Sono maledettamente stufo di dover seguire i miei obblighi professionali commentando la ripetitiva rissosità e inconcludenza dei politici, l’incontenibile pulsione anticostituzionale di Berlusconi, l’uso dei dossier nei confronti di Fini e le controaccuse dei finiani contro il Cavaliere, gli sbraiti di Di Pietro contro tutto e tutti, il bastone secessionista della Lega che spunta dai borbottii di Umberto Bossi, l’attesa del Partito democratico e Godot che non arriva perché ce ne sono troppi e si paralizzano reciprocamente.
Sono maledettamente stufo e non sono il solo. Sono stufi la maggioranza schiacciante degli italiani con il pessimo risultato che il distacco dalle istituzioni è diventato un abisso. Ed è stufo e molto preoccupato il Presidente della Repubblica, come lui stesso ha detto con parole sue nell’intervista rilasciata tre giorni fa all’Unità.
Napolitano ha segnalato il vuoto che si è aperto da quando la rissa politica si è trasformata in rissa istituzionale; ha chiesto ai responsabili di questo stato di cose di mettervi fine al più presto; ha osservato che una crisi di governo al buio e un’eventuale campagna elettorale «selvaggia» rischierebbero di avere esiti nefasti per la democrazia. Quanto a lui, ha confermato quanto già sapevamo del suo modo di pensare e di agire: farà tutto ciò che la Costituzione gli consente e gli impone di fare se si aprirà una crisi di governo. Niente di più e niente di meno.
Questo suo rispetto degli obblighi costituzionali ai quali ha giurato di attenersi (l’hanno giurato anche tutti gli altri "pubblici ufficiali" a cominciare dal presidente del Consiglio, dai membri del governo e dai presidenti delle Camere, ma sempre più spesso se ne scordano) gli ha infatti procurato un livello di fiducia popolare che sfiora l’unanimità e rappresenta uno dei pochi elementi positivi, forse il solo, della pessima situazione che stiamo vivendo.
La Costituzione stabilisce che spetta al capo dello Stato il potere di sciogliere le Camere se il Parlamento non è in grado di esprimere una maggioranza, così come è in suo potere nominare il presidente del Consiglio e su sua proposta i ministri rinviando il governo alle Camere per ottenerne la fiducia.
Da questo punto di vista ha ragione Napolitano di ricordare che non esiste un governo tecnico: i governi debbono ottenere la fiducia del Parlamento e quindi sono tutti e sempre governi politici, quali che siano il presidente del Consiglio e i ministri che ne fanno parte. Purtroppo gran parte dei politici ignorano o dimenticano questi principi costituzionali e le norme che li configurano. Di qui lo stucchevole teatrino che va in scena ogni giorno con poche varianti.
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Una variante notevole era sembrata la separazione dei finiani dal Pdl. Le motivazioni erano chiare, il dissenso su punti decisivi – a cominciare col rispetto della legalità – e la mancanza di luoghi e strumenti per renderlo palese all’interno del partito giustificavano la secessione. Essa però non fu portata alle logiche conseguenze. Si volle mantenere una fittizia appartenenza dei finiani al Pdl «per non tradire la volontà degli elettori che li avevano votati».
Va detto – e Fini lo sa perfettamente – che uno dei cardini portanti della nostra Costituzione è l’articolo 67 che stabilisce che «i membri del Parlamento rappresentano la nazione e sono eletti senza vincolo di mandato». Quest’articolo è fondamentale perché è il solo strumento che impedisce alle oligarchie dei partiti di asservire gli eletti dal popolo. Il popolo trasferisce ai suoi delegati la propria sovranità fino a quando si tornerà a votare. Non c’era dunque alcun bisogno della finzione finiana che il cordone ombelicale con il Pdl non potesse essere tagliato. Quella finzione è stata adottata affinché fosse evidente chi era stato il responsabile della secessione: un’evidenza però talmente plateale da non richiedere percorsi così tortuosi e sterilizzanti.
Ma ora, dopo che è cominciato e continua ad andare avanti il massacro mediatico che i giornali berlusconiani infliggono a Fini con l’evidente supporto dei dossier dei Servizi segreti, si è delineata un’altra anomalia di segno opposto: i finiani, per difendere il loro leader dall’attacco di cui è vittima, sono partiti al contrattacco non solo ricordando fatti antichi e non sanate illegalità del Cavaliere, ma indicando temi recenti di gravissima portata e cioè: l’uso dei Servizi di sicurezza per distruggere gli avversari politici del premier, rapporti di comparaggio del presidente del Consiglio con il primo ministro russo Putin; analoghi rapporti di comparaggio di Berlusconi con il leader libico Gheddafi.
Se i finiani dispongono di prove o almeno di gravi indizi su queste presunte e gravissime illegalità, hanno a nostro avviso l’obbligo di esibirle informandone la competente Procura della Repubblica; non possono invece tenerle in serbo come potenziale deterrente. Chi ha sollevato una questione di legalità deve anzitutto difendere se stesso esibendo prove certe contro le accuse che gli sono state lanciate, ma non può a sua volta ritorcerle senza provarne la consistenza. Qui risiede il coraggio e la forza della propria coscienza morale.
La direttiva ha la firma di Silvio Berlusconi ed è datata 27 luglio, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 10 agosto. Per la prima volta mette nero su bianco i criteri attraverso i quali la Protezione civile può gestire i "grandi eventi". «Ma sono criteri troppo generici - denunciano Luigi Zanda e Gianclaudio Bressa, Pd - nei quali è possibile inserire di tutto. Fanno passare un atto del genere in pieno agosto, a Camere chiuse: l´ennesimo abuso della politica delle ordinanze in deroga a tutte le leggi». D´altronde Guido Bertolaso ama ripeterlo spesso: «In Italia è la Protezione civile a gestire i grandi eventi». Dal 2001, per la precisione. Da quando il medico romano è arrivato a guidare il dipartimento della Presidenza del Consiglio. Criticata dalla Corte dei conti, sotto la lente di inchieste giornalistiche e delle indagini di vari magistrati in giro per l´Italia, ora la nozione di "grande evento" si arricchisce per la prima volta di alcuni parametri. Ma quelli che nelle intenzioni della Protezione civile vorrebbero essere «criteri» ai quali fare riferimento, vanno a formare, in realtà, una rete dalle maglie estremamente larghe. Nelle quali ciò che passa viene assoggettato all´uso delle ordinanze in deroga alle leggi vigenti.
Giusto 20 giorni fa Bertolaso, commentando la tragedia della Love Parade di Duisburg, in Germania, aveva spiegato: «In Italia non sarebbe mai successo: quando ci sono manifestazioni così, devono intervenire quelli che sanno come si fa». Sottinteso: la Protezione civile. Che, nelle idee del suo capo (da mesi in procinto di lasciare), nelle intenzioni del presidente del Consiglio che ha firmato la direttiva e nelle disposizioni dell´atto che ha funzioni operative, potrebbe mettersi a organizzare anche eventi come la Love Parade.
Si legge nella direttiva: «Si tratta di situazioni nelle quali l´inadeguatezza degli enti ordinariamente competenti a superare il contesto problematico che si manifesta è suscettibile di provocarne un aggravamento per impedire il quale si rende perciò improcrastinabile l´intervento dello Stato in via sussidiaria». Il burocratese nulla toglie al senso della direttiva. Che, pur provando a scendere nei dettagli, resta abbastanza generica: «Un grande evento, quale situazione straordinaria avente potenzialità atte a generare stravolgimenti nell´ordinario sistema sociale, può costituire la causa dell´accentuazione dei rischi. Tali rischi, pur essendo prevedibili e prevenibili solo parzialmente, devono attenere alla compromissione dell´integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell´ambiente». Tra i grandi eventi avviati per il quinquennio 2010-2015 ci sono le celebrazioni per il 150° anniversario dell´Unità d´Italia, il congresso Eucaristico nazionale di Ancona e Osimo e l´Expo Universale di Milano.
In passato, la Protezione civile ha anche organizzato la Louis Vitton Trophy a La Maddalena, i Mondiali di nuoto di Roma, il G8, prima a La Maddalena e poi a L´Aquila, i campionati del mondo di ciclismo su strada, ma anche la visita pastorale di Benedetto XVI a Cagliari. Per fare chiarezza sulla gestione di alcune di queste manifestazioni sono tuttora aperti diversi fascicoli d´inchiesta da parte di svariate procure. L´attenzione dei magistrati non ha però frenato l´intenzione del governo di ribadire come la categoria di grande evento spetti alla Protezione civile.
E mentre da una parte la direttiva del 27 luglio invita a una «progressiva riduzione degli stati di emergenza dichiarati sul territorio nazionale» e a «limitare al massimo lo strumento della proroga degli stati di emergenza», dall´altra specifica i parametri della nozione di grande evento: «1) Complessità organizzativa dell´evento tenuto conto della rilevanza e della sua dimensione nazionale o internazionale, delle autorità partecipanti, dell´impatto sull´economia e sullo sviluppo anche infrastrutturale dell´area interessata, della prevedibile affluenza di pubblico; 2) esigenza di provvedimenti e piani organizzativi straordinari per garantire la sicurezza; 3) necessità di adottare misure straordinarie per l´uso del territorio, la mobilità, la viabilità e i trasporti; 4) definizione ed esecuzione, anche con procedure semplificate, di piani sanitari di natura eccezionale; 5) adozione di misure, volte a evitare che dalla celebrazione dell´evento possano derivare conseguenze negative a carico del territorio». La rete a maglie larghe, insomma, è pronta ad accogliere nuovi grandi eventi.
Val Badia. Prosegue il viaggio del Fatto Quotidiano nei luoghi simbolo delle vacanze a rischio cementificazione. Dopo l’autostrada tirrenica in Maremma, ecco le Dolomiti, tra piccole ferite già consumate e colossali scempi già progettati.
L’Antersasc. Pochi lo conoscono: devi salire quassù per sentire il silenzio delle Dolomiti, perché ogni luogo ha un suo silenzio, diverso da tutti gli altri. Ti arrampichi su per la Val Badia, abbandoni l'auto a Juel e poi lentamente ti incammini. Sali e a ogni passo lasci un pezzo dei rumori che porti con te: prima il grido delle auto che arrancano in salita, poi le suonerie dei cellulari (“assenza di campo”), le voci delle persone, le campane dei paesi in lontananza attutite dai prati. Alla fine resta il calpestio dei tuoi passi che ti viene dietro come se ti inseguisse. Allora ti puoi fermare e chiudere gli occhi: non senti più nulla. Eccolo, il silenzio delle Dolomiti, umido come il bosco di larici e cirmoli che hai intorno, morbido di muschio. Freddo dell'aria che scende dalle vette. Per questo chi conosce le Dolomiti sale all'Antersasc: non per raggiungere una meta, ma per allontanarsi da qualcosa. Allora immaginatevi la sorpresa quando, mesi fa, avviandosi per il sentiero ci si è imbattuti in una strada. Non una piccola traccia, ma una sterrata larga oltre 3 metri che saliva per più di un chilometro e mezzo (ma diventeranno due e mezzo). Ai lati decine di larici secolari abbattuti e poi quella ruspa gialla su per il bosco e una scia di terra scoperchiata. Anche il silenzio era scomparso.
Il funerale di una montagna
No, questa non è la storia di uno scempio edilizio da milioni di metri cubi che stravolge una regione, come quelli della pianura veneta o delle coste liguri. Una strada lunga due chilometri e mezzo può sembrare, forse è, una piccola cosa. Ma di sicuro è anche un segno, perché siamo nel cuore del parco Puez-Odle, uno dei più intatti e selvaggi delle Alpi. Ai piedi delle Odle, quei massi alti centinaia di metri che sembrano caduti dal cielo per piantarsi dritti nei prati.
Una ferita per le Dolomiti, una delle tante, però. Così da queste parti qualcuno ripete sempre più spesso un nome: Dresda. Ma che cosa c'entra la Germania con i Monti Pallidi al confine fra Trentino-Alto Adige, Veneto e Friuli? “Dresda era stata inserita nell'elenco dei beni patrimonio dell'Umanità, poi si è deciso di costruire un ponte sull'Elba per collegare le due parti della città. E l'Unesco ha ritirato il riconoscimento”, racconta Michil Costa, albergatore di Corvara. Aggiunge: “Se continuiamo così anche le Dolomiti perderanno il titolo che hanno conquistato appena nel 2009”.
Da mesi Michil non pensa ad altro, a quella strada che sale tra larici e prati al “suo” Antersasc. Appena può, con Giovanna Pedrollo, si arrampica su per la montagna per fotografare il cantiere. Costa non è tipo da arrendersi, ha un carattere pirotecnico, così le sta tentando tutte perché quella strada sia fermata e diventi un caso. In Alto Adige, ma non solo. “Abbiamo lanciato delle iniziative, magari provocatorie, ma non vogliamo mancare di rispetto a nessuno”, racconta Michil. Si riferisce a quei necrologi comparsi sui giornali altoatesini: “Resterai sempre nei nostri cuori per tutto quello che ci hai dato e che hai fatto per noi, Munt de l'Antersasc”. Poi la cerimonia funebre: decine di persone in corteo al passo delle Erbe, turisti e la gente della Val Badia e della Val di Funes. “Un'iniziativa di dubbio gusto”, l'ha bollata qualcuno. Chissà, una cosa però è certa: da giorni in Alto Adige non si parla d'altro.
Una strada, ma per chi?
Vero, non è tutto bianco o nero, qui non si tratta di una colata di cemento per riempire le tasche dei soliti noti: “Abbiamo approvato il progetto perché il percorso consentirà di raggiungere una malga altrimenti abbandonata. Le nostre montagne sono così belle perché sono abitate. Oggi non possiamo più pretendere che i contadini portino a spalla il sale per gli animali o la legna per riparare la malga”, racconta Luis Durnwalder, presidente della Provincia di Bolzano. Ma più d'uno solleva dei dubbi: “Si spendono centinaia di migliaia di euro pubblici per costruire una strada che ha un impatto devastante sul paesaggio”, attacca Andreas Riedl, direttore della federazione Protezionisti sud-tirolesi. Aggiunge: “Non solo la Provincia ha dato il via libera al taglio di decine di larici secolari, ma lo ha anche finanziato (il primo tratto del percorso, circa un chilometro e mezzo, è costato 116mila euro, il secondo deve ancora essere realizzato)”. Durnwalder replica: “L'abbiamo pagata noi perché è una strada forestale”. Ma soprattutto c'è di mezzo un parere negativo degli stessi uffici provinciali: “La commissione Tutela del Paesaggio aveva dato parere negativo. Nonostante la bocciatura, il presidente Durnwalder ha deciso di andare avanti lo stesso”, ricorda Michil Costa. E domanda: “Ma voi credete davvero che quella strada dove passano anche i camion servirà soltanto per una malga? Vedrete, poi magari nascerà un ristorante, e alla fine ci passeranno decine di auto”. La Provincia invece giura: “La strada servirà soltanto per i trattori. Quella resterà una malga”.
Marmolada, il gigante ferito
Chissà quante persone ogni anno salivano all'Antersasc. Poche. Ma quella strada non riguarda soltanto loro. Ora tutti – i turisti, ma soprattutto la gente di qui – si chiedono dove stiano andando le Dolomiti. E allora la storia non riguarda soltanto le Odle, ma anche il gigante dei Monti Pallidi. La Marmolada, che riconosci subito per quella vetta che arriva alle nuvole. Un gigante, però, ferito, con quel ghiacciaio che ogni anno si ritrae. Chissà se sia per il “global warming” oppure per quei pali della funivia piantati nel ghiaccio. Adesso ai suoi piedi hanno addirittura deciso di costruirci un residence. Lo chiamano così, ma è molto di più: un palazzo da 100 appartamenti con intorno 54 chalet, il centro benessere, quello per congressi, piscine coperte, saloni, negozi, palestre. Secondo i primi calcoli, il complesso dovrebbe contare quasi 90.000 metri cubi di nuove costruzioni (e pensare che la Regione gli ha già dato, nel 2007, una bella sforbiciata). Ai tre abitanti di Malga Ciapela si aggiungeranno novecento persone.
Ma ormai qui i progetti fioriscono più delle stelle alpine: si parlava di realizzare una pista, con tanto di tunnel scavato nella roccia, per collegare la Marmolada e il San Pellegrino anche se i comuni di Falcade (Belluno) e Soraga (Trento) l'hanno bocciata. A promuoverla, come il resort della Marmolada, la famiglia Vascellari, signori degli impianti di risalita veneti alla guida degli industriali bellunesi. E c’è il progetto di un impianto che dovrebbe collegare Cortina con San Vigilio di Marebbe (ai margini della zona vincolata) e il Sella Ronda, il giro del Sella che ogni anno attira mezzo milione di sciatori: “Cortina è isolata, bisogna collegarla alla Val Badia, sarebbe per tutti un’occasione unica. Si potrebbero fare sessanta chilometri con gli sci ai piedi”, già sogna Mario Vascellari che fa parte anche del Consorzio ampezzano che gestisce gli impianti a fune. Peccato che di mezzo ci siano gli alpeggi vergini del Col di Lana.
