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Le mamme vulcaniche hanno vinto: Berlusconi, Bertolaso e la loro corte dei miracoli hanno perso. Ha vinto la lotta dura. Cortei e manifestazioni a ripetizione non avevano ottenuto niente; quando sono bruciati i compattatori, Terzigno è balzata al centro dell'attenzione. Un brutto precedente per il Governo; una indicazione ineludibile per chi ha delle rivendicazioni da portare avanti.

Ora, oltre alla discarica Cava Vitiello, non si farà neppure quella di Serre: due siti su cui il governo Berlusconi si era impegnato addirittura con una legge (unico caso al mondo in cui i siti delle discariche vengono nominativamente indicati per legge). Per questo bisognerà tornare in Parlamento, abrogare la L. 213 (recepimento del DL. 90), o una parte di essa, e farne una nuova. Speriamo che questa volta la cosiddetta opposizione non dia carta bianca al governo come ha fatto nel 2008.

Ma dove porterà Berlusconi i rifiuti che non deve più sversare a Terzigno e a Serre? Poiché le discariche di Ariano Iripino e Savignano (aperte illegalmente da De Gennaro con Prodi), quella Chiaiano (aperta illegalmente da Bertolaso) e quella di Ferrandelle (già esistente, ma inutilizzata all'epoca dell'emergenza del 2008: serviva ad acutizzare la tensione per far vincere Berlusconi; infatti è in terra di camorra) sono quasi piene, bisognerebbe aprire quella del Piano del Formicoso (prevista anch'essa dalla L. 213), ancora da costruire, ma molto capiente; contro cui a suo tempo c'è già stata una mobilitazione popolare, con i sindaci e Vinicio Capossela, tanto da costringere Berlusconi a promettere (come ha cercato di fare anche a Terzigno): «Resta nella lista, ma sarà l'ultima!» Adesso torna a essere la prima.

Perché, al di fuori delle discariche, in venti mesi di poteri straordinari Bertolaso non ha fatto niente; e quello che aveva programmato è demenziale. Che cosa prescrive la L. 213/08? Politiche di riduzione: zero. Raccolta differenziata: al 50% entro il 2010 (il tempo scade!). Ma chi doveva farla? I Comuni. Con che cosa? Con fondi del commissario che non sono mai arrivati (tranne ad alcuni Comuni, che li hanno spesi bene: vedi Salerno, passato dal 7 al 70% in un anno). Ma poi, una volta che il Commissario avesse levato le tende, la palla passava alle Province, che in base alla legge regionale 40 e successive modifiche (in vigore dal marzo 2008) avrebbero dovuto gestire tutto il ciclo dei rifiuti, compreso il rilevamento del personale dei consorzi, addetti - dal 1998 - alla raccolta differenziata. In venti mesi un commissario avrebbe dovuto mettere le Province in grado di farla, la raccolta differenziata: fondi, organizzazione, impianti, personale selezionato in modo da assegnare alla gestione dei rifiuti solo quello adatto per condizioni psicofisiche ed età, destinando ad altre attività - da concordare con la Regione - gli esuberi. Invece, niente. Bertolaso se ne è andato - per poi tornare, con la sua felpa dai bordini tricolore, quattro giorni fa - lasciando dietro di sé il deserto. In compenso Maroni ha commissariato uno dei pochi (in realtà, molti) sindaci che la raccolta differenziata la facevano sul serio, perché si è rifiutato di trasferire le sue competenze a un consorzio assolutamente inefficiente.

Andiamo avanti: trattamento dei rifiuti raccolti. La legge 213 non prevede impianti di compostaggio pubblico: di quelli che già c'erano, uno, quasi pronto (S. Tammaro), era stato usato dal precedente commissario come «deposito temporaneo di rifiuti» e riempito di ecoballe che sono tutt'ora lì; gli altri due non erano mai stati collaudati e ancora oggi non sono in funzione (i comuni virtuosi nella raccolta differenziata dell'organico pagano 200 euro a tonnellata per spedire la frazione in Veneto o in Sicilia). La legge poi prevede la chiusura dei sette impianti ex CDR che dovrebbero dividere la frazione indifferenziata residua (al massimo il 50%, secondo la legge) in secco e umido, stabilizzare quest'ultimo per portarlo in discarica senza produrre odori e infestazioni di ratti, insetti e gabbiani; e avviare a «termovalolorizzazione» (cioè incenerimento) il resto: non più, quindi, di metà della metà dei rifiuti prodotti ogni giorno in Campania (che sono 7.500 tonnellate). Per legge, gli ex CDR (nuovi e costruiti con fondi Ue) avrebbero dovuto essere venduti come rottame, o trasformati in impianti di compostaggio, se un privato, dopo averli liberati dai rifiuti organici non trattati accumulati per anni sulle linee di stabilizzazione (nei cui miasmi erano costretti a lavorare gli addetti), se ne fosse assunto il rischio. Quindi?

Quindi l'intera produzione di rifiuti era destinata all'incenerimento senza selezione o pretrattamento. Per questo la legge 123 prevedeva la costruzione in Campania di ben quattro inceneritori (poi diventati cinque, quando Berlusconi si è reso conto che in un inceneritore «normale» le ecoballe non avrebbero mai potuto venir bruciate): con una capacità di incenerimento superiore a tutta la produzione di rifiuti della regione. L'incenerimento sarebbe stato finanziato dagli incentivi CIP6: quegli incentivi, già prorogati in violazione della normativa europea per l'inceneritore di Acerra (e per questo Impregilo, l'impresa costruttrice, aveva dato le sue ecoballe in pegno, come se fossero barili di petrolio, alle banche; che ora si aspettano il guadagno promesso); gli stessi incentivi che il Pd aveva poi proposto di estendere a tutti gli impianti campani (proposta subito accolta da Berlusconi).

Ma poiché gli inceneritori erano - e sono - ancora da costruire e quello di Acerra non era - e non è ancora - a norma, nel frattempo i rifiuti dovevano per forza andare in discarica; ovviamente indifferenziati, dato che gli impianti di trattamento dovevano essere chiusi. Quando si è finalmente accorto che il ferrovecchio di Acerra non avrebbe mai potuto smaltire i rifiuti giornalieri e i milioni di eco balle che gli erano destinati, Bertolaso, cambiando rotta senza cambiare la legge, ha ribattezzato «Stir» i Cdr, trasformandoli in tritattutto per sminuzzare - senza separazione - i rifiuti indifferenziati prima di mandarli in discarica o ad Acerra: «Merdaccia» chiamava questo materiale Marta Di Gennaro, la collaboratrice di Bertolaso, che li spacciava per rifiuti «stabilizzati» e che per questo era stata prima arrestata e poi salvata dalla Procura di Roma. È proprio il materiale contro cui sono insorti gli abitanti del Parco del Vesuvio.

Allora, siccome tutto sarebbe finito in discariche, la L. 213 ne prevedeva ben 11 (poi diventate 12), di cui: quattro in aree protette (cosa vietata da una precedente legge mai abrogata); due già costruite da De Gennaro, in aree geologicamente a rischio (infatti franano) e uno in area di camorra (famiglia Schiavone), dove avrebbe dovuto sorgere anche il quarto inceneritore. E poiché i rifiuti indifferenziati generano percolato (non «pergolato» come ha detto Berlusconi, che lo ha confuso con il compost), e la camorra ci infila dentro tutte le schifezze che vuole, la legge 213 prevede anche che il percolato possa essere trattato in impianti di depurazione degli scarichi civili (cosa vietata e pericolosissima) e che discariche e inceneritori potessero accogliere anche rifiuti tossici industriali: cosa che è effettivamente avvenuta. Insomma, la gestione Berlusconi-Bertolaso dell'emergenza rifiuti ha moltiplicato il disastro campano, lasciando poi la patata bollente alle Province, ormai governate in gran parte dai satrapi del «premier». E adesso, poveruomo, dove li metterà i rifiuti, per perpetrare il suo «miracolo»?

Poveri campani; altro che poveruomo! Adesso, in attesa degli inceneritori - che, parola di Berlusconi, verranno costruiti in 18 mesi, anche se non sono stati nemmeno progettati in 30 - i rifiuti non trattati e puzzolenti verranno sparpagliati in discariche esaurite - ma in cui si può sempre cercare di stipare qualcosa in più - o illegali (leggi Camorra); a partire da quella di Giugliano, adiacente al più grande deposito di ecoballe di tutta la Galassia. E Bertolaso, che è riuscito a farsi organizzare da Santoro un Anno Zero senza contraddittorio, riprenderà a devastare la Campania; come ha fatto alla Maddalena, all'Aquila, a Giampillieri e in mille altri posti. Fino a che altre mamme vulcaniche, o di pianura, non lo fermeranno: una volta per tutte.

Apripista. Prestanome. Affittacamere. Chiamateli così, quegli imprenditori aquilani i quali, alla ricerca affannosa di affari del post-terremoto, parlano ore e ore al telefono con gli uomini della'ndrangheta. Il calabrese chiede un appartamento per gli operai? Trovato. Il calabrese chiede di entrare in società? Trovato il notaio, società fatta. Il calabrese chiede lavori nella città devastata dal terremoto? Fatto. Accade poi che, un giorno, uno di quei calabresi viene arrestato, con altri 32, in una mega-operazione che riguarda i clan Borghetto-Caridi-Zindato decimati dalla Procura condotta da Giuseppe Pignatone e dalla Mobile di Renato Cortese, l'uomo che arrestò Bernardo Provenzano dopo 43 anni di latitanza, e Giovanni Strangio, oltre a scompaginare il clan dei Piromalli.

LE INTERCETTAZIONI Biasini: "Ho contratti per 1,8 milioni"

Per il gip del tribunale di Reggio Calabria la'ndrangheta ha messo gli occhi, e non solo, sulla ricostruzione dell'Aquila. Infatti, uno dei reati contestati agli arrestati è stato commesso «all'Aquila», si legge in un'ordinanza di 414 pagine del gip Andrea Esposito, «il 26 marzo 2010». Cos'è avvenuto? «Santo Giovanni Caridi e il commercialista Carmelo Gattuso», entrambi arrestati, «in concorso tra loro, al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione, Caridi attribuiva fittiziamente al Gattuso la titolarità del 50 per cento della quota societaria della Tesi costruzioni srl, essendone in realtà Caridi Santo il reale titolare; con l'aggravante di aver commesso il fatto al fine di agevolare la cosca mafiosa Borghetto-Caridi-Zindato di appartenenza del Caridi». La Tesi costruzioni, con sede in via Pescara, è una società della quale è comproprietario l'aquilano Stefano Biasini, poi divenuto amministratore unico.

CHI È BIASINI. Stefano Biasini, che tuttavia non risulta indagato dalla Procura reggina, è un costruttore edile, figlio di un noto geometra. Nato all'Aquila il 18 maggio 1977, è residente a Vasche di Pianola. Titolare della Edil B.R. costruzioni e appassionato di auto di lusso, a leggere le decine di intercettazioni telefoniche nelle quali compare il suo nome è il «gancio» aquilano per i personaggi calabresi. Biasini si dà un gran daffare per consentire a Caridi e al commercialista reggino Gattuso «di inserirsi», si legge nell'ordinanza, «nei lavori di ricostruzione a seguito del terremoto». Per il gip, Gattuso è il prestanome, per conto di Caridi, nell'ambito delle società attive nel territorio aquilano. La complessa vicenda è stata ricostruita da numerose informative della polizia giudiziaria. Caridi è entrato in due imprese «impegnate nell'esecuzione di lavori edili all'Aquila» e affida al commercialista «il subentro in una terza società». Secondo un'informativa riportata nell'ordinanza del gip, «già nel mese di gennaio 2010 Santo Caridi iniziava a intrattenere rapporti di evidente natura lavorativa con il costruttore Stefano Biasini».

L'AFFARE ABRUZZO. Oltre alle estorsioni in Calabria, le cosche reggine erano, e sono, interessate alla ricostruzione post-terremoto. La diversificazione degli interessi, così come avvenuto per i Casalesi nel caso scoppiato la scorsa estate (vedi articolo in alto) sembra trovare, ancora una volta, terreno fertile nel tessuto imprenditoriale cittadino. Secondo quanto emerge dalle carte, Caridi incaricò Gattuso di preparare un piano di sicurezza per l'imminente apertura di un cantiere all'Aquila e specificava che quanto richiesto era necessario proprio per permettere l'avvio delle attività delle imprese facenti capo a Stefano Biasini e Pasquale Giuseppe Latella, quest'ultimo indagato. I contatti dei calabresi con L'Aquila sono continui e costanti. Tra le prime richieste che evidenziano l'interesse di Caridi sull'affare c'è anche la ricerca spasmodica di un appartamento dove poter alloggiare gli operai provenienti dalla Calabria. Secondo quanto si è appreso, sia l'interessamento per reperire l'immobile sia i soldi del contratto di affitto sarebbero stati riconducibili allo stesso Biasini. Per i magistrati, da quel momento, è più che acclarato che Biasini e Latella stessero operando in stretta sinergia e, soprattutto, sotto la «direzione» di Santo Caridi.

La Facoltà di Pianificazione chiede che la sede non sia venduta per farne l’ennesimo albergo

Piuttosto che vendere la storica sede di Ca’ Tron - che ospita la facoltà di Pianificazione del Territorio - perché venga trasformata nell’ennesimo albergo di lusso, o quella di Palazzo Badoer, meglio piuttosto alienare l’area degli ex Magazzini Frigoriferi, «terreno su cui l’Iuav è inchiodato da molti anni per scelte sbagliate del passato (quando il rettore Folin voleva costruirvi una nuova Aula Magna e la sede centrale e cedere l’Aula magna dei Tolentini alla Biennale per mettervi l’Archivio Storico). Terreno sul quale oggi la Fondazione Iuav (con Isp) ha aspettative immobiliariste, salvo poi tentare di trasformarlo in un grande parcheggio (l’Iuav a Venezia!) per “fare cassa”».

E’ la soluzione che prospetta il professor Stefano Boato, nella relazione stesa per conto della Facoltà di Pianificazione del Territorio, in vista della decisione del Consiglio dell’Iuav che potrebbe decidere di vendere Ca’ Tron. Una decisione rinviata qualche giorno fa anche per la protesta degli studenti. Che lo Iuav abbia necessità di fondi è noto da tempo e sul tavolo del rettore Amerigo Restucci e su quello del Consiglio ci sono tre ipotesi: una è la vendita di Ca’ Tron, valutata attorno ai 30,3 milioni di euro; la seconda è la vendita di Ca’ Badoer (26,7 milioni di euro). Quella caldeggiata dagli studenti e dalla stessa Pianificazione è invece appunto la dismissione dell’ area degli magazzini frigoriferi a Santa Marta, del valore di 23,6 milioni di euro.

Lo stesso rettore Restucci - come ricorda anche Boato - si è detto contrario alla vendita di Ca’ Tron, ma esisterebbe invece una possibile maggioranza, legata anche al presidente della fondazione Iuav Marino Folin, a favore a priori alla svolta “immobiliarista” per il cinquecentesco palazzo. Nella relazione Boato fa i nomi di alcuni favorevoli “a prescindere”, come il direttore amministrativo Aldo Tommasin e i docenti Roberto Sordina, Antonio Foscari, Giancarlo Carnevale e Guido Zucconi.

In calce è scaricabile la lettera di Stefano Boato

Caserme e periferie, vince il cemento

Paolo Boccacci, Giovanna Vitale

È finita con l’occupazione della Sala del Carroccio da parte dei movimenti per il diritto all’abitare la maratona notturna in consiglio comunale che ieri, intorno alle due, ha varato con i soli voti del Pdl la delibera di vendita e valorizzazione di 15 caserme dismesse. L’opposizione ha deciso alla fine per il no «principalmente per due motivi», spiega il capogruppo del Pd Umberto Marroni: «Perché questa operazione è viziata sul nascere dall’unico obiettivo di fare cassa, quindi è a rischio speculazione, e per l’inspiegabile bocciatura, da parte di una maggioranza confusa, dell’emendamento relativo al contributo straordinario da affiancare agli oneri concessori a carico dei privati che acquisiranno e trasformeranno gli edifici militari».

E poi nella serata ieri un altro colpo di scena in tema urbanistico. L’assessore Corsini annuncia di aver dato mandato agli uffici, con una memoria di giunta, di aumentare, fino a raddoppiarle, le cubature previste nelle otto Centralità ancora da pianificare, tra cui La Storta, Romanina, Acilia Madonnetta, Ponte Mammolo e Torre Spaccata. «Bisogna dare l’opportunità di costruire di più ai privati - afferma Corsini - perché possano finanziare le infrastrutture primarie, come strade e collegamenti con le metropolitane. Per questo si tratterà di densificare quanto possibile quelle aree». E si tratterà di milioni di metri cubi in più nella periferia romana.

Tornando invece al voto sulle caserme, sono stati accolti tutta una serie di correttivi che hanno sterilizzato gli effetti più negativi del testo originario: intanto sarà destinata a servizi pubblici una quota fissa del 20% della superficie complessiva (prima poteva oscillare tra il 10 e il 20); di questo 20%, su proposta del consigliere di Action Andrea Alzetta, il 25% andrà all’edilizia popolare; i piani di assetto, quelli cioè deputati a stabilire nel dettaglio cosa verrà realizzato al posto o dentro ciascun immobile (case di lusso, alberghi, negozi, strutture ricettive, ricreative, parcheggi), dovranno essere approvati uno per uno dall’aula Giulio Cesare, che così potrà valutare l´impatto dei singoli interventi. Da arginare anche grazie al meccanismo della compensazione, in principio non contemplato, ovvero la possibilità di rilocalizzare altrove le volumetrie da realizzare a seguito della verifica della sostenibilità urbanistica sul territorio.

Modifiche non da poco, almeno a giudicare dall’ubicazione dei fortini in disuso, per lo più disseminati in quartieri centrali o strategici, già appesantiti dal traffico. Basta dare una scorsa all’elenco, dove tra gli altri compaiono il Deposito materiali elettrici all’inizio di via Flaminia e lo Stabilimento trasmissioni in viale Angelico, la Direzione Magazzini Commissariato in via del Porto Fluviale (Ostiense) e la Caserma Medici in via Sforza, per non parlare della Nazario Sauro di via Lepanto e della Reale Equipaggi di via Sant’Andrea delle Fratte.

L’entità della manovra è tutta contenuta nelle cifre della delibera che vale come variante urbanistica al Prg e consente la vendita ai privati con relativo cambio di destinazione d’uso: operazione utile al Campidoglio per ottenere i 600 milioni pattuiti col governo per pagare la rata del piano di rientro. I 15 edifici militari, che confluiranno in un fondo immobiliare della Difesa, coprono una superficie totale di 82 ettari per oltre un milione e mezzo di metri cubi, pari a 500mila metri quadrati. Di questi, almeno il 30% andrà in residenziale; un altro 30 ad esercizi commerciali, turistico-ricettivi e varie attività private; l’ultimo 30 riguarda invece la cosiddetta parte variabile, il 20% della quale destinata a servizi comunali (asili nido, biblioteche, parchi, sportelli municipali) oltre che all´edilizia sociale. Quota, quest’ultima, che secondo i calcoli di Alzetta permetterà di ricavare circa 600 case popolari.

