Da sempre chi opera nel settore dei beni culturali si lamenta che gli organi mediatici riservino alle vicende del nostro patrimonio un’attenzione distratta e concentrata quasi esclusivamente sull’”evento” - la grande mostra o la scoperta archeologica eccezionale – e per lo più confinata nell’ambito degli articoli di alleggerimento.
Non così è successo il 6 novembre in seguito al crollo avvenuto a Pompei. Le immagini di quel cumulo di massi rovinosamente crollati lungo uno degli assi viari principali del sito archeologico, via dell’Abbondanza, hanno fatto il giro del mondo in poche ore e monopolizzato le cronache dei media internazionali per settimane. Un cumulo di rovine: a questo è ridotta la così detta Casa dei Gladiatori, o meglio Schola Armaturarum, un edificio destinato probabilmente a magazzino o palestra per la juventus pompeiana. Nei giorni successivi nuovi crolli – con devastante effetto domino - hanno interessato altre domus nella stessa area, rafforzando la consapevolezza di una situazione di gravissimo rischio, se non addirittura fuori controllo.
L’attenzione mondiale riservata all’evento pompeiano deriva senz’altro dall’importanza assolutamente cruciale di questo sito per la cultura non solo occidentale. Tappa obbligata del Grand Tour, la suggestione di Pompei, unicum archeologico, l’ha resa una delle matrici della nostra memoria e immaginario dell’antico, per essere trasformata, in quest’ultima fase, in location sempre più congestionata di un turismo di massa inconsapevole e smemorato.
Gli scavi di Pompei hanno subito, da duecentocinquant’anni a questa parte, ingiurie di ogni tipo, dall’incuria ai terremoti, e financo le bombe della seconda guerra mondiale, ma i crolli di cui parlano le cronache di oggi possono essere classificati come il risultato diretto della scelta di commissariare l’area archeologica campana. Fin dall’avvio di quella esperienza (luglio 2008) da molti studiosi erano stati evidenziati i rischi di tale soluzione, connessi a prerogative di deroga sistematica dalle normali procedure amministrative e dall’annullamento di verifiche e controlli propri di un’ordinanza di Protezione Civile.
La Corte dei Conti, a posteriori, ha giudicato illegittima quella Ordinanza per la pretestuosità palese delle motivazioni – la situazione di degrado del sito segnalata dai media - ma nel frattempo la gestione commissariale è continuata per due anni con un crescendo attivistico (e di spesa) impennatosi a partire dall’estate del 2009.
Da allora i fondi, non irrisori, della Soprintendenza sono stati gestiti per un affastellarsi di iniziative eterogenee e di dubbio risultato, in un climax di autocelebrazione mediatica: con questa operazione il sito campano è di fatto divenuto il primo esperimento di una gestione che si voleva “innovativa” del nostro patrimonio, il primo esempio, da esportare, di una divaricazione drastica fra patrimonio culturale di serie A in quanto di certa redditività economico-turistica (Colosseo, Pompei, Uffizi) e patrimonio di serie B, costituito dalla stragrande maggioranza dei nostri beni culturali dispersi a migliaia sul territorio a costruire quel museo diffuso che è caratteristica davvero unica del nostro paese ma destinato, soprattutto dopo i ripetuti tagli di Bilancio del Mibac, ad un incerto futuro.
Senonchè, soprattutto a partire dal gennaio 2010 (primo crollo presso la Casa dei Casti Amanti), le lacune e inadempienze gestionali del commissariamento sono venute emergendo con evidenza sempre maggiore.
Così ha suscitato le aspre critiche del mondo scientifico internazionale il restauro del Teatro Grande, giudicato invasivo e distruttivo e allestito con fretta estrema anche tramite ampio impiego di mezzi impropri, escavatrici e bobcat, per ospitare eventi di ogni tipo e per tutti i gusti. Allo stesso modo l’allestimento della Casa di Giulio Polibio con gadgets tecnologici (ologrammi e video) alquanto superati dal punto di vista dell’efficacia comunicativa, non solo è risultato costosissimo, ma non ha risparmiato la stessa domus da problemi di crolli successivi.
