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Dunque, la pazienza nei confronti degli attacchi al territorio e alla qualità urbana inferti dall’amministrazione capitolina è esercizio ormai quotidiano. Di ieri è la notizia (Bucci su la Repubblica, ed. Roma, 15/11/2010) dell’ennesimo tentativo di legalizzazione di un abuso edilizio sull’Appia. La regina viarum, manzonianamente protetta da prescrizioni rigidissime di assoluta inedificabilità è da sempre al centro di iniziative speculative di ogni tipo. Come avevamo ripetutamente sottolineato su eddyburg, il frutto avvelenato dei condoni edilizi passati rischia di travolgere, attraverso la perversa interazione di sovrapposizioni e inerzia amministrativa, le barriere del sistema della tutela, sempre più fragili perché sempre più isolate.

Nel caso denunciato, la gravità dell’episodio deriva infatti dal coinvolgimento attivo degli organismi di governo pubblico, Comune ed Ente Parco regionale, che, con assoluto sprezzo dei dovuti passaggi istituzionali (il coinvolgimento della Soprintendenza competente), dell’interesse pubblico e della logica, hanno non solo ammesso una sanatoria illegittima, ma ne hanno aggravato l’impatto concedendo il permesso di ulteriori operazioni edilizie

Effetto di evidente stato confusionale è poi il riferimento, nel lasciapassare dell’Ente Parco, alla necessità di mantenimento di materiali originali, riferito alle lamiere fatiscenti di un capannone industriale.

Purtroppo, questo ennesimo caso di deriva istituzionale degli enti locali è in perfetto allineamento con quello che è l’attuale conclamato indirizzo politico del Ministero Beni Culturali: in un recente documento ufficiale elaborato per le celebrazioni del decennale della Convenzione Europea sul paesaggio, con fantozziano spirito anticostituzionale si ricorda che: “prima di pervenire ad espressioni di pareri che siano in contrapposizione a tali proposte [interventi sul territorio di ogni tipo, n.d.r.], il Ministero qualora possibile, perviene a pareri la cui formulazione si configura come una elencazione di buone maniere (prescrizioni) da mettere in pratica per l’ottimizzazione dei progetti, la cui qualità è data dal porsi in dialogo con i luoghi prevedendo, caso per caso, mitigazioni, minimizzazioni, varianti tali da permettere il corretto inserimento delle opere previste.”

Insomma, dopo l’epoca della tutela è giunta l’epoca delle “buone maniere”.

Auguri all’Appia.

Alberto Asor Rosa, Disastro Italia, ma l’alternativa è possibile

Piero Bevilacqua, Saperi e politica per il bene comune del territorio

Paolo Baldeschi, L'infrastruttura della democrazia partecipata

Pierluigi Sullo, Autonomie locali nella corrente

Roberto Barocci, Poteri forti e «nemici occasionali»

Disastro Italia, ma l'alternativa è possibile

di Alberto Asor Rosa



Se un semplice articolo è in grado di scatenare una risposta così ricca e articolata, vuol dire che i temi in esso sollevati dovevano avere qualche rilevanza (desidero ricordare che, prima di queste quattro risposte, c'erano state quelle di Enzo Scandurra il 20 novembre, e di Paolo Berdini, il 21 novembre, da rileggere insieme con queste; e prima ancora c'erano stati gli interventi di Guido Viale, ai quali mi richiamo nel mio articolo, che anch'essi andrebbero riletti all'interno della medesima sequenza logica e politica). È troppo presto per tirare conclusioni, e anche un bilancio provvisorio sarebbe prematuro. Mi preme invece fissare un paio di punti, affinché il dibattito vada avanti, ma insieme con esso anche un'agenda preparatoria.

1. Tutti sono d'accordo nel segnalare la profonda novità partecipativa e democratica rappresentata in tutta Italia (ripeto: in tutta Italia) dall'esperienza dei Comitati. È bello e importante quel che scrive al proposito Pierluigi Sullo. Affinché le lotte dei Comitati non restino isolate o incomunicabili fra loro, la Rete dei Comitati per la difesa del territorio propone di indire nei prossimi mesi una Conferenza nazionale dei Comitati, con l'obiettivo eventuale, oltre all'interesse estremo di un confronto più ravvicinato e diretto, di mettere in piedi una Rete di Reti. Ci è del tutto evidente al tempo stesso che tale obiettivo potrà essere il frutto solo di una concertazione e preparazione comuni, alle quali ci dichiariamo fin d'ora totalmente disponibili.

2. Le analisi presentate in questa occasione (Scandurra, Berdini, Bevilacqua, Baldeschi) confermano la gravità della situazione ambientale italiana, più esattamente gravità estrema, che può portare al disastro vero e proprio; e al tempo stesso confermano che esistono ingenti forze intellettuali in grado di supportare e integrare efficacemente una risposta che nasca dal basso e si ramifichi ampiamente e con caratteri unitari sull'intero territorio nazionale. A convogliare insieme la ricca esperienza intellettuale dei Comitati e quella degli specialismi «militanti» dovrebbe servire il Convegno nazionale sul «Disastro Italia», che in questi anni stiamo vivendo. Ma, con un occhio ben aperto sul disastro generale, intendiamo sollevare ovunque e con chiunque i temi e gli obiettivi propri del «disastro ecologico e ambientale», ben persuasi che senza di questi neanche il più generale «Disastro Italia» potrà essere opportunamente affrontato e risolto.

Se c'è accordo su questi due punti, non c'è che da mettersi seduti allo stesso tavolo e parlarne. I soggetti ci sono, e quanto mai autorevoli, sia dal punto di vista della presenza e dell'azione sul territorio, sia dal punto di vista delle competenze dispiegate. Da questo punto di vista mi sembra un po' sfalsato l'intervento di Roberto Barocci. Se le cose stessero come dice lui, sarebbe inutile il nostro agitarsi: avrebbero già vinto gli altri. Invece non è vero: bisogna picchiare sodo perché le cose cambino. Ma le cose possono cambiare, e forse stanno già cambiando.

RISORGIMENTO VERDE

Saperi e politica per il bene comune del territorio

di Piero Bevilacqua



Un nuovo ambientalismo è l'arcipelago frastagliato dei comitati e movimenti che in tutti questi anni sono nati a livello locale per contrastare iniziative, centralistiche per lo più (ma non solo) mirate, ad esempio, alla privatizzazione dell'acqua, o destinate a sconvolgere gli assetti ambientali di vaste aree, o a minacciare la salute degli abitanti.

Di queste centinaia di esperienze - che qui non si possono enumerare - credo che il nuovo evocato da Asor Rosa consista essenzialmente in due fenomeni tra loro intrecciati. Il primo attiene alla modalità delle lotte e alla loro organizzazione. In quasi tutti i comitati di cui parliamo - da quello contro la centrale a carbone di Civitavecchia alla «comunità» No-Tav della Val di Susa, per intenderci - il movimento, nato dal basso, da gruppi di cittadini e associazioni, si è organizzato in forme di democrazia deliberativa che hanno inaugurato un modo originale di fare politica. Presidi territoriali in cui i cittadini sono diventati attori autonomi di una prolungata resistenza. La seconda novità consiste nel ruolo che competenze scientifiche, spesso di alto livello, hanno svolto nell'individuare le minacce ambientali ed anche, spesso, nell'indicare soluzioni alternative possibili.

Queste competenze, che si sono messe al servizio dei cittadini organizzati, rappresentano una forma nuova di rapporto tra sapere e politica, tra professioni e democrazia, che meriterebbero una focalizzazione meno occasionale di quanto non si sia fatto. Ma il nuovo ambientalismo, dovrebbe anche caratterizzarsi per qualcos'altro. A mio avviso, dovrebbe oggi fornire una dimensione nazionale alle esperienze e modalità locali e al tempo stesso farsi promotore di un progetto generale di un nuovo modo di utilizzare e vivere nel territorio italiano.

Partiamo dalla configurazione fisica della nostra Penisola. Se noi escludiamo le Alpi, possiamo osservare che la gran parte del territorio abitato è costituito da aree altamente instabili. La Pianura padana è l'enorme catino in cui confluisce la moltitudine dei fiumi alpini, formando il più complesso e intricato sistema idrografico d'Europa. L'ordine di questa pianura è il risultato di opere secolari di bonifiche e regimazioni delle acque da parte delle popolazioni. , la definiva Cattaneo, ora densamente abitata e gremita di costruzioni. Quest'area, dove è insediata tanta parte della nostra economia, non è assolutamente al sicuro dai fenomeni atmosferici estremi che ci attendono nei prossimi anni. Com'è noto, stagioni di grande caldo e siccità e altre fredde o intensamente piovose sono destinate a scandire l'ordine metereologico del nostro incerto avvenire. In Pianura padana ci sono vaste aree sotto il livello del mare, che vengono tenute artificialmente asciutte grazie all'opera di gigantesche macchine idrovore. Il Po, nonostante il saccheggio delle sue acque, ha mostrato negli ultimi anni le esondazioni di cui è capace sotto l'azione di piogge intense. E abbiamo appena visto di che cosa sono capaci anche fiumi minori, come il Bacchiglione.

Ma se noi osserviamo l'intero stivale cogliamo un' altra caratteristica saliente del nostro paesaggio fisico. Una ininterrotta dorsale montuosa, l'Appennino, attraversa l'Italia e continua anche in Sicilia. Come ben sapevano già ingegneri idraulici dell'800, l'Appennino è la chiave di volta dell'equilibrio dell'Italia peninsulare. Le acque e i potenti fenomeni che modellano continuamente i due versanti, tendono a trascinare materiali a valle e ad interrare le aree sottostanti. In una parola, l'Appennino e le alture pedemontane tendono a franare per necessità naturale. Non a caso almeno il 45% dei comuni italiani risulta interessato da fenomeni franosi di varia gravità. Orbene, tale discesa verso valle è stata per secoli controllata e filtrata dall'opera delle popolazioni contadine. Queste oggi sono scomparse. Ma nel frattempo ben oltre il 66% della popolazione italiana si è insediata lungo la fascia costiera dello stivale. E qui si concentrano non solo gli abitati, ma le attività produttive, le infrastrutture, i servizi.

Ebbene, è evidente che all'interno di un territorio di così singolare e complessa fragilità, negli ultimi decenni gli italiani hanno operato - con le loro scelte localizzative, con le loro costruzioni, con gli abbandoni delle aree interne - per creare una condizione futura di altissimo rischio e di certissimo danno. Tutto è stato fatto in modo che in condizione di prolungata piovosità, nel catino della Valle padana o ai margini collinari e pianeggianti dell'Appennino, l'acqua possa produrre alluvioni e frane di eccezionale gravità. Si è operato cioè perché la ricchezza accumulata in decenni di fatica e di investimenti possa essere distrutta in pochi giorni per effetto di eventi eccezionali che si prevedono sempre più frequenti. Così, anche nell'impronta antropica sul nostro territorio, è possibile vedere gli esiti che la libertà sbandierata da un ceto politico famelico e privo di qualunque cultura hanno predisposto per il presente e per l'avvenire dei nostri figli.

Ora, solo avendo bene in mente questo quadro, si può comprendere come, in Italia, la cementificazione di un solo metro quadrato costituisca oggi la sottrazione di un bene comune raro e rappresenti la predisposizione di un danno certo. Il territorio verde, capace di assorbire l'acqua meteorica, dovrebbe costituire agli occhi di tutti gli italiani una risorsa preziosa, da difendere con ogni mezzo, per conservare la ricchezza nazionale storicamente insediata nel territorio. Ma sappiamo che tali perorazioni, sempre necessarie, sortiscono, tuttavia, flebili effetti.

Ciò che oggi il nuovo ambientalismo dovrebbe mostrare è che i territori interni oggi abbandonati, costituiscono aree per la diffusione di nuove economie. Non sono una diseconomia nell'età trionfante dello sviluppo. Nelle colline interne possono risorgere le agricolture tradizionali, le policolture di un tempo, che vantavano una biodiversità agricola (soprattutto di frutta) senza pari in Europa e forse nel mondo. Oggi potrebbero dar vita a produzioni di altissima qualità. Qui è possibile riprendere o sviluppare la selvicultura, producendo legname di pregio, utilizzare in modi ecologiamente compatibili, quantità immense di biomassa. Chi si ricorda, poi, che queste aree sono ricche di acqua, che possono dar luogo a svariate forme d'uso? E quanti allevamenti, ad esempio avicoli, si possono realizzare, bandendo le forme intensive convenzionali? Non dimentichiamo che il paesaggio ereditato dal passato, e che vogliamo difendere, è stato creato esattamente da forme consimili di attività produttive e uso del territorio. I bassi valori fondiari di queste aree consentono inoltre la possibilità di rimettere in sesto grandi dimore padronali, spesso in abbandono, e farne sedi di ricerca scientifica, ostelli per la nostra gioventù. E ovviamente un diverso e meno consumistico turismo potrebbe fare scoprire i mille «tesori sconosciuti» del nostro Appennino.

Io credo che occorrerebbe lavorare con i sindaci, le comunità montane, il sindacato, i nostri giovani, le associazioni di extracomunitari per ricreare queste nuove economie. Gli extracomunitari che oggi vengono cacciati e perseguitati potrebbero fornire un contributo prezioso alla rinascita di queste terre. E il movimento dei comitati potrebbe più operosamente cooperare con altre forze oggi in campo, da Slow Food alla Coldiretti. A tale scopo, ovviamente, è necessario intervenire tanto a livello locale quanto nazionale ed europeo. È ora di finirla, e per sempre, con la teoria neoliberista, finita nell'ignominia di una crisi senza sbocchi, secondo cui lo stato deve limitarsi ad arbitrare le regole del gioco. Lo stato, parte del gioco, deve piegare le regole a vantaggio del bene comune. Il libero mercato porta a rendere convenientissimo trasformare i terreni agricoli in abitazioni o centri commerciali. Ma per per la generalità dei cittadini italiani tale convenienza costituisce una perdita netta e drammatica, opera per il danno certo della presente e delle prossime generazioni. Qui si vede come il mercato è vantaggio immediato e provvisorio per pochi e danno futuro e durevole per tutti. Se lo lasciamo alla sua «libertà» nel giro di un ventennio non avremo più suoli agricoli. E qui si dovrà combattere una battaglia di valore universale, di cui l'Italia, il Bel Paese, può costituire l'avanguardia.

Occorrono nuove leggi, imposte dai cittadini, all'Italia e all'Europa, che rappresentino finalmente di nuovo l'interesse generale, che seppelliscano per sempre l'infausta stagione di un diritto pensato per la libertà delle merci e per gli appetiti disordinati e devastatori dei poteri dominanti.

L’articolo di Piero Bevilacqua è stato postato in eddyburg.it nelle “Opinioni” il 25 novembre 2010



STATUTI E MOVIMENTI

L'infrastruttura della democrazia partecipata

di Paolo Baldeschi



Ovunque in Italia, in molteplici circostanze urbane e territoriali, per motivi simili, fioriscono e sono attivi comitati, a volte effimeri, a volte consolidati localmente come quasi mini-partiti politici. Questa Italia migliore - perché più altruista - esprime quanto esiste nel nostro paese in tema di democrazia partecipata. Dall'altra parte, da parte delle forze politiche, tutte, stanno risposte negative, l'indifferenza o l'ostilità, un comportamento che deriva prima di tutto dall'interesse di una classe ad auto perpetuarsi.

Veniamo alla parte propositiva. È essenziale l'idea che il passaggio sia considerato «bene comune», già lo è secondo la Costituzione. Per questo, una delle proposte cardine della Rete dei comitati per la difesa del territorio è di amministrare questo bene comune sulla base di una carta statutaria, uno «statuto», appunto, fatto delle regole di uso e trasformazione del paesaggio e dei «paesaggi».

Statuto del territorio a livello regionale, perciò, da articolare in tanti statuti locali, a livello di «ambiti», distinti e sovraordinati ai piani, da cui discendano politiche urbanistiche comunali coerenti. Questa potrebbe essere una proposta unificante per la costellazione neo-ambientalista. Una proposta da praticare in forme di democrazia diretta - un esempio in Toscana è lo statuto partecipato di Montespertoli coordinato da Alberto Magnaghi - e da adattare a seconda delle realtà regionali, delle leggi, della qualità delle rappresentanze politiche.

Statuti e movimenti, termini apparentemente contraddittori, ma in realtà i primi possono prefigurare lo sfondo politico, unificante dei secondi, non fosse altro per un conseguente spostamento di potere decisionale verso il basso. Tenendo conto che i secondi, i comitati, ma anche movimenti, associazioni, costituiscono nel complesso una cittadinanza politicamente delusa, propensa ad astenersi dal voto perché non rappresenta se non combattuta dalle forze politiche di destra e di sinistra.

Ma le forze politiche perché sono così sorde? Alla base - come sottolinea Asor Rosa - c'è un capitalismo oligopolistico, colluso con il potere politico, che in Italia si esprime nei grandi gruppi di costruzione e si sostanzia negli appalti, nei sub appalti, nelle ditte mafiose, nelle amministrazioni conniventi, nelle valutazioni ambientali fasulle, nei mancati controlli ... tutte cose note, a su cui è necessario insistere. E alla base della base ci sono le banche che finanziano le grandi opere, le Tav, le autostrade, le ferrovie, i trafori; tanto più costano meglio è, più corrono interessi: rendite sicure perché tutte le perdite sono a carico dello Stato. Business che deve andare avanti, mal che vada a spesa del contribuente.

Ma allora, ci si può chiedere, di fronte a questo moloch cosa possono fare i comitati? In realtà quello che possono fare non è poco, prima di tutto resistere come fece il popolo vietnamita, che conosceva il suo territorio, di fronte allo strapotere militare americano. Poi, come dice Asor Rosa «allargare attorno a sé il consenso popolare». Aggiungo, da professore universitario, svegliando la coscienza dei giovani, non con la propaganda ma mostrando la bellezza (nel senso più pieno del termine), la profondità identitaria del paesaggio, l'unico vero bene non esclusivo, non riservato, aperto all'esperienza di tutti, bene comune appunto.

Tuttavia non si possono omettere i punti deboli della proposta federativa dei comitati. Il fatto è che qualsiasi federazione, qualsiasi coordinamento con finalità in qualche modo politiche richiede un'infrastruttura. E questa infrastruttura suppone ruoli, organizzazione, risorse finanziarie, tutto ciò che in realtà i comitati non possiedono e che è, oltretutto, lontano dal loro modo di essere. Il volontarismo è una fiammata, non un fuoco continuo. Si capisce perciò la decisione (nel convegno tenuto a settembre a Sarzana) del movimento «no consumo di territorio» di rimanere allo stato di movimento - una decisione accompagnata, però, dalla dichiarazione della stanchezza per un lavoro volontario alla lunga insostenibile.