A ogni modo, al netto dei miglioramenti, per le opposizioni l’operazione resta «uno scandalo: espropria la città dei suoi beni e favorisce i soliti noti, abbandonando interi quartieri nell’invivibilità» tuona il coordinatore dell’Fds, Fabio Nobile. «Ieri il Campidoglio è stato trasformato in un’agenzia immobiliare solo per consentire al ministro Tremonti di fare cassa» attacca il consigliere pd Massimiliano Valeriani. «La capitale paga le bugie della destra» sbotta Alzetta: «Invece di utilizzare questo patrimonio per i cittadini Alemanno usa Roma come una banca». Una bufera per placare la quale è intervenuto il sindaco in persona: «Non saranno fatte colate di cemento, le caserme dismesse verranno utilizzate anche per funzioni abitative», garantisce Alemanno dopo aver esultato per il «grande risultato: un atto necessario non solo dal punto di vista economico ma anche urbanistico».

Destinazioni assurde

Intervista di Paolo Boccacci a Italo Insolera

«Quelle caserme da trasformare in case che sono nel cuore del centro, come in via delle Fratte, mi sembrano tutte con destinazioni assurde. Potrebbero avere al massimo funzioni di modeste dimensioni legate all´artigianato. In ambienti edilizi storici mi pare molto difficile poter cambiare radicalmente quelle che sono delle funzioni ormai consolidate».

Italo Insolera, il massimo studioso dell’Urbanistica romana, illumina un punto debole nella delibera approvata nella notte in Consiglio.

In Centro vieterebbe anche le destinazioni commerciali?

«Se per commerciale intendiamo dei piccoli negozi per l’artigianato, probabilmente questo rientra nell´organizzazione storica degli spazi nell´area centrale della città, se invece pensiamo ai supermercati o alle grandi griffe allora il contributo alla trasformazione sbagliata del centro può essere davvero deleterio».

Altre caserme da trasformare in abitazioni, negozi, case popolari e servizi pubblici sono nei quartieri storici, come ad esempio Prati. Che fare qui?

«Per questa parte di Roma ci sono delle funzioni, per esempio scolastiche, che vanno benissimo. Va bene ciò che eleva il livello sociale e culturale del quartiere».

E le case?

«Mah, queste sono zone per cui vigono il piano regolatore generale e i piani particolareggiati. Se le caserme cessano di avere funzioni militari va benissimo, figuriamoci, ma quelle che le devono sostituire dovrebbero essere culturali. Ci terrei a sottolineare l´esempio dell´università Roma Tre che è andata distribuendo i suoi spazi in vari edifici del quartiere Ostiense ed è diventata una struttura essenziale che impreziosisce la zona».

Un esempio per tutta la città?

«Se la nuova destinazione delle caserme può servire a questo in tutta Roma ben venga, ma che sia principalmente culturale».

Invece nella delibera si parla tra l´altro di un impiego per il 30% commerciale, per un altro 30% a residenze private, per un 15% servizi pubblici e un 5% case popolari.

«Queste percentuali non hanno senso, soprattutto perché quello che conta è la rivalutazione culturale di una città come Roma, dove leggiamo tutti i giorni che le università e le scuole non hanno spazi sufficienti. Questa è la grande prima necessità».

Nelle caserme ad Est, Tiburtina e Casilina?

«In quella zona dai primi studi del piano regolatore del 1950 si ripete continuamente che le iniziative devono servire a bonificare le vecchie borgate. Anche lì si faccia un piano sociale ed economico di tutta l´area e alle esigenze che verranno fuori sarà possibile venire incontro grazie alle caserme dismesse».

E a Boccea e al Trullo?

«Qui sono validi i discorsi sull´incremento delle destinazioni residenziali pubbliche e private, perché sono zone di espansione più vaste e si può fare un piano».

L’operazione caserme con la vendita ai privati serve al Campidoglio per fare cassa.

«Questo è un procedimento perverso, perché si dovrebbe volere che la maggior parte di queste iniziative restino al Comune e siano gestite dal Comune stesso».

Il buon Dio regalò a Gioia Tauro certi fondali profondi come abissi di Poseidone. Un bel giorno, pensò, quei fondali, unici in Italia a poter accogliere le immense navi porta-container del terzo millennio, renderanno finalmente la Calabria ricca e fiorente. Il cuore del traffico marittimo nel Mediterraneo. Poi vide che gli uomini non se li meritavano. E li accecò.

In alto, la banchina maggiore del porto di Gioia Tauro. A sinistra, la lapide che ricorda il ferimento di Garibaldi a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 29 agosto del 1862. A destra, l’albero nella foresta di Gambarie dove fu adagiato il generale ferito.

Sapete quanti Teu, i container che dominano il 96% (petroli esclusi) del traffico mondiale di merci, arrivano ogni settimana nel porto calabrese? 53.846. E potrebbero essere molti di più. Una miniera d’oro, sarebbero. Oro! Se non fossero subito smistati su altre navi più piccole per essere avviati verso altri porti. Sapete quanti treni partono da Gioia carichi di Teu? Uno la settimana. Uno. Cose da pazzi.

Il grosso del guadagno, infatti, spiega una relazione del ministero dei Trasporti del giugno 2008, è nel trattamento finale. Quando il container è «sdoganato, stoccato, manipolato e distribuito, supportato adeguatamente da una rete infrastrutturale efficiente. Il fatturato passa da 300 euro a 2.300 euro, l’utile da 20 euro passa a 200, il beneficio dello Stato da 110 euro a 1.000 e ogni mille unità movimentate invece di generare cinque unità lavorative ne generano 42». E in quelle tre parole, la «rete infrastrutturale efficiente», c’è la maledizione di Gioia Tauro.

Direte: come è possibile che dopo anni e anni di pensosi «bla bla» sulla necessità di privilegiare la rotaia alla gomma venga allestito un solo treno la settimana (per Bari) contro 53.846 Teu giunti nel porto calabrese? Un treno che, se sta nella media dei treni merci meridionali, ha 12 vagoni e porta 36 container, cioè uno ogni 1.495 sbarcati? E il bello è che quel treno non è manco delle Ferrovie dello Stato. Le quali, dopo avere alzato le tariffe (in modo spropositato rispetto al servizio, accusano i trasportatori) si sono ritrovate con una manciata di clienti e hanno abolito in Calabria tutti ma proprio tutti i treni merci. Una scelta suggerita da un ulteriore intoppo: sui binari verso Nord, non bastassero gli altri problemi, ci sono a Vallo della Lucania un paio di gallerie troppo piccole e qualche curva troppo stretta: i nuovi container non ci passano. Basterebbe allargare i tunnel e rettificare le curve, ma i soldi? E il tempo? Racconta Guglielmo Epifani: «Il gestore privato del porto mi ha detto: se continua così ce ne andiamo. La concorrenza di porti come quello del Cairo non riusciremo a batterla mai…». Quanto ai container caricati sui camion, auguri. Neanche il tempo di percorrere la corta bretellina costruita in tre o quattro millenni fino all’autostrada e vanno a infognarsi nel pantano della Salerno-Reggio Calabria.

Risultato: dopo essere miracolosamente salito grazie a quei fondali naturali (a Genova, per capirci, i nuovi colossi del mare non possono attraccare) fino al 23° posto nel mondo, Gioia Tauro perde colpi su colpi. Nel 2005, spiega l’ufficio studi del porto di Amburgo, era il sesto porto europeo. Oggi è l’ottavo. Era il secondo del Mediterraneo, adesso è il quarto. E la società concessionaria Mct, che occupa un numero enorme di persone (1.100 fissi più 200 «terzisti») ha visto nel 2009 un tracollo del fatturato del 26%. Da incubo il confronto con il cairota Port Said: cinque anni fa Gioia movimentava 1.539.915 container in più, oggi 670 mila in meno. Quanto alle classifiche mondiali, stendiamo un velo. Basti dire che sei anni fa il porto cinese di Xianem stava 400 mila container indietro e adesso sta quasi due milioni più avanti. Per non dire del «contorno». Come la periodica scoperta di carichi fuorilegge. C’è un piazzale pieno zeppo di 400 container che contengono merci contraffatte di ogni tipo. Uno, qualche mese fa, aveva in pancia sei tonnellate di esplosivo.

Eppure una cinquantina di chilometri più sotto, a Reggio Calabria, è raro avvertire la consapevolezza dell’occasione storica sprecata. E’ bello da togliere il fiato, «il più bel chilometro d’Italia», come lo chiamò Gabriele D’Annunzio. Di là dallo Stretto scintilla la costa siciliana: così vicina che nelle giornate limpide sembra di toccarla. Palme e magnolie dell’orto botanico che sfila lungo la strada quasi ti vengono addosso, con umori tropicali che si mischiano al profumo, prepotente, del mare. «Un paradisooo!», strillano i reggini entusiasti. Peccato per quello che c’è dietro. Cioè una delle aree urbane più violentate d’Italia, dove gli avvertimenti ai magistrati antimafia arrivano con i bazooka appoggiati fuori dalla loro porta. Benvenuti a Reggio Calabria, dove finisce la strada che non finisce mai. Quel proseguimento dell’Autosole che coi suoi viadotti entra dall’alto in città, scivolando nel caos edilizio per scendere in picchiata verso il «più bel chilometro d’Italia». L’incompiuta per antomasia.

«Un monumento all’impotenza della politica», la definì un giorno Fausto Bertinotti. Il rapporto «Sos impresa» del 2007 di Confesercenti andò oltre. «C’è chi l’ha definita il corpo di reato più lungo d’Italia». Dietro ogni curva c’è una cosca che si avventa, è camorra nel primo tratto ed è ’ndrangheta giù nelle «Calabrie». Un percorso che disegna la spartizione del potere; le betoniere e gli escavatori segnalano le «famiglie» dominanti sul territorio. Così la cartina stradale diventa un organigramma mafioso. È stato un supertestimone, Piero Speranza, un piemontese che ha riciclato in Toscana i soldi dei trafficanti calabresi, a raccontare per la prima volta come i «mammasantissima» si siano impossessati della A3. Ci fu un summit in una villa di campagna a Torremezzo di Falconara, in provincia di Cosenza. E i boss si misero subito quasi d’accordo. Era l’agosto di sei anni fa. Da quel momento ogni fornitura di calcestruzzo e ogni movimento di terra li ha assicurati la ’ndrangheta. In principio ci fu qualche regolamento di conti. Poi, tanti erano i soldi che hanno fatto scoppiare la pace.

Costruirono quei 443 chilometri in 11 anni, dal 1963 al 1974, con un costo equivalente a 5,8 milioni di euro attuali al chilometro. Senza prevedere un pedaggio perché solcava l’area più depressa del Sud. Leandra D’Antone, docente di storia contemporanea alla Sapienza è convinta che sia proprio quello il peccato originale: «Chi non paga il pedaggio non può pretendere la manutenzione necessaria a un’autostrada. Ma nemmeno la sicurezza».

E non solo per quanto riguarda la mattanza, davvero pazzesca, causata dagli incidenti stradali. E’ successo di tutto su quella strada maladetta. Di tutto. Turisti ammazzati a pistolettate. Donne strangolate nei distributori di benzina. Scheletri nei tombini di scolo delle stazioni di servizio. Agguati alle Alfette dei carabinieri. Camionisti assassinati al volante dei Tir. Neonate abbandonate in una piazzola di sosta. Rapine finite nel sangue a furgoni portavalori. Imboscate della ’ndrangheta. Di tutto. Si pensi all’episodio più conosciuto, lo spaventoso assalto all’auto della famiglia Green, turisti americani innamorati dell’Italia, concluso con l’uccisione del piccolo Nicholas.

Ecco, per capire come mai 23 anni dopo l’avvio dell’adeguamento deciso da Craxi nel 1987 non sono ancora finiti i lavori (campa cavallo!), nonostante ne fossero bastati 11 per la realizzazione, e come mai questa sistemazione costerà 22,6 milioni al chilometro, cioè quattro volte la cifra investita per la costruzione, con sommo gaudio delle cosche. Non si può che partire da qui: dal pedaggio che non c’è.

Tutto cominciò con una legge del 1961. Voluta dall’allora leader socialista Giacomo Mancini. E centrata sulla convinzione, come scrisse Giovanni Russo, che quella strada rappresentava un secolo dopo «il compimento dell’Unità d’Italia». E’ terra di aspre contraddizioni, la Calabria. E c’è davvero un senso se proprio qui, nella foresta di Gambarie, nel comune di Santa Eufemia d’Aspromonte, alla fine di agosto del 1862, avvenne il primo scontro armato tra patrioti italiani. Di qua l’Eroe dei Due mondi che voleva andarsi a prendere Roma. Di là la colonna del Regio Esercito sabaudo che non voleva grane coi francesi protettori del Papa Re. Come finì lo ricordano un motivetto canticchiato da un secolo e mezzo («Garibaldi fu ferito / fu ferito ad una gamba…»), uno stivale col buco della pallottola conservato dal 1970 al Museo Centrale del Risorgimento e un cippo voluto nel 1988 (con tanto di strafalcione sulle date) da Giovanni Spadolini. Volete andarci? Il posto è struggente, la strada micidiale. Un milione di tornanti. Ma se arrivate dall’autostrada vi sembreranno leggeri. La Salerno-Reggio, con i suoi cantieri e le sue deviazioni e i suoi ingorghi e i suoi tamponamenti è peggio. Molto peggio.

Ma torniamo alla costruzione. I lavori durarono lo spazio di tre cicli elettorali: 1963, 1968 e 1972. Inutile dire che uno svincolo non si negò a nessuno. Democristiani, socialisti, comunisti... Tutti furono accontentati. È così la A3 ha un’uscita ogni 8,86 chilometri. Con il risultato che dopo, anche se avessero voluto, sarebbe stato impossibile, soltanto per il costo dei caselli, introdurre il pedaggio.

Per piegare il tracciato alle esigenze dei vari politici locali, si tuffò il nastro d’asfalto in mezzo alle montagne. Un’assurdità. Che fece allungare la strada di 40 chilometri e schizzare i costi all’insù. E fu spiegata, nella relazione del geologo Giuseppe Rogliano, scomodando Annibale: «Attraverso la valle del Savuto, infatti, Annibale, uno dei più grandi strateghi e soprattutto progettista di strade e valichi militari, raggiunse Cosenza, capitale dei Bruzi, e la sottomise, e poi, attraverso la valle del Crati, raggiunse prima la regione delle Sibariti, le cui vestigia opulente...».

Già una decina d’anni dopo il taglio del nastro inaugurale venivano fuori tutte le magagne. Da allora, i costi sono lievitati come un soufflé: da 983 milioni di euro di oggi nel 1987 a 4 miliardi nel 1997, a 6,9 nel 2004, a 9 nel 2008, a 9 miliardi 698 milioni nel 2010. E giù promesse su promesse. «La Salerno-Reggio? Pronta nel 2003», giura nel ’98 il sottosegretario diessino Antonio Bargone. «Sistemata in cinque anni», puntualizza nel 2000 il ministro sinistrorso Nerio Nesi. «Finiremo nel 2004-2005», conferma l’anno dopo il berlusconiano Pietro Lunardi. «Nel 2008», rettifica l’Anas rispondendo alle accuse («di questo passo finiranno nel 2040») della Cgil. «Sì, nel 2008», si adegua Lunardi. «Ce la faremo per il 2009», assicura Berlusconi nel 2006. A febbraio 2009 Altero Matteoli profetizza: «Per fine 2011 o inizio 2012». Finché il 29 settembre 2010, in parlamento, il Cavaliere decreta: «Sarà completata nel 2013». Risate in aula. In quelle ore, Matteoli dichiara alle agenzie: «Sarà pronta per il 90% entro il 2014». Auguri.

Il fatto è che, oltre alle «normali» lentezze italiane, in questa opera c’è una variabile non secondaria. Si chiama ’ndrangheta. Fa venire i brividi la lettura della richiesta di arresto emanata nel 2006 dalla direzione antimafia di Reggio a carico di 52 persone affiliate alle cosche locali infiltrate negli appalti. In quel documento c’è la fredda descrizione delle regole fissate dalle «consorterie calabresi per accaparrarsi i lavori di ammodernamento dell’autostrada». A cominciare dall’imposizione di una «tassa ambientale»: così è stata battezzata la tangente da pagare alle ’ndrine, fissata nella misura del 3% dell’importo del capitolato. E poi «l’emissione di fatture per operazioni inesistenti, la fornitura di materiali qualitativamente non corrispondenti al capitolato, l’imposizione di ditte amiche, l’ostracismo di quelle non gradite...». Senza contare l’obbligo per le imprese di assumere i mafiosi.

Per chi non si adeguava c’era la bomba al cantiere, la caterpillar incendiata, le minacce con la pistola. Clamoroso lo sfogo pubblico del presidente di Impregilo Massimo Ponzellini, il quale ha rivelato che negli ultimi mesi i cantieri hanno subito 181 (centottantuno) attentati. Bisogna avere fegato, per gestire un cantiere lì. Come bisogna averne per fare il magistrato alla procura di Reggio. Quale sia la situazione «ambientale», del resto, lo fa capire uno dei magistrati impegnati nelle inchieste sugli appalti dell’autostrada, rivelando la preoccupazione che le gallerie del vecchio tracciato, una volta dismesse, siano chiuse, «e chiuse bene», per evitare che i buchi nella montagna possano diventare depositi di armi, esplosivo e quant’altro.

Ma che la gente di qui sia rassegnata non si può proprio dire. Lo dimostrano le iniziative spontanee che proliferano, come Quello che non ho: una «rete della legalità» promossa dall’ex segretario della Cgil Francesco Alì. In centinaia stanno preparando una petizione al governo, sintetizzabile in tre parole: «Qui manca tutto». Il reddito medio non arriva a 13 mila euro, contro i 25 mila di Milano. Nella classifica Unioncamere del prodotto interno lordo procapite la provincia reggina è al novantaseiesimo posto: 16.215 euro nel 2008, metà di Bergamo o Brescia. La disoccupazione «ufficiale» è al 12%, ma quella reale è ben altra cosa. Un terzo dei giovani è senza reddito. Il tasso di «occupazione», che misura il numero delle persone di età compresa fra 15 e 64 anni che hanno un lavoro, si ferma al 42,9%: la media nazionale è del 58,7%. E meno male che c’è la pubblica amministrazione, che assorbe il 20% degli occupati. Senza contare la sanità, altro grande affare per quel torbido impasto fra criminalità e politica.

