inutili e dannose gli aeroporti occupano un posto particolare per il loro devastante impatto ecologico e sociale. Firenze è un esempio eclatante. Un introduzione al problema generale e le ragioni del no dei comitati toscani in manifestazione il 30 marzo.

Gli aeroporti sono, nella stragrande maggioranza dei casi, delle gradi opere inutili e dannose. Esiste oramai un ampia letteratura riguardante l'espansione degli aeroporti, che sta avvenendo in tutto il mondo. Da una parte i governi favoriscono la costruzione di nuovi aeroporti o l'allargamento di quelli esistenti perché queste infrastrutture sono viste come strumenti economici per collegare il paese ad altre parti del mondo e quindi come mezzo per far parte dell'economia globale. Dall'altra un numero crescente di abitanti si oppone a questi interventi perché queste gigantesche opere hanno un devastante impatto in termini di emissioni, inquinamento, consumo di suolo e trasformazioni territoriali che in molti casi implicano anche espulsioni di comunità intere.
Una parte della letteratura scientifica a sostegno dell'opposizione a queste infrastrutture si concentra proprio sull'impatto dell'inquinamento (dal rumore alla qualità dell'aria) e sulle ripercussioni dell'aviazione sulle emissioni di biossido di carbonio e quindi dell'impatto negativo di questo mezzo di trasporto sui cambiamenti climatici.
Il conflitto tra l'aviazione, come strumento di espansione economica, e la necessità di proteggere l'ambiente naturale e sociale dal deleterio impatto dell'inquinamento, delle emissioni e delle distruzioni di abitazioni, edifici storici, comunità e villaggi locali, sembra diventare un elemento caratterizzante delle principali città industrializzate. Gli esempi degli aeroporti di Roissy-Charles de Gaulle, Nantes, Frankfurt, Narita, e Shiphol sono forse i più noti in Europa. Gli aeroporti sono gigantesche e costosissime opere che richiedono ampie superfici, complesse infrastrutture che si espandono molto al di là degli edifici e dei servizi strettamente legati al trasporto aereo, sia all'interno che all'esterno degli aeroporti. Pensiamo alla quantità di spazio destinata ai negozi dentro gli aeroporti; all'infrastruttura stradale e ferroviaria che viene ampliata per collegare l'aeroporto; al commercio, logistica e terziario in generale che viene sviluppato nell'intorno degli aeroporti per rendere economicamente sostenibile l'investimento. Gli aeroporti diventano città dentro le città.
L'ampliamento dell'aeroporto di Heathrow e quello di Manchester in Inghilterra hanno sollevato moltissime obiezioni di cittadini e stimolato anche importanti studi scientifici per articolare il dibattito e gestire il conflitto. Non ci sono dubbi né sull'inquinamento acustico, il primo problema che di solito mobilita i cittadini, né l'inquinamento atmosferico; Hume e Watson (The human health impacts of aviation in Upham, P, Maughan, J, Raper, D, Thomas, C. Towards Sustainable Aviation, Earthscan Publications, 2003) spiegano che i principali inquinanti che si presentano sono il biossido di azoto, il particolato e i composti organici atmosferici che includono benzene, idrocarburi poliaromatici, cherosene, gasolio e glicole etilenico e che gli esami sanitari delle popolazioni esposte alle emissioni degli aerei dovrebbero essere condotte in maniera sistematica e paragonate a quelle delle popolazioni non esposte. Dai primi anni 2000, si è affiancato un ulteriore motivo che rende l'espansione degli aeroporti controproducente. L'Associazione Internazionale per il Trasporto Aereo informa che gli aerei sono responsabili per il 2% delle emissioni di biossido di carbonio prodotte dall'uomo nel 2017, anche se alcuni scienziati sostengono che è più alta. E' vero che auto, centrali elettriche e fabbriche fanno più danni. Ma il contributo dell'aviazione ai cambiamenti climatici diventa più grande di anno in anno. Per due motivi: primo, perché i viaggi aerei stanno crescendo a un ritmo sorprendente; secondo perché l'aviazione non sta facendo nessun progresso per ridurre le emissioni: la possibilità di avere aerei elettrici è ben lontana da venire. Quindi la dipendenza dal petrolio è assicurata!
Il caso dell'aeroporto di Firenze: per comprendere le principali ragioni che rendono illegittimo e non vantaggioso (se non per Toscana Aeroporti!) il nuovo aeroporto si legga «L'aeroporto di Firenze e il mito dello sviluppo» di Paolo Baldeschi. Dello stesso autore si legga «Oscure manovre attorno all’aeroporto di Firenze», sulla Commissione tecnica Via ha “approvato” il progetto del nuovo aeroporto di Firenze con 142 prescrizioni cui i proponenti Enac e Toscana Aeroporti dovrebbero ottemperare e «Il nuovo aeroporto di Firenze e il sistema di aggiramento delle regole». Articoli che spiegano come le autorità competenti stanno aggirando gli strumenti che dovrebbero garantire democrazia nei processi delle decisioni. Rimandiamo al sito di per un altra città per ulteriori articoli.
Infine riportiamo qui il comunicato dei comitati, movimenti e sindaci che manifesteranno il 30 marzo contro l'aeroporto per la difesa della Piana e della salute degli abitanti di Firenze, Prato e Pistoia. (i.b.)

Basta nocività! NO al nuovo aeroporto di Firenze – SI’ al Parco Agricolo della Piana per tutte/i!

Il progetto del nuovo aeroporto di Firenze altera in modo irreversibile l’equilibrio dell'ecosistema della Piana e minaccia la salute di tutte le popolazioni da Firenze a Prato a Pistoia.

È incompatibile con il Parco Agricolo della Piana, con le attività del Polo Scientifico di Sesto Fiorentino e della Scuola Marescialli. In un territorio già saturo di funzioni urbanistiche e di fonti inquinanti, non c'è più lo spazio per realizzare in sicurezza una struttura aeroportuale da 5 milioni di passeggeri/anno con il suo pesante impatto sull'ambiente (emissioni, rumori, polveri, rischio idrogeologico e consumo di altri 380 ettari di suolo).

La truffa delle "compensazioni ambientali" imposte dalla nuova pista non è accettabile: la deviazione dei fossi, la cancellazione delle zone umide aumentano il rischio idraulico. Lo spostamento del Lago di Peretola a Signa è stato scambiato con la nuova viabilità dalle Signe a Indicatore, un intervento necessario atteso dalle popolazioni da 50 anni e ancora tutto da realizzare.

Denunciamo l'imbroglio sull'occupazione, con la fumosa promessa di nuovi posti di lavoro, mentre già da tempo negli aeroporti della Toscana assistiamo alla riduzione ed alla precarizzazione del lavoro.

Rendere compatibili gli aeroporti con le popolazioni, e non viceversa!

L'attuale scalo di Peretola, cresciuto senza controlli ed autorizzazioni ambientali oltre i 2,5 milioni di passeggeri/anno, da troppo tempo non è più sostenibile dagli abitanti di Brozzi, Quaracchi, Piagge e Peretola. Chi per decenni ha ignorato questo disagio (vedi non attuazione delle stesse prescrizioni 2003), tenta ora di strumentalizzarlo per imporre la nuova pista. Per questo chiediamo un piano di drastica riduzione del traffico aereo, la tutela dell'occupazione ed il reimpiego dei lavoratori, collegamenti ferroviari efficienti con gli aeroporti vicini, nel rispetto delle caratteristiche e dei limiti di queste strutture.