Qui, a mio avviso, potrebbero entrare in gioco le amministrazioni di sinistra, se sono tali non solo a parole e se capiscono che dare ascolto e supporto a movimenti e comitati è l'unica o quasi chance di rinnovamento. Iniziando da fatti semplici: rendere gli atti urbanistici trasparenti e accessibili, in particolare le «conferenze di servizi» dove si consumano i peggiori crimini contro il territorio, sostenere processi partecipativi non istituzionali, rivedere le leggi e i piani - la Rete toscana ha fatto molte proposte circostanziate in proposito, come d'altronde le associazioni ambientaliste tradizionali. In Toscana, l'assessore al territorio, Anna Marson, si sta muovendo in questa direzione e ora la questione fondamentale è se la giunta regionale le darà quel supporto politico che nasce da una condivisione di valori.

Su un piano più generale ognuno può fare le considerazioni che crede. Certo sarebbe interessante se almeno un partito di sinistra non marginale fosse capace di rappresentare questa cittadinanza non rappresentata - diciamo il 10% degli elettori, ma forse sottostimo. Non per tatticismo o per opportunità locale, ma per reale adesione al principio che paesaggio e territorio sono beni comuni. Quindi con un conseguente cambiamento di programmi e di uomini.



DAL BASSO

Autonomie locali nella corrente

di Pierluigi Sullo



La frase chiave dell'articolo sul neoambientalismo italiano è: «... i comitati per la difesa del territorio, variamente organizzati e coordinati, sono una forma nuova di concepire e vivere la democrazia italiana». Finalmente si parla di politica. Già, perché quel che ostinatamente, a sinistra, si connota con il termine di «politica», appartiene sostanzialmente a un altro circuito, separato e superiore a quello dell'azione reale dei cittadini nel paese reale: è il circuito, o circo, della «democrazia dello spettacolo», come dice Mario Pezzella. O, per dirla con Alberto Magnaghi (in Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, importante saggio ripubblicato dopo dieci anni in una versione aggiornata da Bollati Boringhieri), «l'agorà e la politica si allontanano vertiginosamente dalla vita quotidiana, agiscono in un iperspazio globalizzato sempre più inaccessibile, fortificato, un altrove in cui non sono più riconoscibili le forme del comando sul lavoro, le decisioni sui consumi, sulle informazioni, sulle forme riproduttive della vita». A questo comando separato, opaco, corrisponde la politica-marketing affetta, scrive Asor Rosa, da «pressoché totale sordità» nei confronti delle istanze dei cittadini organizzati e, aggiungerei, pressoché totale complicità nei confronti dei «poteri forti dell'economia». Ed è da questo fossato tra vita quotidiana e democrazia dello spettacolo che nasce la resistenza capillare, tenace, paziente (che sa cioè costruire se stessa scartando dai tempi nevrotici della politica politicante) e sapiente (proprio nel senso indicato da Asor Rosa, ossia la raccolta e la creazione di una intellettualità del bene comune) di cittadini, di comunità, che si organizzano e che infine - cito sempre l'articolo di Asor Rosa - decidono di «crescere dal basso» per creare «una nuova cultura e una nuova politica ».

Si può non essere d'accordo con Magnaghi, quando nel suo libro scrive che «il conflitto, nel contesto dell'Occidente postfordista, riguarda solo parzialmente la relazione tra capitale e lavoro, incentrandosi maggiormente sulla contraddizione tra le forme crescenti di eterodirezione della vita e istanze locali di autonomia e autogoverno del proprio futuro» (la «coscienza di luogo», appunto, invece che la «coscienza di classe»), ma non si può ormai non vedere, come suggerisce Asor Rosa, che quella del «salto di scala», cioè della connessione delle reti di comitati in una «rete di reti», «potrebbe essere una delle strade più serie e responsabili per garantire, insieme alla salvezza imprescindibile del territorio italiano, anche un salto in avanti di tutta la nostra democrazia». Lo dico, questo, perché anche l'alleanza tra diverse aggregazioni sociali - dalla Fiom agli studenti, ai centri sociali - nata dopo la manifestazione del 16 ottobre, che giustamente mette il fuoco sulla democrazia e dignità del lavoro, sul precariato e sulla spesa sociale, dovrebbe prestare attenzione a quest'altro, parallelo fenomeno di ri-democratizzazione dal basso che si basa sulla tutela del bene comune. Una alchimia - complicata - tra queste correnti potrebbe dare ancor più sostanza alla ricerca di una nuova politica.

A Grottammare, nelle Marche, il 6 novembre, un paio di centinaia di persone provenienti da molte regioni italiane partecipava al secondo incontro della rete «Democrazia chilometro zero», nata un anno fa alle Piagge di Firenze. Persone e comitati per i quali - detto in estrema sintesi - un «cambiamento dal basso» - come auspicano Asor Rosa e Guido Viale, che per altro era a Grottammare - comporti prima di tutto non solo ristabilire, ma creare ex novo un modo di restaurare la sovranità dei cittadini sui loro luoghi. Infatti, all'incontro hanno partecipato persone che questo tentativo hanno cominciato a farlo creando liste di cittadinanza (le chiamiamo così per non confonderle con le «liste civiche»), fenomeno in forte crescita e che ha già fatto le sue prove positive: a Firenze, ad esempio, nella Vicenza che resiste alla base militare, in Valle di Susa e così via. Non che la via elettorale sia la sola possibile: esistono molte altre forme di pressione, o di decisione, extra-istituzionali, forum e movimenti, «parlamenti dei cittadini» paralleli, ecc. Quel che accomuna tutte queste forme è la percezione di come una democrazia effettiva la si possa ricreare nei luoghi dove i cittadini vivono, dove possono incontrarsi, conoscersi, praticare la democrazia del consenso invece che quella delle maggioranze: questi luoghi sono il comune, il municipio, la comunità. Insisto a scanso di equivoci: la democrazia cittadina locale forse non è sufficiente, esistono i «salti di scala» necessari e bisogna trovare il modo di confliggere con l'«iperspazio» di cui parla Magnaghi (ciò che il movimento per l'acqua sta facendo efficacemente, ad esempio), ma di sicuro è indispensabile, è il fondamento su cui tutto il resto - che si scoprirà via via - deve poter basarsi.

Ad ogni modo, credo di poter proporre alla rete Democrazia chilometro zero di partecipare alla costruzione della «rete di reti» di cui parla Asor Rosa (oltre tutto, i confini di una rete con l'altra sono assai mobili e molte persone e gruppi partecipano a diverse esperienze di questo tipo). Mi azzarderei anche di suggerire che ai due incontri che il Consiglio scientifico della Rete dei comitati ha deciso - una Conferenza nazionale dei comitati e un convegno sul «disastro Italia» - si potrebbero aggiungere o mischiare quelli che a Grottammare abbiamo individuato: seminari sul tema della democrazia, dei beni comuni, della protezione sociale, e un convegno sul municipalismo e il federalismo nella storia italiana. Quest'ultimo per far notare, nell'anniversario dell'unità italiana, come dai liberi comuni del Medioevo a Pisacane e Cattaneo, al Gramsci della «repubblica soviettista federativa» delle Tesi di Lione, sia ben esistita nella storia italiana una corrente che intendeva l'autonomia locale come sostanza della democrazia: proprio l'opposto di quel che la Lega va facendo.

CONFLITTI APERTI

Poteri forti e «nemici occasionali»

di Roberto Barocci

Forum Ambientalista Toscano / Coordinamento dei comitati della provincia di Grosseto

Collaboro volentieri con Asor Rosa nell'analisi dei problemi locali e nelle iniziative della Rete dei Comitati sul territorio toscano, perché ritengo positivo il ruolo svolto dalla Rete. Tuttavia, dopo aver segnalato in tre punti gli ostacoli sempre presenti nelle attività del movimento ambientalista, egli propone le modalità per superare i conflitti.

Sintetizzo gli ostacoli indicati da Asor Rosa: il conflitto insanabile con i poteri forti; una opinione pubblica distratta; la sordità di tutte le forze politiche di governo, sia quello centrale che quelli locali. Su questi conflitti siamo tutti d'accordo. Ma mentre il primo viene ritenuto da Asor Rosa naturale per coloro che vogliono difendere i beni comuni, gli altri due protagonisti dei conflitti vengono ritenuti «nemici occasionali» del movimento ambientalista.

D'accordo per quel che riguarda l'opinione pubblica, ma non per le forze politiche ritenute «recuperabili» in questo modo: «Allargando intorno a sé (cioè intorno al movimento dei Comitati) il consenso popolare e premendo in maniera decisamente più autorevole sulle forze politiche, locali e nazionali: cambiandone anche, cammin facendo, la natura». L'esperienza concreta di questi ultimi venti anni ci ha dimostrato alcuni fatti, che elenco e che chiedo di valutare:

1- i poteri forti sono sempre più in difficoltà ad estrarre profitti in Italia dal lavoro produttivo di manufatti. Se da una parte stanno delocalizzando le industrie di manufatti, in Italia stanno sempre più concertando con i governi locali e nazionali i modi per estrarre rendite parassitarie dal reddito complessivo delle famiglie. Hanno ottenuto dai partiti, di centro destra e di centro sinistra, la gestione, in termini monopolistici, di servizi a domanda rigida alle famiglie (acqua, rifiuti, trasporti, viabilità, energia...), realizzando un accordo politico nazionale, spartitorio a livello regionale, che ha già prodotto dalla fine degli anni '90 forti cambiamenti strutturali.

2- Si sono nel paese strutturate molte decine di società miste di gestione di tali servizi «pubblici», che stanno distribuendo una parte delle rendite percepite a molte centinaia di uomini e donne in carriera politica nei partiti di governo locale, sotto forma di lauti stipendi nei consigli di amministrazione di tali società e, in modo più penetrante nella società, di stipendi garantiti ad una moltitudine di giovani «clienti politici», collocati in uffici di progettazione tecnica o di amministrazione, costituitisi in Spa di Servizio alle pubbliche amministrazioni, sempre più prive di personale e di trasferimenti finanziari dallo Stato.

3- I gruppi dirigenti nazionali dei partiti nel frattempo hanno cambiato la loro pratica, garantendo la carriera politica solo ai fedeli, scelti per cooptazione dai vertici nazionali e premiati con gli strumenti sopra rammentati. Non è un caso l'eliminazione concordata delle preferenze alle elezioni, la scelta del candidato unico nei collegi elettorali del maggioritario, la diffidenza verso le primarie ecc. ecc.

Questi tre fenomeni hanno strutturato nel paese una realtà materiale e un legame molto forte, organico, tra i partiti e il padronato finanziario. Se questi fenomeni non vengono visti, denunciati e destrutturati, quindi combattuti senza compromessi con chi li vuole invece alimentare, allora ci si può anche illudere di poter condizionare, cammin facendo, le scelte di questi partiti, di cambiarne la natura, ma credo che si rimanga nel mondo delle speranze e fuori dalla storia.

Niente auguri multietnici in via Padova. Il Comune, dopo aver montato le luminarie natalizie lungo quattro chilometri di strada, le ha fatte togliere prima ancora di accenderle, lasciando sospesi solo quei fili luminosi che riportano l´augurio in italiano. Bandendo quello in inglese, spagnolo, cinese e arabo. Il blitz - deciso un paio di giorni fa dall´assessore all’Arredo urbano Maurizio Cadeo - ha colto di sorpresa il quartiere che ieri è insorto per chiedere il ripristino delle decorazioni. A difendere la strada sono scese in campo tutte le associazioni del territorio, i partiti di opposizione, una parte del consiglio di zona 2 dove il centrosinistra presenterà una mozione contro la decisione del Comune, la Chiesa e perfino la Lega con il capogruppo Matteo Salvini, che dice: «Ogni luce accesa in via Padova è la benvenuta. Male ha fatto Cadeo a rimuovere le luminarie, perdendo denaro e energie che dovrebbero essere impegnate per cose più importanti».

L’installazione di luci lungo via Padova è stata realizzata dall’artigiano Claudio Seghieri - già collaboratore del Comune - ed era stata montata una decina di giorni fa. Due cuori legati insieme da un filo di lampadine su cui si appoggiava la scritta "Auguri": all’ingresso e alla fine della via la parola era scritta in italiano; nella parte centrale si declinava in tutte le lingue del mondo. «Un segnale di accoglienza per le comunità di stranieri che abitano il quartiere» per le associazioni di via. Una deriva verso «i quartieri ghetto» per l’assessore Cadeo che, viste le luminarie, ne ha deciso il ritiro immediato. «L’illuminazione di via Padova - spiega l’assessore - è stata fortemente voluta e pagata dal Comune come segnale di attenzione verso un’importante via di periferia. L’aggiunta delle scritte in diverse lingue è nata dalla richiesta di alcune associazioni all’allestitore di cui non ero a conoscenza». Cadeo sostiene di aver visto un rendering che riportava solo i cuori rossi legati da strisce luminose, e che preferisce «spostare gli auguri in tutte le lingue in una via di accesso alla città, come viale Forlanini».

L’artigiano Seghieri si difende spiegando: «Cadeo mi ha detto di concordare direttamente con le associazioni le luminarie, e così è stato. Quando ho mandato il rendering in Comune gli auguri non c’erano ancora, è vero, serviva tempo per capire come si scriva "buone feste" in cinese o in arabo. Ma mai avrei pensato potessero essere un problema». Secondo Seghieri «l’assessore aveva dato carta bianca alle associazioni e non mi sembrava una richiesta strana. Poi, dopo venti giorni di lavori, è arrivata una telefonata da Palazzo Marino con l’ordine di rimuovere le luminarie per sostituirle con altre solo in italiano». Prima ancora di accendersi, dunque, le luci si sono spente. E Cadeo garantisce che «non torneranno». Anche se il quartiere è già pronto a protestare. Nei prossimi giorni, infatti, le associazioni tappezzeranno la strada con manifesti e striscioni di auguri in tutte le lingue, sabato l’associazione "Cambiamo città, restiamo a Milano" distribuirà volantini.

Critico anche Don Virginio Colmegna, che dice: «Un brutto episodio che mi auguro sia chiuso in fretta». Riflette don Piero Cecchi, della parrocchia di San Giovanni Crisostomo: «Il Papa a Capodanno fa gli auguri in 68 lingue, io battezzo in spagnolo e in inglese, quando benedico le case distribuisco una lettera della diocesi tradotta anche in arabo: esprimersi in tante lingue è segno di larghezza di cuore». Dura anche l’opposizione. Pierfrancesco Majorino, capogruppo del Pd, chiede «auguri multietnici in tutta la città a partire da Palazzo Marino» e il segretario Roberto Cornelli aggiunge: «È l’ennesima occasione sprecata di aprire la nostra città a nuove culture del mondo».

Una colata di cemento è in arrivo a Monterosso, Vernazza e Riomaggiore, nel cuore del parco delle Cinque terre. Merito del piano regolatore comunale e di una variante paesistica ancora in discussione. Ufficialmente si chiama «edilizia residenziale sociale». In pratica si tratta di speculazione immobiliare, anche in territori a rischio frane. E la regia politica è bipartisan

Trenta villette (ufficialmente alloggi Ers-edilizia residenziale sociale) e un mega parcheggio con campo da calcio: a Monterosso al mare, pieno parco nazionale delle Cinque terre, tesoro dell'Unesco, potrebbero colare metri cubi di cemento, grazie ad alcune stranezze dei piani regolatori comunali e una variante paesistica regionale ancora allo studio. Un cemento promosso dal centro-destra (lo è la giunta comunale) col consenso dell'ex presidente del parco, Franco Bonanini, uomo del Pd, ora agli arresti domiciliari dopo l'inchiesta sulla malversazione di fondi pubblici e altri reati. Insomma, cemento bipartisan.

Il commissario del ministero dell'ambiente al parco delle Cinque terre, Aldo Cosentino, qualche settimana fa aveva detto al manifesto di non essere a conoscenza di tentativi di speculazione edilizia sul territorio del parco delle Cinque terre precisando che «già oggi ogni costruzione deve avere il parere del parco, come previsto dal dpr costitutivo del parco del '99».

Bene, abbiamo scoperto che nel Comune di Monterosso, che insieme a Vernazza e Riomaggiore insiste sul territorio del parco nazionale, potrebbero essere realizzate trenta case mono e bifamiliari, in località Villa Mesco, una collina incantevole a precipizio sul mare, sulle alture di Monterosso, sempre nel territorio del parco, come dimostra la cartina a fianco che fa parte di documentazione depositata dai progettisti presso gli enti competenti. Com'è possibile?

Prima di tutto, Monterosso non ha un vero e proprio piano regolatore in vigore: caso più unico che raro il Comune è infatti in regime di salvaguardia da ben dodici anni, vale a dire che il vecchio piano regolatore nato nel 1977 è scaduto nel 1987 e quello successivo adottato nel 1998 non ha mai completato l'iter di approvazione. Secondo la legge, in questi casi si è appunto in regime di salvaguardia e vale il piano più restrittivo tra i due, però val la pena notare che entrambi sono nati prima della nascita del parco (1999) e che da allora non è stato emanato nessun nuovo strumento urbanistico. Intanto neanche il parco ha un piano a tutti gli effetti e nemmeno un regolamento: un piano è stato adottato nel 2002, avrebbe dovuto essere approvato quattro anni dopo e non è successo. Tanto che una sentenza del Tar Ligure del 2008 ha annullato un parere negativo dell'ente parco e del comune di Monterosso su un condono edilizio, perchè «si dà per scontato quello che non è: che il piano adottato, operativo in salvaguardia, sia immediatamente e pienamente efficace; che la disciplina urbanistica-territoriale anteriore, comprensiva di quella limitativa connessa all'istituzione del parco, sia stata sostituita o abrogata dal piano ancora in itinere sebbene la legge annetta tale efficacia alla definitiva approvazione del piano del parco».

L'idea delle trenta casette parte con la giunta precedente e lo stesso sindaco di oggi, Angelo Maria Betta. Alla fine di marzo del 2009 la giunta emanazione di una lista civica di centro-destra approva una «riqualificazione urbana dei percorsi protetti per i nuovi alloggi Ers». Arrivano le elezioni e a luglio 2009 s'insedia un'altra giunta monocolore di centro-destra, formalmente presentata con la lista civica "Per Monterosso", capitanata sempre da Betta, che riesce a ramazzare 911 su 1.136 votanti (99 schede bianche e 126 non valide) in un comune di millecinquecento abitanti: un vero plebiscito. Per di più l'elezione per la prima volta avviene senza una lista concorrente. Alla fine la giunta è tutta della lista civica di centro-destra. Il consiglio comunale tutto destra e centro-destra, con due indipendenti ma di destra.

Betta dal 2005 è vicepresidente del consiglio del parco e membro del consiglio direttivo del parco stesso, dove è stato nominato con decreto del ministero dell'ambiente tra i cinque rappresentanti degli enti locali nella Comunità del Parco. Praticamente è il braccio destro di Bonanini, un alleato prezioso dall'altra parte dello steccato politico, protetto dal nume del territorio, il senatore Pdl Luigi Grillo che a Monterosso possiede una casa con vigneto poi trasformata in agriturismo dove produce vino doc e Sciacchettrà.