Sia detto senza ambiguità: Pompei soffre davvero di una situazione di degrado diffuso che è legata principalmente ad un contesto “ambientale” ad alta complessità e ad alto rischio. E tale situazione, è doveroso riconoscerlo, precede l’avvio del commissariamento: su una sua soluzione efficace, quindi, avrebbero dovuto essere concentrati gli sforzi di un intervento straordinario, lasciando nelle mani della Soprintendenza le risorse e la piena operatività delle attività di tutela, peraltro svolte fino allo scorso anno con risultati di riconosciuto prestigio e finalizzate ad un piano di restauro e conservazione dell’immenso patrimonio pompeiano graduale, ma sistematico.
L’arrivo del commissario ha stravolto tale piano, concentrando e spesso dissipando le risorse su attività di “valorizzazione” effimere e talora incongrue con le finalità di tutela: i risultati sono quelli che stanno dilagando, da alcune settimane, sui siti e le televisioni di tutto il mondo.
Il commissariamento di Pompei e i suoi esiti deludenti e addirittura negativi, rivestono però un carattere esemplare non solo perchè accadute in uno dei luoghi simbolo della cultura occidentale, ma perchè incarnano i rischi di una deriva delle politiche culturali e del nostro rapporto col patrimonio culturale in atto da molti anni e giunta probabilmente ad un punto di non ritorno.
Deriva che possiamo far risalire per lo meno ai famosi “giacimenti culturali” voluti dall’allora Ministro dei Lavori Pubblici Gianni De Michelis alla fine dei ruggenti anni ’80. Da quel momento, pur con rallentamenti, ma irreversibilmente, si è radicata, a partire dal mondo politico nostrano (e in maniera bipartisan) l’accezione di “bene culturale” come portatore di sviluppo economico (nella versione politically correct) o addirittura di “prodotto” da vendere sul mercato, in rapida espansione, del turismo culturale.
In questa trasformazione semantica, accellerata nell’ultimo lustro, ma che è fenomeno non solo italiano, indagato acutamente, fra gli altri da Marc Fumaroli, il patrimonio culturale ha quindi cessato di essere un bene in sè, finalizzato alla conoscenza, all’educazione, per divenire il mezzo – uno dei tanti – di produzione economica, tanto più apprezzabile quanto maggiormente “produttivo”.
Nella mancanza complessiva di una visione culturale che connota soprattutto l’ultimo biennio di attività del Ministero dei Beni e delle Attività culturali, unico indirizzo coerentemente perseguito è stato rappresentato dall’accentuazione esasperata delle pratiche di valorizzazione, culminate con la nomina di apposito manager e codazzo annesso di pubblicitari che, in nome del marketing, in un anno e mezzo di attività hanno saputo produrre, fra continue fanfare mediatiche, solo qualche bislacca campagna promozionale per rendere ancor più appetibili i monumenti icona del nostro patrimonio già oppressi da una pressione antropica che non ha mancato di provocare i primi segnali di rischio: i cedimenti dei mesi scorsi al Colosseo stanno a dimostrarlo.
Alla stessa visione pubblicistica (essendo il marketing vero e proprio comunque collocato su un altro livello di complessità), è ben presto risultata ispirata anche la pratica dei commissariamenti dei principali siti e monumenti nazionali.