Il Parco della Piana rappresenta uno strumento irrinunciabile per dare un futuro al nostro territorio e migliorare le condizioni di vita delle popolazioni: salvaguardia delle aree verdi, umide e archeologiche, nuova agricoltura di filiera corta, tutela della salute, basta cementificazione, strategia rifiuti zero e stop incenerimento rifiuti, creazione di lavoro stabile e sicuro, mobilità sostenibile basata sul trasporto pubblico e sulla riduzione del traffico privato, diritti e servizi sociali per tutti e tutte senza discriminazioni.

La partecipazione diretta degli abitanti, dei Comitati e dei Sindaci contrari all'opera è essenziale per battere i potenti interessi economici e politici che sostengono il nuovo aeroporto (Toscana Aeroporti spa, Confindustria, Camera di Commercio, Rossi, Nardella, Governo e ENAC). La vicenda dell'inceneritore di Firenze-Case Passerini ci dimostra che la tenacia popolare, i ricorsi di Sindaci e Comitati possono vincere anche dopo il via libera della Conferenza dei Servizi.

Abbiamo il diritto di decidere del nostro futuro, attivando un reale processo partecipativo. L'uso delle risorse basato sul profitto e non su finalità sociali sta distruggendo la biodiversità, il clima ed il pianeta: alla logica del breve periodo che comanda gli affari e la mercificazione turistica di Firenze contrapponiamo una visione lungimirante che conservi i beni comuni per oggi e per le generazioni future.

La Piana non si arrende al potere del denaro! Riprendiamoci salute, lavoro e territorio.

Manifestazione No Aeroporto!
Ritrovo ore 14,30 Polo Scientifico di Sesto Fiorentino.
Sono stati invitati a partecipare i sindaci che si sono espressi contro l'Aeroporto anche con ricorso al TAR:.
-Sindaco di Sesto Fiorentino: Lorenzo Falchi
-Sindaco di Carmignano: Edoardo Prestanti
-Sindaco di Calenzano : Alessio Biagioli
-Sindaco di Poggio a Caiano : Francesco Puggelli
-Sindaco di Campi Bisenzio: Emiliano Fossi
-Sindaco di Prato: Matteo Biffoni

Promossa da Movimenti, Comitati e Associazioni per la tutela della Piana Firenze – Prato - Pistoia.

Per aderire e partecipare, ulteriori info e percorso > Evento Facebook "Manifestazione No Aeroporto Si Parco!"

19 marzo 2019. Conferenza stampa davanti al Ministero dell'Ambiente per spiegare i motivi della mobilitazione di sabato a Roma, una marcia che inizierà alle 14.00 da piazza della Repubblica e arriverà a San Giovanni. Qui il link per aggiornarsi sul percorso. (i.b.)

Oggi, comitati ambientalisti e i comitati territoriali da diversi luoghi del paese, si sono ritrovati in conferenza stampa presso il Ministero dell’Ambiente per annunciare la marcia per il clima, contro le grandi opere inutili e contro la devastazione ambientale del 23 Marzo a Roma (partenza alle ore 14 da piazza della Repubblica)

Giungeranno dalla Val di Susa, da Taranto, passando per la Laguna di Venezia, per la Terra dei Fuochi, per le zone terremotate delle Marche i manifestanti che invaderanno Roma per suonare il campanello dall’arme sull’urgenza di un cambiamento di rotta. Come spiegato davanti alle finestre del ministro Costa, “la mancanza di manutenzione delle infrastrutture, la corruzione e la cementificazione selvaggia seminano morti e feriti a ogni ondata di maltempo perché le risorse pubbliche vengono utilizzate per la costruzione di opere che perpetuano un modello di sviluppo volto al profitto di pochi, senza il rispetto dei territori e di chi li abita“. Decine di pullman in arrivo da tutta Italia, dalla Sicilia all’estremo nord si ritroveranno per una mobilitazione inedita, ecologica e sociale, che unirà le istanze dei comitati che si battono da anni contro i progetti inutili e nocivi per l’ambiente a quelle del nascente movimento contro il cambiamento climatico.

La mobilitazione di sabato arriverà infatti a poco più di una settimana dallo Sciopero mondiale per il clima che ha portato in piazza milioni di giovani in Italia e nel mondo per chiedere ai governi azioni concrete contro il cambiamento climatico. “Siamo scesi in piazza il 15 marzo e scenderemo in piazza il 23 perché come Greta ci ha insegnato, la crisi climatica non si affronta in un giorno solo, e dobbiamo ribadire che la nostra generazione non ha intenzione di pagarne le conseguenze sulla nostra pelle e sulle terre che attraversiamo” dice Vittoria, studentessa alla Sapienza. Proprio dall’università sabato partirà un piccolo corteo studentesco che raggiungerà i comitati in piazza della Repubblica.

I Comitati rivendicano la lotta alla cementificazione e alle grandi opere inutili come primo punto in agenda per una politica ambientale che non sia soltanto un ipocrita nascondersi dietro le tracce di Greta Thunberg. Mentre in Val di Susa, nonostante gli annunci, partono i bandi per il cantiere del TAV, il governo ha fatto retromarcia su tutte le altre grandi opere devastanti sul territorio nazionale: il TAV Terzo Valico, il TAP e la rete SNAM, le Grandi Navi e il MOSEa Venezia, l’Ex-ILVA , ora ArcelorMittal a Taranto, il MUOS in Sicilia, la Pedemontana Veneta, inscenando, inoltre, un tira e molla sulle trivellazioni, con esiti catastrofici nello Ionio, in Adriatico, in Basilicata ed in Sicilia. A questo si aggiunge la mancata ricostruzione delle zone che hanno subito nella maniera più tragica la mancata messa in sicurezza dei territori come le Marche. Proprio i terremotati marchigiani saranno presenti con una delegazione sabato a Roma.

Una presenza particolarmente importante arriverà dal Sud Italia. “In Campania, forse abbiamo sperimentato gli effetti sulla salute prima che in altre regioni tanto è che in quelle terre è nato il termine biocidio per indicare l’attacco alla vita stessa che riguarda ognuno di noi” dice Raniero del comitato Stop-Biocidio prima di lasciare alla parola a Margherita dei Movimenti per il diritto all’abitare romani. «Centinaia di migliaia di immobili vuoti sono simbolo a Roma di come la cementificazione e la speculazione edilizia non hanno mai risposto alle esigenze abitative delle altrettante centinaia di migliaia di persone che hanno diritto alla casa» aggiunge prima di annunciare un concentramento di sfrattati e senza casa al Ministero delle infrastrutture a Piazza Porta Pia alle ore 11, come prologo del concentramento di Piazza della Repubblica.

Tra i tanti comitati ovviamente c’erano anche i notav: «La lotta è lunga e dura, sono 30 anni che la portiamo avanti, riguarda noi e i nostri figli che hanno diritto a vivere in una valle salubre, non intossicata dallo smerino e dalle polveri provocate dallo sventramento delle montagne» dice Emilio arrivato dalla Val di Susa.