Il sindaco reggino Giuseppe Raffa, che ha sostituito Giuseppe Scopelliti eletto Governatore dopo aver travolto Agazio Loiero, è nei guai. Soffocato da 270 milioni di debiti, 236 decreti ingiuntivi e 473 pignoramenti, il Comune rischia il crac. Quanto abbiano pesato le spesucce del predecessore, che arrivò a noleggiare una ventina di «teledivi» della scuderia di Lele Mora perché una sera passeggiassero amabilmente in città («ma lei è Nina Moric! Possiamo fare una foto insieme?»), non si sa. Certo è che ci sono da pagare 10 milioni di bollette Enel scadute. La Acquereggine (depurazione delle acque) avanza 12 milioni. E altri 80 sono vantati dalla Regione per l’acqua potabile. Il tutto mentre l’opposizione sta per lanciare un bel siluro, il caso di una dirigente esterna voluta da Scopelliti al vertice della ragioneria comunale e auto-destinataria di compensi astronomici: 567.990 euro soltanto nei primi dieci mesi del 2010. Di più: un rapporto della Corte dei conti mette il dito nella piaga delle società partecipate dal Comune come l’Atam, l’azienda di trasporto comunale che nel 2008 ha incassato appena 18,5 milioni ma ne ha spesi 12,5 soltanto per pagare lo stipendio ai 349 dipendenti.

Una situazione che rende oggettivamente complicata per il centrodestra la prospettiva della prossima scadenza elettorale del 2011, quando a Reggio si voterà per il Comune e per la Provincia. La confusione è totale in entrambi gli schieramenti. Il Partito democratico è commissariato: affidato alle cure dell’ex sindacalista della Uil Adriano Musi. Mentre qualcuno ipotizza il ritorno, per il centrodestra, dell’ex senatore Pietro Fuda.

Sono lontani i tempi della «primavera» di Reggio, così la chiamavano i fan del sindaco Italo Falcomatà, che restituì ai reggini «il più bel chilometro d’Italia», coprendo la ferrovia che separava il centro urbano dal suo mare. L’uomo che nel 1993 fece rialzare la testa a una città ancora avvilita dallo strappo del 1970, quando il capoluogo di Regione venne assegnato a Catanzaro innescando una sanguinosa rivolta. Quarant’anni dopo i segni di quella insurrezione sono ancora ben visibili. Il primo è il Consiglio regionale, dove nel 2005, al tempo della maggioranza di centrosinistra, si arrivò a mettere per iscritto: «I membri del consiglio e del governo regionale nonché i dipendenti rifiuteranno ogni tipo di rapporto, contatto o condizionamento della mafia». Articolo uno del «Codice calabrese del buon governo». La Calabria è l’unica Regione italiana con due capoluoghi «politici». La Giunta è a Catanzaro. Il Consiglio, cioè il parlamento, è rimasto invece a Reggio Calabria. Un risarcimento. E che risarcimento: il Consiglio costa 77,5 milioni l’anno, solo per le spese correnti, e occupa circa 350 persone.

«Lo stretto necessario», giurano. «Lo stretto necessario». Tanto più che oggi, con il museo archeologico nazionale in ristrutturazione, devono ospitare i massimi tesori: i Bronzi di Riace. Scampati al tentativo del Cavaliere e dei suoi fedeli di portarli ora al G8 della Maddalena, ora a Roma per dare il via a un tour mondiale. «Provvisoriamente», hanno spiegato. Ma del «provvisorio» all’italiana, da queste parti, non è che si fidano. Così, mentre il museo veniva chiuso per ristrutturazione, i bronzi bisognosi di cure sono stati trasferiti nei locali del Consiglio regionale, dov’è stato allestito un sofisticato laboratorio separato dal pubblico da una parete di vetro. Lì dentro quei tesori, che i turisti possono comunque ammirare, sono al sicuro. Perché su una cosa a Reggio son tutti d’accordo: una volta usciti dalla città, c’è il rischio che i Bronzi non rientrino più. E Reggio perderebbe qualcosa di prezioso quanto lo status di capoluogo. Tanto più che «quelli di Roma» avrebbero una scusa buona per sfilare quei capolavori: laggiù in fondo in fondo alla Calabria sono un po’ sprecati. Accusa infida. Nel luglio del 2009 il Quotidiano ha rivelato che il Museo dov’erano custoditi ha staccato in un anno 130.696 biglietti. Quasi 24 mila in meno rispetto ai 154.227 dello zoo di Pistoia.

Cari lettori, Dall'inizio dell'anno siedo nel cda del manifesto, un'esperienza per me ricca di contenuti umani e politici. In tutti questi mesi abbiamo affrontato una situazione economica estremamente difficile ma con il sacrificio di tutti abbiamo mosso passi importanti per il risanamento aziendale. Stato di crisi, cassa integrazione, prepensionamenti, riduzione degli spazi di via Bargoni, messa in vendita della sede di Milano, numero promozionale a 40 centesimi, numero (mal promosso) a 50 euro, sono state alcune delle operazioni che il cda ha portato avanti, sempre all'unanimità, per muovere passi seri verso la salvezza.

Poi è arrivato Tremonti assestando al nostro giornale un colpo che potrebbe essere davvero mortale. Senza più il diritto soggettivo (ripristinato all'ultimo per il 2009) le banche non fanno credito; senza il credito delle banche la liquidità scende drammaticamente e non consente di far fronte a impegni che non si possono trascurare: pagare i fornitori (carta e lavoro), pagare gli stipendi (i compagni che ogni giorno vi consentono di leggere il manifesto non ricevono una lira da aprile), pagare le tasse (una vera mazzata contro cui stiamo seriamente considerando lo sciopero fiscale per lottare contro un sistema che soffoca la libera stampa per ammazzare in Afghanistan e reprimere a casa nostra). Pagare le Poste (che svolgono assai male il compito di distribuire il giornale)....

Il manifesto da parecchio tempo perde acquirenti in edicola (siamo ora fra i 15.000 e i 18.000 a seconda dei giorni) e il numero degli abbonamenti (il cui prezzo è davvero conveniente) deve crescere. In queste condizioni, è impossibile andare avanti a lungo e di qui a fine anno siamo in piena vera emergenza. Vi scrivo perché ve ne rendiate conto. Soltanto per coprire le perdite quotidiane dovremmo portare il giornale a 1,50 euro sperando che le vendite non calino ancora. Non lo vogliamo se prima non siamo sicuri di offrire un prodotto che li valga e quindi abbiamo mosso passi diversi.

Pur sapendo bene di poter provocare qualche fastidio ieri abbiamo deciso di limitare l'uscita del manifesto in chiaro su Internet. Un tempo, ogni volta che scrivevo un pezzo mandavo un sms destinato a tutti i numeri della mia rubrica del telefono sperando di far vendere qualche copia in più al giornale e di far conoscere il mio pensiero ai miei amici e conoscenti. Quasi tutti mi rispondevano il giorno dopo avendo letto il pezzo gratis su Internet sicché il mio primo e principale obiettivo andava sempre frustrato. Speriamo che, con la nuova politica di acceso libero posticipato e con la possibilità di accedere on line soltanto pagando un euro qualcuno in più prenda in considerazione l'idea di rinunciare a un caffè e comprare il manifesto per non dover aspettare una settimana al fine di scroccarlo!

Ancora sfidando il fastidio abbiamo lanciato la sottoscrizione in corso. Bisogna essere chiari e sinceri: sta andando molto male. Bisogna reagire! Le sottoscrizioni di qualche anno fa davano negli stessi tempi fino a cinque-otto volte di più, denaro fresco che già più volte ci ha evitato di dover rinunciare per sempre al giornale. Perché questa stanchezza? Su tutto questo vogliamo aprire subito un dibattito franco coi lettori.

È il momento di pensare davvero a come sarebbe l'edicola senza il manifesto. Io penso onestamente che nonostante problemi e difetti innegabili sarebbe un impoverimento politico e culturale terribile. È brutto non trovare, come succede negli Stati Uniti, in Francia o in Inghilterra, alcun quotidiano libero, critico controtendenza e fuori dalla logica della società dello spettacolo. Anzi è bruttissimo! Bisogna assolutamente evitarlo.

Non pensiamo naturalmente che questa terribile crisi del manifesto sia solo aziendale, anche se con una botta come quella che ci hanno dato nemmeno Marchionne riuscirebbe a sopravvivere di soli tagli e «razionalizzazioni»! Pensiamo che la crisi sia anche, forse già adesso soprattutto, politico-culturale e a differenza di Marchionne ci rendiamo conto che il problema è in definitiva il prodotto che vendiamo. Il manifesto deve tornare a vendere strumenti di battaglia politica e culturale. Dura almeno quanto il momento che stiamo vivendo. Per poterlo fare ci vuole una nuova spinta anzi ce ne vogliono due. Innanzitutto bisogna continuare sul piano politico la battaglia per il ripristino del diritto soggettivo per il 2010. Ci sono stati diversi segnali anche istituzionali incoraggianti. Ma lo sapremo solo con la finanziaria a fine anno. Non è il momento della tregua. Dobbiamo batterci, senza esclusione di colpi, per il pluralismo. Il mercato non può essere il solo criterio che definisce quale informazione sopravvive e quale no. Il contributo pubblico noi lo esigiamo perché vogliamo approfondire e far giornalismo di qualità e non strillato.

Occorre poi un nuovo patto coi lettori che si traduca in un governo del manifesto più coerente con la sua natura dei bene comune. Faremo partire a brevissimo una «Fondazione il manifesto» di cui saranno membri tutti quanti fra gli attuali sottoscrittori che promettano una sottoscrizione di durata almeno decennale. Ne daremo la guida provvisoria a qualcuno di molto autorevole fra i compagni del collettivo (scoprirete chi fra un paio di settimane). Organizzeremo una prima grande assemblea, concomitante con il nostro quarantesimo compleanno, in cui della Fondazione verranno eletti direttamente dai sottoscrittori direttivo e presidente (che siederà con noi nel cda). Vogliamo far nascere un nuovo grande soggetto politico-culturale che sia la voce partecipante dei lettori e dei «Circoli del manifesto» nei confronti di direzione, amministrazione e redazione.

Sarà una grande sfida ma per il 2011, anno di gran lotta per i beni comuni, vogliamo avere in prima linea il giornale e anche un nuovo slancio comunista. Sottoscriviamo o abboniamoci adesso!

Chi ha suggerimenti e proposte scriva qui:
eddyburg@tin.it

La Regione non ha i mezzi, né soldi né tecnologìe. E la Valutazione ambientale strategica (Vas) sarà fatta in collaborazione con il Consorzio Venezia Nuova. Iniziativa che farà discutere, quella approvata dall’assessorato al territorio di palazzo Balbi.



Un accordo di programma stipulato tra la giunta regionale e il Magistrato alle Acque prevede la possibilità per l’Ufficio Vas della Regione, diretto dall’architetto Giovan Battista Pisani, di «avvalersi delle strutture tecniche dell’Ufficio informativo del Consorzio Venezia Nuova». La Regione potrà anche utilizzare mezzi e strutture del Consorzio per la sua atività. Niente di male, se non fosse che il Consorzio Venezia Nuova - e le imprese che ne sono socie Mantovani, Sacaim, Condotte - sono attori di buona parte dei progetti e dei lavori per le infrastrutture e le opere nel Veneto che potrebberio avere bisogno proprio del parere della commissione Vas.

Una decisione che arriva dopo lunghe polemiche sugli interventi nel territorio veneto. Una cultura sta scomparendo, denunciano comitati e ambientalisti. Perché nonostante leggi come il Dlgs 42 del 2004, meglio noto come decreto Urbani e l’obbligo delle autorizzazioni paesaggistiche, continuano gli episodi di degrado, sfregi al paesaggio, progetti impattanti spesso regolarmente autorizzati proprio per la mancanza di professionalità e di esperti della materia. Entro la fine dell’anno la Regione dovrà anche decidere sull’attribuzione delle deleghe ai Comuni che saranno «giudicati idonei». Anche qui, secondo le associazioni per la tutela del paesaggio, si cela un grande pericolo. E il rischio che invece di una garanzia per il paesaggio e le arree di pregio, la decisione sui nuovi insediamenti e infrastrutture venga affidata al geometra del piccolo paese o alle stesse imprese. Salvo poi piantare qualche albero per nascondere le nefandezze di nuova realizzazione. Tutt’altra cosa dalla riqualificazione del paesaggio.

caro direttore, l’intensa attività edilizia degli ultimi anni ha peggiorato la qualità della vita a Milano. Inquinamento dell’aria, scarsità di verde, mancanza di adeguati spazi pubblici, carenze nel trasporto pubblico e ridotta integrazione sociale sono sotto gli occhi di tutti. Ciò nonostante, il Pgt adottato a luglio rinuncia a governare le future trasformazioni, anzi: afferma di «non voler essere un piano». Non stupisce dunque la vaghezza delle previsioni insediative, l’assenza di una prospettiva metropolitana, il disimpegno rispetto ai grandi interventi in corso (molti dei quali in difficoltà) o l’evanescente regia sulle nuove e cospicue trasformazioni messe in campo.

Né stupisce l’ossessiva volontà di cancellare ogni «vincolo»: in un sol colpo, vengono abbattuti i limiti massimi di edificazione, il controllo morfologico e tipologico, la dotazione minima di standard e le destinazioni d’uso. Tutto questo furore innovativo, per ottenere che cosa? È semplice da intuire. Prima però bisogna superare la retorica liberista che ammanta il Pgt e la mistificazione che lo puntella, e che narra di raggi verdi e di suolo «liberato» e, più ancora, di 5 nuove linee metropolitane, del prolungamento delle 3 linee esistenti e del secondo Passante ferroviario. Opere che dipendono quasi integralmente da finanziamenti nazionali (indisponibili) o da un nebuloso project financing (nel caso del tunnel stradale ambiguamente congelato). Accantonati i falsi miti, rimangono i veri obiettivi del Pgt. Che sono tre.

Primo: un’ulteriore densificazione volumetrica della parte centrale della città, che è già tra le più dense al mondo, una vera e propria «città di pietra». Secondo: la generazione di nuovi diritti volumetrici attraverso un meccanismo di perequazione che finirà per penalizzare sia le aree di origine (il Parco Sud), sia quelle di destinazione (come gli scali ferroviari, le caserme, San Vittore o la Bovisa). Alle prime vengono attribuite volumetrie non necessarie, non essendoci alcun progetto dopo l’eventuale acquisizione al demanio pubblico. Sulle seconde vengono recapitati oltre 10 milioni di metri quadrati di nuova superficie: una quantità abnorme, se si pensa che a Milano negli ultimi 15 anni si sono programmati e costruiti tra i 5 e i 6 milioni di metri quadrati e che nella città esistente il nuovo Pgt mette in gioco altri 30 milioni di metri quadrati, indifferenti alla storia dei tessuti urbani e alle esigenze dei cittadini. Sulla regolazione di questi nuovi diritti non si è deciso nulla, se non che verranno gestiti da un’imprecisata «borsa». Di certo, convertiti in strumenti finanziari, miglioreranno le condizioni patrimoniali di pochissimi soggetti, ma graveranno per decenni sulla città e sul suo opaco mercato immobiliare, condizionando ogni prospettiva di ordinato sviluppo urbanistico.

Terzo: la pratica dei Pii, che ha portato alle note vicende di Santa Giulia, Citylife o Garibaldi-Repubblica, assurge a regola generale. Il nuovo Pgt attribuisce all’amministrazione il compito di negoziare con i privati, caso per caso, l’attuazione delle trasformazioni. Il negoziato si svolgerà però «senza rete», perché non sono stati fissati i requisiti minimi di convivenza urbanistica, a partire dalla manutenzione della città pubblica esistente. Non solo: in nome della sussidiarietà orizzontale, il Pgt stabilisce dettagliate modalità di accreditamento per i soggetti privati che erogano servizi di interesse pubblico, ai quali attribuisce anche crediti volumetrici. Dunque, invece di tutelare i servizi pubblici che arrancano, l’amministrazione si attribuisce il compito (improprio) di selezionare l’ingresso degli operatori sul mercato e di determinare le condizioni per l’esercizio dell’attività di impresa. Altro che liberismo.

Fino a metà novembre è possibile proporre osservazioni al Pgt. Non crediamo che, se sarà approvato, il Pgt sarà molto diverso da quello adottato a luglio. Vogliamo però dire che cosa, per noi, è irrinunciabile: definire chiare regole di scambio pubblico-privato; programmare le trasformazioni nel tempo, associandole a un progetto infrastrutturale e sociale fattibile, precisando l’offerta di servizi pubblici; «rimettere in circolo» le volumetrie inutilizzate, rendendo più aderenti al mercato le previsioni di nuova edificazione; annullare i diritti edificatori nelle aree del Parco Sud; ripristinare un progetto sugli usi e sulle densità; focalizzare le poche risorse disponibili sull’edilizia sociale da destinare all’affitto. È la nostra proposta per restituire senso, utilità e dignità al Pgt di Milano.

Andrea Arcidiacono, Paolo Galuzzi, Laura Pogliani, Giorgio Vitillo (Politecnico di Milano), Stefano Pareglio (Università Cattolica del Sacro Cuore)

Qualunquismo? In un certo senso. Antipolitica? Sicuro. Populismo? Lampante. Leaderismo? In costruzione. In fondo, se si riflette su questi quattro elementi, solo uno, il primo (che rinvia al movimento fondato da Guglielmo Giannini nell’Italia che usciva dalla guerra, e inopinatamente giunto a esiti elettorali di rilevo, per poi inabissarsi di colpo), è relativamente estraneo ai caratteri essenziali della leadership politica del tempo presente.

Che cosa accomuna gli homines novi dell’opposizione oggi? Il fatto che Di Pietro, Vendola e lo stesso Grillo, sono capi, e capi assoluti di un movimento o partito; capi che non soltanto nella gestione dei loro partiti (loro anche in senso proprietario), ma anche nei simboli, nei messaggi, esprimono, da punti diversi della mappa dell’azione politica (compresa l’antipolitica, che è naturalmente una forma di politica, e tra le più insidiose ed efficaci, oggi), il nuovo leaderismo. Il quale è di tipo neopopulistico, e cerca un contatto diretto con la massa (che nel caso di Grillo sembra essere piuttosto la folla, in carne ed ossa, ai suoi comizi-spettacoli, o virtuale, attraverso il web o il video).

La massa (o folla), da Grillo in particolare, viene sempre contrapposta in quanto entità buona alle entità cattive: le istituzioni, i partiti, i sindacati e quant’altro. Elemento tipico del populismo: popolo buono versus istituzioni malvagie. Su questa folla Grillo si erge come un egoarca, che fa e disfa, che tiene in pugno i suoi, che determina le scelte politiche in modo univoco e indiscusso, che viene seguito e addirittura adorato come capita non alle divinità da parte dei fedeli, ma ai succedanei del divino, i divi dello spettacolo, da parte dei fans. Nella contrapposizione radicale, che nel corso del tempo Grillo ha esacerbato, immergendo sempre più il suo lessico nelle acque di una torbida volgarità, la stessa politica esaltata e praticata dai seguaci, e ovviamente indicata dal leader, è presentata deliberatamente come una politica contro, come una politica rovesciata, come una politica che se ne frega, che manda “aff”, i suoi avversari, ma, ahimé, anche tutti coloro che possano apparire, al grande capo, come ostacoli sul suo cammino.