A Sappada (Belluno) invece dovrebbe essere realizzato un nuovo albergo da 180 stanze. In Alta Badia gira da tempo l’idea di un rifugio fu-turistico firmato dal designer Ross Lovegrove. Sembra una navicella spaziale in mezzo ai prati. “Per non parlare delle nuove piste alla porte delle Dolomiti, nella zona di Folgaria, che spazzeranno via tanti pascoli e la memoria della Prima guerra mondiale”, racconta Luigi Casanova di Mountain Wilderness. “Chissà che cosa dirà l'Unesco”, dicono gli ambientalisti. Bisogna agitare lo spauracchio di una bocciatura internazionale, perché da soli le nostre montagne non riusciamo a difenderle.
L’articolo pubblicato da “Il Fatto” (11 agosto) [e ripreso da eddyburg] con il titolo “Cemento e polemiche, con Caltagirone svolta Montepaschi” descrive Banca Monte dei Paschi di Siena come un soggetto che, da un certo punto in poi, ha incrementato la sua attività nel mattone tanto da essere definita “l’immobiliare” Monte dei Paschi di Siena. Non è vero.
A sostegno di questa tesi l’articolo elenca 4 casi in cui la banca è coinvolta, peraltro sempre con quote di minoranza e mai sopra il 25 per cento. Il loro valore complessivo è il 2 per cento circa del totale delle nostre quote di partecipazione nelle 314 società di cui siamo soci in Italia nei più diversi settori: infrastrutture (parcheggi, strade, aeroporti, porti, interporti), società finanziarie, altri rami industriali (energia come Alerion Greenpower e Sorgenia, ricerca biomedica come Sorin e TBS Group), territoriali (patti territoriali e altre società per lo sviluppo) e, naturalmente, immobiliare. L’articolo, inoltre, individua nel 2003, con l’ingresso di un nuovo azionista, il momento di svolta verso il mattone.
Almeno 3 dei 4 progetti citati a supporto di questa tesi nascono molto prima. Nella tenuta di Marinella, in Liguria, dove la nostra presenza è passata dal 100 per cento al 25 per cento di recente. L’iter per il progetto è iniziato negli anni Novanta. L’Aeroporto di Ampugnano risale alla prima metà del ventesimo secolo e la pista di 1.480 metri, che secondo l’articolo dovrebbe comparire adesso, è quella che l’aeroporto utilizza da molto tempo per i voli consentiti nello scalo. Non è previsto alcun allungamento. Anche il progetto di Capo Malfatano, nel quale la Sansedoni (di cui Bmps ha solo il 20 per cento circa) è uno dei soggetti interessati, ha una genesi anteriore al 2003. L’unica partecipazione successiva al 2003 è il 20 per cento in Agricola Merse.
Firmato: Banca Monte dei Paschi di Siena
[Replica de Il Fatto quotidiano]
Ribadiamo quanto riportato nell'articolo e del resto non smentito dalla lettera del Monte dei Paschi. Ci sono altre banche – come abbiamo scritto in passato – che molto hanno investito nel mattone. Ciò non toglie che Mps partecipi a molte operazioni immobiliari al centro di polemiche: tra l'altro nella campagna senese, in Sardegna e in Liguria. Lo fa con società controllate e con partecipate, esattamente con le quote riportate nell'articolo (e verificate con visure camerali). Sulla ricostruzione di Mps ci sia permesso di esprimere perplessità: per l'aeroporto di Siena c'è un progetto di ampliamento con forte incremento del traffico. Alla Marinella, in Liguria, la società che ha lanciato il progetto (con un impatto pesante per la delicatezza del luogo) era detenuta al 100 per cento da Mps. Non ha rilievo (per quanto noi stessi lo avessimo riportato) che in un secondo tempo la partecipazione sia scesa al 25 per cento per far posto tra l'altro alle cooperative. Infine Sansedoni, società protagonista di operazioni immobiliari discusse perché realizzate in zone ad alto pregio: tra l'altro a Capo Malfatano in Sardegna. È vero che la Banca Monte dei Paschi detiene il 21 per cento delle azioni (come avevamo peraltro scritto), ma la Fondazione Monte dei Paschi detiene un altro 66 per cento (35 per cento privilegiate e 31 per cento ordinarie). Insomma, si gioca sempre in casa.
I colpi contro il popolo aquilano non vengono soltanto dalle cariche della polizia a Roma. La scorsa settimana anche il presidente della regione e il sindaco di L'Aquila, nei ruoli di commissario e vice della ricostruzione hanno infatti picchiato duro, istituendo una commissione di "saggi" per coordinare gli interventi di ricostruzione che è un altro duro colpo alla popolazione. In perfetta sintonia bipartisan i due hanno nominato un validissimo economista come Paolo Leon, ben due sociologi (Bonomi e De Rita), nessuno storico della città e del territorio e altri tre autorevoli personaggi di cui sarà bene parlare.
Il primo è Cesare Trevisani, ad di Trevi finanziaria industriale, presidente e ad della Petreven, ad di Trevi spa, vice presidente e ad di Soilmec; vice presidente e ad di Drillmec. Sfugge, al di là della potenza di fuoco delle cariche ricoperte, il motivo della nomina. Entra infatti come referente per le infrastrutture e a noi non resta che domandarci se non c'era di meglio sul mercato degli esperti: esistono infatti decine e decine di tecnici validissimi che da decenni operano nel settore dell'innovazione tecnologica. È invece noto che siamo il paese con la più spaventosa arretratezza nel campo del settore infrastrutturale e non ci vuole la zingara per attribuire anche alla potente Confindustria un grave ritardo culturale. E chi scelgono Chiodi e Cialente? Un esponente di spicco dell'associazione, essendo Trevisani il vice presidente delle infrastrutture di Confindustria.
Solo per stomaci forti consigliamo di ascoltare l'intervista rilasciata dal nostro alla televisione regionale abruzzese in cui si esercita nel mantra confindustriale: bisogna abbassare le tasse per le imprese, etc. Tutte cose sacrosante, intendiamoci, ma che poteva declamare nel suo ruolo di vicepresidente. Invece le dice in qualità di membro di una commissione che - immaginiamo - verrà remunerata con i nostri soldi. E non è che Confindustria non fosse già dentro la partita aquilana. Anzi. A capo della struttura tecnica di missione siede Gaetano Fontana, già direttore generale del Ministero dei lavori pubblici, passato poi a direttore generale dell'Ance, associazione dei costruttori nazionali e da lì all'incarico aquilano. La pubblica amministrazione è come una porta girevole, si entra e si esce con grande disinvoltura.
Ancora più sconcertanti, se possibile, le altre due nomine. La prima riguarda Alvaro Siza, grande architetto di fama internazionale. Ma con le archistar non si ricostruiscono i centri storici ed è questa la vera urgenza aquilana. L'ennesimo grande nome chiamato soltanto per fare moina. Infine è stato nominato, Vittorio Magnano Lampugnani, anch'egli valente architetto. Grandi nomi dell'urbanistica non sono stati invece presi in considerazione. Pierluigi Cervellati, ad esempio, rese famosa l'Italia per le politiche di riabilitazione del contro storico di Bologna. Dal canto suo, Vezio De Lucia diresse la ricostruzione del centro storico di Napoli dopo il terremoto del 1980. Due urbanisti evidentemente sgraditi al circolo del pensiero unico.
Oppure si potevano chiamare i tecnici del comune di Foligno, dove a seguito del terremoto del 1997 è stato portato a termine un esemplare processo di ricostruzione senza clamori e senza grandi nomi. In questo caso, dava forse fastidio il rigore con cui si è ricostruito il volto di una città più piccola e con meno danni de L'Aquila. Oggi, infatti, si sentono affermazioni che non possono non preoccupare. Il Centro del 27 luglio riporta la seguente frase attribuita a Lampugnani: «Non si può pensare di ricostruire tutto com'era, ma occorre salvaguardare le grandi opere e i monumenti artistici presenti in città e in tutti i borghi del territorio». Forse gli aquilani che amano la loro città nella sua inscindibile unitarietà non saranno affatto d'accordo. Il dramma è che la politica bipartisan chiude ogni spazio di reale confronto. La ricostruzione è un fatto di pochi. Gli abitanti devono solo ubbidire a simili "saggi".
La vendita a EstCapital dell’area dell’ex Ospedale al Mare sotto la lente della Procura. A porla, un esposto annunciato dall’avvocato Mario D’Elia che mette in discussione il fatto che la società di Mossetto rogiterà e pagherà solo a progetto esecutivo approvato.
«Quello sottoscritto dal Comune e dal commissario al Palacinema Vincenzo Spaziante per la vendita dell’ex Ospedale al Mare con la società di Gianfranco Mossetto - spiega l’avvocato D’Elia - è in pratica un contratto-capestro, perché mette la parte pubblica nelle mani nell’acquirente, che non pagherà fino a quando il progetto esecutivo non sarà di sua piena soddisfazione. In gara c’era già un progetto preliminare che fissava chiaramente vincoli urbanistici e destinazioni d’uso future per l’acquirente, senza bisogno di concedere a EstCapital il potere assoluto di bloccare la vendita se l’esecutivo non sarà di suo pieno gradimento. Addirittura, come ha già dichiarato lo stesso Mossetto, su questa base EstCapital può sciogliere in qualsiasi momento l’accordo e pretendere da Comune e commissario caparra doppia rispetto ai 16 milioni di euro già versati. Ci sono a mio avviso gli estremi per la truffa, con un danno evidente per il Comune da un accordo di questo tipo, che lo mette alla mercé del compratore, se vuole incassare i soldi necessari al suo bilancio e alla costruzione del nuovo Palazzo del Cinema, che altrimenti si ferma.
C’è poi un altro aspetto dell’accordo con EstCapital su cui la Procura della Repubblica dovrebbe indagare, ed è quello che riguarda l’aumento di spazi e volumetrie concessi dal commissario dopo l’aggiudicazione della gara e EstCapital nell’ambito della Conferenza di Servizi sul Lido». La materia è delicata e riporta alla genesi della gara per l’ex Ospedale al Mare, preceduta da un’avviso di manifestazione di interesse lanciato da Spaziante verso i privati interessati a partecipare al bando per l’acquisto dell’area. Tra gli interessati, tra gli altri, gruppi immobiliari francesi e tedeschi che poi però deciso di non partecipare alla gara rispetto alle condizioni poste da commissario e Comune: 80 milioni di euro il prezzo base, per una superficie utile disponibile di circa 37 mila metri quadri e numerosi vincoli sull’area: da quelli di tutela della Soprintendenza su parecchi dei padiglioni dell’ex nosocomio, al vincolo a verde sportivo su buona parte del cosiddetto Parco della Favorita. A presentarsi, alla gara, appunto solo la EstCapital, che se l’era poi aggiudicata con un rilancio a 81 milioni. Successivamente, però, la Conferenza di Servizi con Spaziante avevano approvato la rimozione dei vincoli sui padiglioni e sull’area della Favorita (di cui riferiamo in dettaglio a parte), grazie ai poteri commissariali, e la superficie utile a vantaggio dei nuovi acquirenti è sensibilmente aumentata, ormai vicina agli 80 mila metri quadrati.
La domanda implicita e non banale da porsi quindi è: se anche altri potenziali acquirenti dell’area dell’ex Ospedale al Mare avessero potuto prevedere che determinati vincoli ambientali e storico-artistici sarebbero stati rimossi successivamente - consentendo la demolizione di diversi padiglioni e il “recupero” edilizio della Favorita - e che quindi la superficie utile sarebbe notevolmente cresciuta, avrebbero partecipato alla gara? E, in questo caso, Comune e commissario avrebbero potuto “spuntare” un prezzo superiore agli 81 milioni di euro ancora non incassati da EstCapital?
AREA “FAVORITA”
Tre torri al posto del parco ma si tratta sulle volumetrie
Il nodo della Favorita. La cosiddetta «Area 2» del progetto dell’area dell’ex Ospedale al Mare si stende per circa 19 mila metri quadrati e comprende verde pubblico e attrezzature sportive (campi da tennis e da calcio, strutture del Cral) comprese tra via Marco Polo e via dell’Ospizio Marino. La delibera già votata nel settembre del 2008 dal Consiglio comunale per il Parco della Favorita, all’interno dell’accordo di programma per la riqualificazione del Lido prevedeva per gli oltre 13 mila metri quadrati dell’area la destinazione a «verde sportivo» e un’altezza massima per due edifici da recuperare, tra i 10 e 12 metri. Ma la Favorita è entrata invece successivamente nella piena disponibilità edificatoria di EstCapital per ospitare tre torri e una trentina di ville, aumentando notevolmente le volumetrie iniziali. Dopo la mediazione del nuovo sindaco Giorgio Orsoni si è ottenuto in Conferenza di Servizi che venga recuperato a verde pubblico un 5 per cento in più delle superfici dell’area, abbassando l’indice di edificabilità. Lievemente ridotta anche l’altezza delle tre nuove “torri” del Parco della Favorita che dovrebbero essere due di 18 metri e mezzo e una di 16 e mezzo. Ma anche l’Enac, l’Ente per la sicurezza del volo - vista la vicinanza con l’aeroporto Nicelli - ha chiesto una limitazione delle altezze degli edifici. Lo stop al progetto della Favorita è una delle cause della mancata stipula del rogito tra Comune e EstCapital che chiede, nel caso, di recuperare altrove - con il via libera all’abbattimento del Monoblocco e la realizzazione di una darsena a San Nicolò - gli spazi che perderebbe con il riassetto. La Conferenza di Servizi prevista per fine mese dovrebbe chiarire la situazione.
Non indigna solo la svendita di un rilevante patrimonio pubblico, la trasformazione dell’urbanistica in un mero strumento finanziario, il tradimento di impegni assunti, il consapevole degrado del paesaggio, il disprezzo per i cittadini. Peggiora la valutazione politica e morale l’incapacità di applicare qualsiasi regola: quelle dell’agire pubblico sono calpestate, come se tutti quelli cui tocca la responsabilità di governare fossero diventati cloni di Berlusconi; quelle dell’agire privato vengono ignorate con allegra insipienza, aprendo il fianco a censure non solo morali.
Il guaio è che gli errori (chiama moli così) dei governanti (id.) li pagano i governati. Finchè hanno pazienza…
Pompei non è un’emergenza o un grande evento. La Corte dei Conti rinfocola la polemica dei giorni scorsi con il governo e ribadisce che la città degli scavi non è affare della Protezione civile e di delibere che possono derogare dalle leggi ordinarie. Pompei, afferma, non è minacciato da calamità naturali, mentre il governo ha sempre sostenuto questa tesi, paragonando la Città degli scavi addirittura al "pericolo Vesuvio".
La Corte dei Conti torna sulla vicenda. Per i magistrati contabili, il ministero guidato da Sandro Bondi ha sbagliato ad affidare gli scavi di Pompei a un commissario della Protezione civile. Sottolineano che «non appare corretta l’affermazione che la Corte dei Conti avrebbe riconosciuto la legittimità dell’operato della Protezione civile». Pompei non è una calamità naturale né un grande evento. La Corte con assoluta chiarezza ribadisce che «di fatto, questo lasciapassare non c’è mai stato». Ed esclude, con un articolato parere ed entrando nel merito, che per il sito archeologico più visitato del mondo si possano ravvisare i presupposti per la dichiarazione dello stato di emergenza. Il meccanismo è stato attivato l’anno scorso anche per le opere di manutenzione o per assicurare le guide ai turisti.
La risposta della Corte, insomma, è una secca smentita delle dichiarazioni della struttura diretta da Guido Bertolaso.
La magistratura contabile si dilunga sulla vicenda che la vede chiamata in causa nei confronti della presidenza del Consiglio. Cita leggi e regolamenti. E in un botta e risposta contraddice il comunicato del dipartimento della Protezione civile, riportato dai giornali, nel quale si afferma che la «Corte dei Conti, nell’esercizio del controllo preventivo su alcune ordinanze della Protezione civile, avrebbe riconosciuto la legittimità dell’operato della Protezione civile stessa». A «fini di completezza e di informazione», precisa che «di fatto, questo lasciapassare non c’è mai stato».
La Corte - si spiega nella nota - , «impregiudicata l’eventuale questione di legittimità costituzionale della norma che ha previsto l´esenzione del controllo dei provvedimenti stessi, ha escluso la natura di atto politico non sindacabile della dichiarazione dello stato di emergenza per la città degli Scavi». La Corte, ha inoltre ritenuto «ingiustificato l’intervento del dipartimento della Protezione civile per iniziative che non possono inquadrarsi nel concetto di tutela della vita dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente dal rischio di gravi danni. Iniziative che avrebbero potuto essere attuate da un commissario straordinario, in regime non derogatorio».