L’obiettivo della manifestazione è quello di pretendere un cambiamento di rotta radicale nella gestione delle risorse. Un nuovo modello di sviluppo che dovrebbe ribaltare le priorità: non quelle di una classe imprenditoriale che ha passato gli ultimi trent’anni a delocalizzare e inquinare in nome del profitto ma delle persone che lavorano, studiano e vivono nel nostro paese. Mentre negli ultimi mesi i giornali sono stati invasi dal pensiero unico dello Sviluppo e del Progresso e il dibattito pubblico è stato preso in ostaggio da un manipolo di industriali senza scrupoli messi in fila dietro il feticcio del SITAV, sabato a Roma risuonerà finalmente una voce diversa.

I timidi provvedimenti presi nei confronti del cambiamento climatico, nel rispetto degli Accordi di Parigi 2016, sono del tutto insufficienti. Il cambiamento climatico è l’effetto di politiche estrattiviste legate a un sistema di produzione che sposa speculazione e profitto per pochi a danno dei molti. Siamo ancora in tempo per cambiare ma questo tempo è adesso, dicono i comitati davanti al Ministero dell’ambiente invitando ad unirsi al corteo del 23 marzo.

Una gigantesca infrastruttura, sia fisica che economica, proposta dalla Cina per avvicinare i mercati euroasiatici, sta diventando sempre più concreta. L'Italia vi partecipa già con 2,5 miliardi di euro. (segue) (a.b.)

Una gigantesca infrastruttura, sia fisica che economica, proposta dalla Cina per avvicinare i mercati euroasiatici, sta diventando sempre più concreta. L'Italia vi partecipa già con 2,5 miliardi di euro. Il progetto include una fittissima rete di comunicazioni che si tradurranno in porti, stazioni, superstrade che sventreranno mari, valli e montagne da Pechino ad Amburgo. Su queste vie si prevedono nuove città e piattaforme logistiche. Una follia urbanocentrica che acquista dimensioni planetarie e planetarie saranno le conseguenze ambientali e sociali e politiche.Qui un breve video e alcuni dettagli sul progetto. (a.b.)


Il 23 marzo 2019 anche eddyburg si unisce alle migliaia di persone che scenderanno in strada per le vie e le piazze di Roma in una grande Marcia per il clima, contro le grandi opere inutili e per una giustizia ambientale. Ancora una volta sono i movimenti, i comitati, gli abitanti a rivendicare le ragioni per una rivoluzione del sistema, del modello di sviluppo in assenza di una sintesi politica capace di cogliere la svolta radicale necessaria per coniugare la salute, il benessere sociale, la salvaguardia del nostro pianeta terra e delle specie che lo abitano e i diritti umani. (i.b)

Riflessione sull'esplosione delle mega-city, mega-regioni; forme urbane che stravolgono l'idea stessa di città con drammatiche ripercussioni ecologiche, sociali e in termini di democrazia. E' davvero questo l'unico modello possibile? (i.b.)

Qui la prima parte di un ragionamento sull'origine, sviluppo e conseguenze di una tendenza sempre più dominante nell'urbanistica, quella delle mega-città.

inarchpiemonte.it, 18 febbraio 2019. Dieci domande che un cittadino probabilmente si pone e che non trovano risposta nei principali media e le risposte, che dimostrano l'inattendibilità e controsenso di chi ancora sostiene quest'opera. (i.b.)
L'articolo è raggiungibile a questo link. Su eddyburg sono disponibili molti interventi che analizzano le contraddizioni, i trucchi e le bugie dette per giustificare la costruzione della TAV. Qui una rassegna bibliografica. (i.b.)

comune-info.net, 13 marzo 2019. Fermare subito l'estrazione di giacimenti indurrebbe uno “shock” al sistema produttivo capitalistico, obbligandoci a ripensare al nostro modo di abitare il pianeta e uscire da questo modello di sviluppo nefasto. Una degna risposta alle rivendicazione del 15 e 23 marzo prossimo. (i.b.)

Qui il link all'articolo.

Sbilanciamoci.info, 6 marzo 2019. Non ad ogni costo, non per pregiudizio o ideologia, non solo per la ferrovia Torino-Lione. Si deve e si può decidere con giudizio, come spiega Maria Rosa Vittadini. (m.b.)

Su eddyburg sono disponibili molti interventi che illustrano le storture del progetto TAV e le ragioni di un dissenso motivato. Qui una rassegna bibliografica curata da Ilaria Boniburini e l'articolo
«Ancora sulla Torino-Lione: buchi nei monti, buchi nei conti» di Vittadini e Donati contenete un'analisi della Tav nel contesto delle politiche nazionali dei trasporti con proposte su come affrontare trasporti e infrastrutture per non continuare a mettere in campo grandi opere inutili. (m.b.)

L’analisi costi-benefici (ABC) del nuovo collegamento ferroviario Torino Lione è difficile da leggere, solleva dubbi che non trovano risposta, e porta a risultati apparentemente paradossali. Di primo acchito suggerisce infatti ai lettori non esperti di ABC che più la linea ferroviaria sottrarrà traffico alla strada più i costi saranno superiori ai benefici: dunque meglio non realizzare mai nessuna ferrovia. Anche dal punto di vista di chi ha sempre nutrito profondi dubbi sulla utilità della nuova linea, queste paradossali conclusioni appaiono inaccettabili, richiedono un adeguato approfondimento tecnico e adeguate risposte politiche.
D’altra parte c’è da restar stupefatti per l’atteggiamento pro TAV “senza se e senza ma” di larga parte del mondo imprenditoriale, anche al di là degli ovvi interessi delle imprese coinvolte. Quale imprenditore nella gestione della sua azienda si imbarcherebbe in investimenti che invece di migliorare i bilanci fanno buttare soldi dalla finestra? Da troppo tempo lo spreco di denaro pubblico nel nostro Paese è piuttosto una regola che una eccezione. Ma proprio per combattere questa stortura serve l’analisi costi-benefici. Le scomposte reazioni in atto sono un buon indicatore sia della strumentalizzazione puramente politica della questione TAV sia di quanto sia amara la medicina per curare il consueto andazzo di spreco.
Invece capire che cosa l’ABC realmente dice, rendere chiari i suoi limiti, contestare a ragion veduta gli aspetti contestabili è l’unica condizione capace di fare in modo che essa possa svolgere il suo compito, che è quello di aiutare il decisore politico ad assumere buone decisioni e i cittadini a capire, al di là delle esternazioni strumentali, di cosa realmente si tratta. In tanta confusione il rischio evidente è che tutto il lavoro fatto venga sveltamente buttato via, sepolto per il prevalere di posizioni ideologiche e irresponsabili, tipo quelle che si richiamano alla firma di accordi pregressi. Come se quella firma non fosse responsabilità precisa dei promotori e di precisi governi passati che dovrebbero trovare anche nell’ABC il significato della loro responsabilità.
Oggi, per evidenti interessi elettorali, sembra che la decisione debba essere rimandata a dopo le elezioni europee. Non tutto il male vien per nuocere. Il tempo così disponibile potrebbe permettere di fare della discussione pubblica sull’ABC, i suoi limiti metodologici, le sue assunzioni un contributo realmente democratico alla decisione. Nel caso specifico della Torino-Lione più democratico di qualunque referendum, che allargando il perimetro della consultazione indebolisce il livello di informazione sui problemi e marginalizza le ragioni di vita delle collettività locali interessate a favore delle ragioni di mercato di collettività che usufruiscono solo dei vantaggi.
La discussione pubblica è il migliore strumento per dare adeguate risposte alle domande e per chiarire gli aspetti controversi. Non solo e non tanto ad uso degli addetti ai lavori, ma per mettere i cittadini, e probabilmente anche molti politici, in grado di capire e il Governo in grado di assumere una decisione appropriata all’importanza della questione. Senza voler entrare nel già ben confuso dibattito metodologico, alcune questioni appaiono assolutamente dirimenti.