Ma dove mena quel cammino? Ricordo – se non sbaglio – che non troppo tempo fa, sollecitato da più parti, Grillo aveva escluso un suo candidarsi, in nome di una democrazia più autentica, di un rifiuto di essere come “loro”. Nulla di male se ci ha ripensato, nulla di male se decide di partecipare in prima persona alla lotta politica, anche nelle istituzioni: ben venga. In fondo egli non è un comico che fa politica, bensì un politico che usa l’arma della satira, pesantissima, condita di volgarità, appunto.

Sta qui la vera differenza tra lui e i suoi competitors, che non sono in grado di far ricorso a quel genere di strumento. Di Pietro o Vendola sono lontanissimi, anche se ciascuno a suo modo sanno affabulare, sanno persuadere, sanno talora anche trascinare. Grillo sollecita il senso del comico nella sua forma più profonda e anche greve; che sa far arrivare il messaggio in modo diretto, senza mediazione alcuna: non occorre essere ”di sinistra”, non necessita neppure un grado di istruzione elevato, né una formazione o una qualsivoglia esperienza politica. Anzi, il “grillismo” sembra fatto per acchiappare i delusi della politica, e coloro che dalla politica si sono sempre tenuti alla larga. In tal senso, pur nell’antipolitica e nel populismo, pur nel leaderismo, pur nella spettacolarizzazione del messaggio, Grillo ha svolto una funzione positiva, che nondimeno appare tante volte ambiguamente gestita, sia dal cesarismo del capo carismatico, sia dal fideismo dei seguaci.

Non considero Grillo un avversario, né i grillini degli estranei agli obiettivi per i quali io sono disposto a battermi: anzi, li considero potenziali alleati. Ma li inviterei sommessamente a stare in guardia contro lo spettro del qualunquismo che nel comiziare clownesco, ora felice, ora greve, del “capo”, affiora pericolosamente. Nel messaggio comico, così come nel messaggio pubblicitario le sfumature, le analisi, le differenze sono ridotte al minimo: tutto viene azzerato in un Armageddon tra il popolo dei fedeli – qui mi sia consentito – e la massa degli infedeli. Da una parte i “giusti”, sicurissimi di essere nel vero, armati dell’arma stessa del capo, l’ingiuria, la blasfemia, l’urlo, lo sberleffo; dall’altra, coloro che non seguono quel messia, e che perciò stesso sono denunciati come servi dei padroni: vecchi o nuovi, questo poco importa.

La politica è arte di guardare lontano, ma è arte che si fonda sulla capacità di analizzare, momento per momento, le situazioni, di individuare di volta in volta le forze in campo, di distinguere contraddizioni principali e secondarie, di stabilire alleanze, sulla base di princìpi e/o di programmi; di non confondere tutto in una sola, comoda, ma fallace categoria: i cattivi, che magari, addirittura, possono essere visti nella Fiom e nella sua dirigenza.

Capisco l’esasperazione dello scontro, ma la necessità di distinguere amici e nemici ce lo ha insegnato Carl Schmitt; e pur senza giungere alla sua drammatica concezione della lotta politica, forse vale la pena tutti di riflettere meglio, con maggior attenzione, ai soggetti sociali che sono dietro certe parole d’ordine, certi movimenti, certe azioni concrete. Guardare verso di loro con il dovuto rispetto, pronti ad apprendere, ma disposti altresì a muovere critiche, con la franchezza dovuta all’interno di uno schieramento di cui, per ora, ancora, fanno pienamente parte pure Grillo e i suoi seguaci, anche se la strada che pare intrapresa non incoraggia il dialogo né il confronto.

Ma nella politica come nella vita, occorrono due virtù, che ci vengono suggerite da Giacomo Leopardi e, un secolo più tardi, da Antonio Gramsci: pazienza e ironia.

Il gruppo che fa capo all'imprenditore di Paternò riassume il modello italiano di business nella sua forma più pura: scarsi rischi e alti utili, profitti privati e perdite pubbliche. Dagli esordi immobiliari alla profonda crisi attuale - ignorata dalla Consob dormiente - i numeri di una storia tutta italiana. Postato il 22 ottobre 2010

Premessa

Una delle basi fondamentali della costruzione della finanza moderna, costruzione che ha valso, negli ultimi decenni, a molti degli studiosi che vi hanno contribuito il premio Nobel per l’economia, è quella che correla il rendimento di un investimento al suo livello di rischio: più alto il rischio, più alto deve essere il rendimento, più ridotto il rischio, più ridotto il profitto relativo.

Ma questa massima, evidentemente, è largamente ignorata nel nostro bizzarro paese, dove le grandi fortune si fanno spesso prendendosi rischi bassissimi. Così il modo più semplice e contemporaneamente tra i più redditizi per fare impresa in Italia è di solito quello di avviare un business nel settore delle costruzioni, in particolare sviluppando delle attività immobiliari. Basta essere abili nelle relazioni, essere disposti a trasgredire le regole e collegarsi a qualche politico di peso, coinvolgendo quest’ultimo ed eventualmente il suo partito/corrente/gruppo affaristico, in qualche modo “finanziariamente”, negli specifici progetti da portare avanti. E il gioco è fatto. Si può dire che sulle modalità appena indicate si basa un meccanismo di “accumulazione primitiva” fondamentale dei capitali in Italia.

Se poi qualche cosa in itinere va male, si può ricorrere anche a qualche banchiere di fiducia, che comunque, a suo tempo, colpito dalle loro capacità “imprenditoriali”, avrà già accompagnato i nostri eroi, con ampie linee di credito, nei loro vari progetti.

Il modo più elementare, dal punto di vista operativo, per fare poi dei soldi nel settore è quello, ampiamente noto, di comprare dei terreni agricoli, farseli trasformare in aree edificabili e far poi arrivare i geometri con i camion e le gru. Una ricetta quasi infallibile. Ma le possibili varianti del gioco dei soldi possono essere molte.

Pensiamo che Salvatore Ligresti, forse in questo momento il campione più rappresentativo del settore immobiliare del nostro paese, abbia sperimentato quasi tutte tali varianti nel corso della sua lunga vita. E’ anche giusto che le attuali gravi difficoltà del nostro modello di sviluppo trovino puntuale simmetria nei rilevanti problemi attuali dell’imprenditore siciliano.

La storia

Originario di Paternò, in Sicilia, Ligresti si trasferisce a Milano sul finire degli anni cinquanta. Sulla sua carriera finanziaria aleggeranno a lungo, come del resto su quella di Berlusconi, dei sospetti di legami con la mafia, mai provati anche dopo alcune indagini della magistratura. Nella città lombarda si fa strada con abilità; ad un certo punto stringe i legami con Bettino Craxi, grazie anche al quale negli anni ottanta avviene l’esplosione dei suoi affari, quando, da una parte, diventa il protagonista della grande crescita edilizia della città, mentre, dall’altra, riesce a mettere le mani in maniera avventurosa, dopo anche delle aspre vicende giudiziarie, sulla società di assicurazioni Sai, già di proprietà del gruppo Fiat. Egli stringe presto i suoi legami anche con Enrico Cuccia, mentre è da sempre molto vicino alla famiglia Larussa, anch’essa di Paternò.

Nel 1986 scoppia a Milano lo scandalo delle aree d’oro: Ligresti viene indagato per corruzione, ma alla fine se la cava con delle piccole condanne. Negli anni novanta lo attendono altri e più seri guai giudiziari: coinvolto, tra l’altro, in tangentopoli, l’imprenditore viene condannato a due anni e quattro mesi e va in galera; ma dopo poco tempo, viene scarcerato e affidato ai servizi sociali. Seguiranno altre condanne minori.

Il suo impero imprenditoriale ne soffre molto e una crisi finanziaria lo spinge a cedere una buona parte delle sue attività. Ma poi, nei primi anni a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio, Mediobanca gli da una mano per farlo uscire dai guai. Si tratta peraltro della seconda volta –la prima era stata nel 1989 quando, per liberarlo da qualche problema finanziario, la banca era riuscita a far quotare in borsa la Premafin, la sua capogruppo, a prezzi astronomici. Sempre la banca d’affari milanese arriverà al soccorso una terza volta ancora nel 2010.

E’ del 2002 l’acquisizione di Fondiaria, sempre con l’aiuto determinante di Mediobanca. E’ del 2004, poi, l’ingresso nel patto di sindacato di Rcs. Intanto Ligresti si è alleato con Berlusconi e partecipa quindi da protagonista delle grandi operazioni immobiliari del periodo successivo. Ma egli non manca di fare affari anche in città rette dal centro-sinistra, come Firenze e Torino. Nel 2008, su sollecitazione di Berlusconi, parteciperà all’ operazione Alitalia, insieme ad una serie di imprenditori titolari di business fortemente legati alla politica. Nello stesso 2008 viene indagato dalla procura di Firenze per episodi di corruzione legati ai progetti edilizi della città e nel 2010 viene rinviato a giudizio.

La struttura societaria attuale

Per arrivare a Premafin, il centro nodale della attività del gruppo, bisogna passare attraverso l’intermediazione di molte società. Così i tre figli di Salvatore Ligresti si servono di strutture di diritto lussemburghese, la Hike, la Canoe e la Limbo, attraverso le quali controllano complessivamente circa il 31% del capitale della finanziaria –le percentuali relative ai possessi azionari delle varie società, in questo come nei casi successivamente citati, vanno considerate come approssimative, dal momento che le varie fonti spesso danno delle cifre differenti. Le azioni possedute dalle tre società sono però depositate presso una fiduciaria, la Compagnia Fiduciaria Nazionale. Salvatore Ligresti, invece, attraverso un’altra lussemburghese, la Starlife, controlla totalmente Sinergia, che a sua volta possiede il 60% della Imco; Sinergia e Imco detengono complessivamente circa il 20% della Premafin. Salvatore Ligresti e i suoi figli sono poi legati da un ferreo patto di sindacato e, nella sostanza, comanda soltanto il padre, ormai vicino agli ottanta anni di età.

Ai tre figli, che occupano cariche di presidente, vicepresidente, consigliere, nella varie società del gruppo, vengono riconosciuti rilevanti stipendi e bonus, che ad esempio nel 2008 hanno oscillato tra i 4,6 e i 5,0 milioni di euro per ciascuno; in questo modo, essi estraggono ogni anno rilevanti somme dalle società operative, che, almeno in parte, impiegano poi per rinforzare le basi patrimoniali e finanziarie delle società comprese nella parte alta della piramide. Che i proprietari di un’impresa ottengano dei bonus legati ai risultati annuali appare singolare e una delle tante caratteristiche per così dire “pittoresche” del nostro paese.

L’intero pacchetto del 51% della Premafin in possesso delle varie società della famiglia sarebbe peraltro da molto tempo in pegno alle banche a fronte dei crediti concessi dalle stesse (Pons, 2010).

La Premafin, a sua volta, controlla circa il 47,7% del capitale della Fonsai –un altro 11% è nella mani della stessa Fonsai e della Milano Assicurazioni-, la principale struttura operativa del gruppo, che è anche la seconda entità assicurativa del paese, nata dalla fusione tra Fondiaria e Sai. Con circa 12 miliardi di premi raccolti nel 2009, essa possiede poi partecipazioni, di controllo e non, in molte società di tipo assicurativo, immobiliare, finanziario e vario.

Un’altra società controllata da Premafin, l’Immobiliare Lombarda, partecipa poi al controllo della più grande impresa di costruzioni italiana, la Impregilo; il gruppo Ligresti, il gruppo Benetton e il gruppo Gavio possiedono in effetti insieme, a partire dal 2005, attraverso la Igli –di cui ognuno dei tre soci detiene il 33,3% delle azioni-, il 29,9% del capitale della stessa Impregilo. Il controllo del gruppo è stato a suo tempo rilevato dai tre soci dalla Gemina in difficoltà, grazie, come al solito, anche agli auspici di Mediobanca. Tra gli altri soci di Impregilo si segnalano anche le Generali, con il 3,25% del capitale.

La Premafin detiene inoltre il 5,5% del capitale della Rizzoli- Corriere della Sera, il 5% della Pirelli, il 4,2% di Gemina, il 3,9% di Mediobanca, l’1% di Assicurazioni Generali, lo 0,4% di Montepaschi, lo 0,3% infine di Unicredit. Così la finanziaria costituisce un nodo importante del sistema di equilibri di potere economici e politici del nostro paese, partecipando tra l’altro a numerosi patti di sindacato sulle stesse società sopra indicate. Qui risiede una fonte molto importante, anche se non la sola, del potere di Salvatore Ligresti e della sua sicura ancora di salvezza in caso di difficoltà.

In un tale quadro di riferimento, ovviamente l’interesse di Ligresti per i processi di internazionalizzazione appare molto limitato. Le sue società di assicurazione hanno una proiezione estera che è, nella sostanza, minima e non sappiamo neanche di rilevanti iniziative immobiliari del gruppo in una direzione che non sia nazionale. Importante è invece la dimensione internazionale delle attività di Impregilo, ma essa è preesistente all’ingresso di Ligresti e degli altri attuali soci nella compagine azionaria della società.

Le difficoltà in essere e il loro precario superamento

Nel 2010 Ligresti deve far fronte a quella che appare forse la più grave crisi della sua carriera. La Fonsai, complice la crisi, registra in bilancio 390 milioni di euro di perdite nel 2009 e circa altri 157 nel primo semestre del 2010, dopo aver ottenuto un utile di 620 milioni nel 2007 e di soli 91 milioni invece nel 2008 –la crisi aveva già cominciato a mordere.

Rileviamo, parallelamente, che la società presenta da sempre una struttura finanziaria più consona agli interessi di controllo di Ligresti che a quelli degli investitori (Penati, 2010). Tra l’altro, vi si registra un’incidenza degli investimenti immobiliari – quelli in particolare che Ligresti ha interesse a scaricare sul suo bilancio- sul totale degli impieghi che è molto più alta delle consuetudini del settore. La Fonsai è inoltre obbligata a tenere in bilancio titoli azionari pari al 7% del capitale della controllante Premafin, più altre partecipazioni improprie, mentre essa stessa appare largamente sottocapitalizzata. Intanto la Milano assicurazioni perdeva 140 milioni nel 2009 e 195 nel primo semestre 2010. Parallelamente la Premafin ha presentato un deficit economico di 413 milioni nel 2009 e di un po’ più di 175 nel primo semestre di quest’anno.

Hanno pesato sui risultati delle strutture citate sia il cattivo andamento del comparto assicurativo che di quello immobiliare.

Se la Consob obbligasse Ligresti ad adeguare il valore di carico in Premafin della partecipazione in Fonsai a quello di mercato il colpo sarebbe molto duro, perché significherebbe una minusvalenza di 562 milioni in capo alla controllante. Ma la Consob, organismo che si è dimostrato nel tempo del tutto inutile, si guarda bene dal muovere un dito.

Intanto l’immobiliare Sinergia, che presenta in bilancio un debito intorno ai 300 milioni di euro, non ha pagato le rate che scadevano a giugno 2010 su una linea di credito di 108 milioni concessa da Unicredit e su di una di 30 milioni concessa da GE Interbanca.

Per far fronte a queste ed altre difficoltà Ligresti ha mosso delle pedine su più fronti. Intanto ha sostanzialmente fatto prelevare denaro dalle casse della Fonsai pur in difficoltà per dare ossigeno alle società di famiglia, in particolare alla Imco e alla Sinergia, con buona pace ancora una volta della Consob e degli azionisti di minoranza della stessa Fonsai. In dettaglio, la società assicurativa, mentre è spinta per suo conto a vendere molti immobili per fare cassa e per superare le sue difficoltà interne, viene obbligata ad acquistare società, palazzi e terreni dal suo azionista, tra i quali in particolare l’intero capitale di Immobiliare Lombarda, una catena alberghiera, la Ata hotels, nonché quote dei fondi di investimenti inventati da Ligresti per collocarvi degli altri suoi immobili. Così Ligresti ha venduto con una mano e comprato con l’altra (Oddo, 2010). Inoltre, sempre la Fonsai è obbligata a distribuire un dividendo anche dopo un bilancio così disastroso come quello sopra indicato.

Più in generale, sono arrivati in soccorso dell’amico in difficoltà Unicredit, Mediobanca, Generali, Intesa San Paolo, Mps, Interbanca e compagnia bella.

Così il riassetto finanziario di Sinergia si è fatto da una parte con la cessione alla fondazione MPS di Eurocity sviluppo edilizio per 110 milioni di euro, mentre dall’altra Unicredit ha accettato di ristrutturare il suo credito da 108 milioni di euro in scadenza a giugno 2010.

Un’altra partita difficile è anche avviata alla soluzione. Fonsai possiede attualmente, attraverso la Milano Assicurazioni, il 27,2 % di Citylife, la società titolare del megaprogetto di riqualificazione immobiliare sui terreni dell’ex fiera di Milano; con i suoi 2,4 miliardi di euro di valore esso appare uno dei maggiori progetti nel settore in Europa. Gli altri azionisti di Citylife sono le Generali con il 41,3% e Allianz con il 31,5%. La prima mossa significativa delle Generali sotto la presidenza di Geronzi è stata quella di fornire un paracadute finanziario al gruppo Ligresti (Riva, 2010); l’imprenditore siciliano non appariva in grado di partecipare alla presa in carico della quota del 20% posseduta precedentemente dalla famiglia Lamaro, così acquisite interamente dagli altri due soci; ma soprattutto Ligresti ha potuto accordarsi con Generali su di un’opzione di vendita della sua quota, opzione con scadenza nel settembre 2011.

Sempre Ligresti si è poi attivato per portare avanti, con la complicità dei comuni interessati, diversi progetti minori in Lombardia e si è messo a vendere anche una parte rilevante del suo patrimonio immobiliare, tra cui anche la torre Velasca a Milano.

Nel lungo termine, bisogna considerare che potrebbero diventare molto redditizi i terreni che Ligresti possiede in un quartiere a ridosso dell’area dell’Expo 2015 e che il comune di Milano vorrebbe trasformare in un gigantesco centro direzionale.

Le difficoltà del gruppo, per quanto forse superabili con il tempo, sembra che abbiano comunque risvegliato l’interesse su Fonsai di V. Bollorè, il finanziere francese che è uno dei protagonisti delle vicende Mediobanca-Generali; egli, per il momento, ha acquistato una partecipazione ridotta nella società, ma viene sospettato di essere potenzialmente pronto ad acquisirne il pacchetto di controllo per conto di una società assicurativa francese, la Groupama. Su questo punto ci sarebbero comunque delle discussioni con Mediobanca, che preferirebbe invece una qualche soluzione meno drastica ai problemi strutturali dello stesso Ligresti, soluzione che appare peraltro complessa.

Alla fine, il quadro del gruppo non appare certamente in prospettiva come molto brillante, ma non è da escludere che la famiglia, grazie alle sue abilità imprenditoriali, nonché grazie al supporto di amici e parenti, riuscirà a galleggiare ancora a lungo sulle vicende economiche e politiche del nostro paese.