Il 16 luglio s'insedia la nuova giunta e si scaldano i motori. Infatti la cooperativa, La Rondine, che promuove la costruzione delle trenta abitazioni e ha sede a La Spezia, a novembre avvia le pratiche per gli allacciamenti alle forniture idriche ed elettriche. Il documento acquisito dal manifesto parla di «abitazioni sociali (circa una trentina) in località Mesco in Comune di Monterosso al mare». Intanto diversi monterossini si attivano su consiglio di qualche amministratore per accaparrare metri quadri di terreno a Villa Mesco da ignari contadini, convinti che si tratti solo di un terreno agricolo. Il manifesto ha visto l'atto di vendita di un terreno di 12 ettari a uliveto e un altro per un vigneto di un ettaro, comprati per poche centinaia di euro. Fingendoci anche noi interessati all'affaire, un socio della cooperativa edilizia ci ha spiegato che il primo requisito è essere abitanti a Monterosso da almeno cinque anni: «siamo stati incaricati dagli enti locali di avviare una sottoscrizione tra chi risiede a Monterosso e non sia proprietario di una casa. Abbiamo già una sessantina di soci, perché molti si sono iscritti nella speranza che altri rinuncino. A breve faremo la convenzione col Comune». Si tratta infatti di edilizia convenzionata e la cooperativa assicura ai suoi iscritti che i lavori inizieranno entro un paio d'anni per cui le consegne delle abitazioni potrebbero avvenire già entro tre anni. Un'altra monterossina ha versato 60 euro e dice di essere stata informata che il costo complessivo di ogni abitazione supererà i 400 mila euro. Se fosse vero, strana edilizia pubblica convenzionata.

Mentre in Comune il progetto passava sottotraccia, il grimaldello viene trovato in Regione, dove è al vaglio una richiesta di variante del Piano regionale di coordinamento paesistico (si chiama Ptcp). L'area di Villa Mesco risulta classificata come «insediamenti sparsi - mantenimento» e potrebbe trasformarsi invece in zona di «insediamento diffuso», permettendo quindi la speculazione. Intanto il parco nazionale ha adottato ma non approvato il suo piano, che anche se varato sarebbe in scadenza nel 2012. Infatti dalle intercettazioni dell'inchiesta, Bonanini ne stava già scrivendo un altro. Il piano in vigore comunque fa fede: come ha sentenziato una deliberazione della giunta regionale «nelle more dell'approvazione del piano del parco trovano applicazione le disposizioni contenute nell'allegato A del d.P.R. 6 ottobre 1999, ovvero in salvaguardia le norme del piano del parco come sopra adottato se più restrittive». Bene, il piano del parco classifica quella zona in parte come l'area D (promozione economica e sociale), in parte come area di protezione-sistema terrazzato in equilibrio C1 e poi come foresta. La prima prevede che vi si possa costruire solo modificando il piano regolatore comunale e per di più con un passaggio in Regione, mentre nelle aree C sono previsti solo restauri e manutenzione dei rustici esistenti senza nessuna possibilità di ampliamento («restano esclusi gli interventi che costituiscano incremento della superficie utile lorda e della volumetrie esistente») e il bosco deve restare bosco. Quindi tornando alle 30 villette, il piano prevede per le aree C che «l'adozione di nuovi strumenti urbanistici e loro varianti, generali e parziali, deve essere preceduta da intesa con l'ente parco» e infatti un «protocollo d'intesa fra il comune di Monterosso al mare e il parco nazionale delle Cinque terre - strumenti urbanistici» è passato nella seduta consiliare di Monterosso del 25 maggio scorso. Un primo via libera incassato.

Le sorprese non finiscono qui, perché guardando i piani di bacino della Provincia di Spezia (ambito 19-Cinque terre) si scopre che l'area interessata dall'intervento immobiliare in parte risulta avere una suscettibilità di dissesto media, vale a dire è mediamente a rischio frane.

Le speculazioni edilizie non si fermano alle villette «popolari». A Monterosso è anche in via d'ultimazione un parcheggio per 300 posti auto a ridosso del centro. I lavori in corso sono stati affidati alla ditta Monterosso Park srl, con sede a Genova, con la progettazione dell'architetto Angela Zattera che per il Comune firma da tempo diversi progetti. Anche questo progetto ha avuto l'avvallo del Parco con un protocollo d'intesa del settembre del 2008, nonostante l'esistenza nell'area di un vecchio mulino che verrà conservato, non certo valorizzato, dal parcheggio. Ma nelle intercettazioni dell'inchiesta sul parco Bonanini parla dei «parcheggi di Monterosso con una società del senatore Grillo» e in un'altra dice che non avrebbe mai dovuto dare le autorizzazioni ai parcheggi. Il plurale parcheggi non è peregrino perché in località Molinelli, sotto le trenta casette, c'è un altro progetto per un altro parcheggio che una volta ultimato avrà in cima un bel campo da calcio. Il progetto preliminare è già passato in giunta. Si parla di un valore di 16 milioni di euro. Certo il disegno delle cementificazione era strettamente vincolato all'appoggio politico di Bonanini, ma chissà che qualcun altro non sia già pronto a dare il suo avvallo.

Invece di dare risposte sensate, la consorteria che controlla il Pdl campano - e non solo campano - si sta scannando per accaparrarsi i milioni che Berlusconi ha promesso, con un decreto che il presidente Napolitano dovrebbe promulgare senza averlo ancora nemmeno visto. E comunque dobbiamo sapere che la soluzione non verrà certo da lì.

A sette mesi dalla visita della delegazione del parlamento europeo, che aveva constatato il disastro provocato da 14 anni di gestione commissariale dei rifiuti campani e dai due di gestione Bertolaso, è ora la volta di una delegazione della Commissione europea, il cui responso è molto più gravido di conseguenze; perché non potrà che confermare il blocco dei finanziamenti Ue determinato da una procedura di infrazione nei confronti dell'Italia. Il capodelegazione ha già dichiarato che rispetto a due anni fa niente è cambiato (il che non è esatto, perché la situazione si è ulteriormente aggravata) e presto la Commissione europea dovrà prendere atto di quello che si è finora rifiutata di ammettere: e cioè che le numerose denunce dei molti comitati che si sono rivolte a lei e al parlamento europeo sono pienamente fondate; e che le smentite del governo e di Bertolaso, secondo cui tutto era in via di riordino e l'emergenza era stata superata, erano sonore balle.

Il disastro è infatti completo, ma le strade per porvi rimedio sono ormai chiuse. Le province di Salerno, Benevento e Avellino stanno meglio; la raccolta differenziata ha fatto dei passi avanti; ma sono senza impianti di compostaggio e le loro discariche, riempite dai rifiuti della provincia di Napoli, sono quasi piene. La provincia di Benevento ha deciso di costruire a Casalduni una struttura che ricalca il centro riciclo di Vedelago, il che permetterà di riciclare tutto quanto residua dalla raccolta differenziata: un passo importante verso l'obiettivo "rifiuti zero". Ma le province di Napoli e Caserta sono al tracollo: i rifiuti si accumulano per strada; Asìa, l'azienda di igiene urbana di Napoli, ma come lei molti altri comuni, non hanno né i mezzi né il denaro per raccoglierli, per pagare i lavoratori, per mettere in campo raccolte differenziate di emergenza (Bertolaso ha lasciato le casse vuote e una montagna di debiti). Aspettavano i "termovalorizzatori", perché l'idea è sempre quella di buttare negli inceneritori il rifiuto tal quale, come si è fatto fino ad ora nelle discariche.

Berlusconi è stato costretto a cancellare le discariche su cui Bertolaso contava per continuare a nascondere il disastro che ha imbastito, e ora non c'è più impianto in grado di accogliere più rifiuti di quanti già non ne ingoi; i depositi "temporanei", aperti nei luoghi più contaminati dai sedici anni della passata gestione commissariale, rigurgitano e nessuno lascia più passare i camion della "munnezza".

Ma non la vogliono nemmeno le altre regioni (con l'eccezione della santa Toscana): è la terza volta che dalla Campania si invoca l'altrui solidarietà «per l'ultima volta». Gli Stir, già Cdr, i sette impianti di trattamento meccanico biologico che, se fossero stati fatti funzionare, avrebbero potuto evitare il disastro (hanno una capacità superiore a tutta la produzione di rifiuti urbani della regione) sono fermi: intasati dai rifiuti accumulati al loro interno: prima (gestione Impregilo) per produrre più ecoballe possibile, per lucrare gli incentivi CIP6 quando fossero stati pronti gli inceneritori; poi, a partire dalla prima gestione Bertolaso (2006), per incuria e per far credere che tutto fosse risolto. L'inceneritore di Acerra funziona male e a singhiozzo. Ma fino a quando saranno pronti i tre (o quattro) inceneritori che Bertolaso non è nemmeno riuscito a far progettare in due anni e mezzo di potere assoluto e incontrastato, dove andranno mai i rifiuti campani? All'estero? Mancano i soldi per pagare queste spedizioni, già costate all'erario di tutto il paese 500 milioni di euro (dei due miliardi sperperati dai 12 commissari in forza dal 1994).

Sarebbe ora di dare voce e poteri ai tanti comitati che si sono battuti e si battono contro questa gestione dissennata. La riconversione ambientale può partire da qui.

L'icona è tratta da http://img9.imageshack.us/img9/2039/1216224867992anastasia0.jpg

Buccinasco, 28mila abitanti alle porte di Milano, tre panetterie e 30 agenzie immobiliari, visto che il mattone tira più del pane, è detta la Platì del nord, perché è considerata una delle roccaforti della 'ndrangheta in Lombardia. Non è la sola, né la più importante, ma è l'archetipo della mafia che dilaga in Padania con una struttura territoriale che la Direzione Investigativa Antimafia descrive di tipo "federativo". Da Buccinasco a Paderno e Corsico, da Sondrio al pavese fino all'alto mantovano, e giù oltre i confini lombardi, la 'ndrangheta è strutturata sul territorio con mastrogenerali, reggenti, affiliati, picciotti, colletti bianchi, imprenditori e politici conniventi. Nessuno meglio di Roberto Maroni, che ha alcuni meriti nella lotta alle mafie, conosce questa situazione.

Non solo perché è lombardo, non solo perché è ministro dell'Interno e riceve i mattinali delle questure e dei carabinieri con i rapporti sulle gesta delle 'ndrine nel suo territorio. Ma anche perché nell'ultimo decennio, da dirigente della Lega Nord, ha potuto osservare da vicino la crescita del sistema mafioso attraverso il progressivo inquinamento degli appalti, dei lavori pubblici, della sanità, che da sola rappresenta ogni anno in Lombardia una spesa di 16 miliardi, il 72% del bilancio regionale. E' suonata perciò alquanto stonata la protesta del ministro, poi prudentemente rientrata, contro Roberto Saviano, il quale non ha fatto altro che rendere esplicite televisivamente notizie a lui ben note.

Pur senza tirare in ballo il consigliere regionale leghista Angelo Ciocca, eletto con 19mila voti, più di quelli ottenuti da Renzo Bossi, fotografato dai carabinieri del Ros con il presunto boss della 'ndrangheta lombarda Pino Neri, Maroni sa meglio di chiunque altro ciò che, dopo anni di scontri di potere, ha portato in Lombardia il sodalizio con Roberto Formigoni, Comunione e Liberazione, la Compagnia delle Opere e tutto il mondo degli affari che vi ruota intorno. Se la testimonianza dell'ex assessore regionale alla Sanità del suo partito Alessandro Cé, cacciato da lui e da Bossi, non gli basta, gli consigliamo la lettura di un titanico saggio di Ferruccio Pinotti in uscita per i tipi di Chiarelettere, La lobby di Dio.

A Gudo Gambaredo, frazione della Platì mafiosa del nord, viveva il leader carismatico di Cl don Luigi Giussani. Del suo movimento Formigoni è oggi il politico di riferimento e la Compagnia delle Opere il braccio armato in affari non sempre cristallini. In una rete di potere e di interessi quantomeno opaca spesso spuntano le cosche federaliste milanesi. Difficilmente Maroni può negare che il patto con il formigonismo sembra saldare la fusione della forza popolare della Lega con la destra cattolica propensa agli affari, in una specie di partito cristiano di massa. Forse, come sospetta il politologo Giorgio Galli, la forza del conservatorismo di radice giussaniana è arrivata al punto di modificare il Dna della Lega Nord, che dopo le ampolle e i riti celtici si è impregnata di tradizionalismo cattolico. E forse in qualche sua parte anche di affarismo sul modello CdO.

Una mazzata al mondo del volontariato, della solidarietà. A infliggerla è il centrodestra che alla Camera riduce di un quarto il tetto massimo del 5x1.000 che passa da 400 a 100 milioni. Mentre le spese militari...

La partita è di fatto chiusa. Il «furto» è stato perpetrato. Un «mondo» intero, quello delle organizzazioni no-profit è stato falcidiato. L’ultimo appello è caduto nel vuoto. Lo strumento del «killeraggio» sociale è il ddl di stabilità (la ex Finanziaria) passato ieri alla Camera con 303 voti a favore, 250 contrari e 2 astensioni. L’ultimo appello, le organizzazioni no-profit lo avevano rivolto l’altro ieri al Parlamento affinché non fosse posto un tetto di 100 milioni ai fondi da destinare al 5X1.000 per l'anno 2011.

In una lettera ai presidenti di Camera e Senato, Gianfranco Fini e Renato Schifani, si legge tra l'altro: «Nei giorni scorsi gli organi di stampa hanno riportato la notizia che la commissione Bilancio della Camera ha esaminato il testo della nuova legge per la stabilità che limiterebbe a 100 milioni di euro i fondi da destinare al 5x1.000 per l'anno 2011. Questo significherebbe non rispettare la volontà dei cittadini che liberamente decideranno di versare alle associazioni destinatarie la loro quota del 5x1.000 con la prossima dichiarazione dei redditi: solo 100 milioni, rispetto all'intero ammontare del 5x1.000 sarebbero distribuiti alle associazioni, mentre il resto sarà trattenuto dallo Stato. Si tratterebbe, se la notizia fosse confermata e tale tetto fosse effettivamente approvato, di una riduzione del 75% rispetto all'importo destinato nell'anno precedente (peralro già oggetto di una limitazione rispetto al totale dei fondi raccolti). Tale ulteriore taglio prosegue la lettera, si aggiunge a quelli fatti al bilancio della cooperazione internazionale italiana, ai contributi alle istituzioni internazionali che si occupano di aiuti ai Paesi in via di sviluppo e a quelli per la ricerca scientifica, universitaria e sanitaria».

APPELLO INASCOLTATO

La «notizia» è stata confermata. E si è tradotta in voto. L’unico, fragile, appiglio rimasto è un ordine del giorno presentato dall’Udc. Troppo poco per alimentare una speranza. Il centrodestra ha bocciato anche il subemendamento presentato dai parlamentari del Pd che innalzava da 100 a 400 milioni (ripristinando così la cifra della precedente Finanziaria) il tetto. Cento milioni. A fronte dei 260 milioni di euro in più rispetto alla Finanziaria 2010 destinati all’acquisto di sistemi d’arma. Cento milioni. A fronte dei 200 assegnati all’acquisto di una decina di elicotteri Aw-139. Cento milioni. Niente rispetto ai 13 miliardi di euro che lo Stato spenderà nei prossimi anni per l’acquisto di 131 cacciabombardieri F35 dell'americana Lockhe ed Martin, aerei dotati di tecnologia «stealth» e che sono classificati come cacciabombardieri da assalto; a quei 13 miliardi vanno aggiunti 4 miliardi per 41 nuovi Eurofighter (dei 121pre visti, 80 sono già stati comprati). Forza Nec, per dotare le forze armate d'assalto di sistemi più sofisticati, sta già costando alla collettività 650 milioni di euro di sola progettazione, ne costerà 12.000 attuarlo.

C’è chi parla esplicitamente di truffa ai danni dei cittadini. A ragione. E la ragione sta nel meccanismo innestato. Al momento della dichiarazione dei reddi ti, ognuno di noi risponde alla domanda: a chi vorrebbe destinare il 5x1.000? Ora: ogni euro in più rispetto ai 100 milioni indicati dalla Finanziaria 2011 che un cittadino ha assegnato ad un’ong no-profit viene incamerato dallo Stato. E destinato ad altro. Magari all’acquisto di un caccia bombardiere. Di certo, quei soldi sottratti non saranno destinati alla cultura, all’acquisto di libri scolastici o di borse di studio, altri finanziamenti falcidiati dal ddl di stabilità.

Non c’è solo la piazza "palladiana" e la gondola costruita dai maestri d’ascia nello squero veneziano. Oggi c’è molto di più nell’outlet di Noventa di Piave, costruito nel cuore del Nordest, a venti minuti da Venezia, davanti all’autostrada che porta a Trieste.

In mezzo alla miriade di negozi che animano il villaggio del lusso è spuntato anche un museo archeologico.

Sì, proprio un museo, rigorosamente virtuale, in armonia con la "finzione" che tanto piace alla ressa di visitatori che quotidianamente prende d’assalto la cittadella dello shopping. Così tra un vestito di Valentino, una borsetta di Prada e una giacca di Versace ecco che si materializza sulla parete l’area archeologica di Altino, oppure quella di Concordia Sagittaria. E mentre cammini sul pavimento, di una vera e propria sala espositiva attrezzata accanto ai negozi, si illumina sotto le scarpe un mosaico di una villa romana del primo secolo A. C.

Se poi ti avventuri a smanettare sui touch screen, puoi ricostruire interi pezzi storia di mille e più anni fa. Saltare dal museo di Altino a quello di Este, passando per l’area archeologica di Concordia. Un’operazione culturale per nulla improvvisata, condotta da McArthurGlen - il marchio dell’outlet - in collaborazione con la Sovrintendenza ai beni archeologici e Comune, che sta funzionando. Inutile dire dello stupore dei visitatori. Ma dopo un attimo d’incertezza solitamente restano incuriositi dal museo virtuale. Così puoi trovare la coppia di giovani fidanzati con in mano un sacchetto di Fendi che si divertono a camminare avanti e indietro sul "mosaico" scoprendo il fascino del passato: «Che roba - esclama lui - sembra di fare un tuffo nel passato».

Ma poi, incontri anche la signora un po’ anzianotta che sembra essersi smarrita: «Scusi, ma è questo il negozio di Loro Piana?». Ci sono però pure marito e moglie di una certa età incantati a guardare le immagini che scorrono sulle pareti mostrando gli scavi in corso nel complesso archeologico di San Mauro a ridosso del Piave, a poca distanza dallo stesso outlet: «Guarda, qui è scritto che si tratta di una grande villa romana, probabilmente di qualche patrizio». Poi ci sono i ragazzini che, scoperto il gioco, non li smuovi più dal touch screen.

Sono trascorsi solo pochi giorni dall’inaugurazione del museo interattivo, ma il risultato sembra andare al di là delle aspettative. Dice Maurizio Lupi, presidente Bmg Noventa, la spa proprietaria dell’outlet. «Questa mostra rientra nella nostra filosofia aziendale che punta ad integrarsi con il territorio dando vita a iniziative di qualità. In questo senso stiamo anche collaborando allo scavo archeologico in corso a San Mauro».