Questione prima: l’inclusione tra i costi delle minori accise sui carburanti incassate dallo Stato e dei minori pedaggi incassati dai concessionari autostradali
E’ una delle questioni sollevate più di frequente dai critici del lavoro presentato al Ministro Toninelli. E’ vero che l’ABC dovrebbe misurare i guadagni e le perdite per tutti i soggetti coinvolti, dunque anche per lo Stato e per i concessionari. Ma l’inclusione nelle perdite di queste componenti si presta a più di una contestazione e i manuali di ABC forniscono in proposito indicazioni non univoche. In ogni caso la raccolta di accise deriva dalla politica fiscale e come tale può essere opportunamente modificata, mentre le perdite dei concessionari autostradali possono essere considerate un irrilevante effetto collaterale ai fini del benessere della società. Beninteso in una concezione del benessere diversa da quella, esclusivamente economica. misurata dall’ABC. Un benessere da misurare affiancando all’ABC opportune analisi multi-criteri, capaci di dar conto del raggiungimento di obiettivi non solo di carattere trasportistico, ma relativi alla qualità della vita, alle condizioni dell’economia o e alla capacità della distribuzione dei costi e dei benefici di collaborare all’aumento della coesione sociale. Dunque un insieme di metodi di valutazione, comprese le valutazioni dell’impatto ambientale delle opere e del loro processo di realizzazione, di cui l’ABC non dà minimamente conto. In ogni caso i numeri forniti dall’ABC non sembrano lasciare dubbi: con o senza accise e pedaggi i costi superano i benefici e il motivo principale sta nella modesta quantità di traffico ferroviario prevedibile.

Questione seconda: le possibili alternative
La stima di tale traffico è condotta attraverso una convincente critica delle precedenti stime del traffico stradale e del traffico ferroviario e il confronto tra quelle stime e l’andamento reale dei traffici a partire dal 2000. La sovrastima del traffico futuro è praticamente una costante nei progetti infrastrutturali, ma nel caso della Torino-Lione il lungo tempo trascorso ha permesso di verificare l’andamento reale dei traffici. Un andamento così inferiore alle previsioni iniziali da lasciar ben poco spazio a prospettive più rosee.
In questa situazione di oggettiva debolezza dei flussi di traffico correva l’obbligo che l’ABC confrontasse i costi e i benefici delle tre alternative possibili: l’alternativa 0, l’alternativa TAV e l’alternativa costituita dal miglioramento della linea esistente. Una linea che FS e SNCF nel 2002 ritenevano in grado di portare circa 22 milioni di tonn/anno: ovvero più o meno lo stesso traffico ferroviario previsto dal progetto TAV al 2050. Certo anche migliorata la linea esistente avrebbe prestazioni più basse di quelle previste in sede comunitaria per le nuove linee. Ma comunque, tariffando e regolamentando opportunamente traffico stradale e traffico ferroviario, un uso accorto delle linea vecchia consentirebbe di spostare traffico dalla strada alla ferrovia e di indicare, attraverso i reali ritmi di crescita, se e quando una nuova linea dovesse divenire necessaria. E’ appena il caso di ricordare che il traffico di transito svizzero si svolgeva per il 70% per ferrovia anche quando i valichi del Lötschberg e del S.Gottardo avevano prestazioni non tanto diverse da quelle dell’attuale linea Torino Lione.

Questione terza: il problema della rete
Non è ben chiaro quale sia il “perimetro” del progetto valutato nell’ABC: se si valuta la tratta internazionale, se si valuta la tratta internazionale più le due tratte nazionali, se si valuta la tratta internazionale più la sola tratta nazionale italiana.
In ogni caso trattandosi del miglioramento delle prestazioni di un breve tratto si pone il problema delle caratteristiche delle tratte a monte e a valle dell’intervento e il problema della rete che l’intervento dovrebbe potenziare. Infatti che senso ha spendere ingenti risorse per spingere al massimo le prestazioni di un breve tratto se poi gli itinerari che dovrebbero sostenere i nuovi traffici hanno prestazioni nettamente inferiori? Non sanno (o fingono di non sapere), gli incauti politici che si stanno spendendo pro-Tav, che Slovenia e gli altri paesi dell’est fino a Kiev hanno esplicitamente dichiarato la loro indisponibilità ad investire per l’AV? Una delle ragioni di debolezza estrema del progetto Torino-Lione sta proprio nell’assenza di un disegno di rete che ne giustifichi il senso strategico.
Manca drammaticamente, in altre parole, un Piano nazionale dei trasporti, come quelle promesso (ma neppure iniziato) dal ministro Delrio. Un piano capace di definire, anche attraverso valutazioni economiche, le opere prioritarie perché più utili di altre alla qualità della vita dei cittadini e alle esigenze delle imprese produttive. E’ molto probabile che in questo quadro strategico la Torino Lione non si collochi affatto tra le priorità. Per restare nel campo ferroviario per le merci vengono probabilmente prima il potenziamento delle linee di valico verso nord o gli interventi per portare l’Adriatica e la Tirrenica almeno ad un livello di decenza. Oppure. per l’ampiezza della ricaduta sul benessere dei cittadini, vengono prima i servizi ferroviari nelle aree metropolitane, su cui siamo abissalmente in ritardo rispetto ad altri paesi europei
La ripresa della programmazione in fatto di infrastrutture e l’avvio di un vero Piano nazionale dei trasporti, costruito attraverso l’ascolto e la partecipazione attiva delle Regioni e delle collettività interessate, rappresenta la via maestra per dar senso alle cose e per uscire da situazioni di impasse come quella che oggi interessa la Torino Lione. Una situazione conflittuale destinata a ripresentarsi puntuale per tutti i grandi progetti in campo, sistematicamente sganciati da ogni logica di sistema. La discussione pubblica sull’ABC potrebbe consapevolmente divenire il primo passo per l’avvio di un tale nuovo Piano dei trasporti: una concreta prova della serietà del Governo e un evidente vantaggio per il futuro del Paese.

Venerdì 15 marzo milioni e milioni di studenti e studentesse, in decine di migliaia di scuole di tutto il mondo, faranno sciopero e riempiranno le strade di cortei. Ad essi si uniranno anche molte altre cittadine e cittadini che ne condividono rabbia e obiettivi. La rabbia è di chi si vede rubato il futuro dall’inerzia e dalla complicità delle classi dirigenti di tutti i paesi del mondo, e soprattutto dai “signori della Terra”: quelli che gestiscono economia e finanza a spese del nostro pianeta e di chi lo abita. L’obiettivo è quello di far mettere la lotta contro i cambiamenti climatici al centro dell’agenda di tutti i centri di potere, dai governi nazionali alle istituzioni internazionali, dalle municipalità alle associazioni imprenditoriali, dai sindacati alle cosiddette “forze politiche”.