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Dall'abbigliamento alle autostrade e autogrill. La parabola di un gruppo che ha vissuto una mutazione genetica, partendo da un un business di successo per poi legarsi progressivamente al carro pubblico. E portandosi dietro grossi problemi di indebitamento. Postato il 14 ottobre 2010



Il percorso imprenditoriale della famiglia Benetton appare piuttosto chiaro e abbastanza singolare. I membri della famiglia sono partiti negli anni sessanta con un’idea di business a suo tempo molto innovativa nel settore dell’abbigliamento, idea coronata in un primo periodo da un rilevante successo di mercato e di redditività. Poi, con il tempo, tale attività si è dovuta confrontare con diversi problemi, sia di tipo interno che esterno all’impresa; in particolare, si è manifestata una importante concorrenza, costituita da marchi quali Zara o H & M, che è riuscita a mettere in rilevanti difficoltà la società, superandola per capacità innovativa, volumi di affari e redditività su quasi tutti i mercati, mentre la società incappava anche in alcuni problemi organizzativi. La famiglia non è stata in grado di reagire rinnovando ed adeguando la sua offerta nel settore in misura adeguata, le vendite complessive della società non sono più cresciute, i risultati economici si sono ridimensionati. Nel frattempo, nuovi concorrenti si profilano all’orizzonte.

Così, ad un certo punto, i membri della famiglia hanno deciso di ridurre il peso delle attività in cui c’era da confrontarsi tutti i giorni con il mercato e con la concorrenza e di trasformarsi invece sostanzialmente in rentier. Ecco allora l’acquisizione, secondo alcuni avvenuta a prezzi di favore, di Autostrade e di Autogrill dallo Stato, per di più scaricando i debiti fatti almeno per l’ acquisizione di Autostrade sulla stessa impresa acquistata, mentre verranno poi anche, con il tempo, le stazioni e gli aeroporti; ecco anche la partecipazione a molte avventure di interesse del potere politico da una parte, gli stretti legami con la fortezza Mediobanca dall’altra. (sulla storia e i conti di Autostrade, si veda anche l' articolo di Anna Donati su questo sito).

Oggi siamo davanti ad un gruppo di grandi dimensioni, molto articolato, ma anche altamente indebitato, mentre esso presenta una redditività complessiva piuttosto scarsa e mentre le sue sorti sono affidate, almeno in parte, alla benevolenza dei potenti di turno. La crisi di questi anni ha contribuito comunque a frenare i suoi volumi di attività e le sue prospettive.

La struttura societaria

Nel 2009 il gruppo Benetton ha fatturato in tutto circa 11,3 miliardi di euro a livello mondiale. Lo ha fatto attraverso un grande numero di società operanti in molti settori e in molti paesi, anche se le attività possono essere fatto risalire sostanzialmente a tre business.

La struttura societaria ha visto numerosi e anche radicali cambiamenti nel tempo, sia per l’ingresso e l’uscita quasi continui nel sistema di numerose imprese, sia per i mutamenti dettati dallo sviluppo stesso delle varie attività e anche da considerazioni di altro tipo, ad esempio mutamenti di strategia e anche “affinamenti” di tipo fiscale.

Essa vede oggi al primo livello di governo la capogruppo Edizione srl, controllata interamente dalla famiglia Benetton. Tale società, a sua volta, possiede dei pacchetti azionari di grande rilievo in un gran numero di altre entità, suddivisibili per comparti di attività:

1) nel settore del tessile-abbigliamento, il business storico della famiglia, troviamo in particolare il Benetton group, di cui Edizione srl possiede il 67,08% del capitale e che a sua volta da origine ad una miriade di società sparse per il mondo;

2) nel campo della ristorazione, la capogruppo controlla il 100% del capitale della società Schema 34 srl, che possiede poi il 59,28% di Autogrill, di nuovo con molte società del settore sotto il controllo di quest’ultima;

3) nel comparto delle infrastrutture e dei servizi per la mobilità, Edizione srl da origine a tre sottogruppi di società.

Essa detiene intanto il 79,06% del capitale di Sintonia sa, che controlla al 100% la società Schema 28 spa, che a sua volta possiede, insieme alla stessa Sintonia sa, il 38% del capitale di Atlantia spa; la Atlantia detiene a sua volta il 100% del capitale di Autostrade per l’Italia, nonché l’8,85% di Alitalia; infine, Autostrade per l’Italia possiede il 33% della IGLI spa - gli altri soci, il gruppo Ligresti e quello Gavio, detengono ciascuno una quota analoga-; la IGLI, a sua volta, controlla il 29,87% del capitale di Impregilo.

Sempre Sintonia sa controlla il 100% di Investimenti infrastrutture spa, che, insieme alla stessa Sintonia sa, possiede il 30,23% delle azioni di Gemina, al cui capitale partecipano anche, tra l’altro, con quote variabili, Mediobanca, il gruppo Ligresti, Assicurazioni Generali, Unicredit; Gemina detiene a sua volta il 95,76% del capitale di Aereoporti di Roma; Sintonia possiede poi ancora il 24,38% della Sagat, i cui azionisti di maggioranza sono gli enti locali piemontesi –Regione, Provincia e Comune di Torino- e che controlla le attività degli aereoporti di Torino e di Firenze;

Infine, infine Edizione srl detiene direttamente il 32,71% del capitale di Eurostazioni spa, partecipata con eguali quote anche dalla Pirelli & C. e dal gruppo Caltagirone; la Eurostazioni possiede poi il 40% di grandi Stazioni spa, mentre il restante 60% è controllato dalle Ferrovie dello Stato;

4) nel settore immobiliare e dell’agricoltura, la capogruppo ha in mano il 100% di Edizione Property spa, che detiene a sua volta il 100% di Maccarese spa, titolare poi del 100% del capitale di Cia de Terras Sud Argentino sa;

5) Edizione srl ha anche in bilancio una serie di altre partecipazioni molto preziose perché fanno parte, nella sostanza, del suo sistema di relazioni con il mondo della finanza e dell’imprenditoria nazionale, relazioni che sono essenziali al perseguimento dei suoi interessi e che ruota intorno al gruppo di potere organizzato intorno a Mediobanca; segnaliamo, in particolare, lo 0,945% del capitale di Assicurazioni Generali, il 2,16% della stessa Mediobanca, il 4,77% di Pirelli & C., il 5,7% di RCS, il 2% di Il Sole 24 Ore, il 2,24% di Caltagirone Editore, il 7,94% di Banca Leonardo; la società partecipa poi ovviamente ai vari patti di sindacato messi in piedi da Mediobanca per puntellare gli equilibri di potere delle varie entità;

6) in una categoria a parte possiamo inserire il pacchetto di controllo – con il 58,99% delle azioni- posseduto da Edizione srl nella di 21 Investimenti spa, una delle più importanti società europee di privateequity, che è stata costituita a suo tempo da Alessandro Benetton, uno degli eredi, apparentemente il più dinamico, della dinastia familiare;

7) tralasciamo per brevità le società operanti nel settore sportivo.

Per completezza informativa, va ricordata l’avventura Telecom Italia. Nei primi anni del nuovo millennio i Benetton si inseriscono in misura importante nell’azione di conquista da parte di Tronchetti Provera del pacchetto di controllo della società telefonica. Ma il gruppo di intervento sarà obbligato nel 2007, di fronte alle difficoltà e ai pessimi risultati della sua gestione, a lasciare la presa e si dovrà ritirare riportando gravi perdite. Ricordiamo anche di sfuggita i tentativi, anch’essi poi abbandonati, di inserirsi nel settore delle attrezzature e dell’abbigliamento sportivo ed anche in quello della grande distribuzione.

Dati ed informazioni di base sul gruppo

Dunque il gruppo ha fatturato nel 2009 circa 11,3 miliardi. Tale importo si concentra intorno a tre poli di aggregazione, il Benetton Group, con circa 2,0 miliardi di euro di cifra d’affari nello stesso anno, il raggruppamento Atlantia con circa 3,6 miliardi e Autogrill con 5,7.

Dal punto di vista settoriale, il polo della ristorazione pesa per il 51,3% del fatturato totale, le infrastrutture e servizi per la mobilità per il 30,1%, il tessile-abbigliamento per il 17,7%; lo 0,9%, infine, fa riferimento ad attività residuali.

Sempre nel 2009, sul fronte della distribuzione geografica, il 50,6% dei ricavi del gruppo si collocano in Italia, il 27,4% nel resto d’Europa, il 16,8% nelle Americhe, il 5,2% residuo nel resto del mondo. Da questo punto di vista il gruppo appare fortemente concentrato sul nostro paese e, più in generale, sul nostro continente.

Per quanto riguarda la redditività complessiva, l’utile netto appare molto limitato nel 2008 e uguale a 196 milioni di euro, cifra pari all’1,7% del fatturato, per poi scendere ad appena 104 milioni nel 2009, lo 0,9% delle vendite. Per la verità, il reddito operativo della società appare abbastanza più sostenuto, collocandosi nel 2009 intorno ai 2,1 miliardi di euro, importo pari a quasi il 19% del fatturato; ma poi gli oneri finanziari pesano per circa il 6% della cifra d’affari e qualche punto ulteriore viene sottratto anche dalle perdite su partecipazioni, in parte strascichi dell’avventura Telecom. A questo punto, all’utile ante-imposte, ancora abbastanza importante nonostante tutto e pari a circa 1,2 miliardi di euro, bisogna sottrarre il carico fiscale, molto rilevante e pari al 5,5% del fatturato, nonché la quota di utile di pertinenza degli azionisti terzi, che si portano a casa 455 milioni di euro, ben più della famiglia e così alla fine l’utile netto scende alle dimensioni sopra ricordate.

Accanto alla limitata redditività bisogna ricordare, come sopra accennato, il molto alto livello dell’indebitamento complessivo. Esso appare sostanzialmente identico come importo alla fine del 2008 e del 2009 e pari a 14, 1 miliardi di euro, con un rapporto uguale al 173,0% rispetto ai mezzi propri, al 124,8% rispetto al fatturato del 2009, a 4,5 volte rispetto al reddito operativo prima degli ammortamenti (Ebitda), sempre per il 2009. L’esposizione appare fortemente concentrata in valori assoluti sul gruppo Atlantia ed essa è da mettere in gran parte in relazione con i debiti fatti a suo tempo per acquisire Autostrade per l’Italia, debiti poi scaricati sulla stessa società. Tale livello fa molta fatica a scendere nel tempo ed esso appare come una delle più serie ipoteche al futuro del gruppo.

Per la verità, c’era stato qualche anno fa il tentativo di sbarazzarsi del problema vendendo il settore autostradale agli spagnoli, ma la questione è stata portata avanti in maniera forse non brillante e si sono sviluppati dei problemi che hanno portato al fallimento del tentativo. Tra l’altro, i Benetton hanno cercato di vendere agli iberici senza aver portato avanti gli investimenti a suo tempo concordati col governo al momento della privatizzazione (Astone, 2009).

L’andamento dei principali business

Benetton. Dopo i rilevanti successi dei primi decenni, il marchio Benetton appare da molto tempo abbastanza in affanno. Così, intorno alla metà degli anni 2000 i bilanci hanno dovuto registrare delle perdite. Poi la situazione è migliorata, grazie anche ad interventi abbastanza decisi su molti fronti, da quello dell’organizzazione della rete di vendita a quello della riduzione dei costi degli approvvigionamenti, ma non si è veramente verificata la svolta netta che sembrava necessaria. Comunque, soprattutto sul mercato statunitense e sostanzialmente anche nei paesi europei, sia pure in misura più ridotta, l’azienda appare ancora in rilevante difficoltà e le vendite tendono a crescere, anche se lentamente, soltanto nei paesi emergenti, dove si sta portando avanti un importante allargamento della rete distributiva.

Guardando alle cifre degli ultimi cinque anni, appare evidente una sostanziale staticità di tutti gli indicatori. Il fatturato era pari nel 2005 a 1,8 miliardi di euro e nel 2009 ci si ritrova soltanto con un leggero incremento a 2,0 miliardi, mentre l’utile netto oscilla, di anno in anno, tra i 100 e i 155 milioni di euro –anche gli indici di redditività appaiono sostanzialmente costanti- e mentre il capitale netto è fermo dal 2005 ad oggi a 1,3/1,4 miliardi di euro. I dati di redditività del primo semestre del 2010 appaiono in discesa, mentre quelli di qualche concorrente come Inditex-Zara sono invece molto più incoraggianti.

Per completezza di informazione, si può ricordare che i ricavi suddivisi per area geografica registrano negli ultimi anni una percentuale del 47/48% sul totale per l’Italia, del 34/36% per il resto d’Europa, un risibile 3% per le Americhe ed un 17% per il resto del mondo.

Non si vede al momento come l’azienda possa uscire dal sostanziale impasse strategico in cui si trova. Significativamente, si parla da tempo di una possibile cessione del business, plausibilmente ad una delle tre grandi società del settore, la statunitense Gap, la spagnola Inditex-Zara, la svedese H&M; ma tale cessione sarebbe peraltro contrastata da una parte della famiglia.

Atlantia. Un concreto tentativo di cessione c’è stato qualche anno fa, come già accennato, per quanto riguarda invece il settore autostradale, ma esso è finito poi nel nulla. Le attività che fanno capo ad Atlantia spa, di cui la parte più significativa è costituita da Autostrade per l’Italia spa, presentavano complessivamente ricavi per 3,6 miliardi di euro nel 2009 contro i 3,5 del 2008. Il raggruppamento gestisce circa 3400 chilometri di autostrade nel nostro paese e circa 900 in quelli esteri. Per quanto riguarda questi ultimi, si tratta di concessioni ottenute in Cile, Polonia, Brasile, India –quattro concessioni, tre continenti-, apparentemente quindi senza un piano organico di penetrazione di specifici mercati, ma sfruttando le occasioni che si presentavano di volta in volta in giro per il mondo. Si ha una sensazione di grande dispersione degli sforzi.

Sul fronte economico, il settore sembra godere di un’elevata redditività –gli utili netti sono pari a circa 0,7 miliardi di euro sia nel 2008 che nel 2009, nonostante i rilevanti oneri finanziari che la gestione deve sopportare in relazione all’elevatissimo indebitamento cui abbiamo fatto cenno sopra; tali oneri sono e pari a ben il 13,9% dei ricavi nel 2008 e addirittura al 14,9% nel 2009.

La redditività sostenuta potrebbe presumibilmente essere legata a dei do ut des importanti con i pubblici poteri, essendo la fissazione delle tariffe e delle altre condizioni di sfruttamento delle concessioni in mano a questi ultimi. Questa possibilità sembra plausibile nel nostro paese, dove il gruppo Benetton appare sempre pronto a partecipare alle iniziative sponsorizzate dal governo –si veda ad esempio la vicenda Alitalia- e, nel settore finanziario, ad essere parte organica dell’asse Mediobanca-Generali, in cui appare sempre più ingombrante la presenza di Cesare Geronzi, il punto di collegamento tra Berlusconi e la finanza.

Autogrill. Neanche del raggruppamento Autogrill si può dire che esso navighi nell’oro.

Primo operatore al mondo per quanto riguarda i servizi di ristorazione e retail per chi viaggia, il suo fatturato per il 2009 è stato pari complessivamente a circa 5,7 miliardi, in leggera riduzione rispetto alle cifre dell’anno precedente. La rilevante diversificazione geografica e settoriale – le attività del raggruppamento si possono suddividere nei tre comparti della ristorazione, del retail aeroportuale e della fornitura di servizi di catering a bordo degli aerei - hanno apparentemente permesso di limitare i danni in un settore che ha risentito abbastanza della crisi.

Il comparto della ristorazione appare quello più importante ed esso raggiunge nel 2009 il 64,5% del fatturato totale del settore. Le cifre disponibili indicano una diversificazione geografica molto ampia raggiunta con il tempo dal raggruppamento, partendo dalla sola base italiana.

I risultati economici non appaiono particolarmente brillanti, con un utile netto per il 2008 di 84 milioni di euro, pari all’1,4% del fatturato e di soli 37 milioni nel 2009, con un’incidenza sulla cifra d’affari pari allo 0,6%.

Il livello di indebitamento non appare elevato in valore assoluto come quello di Atlantia –esso si situa intorno ad 1,9 miliardi di euro alla fine del 2009, contro i 2,1 miliardi della fine dell’anno precedente-, ma esso risulta comunque rilevante se lo confrontiamo con i mezzi propri dell’azienda.

Conclusioni

Il gruppo Benetton ha subito già da parecchio tempo una grande mutazione genetica, trasformandosi da un’entità che operava su di un mercato competitivo in una invece almeno parzialmente legata al carro pubblico. Questa trasformazione, che ha comunque molto accresciuto le dimensioni complessive dello stesso gruppo, non ha però permesso di risolvere i problemi economici e finanziari precedenti, ma anzi ne ha creati di nuovi ed ha legato molto più di prima le sorti aziendali, almeno in parte, alla volontà di governi e di banche. Così oggi i vari business non presentano una situazione brillante sul piano strategico, economico e finanziario. In particolare il settore tessile-abbigliamento sembra avere problemi strategico-organizzativi, Atlantia invece soprattutto di tipo finanziario, mentre Autogrill si ritrova con una scarsa redditività ed anche di nuovo con problemi di indebitamento elevato. La crisi degli ultimi anni ha certamente contribuito ad accrescere le difficoltà di prospettiva di un gruppo in cui esse erano già prima presenti in misura rilevante. Può darsi che il ricambio generazionale, che dovrebbe toccare in maniera più decisa la famiglia Benetton nei prossimi anni, possa portare a qualche colpo d’ala che è difficile attendersi oggi da degli imprenditori forse troppo appesantiti dalle esperienze anche difficili incontrate su vari fronti negli ultimi decenni.

Testo citato nell’articolo

Astone F., Gli affari di famiglia, Longanesi, Milano, 2009

Per capire il meccanismo del nuovo Pgt, bisogna partire da un triangolo ai confini con la città. Tra capannoni abbandonati, il campo rom di Triboniano come "vicino", i primi cantieri a disegnare quello che potrebbe essere lo skyline futuro. È questa l’area che, nella mappa dei 26 nuovi quartieri, ha ottenuto l’indice volumetrico più elevato. Una terra di nessuno, via Stephenson. Su cui però il Comune punta. E che dovrà rinascere grazie a una foresta di 50 grattacieli che, nelle intenzioni di Palazzo Marino, dovranno accogliere una novella Défense.