Enrico Biancato, direttore dell’outlet, traduce in cifre la politica aziendale: «Abbiamo aperto da due anni, non siamo ancora a regime, ma possiamo contare su più di un milione e mezzo di visitatori all’anno, con persone che vengono anche dall’Austria, dalla Croazia e Slovenia. Senza contare i turisti che fanno tappa a Noventa durante l’estate».

Non c’è dubbio: i numeri danno ragione a questa politica che tiene assieme business e cultura, shopping e divertimento intelligente. Se a Las Vegas prima e a Macao dopo, hanno riprodotto Venezia con tanto di canali e ponte di Rialto, per richiamare i giocatori al Casinò, qui a Noventa l’operazione è diversa. Sempre ispirata alla finzione scenica, ma cercando di interagire con l’area urbana circostante. Gli archeologi sono contenti perché quest’atteggiamento, ha consentito, in tempi di vacche magre per la Cultura, di allestire il museo storico interattivo che consente anche di divulgare l’opera di scavo in corso a San Mauro. Che, per l’archeologo Vincenzo Gobbo che dirige i lavori, è «un complesso archeologico eccezionale».

postilla

Liberiamo subito i campo da un equivoco: il modello del centro commerciale suburbano, più o meno tirato a lucido e ribattezzato, fa male all’ambiente e all’equilibrio socioeconomico. Detto questo, quanto raccontato dall’articolo è un percorso a modo suo virtuoso, anche indipendentemente dai contenuti culturali certificati dagli specialisti. Ovvero si sostituisce alla monocoltura commerciale una maggiore articolazione, con un’offerta che va decisamente oltre il baraccone posticcio del solito cosiddetto retailtainment , ovvero un po’ di animazione da tempo libero per sfigati che lascia il tempo che trova. La stessa Venezia scimmiottata, se la pensiamo in una logica da parco a tema qual è, perché non dovrebbe essere considerata anche nel suo aspetto positivo, di valvola di sfogo per una utenza che magari cercherebbe nella Venezia vera quel consumo di spazio mordi e fuggi che in tanti lamentano come pericolosamente degradante? Certo sarebbe assai più auspicabile che tutta la popolazione turistica mondiale, o magari solo padana, fosse composta da tanti piccoli educati intellettuali benestanti tipo moderni Goethe, che sanno come e sino a che punto godersi l’inestimabile bene culturale. Ma visto che non è così, né può esserlo in questo mondo, magari riflettere sugli spunti positivi del “percorso verso la città” dei villaggi commerciali moderni aiuta. Opinione strettamente personale, ma mi pare più fondata e realistica di tante altre (f.b.)

Si può chiamare democratico un Paese nel quale una delle parti in causa dispone del sostanziale monopolio dell´informazione televisiva e partecipa all´oligopolio di quella stampata? In tutti i Paesi europei la risposta è no. In qualche Paese sudamericano - neppure in tutti - la risposta è sì. Oggi l'Italia si colloca lì, fra il Brasile e la Colombia. (da "Tutta la verità" di Umberto Bossi, Sperling & Kupfer, 1995 - pag. 150)

Può anche darsi che Silvio Berlusconi riesca, con le buone o con le cattive, con argomenti più o meno concreti e persuasivi, a recuperare un numero sufficiente di parlamentari "fluttuanti" per ottenere la fiducia a Montecitorio il prossimo 14 dicembre. E a governare così per un altro paio d'anni, tirando a campare fino al termine della legislatura.

Ma, a parte il degrado e gli interessi del Paese, appare chiaro ormai che è iniziata la fine del berlusconismo. Cioè di quel complesso di valori o disvalori, fondato sull'egemonia - per così dire - culturale della televisione commerciale, di cui il centrodestra s'è fatto politicamente interprete in Italia negli ultimi quindici anni: l´individualismo, l´edonismo, il narcisismo, il machismo, il darwinismo sociale e un certo consumismo esasperato che informa il senso comune, ispirando tali tendenze e comportamenti.

Nessuno può dire quanto durerà questo epilogo. Né tantomeno escludere colpi di coda. Ma verosimilmente sarà l´onda lunga della crisi economica globale a sommergere prima o poi gli ultimi relitti del berlusconismo.

Dall'alluvione in Veneto al crollo di Pompei, dalla spazzatura di Napoli alla mancata ricostruzione dell'Aquila, i segnali del resto non mancano. L'emergenza ambientale del Malpaese è un'allegoria fin troppo esplicita ed eloquente.

Colpisce, perciò, che nell'elenco dei valori declamato in tv dal segretario del Pd, Pierluigi Bersani, un tema così fondamentale sia rimasto a dir poco in ombra: e pensare che, al Lingotto di Torino, il Partito democratico nacque proprio intorno all'idea che l'ambiente dovesse diventare "politica generale". Non è forse questo oggi il perno di un nuovo modello di sviluppo economico-sociale e quindi l'elemento di maggior distinzione rispetto alla destra? Eppure, nel suo elenco di valori, Fini almeno è riuscito ad auspicare (genericamente) che un giorno l'Italia sarà «più pulita e più bella».

Al di là dell'allegoria ambientale, non mancano nemmeno i segnali di disagio sociale. Questi, però, sono sistematicamente occultati o rimossi dall'apparato mediatico berlusconiano. E così, l'insoddisfazione degli imprenditori, la preoccupazione dei sindacati, la rivolta dei precari o degli studenti, la protesta degli abitanti dell'Aquila, di Napoli o di Pompei, tutto viene emulsionato nel frullatore televisivo, derubricato a show e infine sterilizzato.

Qualche sera fa, nel corso di Ballarò, il direttore del giornale di famiglia - spalleggiato dall'ex ministro che ha fornito l'impunità legislativa alla tv di Berlusconi - è arrivato a sostenere che il presidente del Consiglio non controlla affatto la televisione, perché le principali trasmissioni della Rai sarebbero tutte contro di lui. E oltre a quella di Giovanni Floris, ha citato quelle di Santoro, di Milena Gabanelli e perfino quella satirica di Serena Dandini.

Senza compilare qui un contro-elenco delle trasmissioni filogovernative che vanno regolarmente in onda sulle reti pubbliche e sulle reti Mediaset, basterebbe nominare i due maggiori telegiornali - l'indecente Tg1 di Augusto Minzolini e l'ossequioso Tg5 di Clemente Mimun - per smentire una falsa rappresentazione della realtà televisiva. La verità è che, per la maggior parte, l'informazione in tv è sotto il controllo diretto di palazzo Chigi, come ai tempi nefasti del Minculpop. E fortunatamente, negli ultimi mesi, ha fatto irruzione sulla scena il nuovo Tg di Enrico Mentana su La7, raddoppiando non a caso rapidamente la sua audience e togliendo ascolti soprattutto al telegiornale di Minzolini: è anche contro la sua gestione che si sono pronunciati perciò a grande maggioranza i giornalisti del servizio pubblico, nel referendum interno con cui hanno "sfiduciato" il direttore generale.

Non aveva torto dunque il leader della Lega, Umberto Bossi, a dire nel ‘95 - come si legge testualmente nella citazione all'inizio di questa rubrica - che proprio a causa dell'informazione l'Italia non è un Paese democratico. Allora, a suo giudizio, si collocava fra il Brasile e la Colombia. Ma nel frattempo non s'è spostata di un millimetro.

Sempre più spesso si legge che la Magistratura indaga su lavori nelle coste sarde. Come se vi fosse una ondata di aggressioni al territorio che i comuni non fronteggiano. Non sorprende che i cantieri al mare siano guardati con sospetto (gli espedienti per eludere norme e scansare autorizzazioni non si contano, la posta è rilevante).

Il caso più recente è quello di Malfatano - Tuerredda, uno dei luoghi che rischiamo di perdere. Diffidenza opportuna per un progetto che appartiene a quella 'fase grigia' che precede la legge salvacoste. Quei 140mila mc in un posto fantastico, con vincoli archeologici e paesaggistici, sono stati proposti in più comparti per ovviare alla valutazione d'impatto. Come non andare a vedere con cura contenuti e tempi delle autorizzazioni? O le varianti al piano originario ? Colpisce quella spostamento di quote con destinazione alberghiera a vantaggio delle case da vendere: una scelta (d'interesse pubblico?) che il comune di Teulada annuncia con giubilo. Mille grazie dagli investitori Marcegaglia, Benetton, Monte dei Paschi, Caltagirone, ecc., per i benefici prodotti all' impresa immobiliare.

Brutte notizie sul fronte dell'abusivismo edilizio. Crescono nelle aree urbane gli abusi vari. E si moltiplicano gli abusi ricchi: isolati e/o associati in forma di 'lottizzazioni'. Case da adibire alla villeggiatura che passano per attrezzature agricole ma con vistamare, piscina e prato verde.

L'ultimo caso, notevole, è segnalato a Olbia (la notizia di indagini su “La Nuova Sardegna”). Olbia è in un contesto di rara bellezza, continuamente erosa: può soccombere per sottovalutazione dei rischi, e anche per una insufficiente dotazione di uomini e mezzi – come si dice per le emergenze. Nella capitale del turismo ti aspetteresti grande sollecitudine data quella crescita clamorosa. Gli abusivi in questione – secondo le cronache – sono forestieri che hanno comprato da sardi una sessantina di ettari (l'estensione di un paese, come non mi era mai capitato di leggere) frazionati in tanti pezzi in barba alle leggi. Nessuno si è accorto che lì, a due passi dalla città, stava sorgendo una curiosa comunità di contadini residenti tra Bergamo e Berlino.

Eppure questo modo di fare è ormai tra le truffe note dappertutto e solo qualche sprovveduto non vede che il trucco è sempre lo stesso, come nel gioco delle tre carte nella rambla di Barcellona o nei vicoli di Napoli.

La letteratura è piena di sentenze che spiegano il reato e i suoi modi tentacolari, evidente prima di materializzarsi nelle case già nella fase del frazionamento ( la lottizzazione “cartolare”) quando si capisce che sta sorgendo un quartiere. Vorrei vederla la faccia di un sindaco che legge sul giornale il titolo “scoperta una lottizzazione abusiva” e si accorge che riguarda la sua città. Quella faccia stupita incentiva i contravventori.

E' comprensibile che il Comune di Olbia non si sia reso conto dell'abuso, per mancanza di uomini e mezzi – appunto. Però è bene notare che qualcosa non va, e riguarda la debolezza del messaggio. E' risaputo che la strumentazione di cui il Comune dispone è molto ma molto arretrata. E di recente, dal municipio, l'avviso della ennesima variante al PdiF (sta per piano di fabbricazione). La più vecchia tra le tipologie di piani urbanistici che viene da una legge dello stato ancora fascista. Ecco: la città sarda con la maggiore crescita di case ha un piano aggiustato strada facendo e mai adeguato alla evoluzione delle leggi degli ultimi decenni. Per questo quell'avviso di variante al PdiF suona strano, sa di antico, di colpevolmente inadeguato. Come leggere che un ufficio pubblico, nell'epoca della informatizzazione, aggiusta le vecchie macchine da scrivere e compra pacchi di carta carbone. Non siamo messi bene, i due esempi non sono soli (c'è roba per tutti i gusti) in in intreccio di disorganizzazione, connivenze, indifferenza. E' troppo sperare in un treno dei desideri... che all'incontrario va ?

La Consulta fa acqua

di Andrea Palladino



È un intervento pesante e profondo quello della Corte costituzionale, che l'altro ieri ha depositato la sentenza di respingimento dei ricorsi fatti dalle regioni Calabria, Toscana, Liguria e Campania contro la legge Ronchi. I giudici della Consulta non si sono limitati a considerare legittime dal punto di vista costituzionale le nuove norme del governo Berlusconi che forzano le tappe della privatizzazione dell'acqua, obbligando i comuni a ricorrere a società di capitali con gare europee. La sentenza, in realtà, va ben oltre: l'intero impianto legislativo degli ultimi anni che ha aperto le porte alle multinazionali dei servizi idrici viene considerato assolutamente compatibile con la Costituzione, con la normativa europea e con quella nazionale. «Decisione devastante», è il commento che girava ieri all'interno del movimento per l'acqua pubblica.

È ancora presto per avere uno studio dettagliato sull'impatto che questa sentenza avrà. Oltre al referendum - che continua a seguire la sua strada, divenendo sempre più importante - i fronti aperti in Italia sul tema della gestione dell'acqua sono tanti. In primo piano c'è sicuramente la nuova legge pugliese, che sta per andare in discussione. Voluta con forza dai movimenti per l'acqua pubblica, fatta propria da Vendola che l'ha messa tra i primi punti del suo programma di governo regionale, punta a sciogliere l'attuale forma di società per azioni per creare un ente di diritto pubblico chiuso ermeticamente alle possibili scalate dei privati. Ora la via pugliese all'acqua pubblica potrebbe essere pesantemente influenzata dalle scelte della Consulta. Nella lunga sentenza - ben 136 pagine - il giudice estensore Franco Gallo spiega che «la normativa riguardante l'individuazione di un'unica Autorità d'ambito e la determinazione della tariffa del servizio secondo un meccanismo di price cap attiene all'esercizio delle competenze legislative esclusive statali nelle materie della tutela della concorrenza e dell'ambiente, materie che hanno prevalenza su eventuali competenze regionali, che ne risultano così corrispondentemente limitate».

Dunque, rispetto all'autonomia delle regioni prevarrebbe l'orientamento del governo centrale. E con Berlusconi a Palazzo Chigi i margini di manovra sono ovviamente estremamente ridotti. Il pronunciamento ha riaperto le speranze del Pdl pugliese, che da sempre punta alla privatizzazione dell'acquedotto, già al centro di appetiti francesi alla fine degli anni '90. Immediato il commento del capogruppo regionale del Pdl Rocco Palese: «Vendola rinunci a portare avanti una legge illegittima». Per ora le due commissioni del consiglio regionale che stanno valutando la proposta di legge per la ripubblicizzazione degli acquedotti hanno optato per una pausa tecnica, dando «la possibilità ai capigruppo ed ai commissari di prendere visione dell'articolata sentenza di 136 pagine».

Le parole della Consulta in realtà colpiscono al cuore l'insieme delle autonomie locali, in un sussulto decisamente centralista. L'opposizione alla privatizzazione dell'acqua è infatti cresciuta soprattutto grazie al movimento dal basso, ai comitati cittadini, alle regioni che hanno scommesso sulla gestione pubblica e a tantissimi comuni che chiedono di riprendersi gli acquedotti privatizzati. Da due anni centinaia di consigli comunali stanno infatti inserendo negli statuti la dichiarazione dell'acqua come servizio senza rilevanza economica. Una formula che esclude, di conseguenza, il ricorso a gare pubbliche e alle società per azioni, sia private che miste. È quello che può essere definito il cuore del più ampio movimento del referendum. È forse questo il vero nemico per il ministro Fitto, uno dei principali sostenitori della privatizzazione: «La Corte ha fatto anche giustizia di singolari tentativi di sostenere la natura non economica del servizio idrico integrato», ha commentato ieri.

In questo scenario il referendum per l'abolizione della legge Ronchi e delle altre norme che di fatto hanno già privatizzato il sistema idrico assume un valore centrale. Fondamentale è la richiesta di moratoria chiesta dal Forum dei movimenti per l'acqua pubblica: fino al voto dei cittadini che nessuno tocchi l'acqua. L'appuntamento per pubblicizzare la richiesta è fissato per il 4 dicembre, con la mobilitazione di centinaia di comitati locali.





Una sentenza che non rispetta

i beni comuni

di Ugo Mattei



La guerra delle valute, i segnali prevedibilmente sconfortanti sulla «ripresa economica» e le fibrillazioni politiche nostrane mostrano come anche in Italia il ciclo inaugurato con la «fine della storia» si sia esaurito. Il nuovo scenario che si sta profilando sarà fondato su una regressione dell'asse Atlantico e sul progressivo tramonto dell'egemonia statunitense, sul piano prima economico, successivamente politico e finalmente culturale. Mentre sotto il profilo economico e politico i segnali non sono ambigui, molto più complessa si profila la partita culturale. In quest'ambito si intravedono i segnali di una ripresa di iniziativa da parte di un'elaborazione di sinistra, dopo che «la fine della storia» ne aveva provocato uno snaturamento profondo. Per vent'anni abbiamo assistito, impotenti, alla trasformazione della sinistra in un'«altra destra» che, sul piano della cultura giuridico-istituzionale, ha sostanzialmente offerto i due contributi essenziali per la strutturazione del nuovo (dis)equilibrio capitalistico fuoriuscito dalla caduta del Muro di Berlino. In primo luogo l'idea dello Stato regolatore, e in secondo luogo quella del dialogo internazionale fra le Corti supreme. Si tratta di due nozioni, entrambe figlie dell'egemonia culturale statunitense, che condividono un grande disegno di tecnologizzazione del diritto e della politica all'insegna di una presunta neutralità istituzionale (è la stessa logica ipocrita del governo tecnico). Lo Stato regolatore deve limitarsi a presiedere, come un arbitro in un incontro di tennis, al rispetto delle regole formali della concorrenza, rinunciando a favore dei privati a ogni ruolo attivo del pubblico nell'economia. A questo quadro di regressione ottocentesca verso uno Stato minimo guardiano passivo dell'efficienza economica (crescita, produttività, sviluppo, ecc) si cerca di recuperare un volto umano attraverso il «dialogo fra Corti supreme». Saranno così i giudici costituzionali di tutto il mondo, oracoli dell'ideologia borghese dei diritti individuali fondamentali, ad elaborare una giustizia (formale) universalista che faccia da contrappeso al trionfo della tecnica e dell'economia.

La valenza ideologica di questo quadro di riferimento fideistico, fondato sull'idolatria del mercato e del regime di legalità, è stata da più parti denunciata nella sua natura reazionaria. Da tempo, inoltre, la cultura giuridico-politica si è posta alla ricerca di nuovi strumenti capaci di invertire la rotta rispetto alla sciagurata mistificazione anti-politica delle privatizzazioni cammuffate da liberalizzazioni. Giustamente si è osservato che una dimensione ecologica e di lungo periodo comincia a caratterizzare in modo non ambiguo quella parte sempre più ampia della sinistra che si svegliata dal sonno delle «lenzuolate», mentre il movimento referendario per l'«acqua bene comune» allarga ben oltre la sinistra un grido d'allarme che soltanto chi si finge sordo non può sentire.

Con la sentenza che rigetta il ricorso di sei regioni contro il decreto Ronchi che obbliga alla privatizzazione dei servizi pubblici e dell'acqua, la Consulta manda un segnale molto preoccupante. Infatti, stabilendo che «le regole che concernono l'affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, ivi compreso il servizio idrico, ineriscono essenzialmente alla materia tutela della concorrenza, di competenza esclusiva statale», la Corte banalizza questioni di importanza primaria quale l'elaborazione teorica della nozione giuridica di bene comune. Così facendo essa si dimostra vecchia e prigioniera di una logica tecnocratica da fine della storia che le impedisce di produrre cultura giuridica adeguata ai tempi che stiamo vivendo. La prolissità della decisione non nasconde la debolezza teorica di un'argomentazione apodittica e contraria allo stesso diritto europeo. Speriamo che queste retrive convinzioni tecniche che ne hanno fatto un baluardo dello Stato regolatore non siano prodromiche a un respingimento del referendum il prossimo gennaio, perché ciò trasformerebbe un incidente di percorso tecnico-giuridico in un autentico abuso politico-costituzionale.