E’ questo obiettivo quello che, per ora, nel giro di pochi mesi, ha spinto migliaia di giovani a disertare le lezioni per rispondere all’appello lanciato da Greta Thunberg, la studentessa svedese che, decidendo di andare in piazza invece che a scuola ogni venerdì, per gettare l’allarme, ha cominciato a smuovere molte coscienze: per spingerle a salvaguardare condizioni di esistenza e convivenza decenti non più solo, come si ripete nelle giaculatorie ufficiali, per “le future generazioni”. No. Già per la generazione che si affaccia alla vita ora e che ha capito che con la nostra insipienza e la nostra inerzia le stiamo preparando un vero inferno. Da cui molti sono già stati inghiottiti: non si spiegherebbero altrimenti origini e dimensioni delle migrazioni in corso, che è ormai l’unico problema che preoccupa governi e forze politiche di mezzo mondo, se non si capisce che si tratta di un effetto, non di una causa. Mai uno scontro generazionale si è prospettato più radicale. Se questo movimento di giovani continuerà a crescere in dimensioni, radicalità e capacità di articolarsi in programmi e iniziative, come è giusto e probabile che sia, sarà esso, e non le forze politiche “di opposizione”, che continuano a rimestare sigle, personaggi e programmi, a invertire e rovesciare le tendenze in atto, apparentemente irresistibili, che stanno precipitando il mondo in un abisso di nazionalismi, razzismi, cinismo, ignoranza e rassegnazione. Una deriva che non può essere contrastata solo a livello nazionale, e nemmeno solo a livello europeo ma che ha bisogno del mondo intero come palcoscenico: quello che il movimento messo in moto da Greta Thunberg sta conquistando. Per ora questa “insorgenza” non ha ancora un programma che non sia la mera denuncia. Denuncia che ha riscontri precisi in coloro, soprattutto scienziati, ma anche “militanti” ambientalisti (non tutti; e nemmeno la maggioranza) che si adoperano da decenni per far capire la gravità del problema a Governi, media, imprenditori, manager e, soprattutto, a una parte di “opinione pubblica”, quella raggiungibile attraverso canali associativi, perché la maggioranza dei cittadini, grazie a un vero e proprio tradimento degli addetti all’informazione, è stata spinta a ignorarla, sottovalutarla, dimenticarla. Ma se cause e dinamiche dei cambiamenti climatici sono chiare e accessibili a chiunque se ne voglia informare, le risposte da dare sono ancora avvolte nella nebbia. Perché non c’è solo da abbandonare il più presto possibile tutti i combustibili fossili e passare alle fonti rinnovabili. Quel cambio di rotta – lo ha spiegato Naomi Klein nel suo libro Una rivoluzione ci salverà – richiede una dislocazione radicale del potere dai centri di comando attuali alle comunità, in tutti i principali settori della produzione e della gestione del territorio. Forme di autogoverno ancora in gran parte da costruire o ricostituire, una democratizzazione di tutte le istituzioni, non solo pubbliche, ma anche private: imprese, corporations, finanza; per lo meno quelle al di sopra di una certa soglia dimensionale. Per questo è inutile aspettare la green economy e prospettare la conversione ecologica come un business. Se lo fosse, o lo potesse essere, sarebbe già avvenuta.

Il problema è il “come?”. Come tradurre in programmi, progetti, realizzazioni e gestioni democratiche le indicazioni che derivano dalla dimostrata insostenibilità del modo attuale di condurre gli affari sia economici che di governo? Qui, con la lodevole eccezione di pochi tecnici che vi si cimentano e di moltissime associazioni e comitati che hanno sviluppato esperienze esemplari, soprattutto in campo agricolo e alimentare, gran pare del lavoro è ancora tutto da fare. Ma da oggi si può cercare di farlo, in modo concreto, qui e ora, in un confronto serrato con le giovani generazioni che hanno compreso l’importanza del problema. Questo dà la misura della distanza della “politica”, sia di governo che di opposizione, dai problemi che la nascita di questo movimento mette all’ordine del giorno. Che cosa ha a che fare questa insorgenza con lo schieramento compatto di partiti, giornalisti, industriali, sindacati, ministri e portaborse che invece che di Greta Thunberg si sono messi al seguito delle sette madamine di Torino per spiegarci che dal tunnel del Tav Torino-Lione (che forse entrerà in funzione tra quindici anni, o forse mai) dipende il futuro della nazione, dello “sviluppo”, dell’ambiente, del benessere? C’è forse qualcosa che possa mostrare meglio di questa caduta in un delirio collettivo la distanza che separa l’agenda delle nuove generazioni, e la sua impellenza, dall’ottusità di quelle vecchie? Quelle che stanno trascinando tutti e tutto verso il baratro ambientale, facendolo comunque precedere o accompagnare da un baratro non meno devastante di identitarismo e di razzismo, anche se malamente mascherato?

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile.

Qui la pagina web e quella facebook di Fridays for Future.

Il 15 marzo in tutto il mondo si svolgeranno manifestazioni per esigere dai governanti azioni concrete e immediate per impedire la fine della vita sul pianeta minacciata dai cambiamenti climatici. In prima linea ci sono i ragazzi e le ragazze del movimento FridaysForFuture, ispirato dalla quindicenne Greta Thunberg che la scorsa estate si è seduta davanti al parlamento svedese in protesta per tre settimane. Da settembre ogni venerdì un numero crescente di persone, non solo giovani, si sono unite allo sciopero. (i.b.)

Dall'8 al 10 a Roma una tre giorni di incontri e discussioni sui conflitti ambientali, cambiamenti climatici, salute e ambiente, economia circolare a cui parteciperanno attivisti delle lotte territoriali, scienziati e ricercatori. Organizzata da A Sud e CDCA. Qui il programma completo.

Sul nuovo sito di Laudato Si potrete trovare i materiali del Forum che si è tenuto a Milano il 19 gennaio 2019, nel quale si sono discussi temi quali cambiamenti climatici, depredazioni ambientali, migranti, riconversione ecologica, ecofemminismo, beni comuni, diritto al salute e pace. (a.b.)

Sintesi del secondo incontro della rete SET sulle dinamiche e l'impatto della turistificazione, che sta causando un vero e proprio «urbanicidio». Urgono azioni concertate tra movimenti sociali e politici che si battono per il diritto alla casa e al lavoro, per la difesa dell’ambiente e dei beni comuni. (i.b)

A Firenze dal 1 al 3 marzo 2019 si è svolto il secondo incontro nazionale della rete S.E.T. (Sud Europa di fronte alla turistificazione), che ha visto la partecipazione dei nodi di Barcellona, Bologna, Genova, Firenze, Napoli, Palermo, Roma e Venezia, con l’obiettivo di costruire azioni comuni per contrastare la turistificazione.

Gli incontri si sono tenuti presso la Facoltà di Architettura, il C.S.A Next Emerson e La Polveriera Spazio Comune e si sono articolati intorno a due temi: “L’abitare e la turistificazione” e “Al Gran Bazar della città neoliberista: nuove infrastrutture e turismo globale”.