«Un rospo - ha definito via Stephenson l’assessore Carlo Masseroli - che potrebbe diventare un principe se sarà baciato dalla principessa Pgt». Perché lì accanto dovranno sorgere i padiglioni di Expo, portandosi dietro infrastrutture e investimenti. E lì il Comune ha grandi ambizioni. Anche Salvatore Ligresti, che è uno dei proprietari, pensa che quello di Parigi sia un modello: «Sviluppare poli esterni, come alla Défense o come all’Eur - ragiona il costruttore - è utile per snellire il traffico e sviluppare centri direzionali all’esterno». Anche se sulla possibilità di trasferire quel «simbolo» in via Stephenson è dubbioso: «È un grosso rischio». Affari, certo: anche questo è il Pgt. E, non a caso, per attirare l’interesse degli immobiliaristi Palazzo Marino permette di concentrare una gran quantità di costruzioni in via Stephenson: in tutto 1,2 milioni di metri quadrati, quasi 800mila in più di quanto "varrebbe" l’area, grazie agli acquisti al mercato delle volumetrie.

Il libro mastro dell’urbanistica dei prossimi vent’anni sarà proprio il "registro delle volumetrie": in quelle pagine verranno annotati tutti gli spostamenti di diritti a costruire che si potranno scambiare come in Borsa. Compresi quelli che "genererà" il Parco Sud, dove non si potrà cementificare. È il meccanismo che metterà in moto il Piano. A cominciare da quei 26 nuovi quartieri che nasceranno al posto di binari e caserme. Perché non è tutta uguale, Milano: non quella che punta a 490mila abitanti in più. Non in questo Pgt che divide la città in 88 piccole zone e trasforma oltre 7 milioni di metri quadrati (8 se si considera anche l’area Expo) su cui caleranno quasi 6 milioni di costruzioni.

Ancora troppi per il centrosinistra, nonostante la mappa sia uscita modificata da otto mesi di dibattito in consiglio comunale che hanno, ricorda l’opposizione, «ridotto il cemento, raddoppiato il verde e fissato per ogni zona una quota minima di housing sociale». Il Pd ha pesato l’impatto con un’unità di misura: il grattacielo Pirelli, con i suoi 127 metri di altezza. Il conto: quei milioni di costruzioni, solo nelle zone più dense, equivalgono a 161 Pirelloni. Ma per una via Stephenson di giganti ci saranno altri perimetri da destinare a verde o a spazio pubblico come la stazione di San Cristoforo o dove - come allo scalo di Greco - le volumetrie calano rispetto a quelle sulla carta. Per lo scalo Farini, invece, il modello è Manhattan: un Central Park che occupa il 60 per cento dell’area e tanti grattacieli equivalenti a 19 Pirelloni.

Non tutte le aree cresceranno in egual modo. C’è una regola base nel Pgt che cancella le destinazioni d’uso: saranno le esigenze della città a determinare cosa sorgerà in una zona. In generale, la metropoli avrà uno stesso indice di base: 0,50 metri quadrati edificabili su ogni metro quadrato (molti piani di intervento oggi si aggirano su 0,65; a Citylife si è superato l’1). Vicino a stazioni del metrò o ferrovie, però, si dovrà partire da un indice 1, spostando la differenza anche con l’acquisto in "borsa". E poi ci sono i 26 appezzamenti di proprietà soprattutto delle Ferrovie, del Demanio o del Comune (ma anche di privati, come via Stephenson; a Bovisa e Cascina Merlata "comanda" EuroMilano), ognuna con possibilità di crescita differenti. Per costruire senza consumare altro suolo, nelle intenzioni del "padre" del Piano, Carlo Masseroli. Per lui il Pgt darà la possibilità di sviluppare la città unendo servizi, parchi, spazi pubblici. Tutto con «regia comunale». Ma è proprio la capacità dell’amministrazione di governare le regole e la trasformazione una delle incognite. Insieme ai soldi pubblici (7,7 miliardi) che mancano per aumentare trasporti e servizi.

Sfruttare al massimo le concessioni, però, secondo il responsabile scientifico del Pgt, l’architetto Andrea Boschetti, è una possibilità che costerà: «E chi costruirà di più dovrà garantire più servizi». Tra le aree in cui si potranno condensare più edifici c’è la piazza D’Armi della Perrucchetti: con metà superficie riservata a verde, i Pirelloni potrebbero essere 27. A Porta Genova si potrà puntare su spazi per atelier e design, alla Bovisa su una cittadella della scienza e della tecnologia. E, sempre a proposito di cittadelle, a Porto di Mare dovrebbe sorgere quella della giustizia, ma il Tribunale non è più a rischio trasloco e anche San Vittore sembra destinato a rimanere dov’è. Il resto lo faranno, come sempre, il tempo e il mercato.

Un sito che raccoglie i progetti collaterali all'evento Expo per «contribuire a realizzare un'esposizione universale diffusa e sostenibile». Questa piattaforma di «partecipazione online» è la proposta del dipartimento di Architettura del Politecnico che ha attivato il sito www.eds.dpa.polimi.it , accessibile da ieri, su cui già sono presenti proposte e ipotesi di lavoro. La creazione di «greenway ciclabili» e il recupero di aziende o luoghi dismessi in tutta la Lombardia, da Bergamo a Varese; ma anche la nascita di cinture agricole e la valorizzazione di Ville poco conosciute e visitate.

Dalla mobilità all’energia, dall’agricoltura allo sviluppo sociale, le proposte arrivano direttamente dalle associazioni e dalle istituzioni che li stanno definendo, secondo la logica della «partecipazione dal basso». «Non è un progetto che si contrappone a quello ufficiale— ha spiegato il professor Emilio Battisti, ordinario di Composizione Architettonica, che ha ideato l’iniziativa — e la logica è quella dell'integrazione.

L'obiettivo è dare la possibilità a quanti arriveranno a Milano in occasione dell'Expo di conoscere il territorio e le sue potenzialità in maniera diffusa, senza fossilizzarsi unicamente sul sito espositivo». L’iniziativa, che è cofinanziata dal Politecnico e dalla Fondazione Cariplo, è curata da un gruppo di giovani laureati che hanno ricevuto un assegno di ricerca per sei mesi. Il progetto si conclude entro dicembre: è già cominciata la ricerca di risorse e contributi per proseguire il lavoro il prossimo anno.

«Non parlo da tecnico, ma da cittadino a cittadino»: così diceva il grande architetto Giovanni Michelucci. Che lingua parla il Pgt di Milano nelle sue mille e passa pagine scaricabili (a fatica) da internet? Se potessimo chiedere, non all’Accademia della Crusca, ma ai 60.387.000 residenti in Italia cosa significa «evasione della spesa», ci risponderebbe, credo, solo chi l’ha scritto. E che direbbe un cittadino qualunque nel leggere che «il pendolarismo in entrata a Milano è cresciuto di circa 300.000 auto al giorno»? E i demografi di fronte a un’espressione come una «classica crescita demografica»? E che reazione avrebbe uno studente liceale minimamente attrezzato di fronte all’affermazione che il Pgt non intende rinunciare «ai caratteri di genericità e flessibilità propri di un piano strategico per una grande area»? Se genericità è rivelatore del vuoto di idee, lo scambio fra generico e generale che ricorre in un altro passo è indicativo di quale considerazione venga riservata all’interesse generale.

Il cittadino che ha che vedere con la scarsità di posti nell’asilo nido potrà essere rassicurato nell’apprendere che il Piano dei Servizi è «inteso come mediascape»? Dormirà tra due guanciali nel sapere che il Pgt della sua città intende far fronte al «fabbisogno edificatorio» e non, per esempio, al fabbisogno abitativo? Ancora una volta un lapsus freudiano.

Si obbietterà che a parlare in un Pgt sono soprattutto le immagini. Si veda allora, a pagina 37, l’Ipotesi di studio per il riutilizzo della tangenziale est. Partendo dall’assunto (illusorio) che la nuova tangenziale esterna Est-est potrà scaricare il traffico di quella attuale, si ipotizza che questa si trasformi in una sorta di boulevard a cui ancorare otto enormi grattacieli. Otto leccornie per immaginari assessorili.

«Eccoli, i bastardi, appena usciti dalla fortezza». Fariz dà un calcio alla lattina in terra mentre passa la volante. Alza il cappuccio, piove e soffia il solito vento micidiale di Clichy, un altipiano esposto alle intemperie, quasi fosse un´altra punizione divina. Fariz ha 14 anni, ripete il ginnasio con scarse probabilità di passare, l´anno prossimo è fuori. S´infila tra due Hlm, le grandi torri di case popolari. Un presente di spaccio e piccoli espedienti. «Sono in deal, in affari, e anche se i keufs, i poliziotti, mi mettono alla cage, in prigione, tanto sono minorenne. Un mio amico è già entrato e uscito cinque volte».

Racaille, feccia, cinque anni dopo. Ragazzini come Fariz avvampati di odio, uguali ad allora. «Se ci provocano, li sfondiamo» dice indicando il nuovo commissariato, avamposto della République in terra ostile. A Clichy-sous-Bois due abitanti su tre sono di origine straniera. Uno su tre è disoccupato, il 75% della popolazione è considerato indigente e vive di sussidi. Appena quindici chilometri da Parigi, un´ora e mezza di trasporti. Guardando la "fortezza" si capisce che la rivolta è solo in sonno. Da qualche giorno, centocinquanta poliziotti si sono stabiliti qui per presidiare la periferia che ha lanciato gli scontri del 2005 in tutto il paese: ventuno notti di assalti alle forze dell´ordine, diecimila auto incendiate, tremila fermati, finché è calato il coprifuoco. Da allora è tregua armata. E un lento ritorno alla normalità. Il commissario capo, Olivier Simon, manda via i giornalisti. «Non posso dire nulla». Una parola di troppo può diventare dinamite.

Anche Muhittin Altun è costretto al silenzio. Racaille, pure lui. Il 27 ottobre 2005 voleva sfuggire a un controllo della polizia. Insieme agli amici Zyed e Bouna si è nascosto in una centrale elettrica. Loro sono morti fulminati, lui è vivo per miracolo. Zyed e Bouna, 17 e 15 anni, sono diventati il simbolo della rivolta. Ancora oggi i loro nomi sono dentro ai rap, sui graffiti, negli slogan dei casseurs che manifestavano qualche giorno fa nei cortei contro le pensioni. Muhittin è caduto in grave depressione, è sotto psicofarmaci. Non sa se riuscirà ad andare alle commemorazioni di oggi. A Clichy, anche sopravvivere può diventare una colpa. «Cinque anni per avere giustizia sono un tempo interminabile» spiega Siaka Traoré, fratello maggiore di Bouna. Venerdì scorso i poliziotti coinvolti nell´incidente sono stati rinviati a giudizio per omissione di soccorso. Hanno visto entrare i ragazzini nella centrale ma non hanno dato l´allarme. Quel giorno, alle 18.52, il blackout a Clichy-sous-Bois ha annunciato la tragedia in corso. Gli avvocati chiederanno la diretta televisiva per il processo. Non è ancora detta l´ultima parola: la procura ha fatto ricorso sul rinvio a giudizio.

«La riconciliazione passa anche attraverso la verità sulla morte di Zyad e Bouna». Claude Dilain fino a quarant´anni ha fatto il pediatra poi, nel 1995, è diventato il sindaco socialista di Clichy-sous-Bois. All´epoca, le cose andavano già molto male. «L´odio», il film di Matthieu Kassovitz ambientato in una periferia-ghetto, è di quell´anno. Durante gli scontri, Dilain dormiva di giorno e vegliava di notte. «La rivolta può scoppiare di nuovo, in qualsiasi momento». Il 70% dei giovani non ha votato alle ultime elezioni, la criminalità organizzata è sempre più radicata nelle banlieues. «L´altro segnale preoccupante è il ripiego sull´identità religiosa e culturale». Giovani donne velate, famiglie poligame. «I figli o nipoti degli immigrati hanno preso atto del fallimento dell´integrazione nella società francese».

Arrivando in macchina da Parigi, l´orizzonte è puntellato da gru gialle e rosse. Clichy è diventata un enorme cantiere. Millecinquecento nuove case sono state costruite al posto di quelle vecchie e fatiscenti. I finanziamenti per il rinnovo urbano sono l´unica novità visibile del famoso "Piano Marshall" che Nicolas Sarkozy ha promesso. «Noi chiediamo educazione e lavoro. Il nostro futuro non è fatto solo di muri puliti». Samir Mihi, 33 anni, era amico di Zyad e Bouna e ha fondato l´associazione "Au delà des mots". Il tasso di disoccupazione tra i giovani supera il 40%, e non esiste un ufficio di collocamento. «Sul curriculum - racconta Samir - nessuno di noi scrive il vero indirizzo. Dal 2005 Clichy è sinonimo di racaille».

Quegli scontri sono una pesante eredità. «Ma almeno la Francia non ignora più la nostra situazione», commenta Claude Dilain. Il sindaco di Clichy guida l´associazione dei 120 comuni cosiddetti "sensibili". La banlieue è la vera frontiera. Ogni anno circa 200mila stranieri si stabiliscono in queste città satelliti. «Il patto sociale sul quale ci siamo costruiti negli ultimi due secoli è andato in frantumi. E nessuno ne vuole discutere davvero». È la storia di un tipo che cade da un palazzo di cinquanta metri, diceva il protagonista de «L´odio». Fino a qui tutto bene. Ma l´importante non è la caduta. È l´atterraggio

Roma, mega progetto intorno al circuito dell´Eur: grattacieli al posto delle aree verdi - Italia Nostra: i terreni ceduti ai privati in cambio delle infrastrutture del Gran Premio

ROMA - Il cemento ha il colore di una fotografia di quello che sarà. Due alti palazzi gemelli da una parte e dall´altra all´altra del verde delle Tre Fontane, davanti ai bianchi marmi dell´Eur, dove adesso si stagliano il rosso dei campi da tennis e delle piste di atletica e il verde di quelli da basket. Ognuno sarà un piccolo grattacielo, ben quindici piani fuori terra che si allungano in altri sette piani accanto, a forma di una L, e tutti e due ospiteranno appartamenti di lusso, uffici e negozi, messi in vendita per lanciare e realizzare il Gran Premio di Roma e far sfrecciare nell´estate del 2013 i bolidi della Formula Uno nel quartiere.

Il progetto è stato presentato all´inizio di agosto in grandi cartelle rosse e bianche nelle stanze che contano del Campidoglio e adesso aspetta il via libera della conferenza dei servizi, convocata per il 9 novembre, e poi del consiglio comunale. I due palazzi del comprensorio si chiamano con nomi poetici, Porta dei Pini e Porta delle Tre Fontane. Ma sono 80 mila metri cubi che si abbatterebbero su uno degli angoli storici destinati a verde attrezzato del quartiere, quelli dove dagli anni Sessanta intere generazioni di ragazzi, con le loro magliette bianche e le scarpette da ginnastica, hanno cominciato a correre sulle piste, a giocare a tennis e a pallacanestro.

Così scendono in campo le associazioni dei cittadini del quartiere (Comitato Salute Ambiente Eur, Coordinamento Comitati e Cittadini per la Difesa dell´Eur, Coordinamento No Alla Formula Uno e La Vita degli Altri Onlus) e Italia Nostra, con un dossier dal titolo "Le mani sull´Eur" e un appello al sindaco Alemanno, ma anche ai ministri dei Beni Culturali, Sandro Bondi , e dell´Ambiente, Stefania Prestigiacomo, e al premier Silvio Berlusconi. «Ribadiamo» scrivono «la nostra estrema preoccupazione riguardo un progetto che sembra aver preso forma parallelamente alla concezione di Roma Capitale, dimostrando finalità e modi privatistici, troppo lontani dall´interesse pubblico. Un´impresa che si è avvalsa, finora, di modalità di comunicazione a nostro avviso poco chiare, basate sui più agili metodi dell´imprenditoria privata, quando l´oggetto in discussione sono un quartiere storico, gioiello del Razionalismo, e il benessere di migliaia di cittadini»

I nuovi edifici, che si aggiungerebbero ai 150 mila metri cubi da costruire nell´ex Velodromo, spazzeranno via all´inizio tutte le strutture sportive delle Tre Fontane che sarebbero rase al suolo per far posto ai cantieri e poi ricostruite nello spazio rimanente.

Frutto dell´operazione sarebbero quei cento milioni che servono a Roma Formula Futuro capitanata dal presidente degli industriali della Federlazio Maurizio Flammini, ex pilota e patron della macchina organizzativa del Gran Premio romano, per approntare le opere necessarie a far sfrecciare i bolidi per le strade dell´Eur.

Un progetto per il quale la contropartita per la città consisterebbe nel nuovo ponte su via delle Tre Fontane, nella ristrutturazione di via delle Tre Fontane, trasformata in un boulevard, e la recinzione dei parchi dell´Eur, da quello degli Eucalipti a quello del Ninfeo all´altro del Turismo.

E la variante al piano regolatore, con relativo accordo di programma, che dovrebbe dar vita al comprensorio, sarebbe ricavata mettendo a disposizione di privati una parte di suolo pubblico destinata originariamente a verde e a servizi di livello locale come "paesaggio naturale di continuità" che collega la valle del Tevere al parco di Tormarancia. Insomma Ente Eur e Comune regalerebbero i terreni alla società costruttrice in cambio di altre opere necessarie per il Gran Premio. «Un´operazione ridicola» attacca il consigliere del Pd Athos De Luca, uno degli storici difensori del verde della Capitale «se si pensa che gli edifici dovrebbero ospitare alla fine solo 720 abitanti e trecento addetti degli uffici».

Altro discorso l´allargamento del ponte delle Tre Fontane per far passare sotto il circuito, un´opera da 26 milioni di euro. E quale sarà l´impatto con almeno centomila spettatori? Basteranno i parcheggi in un´area di tre-cinque chilometri intorno al circuito? Infine è di pochi giorni fa l´ennesima bagarre sul fronte del contestatissimo Gran Premio all´Eur. «Non c´è alcun contratto con Roma», rivela Bernie Ecclestone dal circuito coreano di Yeongam. E il sindaco Gianni Alemanno precisa: «La disponibilità di Ecclestone è certa, la proposta deve passare in Consiglio». Ma davanti ora c´è il grande scoglio della colata di cemento sull´Eur.

Intervista

Della Seta: blitz dei palazzinari

sembra un remake degli anni ´50

ROMA - «La cosa più pericolosa è che chi vuole organizzare il Gran Premio a Roma se lo paga con aree regalate che, per effetto della variante, diventerebbero d´oro. Questo è il vero business».

Roberto Della Seta, ex presidente di Legambiente e senatore Pd, attacca il progetto della F1.

Che cosa succederà all´Eur?

«È un quartiere con un equilibrio e una funzionalità complessiva e non c´è alcun bisogno di piazzarci in mezzo questa specie di astronave di cemento. Deve intervenire il ministro Bondi. Tra l´altro il meccanismo è la prova più evidente che il Gp di F1 a Roma di per sé non è un affare».

Il sindaco Alemanno parla di un indotto di un miliardo.

«Ma l´investitore, che fa il suo mestiere, è il primo a dire che queste cubature servono a compensare una parte delle spese».

E il Comune?

«Il fatto grave è che il Comune si faccia promotore di un uso privatistico delle sue funzioni pubbliche. Da questo punto di vista sembra di essere tornati agli anni ‘50 e ‘60 quando la politica urbanistica della Capitale la facevano i palazzinari».