Nel suo ultimo editoriale del 5 novembre 2010, Salzano affronta la questione del lavoro e del suo rapporto critico con l’attuale sistema economico, rilanciando il dibattito sollevato da Guido Viale sulle pagine del manifesto all’indomani dell’accordo separato alla Fiat di Pomigliano. Salzano conclude il suo editoriale rilanciando la proposta di un nuovo Piano del Lavoro affidando al sindacato e in particolare alla Cgil il compito e la responsabilità di costruire e guidare una strategia alternativa all’attuale modello di sviluppo. Si tratta di una sollecitazione impegnativa e condivisibile anche perchè non sono presenti all’orizzonte altri soggetti politici e sociali in grado di assumere si di sé il peso di una simile impresa. Senza sottacere per questo le difficoltà per un sindacato di lavoratori come la Cgil di conciliare la necessità di difendere il lavoro con la critica a modelli produttivi “insostenibili”, per mancanza di alternative immediate.

Uno dei terreni su cui esercitare la critica al vecchio modello di sviluppo e sperimentare una progettualità alternativa di una economia sostenibile è senza dubbio quello delle città e dello sviluppo locale. La Cgil di Roma e del Lazio si è posto da qualche anno il problema di un possibile futuro della città di Roma alternativo al suo modello tradizionale di sviluppo fondato sul blocco edilizio e sul turismo, che hanno innescato l’espansione urbana senza limiti della città, per sostenere e guidare un processo di cambiamento in grado di affrontare le grandi contraddizioni e le grandi sfide che i processi globali scaricano sulle città, sui territori e sulle comunità locali e che mettono a rischio la convivenza civile, la solidarietà sociale ed umana, la convivenza pacifica fra popoli, fedi ed etnie diverse. Si tratta di uno sforzo di elaborazione rintracciabile nel libro “Roma tra passato e futuro” di recente pubblicazione con l’Ediesse.

Roma è come sospesa tra un passato che non muore e una speranza di futuro che tarda a diventare realtà. La città è di fronte ad un bivio: interrompere e mettere fine ad un modello di sviluppo urbano estensivo che ha saccheggiato e impoverito le sue risorse ambientali, culturali, ed ecologiche prendendo con decisione la via della sostenibilità urbana, produttiva, ambientale, dell’innovazione energetica che spezzi il perverso rapporto instauratosi tra la rendita fondiaria, immobiliare e la finanza, oppure persistere nella logica del consumo di suolo, dell’edilizia speculativa, del turismo di massa mordi e fuggi concentrato nel centro storico, che desertifica le periferie, impoverisce la città mentre arricchisce una minoranza di speculatori ed affaristi.

A conclusione di un lungo ciclo di governo della città sotto il segno del Modello Roma che ha rivelato tutta la sua fragilità strategica e che non ha mutato il segno della qualità dello sviluppo della città, pur con alcune novità dal punto di vista della cura della sua immagine internazionale, non sono cambiati gli attori e i poteri che ne influenzano le scelte decisive. La nuova giunta di centro-destra si appoggia ancora al vecchio blocco di interessi ( edilizia, cemento e turismo), pur con alcuni tentativi di darsi un’immagine di “novità” che fa riferimento ai valori della ecologia urbana e alla cultura della sostenibilità, avvalendosi a tal fine della collaborazione di Jeremy Rifkin. Essa si esprime, soprattutto, attraverso una politica degli annunci che allude ad una “ Grande Trasformazione”: ne troviamo tracce nei lavori della Commissione Marzano, nel convegno con le Archistar, negli annunci reiterati del Piano Strategico per la Città, insieme a quelli della convocazione degli Stati Generali dell’Economia e degli Stati Generali della Città, ecc. Ma i suoi atti concreti e le sue attenzioni reali vanno in tutt’altra direzione: vedi i proclamati progetti sulla Formula 1 all’Eur; i Parchi Tematici; il bando per la realizzazione di alloggi nei Casali dell’Agro romano; il Water Front sul lungomare di Ostia; il consenso alla proposta di un secondo Grande Raccordo Anulare avanzata dall’Unione Industriali di Roma; l’idea di costruire grattacieli nelle periferie, poi ritirata e smentita; l’annuncio choc della demolizione di un intero quartiere di edilizia pubblica nella periferia, come Tor Bella Monaca, per affidarne la ricostruzione ai privati in una zona limitrofa, a “costo zero” per le casse comunali, in cambio di cubature; l’idea di affidare ancora ai privati sia i programmi di hausing sociale mentre ci sarebbe bisogno di costruire case popolari, e sia i projet financing per la costruzione delle metropolitane: tutto in cambio di suolo pubblico da valorizzare in una logica privatistica e speculativa. Che fine hanno fatto i propositi tanto sbandierati in campagna elettorale di mettere fine alla espansione edilizia della città, anche in polemica col Piano Regolatore appena approvato dalla Giunta Veltroni, per difendere l’Agro romano ed edificare una città sostenibile?

La direzione presa va da tutt’altra parte: verso un nuovo patto tra rendita e profitto, verso una grande privatizzazione delle risorse e dei beni pubblici e verso una città più insostenibile, come attesta anche la scelta di chiudere l’esperienza della Città dell’altra Economia nell’ex Mattatoio di Testaccio. La stessa idea della “Grande Roma”- fatta propria dal sindaco in contrasto con la prospettiva della costruzione dell’ area metropolitana in attuazione delle norme su Roma Capitale prevista dalla legge n.42 sul federalismo fiscale – rivela una concezione romanocentrica e non policentrica dello sviluppo urbano ed economico della regione. In questa visione a Roma, ma sarebbe più corretto dire al centro storico della città, rimarrebbe la funzione-guida progettuale, con le funzioni pregiate della direzionalità pubblica e privata e delle attività legata al turismo, mentre l’hinterland provinciale e regionale verrebbe ridotto alla funzione di una immensa periferia regionale, di una grande area di servizio per la Capitale, luogo dove si scaricano le sue contraddizioni non risolte: rom, campi nomadi, immigrati, discariche (anche illegali), inceneritori, logistica ( porti, interporti, magazzini, depositi, ecc.), le case a costi più bassi per i ceti più poveri della città e il conseguente traffico caotico.

La bozza di decreto sui poteri di Roma Capitale tradisce questa visione quando prevede una forte centralizzazione nel governo capitolino dei poteri in materia di urbanistica e di ambiente, spogliando la Regione e la Provincia delle loro prerogative, col risultato di provocare la rivolta delle altre province del Lazio. Si ripropone in sostanza la logica della polarizzazione sociale e territoriale della ricchezza e del benessere, con una regione “spezzata in due”, che in questi anni ha provocato l‘affermarsi delle disuguaglianze sociali che oggi vengono esaltate dalla crisi che colpisce, in particolare, le aree più periferiche della città e della regione, i ceti sociali urbani più deboli - i giovani, le donne, i disoccupati, i precari - e il mondo del lavoro.

Alla competitività esasperata e distruttiva tra territori, al dumping sociale e fiscale come regolatori dei rapporti tra stati, regioni e città, pensiamo vada contrapposta la cultura e la logica della cooperazione allo sviluppo tra città, tra regioni, tra stati, tra grandi meso-regioni, nella quale Roma e la Regione Lazio possono svolgere un ruolo di animatori e promotori di una nuova cooperazione euro-mediterranea.

Dalla crisi in atto si esce con nuova concezione e idea dello sviluppo e con un rinnovamento della democrazia e della partecipazione pubblica. E’ possibile un altro sviluppo per Roma e per la Regione, centrato sul policentrismo, sull’economia sostenibile socialmente orientata, sulle energie rinnovabili e sull’economia verde, sulla valorizzazione della città come bene pubblico, sul riconoscimento del capitale sociale e culturale di cui la città è ricca, sulla promozione e difesa dei beni comuni essenziali con guida pubblica delle imprese e dei servizi pubblici strategici ( salute, energia, acqua, ciclo dei rifiuti, mobilità, ecc.), sulla responsabilità sociale dell’impresa, sulla democrazia economica e sulla partecipazione dei lavoratori alle scelte e agli indirizzi sulla qualità dello sviluppo e su quella dei beni e servizi pubblici.

La Cgil vuole aiutare il processo di riappropriazione di un nuovo spazio pubblico oggi devastato da interessi privati e da una cultura egoista e consumistica che hanno saccheggiato la città, infranto regole e controlli di legalità, impoverito i ceti popolari e i lavoratori, accresciuta la mala pianta del razzismo popolare, mentre ha arricchito speculatori, affaristi senza scrupoli, proprietari di suolo, costruttori, immobiliaristi, albergatori, nonché l’economia criminale che alligna nella città e nel territorio regionale.

Antonio Castronovi è responsabile del Progetto politiche urbane della Cgil di Roma e del Lazio

BOLOGNA - Patate e broccoletti sì, ma non solo. L´agricoltore del futuro è multitasking: agisce su vari piani. Certo, ha abbandonato la chimica pesante, quella che ha inquinato le falde idriche e minato la fertilità dei terreni, per dedicarsi alle coltivazioni biologiche e biodinamiche, ai prodotti con il marchio di garanzia territoriale, ai gioielli della tradizione che danno una mano all´export. Ma non basta perché, nel loro complesso, i campi continuano a perdere braccia, denaro e consenso tra i giovani: negli ultimi dieci anni un´azienda agricola su quattro ha chiuso e il Pil è sceso di un punto.

E allora, per invertire la rotta e difendere, assieme ai campi, il paesaggio, l´agricoltura si reinventa tornando alle origini, cioè alla gestione del territorio. A lanciare la proposta al convegno «Sos agricoltura» - organizzato dal Fai (Fondo ambiente italiano), dal Wwf e dall´Associazione per l´agricoltura biodinamica che si riunisce in questi giorni ad Arezzo - è stato Andrea Segré, preside della facoltà di Agraria dell´università di Bologna. «Il futuro dell´agricoltura sta nella terziarizzazione per la produzione di beni e servizi pubblici», spiega Segré. «Faccio un esempio. La mia facoltà ha un´azienda agricola che già oggi raccoglie gli scarti della potatura in città incrementando il suo fatturato. Perché non allargare questo genere di interventi? Gli agricoltori hanno trattori, idrovore, mezzi pesanti in grado di svolgere molti servizi a vantaggio della comunità in cui vivono: dal controllo della rete idrica alla rimozione della neve. Meglio spendere qualcosa in prevenzione dando un reddito aggiuntivo che difende il presidio delle campagne invece di far salire il conto della Protezione civile».

Tra il 1951 e il 2009 abbiamo speso 50 miliardi in danni causati dal dissesto idrogeologico e la cifra continua a crescere anche perché la politica europea del riposo forzato dei campi, il set aside, ha dato risultati parziali: si è smesso di produrre frutta per il macero ma si sono abbandonati in 10 anni un milione e 800 mila ettari. Con il risultato che il governo idrogeologico di queste aree, che ormai avevano perso l´equilibrio naturale, è saltato. Recuperare la ricchezza del paesaggio tradizionale, il fascino della diversità dei campi significa dunque difendere la sicurezza di tutti. Ma chi paga il conto?

Si potrebbe, come suggerisce Segré, creare un´anagrafe che incroci domanda e offerta, necessità di interventi e disponibilità di mezzi: in questo modo si metterebbe in campo una mano d´opera qualificata evitando che scompaia e rispondendo a un bisogno prioritario. Già oggi le attività di servizio connesse al lavoro agricolo (compresa l´ospitalità negli agriturismi) valgono un quinto del fatturato delle aziende del settore. Senza calcolare i profitti derivanti dall´uso energetico degli scarti di lavorazione, dal mini eolico e dal solare.

«Non possiamo certo sostituire i pannelli fotovoltaici ai filari di nebbiolo sulle Langhe o di sangiovese sulle crete senesi, ma le fonti rinnovabili non sono un nemico», osserva Ilaria Borletti Buitoni, presidente del Fai. «Per difendere il paesaggio l´agricoltura ha bisogno di sostegno economico. Finora è stato alimentato un meccanismo perverso che ha premiato fiscalmente i Comuni quando concedono le licenze edilizie invece che quando difendono la qualità dell´ambiente. Si tratta di raddrizzare la rotta utilizzando anche il peso del turismo e l´integrazione delle energie rinnovabili ben inserite nel contesto: basta darsi regole chiare e trasparenti».

Una Casa Bianca ostaggio dei supporter del neoliberismo. Anticipiamo brani da «America, no we can't», il saggio che il noto linguista ha dedicato alla politica statunitense, all'interno del quale analizza i primi due anni della presidenza democratica



L'azione più importante di Barack Obama prima di assumere la carica è la scelta dello staff dirigente e dei consiglieri. La prima scelta è stata per la vice-presidenza: Joe Biden, uno dei sostenitori più tenaci dell'invasione in Iraq tra i senatori democratici, da lungo tempo addentro al mondo di Washington, che vota coerentemente come i compagni democratici - sebbene non sempre, come quando ha portato allegria negli istituti finanziari appoggiando un provvedimento per rendere più difficile agli individui cancellare i debiti dichiarando la propria condizione di insolvenza.

Il primo incarico post-elettorale è stata la nomina cruciale del capo di gabinetto: Rahm Emanuel, anch'egli uno dei più strenui sostenitori dell'invasione in Iraq tra i deputati democratici e, come Biden, buon conoscitore di Washington. Emanuel è anche uno dei maggiori beneficiari dei contributi di Wall Street alla campagna elettorale. Il Center for responsive politics riferisce che «è stato il massimo beneficiario, tra i rappresentanti, dei contributi per la campagna del 2008 provenienti da fondi a rischio, società private con capitale di rischio e le maggiori società finanziarie e di assicurazione». Da quando è stato eletto al Congresso nel 2002, «ha ricevuto più soldi da singoli e da comitati di sostegno elettorale nel mondo degli investimenti e delle assicurazioni che da altri settori dell'industria»; che sono anche quelli che hanno dato i contributi più consistenti ad Obama. Il suo compito era quello di controllare il modo in cui Obama affrontava la peggiore crisi finanziaria mai verificatasi dagli anni '30, per la quale i suoi finanziatori e quelli di Obama condividono ampie responsabilità.

La sinistra ai margini



In un'intervista di un editorialista del Wall Street Journal ad Emanuel fu chiesto che cosa avrebbe fatto la nuova amministrazione Obama riguardo alla «leadership democratica al Congresso, piena di baroni di sinistra con il loro proprio programma»; che contempla il taglio delle spese per la difesa e le «manovre per applicare esorbitanti tasse sull'energia per combattere il riscaldamento globale»; per non parlare dei pazzi totali che in Congresso si trastullano con i risarcimenti per la schiavitù e simpatizzano anche con gli europei che vogliono mettere sotto processo l'amministrazione Bush per crimini di guerra. «Barack Obama si opporrà», ha assicurato Emanuel al giornalista. L'amministrazione sarà «pragmatica», schiverà i colpi degli estremisti di sinistra.

L'esperto di diritto del lavoro e giornalista Steve Early ha scritto che «durante la campagna elettorale, Obama ha detto che appoggiava fermamente l' Employee free choice act, una riforma legislativa sul lavoro, a lungo attesa, che dovrebbe essere parte integrante del piano che ha promesso per stimolare l'economia». Tuttavia, quando Obama presentò i suoi massimi consiglieri economici al momento dell'insediamento «e parlò dei passi da fare per dare una "scossa" all'economia (...) la legge di riforma non faceva parte del pacchetto».

Continuando a passare in rassegna le nomine di Obama, il suo Transition board, l'équipe che si occupa di introdurre i nuovi incaricati nel governo, fu guidato da John Podesta, capo di gabinetto di Clinton. Le figure di punta della sua équipe erano Robert Rubin e Lawrence Summers, entrambi entusiasti della deregolamentazione, il principale fattore scatenante della crisi finanziaria attuale. Come segretario del tesoro Rubin ha lavorato duramente per abolire la legge Glass-Steagall, che aveva separato le banche commerciali dagli istituti finanziari esposti ad alto rischio.

Conflitto di interessi nello staff



La stampa economica esaminò i documenti del Transition economic advisory board di Obama, che si riunì il 7 novembre 2008 per definire le linee di intervento sulla crisi finanziaria. L'editorialista di Bloomberg News, Jonathan Weil concluse che «molti di loro dovrebbero ricevere immediatamente una convocazione in tribunale come persone informate sui fatti, non un posto nel circolo ristretto di Obama». Circa metà «ha avuto incarichi fiduciari in società che, in qualche misura, o hanno bruciato i loro bilanci o hanno contribuito a portare il mondo al collasso economico, o entrambe le cose». È plausibile pensare che «non scambieranno i bisogni della nazione per gli interessi dei loro consoci?» Weil ha anche precisato che il Capo di gabinetto Emanuel «era amministratore alla Freddie mac nel 2000 e 2001, mentre la finanziaria commetteva frodi in bilancio».

La preoccupazione primaria dell'amministrazione è stato il tentativo di arrestare la crisi finanziaria e la parallela recessione nell'economia reale. Ma c'è anche un mostro nell'armadio: un sistema sanitario privatizzato notoriamente inefficiente e scarsamente regolato, che minaccia di mettere in difficoltà il bilancio federale se la crisi persiste. La maggioranza della gente è da lungo tempo a favore di un servizio sanitario nazionale, che dovrebbe essere molto meno costoso e più efficace, come prove comparative (e molti studi) dimostrano.

Appena nel 2004, qualunque intervento del governo nel sistema sanitario era descritto sulla stampa come «politicamente impossibile» e «privo di sostegno politico» - che vuol dire: contrastato dalle compagnie di assicurazione, dalle grandi aziende farmaceutiche e da altri che contano, qualunque cosa ne pensi la popolazione, del tutto irrilevante. Nel 2008, tuttavia, prima John Edwards, poi Obama e Hillary Clinton, hanno avanzato proposte che si avvicinavano a quello che la gente ha a lungo desiderato. Queste idee ora hanno un «sostegno politico». Che cosa è cambiato? Non l'opinione pubblica, che resta come era prima. Ma nel 2008 i settori di potere più potenti, in prima fila l'industria, era arrivata a riconoscere che subivano gravi danni dal sistema sanitario privatizzato. Di conseguenza, la volontà popolare comincia ad avere «sostegno politico». Lo spostamento ci dice qualcosa sulle disfunzioni della democrazia e sulle lotte che si prospettano.

Quello che è accaduto dopo dice ancora di più.

Obama ha abbandonato subito l'opzione popolare e sensata dell'assistenza medica da parte di un unico ente, che aveva detto di voler appoggiare. Ha anche raggiunto un accordo segreto con le aziende farmaceutiche secondo il quale il governo non avrebbe «negoziato il prezzo dei medicinali e non avrebbe richiesto rimborsi addizionali» a seguito delle pressioni delle lobby e contro l'opinione di un netto 85 per cento della popolazione. Una «opzione pubblica» - nella sostanza l'opzione di «medicare per tutti» - rimase, ma fu sottoposta ad un intenso attacco in base alla motivazione, interessante, che gli assicuratori privati non sarebbero stati in grado di competere con un piano governativo efficiente (pretesti più sofisticati non erano meno bizzarri). Nel giugno 2009 il 70 per cento della popolazione era a favore del piano, nonostante l'instancabile e spesso isterica opposizione di gran parte del settore assicurativo.