La Corte dei Conti già in passato era intervenuta più volte per contestare la decisione di escludere dalle normali procedure di controllo eventi che poco hanno a che fare con le grandi calamità. Fu il caso per esempio della Vuitton Cup, considerata grande evento e per questo esclusa dai controlli preventivi.
Il comunicato della Corte dei Conti
Il punto da chiarire è questo: il reintegro dei lavoratori licenziati a Melfi da parte di un giudice del lavoro era del tutto prevedibile. Forse non la rapidità della pronuncia, ma il suo esito certamente sì. Allora, posto che non si può credere che l’ad di Fiat Auto si sia circondato di sprovveduti, bisogna chiedersi per quali motivi i suoi esperti gli hanno suggerito d’imboccare una strada che portava dritto contro un muro. Il quesito è d’obbligo, perché rispetto alla questione dei licenziati di Melfi i rischi cui Fiat va incontro sul piano giuridico ed economico con il piano di Pomigliano e ciò che vi ruota attorno sono molto più grandi. Il piano presentato ai sindacati nel maggio scorso ha fatto sorgere seri dubbi circa la possibilità che limiti il diritto di sciopero, e perfino il diritto di ammalarsi, giacché nel caso che la percentuale di assenteismo «sia significativamente superiore alla media» l’azienda - la sola a decidere quanti punti o decimi di punto siano significativi - si considera libera dall’obbligo di pagare le quote di malattia. Nelle discussioni seguite alla presentazione del piano l’ad Fiat si è poi più volte riferito alla possibilità che l’azienda fuoriesca dal contratto nazionale dei metalmeccanici. Infine è spuntato il progetto di costituire una nuova società, la quale rileva gli impianti di Pomigliano e assume soltanto i lavoratori che accettano l’organizzazione del lavoro e i vincoli comportamentali del piano di maggio. Quanto basta per mobilitare folle di giudici del lavoro, avvocati, e lavoratori che per anni faranno causa all’azienda.
A fronte di tale scenario maxi, assai probabile, e certo costoso in termini legali, economici, industriali, perché la Fiat si è imbarcata in una minicausa persa prima di cominciare, come i licenziamenti di Melfi? È stato un ballon d’essai, si dirà. Vediamo come va a finire, han pensato al Lingotto, e se le acque non si agitano troppo faremo un altro passo per portare in Italia condizioni di lavoro polacche. Oppure si è trattato dell’inizio d’una politica del carciofo. Tre o quattro licenziati oggi, pochi per scuotere l’indifferenza generale; cento o più domani, magari con la scusa che non volevano accettare i dettami della Manifattura di Classe Mondiale, come si richiederà a tutti i dipendenti della nuova Pomigliano, filiazione Fiat ma tenuta a distanza di braccio dalla genitrice.
Ma la realtà potrebbe essere un’altra. Potrebbe darsi che la Fiat, a conti fatti, non abbia molta voglia di produrre la Panda in Italia. È una vettura piccola e semplice, che permette di guadagnare, quando tutto va bene, poche centinaia di euro per unità prodotta. È la vettura da produrre giusto in Polonia, in Turchia, o magari in Cina, cioè in paesi dove il costo complessivo del lavoro è da due a cinque volte più basso, e i sindacati di fatto non esistono. Ma per fare un passo indietro di notevole risonanza economica e politica la Fiat ha bisogno di buoni motivi. Pensava forse di trovarli nella resistenza dei sindacati, questi residui ottocenteschi di un mondo industriale che non c’è più, come tanti politici, oltre all’ad Fiat, li hanno definiti. Purtroppo per essa - ammesso che questo fosse il disegno - la resistenza dei sindacati quasi non c’è stata, visto che tre sindacati e mezzo hanno prontamente sottoscritto il lodo Pomigliano, né hanno battuto ciglio dinanzi alla prospettiva di una nuova società palesemente costituita allo scopo di poter scegliere i lavoratori che ci stanno.
Se alla fine il disegno Fiat fosse proprio quello di un ritiro motivato dalle difficoltà che si incontrano in Italia per produrre vetturette in modo competitivo a paragone di polacchi e serbi, e prima o poi di cinesi e indiani, quale miglior appiglio della sentenza di un giudice del lavoro che reintegra al loro posto tre operai accusati nientemeno che di sabotaggio? Il costo di questo singolo insuccesso legale è minimo. Ma può essere il punto di appoggio atto a sollevare la Fiat da un impegno che appare ogni giorno più scomodo. In un paese dove i giudici del lavoro si mobilitano in poche settimane per salvare dalla disoccupazione un gruppetto di operai, ci si deve dare atto - potrebbe aver ragionato l’azienda - che non si può andare avanti con la prospettiva di dover affrontare per un lungo futuro complicate vertenze con buon numero degli uni e degli altri. I licenziamenti di Melfi, apparentemente così incauti, cadrebbero allora al loro posto nella strategia della Fiat.
La campagna di Siena. Il promontorio di Capo Malfatano in Sardegna. Le foci del fiume Magra in Liguria. Tre luoghi straordinari, distanti centinaia di chilometri, ma con una cosa in comune: una banca, o meglio "l'immobiliare" Monte dei Paschi di Siena. Lo storico istituto toscano, ormai terzo per dimensioni in Italia, punta sul mattone. Decine di iniziative che attirano polemiche oltre che qualche inchiesta: aeroporti, alberghi e mega-porticcioli. Una corsa partita da lontano. Siamo nell'agosto 2003 quando i giornali annunciano: "Si stringe il rapporto tra Monte dei Paschi di Siena e Francesco Gaetano Caltagirone. È stata avanzata la proposta di chiedere a Bankitalia l’autorizzazione per costituire una società di gestione del risparmio al fine di promuovere iniziative nei fondi chiusi immobiliari... La banca entra così nel settore immobiliare". Negli anni successivi Caltagirone sbarca in Mps fino a raccogliere quasi il 5% delle azioni e a guidare i soci privati. Chissà se ad attaccare la passione alla banca è stato il re romano del cemento (oggi vicepresidente).
Una banca mattonara? Ambienti Mps respingono l'accusa: "Abbiamo almeno 300 partecipazioni in tutti i settori: infrastrutture, società finanziarie, energia. Certo, c'è anche l'immobiliare, ma investiamo nelle costruzioni meno di altri grandi istituti".Ma gli ambientalisti hanno storto il naso per la svolta della banca, per il fiorire di società controllate o partecipate che fanno affari con i giganti del mattone delle cooperative rosse. L'ultimo caso è il progetto dell'aeroporto di Siena. Una storia costata al presidente Giuseppe Mussari un avviso di garanzia per concorso morale in falso e turbativa d'asta. Lui, Mussari, si dichiara "estraneo ai fatti" e assicura di avere "piena fiducia nella magistratura". Ad attirare l'attenzione della Procura è stata la privatizzazione della società che gestisce lo scalo, in passato controllata dagli enti locali e partecipata da Mps. Ma nel 2008 ecco l'ingresso del fondo Galaxy con sede in Lussemburgo. Si tratta, però, di un fondo pubblico, partecipato indirettamente dai governi di Francia, Germania e Italia. Secondo i magistrati, il Monte avrebbe favorito Galaxy nella gara per la scelta del partner privato della società aeroportuale. Qui ecco che la storia si complica: tra i soci di Galaxy c'è la Cassa Depositi e Prestiti (controllata al 70% dallo Stato e al 30 dalle fondazioni bancarie). A presiederla Franco Bassanini, sostenuto per la presidenza proprio da Mps. Niente di illegale, ma il progetto dell'aeroporto è tutt'altro che ben visto dai senesi. Per la sua dubbia utilità e per le dimensioni. Siamo vicini agli scali di Firenze e Pisa, a due ore da Fiumicino. Non solo: Siena finora attirava solo voli da diporto. Invece ecco comparire una pista da 1.498 metri che con 15 milioni di investimenti permetterà entro il 2020 di far atterrare centinaia di migliaia di viaggiatori. Una struttura voluta dal colosso farmaceutico Novartis, che qui ha una delle sue sedi. Ma anche una scelta che punta sulla quantità più che sulla qualità. Certo agli operatori del settore farà piacere. Per esempio a Luisa Stasi, comproprietaria dell’Hotel Garden Spa e moglie di Mussari.
I progetti Mps punteggiano la campagna senese. Prendete la Bagnaia, tenuta della famiglia Riffeser, dove si è tenuto il ricevimento di nozze di Pierferdinando Casini e Azzurra Caltagirone. Dove ogni anno il gotha politico e giornalistico si incontra per una sorta di Porta a Porta campestre. Nessuno si è mai chiesto cosa facciano le ruspe che lì davanti tormentano la campagna per costruire 300 appartamenti e un campo da golf. Ma che cosa c'entra Mps? L’Agricola Merse Srl è unita in matrimonio alla Monte dei Paschi Capital Service, che della società di Bagnaia detiene il 20%.
Ancora: la Fondazione Mps è socia al 66% della Sansedoni spa, la Banca ha un altro 21%. Sansedoni sta realizzando almeno 12 progetti immobiliari dalla campagna di Siena a Firenze. Per finire con un complesso alberghiero tra i più contestati: quello di Capo Malfatano in Sardegna (un'operazione cui partecipano anche Benetton e Marcegaglia). Per rendersi conto di che cosa sia oggi Capo Malfatano bisogna vedere “Furriadroxus”, un documentario di Michele Mossa e Michele Trentini. I furriadroxus sono le antiche case contadine disseminate su Capo Malfatano. Qui vive una comunità agro-pastorale che sembra esser stata dimenticata dal tempo. Un promontorio selvaggio, dove domina il silenzio. Almeno finora.
Ma passiamo in Liguria, alla Marinella. Appena una settimana fa la Regione, presieduta da Claudio Burlando, ha dato un altro via libera a 900 posti barca, 750 residenze, 200 esercizi commerciali, 25 stabilimenti balneari, 1.000 posti letto. Siamo a due passi dal Parco di Montemarcello, sulle spiagge deserte e suggestive alle bocche del Magra dove venivano Mario Soldati e Marguerite Duras. Eppure – nonostante la guerra scatenata da cittadini e comitati – dagli amministratori e dai sindacati è arrivata una pioggia di "sì". E qui, oltre al paesaggio naturale, bisogna studiare quello finanziario: la Marinella spa che ha varato il progetto era detenuta al 100% da Mps. Oggi la quota è calata al 25%, nella società sono entrate anche le Cooperative. Nel cda della Marinella, al momento del lancio, c'era Giorgio Giorgi, avvocato genovese vicino a Burlando, membro della sua associazione politica, il Maestrale, ma soprattutto, come racconta lui stesso, "tesoriere della campagna elettorale di Burlando nel 2005".
Cesare Bermani non passa in tv. Ma negli Stati Uniti le università lo conoscono bene. Hanno letto e studiato sui suoi libri migliaia di studenti anche negli atenei italiani; si sono formati in una scienza a cavallo tra la storia, l’antropologia, la musica e la parola, quella sintetizzata nella o nelle storie orali, spesso cantate. Inoltre, è stato ed è tutt’ora, assicura – un “cattivo maestro”, ha creduto nella rivolta. Ci crederà ancora assieme a tanti altri compagni, ma intanto, a settantre anni mentre non smette di scrivere libri, è alla testa di un comitato il cui unico obiettivo è difendere il lago d’Orta e i suoi dintorni dalla speculazione. Dalle finestre di casa sua il lago si vede bene ed è un incanto fin qui, nonostante tutto, sostanzialmente risparmiato dalla speculazione che altrove ha fatto vittime illustri. «Quel tempo è finito – dice – conviene muoversi alla svelta, ciò che resta dell’Italia è in pericolo e le cause sono sotto gli occhi di tutti e soprattutto stanno nella cronaca politica».
Qualcuno ha sepolto la cultura della conservazione del patrimonio ambientale? «Prima non avevamo cura, ora siamo pronti a svendere per un pugno di soldi. Sì, è una questione culturale con radici antiche ma dobbiamo fare i conti con la condizione oggettiva delle casse dei comuni. Hanno l’acqua alla gola, si ficcano le mani in tasca e quel che trovano sono pezzi di un ambiente spesso meraviglioso, si guardano attorno e comprendono che quei panorami hanno un valore, quindi ecco la tentazione di svendere, cedere alla richiesta speculativa quasi sempre agganciata alla macchina turistica. Solo che si danno la zappa sui piedi...»
| foto di f. bottini |
Vuoi dire che sei in grado di dare consigli agli investitori? «Mettila così: se si cede a questa pulsione senza cervello si brucia una risorsa di lungo respiro in favore di un incasso molto veloce e neppure scontato: un albergo di qui, un altro di là e il gioco è fatto, quello che è stato per millenni un paradiso capace di attrarre attenzione con il suo fascino perderà la sua attrattiva, una volta cementato. In questo movimento di cose corre il filo della allegoria della vanità. Allora, conserviamo il valore, ci aiuterà, anche economicamente».
Magnifico: parli di conservazione dopo aver detto e scritto di rivolta... «Sembra così, ma non è vero. Il nemico è sempre il potere, è lui che pretende di manipolare a suo piacimento il territorio per alimentare i suoi processi di autoconferma. Distruggere fa parte dei suoi modi d’essere, anzi la morte, anche dell’ambiente, rientra nel suo planning».
Va bene, ti riconosco. È la stessa barricata sulla quale lottavi tanti anni fa quando scrivevi, con Coggiola, i testi del rivoluzionario «Io ci ragiono e canto» per Fo. Ma forse oggi la realtà è meno ospitale per questi mondi di idee bellissime...«Ancora una volta, mi basta, ci basterebbe la Costituzione. L’articolo nove della Carta fa esplicito riferimento a questi casi quando afferma: “la Repubblica tutela il paesaggio storico e artistico della Nazione”. Ma chi darà ai Comuni la forza morale di rispettare questo mandato mentre mancheranno perfino i soldi per i servizi sociali? Facciamo quello che possiamo, così con la nostra associazione “Ernesto Ragazzoni” in difesa del lago d’Orta. Il 27 agosto inauguriamo una mostra sui mostri, gli ecomostri che già ci sono, 26 pannelli esposti in centro a Orta, foto e didascalie. Devo dire che non siamo inutili: siamo riusciti a spuntarla più di qualche volta. È bene che la gente lo sappia: se si muove, per la speculazione è tanto più dura, difendiamo il territorio».
Già sentita: non è la Lega che sta facendo di questo slogan la sua piattaforma politica? «La Lega... siamo su mondi diversi. Quando i figli del Carroccio neppure sapevano di esistere, io e altri con me, sostenevamo l’importanza decisiva dei dialetti. Ci rifiutavamo anche di intenderli come tali, erano e sono vere lingue. Ma pensare di inserirli come materia di studio nelle scuole significa non aver capito niente di niente. Dialetto è libertà, è strada, è casa, militarizzarlo in una scuola è come voler mettere le mutande a uno che da millenni se la cava benissimo senza. Una idiozia. Poi, all’università, e in certi modi, si può parlarne...»
Zaia, il governatore del Veneto, sostiene che la Lega promuove la complessità anche del linguaggio... «Beato chi ci crede, ma ci crede nessuno: vanno forte proprio perché garantiscono formule semplificatrici, riduzioniste. La complessità sta nella loro inconfessata volontà di potenza, non nel breviario che adottano per conquistare potere. Ma ogni tanto, capita che si schierino dalla parte giusta, difendendo l’ambiente e le sue caratteristiche. Capita. Strano ma vero, benché la nostra associazione sia davvero non partitica, non c’è neppure un leghista adesso che mi ci fai pensare».
CESARE BERMANI
Lo storico che ha ascoltato la ricchezza delle fonti oraliStudioso delle fonti orali, è tra i fondatori dell’etnomusicologia italiana. Nato a Novara, è stato segretario della Fgci fine anni 50. Dal 62 partecipa alle ricerche di Gianni Bosio e Roberto Leydi insieme a Luciano Berio. Ha lavorato anche a testi teatrali come «Ci ragiono e canto», regia di Dario Fo. Nel 65 ha cofondato l’Istituto De Martino, il più importante archivio italiano di testimonianze sonore del mondo operaio e popolare.
Trenta milioni di spesa per una metropolitana che non vedrà mai la luce. Succede a Parma dove il Comune ha rinunciato ad un progetto approvato e finanziato. Sullo sfondo i movimenti di una cricca molto sospetta.