Il dibattito ha messo in luce le criticità connesse all’industria turistica rispetto a una molteplicità di temi tra i quali:

1. l’emergenza abitativa – aggravata dall’impatto delle locazioni turistiche, dall’aumento delle strutture ricettive e dagli investimenti dei gruppi finanziari nel mercato immobiliare;

2. l’espropriazione dello spazio pubblico e del patrimonio collettivo – dovuta a politiche di “riqualificazione” e a operazioni “anti degrado” che provocano la mercificazione degli spazi;

3. la vendita di aree e immobili per il recupero di “vuoto urbano” a fini speculativi;

4. la realizzazione di opere infrastrutturali, finalizzate all’incremento dei flussi turistici, che alterano irreversibilmente il territorio, gli ecosistemi e il clima;

5. la complicità delle amministrazioni locali nel facilitare e incentivare i processi di speculazione e turistificazione.

La dinamica della turistificazione sta svuotando le città da chi le abita, causando un vero e proprio urbanicidio. Questo rende necessaria una risposta istituzionale urgente ed efficace, in sinergia con i movimenti sociali e politici per il diritto alla casa e al lavoro, con le lotte in difesa dell’ambiente e dei beni comuni.

La rete S.E.T. ha individuato alcuni obiettivi e strategie di intervento:

· l’organizzazione di assemblee e azioni politiche per la riappropriazione dello spazio pubblico;

· la realizzazione di inchieste in ogni città per smascherare i processi di speculazione in corso;

· l’apertura di vertenze con le istituzioni per spingerle a governare in modo efficace l’industria turistica;

· la sensibilizzazione e responsabilizzazione di vecchi e nuovi abitanti;

· l’allargamento della rete attraverso il coinvolgimento di altre città e di altri soggetti, singoli o organizzati, all’interno di ciascun nodo;

· la collaborazione con giuristi e urbanisti per approfondire gli aspetti tecnici e normativi del fenomeno.

I prossimi appuntamenti della Rete S.E.T.:

Roma, 23 marzo – Marcia per il clima e contro le grandi opere inutili;

Siviglia, 6 aprile – Incontro europeo della Rete S.E.T.;

Berlino, Barcellona, Napoli, 6 aprile – Manifestazione contro la bolla degli affitti;

Napoli, 6 aprile – Incontro con Salvatore Settis “Il diritto alla città al tempo del turismo”, organizzato da SET Napoli e dal laboratorio “Ecologie politiche del presente”;

Maggio (data da definire) – Azione internazionale simultanea contro la vendita delle città.

A Firenze venerdì 1, sabato 2 e domenica 3 marzo 2019 proseguono i lavori della rete SET - Sud Europa di fronte alla turistificazione, con il secondo convegno nazionale, per continuare la lotta contro gli effetti devastanti dell'industria turistica. Qui il programma e riferimenti. (i.b.)

Si legga il manifesto fondativo della rete pubblicato da eddyburg ad Aprile, e i contenuti del primo convegno della Rete su «Città italiane di fronte alla turistificazione».

Per aggiornamenti sul lavoro della rete, temi analizzati, incontri e mobilitazioni si veda la pagina facebook si SET.

PROGRAMMA DEL CONVEGNO

Firenze, 1-3 marzo 2019
Turismo nei territori e nelle città: beni comuni addio?

VENERDÌ 1° MARZO

ore 10.00 sotto la sede della Città Metropolitana in via Cavour, 1
Presidio contro la vendita di Mondeggi Bene Comune

ore 16.00, biglietteria stazione FS Santa Maria Novella
Tour Guidato per tutt*
Firenze NoCost, La prima guida Anti-turistica della città, ci guida dalla stazione alla facoltà di Architettura, in Santa Verdiana.

ore 17.45, piazza de' Ciompi
Performance pubblica

di Underwear Theatre
ore 18.00
Facoltà di Architettura, Piazza Ghiberti 27
18.30-20.00 Aperitivo & DjSet offerto da Ark Kostruendo & Genuino Clandestino
20.00-20.30 "Cara Firenze", lettura di La Botta
21.00-22.30 Presentazione di SET-Sud Europa di fronte alla turistificazione

SABATO 2 MARZO

ore 10.00 CSA Next Emerson, Via di Bellagio 15

10.00-18.00

Tavoli di Discussione e Laboratori Artistici con pranzo organizzato da Genuino Clandestino
TAVOLO 1 – L’abitare e la turistificazione
Le città d’arte italiane “di dolore e ostello … non donna di province ma bordello”
Il quotidiano al servizio dei nuovi tenutari globali: patrimonio storico e rendite monopolistiche, la quotidianità come terreno di estrazione, capitale simbolico e espropriazione dei beni e dei luoghi comuni, città brand e marketing dell'urbano, marginalizzazione e decoro nella città museo.
I nuovi soggetti del conflitto urbano e i possibili livelli di lotta per un modello ecologico, antagonista: difesa e creazione di beni e luoghi comuni, resistenze dello spazio pubblico, evoluzione e riappropriazione delle culture locali, forme di narrazione di un'urbanità liberata.

TAVOLO 2 – La dimensione territoriale
Al Gran Bazar della città neoliberista: nuove infrastrutture e turismo globale
Logistica e infrastrutture come effetto o causa della monocoltura turistica, espulsione e pendolarismo di lavoratori e abitanti nel parco a tema, impatto ambientale dell'industria turistica, land grabbing e appropriazioni speculative, paesaggio da bene comune a merce, il territorio al servizio della turistificazione.
Pratiche di resistenza e riappropriazione: lotta alle grandi e meno grandi opere, prospettive ecologiche, uso civico e collettivo dei beni e dei luoghi non alienabili, ricostruzione di paesaggi e narrazioni nel territorio urbanizzato.

LABORATORIO 1 - Storia, strategie e tattiche per destabilizzare il Nuovo Ordine Urbano con Ex-Voto fecit.
L’obiettivo del laboratorio è fornire ai partecipanti una conoscenza base sulle forme e le pratiche di resistenza creativa.

LABORATORIO 2 - Maschere per la città
Laboratorio Aperto e Creativo per preparare i manufatti, le azioni e le immaginazioni necessari al carnevale delle autogestioni con RibellArti e Míles Eri

DOMENICA 3 MARZO

ore 10.00 La Polveriera Spazio Comune, Via Santa Reparata 12

10.00-13.00 Finalizzazione dei preparativi per il Carnevale delle Autogestioni

14.30-18.30 Carnevale delle Autogestioni
Azioni e interventi in difesa dei Beni e dei Luoghi Comuni
Beni comuni e patrimonio storico: contro lo sgombero della Polveriera Spazio Comune e di Mondeggi- Fattoria senza padroni.
Azioni conclusive dei laboratori, portare SET nello spazio pubblico.

Giovedì 28 febbraio, ore 18.00, a Milano presso l’auditorium Stefano Cerri di via Valvassori Peroni si tiene un importante incontro pubblico per discutere dell’inaccettabile progetto di svuotamento di Città Studi: con Salvatore Settis, Paolo Berdini e Serena Vicari Haddock. (m.c.g.) Qui il link all'evento

Per superare la logica emergenziale della ricostruzione serve una strategia di contenimento del rischio sismico all’altezza di un paese scientificamente avanzato e, per giunta, già in possesso di una specifica esperienza. Una proposta autorevole, che vi invitiamo a sottoscrivere. (m.b)

Il documento “La prevenzione sismica in Italia: una sconfitta culturale, un impegno inderogabile” è stato concepito per richiamare l’attenzione e sollecitare un consenso di un ampio pubblico su un tema di grande rilevanza come la riduzione del rischio sismico nel Paese, che richiede decisioni difficili, che vanno comprese e condivise. Le decisioni si devono basare sul patrimonio di conoscenze finora acquisito nelle varie discipline coinvolte (geologia strutturale, sismologia, ingegneria sismica, storia, statistica, economia, pianificazione territoriale...) e che oggi in Italia sanno individuare le zone di maggior rischio, conoscere i metodi per rendere antisismiche le costruzioni e resiliente il territorio. Ciò non significa che tali conoscenze siano esenti da incertezze. Le questioni coinvolte spesso non hanno risposta determinata. Dove, cosa e come, in quanto tempo e con quante risorse, sotto la responsabilità di chi, questi gli elementi vincolanti che pretendono l’impegno a fare di più e meglio nella difesa dai terremoti. Paradigmi e protocolli decisionali son venuti maturando nella riflessione scientifica.