Gli abitanti protestano anche per il rumore.

«Non esistono esempi di città storicamente complesse come Roma che ospitino una gara del genere. E, per quanto riguarda il rumore, vicino al circuito c´è l´ospedale Sant´Eugenio, i cui pazienti in agosto non vanno in vacanza».

«Benvenuti a ’ndranghetello», ironizza un blog di cittadini impegnati.

Sapendo che c’è poco da ridere lungo l’alzaia placida del Naviglio, nel tratto stretto che corre da Pavia alla Certosa: Borgarello è ormai la capitale silenziosa della mafia in Lombardia. È, più ancora di Buccinasco, la Platì del Nord. Nel 1991 era la mini Versailles di Diego Dalla Palma, il visagista delle dive. Il Re del mascara viveva a villa Mezzabarba, tutto intorno campagna e pioppeti. Pochissime case, nemmeno mille abitanti. E’ nell’ultimo decennio che la popolazione esplode a 2.700 anime. Nel mezzo un boom edilizio spettacolare, case su case, cemento & betoniere. Villette a schiera in mattoncini rossi e nuovi quartieri che sfungano per milanesi che scappano dalla metropoli, come il Santa Teresa vicino a via Berlinguer. Adesso la giunta «Rialzati Borgarello», eletta nel giugno 2009 e appoggiata da Pdl e Lega, vorrebbe replicare a Porto d’agosto, lungo la statale. Se non verrà sciolta prima, però, come un comunello infiltrato della Locride.

L’ultima retata è scattata giovedì. In manette finiscono il sindaco Giovanni Valdes, Alfredo Introini, ex vice direttore della Bcc di Binasco, e l’imprenditore Salvatore Paolillo. Gli arresti sono la coda della maxi retata di luglio, filone Carlo Chiriaco, l’ormai ex potentissimo direttore dell’Asl di Pavia, accusato di essere il referente locale delle ‘ndrine calabresi. Secondo i Pm il sindaco avrebbe truccato l’asta di un lotto edilizio per favorire la Pfp, una società immobiliare della costellazione Chiriaco, per gli inquirenti già collettore di voti per il «Faraone» Giancarlo Abelli, da anni uno dei ras della sanità lombarda e padrino politico dell’attuale sindaco di Pavia. Un ritratto d’insieme che si ritrova a Borgarello, dove il ciellino Valdes in campagna elettorale può vantare come madrina di eccezione proprio la signora Abelli, Rosanna Gariboldi, finita in carcere per riciclaggio e poi uscita dietro patteggiamento per la vicenda delle bonifiche di Santa Giulia. Il link con Chiriaco è quello sanitario. Il sindaco-costruttore siede anche nel cda dell’Ospedale pavese Mondino.

In realtà Valdes è indagato da luglio. A Borgarello doveva arrivare il commissario ma poi il sindaco ci ripensa e ritira le dimissioni. In paese si dice perché ricattato da qualche pesce grande. Non a caso la prima cosa che fa è riprendere in mano l’iter del futuro centro commerciale «Factoria», con tanto di mega albergo da 43 piani(!): un piano di lottizzazione dietro cui si agitano fantasmi malavitosi.

Insomma che succede nel Pavese? Blogger e attivisti come Giovanni Giovannetti e Irene Campari si sgolano da anni, denunciano infiltrazioni (dai Barbaro ai Mazzaferro). Ma le istituzioni fanno pigramente spallucce. Dietro ogni arresto non si vuol vedere il mosaico criminale. A Borgarello la sequenza è impressionante. Villettopoli che nascono all’improvviso; l’arresto di un assessore comunale (Luigi Perotta) accusato di riciclaggio; la Dia che mette agli arresti una intera famiglia (i crotonesi Vittimberga), nientemeno che armieri della ‘ndrangheta, a cui Valdes fa costruire la prima opera pubblica del suo mandato; lo scandalo Chiriaco e l’arresto di un costruttore locale (Francesco Bertucca), papà dell’assessore comunale Antonio. Fino all’iscrizione nel registro degli indagati del cugino di Chiriaco, il costruttore residente Morabito, e l’altro giorno la vicenda del sindaco.

Tutto in pochi mesi vissuti pericolosamente. Filo conduttore: l’edilizia in un paesino alle porte di Pavia. Ovvio che la gente sia incredula. Qui tutti conoscono tutti. «Il sindaco legge in chiesa», mette la mano sul fuoco il prete del paese, don Zambuto. «Certo gli ha rifatto l’oratorio», maligna l’opposizione. La stessa Lega è in difficoltà dopo l’affaire Ciocca, il consigliere regionale fotografato con boss di ’ndrangheta durante la campagna elettorale. La segreteria provinciale ha subito sospeso i tre esponenti locali, troppo morbidi con un sindaco già indagato.

Si scappa da Milano e dallo smog, si compra la villetta nel verde e poi si scopre che quelle case le hanno costruite imprese colluse coi calabresi. Paradossale. O forse no, allargando lo sguardo su una provincia tagliata da Po e Ticino che al ponte della Becca si abbracciano. Sospesa tra il porto di Genova e l’aeroporto di Malpensa. Vicina a Milano ma lontana abbastanza per dare nell’occhio. Un provincia discreta un po’ dormitorio (30 mila pavesi lavorano sotto il Duomo) e un po’ impiego pubblico al polo sanitario dove spadroneggiava Chiriaco.

Ma soprattutto una provincia senza più industrie (Necchi, Snia, Neca, Marelli sono aree dismesse che fanno gola alla speculazione), immersa in una bolla immobiliare ben oltre la domanda di residenza e di terziario dove domina la rendita fondiaria (la borghesia locale ha sempre case da affittare agli universitari) e la densità bancaria (61 sportelli in città) è sproporzionata al tasso d’impresa.

Il Bengodi per chi vuol fare affari sporchi e riciclare, in mezzo ad una società impreparata a combattere il rumore di carnefici invisibili.

postilla

Correva il lontano anno 2003 o giù di lì, eddyburg.it muoveva i primi passettini, e iniziava a proporre qualche "corrispondenza locale", come quella che il Direttore chiese al sottoscritto, su un caso segnalato anche da RadioRai, relativo a un grande centro commerciale. I soliti "nimbies" pensavo, o al massimo un po' di scandalo in più, e invece davvero valeva la pena di guardare meglio, in quell'intreccio fra dimensione locale e interessi esterni. La corrispondenza poi diventò con qualche revisione e ritocco il capitolo introduttivo ai Nuovi Territori del Commercio, ma evidentemente c'era anche qualcosa d'altro, in tutta la pressione "sviluppista" dispiegata fra le ultime frange metropolitane milanesi e il Parco Ticino. Adesso sta iniziando a emergere esplicitamente, grazie alla magistratura, almeno uno dei motori immobili di tanta ansia modernizzatrice, anche contro ogni logica e riflessione. E, come ci ha spiegato bene anche Serena Righini alla Scuola di Eddyburg a Napoli, sicuramente un sistema decisionale più trasparente - e democratico - avrebbe contribuito a farle emergere prima, queste distorsioni (f.b.)

Qui la vecchia corrispondenza locale da Borgarello

Qui la lezione di Serena Righini

Archistar per la Città della Salute. Per realizzare l’opera da 520 milioni di euro, destinata a trasferire l’Istituto dei tumori e il neurologico Besta a nord ovest di Milano di fianco all’ospedale Sacco, il governatore Roberto Formigoni vuole coinvolgere imigliori studi di architettura del mondo: «È il progetto d’edilizia sanitaria più importante d’Italia — dice —. Il bando di concorso sarà internazionale».

Con la firma al Documento preliminare di progettazione (Dpp), ieri è arrivato il via ufficiale al maxi-polo di Vialba alla presenza dei vertici dei tre istituti sanitari. L’investimento sarà realizzato in project financing: metà del capitale sarà messa a disposizione subito dalla Regione (228 milioni) e, in minima parte, dallo Stato (40 milioni); gli altri 250 milioni saranno resi disponibili dai privati che recupereranno l’investimento con la gestione dei servizi (come posteggi, mense e pulizie) e, soprattutto, con un canone di disponibilità a carico di Regione.

Il compito di trovare la copertura finanziaria integrale dell’opera (con l’intervento delle banche) e di avviare le procedure di gara, adesso è del consorzio Città della Salute e della Ricerca, creato ad hoc dal Pirellone e presieduto da Luigi Roth, che nel suo curriculum vanta la creazione della Fiera in soli 30 mesi. Il concorso sarà pubblicato, con ogni probabilità, entro febbraio ( www.consorziodellasalute. ai concorrenti sarà chiesto di mettere a disposizione i fondi mancanti e di presentare un progetto architettonico all’altezza delle aspettative. «La Città della Salute sarà una struttura che "gira attorno" al paziente e al suo percorso di cura — dice Roth —. Sarà un luogo in cui il cittadino si orienta con facilità». Come tutti gli ultimi sei ospedali costruiti, neppure in questo caso ci saranno i reparti: i pazienti verranno distribuiti piano per piano a seconda della gravità della malattia (modello Toyota).

Confermati i tempi di realizzazione della struttura, con l’inizio dei lavori nel 2012 e il completamento per l’Expo. «Sono tempi da record», aggiunge Formigoni. Le nuove costruzioni occuperanno 220 mila metri quadri per le attività di ricerca e di cura, nonché per le strutture dedicate ai familiari dei pazienti e ai ricercatori. Altri 70 mila metri quadrati saranno dedicati a parcheggi, impianti tecnologici e all’asilo nido aziendale. I posti letto complessivi saranno 1.405 (Besta 250, Tumori 505, Sacco 650), quasi cento in più degli attuali (Besta 223, Tumori 482 e Sacco 604). I lavoratori, 3.200 in totale, saranno mantenuti ai livelli attuali. Insiste l’assessore alla Sanità, Luciano Bresciani: «Il progetto esalterà le eccellenze di ciascun istituto, cosa che altrimenti non sarebbe stata possibile».

Negli edifici attuali dell’Istituto dei Tumori e del Besta, al momento, è prevista solo la creazione di presidi ambulatoriali.

Ogni giorno intorno alla Città della Salute ruoteranno quasi diecimila persone, tra pazienti, familiari, medici, infermieri, fornitori. Di qui l’importanza dei collegamenti viabilistici. Gli attuali sono insufficienti. Tra le ipotesi più accreditate, quella di un metrò leggero dal costo di 300 milioni, che dovrà collegare Affori con Molino Dorino passando per l’area dell’Expo e, per l’appunto, dalla Città della Salute. Ma la decisione qui spetta al Comune di Milano.

Al Forte Village di Santa Margherita di Pula e fino al 13 novembre la Wolkswagen ha organizzato un evento al fine di presentare il suo ultimo modello a operatori e possibili compratori provenienti da 150 Paesi, tra cui ci sono i concessionari del Canada, dell’America del Nord, del Giappone, dei Paesi dell’Est Europeo. Si tratta di uno dei più importanti meeting internazionali organizzati avendo come scenario la Sardegna, o meglio una porzione della costa del sud, e si tratta anche di un caso di successo di turismo congressuale, così come più volte auspicato in diversi sedi, istituzionali ed economiche. In ragione di ciò, certamente saranno numerosi coloro che enfatizzeranno le ricadute economiche e simboliche di questo evento sulla nostra isola.

Considero il turismo strategico per la Sardegna e sono una sostenitrice del turismo congressuale, non ultimo perché l’università dà il suo piccolo contributo a questo settore, ma avverto il bisogno di avanzare due semplicissime domande: “quanta ricchezza prodotta da questo meeting rimarrà in Sardegna” e “quale immagine dell’Isola rimarrà impressa nei protagonisti di questo incontro”. Ho paura che sia facile rispondere alla prima domanda, anche perché l’intera organizzazione dell’incontro così come la struttura di accoglienza sono del tutto estranee alla Sardegna. Sulla seconda domanda, dalle cronache si evince che in questi giorni non si faranno solo affari automobilistici ma ci sarà oltre lo spazio internazionale che risponderà alle esigenze dei numerosi ospiti, uno spazio “mediterraneo”. Presumo che ci si riferisca soprattutto a cibi dell’economia locale, ma collocare la cultura della Sardegna in un apposito “spazio” appare di per sé significativo.

In realtà, il rischio che questo evento alimenti facili illusioni appare molto alto.

La prima illusione è che si debba rafforzare la monocultura del turismo, purtroppo radicata nei nostri territori, tanto che anche il più piccolo comune da alcuni anni finalizza parte delle sue scarse risorse finanziarie per organizzare occasioni di attrazione turistica (per lo più sagre). Senza peraltro fare mai un bilancio dei costi e dei benefici di questi investimenti. Ma non ogni territorio possiede una vocazione turistica e, soprattutto, quasi nessuno possiede le professionalità adeguate per entrare in un sistema complesso qual è il turismo. L’idea che tutto possa tradursi in turismo ha avuto un impatto devastante sulle città e sulle campagne, e ciò non riguarda solo la Sardegna ma è problema comune a tutti i Paesi a sviluppo avanzato, come ha messo in risalto la European Environment Agency nel 2006, sia perché si è tradotto prevalentemente in consumo del suolo sia perché un certo tipo di turismo – compreso quello di Santa Margherita di Pula – in realtà costituisce una minaccia per la stessa cultura europea, e sarda per ciò che ci riguarda.

La seconda illusione è che si rafforzi l’idea che in Sardegna sia necessario costruire alberghi di lusso un po’ ovunque, proprio per diffondere questo tipo di turismo di elite. Ciò significherebbe mettere in secondo piano ancora una volta le unicità paesaggistiche tuttora presenti nella nostra Isola. Ad esempio, mi aspetto che il caso del meeting della Wolkswagen venga utilizzato dai sostenitori del progetto di Capo Malfatano di Teulada come un buon esempio da diffondere e come argomento per dire, a chi si oppone, che costruire strutture ricettive per ricchi valga il sacrificio di luoghi tra i più incontaminati del Mediterraneo.

La terza illusione è che sia sufficiente avere alberghi a 5 stelle per organizzare grandi eventi, magari coinvolgendo archistar. Penso per ultimo alla recente polemica sul mancato Betile e al flusso di visitatori che, secondo alcuni, avrebbe potuto innescare questa costruzione griffata, prendendo ad esempio il successo del Maxxi a Roma. Ma soprattutto penso a Mita Resort di La Maddalena. Tutti esempi che ci portano, guarda caso, agli stessi proprietari.

In conclusione, le sirene del turismo sono sempre in agguato e finora sono servite ad allontanare il nostro sguardo dalle potenzialità reali della Sardegna, meno male che i movimenti degli operai e dei pastori fanno di tutto perché non dimentichiamo troppo.

Postilla



Più che “illusioni” le chiamerei gli “obiettivi” che la maggior parte dei promotori del turismo come salvezza della Sardegna si pone. Quale che sia l’occasione che spinge il viandante a muoversi, l’obiettivo reale, utile, fecondo per l’ospitante e per l’ospitato è la conoscenza. Se vado in un altro paese ciò che devo ottenere (e, magari, ciò che mi spinge ad andare qui invece che là) e allargare la mia conoscenza del mondo: dei suoi luoghi, le sue culture, il suo popolo, le sue abitudini, storie, cibi, odori, luci. Il turismo può diventare lo strumento che aiuta l’ospitante a non vivere l’identità della sua comunità come qualcosa che esclude chi non le appartiene, ma come qualcosa che si arricchisce comunicandosi; e che aiuta l’ospitato a comprendere come la diversità – dei luoghi e dei popoli – è un ricchezza per tutti, e la conoscenza degli altri un modo per conoscere meglio se stesso.

Sono rimasto molto colpi di sentire, con le mie orecchie, un autorevole esponente dalla politica sarda, il consigliere regionale Cuccureddu, già sindaco di Castelsardo e accanito oppositore di Renato Soru, esternate il pensiero esattamente opposto a quello che ho ora esposto. Raccontava degli incontri che aveva avuto con i cinesi, e della proposte che stava elaborando per accogliere molti cinesi in Sardegna, e diceva: «Se dalla Cina mi chiedono: “quali sono le 10 cose che possiamo indicare ai nostri cittadini come cose da vedere in Sardegna”, io non posso rispondere, che so, i nuraghi, perché per loro sono solo degli ammassi di pietre; ma posso dir loro – proseguì con orgoglio – da qui, prendendo un aereo, possono essere in un’ora o poco più a Parigi e vedere la Tour Eiffel, o a Roma e vedere San Pietro e il Colosseo, o a Pisa la sua torre, o a Barcellona ecc. ecc.».

Per almeno dieci anni, a partire dagli anni '90, la Lega e il suo sogno di una Padania libera sono stati liquidati come bizzarri. Oggi,il partito di Umberto Bossi è l'unico in Italia che sta uscendo fuori bene dal caos politico» così commenta,sull'ultimo numero, il prestigioso settimanale britannico The Economist. Molti altri analisti stranieri si stanno interrogando su dove andrà a finire il nostro paese e si moltiplicano le ipotesi di secessione “morbida”, di due o tre Stati Confederati sul modello della Svizzera.

Molti ignorano il fatto che, come ha scritto più volte su questo giornale Silvio Gambino,le Confederazioni o gli Stati federatisi sono formati attraverso processi consensuali che portavano ad una unità più vasta, come è nata ad esempio l'Unione europea. Il processo in atto in Italia è invece analogo a quanto è successo in altre parti dell'Europa e del mondo in cui un'area dello Stato nazionale, in genere la più ricca,ha imboccato la strada della secessione con esiti anche tragici come nel caso della ex Jugoslavia e di alcune ex-repubbliche dell’ex URSS. Ma, come finirà in Italia, con quale configurazione istituzionale questo paese uscirà fuori dalla pesante crisi in corso?

Diciamo subito e con chiarezza che il debito pubblico italiano - ormai vicino al 120% del Pil - è insostenibile, per qualunque governo, salvo operare una rivoluzione sociale di cui non si vedono i segnali e le forze in campo. L'insostenibilità del debito è ben chiaro ai leader della Lega Nord che ormai puntano decisamente alla devolution passando da tre fasi: a) federalismo fiscale, b) federalismo istituzionale, c) secessione e forma confederale dello Stato italiano (ipotesi minima) o Stato nazionale indipendente(ipotesi più condivisa dal popolo leghista).

In questo modo,il debito dello Stato italiano verrebbe ripartito pro-capite per le tre grandi aree – Nord, Centro, Mezzogiorno, con un peso sul Pil di queste macroaree profondamente diverso: nel Nord il rapporto debito Pubblico/Pil scenderebbe al 60-65% del Pil, per il Centro si può stimare un 85-90%del Pil, mentre nel Mezzogiorno salirebbe ad oltre il 200% del Pil macroregionale.