Due mesi dopo, l'articolo di fondo di Business Week era titolato: «Le assicurazioni sulla salute hanno già vinto: come United health e Rival carriers, manovrando dietro le quinte a Washington, hanno modellato la riforma sanitaria a loro beneficio». Il settore assicurativo «è riuscito a ridefinire i termini della discussione sulla riforma in misura tale che non contano i dettagli del voluminoso progetto di legge che il Congresso manderà al presidente Obama l'autunno prossimo, il settore riemergerà ancora più redditizio (...) i manager delle assicurazioni dovrebbero sorridere di piacere».

A metà settembre, quando i progetti di legge stavano arrivando sul tavolo del Congresso, il mondo degli affari manifestò il suo appoggio alla versione della Commissione finanze del senatore Max Baucus, che aveva lavorato «in stretto contatto con i gruppi imprenditoriali», più che con altri, si dice con approvazione. Le proposte della Camera furono respinte perché non sufficientemente a favore dei gruppi affaristici. Il presidente della Business Roundtable definì la proposta della Commissione finanze del Senato «molto in linea» con i suoi principi, specialmente per il fatto che «non richiede la creazione di un piano pubblico».

Una riforma dimezzata



Naturalmente nessuna vittoria basta di per sé. Perciò, mentre la lotta per la riforma del sistema sanitario paralizzò virtualmente il Congresso alla fine del 2009, le lobby affaristiche iniziarono una grande campagna per ottenere ancora di più, e ci riuscirono. L'opzione pubblica fu alla fine «fatta naufragare» insieme con un connesso «medicare buy-in» che avrebbe permesso alle persone di 55 o più anni di avere il servizio sanitario nazionale. A quel punto la gente era a favore dell'opzione pubblica dal 56 al 38 per cento e il Medicare buy-in in percentuale anche maggiore, tra il 64 e 30 per cento. Il sondaggio che mostrava questi risultati fu reso pubblico, ma i fatti furono omessi: il titolo diceva «Sondaggi: la maggioranza non approva le leggi per il servizio sanitario». L'articolo lascia l'impressione che la popolazione si unisca all'attacco della destra contro il coinvolgimento del governo nell'assistenza sanitaria, assalto condotto dagli interessi affaristici, contrari a quello che proprio il sondaggio rivela e che altri sondaggi mostrano da decenni.

E che hanno continuato a mostrare nel 2010. Un sondaggio della Cbs reso pubblico l'11 gennaio ha rilevato che il 60 per cento degli americani non approvava il modo in cui il Congresso stava affrontando il problema del sistema sanitario. Le cifre dettagliate mostrano che, tra quelli che sono contro il modo in cui la proposta regola il rapporto con le compagnie di assicurazione, la grande maggioranza pensa che non si spinga abbastanza avanti (il 43 per cento di «non abbastanza», contro il 27 per cento di «troppo»). L'assistenza sanitaria è stata una questione cruciale nelle elezioni al senato nel Massachusetts nel gennaio 2010, in cui ha vinto il repubblicano Scott Brown. Tra i Democratici che si sono astenuti o hanno votato per Brown, il 60 per cento pensava che il programma sanitario non si spingeva abbastanza avanti (l'85 per cento di quelli che si astennero). Tra gli astenuti e i democratici che hanno votato per Brown, circa l'85 per cento era a favore dell'opzione pubblica.

In breve, l'evidenza mostra che in realtà cresceva la rabbia popolare contro il progetto di legge sulla sanità di Obama, prima di tutto perché era troppo limitato.

Mentre il settore finanziario aveva tutte le ragioni per sentirsi soddisfatto dei risultati ottenuti dopo gli sforzi per far eleggere il suo uomo, Obama, la storia d'amore ha cominciato a volgere alla fine nel gennaio 2010, quando Obama ha deciso di reagire al montare della rabbia popolare contro gli «stipendi d'oro» per i finanzieri, mentre altri erano impantanati in una «triste strada tutta in salita per i lavoratori». Ha dunque adottato una «retorica populista», criticando le enormi gratifiche per chi era stato salvato dall'intervento pubblico, e proponendo anche delle misure per limitare gli eccessi delle grandi banche (inclusa la «regola Volcker», che avrebbe in parte ristabilito la legge Glass-Steagall, impedendo alle banche commerciali con garanzia governativa di usare i depositi per investimenti a rischio). La punizione per la sua deviazione è stata rapida.

In nome del libero mercato



Le grandi banche hanno annunciato con rilievo che avrebbero spostato i finanziamenti verso i repubblicani, se Obama avesse insistito con i discorsi sulla regolazione e la retorica contro i finanzieri.

Obama ha capito il messaggio. In pochi giorni ha informato la stampa economica che i banchieri sono bei «tipi», scegliendo Dimon e il presidente Lloyd Blankfein della Goldman Sachs come persone degne di lode e, per rassicurare il mondo degli affari, ha spiegato: «Io, come la maggior parte del popolo americano, non provo invidia per chi ha successo e ricchezza», nella forma delle enormi gratifiche e profitti che fanno infuriare la gente. «Fanno parte del sistema di libero mercato», ha continuato Obama; e non sbagliava, considerato il modo in cui il «libero mercato» è interpretato nella dottrina del capitalismo di stato.

Osservazioni come queste suggeriscono un interessante esperimento mentale. Che cosa sarebbe il contenuto del «marchio Obama» se la popolazione dovesse diventare «partecipe» piuttosto che semplice «spettatrice dell'azione»? È un esperimento degno di essere tentato, non solo in questo caso, e c'è qualche ragione per supporre che il risultati potrebbero indicare la via per un mondo più sensato e decente.

Nel nord Italia e soprattutto in Lombardia c’è una “costante e progressiva evoluzione” della ‘ Ndranghetache, ormai radicata da tempo su quei territori, “interagisce con gli ambienti imprenditoriali lombardi”. Lo sottolinea l’ultima relazione della Direzione investigativa antimafia consegnata al Parlamento e relativa al primo semestre del 2010. Secondo il documento, la ”consolidata presenza” in alcune aree lombarde di “sodali di storiche famiglie di ‘ndrangheta” ha “influenzato la vita economica, sociale e politica di quei luoghi”.

La relazione sottolinea anche il “coinvolgimento di alcuni personaggi, rappresentati da pubblici amministratori locali e tecnici del settore che, mantenendo fede ad impegni assunti con talune significative componenti, organicamente inserite nelle cosche, hanno agevolato l’assegnazione di appalti e assestato oblique vicende amministrative”.

Per penetrare nel tessuto sociale, le cosche – che in Lombardia godono di una certa autonomia ma dipendono sempre dalla “casa madre” calabrese come ha dimostrato l’inchiesta “Crimine” che ha ricostruito l’organigramma della ‘Ndrangheta – si muovono seguendo due filoni: “quello del consenso e quello dell’assoggettamento”. Tattiche che, sottolineano gli esperti della Dia, “da un lato trascinano con modalità diverse i sodalizi nelle attività produttive e dall’altro li collegano con ignari settori della pubblica amministrazione, che possano favorirne i disegni economici”. Con questa strategia, e favorita da “una serie di fattori ambientali”, si consolida la “mafia imprenditrice calabrese” che con “propri e sfuggenti cartelli d’imprese” si infiltra nel “sistema degli appalti pubblici, nel combinato settore del movimento terra e, in alcuni segmenti dell’edilizia privata” come il “multiforme compartimento che provvede alle cosiddette ‘opere di urbanizzazione’”.

Secondo la Dia dunque, si assiste a un vero e proprio “condizionamento ambientale” da parte della ‘Ndrangheta che è riuscita “a modificare sensibilmente le normali dinamiche degli appalti, proiettando nel sistema legale illeciti proventi e ponendo le basi per ulteriori imprese criminali”. E la penetrazione nel sistema legale dell’area lombarda, è favorita da “nuove e sfuggenti tecniche di infiltrazione, che hanno sostituito le capacità di intimidazione con due nuovi fattori condizionanti: il ricorso al “massimo ribasso” nelle gare d’appalto e la “decisiva importanza contrattuale attribuita ai fattori temporali molto ristretti per la conclusione delle opere”.

La Dia ripercorre le fasi delle operazioni ‘ Parco Sud’ e ‘ Cerberus‘ della Guardia di finanza di Milano ed evidenzia il “forte interesse delle cosche verso l’edilizia”. Le indagini hanno consentito di individuare “nuove filiazioni delle ‘ndrine Barbaro-Papaliadi Platì, presenti nella zona Sud-Ovest del capoluogo lombardo, evidenziando ulteriormente la capacità militare e di assoggettamento ambientale”.

Sono così affiorati, prosegue la relazione, “i legami con imprenditori ed amministratori, realizzati dai nuovi vertici criminali, che hanno portato all’arresto del vicepresidente di una società per azioni, di un ex sindaco di Trezzano sul Naviglio, vertice pro-tempore del consiglio di amministrazione di aziende pubbliche operanti nel settore della tutela e gestione delle risorse idriche dell’area milanese, nonché di un componente del Consiglio comunale e di un geometra dello steso Comune”.

In sintesi, è la conclusione, “si è avuto modo di apprezzare la presenza sul territorio lombardo di esponenti della ‘ndrangheta residenti nella regione che, con modalità diverse dalla consolidata prassi mafiosa del controllo ambientale, hanno conseguito più preganti interessi economici”.

Nelle conclusioni si sottolinea la necessità di un ”razionale programma di prevenzione” che consenta di bloccare le possibili infiltrazioni della ‘Ndrangheta “in previsione delle opere previste per l’Expo 2015”, mentre si augura che lo Stato “coinvolga non solo le autorità istituzionalmente deputate alla vigilanza, ma anche tutti i soggetti a vario titolo coinvolti” e “consenta di individuare per tempo eventuali criticità”.

Il cosiddetto “ciclo degli inerti”, la cantieristica e la logistica collegata, la manodopera e le bonifiche ambientali “costituiscono i settori – scrive la Dia – maggiormente esposti al rischio di infiltrazione dell’intero indotto che si muove attorno alle grandi opere, agli appalti pubblici e privati”.

Ma c’è di più: secondo la Dia, infatti, il “condizionamento ambientale” delle cosche su parte dell’economia lombarda, va inteso come “partecipazione ormai pacificamente accettata di società riconducibili ai cartelli calabresi a determinati segmenti, in espansione, del settore edile, sia pubblico che privato”.



PostillaLa citata inchiesta Parco Sud è stata il “caso studio” proposto nel 2010 alla Scuola Estiva di Eddyburg nella relazione di Serena Righini per sostenere una tesi al tempo stesso ovvia quanto a suo modo rivoluzionaria. Ovvero che la criminalità organizzata trova nei meccanismi attuali di decisione delle politiche territoriali un contesto perfetto per operare, grazie alla notevole discrezionalità e scarsa trasparenza dei processi. Prevenire è sempre meglio che curare, ma per ora le forze politiche sembrano orientate ad altro: dall’ovvio, chiamiamo la polizia, la magistratura, a vari meccanismi di controllo ulteriori che spesso finiscono per rendere solo più intricato tutto. Mentre forse basterebbe solo più trasparenza (f.b.)

Sono un vecchio giornalista che ha dedicato alcuni anni di lavoro al tema dell'ambiente in tutte le sue espressioni: difesa del suolo, lotta all'inquinamento, tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici, ordinato sviluppo urbanistico e territoriale. I catastrofici eventi delle ultime settimane dalle alluvioni in Veneto e Campania al crollo di Pompei, che hanno dato occasione a Repubblica di promuovere l'ennesima, meritoria campagna mi hanno costretto a riaprire gli scaffali della memoria, dove ho riscoperto giacere cumuli di documenti: decenni di denunce, inchieste e proposte di intervento risanatore, dovute all'iniziativa delle associazioni ambientaliste (prima fra tutte Italia Nostra), all'impegno professionale di alcuni valorosi colleghi (primo fra tutti l'indimenticabile Antonio Cederna), alla partecipazione di ambienti accademici, studiosi, intellettuali, politici e parlamentari. Una lunga, appassionata, anche se a volte incompresa battaglia; che pure qualche risultato aveva prodotto: il rafforzamento di una coscienza ambientalista, alcune proposte di legge e provvedimenti di governo, l'istituzione dei ministeri dell'Ambiente e dei Beni culturali. Di tutto ciò non sembra restare traccia, né nel corpo martoriato del Malpaese né nella memoria della comunità. È amaro motivo di sconforto

Vito Raponi

L e ricordo anch'io le cento battaglie, quasi sempre perdute, in difesa del territorio: ultimo caso l'assurda sentenza su Punta Perotti a Bari. Spesso dimentichiamo, ha scritto Carlo Petrini su questo giornale, che l'unica ricchezza di cui il paese non potrà mai fare a meno è il nostro territorio e tutto ciò di cui, nei secoli, è stato cosparso. Ricordo Antonio Cederna e Giovanni Urbani. L'accanimento quasi doloroso con cui hanno cercato di risvegliare, di educare, i politici. Per anni Urbani ha cercato di imporre il concetto che il territorio e i suoi beni si curano con la prevenzione, non mandando la Protezione civile quando tutto è già perduto. C'è un esempio vicino, in pratica sotto gli occhi di molti responsabili: il parco dell'Appia Antica. Non c'è settimana in cui non si debba registrare un nuovo sfregio, un abuso, una costruzione, un ampliamento, una piscina che non dovrebbero esserci. Un giorno in cui dovevamo fare certe riprese per la tv, l'operatore non riusciva a girare la sequenza voluta per il troppo traffico di automobili. Eravamo nella zona detta pedonale. Chi sarà colpevole, o responsabile? Il sindaco? La Provincia? La Regione? Il ministero? Viene, dico la verità, un sospetto peggiore: che della cosa non importi niente a nessuno. Salvo pochi moralisti pedanti che è facile ignorare e che la finiscano di rompere le scatole.

Corrado Augias

Ora anche le volpi ci si mettono a far danni sugli argini dei fiumi veneti, così da indebolirli favorendo gli straripamenti. Succede nel comune di Saletto, area della Bassa Padovana, dove scorre il fiume Frassine. Un corso d’acqua che nasce dalle Dolomiti e lungo il suo cammino cambia nome: Agno, Guà e Frassine. Quindi, affluisce nel canale Gorzone, che finisce nel Brenta. Quello delle volpi (e forse anche dei tassi) che scavano le tane a distanza ravvicinata è un problema, al momento circoscritto. Più grave, infatti, in Veneto, è la situazione relativa all’invasione delle nutrie («Sfuggite agli allevamenti impiantati negli anni Settanta, quando andavano di moda le pellicce di castorino», fa notare Fabrizio Stelluto, portavoce dei Consorzi di Bonifica) che erodono la terra, facendo crollare improvvisamente gli argini.

Il devastatore di Territorio

«Il rischio volpi si è evidenziato in questi giorni — spiega Barbara Degani, presidente della Provincia di Padova — quando gli uomini del Genio Civile, dopo l’alluvione, ripulendo le campagne attorno al Frassine, si sono accorti della presenza di tracce riconducibili alle tane di questi animali selvatici». «Il cui habitat — aggiunge — si trova solitamente in luoghi boscosi e a una certa altitudine. È presumibile, dunque, che le volpi, nelle nostre campagne, siano arrivate scendendo dai Colli Euganei e Berici». Comunque sia, gli animali hanno trovato il modo di erodere il terreno nei pressi degli argini, determinando un ulteriore elemento di squilibrio. Adriano Scapolo, comandante della Polizia provinciale di Padova, che ha seguito da vicino la questione, osserva: «All’epoca in cui l’agricoltura era un’attività fiorente, pensavano i contadini a falciare l’erba e a tenere puliti gli argini. In altre parole, non venivano create le condizioni favorevoli. Adesso, invece, le volpi riescono ad avventurarsi fino a pochi metri dalle rive. E poiché scavano gallerie con più uscite, riducono gli argini a un groviera».

La situazione è tale che sono state ottenute deroghe per eseguire interventi anche in zone di ripopolamento e di cattura. Fino all’abbattimento degli animali. «Il lavoro più incisivo — racconta Scapolo — è comunque quello degli interventi sulle tane, in modo da contenere la presenza delle volpi stesse. Al riguardo, abbiamo stilato un Protocollo d’intesa con le associazioni ambientaliste, affinché venga fatto un monitoraggio (che prevede anche la cattura) rispettoso e compatibile».

postilla

Deve essere sicuramente scattato un ordine di scuderia fra gli addetti ai lavori (fra gli addetti ai lavori inutili e dannosi of course ) un nanosecondo dopo l’ammissione pubblica di qualche esponente del mondo economico veneto che riconosceva: abbiamo fatto troppi capannoni inutili, con questa dispersione territoriale ci stiamo tirando la zappa sui piedi. Così il partito di quelli in grado appunto solo di tirare di zappa ancora nel terzo millennio si è messo all’opera per cercare il capro espiatorio. Il Veneto si allaga? Vediamo, la colpa è dei comunisti che fanno piangere la madonna, e i pianti della madonna si sa, dilagano. Oppure di quei topacci sporchi di fango che il comune cittadino conosce quasi esclusivamente nella versione spiaccicata sulle strade di argine, e paiono il nemico ideale. Oppure ancora delle volpi, che fa tanto brughiera britannica, suono di corni, nobiltà decaduta al galoppo … Il trionfo delle cazzate.

Perché se è vero che scavare un buco fa entrare un po’ d’acqua, è molto più vero che anche cercare a tutti i costi di dare la colpa a qualche entità indefinita (l’animale selvatico sfuggente e semisconosciuto ai più) significa replicare, al millimetro, il medesimo approccio metodologico che ha portato al disastro. Fare un capannone, fare una villetta, in sé e per sé non significa nulla, così come fare un buco per allevarci i cuccioli: è farlo, e rifarlo, da incoscienti, in malafede, il guaio. Ma ce lo vedete un quotidiano nazionale a titolare a tutta pagina: L’ALLUVIONE VENETA COLPA DEGLI STRONZI! Peccato, non ci sia più Il Male , che negli anni ’70 almeno per un pubblico di nicchia queste cose se le inventava (f.b.)

A come agricoltura. E anche come aria, alimentazione, ambiente. Sono le quattro "A" che regolano la vita dell’umanità dalla notte dei tempi, in quella catena della sopravvivenza che ha garantito fin qui la prosecuzione della specie. Ma la campagna italiana, minacciata innanzitutto dal cemento e dall’asfalto, rischia di deperire irrimediabilmente, coinvolgendo anche la conservazione del paesaggio su cui si fonda la nostra identità nazionale. I danni prodotti dall’ultima ondata di maltempo, dal Veneto alla Campania, rappresentano perciò - al di là della loro dimensione economica e sociale - un avvertimento della natura contro la devastazione provocata dalla mano dell’uomo.