Va fatto ogni sforzo per diffondere una cultura del rischio, per argomentare la procedura decisionale, per coinvolgere il cittadino come attore consapevole e determinare un’indifferibile inversione di rotta rispetto all’evidente deficit di prevenzione che grava soprattutto in talune aree del territorio nazionale, dove si può prefigurare una vera e propria condizione di latente emergenza.
Abbiamo così ritenuto di dare con questo documento un contributo costruttivo, di prospettiva prendendo spunto da alcune considerazioni espresse da un articolo di Roberto De Marco, per molti anni direttore del Servizio Sismico Nazionale, su un supplemento alla rivista “Geologia dell’Ambiente” (1), e dal contributo di alcuni docenti e esperti che hanno dedicato al tema della difesa dai terremoti un lungo impegno professionale. Ora, nostro compito è quello di diffondere il documento, anche attraverso l’auspicabile impegno di chi ne dovesse condividere i contenuti, e cercare un confronto costruttivo rispetto alle diverse competenze e alle molte culture che un tema così importante necessariamente coinvolge.

(1) “Rischio sismico in Italia: analisi e prospettive per una prevenzione efficace in un Paese fragile” Supplemento alla Rivista Geologia dell’Ambiente (SIGEA), Roma - 2018.


Qui si può scaricare il documento integrale

Per aderire scrivere una mail all’indirizzo: nonquestaprevenzione@gmail.com
I promotori del documento
Claudio Chesi
Teresa Crespellani
Marisa Dalai
Vezio De Lucia
Roberto De Marco
Georg Frisch
Elsa Garavaglia
Elisa Guagenti
Emanuela Guidoboni
Scira Menoni
Paola Nicita
Federico Perotti
Vincenzo Petrini
Fabio Sabetta
Giancarlo Storto
Maria Cristina Treu
Giovanni Vannucchi

Quali prospettive per i comuni lucani, nell’anno in cui Matera è Capitale Europea della Cultura? Sapranno dare spazio e protagonismo ai propri giovani? Un futuro si può? (m.b.)

La Lucania o Basilicata è la terra di mezzo tra la Puglia, la Campania e la Calabria. Una terra di mezzo fatta da territori diversificati, dunque complessa. E’ anche la terra di un tempo più lento, di lunghi silenzi, forse perché si compone di solamente 131 comuni di cui solo le due province Potenza e Matera raggiungono i 60 000 abitanti. Dunque la regione dai due nomi si caratterizza di tanti piccoli paesi. La dimensione del paese è una realtà che lascia poco spazio ai giovani. E’ quella realtà stretta che spezza il respiro, troppo apprensiva per capire la voglia di cambiamento che morde l’animo di un giovane adolescente. Così si cresce con un unico sogno di riscatto: andarsene. Una concezione, cresciuta e pasciuta negli animi dei giovani lucani perché si sono sempre sentiti ripetere: “qui non c’è niente”.

La città però lascia un senso di inquietudine a volte, soprattutto quelle grandi città fatte di palazzi e strade ed auto, certe volte provocano un non so che di disturbo. Il passo svelto che non permette neanche di osservare, capire i luoghi, ma si corre perché il tempo è dettato dalla tirannia di un orologio che è sempre troppo svelto rispetto al proprio di ritmo, lieve e pacato, al proprio di ritmo che sia dettato dalla propria volontà e mai da quella del flusso a cui necessariamente ci si deve adattare. Così si possono fare scelte contro corrente, per studiare non si sogna di andare in chissà quale grande città, ma restare in un luogo non troppo lontano così da poter ritornare quando la nostalgia chiama. Matera, in tempi decisamente non sospetti, era quella realtà non troppo lontana, una realtà che risultò una scoperta perché per i lucani del Sud era una realtà estranea, pur essendo della medesima terra. Matera, città strana nel bel mezzo di una terra arsa e brulla, che si affaccia su gole cupe, che se si è abituati a distese di larghe vallate, ci si sente chiusi in una claustrofobica realtà di un paesaggio estraneo. Matera era nell’immaginario una città pugliese e lo era soprattutto nei suoi colori, il tufo tanto diverso dalle pietre di fiume di cui sono fatte le case dei paesi a meridione. Ma un tratto comune pure lo si ritrovava, nella Matera di allora tutto era fermo e veramente non c’era molto. A passeggiare in un umida sera di febbraio di quell’ormai lontano 2010 non un’anima viva, non un locale aperto sino all’ora di dopo cena e non pareva molto diversa come realtà da quella di un paesino lucano sperduto sul Pollino.

Vivere a Matera per 8-9 anni ha significato vederla cambiare con i suoi abitanti arresi e ormai rassegnati, tifare per un nuovo spiraglio di futuro. Chi la città ha cercato di studiarla dalla facoltà di Architettura, la osservava e vedeva capovolgersi delle concezioni fino ad allora immutate: i Sassi e la loro vergogna che oggi sono il riscatto e i nuovi quartieri il riscatto di ieri che oggi sono le periferie lasciate a sé stesse, è un andare a passo di gambero che capovolge il progresso in regresso e il regresso in progresso?! Come la si voglia leggere o interpretare resta il fatto che all’indomani del titolo di Capitale Europea della Cultura qualcosa nell’aria è cambiato, le strade sono più affollate e pian piano, senza neanche accorgersene qualcosa è cambiato. Molti lo hanno creduto, tanto che il proliferare di negozietti ed attività è diventata una realtà così consolidata che l’apertura di un nuovo locale ormai non stupisce più nessuno. Un dato allarmante però resta, camminando per le sue strade sono più i canuti che gli sbarbati. Oggi, nell’anno di Matera Capitale Europea della Cultura però, una domanda dovremmo anche porcela per un futuro diverso: quali possibilità occupazionali, dunque di futuro, offre la città ai suoi giovani e nella fattispecie a quelli che ha formato?

Dunque se Matera non accoglie come dovrebbe, o meglio non trattiene come dovrebbe si ritorna alle origini, al piccolo paese di montagna vicino alla fine estrema della regione, si ritorna a Cersosimo. La scelta di ritornare è costosa, è faticosa e ha non poca rabbia dentro. Lo si ama il proprio paese natale, di un amore viscerale anche inspiegabile forse, ma si hanno anche alcune consapevolezze che non lasciano molto spazio all’ottimismo. Oggi si ritorna e gli amici di un tempo non ci sono più, tutti sparpagliati altrove, un altrove fatto di emigrazione. Ci si può opporre con ostinazione a rimandare questo triste giorno, ma il paese è lento poiché è popolato prevalentemente da anziani e i giovani sono una specie unica quanto rara! Così rispolverando certi ricordi, certe speranze, che ora acquistano un certo sapore di utopia se si lascia spazio alla consapevolezza di oggi e pur avendo ben chiaro nella mente le unicità della propria terra natale, una triste consapevolezza tiranneggia sulle proprie convinzioni: l’assenza di politiche atte a creare concrete possibilità di sostentamento, di miglioramento e di sviluppo.