A Parma la procura apre un’inchiesta sul caso del metro leggero, opera prima progettata, poi finanziata dal governo, ma che non verrà mai realizzata. L’indagine punta su possibili appalti truccati e all’ipotesi di danno allo Stato ad opera del Comune di centrodestra. E sullo sfondo di una storia complicatisisima si muove anche un personaggio di primo piano del caso Anemone, Ettore Incalza. Il contestato progetto voluto dall’ex sindaco Elvio Ubaldi, e poi scartata dal suo successore e delfino Pietro Vignali, sembrava ormai essere una pratica archiviata. Invece nei mesi scorsi la Finanza aveva sequestrato documenti al ministero delle Infrastrutture, nel Comune e nella sede della società MetroParma e si era accorta che più di 30 milioni di fondi pubblici saranno comunque spesi per finanziare un progetto che non vedrà mai la luce. Questo perché l’iter dell’opera era già molto avanzato quando Vignali ha gettato la spugna e si è «accontentato» di incassare 80 milioni invece dei 190 previsti per una grande opera sulla quale, da anni, si scontrano l’opposizione di centrosinistra da una parte e le amministrazioni di centrodestra dall’altra.
L’epilogo nella primavera scorsa con un niente di fatto avallato dal ministero. A farne le spese sarà soprattutto la ditta appaltatrice, la Pizzarotti, che incasserà “solo” i 22 milioni della penale, mentre gli altri finanziamenti andranno a coprire le spese sostenute da MetroParma (circa 12 milioni), società costituita per seguire l’iter progettuale. La procura vuole capire se le somme, che verranno rimborsate, sono state gonfiate e se gli incarichi sono stati assegnati regolarmente. Diversi i filoni di indagine, in particolare quello del ruolo ricoperto da Incalza, già coinvolto nel caso Anemone, per due anni dirigente di MetroParma e al tempo stesso consulente del ministro parmigiano Lunardi. «Incalza è diventato amministratore di MetroParma due settimane prima dell’approvazione del progetto definitivo – ha spiegato l’avvocato Arrigo Allegri che ha presentato cinque esposti alla Corte dei Conti – da un lato era consigliere di Lunardi, dall’altro amministratore di MetroParma», sottintendendo con questo un possibile conflitto d’interessi. «Quando Lunardi ha cessato l’incarico di ministro nel 2006 – ha aggiunto Allegri – Incalza è diventato capo della struttura tecnica di missione che per il ministero delle Infrastrutture era chiamata ad approvare i progetti, rimanendo in carica fino al 2008 nella duplice veste di “controllore e controllato”». E questo fino all’aggiudicazione degli appalti per la realizzazione della metro a Pizzarotti, Coopsette e Ccc. Un’ambiguità dei ruoli che potrebbe aprire scenari nuovi e su cui la procura indaga anche se per ora nessuno ha ricevuto avvisi di garanzia e le ipotesi di reato non sono così nitide.
Incalza, un passato socialista e oggi braccio destro di Altero Matteoli, avrebbe acquistato una casa a Roma grazie agli assegni di Anemone. Le indagini della Guardia di Finanza hanno accertato che nel luglio del 2004, una provvista di 520 mila euro messa a disposizione da Anemone e trasformata da Zampolini in 52 assegni circolari dell'importo di 10mila euro ciascuno, pagò l'acquisto di oltre la metà dell'appartamento che Incalza volle per la figlia e suo marito a Roma, in via Gianturco 5: cinque vani con cantina al secondo piano di un palazzo a ridosso del Lungo Tevere a pochi minuti da piazza del Popolo.
Qui l’articolo di Andrea Bui per eddyburg
Gli scavi di Pompei sicuramente necessitano di interventi, ma non tali da chiamare in causa "calamità naturali" o "grandi eventi". Eppure per l'area archeologica lo scorso anno è stato dichiarato lo stato di emergenza, permettendo così alla Protezione civile di emettere delle ordinanze senza il preventivo controllo della Corte dei Conti. La magistratura contabile è intervenuta oggi con una delibera nella quale ribadisce i propri dubbi sulla considerazione di quegli atti come attinenti a una calamità o un grande evento e sulla loro conseguente esclusione dal controllo. Anche se alla fine alza le mani perché parecchie di quelle delibere sono ormai in esecuzione e quindi il controllo "preventivo" di fatto non è più possibile.
Il governo ha sempre difeso invece la scelta di sottoporre gli scavi alle delibere della Protezione civile, che possono derogare dalle leggi ordinarie, chiamando in causa addirittura la pericolosità del Vesuvio, "vulcano ancora attivo". La Corte dei Conti già in passato era intervenuta più volte per contestare la decisione di escludere dalle normali procedure di controllo eventi che poco hanno a che fare con le grandi calamità. Fu il caso per esempio della Vuitton Cup, considerata grande evento e per questo esclusa dai controlli preventivi. E queste come molte altre sono poi finite in una vasta inchiesta che ha preso di mira la Protezione civile e, in particolare, la gestione Bertolaso 1 di emergenze, catastrofi e appalti.
Anche sulla storia degli scavi di Pompei la Corte torna a ribadire che "il dipartimento della Protezione civile non può svolgere qualsiasi attività" ma solo quelle "finalizzate alla tutela dell'integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell'ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi o da altri grandi eventi, che determinano situazioni di grave rischio".
La Corte dei Conti prende allora in considerazione le delibere della Protezione civile, una per una, per sottolineare come in molti casi non rispondano a quei criteri di "grave danno o rischio" che possano giustificare la deroga alla normativa vigente. La Corte contesta, per esempio, l'esclusione dai controlli delle decisioni che riguardano "le opere di manutenzione straordinaria per consentire la piena fruizione dei beni archeologici" o "il piano per garantire l'ordinato svolgimento delle attività commerciali" o "l'organizzazione dei servizi di guida ai turisti" o le modalità di sponsorizzazione. Tutte cose che infatti non sembrano rispondere a quei requisiti di pericolosità o emergenza.
Il governo ha sempre difeso la scelta di sottoporre gli scavi di Pompei a questo regime adducendo tra le motivazioni anche il fatto che "il Vesuvio è un vulcano ancora attivo e pericoloso", come si legge nella stessa delibera della Corte dei conti diffusa oggi che cita appunto anche le controdeduzioni dell'amministrazione. "Pur dando atto che la situazione dell'area archeologica e delle zone circostanti presenta aspetti di criticità - replica la Corte alle considerazioni dell'amministrazione - non sembra che sia possibile ritenere giustificato l'intervento del dipartimento della Protezione civile per iniziative che non possono certo inquadrarsi nel concetto di tutela dell'integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dall'ambiente dal rischio di gravi danni".
Ma alla fine, in un certo senso, la Corte si vede costretta ad arrendersi: "Non può ignorarsi - si legge nella deliberazione - che, di fatto, tutti i provvedimenti di cui è stata chiesta (inutilmente) la trasmissione al controllo preventivo di legittimità hanno già compiutamente esaurita la propria operatività, sicché occorre domandarsi se in tali circostanze abbia ancora senso sottoporre in via postuma quegli atti a un controllo che, per definizione, dovrebbe essere preventivo".
Sul commissariamento di Pompei, in eddyburg:
La fine dei commissari e il naufragio del Mibac
Contro la politica dell’emergenza
L’indiscreto fascino dell’emergenza
Il testo integrale della delibera della Corte dei Conti
Non ho nessuna difficoltà a retrodatare di trent'anni, come chiede Alberto Asor Rosa sul manifesto di domenica, la crisi di sistema che attanaglia l'Italia, se per «crisi di sistema» intendiamo la lunga transizione dalla (cosiddetta) Prima Repubblica a non si sa ancora che cosa, transizione che si è aperta a mio avviso non con Tangentopoli ma con la morte di Moro e tutto quello che di sociale, politico e statuale ne fu coinvolto e travolto. Non è però in questo senso largo che ho parlato, nell'articolo del 31/7 che Asor gentilmente cita, di crisi di sistema. Mi riferivo, in modo più circoscritto, alla crisi di sistema politico che si è aperta con la rottura del Pdl, e che a mio avviso chiude non il trentennio ma il quasi-ventennio che abbiamo alle spalle. Chiude, più precisamente, la risposta che alla crisi del trentennio ha dato l'assetto politico della (cosiddetta) Seconda Repubblica, un assetto caratterizzato dal bipolarismo forzoso di impronta berlusconiana: dal bipolarismo, cioè, nato dall'iniziativa politica con cui Silvio Berlusconi aggregò, nell'ormai lontano '94, la destra tricipite fatta da Fi, An e Lega, costringendo il fronte di centrosinistra a pensarsi e aggregarsi a sua volta come polo più o meno unitario (meno, a causa della sua differenziazione e/o rissosità interna). La successiva torsione bipartitica e bileaderistica Pdl-Pd è stata una variante esasperata di questo schema, tant'è vero che è il bipolarismo, e non solo il bipartitismo, a essere messo in causa oggi dalla rottura del Pdl e relativa nascita, per l'appunto, non di un terzo partito ma di un «terzo polo».
Ora è ben vero che la posta in gioco principale del bipolarismo messo al mondo da Berlusconi è stata la questione costituzionale: da una parte la destra tricipite (tutta, Fini compreso come alfiere del presidenzialismo) all'assalto della Carta del '48, dall'altra, a difenderla, gli eredi dell'arco costituzionale della Prima Repubblica. I quali, va detto e sottolineato, quell'eredità l'hanno gestita in modo a dir poco debole e altalenante: non per vocazione «inciucista», come gli rimprovera dalla Bicamerale in poi il qualunquismo di sinistra, ma per una imperdonabile sottovalutazione dell'attacco berlusconiano ai fondamentali della democrazia, per una scarsa cultura dello Stato di diritto (garantisti non ci si improvvisa), per le continue oscillazioni strumentali sul rapporto fra legalità e politica, per la totale rimozione del nesso che lega, nella nostra Costituzione, questione sociale e assetti istituzionali, per la mai acquisita concezione della laicità dello Stato, e non ultimo per la disinvolta accettazione del rovesciamento operato dalla Lega fra questione meridionale (intesa come questione di eguaglianza nazionale) e questione settentrionale (impugnata come questione di egoismo glocale). E' la storia di questo quasi-ventennio e, in larga parte, della debolezza politica del centrosinistra, della sua difficoltà a riconoscere e a contrastare il «regime» di Berlusconi, dei suoi annodamenti su questioni di lana caprina come quelle sul tasso di antiberlusconismo consentito.
Domanda, la prima delle quattro che vorrei, in amicizia, rivolgere ad Asor Rosa: è a questo stesso arco di forze, a questa stessa generazione politica, a questi stessi eredi alquanto scapestrati del patto del '48 che dovremmo affidarne il rilancio in un «governo di ricostruzione democratica»? Non militano a favore di una risposta positiva le varianti minori - per così chiamarle e senza offesa per nessuno - della sua proposta già in circolazione: novelli Cnl, governi «di liberazione da Berlusconi» e simili, che più che alle intenzioni alte e giuste di Asor Rosa sembrano ispirarsi al principio romanesco dello 'ndo' cojo cojo, da Bossi a Tremonti a Fini purché faccia maggioranza. E a proposito, seconda domanda: dal governo di ricostruzione democratica Asor Rosa esclude, per ragioni del tutto condivisibili, la Lega e Tremonti. Fini invece ne farebbe parte? Posta in altri termini: l'iscrizione di Fini all'arco costituzionale del '48 può considerarsi avvenuta con il suo strappo da Berlusconi? la sua attuale difesa della legalità in funzione anticorruzione cancella il suo silente assenso all'uso dell'illegalità in funzione d'ordine pubblico a Genova 2001? e fra le leggi nefaste da cancellare d'urgenza non ci sarebbe magari, per il governo di ricostruzione democratica, anche la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi? Può darsi che Fini sia davvero diventato, come larga parte della stampa di sinistra sostiene, il baluardo della Costituzione; personalmente sentirei il bisogno di sospendere il giudizo, non foss'altro che per gli evidenti risvolti simbolici che la questione assume per la storia e l'autocoscienza nazionale.
Le mie domande però non si fermano qui. Perché la questione costituzionale, o che è lo stesso la questione democratica, pur essendone gran parte non esaurisce la materia che la «crisi di sistema» di oggi ci mette davanti. In primo luogo: se è vero, come dicevo poco fa, che nella cosiddetta Seconda Repubblica l'attacco alla Costituzione si è avvalso del bipolarismo d'impronta berlusconiana, siamo sicuri che sia possibile, adesso, buttare la cesta e tenersi il bambino, ovvero fare oggi piazza pulita del regime berlusconiano salvaguardando per domani il bipolarismo e il maggioritario? Il ragionamento di Asor Rosa, lo dice lui stesso, sembra puntare a questo, infatti sarebbe il governo di ricostruzione democratica a dover esprimere per le elezioni di fine legislatura una coalizione e un candidato da contrapporre alla prevedibile pulsione revanchista di Berlusconi. Senonché fra questo disegno e la sua realizzabilità c'è di mezzo non solo l'eterno conflitto sulla legge elettorale (da cui, concordo con Asor, la non credibilità di governi di transizione in grado di riscriverla in quattro e quattr'otto); c'è di mezzo il terremoto, già in atto, del sistema politico e delle sigle che lo abitano. E non solo in quell'area perennemente mobile del centro attualmente occupata dal terzo polo. Realismo per realismo, su questo punto ha ragione Massimo Cacciari, quando sostiene che la frana sistemica innescata dalla rottura del Pdl allarga immediatamente le crepe del Pd, obbliga a prendere atto del fallimento della sua costruzione, delinea un ritorno alla distinzione fra due tradizioni, una cattolico-liberale una socialdemocratica. Che nessuno ci obbliga a pensare come un ritorno all'indietro, malgrado la forza d'inerzia della politica italiana spinga in questa direzione: potrebbe ben essere una costruzione in avanti, e perfino la ricostruzione di una sinistra, se solo la si nutrisse di idee e di immaginazione, la si dotasse di gambe, e soprattutto la si pensasse in rapporto al mutamento vorticoso, e da sinistra né visto né pensato, che è intervenuto nella società italiana all'ombra del berlusconismo. E mi stupisce assai che in questo quadro la candidatura di Vendola venga interpretata, da occhi pure molto avvertiti, solo come una cattiva replica tattica del berlusconismo e non anche come una mossa strategica di ridefinizione del campo della sinistra e del centrosinistra.
Per farla breve: la crisi di sistema apre una situazione di movimento, e in una situazione di movimento la prima cosa da non fare è stare fermi (come fin qui, tanto per intenderci, ha fatto il Pd). La seconda, su cui insiste giustamente Alfredo Reichlin sull'Unità di domenica, è ricostruire una ragion d'essere sociale e culturale delle sigle politiche, senza la quale qualunque gioco di riordino del campo è a somma zero. La terza - vengo all'ultimo dei punti posti da Asor Rosa - è, per usare la formula di Ilvo Diamanti su Repubblica di ieri, non avere paura delle elezioni. Non averne paura non significa chiederle, né tantomeno farne una parola d'ordine: significa non farsi paralizzare dall'ansia di evitarle, e attrezzarsi ad affrontarle. Non solo perché a mio avviso è sbagliato dare per scontata un'altra vittoria di Berlusconi: il quale lo sa, e perciò oscilla fra minacce di sfracelli e tentativi di ricucitura, appelli al popolo e manovra parlamentare. Ma soprattutto perché è nel vivo della battaglia politica che le forze in campo sono obbligate a ridefinirsi e a reinventarsi. Certo sarebbe meglio, molto meglio, se la battaglia politica fosse pratica quotidiana soggettiva e non scadenza quinquennale o biennale imposta dal Cavaliere; ma non è colpa di nessuno, o meglio è colpa di tutti, se la democrazia italiana è stata ridotta a democrazia elettorale. Non mettiamoci a invocare le elezioni come fossero il lavacro delle nostre inadeguatezze. Ma non mettiamoci nemmeno a scongiurarle come fossero il giudizio di Dio che ci condanna all'inferno.
Pochi giorni fa l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che riconosce l’accesso all’acqua come diritto fondamentale di ogni persona. L’anno scorso il Parlamento europeo ha parlato di un diritto fondamentale di accesso ad Internet. Apparentemente lontane, queste due importanti prese di posizione di grandi istituzioni internazionali si muovono sullo stesso terreno, quello dei beni comuni, attribuiscono il rango di diritti fondamentali all’accesso di tutti a beni essenziali per la sopravvivenza (l’acqua) e per garantire eguaglianza e libero sviluppo della personalità (la conoscenza).
Nell’ottobre del 1847, quattro mesi prima della pubblicazione del Manifesto dei comunisti, Alexis de Tocqueville gettava uno sguardo presago sul futuro, e scriveva: «Ben presto la lotta politica si svolgerà tra coloro che possiedono e coloro che non possiedono: il grande campo di battaglia sarà la proprietà». Quella lotta è continuata ininterrotta e il campo di battaglia, che per Tocqueville era sostanzialmente quello della proprietà terriera, si è progressivamente dilatato. Oggi sono appunto i beni comuni – dall’acqua all’aria, alla conoscenza, ai patrimoni culturali e ambientali – al centro di un conflitto davvero planetario, di cui ci parlano le cronache, confermandone la natura direttamente politica, e che non si lascia racchiudere nello schema tradizionale del rapporto tra proprietà pubblica e proprietà privata.