L’agricoltura italiana sta attraversando la crisi peggiore dal dopoguerra. Dal 2000 al 2009, la sua quota di Pil (Prodotto interno lordo) è scesa dal 2,5 al 1,6%. Le nostre campagne si stanno progressivamente spopolando, mentre le piccole aziende agricole lasciano spazio alla coltivazione intensiva: negli ultimi dieci anni, sono già diminuite del 26% e quelle con allevamenti di bestiame si sono ridotte addirittura alla metà. Altro che "dipendenza energetica" dall’estero: di questo passo l’Italia rischia di perdere anche l’indipendenza alimentare, di non avere più frutta e verdura proprie né carne di produzione locale da consumare. Hanno senz’altro ragione quindi gli agricoltori a sentirsi traditi da una politica che non li aiuta e da una burocrazia inutilmente complessa e onerosa, nonché da un mercato che non rispetta i costi reali del lavoro.

Ma il peggio è che l’abbandono dell’agricoltura sta distruggendo di conseguenza il paesaggio, l’ambiente e la biodiversità, con la prospettiva di inevitabili ripercussioni sul turismo e su tutto l’indotto: dall’industria alberghiera alla ristorazione, dall’eno-gastronomia all’artigianato. Nel frattempo, il degrado ambientale e il dissesto idrogeologico non fanno che aggravare i danni del maltempo, scaricandoli fatalmente sulle casse dello Stato e degli enti locali: negli ultimi sessant’anni, dal ‘51 al 2009, le alluvioni, le frane e i crolli sono costati complessivamente 50 miliardi di euro, con un bilancio ancor più grave in termini di vite umane che registra purtroppo 3.660 vittime. E anche questa è una conseguenza del cambiamento climatico prodotto dall’effetto serra, cioè dall’inquinamento e dal riscaldamento del pianeta, con il fenomeno tipicamente tropicale delle piogge concentrate in poche ore o in pochi giorni che si alternano a periodi di siccità.

C’è dunque un fondo di saggezza nel proverbio popolare che dice: «Piove, governo ladro». E non sta tanto, come si può ricavare da una lettura superficiale, nell’ovvio qualunquismo di un’imprecazione del genere. Quanto piuttosto nella consapevolezza che perfino un evento meteorologico come la pioggia, quando diventa una calamità naturale e provoca alluvioni, frane, crolli, vittime e danni, interpella fatalmente le responsabilità di chi governa o non governa il territorio. Di chi appunto "ruba" il suolo, consumandolo con la cementificazione selvaggia, l’urbanizzazione irregolare, il disboscamento, l’abusivismo e con quella malattia endemica della società moderna che si può chiamare "capannonite", cioè l’estensione indiscriminata dei capannoni che invadono e ricoprono la campagna.

Non è allarmistico né esagerato concludere, dunque, che lo stato dell’agricoltura italiana segnala ormai un’emergenza nazionale, da cui dipende non solo il futuro di un settore fondamentale per l’intera economia italiana, ma la stessa identità sociale e culturale del Paese. Nel passaggio dalla civiltà contadina a quella industriale e poi post-industriale, rischiamo di cadere nel vuoto dell’inciviltà perdendo il senso dell’orientamento e la direzione di un autentico progresso.

Sono settimane ormai che l’annuncio è nell’aria: il governo Berlusconi sta finendo, anzi è già finito. Il suo regno, la sua epoca, sono morti. È sempre lì sul palcoscenico, come nelle opere liriche dove le regine ci mettono un sacco di tempo a fare quel che cantano, ma il sipario dovrà pur cadere. Anche i giornali stranieri assistono al funerale, nei modi con cui da sempre osservano l’Italia: il feeling, scrive l’Economist, la sensazione, è che la commedia sia finita. Burlesquoni è un brutto scherzo di ieri.

In realtà c’è poco da ridere, e il ventennio che abbiamo alle spalle è infinitamente più serio. Non siamo all’epilogo dei Pagliacci, e non basta un feeling per spodestare chi è sul trono non grazie a sentimenti ma a una macchina di guerra ben oleata. Per uscire dalla storia lunga che abbiamo vissuto – non 16 anni, ma un quarto di secolo che ha visto poteri nati antipolitici assumere poi il comando – bisogna, di questo potere, averne capito la forza, la stoffa, gli ingredienti. Non è un clown che si congeda, né l’antropologia dell’uomo solitario aiuta a capire. I misteri di un’opera sono nell’opera, non nell’autore, Proust lo sapeva: «Un libro è il prodotto di un io diverso da quello che manifestiamo nelle nostre abitudini, nella società, nei nostri vizi». Sicché è l’opera che va guardata in faccia, per liberarsene senza rompersi ancora una volta le ossa.

Chi vagheggia governi tecnici o elezioni subito, a sinistra, parla di regime ma ne sottovaluta le risorse, la penetrazione dei cervelli.

Un regime fondato sull’antipolitica - o meglio sulla sostituzione della politica con poteri estranei o ostili alla politica, anche malavitosi - può esser superato solo da chi è stato detronizzato. Nessun tecnico potrà resuscitare le istituzioni offese. Può farlo solo la politica, e solo se essa si dà del tempo prima del voto.

Capire il regime vuol dire liberare quello che esso ha calpestato, e quindi non solo mutare la legge elettorale. Non è quest’ultima a rendere anomala l’Italia: se così fosse, basterebbe un gesto breve, secco. Quel che l’ha resa anomala è l’ascesa irresistibile di un uomo che fa politica come magnate mediatico. Berlusconi ha conquistato e retto il potere non malgrado il conflitto d´interessi, ma grazie ad esso. Il conflitto non è sabbia ma olio del suo ingranaggio, droga del suo carisma. La porcata più vera, anche se tabuizzata, è qui. La privatizzazione della politica e dei suoi simboli (non si governa più a Palazzo Chigi ma nel privato di Palazzo Grazioli) è divenuta la caratteristica dell’Italia.

Proviamo allora a esaminare i passati decenni, oltre l’avventura iniziata nel ´94. L’avventura è il risultato di un’opera vasta, finanziata torbidamente e cominciata con l’idea di una nuova pòlis, un’altra civiltà. Un progetto - è Confalonieri a dirlo - che «ha contribuito a cambiare il clima grigio e penitenziale degli anni ´70, ed è stato un elemento di liberazione. Ha portato più America e più consumi, più allegria e meno bigottismo». Più America, consumi, allegria: la civiltà-modello per l’Italia divenne Milano2, una gated community abitata da consumatori ansiosi di proteggersi dal brutto mondo esterno, di sentirsi più liberi che cittadini. E al suo centro una televisione a circuito chiuso, che intrattenendo distrae, occulta, manipola: nel ‘74 si chiama Milano-2, diverrà l’impero Mediaset. Quando andrà al potere, il Cavaliere controllerà tutte le reti: le personali e le pubbliche.

Tutto questo non è senza conseguenze: cadendo, il Premier non lascia dietro di sé una società sbriciolata. Il paese in briciole è stato da principio sua forza, sua linfa. Non si tratta di profittare di subitanei sbriciolamenti, ma di far capire agli italiani che su questo sfaldamento Berlusconi ha edificato la sua politica. Che su questo ha costruito: sul maciullamento delle menti, non sull’individualismo. Su un’Italia che somiglia all’Uomo del sottosuolo di Dostojevski: un’Italia che rifiuta di vedere la realtà; che «segue i propri capricci prendendoli per interessi»; che giudica intollerabile che 2+2 faccia 4. Un’Italia che «vive un freddo e disperato stato di mezza disperazione e mezza fede, contenta di rintanarsi nel sottosuolo». Un’Italia arrabbiata contro chiunque vorrebbe illuminarla (la stampa, o Marchionne, o i magistrati) così come l’America arrabbiata del Tea Party il cui ossessivo bersaglio è la stampa indipendente.

Correggendo solo la legge elettorale si banalizza la patologia. Altre misure s’impongono, che permettano agli italiani di comprendere quanto sono stati intossicati. Esse riguardano il controllo di Berlusconi sull’informazione e il conflitto d’interessi. La profonda diffidenza verso una società bene informata (per Kant è l’essenza dei Lumi) caratterizza il suo regime. «Non leggete i giornali!» - «Non guardate certi programmi Tv!»: ripete. Gli italiani devono restare nel sottosuolo, eternamente incattiviti. Altro che allegria. È sulla loro parte oscura, triste, che scommette. Qualsiasi governo che non si proponga di portar luce, di riequilibrare il mercato dell’informazione, fallirà.

Per questo è importante un governo di alleanza costituzionale che raggiusti le istituzioni prima del voto, e un ruolo prioritario è riservato non solo a Fini ma alle opposizioni. Fini farà cadere il Premier ma l’intransigenza sul conflitto d´interessi spetta alla sinistra, nonostante gli ostacoli esistenti nel suo stesso seno. Del regime, infatti, il Pd non è incolpevole. Fu lui a consolidarlo con un patto preciso: la conquista di suoi spazi nella Rai, in cambio del potere mediatico del Cavaliere. Tutti hanno rovinato la tv, pur sapendo che il 69,3 per cento degli italiani decide come votare guardandola (dati Censis).

A partire dal momento in cui fu data a Berlusconi l’assicurazione che l’impero non sarebbe stato toccato, si è rinunciato a considerare anomali la sua ascesa, il conflitto d’interessi. E i responsabili sono tanti, a sinistra, cominciando da D’Alema quando assicurò, visitando Mediaset nel ‘96: «Non ci sarà nessun Day After, avremo la serenità per trovare intese. Mediaset è un patrimonio di tutta l’Italia». La verità l’ha detta Luciano Violante, il giorno che si discusse la legge Frattini sul conflitto d’interessi alla Camera, il 28-2-02: «L’on. Berlusconi sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – non adesso, nel ‘94 quando ci fu il cambio di governo – che non sarebbero state toccate le televisioni. Lo sa lui e lo sa l’on. Letta... Voi ci avete accusato nonostante non avessimo fatto la legge sul conflitto d´interessi e dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni... Durante i governi di centrosinistra il fatturato Mediaset è aumentato di 25 volte!». Il programma dell’Ulivo promise di eliminare conflitto e duopolio tv, nel ‘96. Non successe nulla. Nel luglio ‘96, la legge Maccanico ignorò la sentenza della Consulta (Fininvest deve scendere da tre a due tv). Lo stesso dicasi per l’indipendenza Rai. È il centrosinistra che blocca, nell’ultimo governo Prodi, i piani che la sganciano dal potere partitico. A luglio Bersani ha presentato un disegno di legge che chiede alla politica di «fare un passo indietro». Non è detto che nel Pd tutti lo sostengano. Una BBC italiana è invisa a tanti.

Se davvero si vuol uscire dall’anomalia, è all’idea di Sylos Labini che urge tornare: all’ineleggibilità di chi è titolare di una concessione pubblica, secondo la legge del 30 marzo ‘57. D’altronde non fu Sylos a dire che l’ineleggibilità è la sola soluzione. Il primo fu Confalonieri, il 25-6-2000 in un’intervista a Curzio Maltese sulla Repubblica. Sostiene Confalonieri che l’Italia, non essendo l’Inghilterra della Magna Charta, non può permettersi di applicare le proprie leggi. Forse perché il paese è sprezzato molto. Forse perché c’è chi lo ritiene incapace di uscire dal sottosuolo, dopo una generazione.

VENEZIA. «L’alta velocità in project? E perché no. Mi pare un’ottima idea, anzi per quanto riguarda la tratta che da Mestre porta al Marco Polo, e relativo nodo intermodale, la stiamo studiando e saremmo anche pronti a parteciparvi». Enrico Marchi, presidente della Save, coglie al balzo le proposte emerse dal forum, pubblicato ieri su questo giornale, sulle infrastrutture a Nordest e il project financing, e rilancia: costruire subito, con il contributo di finanziatori privati, la tratta Mestre-Tessera con relativa stazione ferroviaria sotterranea, snodo intermodale (dove dovrebbero arrivare anche i treni del metrò regionale, e, in futuro, anche la sublagunare.

Mi scusi ma che interesse c’è nel fare un piccolo di Tav fino a Tessera?

«Prima di tutto è un tratto sul quale sono tutti d’accordo: governo, Ferrovie, Regione ed enti locali. E c’è anche un progetto di massima: lo studio di fattibilità del nodo intermodale di Tessera è già pronto essendo stato fatto dalla Save con il contributo dei fondi Ue».

Va bene. Ma tutto il resto del progetto della Tav è nella nebbia...

«E allora per questo dobbiamo stare fermi a guardare? Non si può pensare che la Milano-Venezia resti senza alta velocità. E le linee non sono mai state costruite tutte insieme: sono state sempre progettate e realizzate per lotti funzionali. Si potrebbe così cominciare a ragionare su quelle tratte dove c’è un accordo già pronto e progetti condivisi. Stiamo rischiando di perdere i contributi dell’Europa proprio perché siamo in ritardo con i progetti. E il fatto di dare il via a un pezzo dell’alta velocità ci darebbe anche una credibilità».

Ma i treni si fermerebbero a Tessera, cioè in una stazione di testa?

«Sì finché la linea non verrà completata facendo della stazione dell’aeroporto, come previsto nel progetto definitivo, uno snodo intermodale passante. Non c’è nulla di male, perché nel frattempo ci troveremmo nelle stesse condizioni di Malpensa dove adesso arrivano i Frecciarossa su una linea che, tra l’altro, non è previsto che in futuro prosegua oltre. Ma per uno scalo internazionale come il nostro, e anche per il territorio, è determinante essere raggiunto da un’infrastruttura ferroviaria».

Quanto potrebbe costare la realizzazione?

«Intorno ai 500 milioni, 300 per il nodo intermodale e 250 per la linea ferroviaria».

E i finanziamenti? Da dove arriverebbero?

«Come in tutti i project dai privati, dai fondi infrastrutturali italiani ed europei, con il contributo, ovviamente dello Stato visto che sempre di tratte ferroviarie si parla. Anche noi siamo pronti a partecipare».

Ma per i project ci vogliono due condizioni: che i privati possano correre sulle linee e che ci sia davvero l’accordo a farlo anche da parte delle Ferrovie...

«Che cosa impedisce che i privati usino la linea? Quanto alla realizzazione di singole tratte ferroviarie in project financing ci sono anche esempi europei: ne sono state costruite in Francia da Eiffage, ad esempio, per una linea che va da Perpignan a Figueras».

Chi sarebbero gli investitori?

«C’è un discreto interesse da parte di investitori con i quali ho parlato nei giorni scorsi: sono fondi europei, ma un progetto di questo genere potrebbe trovare il consenso anche della Cassa Depositi e Prestiti».

E le Ferrovie dello Stato?

«Penso lo ritengano un progetto fattibile. Credo che sia abbastanza per andare avanti e provare a realizzarlo».

Postilla

Crediamo che in nessun paese del mondo vi sia chi, in una posizione di potere, teorizza in questo modo l’inutilità della pianificazione del territorio. Per realizzare un’opera indubbiamente di rilevantissimo impatto sulle comunicazioni, sull’assetto e il funzionamento delle attività produttive, commerciali, direzionali e logistiche, sul sistema dei servizi pubblici, sulla trasformazione del ruolo delle città nelle regioni attraversate, per non parlare dell’assetto fisico del suolo (regime delle acque superficiali e profonde, paesaggio e beni culturali, fertilità del suolo, rischi legati all’assetto idrogeomorfologico) il dott. Marchi, uomo di punta del sistema di potere pubblico-privato che gestisce gli aeroporti del Veneto, e molte altre cose propone di avviare suubito la pianificazione, progettazione ed esecuzione di un segmento: pochi km, che però danno il via a una speculazione immobiliare pubblico-privata: Quadrante Tessera, sul bordo della Laguna.

Per chiarire chi è il personaggio riportiamo un profilo tratto da un giornale locale di pochi anni fa.

Corriere del Veneto, Padova, 15 ottobre 2005

Il ragazzo di Conegliano in volo sui salotti buoni Marchi,

il finanziere che scala Gemina per diventare re degli aeroporti

di Claudio Trabona



VENEZIA - Erano quattro gatti. Ragazzi confinati nel ghetto di una passione politica minoritaria: si riunivano da militanti della Gioventù Liberale, fine anni Settanta. Discettavano di Croce ed Einaudi, di liberalismo e liberismo. Giancarlo Galan, Niccolò Ghedini e Fabio Gava a volte litigavano. Si dividevano sulla teoria. Poi interveniva Enrico Marchi, sveglio giovane di Conegliano, e tagliava corto: « Poche chiacchiere, l'importante è essere anticomunisti » . I ricordi dell'avvocato Luigi Migliorini da Adria, memoria storica dei liberali veneti, raccontano molto del personaggio che oggi si è conquistato fama nazionale come scalatore di Gemina: insofferente alle complicazioni, Marchi è un praticante assiduo della religione del pragmatismo. Se c'è da entrare a piedi uniti, lo fa. E lo ha fatto, al momento opportuno, anche nel salotto buono della finanza. Ha preso i 165 milioni di euro incassati con la quotazione in Borsa della sua Save, la spa dell'aeroporto Marco Polo, ne ha spesi circa la metà per rastrellare il 10,4% di Gemina e poi si è presentato: « Ecco, vorrei fare la grande aggregazione tra gli scali di Venezia e Fiumicino » .

Marchi c h i ? Sembra di sentirli i Pesenti, i Tronchetti Provera e soprattutto i Romiti. Ma l'ex ragazzo di Conegliano, sostanzialmente, se ne frega del salotto buono. Punta dritto al progetto imprenditoriale, Gemina non è la chiave per la rispettabilità nel bel mondo della finanza ma la scatola che contiene l'oggetto del desiderio, gli Aeroporti di Roma. Dice in un'intervista alla Nuova Venezia : « Noi stiamo provando a mettere in campo un progetto che veda il Veneto soggetto aggregante e non aggregato. Il Nord Est ha la pancia piena, a volte preferisce lamentarsi piuttosto che mettersi in gioco » . E in effetti per una volta non si parla di fiere e grandi magazzini comprati dai francesi, di banche finite nelle mani degli olandesi o dei torinesi, di autostrade scalate dai bresciani. Si parla di questi imprenditori, lui e il socio di sempre Andrea De Vido, che dalla campagna veneta si mettono in marcia sulla capitale.