I giovani del mio paese e più in generale del meridione sono dipinti in un modo che li denigra, li etichetta ma che non mette in evidenza la realtà difficile che si vive. Paradossalmente si hanno molti più mezzi, ma anche molte meno possibilità. Condannati eternamente ad essere “ragazzi”, cimentandosi al massimo in attività che vengono spacciate per volontariato ma che per il dispendio di impegno che necessitano meriterebbero il giusto riconoscimento e compenso. Una vita precaria e senza possibilità di programmazione alcuna, che nei piccoli centri è affiancata da altri aspetti: la solitudine, la mancanza di confronto e quindi la possibilità di crescita. Mai come in questo periodo storico, i giovani sono una minoranza e in quanto minoranza subisce le decisioni di una maggioranza che sceglie in base alle proprie di esigenze e che dunque hanno il respiro di un tempo limitato. Non vi è un’ottica di prospettiva a lungo termine tipica di una giovane età, ci si pone nella condizione di guardare all’oggi e mai a quello che potrebbe essere. Si è persa quella immaginazione che è salvifica soprattutto in territori dimenticati come i nostri piccoli centri.

Il dibattito dell’abbandono e dei paesi fantasma è comune a molti territori della nostra penisola. All’interno della strategia dello sviluppo delle aree interne si punta proprio a invertire questa tendenza. Gli approcci messi in campo, però, sono sempre gli stessi, restano invariati da almeno trent’anni. Non è dunque solamente parlandone con convegni e dibattiti, spesso anche auto-referenziali, che si può avere la presunzione di invertire la tendenza e risolvere uno dei grossi problemi del nostro secolo e cioè lo squilibrio di popolamento che c’è tra alcune aree del nostro pianeta. E’ pura demagogia questa? I territori periferici e più interni ne risultano notevolmente svantaggiati. Bisognerebbe partire da quello che potrebbe essere il vero problema di fondo e cioè l’assenza di scenari di futuro non sui territori, ma nella testa di chi li vive quei territori. Dunque chi è rimasto, conscio della propria sconfitta cerca di non reiterare l’errore e spinge i propri figli a non tornare, investendo per loro altrove. Le soluzioni per risolvere uno scenario desolante e così difficile non le si hanno in tasca, ma dicerto non le si possono ricercare solamente trovando un Caprio espiatorio rappresentato nella poca volontà dei giovani ad invertire la tendenza.

Se si parla di periferia urbana, bisognerebbe cominciare a parlare anche di periferia territoriale, soprattutto dove non si ha un territorio metropolitano a cui far riferimento. Volendo provare a non arrendersi al nichilismo ci si scontra con una triste realtà, che è matrigna, l’assenza di numeri cioè di utenza porta a rendere del tutto fallimentare qualsiasi iniziativa. Dunque quale potrebbe essere la strada per non arrendersi a un destino già segnato? Come si potrebbero ridisegnare nuovi scenari nella mente di cittadini arresi? Basterà veramente uno sporadico evento che vedrà uno di questi 131 comuni Capitale per un giorno a riportare ai suoi monti, alle sue vallate ed ai suoi fiumi la vita? In che modo si potrebbero esplorare nuove forme di residenza? Attenzione “residenza” e non “cittadini temporanei”, come piace al Dossier definire i turisti che momentaneamente si trovano, se si è fortunati a visitare i nostri territori. In che modo si possono metter su delle strategie politiche atte a fare in modo che questi territori ritornino in auge come un modello alternativo di vita che possa essere però al passo con i tempi? Non solo da Capitale Europea della Cultura, non solo perché è trendy, ma perché la Lucania, a partire da Matera, merita un futuro diverso, quello che non è mai stato concesso, fatto di una libertà che possa dare la possibilità di non diventare un grande luna pack, o un museo della civiltà contadina, un mero luogo pittoresco, oggi i paesi lucani sono vuoti e soffrono di tante vite assenti:

Paesi lucani
Inerpicati sulle rocce
Adagiati sulle colline
Ai piedi dei monti
Paesi lucani
Sono troppo lontani
Dalla vita
Piccole stelle morte
Che cadono e lasciano una scia
Luminosa di storie lontane
Che oggi ci paiono lampare
Paesi lucani
Silenziosi
Muti
Azzittiti
Annichiliti
Vivono di lentezze
Vivono di sterminati paesaggi
Vivono e non vivono
In bilico tra quel che erano
E quel che mai saranno
I cimiteri pieni
Di vite di ieri
Le case vuote
Di vite andate
Altrove
Ma ancora un ultimo raggio di sole
Scalda con tepore
L’ultimo amore
Della bellezza più piccina
Che mai si inchina
A chi la vorrebbe diversa
A chi la vorrebbe solo per sé
Paesi lucani
Fantasmi mortali
Paesi lucani
Restano abbandonati
Paesi lucani
Vivono altrove
Nei cuori solitari
Che si stringono in nostalgia
Di tutti i figli emigrati
E mai più tornati.
c.r.

Come si può far riconoscere il valore e le potenzialità di un territorio, se non si ha conoscenza del proprio territorio? L’auspicio è che si possano spendere le molteplici professionalità che oggi i giovani lucani, in loco o fuori loco, hanno acquistato per indagare e poi costruire una visione di Basilicata. Ma per far questo non si può demandare tale compito a un sistema altro, ma è necessario partire dalla costruzione di un vero Sistema Culturale che riesca ad approfondire, fare ricerca e coinvolgere prima e poi riattivare i territori, nella propria lettura e poi nel far conoscere i tanti contenuti che una storia ricca come quella che caratterizza il territorio lucano. Non bisogna dimenticare la geografia dei luoghi e quella lucana è una geografia baricentrica che pone la regione al centro del bacino del Mediterraneo, dunque bisognerebbe riflettere sul ruolo geo-politico che una tale posizione investe sia sul suo contesto Nazionale che su quello internazionale. Il contatto con l’Europa che può passare sia in senso fisico solo se si creano adeguate infrastrutture, che in senso più immateriale, attraverso la ricostruzione di nessi e fili interrotti o logori della storia, soprattutto recente.

Una consapevolezza, però dovrebbe restare al centro come un perno per qualsivoglia strategia di sviluppo territoriale:
il futuro di un territorio è nelle possibilità che vengono date ai propri giovani di far progredire quel territorio, altrimenti si è già perso, ancor prima di cominciare.
Vedremo se questo anno da Capitale possa gettare le basi per una rinascita culturale all’insegna della ricerca delle radici di una terra unica e complessa come la Lucania.

A Bologna un Laboratorio sul Diritto alla Città per contrastare l'idea della città come spazio di profitto, piuttosto che come luogo della condivisione, dell’incontro e di realizzazione collettiva, con contributi di accademici, esperti, forze sociali e politiche che in Italia e in Europa hanno deciso di muoversi nella direzione opposta. Primo appuntamento il 22 febbraio. Qui i dettagli. (i.b.)

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