Tra India e Pakistan è in corso una guerra dell’acqua; in Italia la questione dell’acqua è divenuta ineludibile dopo che un milione e quattrocentomila persone hanno firmato la richiesta di un referendum; il parlamento islandese ha deciso che Internet debba essere il luogo di una libertà totale, uno sterminato spazio comune dove sia legittimo rendere pubblici anche documenti coperti dal segreto. Il tema dei beni comuni segna davvero il nostro tempo, e non può essere affrontato senza una riflessione culturale e politica.
Un misero esempio italiano di questi giorni ci mostra l’inadeguatezza degli schemi tradizionali e i rischi che si corrono. Da poco dichiarate dall’Unesco patrimonio dell’umanità, le Dolomiti sono oggetto di una mortificante contabilità, che sarebbe ridicola se dietro di essa non si scorgesse lo sciagurato "federalismo demaniale" che, trasferendo agli enti locali beni importantissimi, mette questi beni nella condizione di poter essere più agevolmente destinati a usi mercantili o privatizzati o comunque destinati "a far quadrare i conti". E proprio questa eventualità mostra la debolezza dell’argomento, usato per l’acqua, secondo il quale basta che un bene rimanga in mano a un soggetto pubblico perché venga salvaguardato. Non è questione di etichette. È la natura del bene a dover essere presa in considerazione, la sua attitudine a soddisfare bisogni collettivi e a rendere possibile l’attuazione di diritti fondamentali. I beni comuni sono "a titolarità diffusa", appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati anche nell’interesse delle generazioni che verranno. In questo senso sono davvero "patrimonio dell’umanità".
Nel pensare il mondo, e le sue dinamiche, non possiamo sottrarci alla "ragionevole follia" dei beni comuni. Questo ossimoro, che dà il titolo a un bel libro di Franco Cassano, rivela un compito propriamente politico, perché mette in evidenza il nesso che si è ormai stabilito tra beni comuni e diritti del cittadino. Un bene come l’acqua non può essere considerato una merce che deve produrre profitto. E la conoscenza non può essere oggetto di "chiusure" proprietarie, ripetendo nel tempo nostro la vicenda che, tra Seicento e Settecento, in Inghilterra portò a recintare le terre coltivabili, sottraendole al godimento comune e affidandole a singoli proprietari. Per giustificare quella vicenda lontana si è usato l’argomento della crescita della produttività della terra. Ma oggi il nuovo, sterminato territorio comune, rappresentato dalla conoscenza raggiungibile attraverso Internet, non può divenire l’oggetto di uno smisurato desiderio che vuole trasformarlo da risorsa illimitata in risorsa scarsa, con chiusure progressive, consentendo l’accesso solo a chi è disposto ed è in condizione di pagare. La conoscenza da bene comune a merce globale?
Così i beni comuni ci parlano dell’irriducibilità del mondo alla logica del mercato, indicano un limite, illuminano un aspetto nuovo della sostenibilità: che non è solo quella imposta dai rischi del consumo scriteriato dei beni naturali (aria, acqua, ambiente), ma pure quella legata alla necessità di contrastare la sottrazione alle persone delle opportunità offerte dall’innovazione scientifica e tecnologica. Si avvererebbe altrimenti la profezia secondo la quale "la tecnologia apre le porte, il capitale le chiude". E, se tutto deve rispondere esclusivamente alla razionalità economica, l’effetto ben può essere quello di "un’erosione delle basi morali della società", come ha scritto Carlo Donolo. In questo orizzonte più largo compaiono parole scomparse o neglette. Il bene comune, di cui s’erano perdute le tracce nella furia dei particolarismi e nell’estrema individualizzazione degli interessi, s’incarna nella pluralità dei beni comuni. Poiché questi beni si sottraggono alla logica dell’uso esclusivo e, al contrario, rendono evidente che la loro caratteristica è quella della condivisione, si manifesta con nuova forza il legame sociale, la possibilità di iniziative collettive di cui Internet fornisce continue testimonianze. Il futuro, cancellato dallo sguardo corto del breve periodo, ci è imposto dalla necessità di garantire ai beni comuni la permanenza nel tempo. Ritorna, in forme che lo rendono ineludibile, il tema dell’eguaglianza, perché i beni comuni non tollerano le discriminazioni nell’accesso se non a prezzo di una drammatica caduta in divisioni che disegnano davvero una società castale, dove ritorna la cittadinanza censitaria, visto che beni fondamentali per la vita, come la stessa salute, sono più o meno accessibili a seconda delle disponibilità finanziarie di ciascuno. Intorno ai beni comuni si propone così la questione della democrazia e della dotazione di diritti d’ogni persona.
Spostando lo sguardo sui beni comuni, dunque, non siamo soltanto obbligati a misurarci con problemi interamente nuovi. Dobbiamo sottoporre a revisione critica principi e categorie dei passato. Dobbiamo rileggere in un contesto così mutato la stessa Costituzione, quando stabilisce che la proprietà dev’essere resa "accessibile a tutti" e quando, nell’articolo 43, indica una sorta di terza via tra proprietà pubblica e privata. Qui è l’ineludibile agenda civile e politica non di un solo paese, ma di tutti coloro che vogliono affrontare con consapevolezza e cultura adeguate le questioni concrete che ci circondano.
«Più posti barca, ma meno cemento e costi più bassi per una clientela medio-bassa». Così l’assessore all’urbanistica Anna Marson sintetizza il nocciolo politico delle modifiche al master plan sui porti, allegato al Pit, che l’ex assessore regionale Riccardo Conti fece approvare nel 2007. Un nuovo strappo rispetto alle linee di politica urbanistica della precedente giunta guidata da Claudio Martini.
«Vogliamo rivedere la classificazione delle tipologie di porti e approdi e approvare normative che dettino le nuove linee guida sulla portualità turistica», anticipa la Marson al Tirreno. L’idea guida numero uno: «Siamo favorevoli alla massima liberalizzazione di porti e approdi purché non siano invasivi sul piano del paesaggio. Vogliamo strutture con poco cemento», sottolinea l’assessore.
Segue l’idea numero due: «Oggi i costi di un posto barca sono troppo elevati. Ciò è penalizzante per molte persone normali che hanno bisogno di posti a prezzi più accessibili», aggiunge la Marson.
L’esempio viene dalla Francia dove ci sono porti e approdi costruiti con poco cemento, senza il retroporto dei nostri. «In alcune situazioni noi abbiamo delle cittadelle isolate con porto, alberghi e altre strutture ricettive. Questo è un modello che vogliamo ridiscutere per puntare a infrastrutture semplici, non invasive», osserva la Marson.
Sugli approdi turistici la polemica è da anni rovente. C’è chi dice che sono pochi, che la domanda di posti barca è superiore all’offerta e che quindi è necessario costruire nuovi approdi. In questo momento in Toscana le pratiche urbanistiche per nuovi porti che sono in fase molto avanzata, spiegano in Regione, sono tre: Marina di Carrara, Portoferraio e Piombino. La fotografia dell’esistente registra 50 siti tra porti (una ventina) e ormeggi per complessivi 25mila posti barca.
Due anni fa, parlando all’Elba, l’ex assessore all’urbanistica Riccardo Conti spiegò che era «finita l’emergenza» era scattata «l’ora dello sviluppo». Uno sviluppo che puntava anche sulla nautica da diporto.
Il master plan di Conti prevedeva la qualificazione dei porti e dei posti barca: maggiore accessibilità, parcheggi, servizi di qualità. L’idea era quella di puntare a porti di eccellenza. C’è da chiedersi se la qualità e l’eccellenza dell’attuale master plan non collida con il taglio più popolare e spartano che la Marson vuole dare ai porti turistici toscani.
Di contro c’è il partito degli ambientalisti che sostiene che di porti e porticcioli è lastricata la costa toscana. Il rettore della Normale di Pisa Salvatre Settis ha parlato di «coste bombardate dal cemento dei porti turistici».
«Noi vorremmo disaccoppiare i due termini di cemento e porti turistici. La nostra linea è terza rispetto a queste due posizioni. Nel senso che condividiamo l’aumento degli approdi per le barche, ma li vorremmo meno cementificati possibile. Scarni, essenziali. Non le cittadelle che spesso vediamo oggi», spiega la Marson.
Se sul piano edilizio, il neo assessore all’urbanistica sembra aver fatto propria la posizione dei comitati anti-ecomostri e degli ambientalisti, per quanto riguarda i porti turistici la revisione annunciata dell’attuale master plan di contiana memoria si muove, guardando al modello francese, come una terza strada tra ambientalisti e sviluppisti. Ipotizzando uno sviluppo a basso uso di cemento. Senza cittadelle e cattedrali in riva al mare. Puntando ad una clientela medio-bassa.
Ma nello sfondo l’interrogativo è se un modello così sobrio possa attrarre capitali. Se senza cittadella un porto turistico possa essere fonte di business. E quindi in grado di attrarre l’interesse degli investitori. L’interrogativo richiama la cittadella viola di Firenze. La Regione e la Marson vorrebbero che in essa venisse costruito solo il nuovo stadio. Diego Della Valle controbatte che lo stadio da solo non porta soldi. Occorrono alberghi, centri commerciali, musei ed anche ristoranti. Così per i porti: basta il posto barca? O per creare business occorrono anche alberghi e ristoranti? Questo è il senso forse della sfida che la Marson dovrà affrontare per far approvare le sue revisioni del master plan: è possibile il business senza il cemento?
«A dare il segno di una democrazia malata, di una democrazia degli “urlatori”, c’è l’uscita della ministra della Pubblica Istruzione e dell’Università, Mariastella Gelmini, che propone di dare la laurea ad honoris causa ad un politico, Umberto Bossi che usa sistematicamente linguaggi e segni volgari e irriverenti. Una volgarità aggressiva, minacciosa, inquietante, che ben si coniuga con la strategia di occupazione dei grandi mezzi di comunicazione realizzata dal Cavaliere...». A sostenerlo è Nadia Urbinati, politologa e docente alla Columbia University.
Per aver sostenuto che occorreva «liberarsi di Berlusconi», il segretario del Partito Democratico è stato fatto bersaglio di una aggressione mediatica da parte di numerosi esponenti del Governo e della maggioranza. Ma che democrazia è questa? «È la democrazia di chi ha vinto e ora non vorrebbe più perdere. È chiaro che Bersani ha utilizzato una espressione colorita, gergale, di quelle che si usano nel parlare quotidiano. Del resto, le campagne elettorali hanno sostituito le campagne militari, e quindi si usa molto spesso lo stesso linguaggio per parlare di “battaglie”... È evidente che chi è al Governo ha voluto prendere alla lettera quelle parole gridando allo scandalo, pur sapendo che lo scandalo non c’era proprio, tanto più che a scandalizzarsi sono gli stessi ben usi al linguaggio violento. A dimostrazione di questo c’è l’uscita della ministra della Pubblica Istruzione e dell’Università che ha proposto di conferire la laurea honoris causa a un politico che usa sistematicamente linguaggi e segni volgari e irriverenti...». Il riferimento è al ministro e leader leghista, Umberto Bossi...
«Certo che sì. Al ministro che non trova di meglio che fare il segno del dito medio ai giornalisti che gli chiedevano se si andava verso le elezioni anticipate. Non è un gesto isolato. Da quando Bossi e i suoi attuali alleati di Governo sono entrati sulla scena politica, a partire dagli anni Novanta, hanno contribuito pesantemente a cambiare in peggio lo stile e il contenuto del linguaggio politico...».
È dunque la politica degli urlatori che è stata imposta? «Sì. E probabilmente sembra che paghi, visto che Berlusconi la ritira fuori ogni volta che annusa aria di crisi... La strategia dell’urlo, del parlarsi addosso, la politica di chi grida più forte fa bene, e va bene, a coloro che non hanno contenuti da proporre o che, con le urla e gli insulti, cercando di mascherare il vuoto di contenuti politici, mentre la strategia dell’urlo non fa il gioco di coloro che basano il proprio successi con il pubblico sulla deliberazione ragionata».
Nel frattempo, il presidente del Consiglio si prepara alla campagna di autunno condotta a colpi di talk show urlati e a senso unico... «È una mossa prevedibile, perché a leggere i giornali di questi giorni, si possono individuare i due scenari a cui il Cavaliere sta lavorando...».
Quali sarebbero questi scenari? «Berlusconi si prepara a tenere aperta la possibilità, usata come arma di ricatto nei confronti dei “finiani”, delle elezioni anticipate. E al tempo stessi, continua le trattative di palazzo. Quello che tra i due scenari risulterà essere più conveniente per lui, verrà perseguito. Come Berlusconi ha sempre fatto».
Esistono gli anticorpi contro questa democrazia degli urlatori? «Sì e no. Sì se guardiamo a livello istituzionale e costituzionale: su questo terreno gli anticorpi esistono e sono già attivi, come ha più volte rimarcato il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. La risposta, purtroppo, è negativa per quanto riguarda i potere dell’opinione pubblica. Le ragioni le conosciamo...».
Ma è bene ricordarle a fronte di una dissolvenza della memoria collettiva che viene scientemente perseguita dai fautori della democrazia dell’urlo... «Alla base c’è la commistione tra informazione e potere politico della maggioranza berlusconiana-leghista e potere economico. Quello dell’informazione è sempre più terreno di conquista per un potere insaziabile piuttosto che essa stessa, l’informazione, un potere moderato. Questo è il problema più grave della democrazia italiana, e probabilmente sarà quello sul quale e per mezzo del quale il Cavaliere intenderà giocare la partita anche in questa occasione. Del resto, è sufficiente prestare attenzione ai direttori delle maggiori testate dei Tg nazionali per comprendere quanto deboli siano gli anticorpi in questo potere straordinariamente forte che è, o dovrebbe essere, l’opinione pubblica in una democrazia».
«Democrazia degli urlatori», abbiamo detto. Quale altra definizione può dare conto della situazione italiana oggi? «Non userei la parola democrazia così facilmente: perché democrazia implica discutere per comprendere e decidere, e non sopraffare l’avversario con aggressività e arroganza. Come chiamare un regime che usa amplificare la voce invece della ragione?».
La democrazia dell’urlo è un accidente temporaneo del sistema italiano in questo momento storico o è un’anticipazione di ciò che saranno le future democrazie mediatiche? «Una democrazia che si regge sul potere pervasivo e controllato dei mezzi d’informazione, rischia di essere una democrazia fatta di spettatori passivi, che assistono ad uno spettacolo condotto da altri, senza la possibilità di svolgere il loro ruolo di stimolo, di critica e di controllo in quanto cittadini e non semplicemente come spettatori. È la democrazia del cittadino che viene sopraffatta dalla “democrazia dell’audience”. Da attori a spettatori: una involuzione che non può non destare allarme...».
Riusciremo a riconquistare un tono di voce normale? «Bisognerebbe che chi mette in scena la democrazia dell’urlo non trovasse partner o chi faccia loro da spalla...».
È una critica all’opposizione? «È un invito più che una critica. Occorrerebbe riuscire a coprire un ruolo più dignitoso di quello di interlocutori in un gioco delle parti già stabilito nei toni, nei modi e negli esiti».
Ma negli altri Paesi democratici dell’Occidente, vince chi urla? «Penso che questo più che altro sia un problema italiano, a giudicare dalle trasmissioni politiche condotte in altri paesi europei o negli Stati Uniti, dove Fox News è stata immediatamente definita “Tv propaganda”, proprio per i suoi Tg calibrati sulle idee del Partito repubblicano. Saper distinguere tra informazione e propaganda è un indicatore del successo o meno della democrazia dell’urlo».
NADIA URBINATI, POLITOLOGA
DOCENTE ALLA COLUMBIA UNIVERSITY DI N.Y.
Titolare della cattedra di Scienze Politiche alla Columbia University, ha scritto importanti saggi sul pensiero democratico e liberale contemporaneo e sulle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Negli Usa è condirettrice della rivista «Constellations». Tra i suoi libri, ricordiamo «Ai confini della democrazia. Opportunità e rischi dell’universalismo democratico» (Donzelli, 2007).
Le modifiche introdotte nella manovra dividono enti e sovrintendenze sull'efficacia della riforma.