Nati per risolvere situazioni di degrado – vere o pretestuose che fossero – caratterizzati da una gestione mediatica aggressiva quanto superficiale, sul piano della strategia culturale queste iniziative hanno ben presto evidenziato un vuoto preoccupante, rifugiandosi in operazioni di maquillage (Pompei) o di semplice manutenzione ordinaria (Roma) dei siti e monumenti. A conclusione dell’esperienza, oltre agli esiti drammaticamente evidenti per quanto riguarda la stessa integrità fisica del patrimonio, del tutto irrisolti appaiono i molti problemi di carattere amministrativo, organizzativo e culturale che affliggono non solo i siti commissariati, ma l’intera struttura del Ministero Beni Culturali, da anni avviata verso un graduale collasso, accelerato, nell’ultimo biennio, da un affastellarsi di provvedimenti spesso punitivi (tagli di bilancio draconiani) e contraddittori (riorganizzazioni e “semplificazioni”). Per tali ragioni, l’esperimento dei commissariamenti è stato equiparato al “modello Alitalia”, in quanto mirato a separare, come sopra ricordato, il patrimonio culturale a maggiore redditività (Colosseo, Pompei, Uffizi) da gestire coi privati, dalla bad company rappresentata dallo sterminato patrimonio minore diffuso sul territorio e destinato ad un gramo destino di lenta asfissia economica. Non è un caso che per il futuro di Pompei si continui tuttora a parlare di una Fondazione mista (pubblico-privato), incuranti del fatto che l’unico esempio di qualche consistenza di questo modello, il Museo Egizio di Torino, stenti da anni a trovare una decorosa identità culturale.
I commissariamenti hanno costituito, insomma, l’iniziativa più fragorosa, ma non l’unica, di un disegno di dismissione complessiva del sistema delle tutele evidente, ad esempio, anche per quanto riguarda la tutela del paesaggio aggredita da una miriade di provvedimenti legislativi tesi a favorire in ogni modo le iniziative di sfruttamento del territorio, da quelle edilizie a quelle infrastrutturali e commerciali.
Nel frattempo, le biblioteche nazionali chiudono i servizi al pubblico per mancanza di fondi, le soprintendenze archeologiche denunciano, dopo gli ultimi tagli inferti dalla manovra finanziaria, di non riuscire più a garantire lo svolgimento del loro lavoro e l’opera di monitoraggio e presidio svolta sul territorio dalle strutture periferiche del Mibac è divenuta ormai impossibile.
Con esemplare congruenza le dichiarazioni del Ministro (comunicato ufficiale del 25 novembre 2010) dopo gli eventi pompeiani identificano esplicitamente la mission ministeriale nella facilitazione coûte que coûte della funzione infrastrutturale ed edilizia del territorio non più ostacolata dai “ritardi” derivanti, ad esempio, dai ritrovamenti archeologici: in tali affermazioni è ormai chiara la tendenza al sovvertimento dei principi dell’art. 9, nella Costituzione anteposti ad ogni altro interesse che non fosse quello pubblico, il principio guida che da Benedetto Croce a Concetto Marchesi, ha ispirato i legislatori e i padri costituenti.
Non esistono scorciatoie per tutelare il nostro patrimonio nel senso più completo del termine e quindi per far sì che il numero più ampio di cittadini ne possa godere attraverso una comprensione culturalmente adeguata e costantemente aggiornata.
Occorrono risorse ingenti che non ci sono a livello pubblico e non ci saranno per molto tempo ancora: in questo senso bisognerà concentrare gli sforzi per trovare soluzioni innovative.
Ma nel frattempo, occorre almeno che questo patrimonio possa sopravvivere al degrado provocato dalla micidiale interazione di incuria e becero attivismo “valorizzatorio” e che nelle mani degli organismi tecnici sia affidata, con ampia disponibilità delle risorse residue e pieno riconoscimento istituzionale, quell’insostibuibile operazione di manutenzione programmata cui è affidata la sola speranza di salvezza.