In realtà, Enrico Marchi, classe ' 56, laurea bocconiana in economia aziendale, è lontano mille miglia dalla figura del provinciale di troppe pretese. Intanto, sa scegliersi le amicizie: le cono scenze di gioventù spesso vengono buone da grandi e infatti Giancarlo Galan oggi è una delle due sponde forti su cui ha potuto giocare la sua ascesa. È stato il governatore a metterlo lì alla presidenza di Save, nel 2000, ed è stato sempre il governatore ad appoggiarne tutte le mosse determinanti: lo sbarco a Piazza Affari, la lite senza mediazioni con gli enti locali veneziani e in particolare con l'ex sindaco Paolo Costa, la costituzione della cassaforte Marco Polo Holding che tiene saldo il controllo ( 38,9%) della società aeroportuale. I cui azionisti sono appunto la Finint, la Regione attraverso Veneto Sviluppo e Assicurazioni Generali. Ed ecco la seconda sponda forte, l'altra amicizia importante: se Galan è il garante politico, Giovanni Perissinotto è un'ottima compagnia per addentrarsi nei piani alti della finanza ( e infatti sta in Gemina). L'ad del Leone di Trieste è socio nell'aeroporto e lo è al 10% anche in Finanziaria Internazionale. Finint è stata tutta la vita di Marchi. Nei prossimi giorni lui e Andrea De Vido festeggeranno - pranzo con i giornalisti e cena di gala con vip a Venezia - i 25 anni dalla fondazione. Oggi è una piccola, silenziosa city alla circonvallazione di Conegliano. « Quando abbiamo investito sulla nuova sede - racconta De Vido - amici e colleghi ci criticarono: un quartier generale si fa in centro, non in mezzo ai camion. Avevamo ragione noi: in questi anni il traffico è impazzito, ma noi siamo vicini all'autostrada e chi viene da Milano o Venezia ci trova subito » . Hanno visto lontano, lui e Marchi, anche quando hanno cominciato per primi a trattare il settore delle securitisation , le sofisticate operazioni di cartolarizzazioni dei crediti che fino a qualche anno fa erano materia sconosciuta in Italia. Un segno dell'esperienza internazionale: il trevigiano De Vido ha imparato il mestiere a New York, alla Bank of America.

E negli anni scorsi aveva fatto aprire un ufficio della Finint a Londra, altro posto dove si respira davvero l'aria del business. Ecco perché gli ex ragazzi di Conegliano non hanno timori da provinciali. Nel palazzo di vetro della Finint lavorano 220 persone, impiegati ma soprattutto professionisti che maneggiano con disinvoltura il glossario anglosassone tipico del settore: merchant banking, merger & acquisition, private equity. La Finanziaria Internazionale, 10 milioni di euro di utile, lavora con Ubs, Citigroup, Morgan Stanley. Enrico Marchi, però, nuota meglio in acque venete. Ed è un tipo che non si scompone in alcune vicende locali un po' imbarazzanti. Come quella della compagnia aerea Volare. Primo opera tore allo scalo di Venezia con oltre il 20% del traffico, al momento del tracollo è posseduta tra gli altri dal Fondo Tricolore. Cos'è? Una società costituita con i soldi di Ligresti ( ecco un altro che si ritrova in Gemina) e Generali. E chi amministra il fondo? La Finanziaria Internazionale diMarchi e De Vido. Cliente e fornitore uniti da interessi comuni. Per i nemici del Comune e della Provincia di Venezia questo è un palese conflitto di interesse. E i loro avvocati, citando certi sconti sul debito Volare concessi da Save, lo sottolineano nella raffica di cause in tribunale contro i bilanci e la quotazione della società aeroportuale. Ma lui non si nasconde, e contrattacca: « Mai stato un socio di Volare » . La guerra si chiude ( non del tutto) con oltre sei milioni di crediti finiti nella spazzatura del bilancio Save e una serie di vittorie nelle aule giudiziarie. Contro un tizio che si chiama Guido Rossi, consulente del Comune di Venezia e ispiratore dei ricorsi. È il super- professore che ha sconfitto Gianpiero Fiorani e Stefano Ricucci nella storia Antonveneta. Dove non hanno potuto i furbetti del quartierino , è arrivato l'ex ragazzo di Conegliano.

Nel cuore lombardo del berlusconismo ha vinto un politico lontano dai cliché del populismo mediatico, un giurista garantista, un candidato che piace alla società milanese (dall'alta borghesia ai ragazzi dei centri sociali), un uomo di sinistra, un vecchio amico del nostro giornale. L'affermazione di Giuliano Pisapia è di buon augurio per una sinistra finalmente capace di vincere.

Un indizio (la vittoria alle primarie pugliesi di Nichi Vendola) non faceva una prova, ma due (l'affermazione di Pisapia) sono più di una coincidenza. Sembra che le primarie sia destinato a perderle il candidato sponsorizzato dai vertici del Pd (in questo caso l'architetto Boeri) e a vincerle quello che che più ne critica l'arroccamento (per esempio il rottamatore Renzi a Firenze) o che decisamente sterza a sinistra (con l'aiuto di Sel e Rifondazione) riempiendo il vuoto di prospettiva del maggior partito di opposizione. Se dovessimo proiettare il risultato milanese sulla ribalta nazionale, saremmo facili profeti nel prevedere una sconfitta di Bersani e una vittoria di Vendola. Sempre che le deludenti performance dei candidati fin qui scelti dal Pd non inducano il gruppo dirigente a cancellarle, come le reazioni di alcuni esponenti, dopo la sberla di Milano, fanno intendere (Follini le vorrebbe seppellire contro Rosy Bindi che le ritiene necessarie).

Anche perché l'effetto-Vendola sul voto di domenica è difficilmente discutibile. Il presidente della Puglia è volato nel capoluogo lombardo per chiudere la campagna elettorale di Pisapia davanti a migliaia di persone. Mentre dall'altra parte si è fatto il vuoto (la scarsa affluenza alle urne è stata spiegata anche così) di fronte a un partito che prima sceglie il suo cavallo e poi nemmeno lo sostiene come dovrebbe. Tanto che i vertici locali si sono dimessi e la confusione è totale. Non solo sulle primarie, ma sulle soluzioni da dare alla crisi di governo e, più alla radice, all'egemonia berlusconiana.

C'è infatti una ragione profonda che lega e spiega il consenso a Pisapia e Vendola. Ieri Fini ha ritirato i suoi ministri, i presidenti di camera e senato sono chiamati al Quirinale. C'è bisogno, oggi non domani, di una risposta di sinistra a questo passaggio di sistema. Sugli scenari parlamentari: si vuole cambiare la legge elettorale e regolare il potere mediatico prima di andare al voto? Si vuole invece aderire a un comitato di salvezza nazionale, con Fini e Casini, per durare fino alla fine della legislatura?

Perché mentre si riesce a intravedere il tentativo delle forze dominanti (da Confindustria alla Chiesa, ai partiti del nuovo centro) di ricostruire un assetto post-berlusconiano, non si capisce dove va il Pd, con chi vuole allearsi il segretario eletto sulla proposta di un accordo con Casini, dove sta la differenza con la linea di Marcegaglia e Montezemolo. Vendola e Pisapia parlano di questo, indicano leadership e contenuti capaci (dal lavoro al nucleare, dall'immigrazione ai diritti civili) di riaccendere, anche con le primarie, il senso di una nuova politica. Di un 25 aprile che spezzi la disillusione, che ci riporti, con la partecipazione, anche la speranza di tornare a vincere.

Il risultato delle primarie di Milano e le successive dimissioni del gruppo dirigente del Partito democratico possono essere lette come la certificazione della fine di un´epoca. Finisce l´epoca nella quale erano i partiti a decidere la selezione e la promozione delle rispettive classi dirigenti. Si trattava, generalmente, di partiti fortemente radicati nella realtà del paese, nelle sezioni nei circoli o nelle parrocchie, e quindi in grado di individuare e promuovere gli uomini e le donne più legati ai rispettivi territori, più fidati e più capaci. Con la crisi e la fine della Prima Repubblica questo sistema, che si era andato progressivamente esaurendo o corrompendo, è saltato. Se Berlusconi ha scelto, con la legge elettorale definitiva dai suoi stessi autori il "porcellum", la scorciatoia autoritaria della nomina dall´alto del personale politico di Forza Italia, il Pd ha scelto la strada del tutto innovativa delle primarie. Forse chi ha fatto, a suo tempo, questa scelta inserendola nello Statuto del partito, non ne aveva valutato a pieno le conseguenze e i rischi. O, forse, troppo sicuro della propria autorità aveva immaginato di poterne controllare gli esiti. Ora il risultato delle primarie di Milano obbliga il Pd ad una più attenta riflessione. Non parlo del gruppo dirigente locale, ricco di forze nuove e capaci, che ha già convocato per domenica prossima una assemblea dalla quale è possibile, forse augurabile, ottenga un rinnovo del mandato.

Mi sembrerebbe invece opportuno che una riflessione sulle primarie e il loro svolgimento venisse avviata anche a livello nazionale, prevedendo e fissando nelle sedi opportune alcune regole che finora o non sono state fissate o non sono state rispettate. In particolare vanno fissate regole precise per quanto si riferisce alle cosiddette primarie di coalizione, alle quali partecipano candidati indipendenti o appartenenti ad altri partiti. Quando, ad esempio, in Puglia Nichi Vendola ha vinto le primarie regionali che lo contrapponevano al candidato indicato dal Pd, qualcuno aveva pensato che quel risultato fosse soltanto l´esito di una polemica o controversia locale. Da accantonare o dimenticare. Il risultato di domenica di Milano ci dice che non è così: che il candidato sostenuto dal Pd può venire sconfitto da un candidato diverso, che abbia un suo autonomo radicamento nella società.

C´è da chiedersi anche, a questo punto, se sia stato corretto per il Pd, dal punto di vista politico (e anche, visto l´esito finale, dal punto di vista elettorale) mettere la propria "bandierina" su uno dei candidati, tutti degni di concorrere alle prossime elezioni amministrative. È persino possibile che questa ed altre scelte di carattere organizzativo non abbiano favorito ed anzi abbiano danneggiato Stefano Boeri indicato come il candidato del Pd e Valerio Onida che aveva invano chiesto a suo tempo l´elenco dei partecipanti alle precedenti primarie per poter inviare loro il suo materiale elettorale.

Spetta ora al Pd, anche e soprattutto forse a livello nazionale, esaminare se nella gestione di queste primarie ci siano state insufficienze o errori (che spiegherebbero anche una minore partecipazione degli elettori) e alla fine proporre norme capaci di fare delle primarie una occasione di maggiore libertà degli elettori e non una conferma di appartenenza.

Da ieri sera, comunque, accantonate tutte le polemiche, Giuliano Pisapia è il candidato di tutta la sinistra al Comune di Milano. Il candidato di tutti coloro che sperano di chiudere l´epoca confusa e oscura della gestione Moratti.

Postilla

«Chiudere l’epoca confusa e oscura della gestione Moratti»: non solo, anche di tutte le gestioni che hanno prodotto – innestandosi sugli antichi “riti ambrosiani” – ideologie, dispositivi e pratiche che hanno scardinato il principio della priorità dell’interesse comune nella gestione della città e affidato poteri sempre più vasti agli interessi immobiliari.

La vittoria di Giuliano Pisapia apre finalmente la speranza che le ragioni di una sinistra seria, libera dai compromessi con l’establishment immobiliarista, possano essere fatti valere nei luoghi nei quali si decide. Non è solo nell’interesse dei cittadini milanesi, ma di tutti gli italiani. Le politiche urbanistiche di Milano hanno costituito un precedente negativo per l’insieme della politica italiana; se molti lo vorranno, potranno costituire domani l’avvio di una svolta.

Anche per questo, condividiamo l’augurio che una forte unità si formi attorno a Giuliano Pisapia.

L´uomo che aveva sempre accusato gli avversari di indietreggiare di fronte alla prova democratica delle elezioni, l´uomo che aveva sempre dileggiato il Parlamento per la tortuosità dei suoi percorsi, improvvisamente cerca di costruirsi una strada.

Una via che lo ponga al riparo dalle incognite di un voto, mettendo così a nudo il suo vero modo d´intendere democrazia e sovranità popolare. Ma ogni sorpresa è fuori luogo. Berlusconi dovrebbe averci abituati ad ogni genere di forzatura. Messo ormai alle corde dalla scomparsa della sua maggioranza politica, dall´incapacità di governare, dal discredito personale, intravvede uno spiraglio nella possibilità di andare alle elezioni rinnovando solo la Camera dei deputati. Una strategia per la sopravvivenza personale, che rischia di aggravare ancora di più la crisi che stiamo attraversando. Una conferma dell´irresistibile sua propensione ad un uso congiunturale delle istituzioni, piegate al soddisfacimento dei suoi immediati interessi.

Analizziamo fatti e regole. Nell´articolo 88 della Costituzione è scritto che «il presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camera o anche una sola di esse». Non vi sono precedenti significativi in materia. Anzi, gli scioglimenti anticipati del solo Senato ebbero la semplice funzione «tecnica» di far coincidere la durata delle due Camere, tanto che alcuni conclusero che, parificata la durata nel 1963, veniva meno la ragione che aveva indotto i costituenti a prevedere lo scioglimento di uno soltanto dei rami del Parlamento. Ma, essendo comunque evidente che nel nostro sistema la decisione sullo scioglimento non può in nessun caso essere ricondotta alla volontà del presidente del Consiglio, bisogna chiedersi quali finalità ed effetti avrebbe oggi lo scioglimento della sola Camera.

Berlusconi vuole far sopravvivere il governo anche dopo la fine della sua maggioranza politica e non vuol correre il rischio di trovarsi, all´indomani di eventuali elezioni anticipate, vincitore alla Camera e minoritario in Senato. Questa è una possibilità concreta, come hanno ripetutamente messo in evidenza gli studiosi della materia elettorale, ed è una conseguenza diretta della legge elettorale da lui voluta nel 2006 proprio per azzoppare al Senato Prodi, del quale si dava per certa la vittoria. Si confezionò così il «porcellum» calderoniano, una vera trappola, nella quale ora può cadere lo stesso Berlusconi. Se, infatti, dopo le elezioni anticipate, la sua coalizione non avesse la maggioranza al Senato, il presidente della Repubblica, non potendo certo procedere ad un altro immediato scioglimento, dovrebbe affidare l´incarico di trovare una maggioranza e di formare il governo ad una personalità diversa da Berlusconi. Esattamente ciò che il presidente del Consiglio non vuole. Pretende, allora, di blindare il Senato, congelarlo nella composizione attuale e votare solo per la Camera, sperando di avere anche qui una maggioranza sicura. E se avvenisse il contrario? Questa inedita modalità di voto renderebbe più acuta la crisi. L´inammissibilità della scioglimento della sola Camera discende proprio dal fatto che esso non garantisce il superamento delle difficoltà attuali, anzi può accrescerle, e comunque si configura come uno strumento per sfuggire alle conseguenze della legge elettorale in vigore e per sanzionare i comportamenti politici dei finiani. Finalità costituzionalmente inammissibile.

Inoltre, per arrivare al risultato desiderato, Berlusconi ha bisogno di un´altra forzatura: la discussione sulla fiducia prima al Senato e solo dopo alla Camera. Se, infatti, si votasse prima alla Camera, con un prevedibile voto di sfiducia, Berlusconi dovrebbe subito dimettersi senza avere la possibilità di giocare la carta, sia pure impropria, di una maggioranza al Senato a lui favorevole, derubricando il successivo voto della Camera come semplice «incidente di percorso»: conclusione politicamente e istituzionalmente inammissibile.

Lo scioglimento della sola Camera, dunque, accrescerebbe pericolosamente la deriva personalistica del sistema istituzionale, ne aumenterebbe l´instabilità, e soprattutto confermerebbe nell´opinione pubblica la distruttiva versione di istituzioni che hanno la sola funzione di cucire un vestito sulla misura dei potenti. In tutto questo vi è un elemento di violenza che va denunciato e impedito. Con le sue ripetute dichiarazioni, Berlusconi usurpa le funzioni del presidente della Repubblica. Lo minaccia, anzi, qualora si discosti dalla linea da lui enunciata, parlando di "guerra civile" (dichiarazione ai limiti del codice penale) e pretendendo di dettare tempi e modi di gestione della crisi.

È una grande fortuna per questo sfortunato paese che la difesa della Costituzione sia oggi affidata ad una persona come Giorgio Napolitano. Ma questa fiduciosa consapevolezza deve essere accompagnata da altrettanta consapevolezza di tutte le forze politiche di opposizione della forza distruttiva dell´attuale legge elettorale, ben al di là dell´espropriazione dei cittadini della possibilità di scegliere i loro rappresentanti. Qui deve soccorrere la politica. O eliminando prima del voto il «porcellum». O realizzando un sistema di alleanze che risponda all´emergenza democratica che stiamo vivendo, con una intesa comune che ci liberi non da un uomo, ma da un modo d´intendere e esercitare il potere che sembra non esitare di fronte al rischio di trascinare tutti nella sua caduta.

In quasi settantamila per scegliere il candidato del centrosinistra. Uno per designare quello del centrodestra. Nel giorno in cui le primarie incoronano Giuliano Pisapia, Silvio Berlusconi «ufficializza» la candidatura di Letizia Moratti. Eccoli i due candidati e le due coalizioni che si sfideranno a maggio per la poltrona di sindaco. Due metodi completamente opposti. Da un lato «la partecipazione» (al di sotto delle aspettative), la mobilitazione della società civile, dall’altra l’investitura dall’alto, la prosecuzione di un lavoro cominciato nel 2006. Nessun giudizio di valore, anche perché il voto che «conta» è quello delle comunali e fino a ora il centrodestra milanese non è mai mancato agli appuntamenti importanti.

Chi è mancato è stato invece il Pd. L’effetto Vendola ha colpito ancora una volta. Dopo la Puglia è toccato a Milano. L’endorsement dei democratici sull’architetto Boeri si è rivelato un boomerang dalle conseguenze disastrose per i vertici del partito. E anche imponderabili, perché la vittoria di Pisapia, candidato della sinistra che vuole dialogare con i moderati, apre fatalmente uno spazio politico al centro. Che qualcuno cercherà di occupare. Questo nonostante il patto di coalizione siglato dal centrosinistra e i «giuramenti» di totale sostegno al candidato vincente da parte di tutti i partiti.

Apre la porte allo «spettro» che si aggira per Milano e risponde al nome di Terzo Polo condito in salsa meneghina. È la vecchia proposta caldeggiata dal filosofo Massimo Cacciari, voce inascoltata del Pd: un Terzo Polo composto da Fli, Udc, Api con il consenso più o meno tacito del Pd. Ma che sta prendendo sempre più piede, trovando sponda in tanti leader politici del centro. Un «ordigno» in grado di minacciare entrambi gli schieramenti maggiori. Soprattutto se il candidato del Terzo Polo rispondesse al nome dell’ex sindaco, Gabriele Albertini. Una «mina» che centrodestra e centrosinistra dovranno maneggiare con grande cautela se non vorranno trovarsi completamente spiazzati dall’irruzione della terza forza. Pisapia riuscirà a stoppare una possibile diaspora centrista? Il Pd ripenserà alla sua politica?

L’altra faccia della medaglia è che il popolo delle primarie non ha obbedito agli ordini di partito e non ha partecipato in massa. È il segnale di una società civile che, più che aver voglia di tornare protagonista, appare profondamente delusa dalla politica. Un dato che ogni politico con la testa sulle spalle dovrà prendere in considerazione. Perché quello di ieri è solo un «fermo immagine» di una situazione in rapido movimento non solo a Milano, ma a livello nazionale. Se la città vuole tornare a essere «laboratorio» deve fare in fretta. E possibilmente non farsi dettare l’agenda da Roma.

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