Sono entrate in vigore il 3 agosto, insieme alle altre norme della manovra 2011-2012, le modifiche alla legge 241/1990 con la riforma (l'ennesima) della conferenza di servizi. L'obiettivo è evitare che l'assenza di qualche amministrazione (compresi i soprintendenti, esclusa la Via) o un parere incompleto delle Pa di tutela possa impedire la chiusura dell'iter. Molti i consensi a questa riforma dai soggetti responsabili di Regioni e provveditorati alle Opere pubbliche. I soprintendenti però sottolineano: paradossalmente i nostri poteri potrebbero rafforzarsi. E il ministero delle lnfrastrutture frena: sarà difficile scavalcare i Beni culturali. La stessa storia della 241 è d'altra parte lastricata di riforme mancate. Sul fascicolo «Commenti e Norme» il testo della manovra 2011-12 con le note agli articoli interessanti per l'edilizia, il tabellone di sintesi e i commenti.
La conferenza di servizi sembra a volte assomigliare a Scilla, il mostro mitologico a più teste che blocca insieme a Cariddi il passaggio alle navi di Ulisse. Appena si taglia una testa, si rimuove un ostacolo che frena la chiusura dell'iter, ne spunta un altro.
POTERI DI VETO, LA STORIA.
Prendiamo l'esempio del potere di veto delle singole amministrazioni. La conferenza di servizi nacque nel 1990 con il principio dell'unanimità. Nel 2000 si cambia, consentendo di chiudere la conferenza anche «a maggioranza». Per : 1) il Consiglio di Stato aveva già chiarito nel 1997 che alle opere di interesse statale si deve applicare il Dpr 383/1994, che continua a stabilire il principio dell'unanimità; 2) non si sa come calcolare i voti (numero di enti? numero di abitanti?), e dunque la norma resta inattuata. Nel 2005 ci si riprova, stabilendo che la conferenza sì chiude sulla base delle «posizioni prevalenti». Tuttavia: 1) continua a essere non chiarito il metodo di calcolo delle posizioni prevalenti ; 2) la giurisprudenza va sostenendo che la conferenza non può superare il dissenso di un Comune sulla localizzazione urbanistica di un'opera; 3) restano escluse le opere di competenza statale. Nel 2009, infine, modificando il Dpr 383/1994, si estende la norma sulla chiusura a posizioni prevalenti anche alle opere di interesse statale. Ma che succede? Si rafforza di fatto il potere delle Regioni, che finiscono quasi sempre per spalleggiare i Comuni.
NOVITÀ 2009. UN BILANCIO
A spiegare il paradosso è uno dei principali responsabili di conferenze di servizi al ministero delle Infrastrutture, che non vuole essere citato: «La chiusura a posizione prevalente racconta l'abbiamo applicata subito, dopo la legge 28 gennaio 2009, n. 2. Mentre prima le conclusioni le tiravamo noi, ora la decisione va presa insieme alle Regioni, il cui ruolo si rafforza». L'intesa della Regione resta indispensabile infatti, scavalcabile solo con rinvio al Consiglio dei ministri. «Sono capitati spiega casi di dissenso, e li abbiamo superati con il concerto della Regione. Il potere di veto in teoria è sparito, ma in pratica le Regioni tendono a coprire le rivendicazioni dei Comuni». Poi resta il nodo della competenza dei Comuni nella localizzazione urbanistica di un'opera. «Non possiamo scavalcarla» ci dice ad esempio Silvano Vernizzi, direttore Infrastrutture della Regione Veneto, sub-commissario per la terza corsia A4 Mestre-Trieste. Che aggiunge: «Non abbiamo mai chiuso una conferenza a parere prevalente. Se serve una variante il Comune dissenziente non la fa, e poi non si può procedere. Se l'opera non è in legge obiettivo i Comuni di fatto continuano ad avere potere di veto. Molte nostre opere stradali sono bloccate per questo». «La localizzazione urbanistica spiegano però al Ministero per noi è scavalcabile. Sempre però d'intesa con la Regione». E così si rientra nel circolo Vizioso. Chi continua a credere, invece, nella riforma del 2009 è Autostrade per l'Italia: «E stata una novità per noi importantissima spiega Gennarino Tozzi, direttore Nuove opere che ha tolto il potere di veto agli enti locali e fa anche da deterrente nel moderare le loro richieste». «Nell'ultimo anno tuttavia racconta non ci sono capitati casi di dissenso».
L'ULTIMA RIFORMA
Le novità, contenute nella manovra (scheda qui sopra, testo e commenti su «Commenti e Norme») hanno soprattutto l'obiettivo di consentire di chiudere la conferenza anche se qualche ente è assente, o esprime pareri interlocutori. Sono in molti a sottolineare l'importanza della novità. «Sono innovazioni che aspettavamo da tempo» dice ad esempio Donato Carlea, provveditore alle Opere pubbliche Campania-Molise: «E molto frequente che ci siano assenze o pareri confusi in conferenza di servizi. Da parte di chi? Soprintendenze e assessorati regionali. Ora non avranno più alibi». D'accordo Mario Rossetti, direttore Infrastrutture Regione Lombardia: «Sì, capita di frequente che ci siano assenze, soprattutto da parte degli organismi statali di tutela. La norma dovrebbe superare queste inerzie». Sulla stessa linea Silvano Vernizzi: «Obbligheranno le soprintendenze a esprimersi, o altrimenti si potrà andare avanti. Capita di frequente che non si presentino». Ma i soprintendenti si difendono con il coltello fra i denti: «Siamo sommersi di conferenze di servizi racconta il sovrintendente ai Beni architettonici e paesistici della Lombardia, Alberto Artioli i Comuni la convocano anche per sistemare una roggia! Siamo sommersi di pratiche poi dalla norma in vigore dal gennaio, che ci obbliga a dare pareri vincolanti su tutte le pratiche paesistiche (anziché delegarle ai Comuni come in precedenza, ndr). Ma per ora reggiamo l'urto».
Ancora più agguerrito un sovrintendente donna di un'area a elevato valore architettonico paesistico (che non vuole essere citata): «Se qualcuno pensava che con quella norma avremmo allentato i controlli, beh è avvenuto il contrario: ora controlliamo tutto direttamente!». «C'è un abuso di conferenza di servizi, e spesso chi la convoca non rispetta i tempi di legge (15 giorni dalla convocazione), o manda tardi la documentazione, o la manda incompleta e illeggibile. Vorrà dire che anziché chiedere il rinvio per rispettare la legge manderemo il parere negativo per mancanza di documentazione. Anziché semplificarsi, le cose rischiano di complicarsi». «Tuttavia aggiunge la norma potrebbe anche essere positiva. Può essere vero che qualche mio collega non si esprime per non assumersi la responsabilità. Ora invece sarà costretto a farlo, e dunque il nostro controllo sarà più forte». Scettico sull impatto della norma anche il nostro dirigente al ministero delle Infrastrutture: «o i miei dubbi che si possa chiudere la conferenza senza il parere delle soprintendenze. C'è una tutela costituzionale, il rischio ricorsi sarebbe enorme».
L'anomalia italiana continua a produrre i suoi effetti, in genere catastrofici. Un regime indegno come quello berlusconiano non vacilla, come sarebbe logico, per i colpi infertigli da un'opposizione degna di questo nome (e in tale categoria non comprendo solo la «sinistra» moderata e soi disant riformista, ma anche quella soi disant estremista e radicale), ma per interno spappolamento: perché Berlusconi ha potuto tutto o quasi tutto in Italia, ma non crearsi un partito a propria immagine e somiglianza (e questo dovrebbe dirla lunga sui limiti politici dell'uomo).
Se questo è il quadro, sarebbe ragionevole, come ha già fatto Ida Dominijanni su queste colonne, parlare di una crisi di sistema piuttosto che di una, sia pure assai consistente, crisi politica. È pur vero, tuttavia, che in questa crisi di sistema, che in ogni caso, se intesa come tale, è indubbiamente di più lunga durata (almeno trent'anni, direi), ci sono forze che già si muovono per portare acqua al proprio mulino, che potrebbe non essere, anzi di sicuro non è il nostro.
In questa infelice situazione, che nelle sue condizioni date non è modificabile da nessuno che più o meno la pensi come noi, io ipotizzo che il calcolo che andrebbe fatto è: qual è il massimo vantaggio possibile che possiamo tentare di trarre dal presumibile svolgimento degli eventi, la maggior parte dei quali non dipende minimamente da noi? Con tutte le riserve e le prudenze del caso, articolerò il mio discorso in punti schematici, ognuno dei quali potrebbe essere valutato separatamente da tutti gli altri e accettato o rifiutato in base persino a considerazioni contrapposte. Può darsi (lo dico del tutto seriamente) che il metodo sia da considerare in via di principio del tutto inadeguato; ma il puzzle è così complicato da imporci comunque strumenti un po' diversi da quelli a noi tradizionalmente consueti.
1. Se le cose stanno così - e questo mi sembra davvero difficile contestarlo - è evidente per me che raccogliersi intorno alla parola d'ordine delle elezioni anticipate risulta ai nostri fini del tutto insensato. Innanzi tutto perché le elezioni anticipate verranno decise da altri, e cioè da chi può, nel momento in cui più gli converrà. In secondo luogo, per il motivo già detto: l'estrema debolezza attuale del centro-sinistra nel suo complesso, la sua incapacità (impossibilità) di formulare una proposta di governo quale che sia, senza la quale, non dimentichiamolo, nessuno può andare ragionevolmente a una consultazione elettorale. Prima di gridare al voto, bisognerebbe chiedersi quali passi fare, con chi e perché. Stupisce che anche Vendola sprechi il suo consenso, forse non del tutto meritato ma di sicuro non del tutto ingiustificato, su di una parola d'ordine del genere.
2. Cosa fare, con chi, come e perché: questi sono gli interrogativi. È perciò che, come la richiesta demagogica ed estremistica del voto anticipato, così la proposta del governo tecnico e/o di transizione fa ridere. Cerchiamo d'immaginare lo scenario: un certo numero di forze si mettono insieme al solo scopo di difendere il bilancio dello Stato e cambiare la legge elettorale (fra l'altro nessuno sa come: tornerò brevemente su questo punto). Poi il Governo, fatto il suo dovere, si scioglie, ognuno va di nuovo per conto proprio, quelli di centro-sinistra tornano presumibilmente in un centro-sinistra ricomposto non si sa come e quelli del centro-destra presumibilmente in un centro-destra ricomposto non si sa come. Quelle forze saranno inevitabilmente votate dalla loro inconcludenza e inconsistenza alla sconfitta di fronte all'offensiva revanchista del Cavaliere «tradito». E noi - noi «di sinistra» - cosa ne ricaveremo? Nulla, meno che nulla.
3. La mia tesi dunque è che dovremo essere noi a proporre un progetto e un programma di governo, inserendoci nell'attuale bailamme con una proposta concreta (non è detto che la proposta vada a buon fine, anzi è probabile il contrario, ma almeno si vedrà di che pasta son fatti i nostri interlocutori). Si tratta di un Governo né provvisorio né transitorio, ampiamente giustificato dalle attuali condizioni di eccezionale emergenza in cui è a rischio la sopravvivenza non solo del sistema politico italiano ma del sistema Italia: un Governo destinato a occupare lo spazio restante della legislatura; e, se funziona, a presentarsi con una propria proposta al paese (e non solo al Palazzo) e un proprio candidato alle prossime elezioni, che è l'unico modo per vincerle contro l'inevitabile, furibondo ritorno berlusconiano. Io lo chiamerei «Governo di ricostruzione democratica» e da questa definizione farei discendere tutto il resto.
4. Questo Governo dovrebbe essere contraddistinto da alcune caratteristiche elementari, e al tempo stesso sufficientemente peculiari, e cioè: a) dalla netta e conclamata cesura rispetto a tutta l'esperienza berlusconiana, ai suoi uomini, alle sue forze, al blocco sociale che finora l'ha sostenuto (per questo, anche se non solo per questo, credo che, almeno in questo momento, la Lega non sia recuperabile neanche parzialmente); b) dalla rapida cancellazione di tutti i decreti, leggi, misure governative intesi a garantire l'impunità dei politici e del Governo, a partire dall'ineffabile Cavaliere; c) dalla ricostituzione immediata delle condizioni minimali di uno Stato di diritto, la separazione dei poteri, l'indipendenza della magistratura, la sovranità del Parlamento; d) dall'immediata promulgazione di una legge sul conflitto d'interessi e sul sistema dell'informazione e comunicazione; e) dal rilancio vigoroso del sistema Italia, cioè dell'idea e unità irrinunciabili del paese; f) dall'inizio di una politica socio-economica che, in netta controtendenza rispetto a quella tremontiana, restituisca al paese almeno quello che potremmo definire un normale equilibrio nei rapporti di classe (lo dico per i possibili alleati moderati: se non c'è questo punto, tutto il resto sembrerà aria fritta, e tornerà a prevalere la possente demagogia berlusconiano-leghista); g) da una legge elettorale diversa (la logica del mio discorso propende ovviamente per una soluzione maggioritaria, ma non considero questo punto discriminante).
5. Chi può proporre e tradurre in pratica questo libro dei sogni? Continuiamo a non dimenticare: la situazione è eccezionale, ai limiti di una rottura traumatica. In questa situazione io non so chi sia disposto ad assumersi il carico non irrilevante di un «Governo di ricostruzione nazionale»: so chi avrebbe il dovere di farlo. Dovrebbero farlo tutte insieme le forze che compongono attualmente l'arco costituzionale e che abbiano deciso (se l'hanno deciso) una rottura verticale e di non ritorno rispetto all'esperienza di Berlusconi e del berlusconismo, dall'estrema sinistra al centro moderato, in rispettiva e reciproca funzione di garanzia programmatica e di comportamenti. Solo questa totale amplitudine delle forze, e la loro convergenza su di un programma serio e non strumentale, possono consentire di battere Berlusconi e il berlusconismo.
6. Sulla strada di questo processo s'interpone, oltre che la fiera resistenza del vecchio sistema, anche la forma parzialmente nuova che ha assunto attualmente la crisi interna al berlusconismo (in Italia anche le uscite dalla crisi assumono un segno critico). L'allineamento della nuova formazione finiana a quelle di Casini e di Rutelli prefigura chiaramente un ritorno all'andreottiana «teoria dei due forni», sulla quale l'Italia ha vegetato per decenni. Se ne vedono già i segni e i messaggi. Apro una parentesi.
7. Sono rimasto deluso dalla forma concreta che la «liberazione» di Fini e dei finiani dall'egemonia berlusconiana ha assunto. I think thank della Fondazione Fare Futuro ci avevano promesso ben altro: ma si sa, gli intellettuali servono per indorare le pillole, poi sopraggiunge la politica con le sue ferree leggi. Ma insomma: l'obiettivo finale dell'intera operazione non doveva essere la costruzione di una destra liberale moderna, aperta persino alle acquisizioni storiche ideali e al costume di una certa sinistra - la tolleranza, una legalità umanitaria, i diritti dell' uomo e dell'ambiente - e nella dichiarazione letta da Fini il 30 luglio si afferma che i valori irrinunciabili della nuova formazione sono «l'amore di patria, la coesione nazionale, la giustizia sociale, la legalità» - quasi un programma di centro-sinistra più che di centro-destra - e poi ci si finisce per affiancare in una logica non si sa se tattica o strategica a due formazioni tipiche del vecchio moderatismo clerico-cattolico come quelle di Casini e Rutelli? Mah: in Italia anche i processi nuovi prendono forme antiche.
8. Come che sia, vale la pena di provare: perché dalla dislocazione di queste forze dipende il nostro destino nazionale e l'inizio, auspicabile, di un nuovo processo dentro il quale ne possono succedere di tutti i colori. È dunque al senso di responsabilità degli uomini politici che dirigono la sinistra, il centro-sinistra e il centro moderato (con le sue specificazioni) che bisogna appellarsi. È una strada difficile, anzi quasi impossibile. Ma Hic Rhodus, hic salta: o si adotta questa linea o non ce n'è un'altra. Se non ci si muove, il neocentro moderato verrà inevitabilmente risucchiato verso il berlusconismo. Oppure alleanze a metà, senza pezzi della sinistra o pezzi del centro, saranno sconfitte. E non ci saranno primarie capace di salvarci. E la sinistra andrà in malora per sempre.
9. Se poi, come penso, questa ipotesi verrà guardata da tutti - o quasi tutti - come una trappola da cui prendere le distanze, non resta a noi che non condividiamo (ma che secondo me abbiamo più buonsenso di tutti gli altri), che unirci a quella tendenziale maggioranza d'italiani che non sta più al gioco: e promuovere per il prossimo voto (vicino o lontano che sia) una grande campagna a favore di un'astensione di massa, politicamente irrilevante, forse, ma di grande significato etico-politico.
Se non vogliono starci a sentire, che se la giochino fra di loro. E può darsi in definitiva, al di là persino dei nostri penosi sforzi di elaborazione intellettuale, che questo vuoto della rappresentanza possa essere coltivato come il luogo in cui qualcosa di veramente nuovo è destinato a rinascere.