Con significativa simmetria, nelle stesse ore in cui gli schermi ci rimandavano le immagini del primo crollo pompeiano, quelle sull’alluvione in Veneto rafforzavano, nella loro drammaticità, lo stesso assunto: come per salvaguardare il nostro territorio nel suo insieme non ci occorrono le “Grandi Opere”, ma la quotidiana, incessante opera di ripristino e contenimento del rischio idrogeologico, così per salvare il nostro patrimonio culturale non abbiamo bisogno di iniziative effimere e culturalmente risibili o addirittura controproducenti, bensì di quell’opera di manutenzione ordinaria che, in una dichiarazione di drammatica impotenza a commento immediato del crollo pompeiano, il segretario generale del Mibac, ha affermato “non facciamo più da almeno mezzo secolo”.
Ma soprattutto occorre rovesciare radicalmente l’accezione economicista ultimamente imperante che ha trasformato i nostri beni culturali e il nostro paesaggio in una risorsa da sfruttare e in una merce da vendere. Anche se rappresentano uno dei motori di una delle poche industrie in attivo, quella turistica, il patrimonio e le istituzioni culturali non debbono avere l’obiettivo di produrre ricchezza materiale, ma senso di cittadinanza e integrazione culturale e sociale. Essi rappresentano uno dei nostri beni comuni più fragili in quanto irriproducibili e assieme uno dei servizi, come l’istruzione e la sanità, sui quali si misura il livello di civiltà di un paese.
il manifesto
Anno I d. C. Trionfa la libertà d'impresa
di Loris Campetti
Un altro mondo è possibile, anzi inevitabile nella nuova era. L'anno I d.C. (dopo Cristo) nasce dal cervello di Marchionne per sottrazione rispetto all'era precedente, quando il lavoratore era qualcosa di più di un'appendice della macchina, aveva una sua autonomia, i suoi diritti. La globalizzazione ha cambiato tutto, la competizione detta le nuove regole in una corsa forsennata al ribasso. Il sindacato deve trasformarsi in cane da guardia dell'azienda: prima sottoscrive i diktat del sovrano e poi li impone alla «manovalanza» e punisce chi trasgredisce, lasciando così libero il sovrano di saltabeccare da un oceano all'altro alla ricerca dello stato più prodigo, del sindacato più complice, della classe operaia più debole e ricattabile.
«Oggi qui domani dove sarò»..., cantava Patty Pravo. L'unica libertà riconosciuta nell'anno I d.C. sarà quella dell'impresa.
Il piatto è servito agli operai di Mirafiori. Ci teneva che fosse la pietanza di Pomigliano riscaldata e invece è ancora più piccante, amara e indigesta. Nel nuovo accordo separato siglato ieri da Fim, Uilm, Fismic-Sida e Ugl si sancisce il diritto del padrone a definire quali diritti sul lavoro possano essere conservati e quali no e a decidere quali sindacati abbiano diritto di vita nelle sue aziende. Se la Fiom non firma la sua condanna a morte non avrà più diritti sindacali, non potrà presentare candidati alle Rsu, anche se rappresenta la maggioranza dei dipendenti.
Si va oltre la sospensione del diritto di sciopero, si sospendono i diritti democratici. Con la vergognosa firma di ieri la Fiat si colloca fuori dall'industria, fuori dal contratto nazionale di lavoro. Insomma, si colloca fuori dalla democrazia e dalla Costituzione repubblicana. Ogni fabbrica avrà il suo contratto, i suoi sindacati gialli, le sue regole. E siccome la Fiat ha 111 anni fa scuola in Italia, partirà una gara imitativa da parte di molte imprese.
Sono matti se pensano di ridurre i lavoratori a schiavi, matti e autolesionisti. Sono degli illusi se pensano di poter mettere la Fiom fuorilegge perché la Fiom è il sindacato più rappresentativo dei metalmeccanici.