Risultato: il Mezzogiorno uscirebbe dall'area dell'euro e diventerebbe un'area del tutto marginale con pesantissime ricadute sulla sua tenuta sociale e democratica. E' molto probabile che in questa ipotesi il nostro Sud andrebbe a fare compagnia a paesi come il Montenegro,il Kossovo, eccetera dei nascostati totalmente soggiogati ai clan mafiosi. Il Nord risolverebbe i suoi problemi economici momentanei, grazie alla ritrovata possibilità di incrementare la spesa pubblica,ma nel medio periodo sarebbe ridotto ad un piccolo paese (altro che G8 e G20) di nessun peso sul piano internazionale e con una forte dipendenza, direi un cordone ombelicale, con il colosso tedesco.

Fantapolitica? Purtroppo no,ma gli italiani sono molto bravi a nascondere la testa sotto la sabbia,a non voler vedere, a non voler farei conti con la propria storia. Per fortuna esiste anche un'Altra Italia che non si rassegna al degrado presente, che non accetta di restare immobile di fronte ad un paese che si va spappolando, che non vuole uno scontro interno tra Nord e Sud, una guerra fratricida. Questa Altra Italia verrà a Teano dal 23 al 26 ottobre per siglare un nuovo Patto tra i cittadini italiani,a partire dai Comuni che –loro sì- hanno diritto ad una forte autonomia ed autodeterminazione Ci saranno tanti sindaci, operatori sociali e culturali, rappresentanti di associazioni grandi (come Libera, l'Arci, Legambiente) e piccole realtà diffuse in tutto il nostro paese. E faremo i conti con la nostra storia, a partire dal periodo cruciale del Risorgimento, grazie alle relazioni di prestigiosi storici e studiosi.

Una grande assemblea verrà dedicata proprio a questo tema: Verità e Riconciliazione. Vogliamo, come meridionali, che sia fatta vera luce sulla storia d'Italia e sul grande contributo di sangue, braccia e cervelli che hanno dato i meridionali. Allo stesso tempo, siamo assolutamente contrari alla formazione di Leghe del Sud (o partiti del Sud) perché non vogliamo fare il gioco di chi punta a spaccare questo nostro paese costruito con tanti sacrifici. Pari dignità tra Nord e Sud, fine della criminalizzazione del Mezzogiorno, una nuova alleanza Sud/Nord contro la borghesia mafiosa che è diventata la classe dominante in tante aree dell'intero territorio nazionale.

Una Unità d'Italia che punti a creare una unità e collaborazione più vasta con tutti i popoli del Mediterraneo,che diventi il fulcro di una futura cittadinanza euro-mediterranea. Ma, le convergenze ed unità più grandi richiedono una base di partenza compatta: dalla disunità d'Italia non può nascere niente di buono per nessuno. A Teano o si rifà l'Italia, si mette una prima pietra verso una nuova Unità, si inaugura una visione condivisa del futuro, oppure perdiamo tutti.

Tonino Perna è presidente del comitato Pro Teano

Dal fiume carsico delle cricche romane emerge l'ultima inchiesta sulla pubblica amministrazione. Questa volta riguarda la Soprintendenza ai Beni architettonici e paesaggistici della capitale. La prima denuncia, ad opera di un alto funzionario interno a Palazzo San Michele, è arrivata sulla scrivania del sostituto procuratore Sergio Colaiocco lo scorso aprile. Quindi, altre quattro lettere hanno confermato una tesi pesante: gli uffici a tutela della bellezza della capitale non tutelano quasi nulla, usano poco l'istituto del vincolo, lo fanno con timore nei confronti dei costruttori potenti. È il caso del piano di edilizia intensiva di Tor Pagnotta che ha visto distruggere lungo la Laurentina uno sviluppo unico di architettura rurale. In alcuni casi, gli uffici della Soprintendenza si sarebbero resi complici di falsi amministrativi. Il denunciante, uno dei trenta coordinatori romani, nei cinque anni di esperienza nella capitale ha avuto un centinaio di pratiche sotto mano. Ottanta, ricorda, gli sono state sottratte e i suoi ponderosi lavori "a tutela" sono diventati inefficaci. «C'è un asservimento della Soprintendenza ad interessi privatistici», ha messo in calce l'architetto chiamando in causa gli ultimi cinque sovrintendenti romani, in particolare Luciano Marchetti e Federica Galloni. Tra i casi di autorizzazioni facili: la piscina "mondiale" Gav di Trigoria, l'edificio Telecom di via Abruzzi 25, lavori al rettorato della Sapienza, al teatro di Villa Torlonia, il palazzo trasformato in albergo dai russi dietro Villa Aurora.

Non poteva esser peggiore il ritorno sulla scena del premier dopo una brevissima assenza. Aveva posto al centro una forte accelerazione sul terreno della giustizia, preannunciando una riforma già pronta e rispolverando sin la legge-bavaglio, ma nel giro di poche ore ha dovuto registrare una durissima battuta d´arresto. L´ineccepibile intervento del Presidente della Repubblica ha posto in nuova evidenza alcune implicazioni di fondo e al tempo stesso l´arrogante imperizia anticostituzionale del Lodo Alfano. Dal canto suo Gianfranco Fini ha poi ribadito quella posizione di fermezza che per un attimo era sembrata meno limpida e intransigente (e l´incertezza aveva provocato diffuse proteste nella sua stessa area).

Una nuova sconfitta per il premier, dunque, che lo frena su un terreno decisivo e che frustra sul nascere il tentativo di stringer le file della maggioranza con una nuova forzatura: tentativo non rimandabile, perché nei giorni precedenti essa era sembrata quasi dissolversi in mille rivoli e tensioni. Non più calamitati dal protagonista del dramma, i riflettori avevano illuminato meglio un confuso agitarsi di spezzoni e gruppi, facendo risaltare per contrasto - annotazione poco confortante - la prepotente solidità del polo leghista e l´accresciuto decisionismo di Giulio Tremonti (l´unico che può prefigurare un "dopo Berlusconi": di qui i primi cenni di insofferenza del premier nei suoi confronti). I sussulti più recenti - con il vacillare dei tre coordinatori e il disorientato vagare degli ex colonnelli di An - si sono solo aggiunti a deterioramenti e derive precedenti. Si pensi alla assoluta mancanza di pudore che ha segnato la vicenda dell´inquisito - e poi condannato - "ministro per un giorno" Aldo Brancher, o alla protezione parlamentare garantita ad un indagato per camorra come l´ex sottosegretario Nicola Cosentino. O anche - per altri versi - alla scelta di Paolo Romani, "vicino" a Mediaset, per la sostituzione di Claudio Scajola. Appaiono semmai corpi estranei alla maggioranza i pochi esponenti che non fanno organicamente parte del sistema, per dirla con Denis Verdini: lo ha confermato la denuncia dell´onorevole Pisanu sulle ultime liste elettorali - «gremite di persone che non sono degne di rappresentare nessuno» - e ancor di più il gelo che l´ha accolta.

In altre parole, l´appannarsi della leadership di Berlusconi ha fatto emergere sempre di più i contorni del ceto politico che in essa ha cercato legittimazione e potere. E quella leadership ha la sua residua forza nella fragilità delle alternative, interne o esterne al centrodestra, più che nel consenso reale del Paese: ce lo ricordano i dati stessi del suo ultimo successo, alle regionali di qualche mese fa. Con un "non voto" giunto al 40% del corpo elettorale - sommando astensioni, schede bianche e nulle - ha scelto il Popolo della Libertà il 16% degli italiani con diritto di voto: uno su sei. Grazie alla legge attuale, e all´alleanza con la Lega, questa percentuale può però garantire la maggioranza in Parlamento. Può permettere a Berlusconi di continuare un percorso che ha come scopo e approdo l´accentramento del potere e uno stravolgimento profondo degli equilibri e degli assetti istituzionali. Oggi quel percorso è molto più accidentato di prima e il tempo non gioca a favore del premier: di qui il carattere sempre più esasperato che le sue scelte sono destinate ad avere.

Conviene dunque interrogarsi meglio sul sostanziale incrinarsi dell´egemonia berlusconiana. Non sembra dovuto, per la verità, ad una più ampia e prorompente indignazione sul terreno dell´etica privata e pubblica: difficile attenderselo, del resto, in una società che in questi anni ha visto diffondersi semmai l´indifferenza, se non l´estraneità, alla legalità e alle regole del vivere collettivo. Il declinare della credibilità del premier sembra connesso piuttosto al crescere di insicurezze e di delusioni, e al progressivo franare del terreno che ne aveva costituito la base di partenza: la capacità di sostituire la "rappresentanza " con la "rappresentazione". Di proporre una narrazione rassicurante, anche se evanescente e fittizia. Nei primi anni novanta, inoltre, la personalizzazione stessa della sua proposta politica sembrava rispondere in qualche modo ad umori reali, provocati dal crollo della "prima repubblica". Trovava alimento nelle reazioni a una "partitocrazia" sempre meno tollerabile. Oggi quella personalizzazione mette a nudo più che in passato le sue ragioni private e la sua incompatibilità con un orizzonte di regole. Più ancora: la rottura stessa delle regole - che inizialmente parve una risorsa ad ampi settori sociali, attivati dalla promessa di un "nuovo miracolo" - amplifica oggi solo incertezze, inquietudini e paure.

Questa è l´ultimo, avvelenato frutto del quindicennio che abbiamo vissuto: un Paese che ha visto aumentare distorsioni sociali, culturali ed etiche per impulso dei modelli e dei miti alimentati dal premier è ora scosso non superficialmente dalla loro crisi. E, in assenza di alternative, il tramontare dei miti dà rinnovato impulso al ripiegamento individuale e agli egoismi di ceto.

In assenza di alternative: questo è il nodo sotteso all´intero scorrere dei problemi, e mai il centrosinistra è parso così inadeguato come negli ultimi mesi. Incapace di rivolgersi ai suoi stessi elettori, ha mostrato un personale politico lacerato da conflitti morti da tempo, appassito nelle sue sconfitte e restio perfino a riflettere su di esse. Sordo nei confronti della società. Incapace di misurarsi con le colossali trasformazioni del mondo del lavoro (una carenza che lo segna ormai da tempo) o di offrire proposte di lungo periodo sui terreni decisivi dell´istruzione e della formazione. Il suo sguardo sembra essersi sempre più ristretto a quel che si muove fra le macerie del sistema politico; sembra lasciar fuori dal suo spettro visivo quella parte degli italiani che - per buone o cattive ragioni - da quelle macerie si è ritratta. Una parte amplissima, che va anche oltre quel quaranta per cento che qualche mese fa non ha votato o ha annullato la scheda. La deriva non può essere arrestata o frenata se non si parla anche a questa parte del Paese. E se non si fa comprendere realmente e concretamente al Paese nel suo insieme che il bene pubblico può essere perseguito in un modo molto diverso da quello con cui si è governato in questi anni. Diverso, anche, da quello con cui si è fatta opposizione.

Diciamo la verità: che alla fine arrivasse l’aut aut di Bruxelles c’era da aspettarselo. La Commissione europea è disposta a concederci due anni di proroga, dal 2013 al 2015, per ottenere i finanziamenti comunitari necessari a realizzare l’alta velocità Torino-Lione in cambio di un segnale concreto che facciamo sul serio. E questo segnale non potrà che essere l’avvio dei lavori del cosiddetto tunnel «esplorativo» nella polveriera della Val di Susa. In gioco ci sono 672 milioni di euro di cui 9, secondo il Sole24ore, sono già andati perduti: comunque vada siamo già fuori per una quarantina di milioni anche dalla scadenza del 2015.

Inutile dire che se il cofinanziamento europeo, il quale rappresenta il 27% del fabbisogno previsto a carico dell’Italia per l’infrastruttura di collegamento con la Francia, venisse dirottato come minaccia la Commissione verso altre infrastrutture, su quell’opera si potrebbe mettere una pietra tombale. Qualcuno indubbiamente gioirà. Ma per il Paese, comunque la si possa pensare, non sarà una buona notizia.

Una storia penosa, che dimostra purtroppo l’inadeguatezza (attuale) del nostro sistema nei confronti dei grandi progetti strategici. Soprattutto quando si tratta di compiere scelte di interesse generale che possono entrare in rotta di collisione con interessi locali. È lì che si misura tutta l’incapacità della nostra classe politica, più concentrata su obiettivi di breve periodo in vista delle successive elezioni invece che sul futuro del Paese.

Non per nulla la vicenda della Torino-Lione si trascina senza soluzione di continuità fin dal 1992: anno del primo governo di Giuliano Amato. «Un progetto vitale», venne definito dal comitato promotore, allora presieduto da Sergio Pininfarina, oggi senatore a vita. Due anni dopo, giusto una settimana prima della caduta del governo di Silvio Berlusconi, i ministri dei Trasporti italiano, Publio Fiori, e francese, Bernard Busson, firmarono l’accordo che prevedeva la costruzione di un tunnel di 60 chilometri sotto le Alpi. Obiettivo: togliere dalla strada 2,6 milioni di Tir. Tre anni più tardi, nel 1997, la prima fase di studi tecnici era conclusa. Costo: 60 miliardi di lire. Alla fine di gennaio del 2001 il presidente del Consiglio italiano, ancora una volta Giuliano Amato, e il presidente francese Jacques Chirac fissarono la data di entrata in esercizio della linea al 2015. Soltanto dieci mesi dopo, però, un nuovo vertice italo-francese, anticipò la scadenza di tre anni, al 2012.

Il nostro ministro, Pietro Lunardi, evidentemente non sospettava che nulla avrebbe potuto nemmeno la legge obiettivo. Senza poi considerare, al di là dei roboanti annunci berlusconiani, come di soldi in cassa per le grandi infrastrutture ce ne fossero davvero pochini.

Ripercorrere la strada di quello che è accaduto da allora è doloroso. Fra i proclami della destra e i balbettii della sinistra, nessuno è stato capace, per anni, di gestire la situazione. Non lo è stato, per ben due volte, il governo Berlusconi. E nemmeno il governo Prodi, nel quale coabitavano un ministro dell’Ambiente, Alfonso Pecoraro Scanio, che definiva la Torino-Lione «un danno ambientale e uno spreco economico» e un ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi, che ammoniva: «Se resteremo fuori dalle reti internazionali saremo destinati a restare fuori da un sistema globale per anni».

Le reti internazionali, appunto. Senza la Torino-Lione il mitico Corridoio V, la linea transeuropea che dovrebbe unire Lisbona a Kiev, non potrà passare per l’Italia. Come senza il Terzo valico dei Giovi sull’Appennino ligure non sarà completo il Corridoio 24, progettato per collegare il Mare del Nord (Rotterdam) con il Mediterraneo (Genova) attraverso il tunnel del Gottardo. Per inciso, gli svizzeri hanno appena finito di scavare quella galleria di 57 chilometri, mentre noi i lavori per quel valico non li abbiamo ancora iniziati: la riunione del Cipe che a metà ottobre doveva dare il via libera è stata rinviata ancora una volta. E in questo caso i No-Tav non c’entrano nulla.

La geremiade sui rischi e sul degrado del tanto cospicuo patrimonio storico-artistico-culturale di cui è dotata l'Italia è facile. La impongono le cose, e l'argomento fornisce sempre un elemento di colte e civili discussioni e proteste, in privato e in pubblico. Non si può neppure dire che in questo campo non si sia fatto e non si faccia niente. Sforzi ne sono stati fatti, e i risultati non sono mancati. Tuttavia, l'aspetto e i problemi della realtà sono quello che sono, e fanno perfino apparire debole e inadeguata la pur continua geremiade in materia. Chi volesse avere un'idea concreta e dettagliata dello stato delle cose, può subito farsela grazie al libro che Roberto Ippolito ha bene intitolato Il Bel Paese maltrattato. Viaggio tra le offese ai tesori d'Italia (Bompiani, pp. 308, 18). Un viaggio che spesso fa venire la voglia di non proseguire nella lettura, tanti e tanto scoraggianti sono gli episodi e gli aspetti di quel maltrattamento che Ippolito descrive saltando da un angolo all'altro del Paese. Eppure, il lettore non sa separarsi dalla lettura di questa Iliade di guai, perché l'interesse del tema è inesauribile e irresistibile. Ippolito ha fatto bene a non limitarsi ai beni culturali (artistici, archeologici etc.) e a trattenersi altrettanto sul paesaggio e l'ambiente.

Una lunga sedimentazione storica ha, infatti, determinato in Italia sia un'alta consistenza del patrimonio storico, sia un'organica saldatura fra il patrimonio e il territorio, facendone una unità che è essa stessa un grande valore. Anche Ippolito indulge molto alla diffusa concezione, per cui, trascurando o maltrattando il suo patrimonio, l'Italia sfrutta sempre meno una grande fonte di lavoro e di reddito. Di qui una retrocessione del turismo straniero nella fatal penisola, musei languenti, siti archeologici sempre meno appetiti, e così via, mentre in altri Paesi avviene il contrario. Concezione non nuova (ricordate i «giacimenti» dei beni culturali definiti come il «petrolio» italiano?), e certo per nulla infondata, ma che, tuttavia, è insufficiente, e, al limite, anche fuorviante. È verissimo che i beni culturali (e così il paesaggio e l'ambiente) sono anche beni economici, e che, come tali, possono essere formidabili fonti di ricchezza, sicché il trascurarli è negativo anche per la vita economica. Sulla natura dei beni culturali come beni economici bisogna, però, intendersi. I beni economici non hanno, infatti, valore se non assicurano redditi, e in tal caso possono essere, perciò, senz'altro abbandonati, risparmiando costi e cure improduttivi o anche soltanto poco redditizi. I beni culturali, rendano o non rendano, non possono mai essere dismessi, e impongono quindi costi e cure che sono sempre gli stessi. Se nessuno visita più, o solo in pochi visitano, gli Uffizi o gli scavi di Pompei, che facciamo? Li abbandoniamo al loro destino? La risposta è ovvia.

La prima, massima e indefettibile ragione delle cure per i beni culturali è nei beni culturali stessi. L'economia è importante, ma non è, in questo campo, la priorità assoluta. La priorità assoluta è la conservazione di un patrimonio, che è il primo, fondamentale e irrinunciabile documento e base di una tradizione e di una identità nazionale e civile, e, insieme, un patrimonio di tutta l'umanità. Bisogna rendersene conto, per pesanti e svantaggiose che possano esserne le conseguenze, per qualsiasi Paese e, in specie, per l'Italia il cui patrimonio è dell'intensità, diffusione e qualità che tutti sanno. Rimedi? Abbracciarsi la croce e portarla, con tutta la fatica necessaria. Non ve ne sono altri. Due o tre cose si possono, però, ancora notare. Uno, che sia osservata col massimo rigore la legislazione esistente, che in Italia, specie per il paesaggio, non è affatto male. Due, che l'impresa più straordinaria in Italia resta sempre, anche a questo riguardo, una buona amministrazione ordinaria delle cose. Tre, che in Italia lo Stato da solo non ce la fa, né per i costi, né per la gestione, e che perciò deplorare lo Stato è necessario, ma non risolutivo, se la cosiddetta società civile non fa la sua parte. Non è molto. Ma sarebbe già tanto se si traducesse in qualcosa di concreto.

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