Alla fine, la rottura fra il presidente del Consiglio e il presidente della Camera è avvenuta sull’elemento che più caratterizza il regime autoritario di Berlusconi: il rapporto del leader con la legalità, quindi con l’etica pubblica. È ormai più di un decennio che il tema era divenuto quasi tabù, affrontato da pochi custodi della democrazia e della separazione dei poteri.
Agli italiani la legalità non interessa, ci si ostinava a dire, né interessano la giustizia violata, la corruzione più perniciosa che è quella dei magistrati, l’obbligo di obbedienza alle leggi, il patto tra cittadini che fonda tale obbedienza. Anche per la sinistra, nostalgica spesso di una democrazia sostanziale più che legale, tutti questi temi sono stati per lungo tempo sovrastruttura, così come sovrastruttura era il senso dello Stato e della sua autonomia.
Fini ha ignorato vecchie culture e nuovo spirito dei tempi e ha guardato più lontano. Ha intuito che uscire dalla crisi economica significa, ovunque nel mondo, uscita dal malgoverno, dai costi enormi della corruzione, dall’imbarbarimento del senso dello Stato. Ha visto che il presente governo e il partito che aveva fondato con Berlusconi erano colmi di personaggi indagati e spesso compromessi con la malavita. Ha visto che per difendere la sua visione privatistica della politica, Berlusconi moltiplicava le offese alla magistratura, alla stampa indipendente, alla Costituzione, all’idea di un bene comune non appropriabile da privati. E ha costretto il premier a uscire allo scoperto: lasciando che fosse quest’ultimo a rompere sulla legalità, sul senso dello Stato, sull’informazione libera, ha provocato un’ammissione indiretta delle volontà autoritarie che animano il capo del governo e i suoi amici più fedeli.
In qualche modo, Berlusconi ha chiesto a Fini e ad alcuni finiani particolarmente intransigenti (Fabio Granata) di scegliere la cultura dell’illegalità contro la cultura della legalità che il presidente della Camera andava difendendo con forza. Non solo: più sottilmente ed essenzialmente, ha chiesto loro di scegliere tra democrazia oligarchica e autoritaria e democrazia rappresentativa. Il capo del governo infatti non si limita a anteporre la sovranità del popolo elettore alla separazione dei poteri e a quello che chiama il «teatrino della politica politicante». La stessa sovranità popolare è distorta in maniera micidiale, a partire dal momento in cui essa si forgia su mezzi di informazione (la tv) che il capo-popolo controlla in toto. La dichiarazione contro Fini dell’ufficio di presidenza del Pdl, il 29 luglio, erge i disvalori come proprio non segreto emblema quando afferma: «Le sue posizioni (sulla legalità) sono assolutamente incompatibili con i principi ispiratori del Popolo della Libertà».
La sinistra non ha avuto né il coraggio né l’anticonformismo del presidente della Camera. Fino all’ultimo ha congelato la presa di coscienza italiana sulle questioni delle legge e della giustizia, ripetendo con pudibonda monotonia che «l’antiberlusconismo non giova al centrosinistra». E per antiberlusconismo intendeva proprio questo: combattere il Cavaliere sul terreno dell’etica pubblica, della legalità, della formazione dell’opinione pubblica attraverso i media. I problemi erano sempre altri: quasi mai erano la tenuta dello Stato di diritto, l’informazione televisiva manipolata, la corruzione stessa. C’erano sempre «questioni più gravi» da affrontare, più urgenti e più alte, prima di scendere nei piani bassi della legalità. L’incapacità congenita della sinistra di vietare a chi fa politica un conflitto d’interessi, specie nell’informazione, nasce da qui ed è destinata a divenire il vecchio rimorso e il vizio assurdo della sua storia. In fondo, venendo anch’egli da una cultura totalitaria, Fini ha fatto in questo campo più passi avanti di quanti ne abbiano fatto tanti uomini dell’ex Pci (lo svantaggio di tempi così rapidi è che le sue truppe sono labili).
Questo parlar d'altro, di cose che si presumono più alte e nobili, è la stoffa di cui è fatto oggi lo spirito dei tempi, non solo in Italia. Uno spirito che contagia anche le gerarchie ecclesiastiche (non giornali come Famiglia Cristiana), oltre che molti moderati e uomini della sinistra operaista. È lo stesso Zeitgeist che in Francia, in pieno scandalo delle tangenti versate illegalmente da Liliane Bettencourt alla destra, spinge politici di rilievo a far propria l’indignazione dell’ex premier Raffarin contro la stampa troppo intemperante: «I francesi e i mezzi di comunicazione sono incapaci di appassionarsi per i grandi temi». Chi chiude gli occhi davanti al marcio che può manifestarsi nella politica sempre vorrebbe che i cittadini non vedessero la bestia, dietro l’angelo e i suoi grandi temi.
Invece l’imperio della legge fa proprio questo: rivela all’uomo la sua bestialità, gli toglie le prerogative dell’angelo. Nel descrivere il Decalogo mosaico, che della Legge è essenza e simbolo, Thomas Mann parla di «quintessenza della decenza umana» (La Legge, 1944). Alla stessa maniera, la quintessenza dell’esperienza berlusconiana è il rapporto distorto e irato con la legge e i poteri che la presidiano: un male italiano che non è nato con lui, ma che lui ha acutizzato. Un male che conviene finalmente guardare in faccia, perché è da qui che toccherà ricominciare se si vuol costruire meglio l’Italia. Se si vuol dar vita a un’opinione pubblica veramente informata, perché munita degli strumenti necessari alla formazione della propria sovranità democratica.
Per questo la dissociazione di Fini dai disvalori del Popolo della Libertà non è una frattura del bipolarismo, né tanto meno un ritorno a vecchi intrugli consociativi. È il primo atto di un’uscita dall’era di Berlusconi, da una seconda Repubblica che non ha riaggiustato la prima ma ne ha esasperato monumentalmente i vizi: ed è un atto che per forza di cose deve essere governato da un arco di partiti molto largo. Il termine giusto lo ha trovato Casini: si tratta di creare un’«area di responsabilità istituzionale», non diversamente dal modo di operare di chi predispose il congedo dal fascismo. Nell’inverno scorso, lo stesso Casini parlò di Cln, il Comitato di Liberazione Nazionale che nel 1943 associò tutti gli oppositori al regime mussoliniano. Spetta a quest’area preparare elezioni davvero libere, dunque creare le basi perché le principali infermità della repubblica berlusconiana siano sanate. In seguito, il bipolarismo potrà ricostituirsi su basi differenti.
In effetti, Berlusconi non è una persona che ha semplicemente abusato del potere. Le sue leggi, le nomine che ha fatto, il conflitto d’interessi di cui si è avvalso: tutto questo ha creato un’altra Italia, e quando si parla di regime è di essa che si parla. Un’Italia dove vigono speciali leggi che proteggono l’impunità. Un’Italia dove è colpito il braccio armato della malavita anziché il suo braccio politico, e dove i pentiti di mafia sono screditati e mal protetti come mai lo furono i pentiti di terrorismo. Un’Italia in cui la sovranità popolare non potendosi formare viene violata, perché un unico uomo controlla le informazioni televisive e perché il 70 per cento dei cittadini si fa un’opinione solo guardando la tv, non informandosi su giornali o Internet.
Un governo che non curasse in anticipo questi mali (informazione televisiva, legge elettorale che non premi sproporzionatamente un quarto dell’elettorato, soluzione del conflitto d'interessi) e che andasse alle urne sotto la guida di Berlusconi non ci darebbe elezioni libere, ma elezioni coerenti con questo regime e da esso contaminate.
Un’abbuffata di cemento. Associazioni ambientaliste Rete dei comitati per la difesa del territorio, Legambiente, Wwf, Comitato per la bellezza, movimento ecologista Terra di Maremma, nonchè singoli esponenti del mondo della cultura e dell’ambientalismo definiscono così il protocollo d’intesa fra il Comune di Capalbio e la Provincia per la sistemazione e valorizzazione della fascia costiera. E dicono: «Con questo piano si stravolge l’assetto paesaggistico, naturalistico e urbanistico della fascia costiera di Capalbio, una delle più integre dell’intera Toscana». Troppe le domande alle quali non c’è ancora risposta, per gli ambientalisti. Che riguardano tutto il piano che interessa la fascia costiera.
Il protocollo d’intesa quindi, per i firmatari del documento, non può passare così come è stato presentato. «Si prevede la costruzione di nuovi casali fra la strada litoranea e il mare ma non solo - dicono - la realizzazione di nuovi parcheggi anche in area dunale sia a Macchiatonda che alla Torba, un nuovo villaggio turistico e un porto al Chiarone, la concessione di nuovi stabilimenti balneari a Macchiatonda e alla Torba, la rettifica della strada provinciale costiera». Interventi che sono stati decisi, dicono, senza alcuna partecipazione pubblica e sostanzialmente in contrasto con il piano strutturale e che porterebbero a gravi conseguenze anche sul turismo che si basa proprio sulla conservazione e la difesa di un territorio ancora esente da pesanti speculazioni immobiliari. Un documento che analizza punto per punto le diverse criticità e che chiede al Comune, alla Provincia e alla Regione un approfondito confronto.
Non convince il piano per il recupero dei poderi alla Sacra. «Se si tratta del completamento dell’appoderamento previsto dalla stessa Sacra negli anni ’30 del secolo scorso - dicono - allora è cosa ben diversa con la costruzione di nuovi edifici abitativi e annessi agricoli, con il conseguente evidente stravolgimento del carico insediativo e dell’attuale assetto urbanistico della fascia costiera a valle della Litoranea e non solo». Anche sul porto turistico al Chiarone, per gli ambientalisti mancano garanzie. Perché ancora, i posti basrca non sono stati definiti. E sempre al Chiarone, non sono ancora state definite le volumetrie del villaggio che sorgerà dietro la duna. Stesso discorso vale per il nuovo parcheggio a Macchiatonda, nelle adiacenze dell’antica Dogana. Opposizione anche al nuovo stabilimento balneare a Macchiatonda, che comporterebbe un’ulteriore urbanizzazione della costa.
la Repubblica
Chi vuole cancellare il Parlamento
di Andrea Manzella
Ci sono in giro grossi (e interessati) equivoci. Che ogni crisi parlamentare debba avere fatalmente una soluzione elettorale. Che ogni dissenso nella maggioranza parlamentare «uscita – come si dice – dalle urne» debba necessariamente portare allo scioglimento delle Camere. Che ogni "diverso" esercizio delle funzioni di rappresentanza parlamentare (quella che la Costituzione vuole «senza vincolo di mandato») rientri nella negativa retorica del "ribaltone"(o del tradimento).
Sono equivoci che hanno radice in un diffuso quanto perverso "credo" illiberale: la scomparsa del Parlamento. La cancellazione delle assemblee parlamentari come luogo di rappresentanza effettiva e concreta della società nazionale. Con la connessa illusione che questa società sia pietrificata e immutabile con il flash del momento elettorale. E che il governo allora eletto ne sia l’unico legittimo rappresentante.
La società cambia, invece, ogni giorno. Non a caso il mito di Proteo domina, da qualche millennio, la politica. Quali ne siano i difetti e gli eccessi (e ce ne sono tanti) il Parlamento, per la sua stessa struttura, non recide mai il cordone ombelicale che lo lega alla mobile società che rappresenta: anche per le sue spinte al mutamento. Perfino nei peggiori suoi momenti, il Parlamento non è mai del tutto auto-referenziale. È sempre il «porticato tra le istituzioni e la società civile», come lo definì, fulmineamente, Hegel.
Non è la stessa cosa per il governo, con le sue separatezze istituzionali. Se l’intermediazione parlamentare viene meno o entra in sofferenza, la diversa volontà governativa non può prevalere come decisione finale. La logica delle democrazie non è fatta di plebisciti, di acclamazioni e di elezioni a comando: fuori della loro periodizzazione costituzionale. Dove non è stato finora così, si sta cambiando. La coalizione liberal-conservatrice in Gran Bretagna ha proposto a Westminster la durata fissa delle legislature: a meno che non ci sia una decisione dei due terzi dei Comuni per lo scioglimento anticipato oppure si constati la impossibilità di formare un governo entro quattordici giorni da un voto di sfiducia.
Ma allora perché, invece, da noi viene così degradata questa funzione di bilanciere del Parlamento? Perché la bandiera dell’elettoralismo è continuamente agitata contro il parlamentarismo? Vi concorrono due false opinioni.
La prima è quella di chi ritiene che l’elettore vota solo per darsi un governo e non anche per darsi un Parlamento. È una tesi rinvigorita dagli artifici contenuti nell’attuale sistema elettorale per creare comunque una maggioranza parlamentare; dalla personalizzazione (per legge) delle coalizioni in campo; dal meccanismo di nomina dei singoli parlamentari (senza vera scelta degli elettori). E, tuttavia, la tesi non sta in piedi. Vi è certo l’esigenza, fondamentale per ogni vitale democrazia, di darsi un governo che governi. Vi è certo la giusta, perdurante necessità popolare di rendere chiara e semplice la politica con scelte bipolari ragionevoli. Ma questi due bisogni democratici non sono in contrasto con la necessità di un vero Parlamento.
Perché il diritto al Parlamento è anche - e forse innanzitutto - il diritto degli elettori che non hanno votato per il vincitore: il diritto all’opposizione. Ma c’è pure il diritto di tutti gli elettori ad avere un governo: anche quando il sistema elettorale, per quanto forzato esso sia, non dia la maggioranza ad una delle forze in campo. Allora è il meccanismo naturale della democrazia che spinge a cercare nel Parlamento le intese e i compromessi possibili tra le rappresentanze di parti fino a ieri contrapposte. Il Parlamento come garanzia di funzionamento della stessa democrazia. È accaduto, appena ieri, in Germania, in Gran Bretagna. L’idea del "voto unico", del Parlamento come ruota di scorta del governo "eletto" è una idea profondamente sbagliata. Non solo perché contro la nostra Costituzione scritta ma perché non corrisponde a come vanno realmente le cose del mondo. Perfino quando vi è un presidente direttamente eletto come in Francia, tutte le ultime riforme costituzionali sono state nel senso di un rafforzamento di istituti e prerogative parlamentari.
La seconda tesi è di chi ritiene che il patto di coalizione elettorale sia immodificabile in Parlamento, a meno che non si voglia ritornare alle urne. Anche qui è evidente l’errore. La realtà dei fatti dice invece che pietrificati nelle loro specifiche funzioni di collante di cartelli elettorali, sono semmai proprio gli accordi di coalizione. Molto spesso: "buoni per vincere, non per governare". Spetta, invece, precisamente a Parlamento e governo rendere politicamente e giuridicamente praticabili quegli accordi.
In tutto questo la retorica del "ribaltone" (il termine che Giovannino Guareschi genialmente inventò: ma per quel 25 luglio...) non c’entra proprio. Non c’entra per il Parlamento che fa il dovere suo. E non c’entra neppure per il governo che si rimpasta o aggiusta il suo programma originario. Siamo nella normale prassi delle democrazie: che vale (dovrebbe valere) per la "prima", per la "seconda" e per ogni Repubblica che sarà dato agli italiani di vivere (sempre, ovviamente, che sia una Repubblica).
il manifesto
Cacciamo Berlusconi ma non teniamoci il berlusconismo
di Alberto Burgio
A Berlusconi che minaccia la fine anticipata della legislatura il Pd risponde con un argomento formalmente ineccepibile: la nostra è una repubblica parlamentare, il presidente del Consiglio non decide dell'esito finale della crisi. Peccato che in questi vent'anni tutte le forze politiche oggi in parlamento abbiano fatto a gara nello svuotare la Costituzione alla quale adesso ci si richiama.
Perché nessuno insorge quando i ministri in carica ripetono che gli elettori hanno eletto questo governo? Perché il nostro paese - unico al mondo - regola da due decenni la propria vita politica (e non solo quella, come dimostra la sistematica violazione dell'art. 11) in base a una Costituzione che non c'è, considerando eversore chi cerca di applicare quella vigente (il presidente Scalfaro fu messo alla gogna per avere avallato la soluzione parlamentare della crisi del primo governo Berlusconi).
L'orgia di decreti-legge e voti di fiducia sui maxi-emendamenti non è un'esclusiva della destra, in questi vent'anni anche i governi di centrosinistra hanno contribuito a declassare le Camere a organi di ratifica. Lo stesso dicasi per le riforme elettorali in senso maggioritario che hanno causato la personalizzazione della politica, la deriva populistica e lo squilibrio di potere a vantaggio dell'esecutivo che Berlusconi sfrutta mettendo a rischio la tenuta del sistema democratico.
Veniamo così al nocciolo del conflitto che in questi giorni divide i partiti: se il governo cade, si deve votare subito o è meglio cambiare prima la legge elettorale? Anche in questo caso sulla posizione del Pd, formalmente impeccabile (la legge è pessima, quanto prima la si cambia, tanto meglio è) pesa un non-detto grande come una casa. A sostegno della proposta di votare al più presto non militano soltanto considerazioni di ordine politico (in materia elettorale nello stesso Pd c'è chi difende il bipolarismo, chi sogna il bipartitismo e chi tornerebbe volentieri al proporzionale) e urgenti ragioni di carattere sociale (la devastazione dei diritti e delle condizioni materiali di vita e di lavoro di milioni di persone, prodotta non già dalla crisi economica, ma dalla sua gestione reazionaria ad opera di un ministro dell'economia che qualcuno, anche nel Pd, vedrebbe con favore alla guida di un governo «di transizione»). A questi dati di fatto si aggiunge un tema su cui non per caso si preferisce sorvolare.
Non risulta che chi in questi giorni mette in cima all'agenda politica la modifica della legge elettorale si interroghi criticamente sulla principale finalità che ha presieduto alle riforme elettorali susseguitesi a partire dai primi anni Novanta. La retorica della governabilità è servita a privare di influenza i settori sociali (a cominciare dal lavoro dipendente) destinati a pagare il prezzo della modernizzazione neoliberista. In vista di questo risultato hanno operato tutte le forze politiche bipolariste, essendo il bipolarismo nient'altro che un sistema dell'alternanza tra opzioni moderate concordi sui fondamentali della politica sociale ed economica (oltre che sulla politica estera).
Oggi siamo alla bancarotta della seconda repubblica. Intanto, nel giro di vent'anni, siamo diventati il paese più ingiusto e diseguale d'Europa. Il paese che registra l'attacco più brutale ai diritti e alle condizioni del lavoro. Il paese meno libero nell'informazione e più privatizzato non soltanto sul piano economico, ma anche sul terreno del welfare e dei beni comuni. E stiamo per battere il record anche per ciò che riguarda la scuola, l'università e la ricerca. Anche per queste ragioni gran parte del paese non va più a votare. Ma di tutto ciò non vi è traccia nelle preoccupazioni di quanti reclamano a gran voce una nuova legge elettorale. Al contrario. Invece di prendere atto dell'implosione di un sistema oligarchico, lo si vorrebbe blindare, utilizzando nuovamente l'ingegneria istituzionale a suon di vincoli e di sbarramenti.
In una battuta, l'idea è allontanare Berlusconi per tenersi stretti i risultati del berlusconismo. Contro questo progetto la sinistra deve tornare alla lotta, ritrovando al più presto unità e chiarezza di intenti. Settembre è vicino e vi è un solo modo per impedire che la crisi politica si chiuda rafforzando le posizioni di chi opera per preservare lo status quo: ridare voce al conflitto, chiamare alla mobilitazione i settori sociali più colpiti dalle politiche neoliberiste a cominciare dai lavoratori ricattati dal padronato, dai giovani destinati a un futuro di precarietà e povertà, e dal popolo dei beni comuni. Se vi è chi continua a concepire la politica come un'arma puntata contro la società, la società può salvarsi soltanto tornando padrona della politica.
Quello di ieri è l'ennesimo incidente disastroso che accade sul sistema infrastrutturale di un Paese il cui governo sembra avere come unica idea quella degli appalti delle Grandi opere e delle Tav. Mentre, infatti, si investe, si discute e ci si accapiglia solo per l'alta velocità, già costata più del triplo del preventivato, si taglia tutto il resto.
Gli interessi che ruotano attorno ad alta velocità e Grandi opere costringono il Paese ad arretrare culturalmente, ecologicamente, programmaticamente e tecnologicamente. Tra l'altro in controtendenza rispetto a tutto l'occidente - e contro ogni logica - si tradiscono sistematicamente i protocolli di sostenibilità siglati con la Ue e l'Unep e, come negli Stati Uniti degli anni '50, si promuovono politiche di incremento del traffico su gomma, sia passeggeri - visti gli aumenti di tariffe sui tratti monopolizzati dai treni ad alta velocità - che merci, per la caduta di investimenti, i tagli e la riduzione di capacità. A tal proposito FerCargo denuncia come il trasporto merci su ferro si sia quasi dimezzato nell'ultimo decennio; soprattutto a causa delle politiche ferroviarie "post-spezzatino" e della gestione Rfi dell'infrastruttura, attenta solo agli spazi Tav e sempre più chiusa all'esigenze del trasporto merci,per cui si chiudono scali e si aumentano tariffe e vincoli.
Nell'Italia ad alta velocità si taglia anche il trasporto locale, per cui diminuiscono fino a sparire spese di gestione e manutenzione (vedi la tragedia odierna). Laddove i sistemi locali e metropolitani su ferro sarebbero essenziali, e non solo nelle grandi città del centro-nord. Invece al sud, dietro l'agitarsi della figurina (anzi della Grande figura) del Ponte sullo Stretto, si negano - fino ad azzerarli - i collegamenti: a parte il calo di investimenti nell'area napoletana (si consolino con l'alta Velocità Napoli-Bari), si registra il taglio dei treni a lunga percorrenza verso Calabria e Sicilia. Le due regioni sono perennemente allietate dalle chiacchiere sul ponte, ma nei relativi territori nel prossimo triennio si prevede di ridurre ulteriormente i trasporti, specie ferroviari, interregionali e interurbani.
Nello stesso Stretto di Messina si inaugura una "metropolitana del mare" sostanzialmente fasulla: è il vecchio servizio di aliscafi lievemente riadattato, ovviamente e prezzi e tariffe molto più cari. Ancora: si prevede di tagliare definitivamente l'attraversamento dello Stretto in treno nel 2012, con relativa chiusura del servizio di traghettamento. Anche i soldi (veri) per il trasporto metropolitano di Catania e Palermo sono stati scambiati con i fondi (falsi, solo annunciati ripetutamente) per il Ponte; insieme a molte altre risorse per infrastrutture ed attrezzature, anche di difesa e consolidamento territoriale.
Catastrofi come quella di ieri non sorprendano quindi, in quanto costituiscono l'ovvio risvolto delle incapaci e insipienti azioni governative. Si dovrebbe avere almeno la decenza e il buon gusto di evitare espressioni di rammarico e inchieste ministeriali per quelli che sono gli ovvi risultati delle politiche attuate.
Caro direttore,
conosco la zona cosiddetta della "ferrovia" (piazza Garibaldi e dintorni) da molti anni. La "abito" da sempre, si può dire, per lavoro e la attraverso come tutti per gli spostamenti cittadini e no. In questi anni, è stato possibile osservare come questo spazio urbano sia diventato sempre più un raccoglitore di una umanità complessa, sofferente, povera e vulnerabile. E mi meraviglia che i discorsi sulla riqualificazione della zona siano solo incentrati sulla tematica del commercio e del parcheggio, quasi si trattasse di uno spazio bianco nel quale disegnare a mano libera. Senza cioè ragionare sulle vite che questi luoghi non si limitano ad attraversarli per prendere un treno.
Provo a essere più chiaro prendendo spunto da un antropologo noto a tanti, Marc Augé che ha definito come non-luoghi quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Sono tra gli altri dei non-luoghi, nella definizione di Augè, le strutture necessarie per la circolazione delle persone e dei beni, quegli spazi in cui le persone si incrociano senza entrare in relazione sospinte dal desiderio di consumare o di muoversi. Da qui viene da dire che la zona della ferrovia è invece un luogo abitato da identità precise che non hanno relazioni solo perché espulse dagli altri spazi della città o perché ai margini del tessuto produttivo e commerciale.
Oggi la zona non è più popolata solo dai senza fissa dimora, da donne e minori stranieri condannati alla prostituzione, tossicodipendenti e parcheggiatori abusivi. Una nuova umanità ha preso vita tra le bancarelle che si affollano nella piazza e nelle sue strade laterali. I migranti si sono organizzati qui in mercati etnici altrove impossibili e sono nati anche negozi e attività da loro gestiti direttamente.
Qui dormono i senza fissa dimora che non trovano accoglienza da parte dei servizi sociali, così come vengono a "farsi" i tossicodipendenti che non hanno alternativa. Le badanti, che rendono possibile l’assistenza ai nostri anziani, altrimenti condannati all´abbandono, hanno la ferrovia come punto di incontro il giovedì e la domenica. Vengono qua perché per molte di loro la città non offre altri spazi e altri luoghi.
Ma tra le bancarelle di ieri è possibile anche riconoscerne di nuove, molte gestite da italiani. Uno di questi, un conoscente di vecchia data che sapevo impegnato in un’attività commerciale "strutturata", mi ha candidamente raccontato del suo fallimento, causa crisi, e del suo tentativo di ripartire. E anche lui riparte da qui, da questo posto che sembra non avere limiti ad accogliere chi è espulso dagli altri luoghi della città.
Ora mi chiedo se è possibile pensare a dare un volto nuovo a questa città e a questa zona, senza pensare di dare una risposta alle vite che la abitano e una difesa alla loro vulnerabilità. Possiamo spostare questo disagio, nasconderlo in qualche altra periferia o raccoglierlo con qualche retata dei vigili urbani. O potremmo, forse, con una diversa politica della città, che rifiuti l’idea della urbanistica della separazione e che non voglia nascondere con una mano di vernice i problemi della città.
Il prolungamento dell’A27 da Pian di Vedoia a Pieve di Cadore potrebbe essere presto una realtà, o così si vuol far credere.
Dovrebbe trattarsi di una infrastruttura lunga 21 km, per metà in galleria, per il resto su rilevato o viadotto, che si svilupperà lungo la stretta valle del Piave affiancandosi alla statale 51 di Alemagna, alle varianti già aperte (alle quali, guarda caso, manca solo il tassello Longarone-Castellavazzo, il nodo più cruciale) e alla linea ferroviaria. Costo dell’opera 1.200 milioni di euro (duemilacinquecento miliardi di vecchie lire!), finanziata da privati (all’inizio si dice sempre così), che puntano sui pedaggi per rientrare con gli investimenti. Lo Stato interverrà con opere complementari. Questo sulla carta.
Il progetto preliminare, denominato “Passante Alpe Adria “, è del luglio 2007 ed è stato presentato a Longarone il 15 luglio scorso. L’elaborato porta le firme Rock Soil, Technital, Idroesse, Hidrostudio; coordinamento progettazione Territorio srl, studio professionale che fa capo all’arch. Bortolo Mainardi (che allo stesso tempo è membro del CDA dell’Anas e della VIA nazionale). La copertura economica è garantita da una proposta di finanza di progetto firmata dalle solite imprese Grandi Lavori Fincosit, Adria Infrastrutture e Ing. E. Mantovani. La concessione avrà una durata di 40 anni a decorrere dalla fine dei lavori.
Alla presentazione del progetto e del relativo Studio di impatto ambientale - redatto dalle stesse imprese proponenti l’opera - sono stati invitati i sindaci dei Comuni direttamente interessati dal tracciato ma, inspiegabilmente, nessun altro sindaco del Cadore, come se la cosa non li riguardasse.
Dalla data di presentazione sono scattati i 60 giorni per le osservazioni, dopo di che sarà la volta della commissione regionale VIA e del CIPE, infine il bando e l’assegnazione dei lavori, che dovrebbero partire nel primo semestre del 2012 per venire completati entro il 2016-17.
Siccome è chiaro a tutti, anche ai bambini, che un’autostrada che finisce alle porte di Pieve peggiorerebbe la situazione della mobilità in Cadore, aumentando le code e intasando la viabilità ordinaria lungo tutta la valle del Boite da una parte e Auronzo e il Comelico dall’altra, contestualmente all’apertura di questo tronco si renderebbe necessario un suo prolungamento, preferibilmente in direzione di Monaco, e proprio a questo mirano Zaia, presidente della Regione Veneto, Muraro e Bottacin,rispettivamente presidenti delle Province di Treviso e di Belluno, nonché le confederazioni degli industriali veneti.
Tutto ciò premesso, cosa centrano la montagna dolomitica, i bisogni e le priorità della gente che vive nelle sue valli? Nulla, a conferma di quello che sappiamo già, cioè che delle Terre Alte e dei suoi abitanti poco importa ai politici di Venezia, di Treviso e – spiace doverlo constatare - anche di Belluno; tutti paladini all’insegna del “Federalismo” e del “paroni a casa nostra” (intendendo per “casa nostra” pure quella degli altri). Montagne, valli, genti, culture (sbandierate, quando fa comodo): in questo caso solo un fastidioso, irrilevante ostacolo fisico da superare. Solo questo. Ad ogni costo.
Sembra di stare in un mondo rovesciato dove le risorse collettive non sono usate per aumentare il benessere dei cittadini (con servizi di trasporto adeguati, sanità all’avanguardia, istruzione di alto livello, infrastrutture tecnologiche) ma dirottati per garantire vecchie rendite di posizione a imprenditori e politici incapaci di innovare e di innovarsi.
I motivi che ci portano a riaffermare che da qualsiasi parte lo si guardi questo progetto non sta in piedi sono, per citarne alcuni:
- l’esigenza, ribadita dall’Europa, di spostare il traffico dalla ruota alla rotaia e di indirizzare gli sforzi economici e tecnologici sulla ricerca di nuovi sistemi di trasporto per persone e merci;
- la Convenzione delle Alpi che impedisce ogni nuovo attraversamento autostradale della catena alpina (anche se l’Italia non ha ancora firmato il Protocollo Trasporti);
- il no deciso di Alto Adige e della stessa Austria;
- il riconoscimento Unesco, non conciliabile con un’infrastruttura così impattante calata sul fragile territorio dolomitico;
- l’urgenza di abbandonare un modello di sviluppo dissipativo che distrugge più valore (economico e sociale) di quello che produce;
- l’arretratezza di un sistema di trasporti pernicioso e insostenibile per quanto riguarda le emissioni che alterano il clima;
- la necessità, dettata dal buon senso, di impedire ulteriore consumo di suolo in un paese dove scompaiono sotto il cemento e l’asfalto 300 metri quadrati di terra al minuto.
A queste ragioni, che da sole dovrebbero convincere a rinunciare al progetto, si aggiunge un problema di insostenibilità economico–finanziaria, che risulta evidente incrociando pochi parametri: costi di realizzazione, flussi di traffico, entità dei pedaggi.
I costi di costruzione sono molto elevati, per le caratteristiche del territorio; i flussi di traffico risultano bassi: lo studio prevede un transito (sul solo tronco autostradale) di 25.000 veicoli al giorno dal 2015, che diventeranno 41.000 nel 2039. Attualmente, se le nostre informazioni sono esatte, nelle domeniche di punta sul Ponte Cadore transitano 11/12.000 veicoli.
Da qui la proposta contenuta nella Bozza di Convenzione inclusa nel Progetto Preliminare che la statale 51 resti a disposizione dei soli residenti, mentre tutti gli altri – mezzi pesanti e leggeri – verrebbero obbligati a percorrere il nuovo tratto autostradale e a pagarne il relativo pedaggio. Allucinante.
Quanto ai pedaggi, riportiamo qui di seguito dal documento di analisi del NUVV (Nucleo regionale di Valutazione e di Verifica degli Investimenti): “.. sotto il profilo tariffario, il pedaggio chilometrico della proposta appare sensibilmente più elevato rispetto ad analoghe infrastrutture autostradali che attraversano regioni montuose e quindi applicano tariffe maggiori in relazione ai maggiori costi di ammortamento delle opere realizzate (gallerie – viadotti) come la A27 nel tratto Belluno - Vittorio Veneto, la A23 nel tratto Tolmezzo – Tarvisio e la A5 nel tratto Aosta – Ivrea, mentre appare più confrontabile con quelli applicati nei trafori del Monte Bianco, del Frejus, del Gran San Bernardo e del Ponte Europa e del Tunnel dei Tauri in Austria”.
Dal Piano Economico si deduce che un autoveicolo per percorrere i 21 km da Pian di Vedoia a Macchietto dovrebbe pagare 6 euro e un mezzo pesante circa 21 euro.
A chi propone un’opera fondata su questi presupposti viene voglia di dire: smettetela una buona volta di farci perdere tempo e denaro e occupatevi delle reali necessità del Paese e del territorio. Ma non è più sufficiente che questa affermazione provenga da PAS Dolomiti o da analoghe realtà a cui sta a cuore la nascita di una vera economia del Benessere: è tempo che si muovano anche le forze politiche più sane, gli amministratori più responsabili, i cittadini più sensibili; i montanari legati alle loro case non ancora violate, alla loro aria ancora pulita, alle loro acque non inquinate.
In altri tempi, di fronte a minacce di questo tipo, i discreti, non violenti abitatori delle valli avrebbero imbracciato i forconi e si sarebbero mossi in direzione di Venezia (ricordate la ferrovia?), facendo magari tappa a Longarone e a Belluno, ma i tempi sono quelli che sono, e il grado di consapevolezza anche, e tutto ciò non si è ancora verificato. Ma non è detta l’ultima parola.
3 agosto 2010
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