Adesso Marchionne in versione John Wayne pretende anche che i lavoratori di Mirafiori vadano a votare sì, vuole vederli piegati mentre mettono la croce sopra i loro diritti e cancellano la possibilità di eleggere i propri rappresentanti consegnando alla Fiat il potere di decidere qual è il sindacato più servile. Marchionne dice che si accontenta del 51 per cento di sì per non scappare con macchine e investimenti in Serbia, Polonia, Usa, Messico o dove la globalizzazione lo porterà.
Che altro serve alla Cgil per decidere che è arrivata l'ora di proclamare lo sciopero generale? Che altro serve all'opposizione per rendersi finalmente conto che in Italia non c'è solo un nemico della democrazia ma ce ne sono almeno due?
La Repubblica
L’America a Torino
di Luciano Gallino
L’accordo per la nuova società che gestirà Mirafiori segna una brutta svolta nelle relazioni industriali in Italia. Esclude la Fiom, che sin dagli anni del dopoguerra è stato il sindacato di maggior peso nel grande stabilimento torinese.
Inasprisce deliberatamente il conflitto tra i maggiori sindacati nazionali: Fiom-Cgil da una parte, tutti gli altri contro. Divide i sindacati in un momento in cui i lavoratori dipendenti, di fronte alle cifre drammatiche della disoccupazione, della cassa integrazione e del lavoro precario, avrebbero il massimo bisogno di sindacati uniti per poter uscire dalla insicurezza sociale ed economica che li attanaglia. In presenza, per di più, di un governo del tutto inerte di fronte ai costi umani della crisi. Ora che si è chiuso stabilendo che solo i sindacati che lo hanno firmato potranno avere in essa i loro rappresentanti, si può dire che nell’insieme l’accordo su Mirafiori lascia intravvedere un paio di certezze, ed altrettante incognite. Una prima certezza è che l’ad Sergio Marchionne pensa evidentemente di importare in Italia non solo le auto, ma anche le relazioni industriali degli Usa.
Il motivo è chiaro: legislazione e giurisprudenza statunitensi sulle libertà sindacali sono assai più arretrate che in Europa. Al punto che grandi imprese tedesche e francesi, che coltivano in patria relazioni industriali pienamente rispettose di quelle libertà, nelle sussidiarie Usa le violano con la massima disinvoltura. Assumendo crumiri al posto di lavoratori in sciopero, ad esempio, oppure esercitando pressioni inaudite sul singolo lavoratore affinchè non segua le indicazioni del sindacato. Il tutto nel rispetto della sottosviluppata legislazione del luogo. Nel mondo globale non si vede perché, sembra essere il ragionamento di Fiat, le relazioni industriali in Italia non si possano conformare a quel modello.
Inoltre pare ormai certo che l’operazione Fiat-Chrysler non sia affatto destinata a fare di Chrysler la testa di ponte statunitense della Fiat; è piuttosto questa che si accinge a fungere da testa di ponte europea per la Chrysler. Partendo da Mirafiori. Si può infatti convenire che a fronte di una produzione prevista di oltre 250.000 vetture, tre volte quella degli ultimi anni, non si vede che differenza faccia produrre per la maggior parte Jeep Grand Cherokee, magari con la placca Alfa Romeo, piuttosto che qualche successore delle attuali auto del gruppo. Sono sempre posti di lavoro. Ma qui la Fiat si gioca la sopravvivenza come marchio originale. E’ noto che per non sparire sul mercato europeo Fiat deve assolutamente spostarsi sulla fascia medio-alta; si comincia ora a intravvedere che il prezzo potrebbe essere la sua uscita dal rango dei progettisti originali e costruttori che hanno fatto la storia dell’auto.
Le incognite riguardano anzitutto che cosa succederà nelle altre aziende, a cominciare dalla componentistica, visto che il tetto comune del contratto nazionale sembra prossimo a cadere. Le grandi aziende - poche ormai in Italia - possono anche ritenere che il principio "ad ogni azienda il suo contratto" si attagli alle loro esigenze. Ma le piccole e medie? Il contratto nazionale non serve soltanto a proteggere i lavoratori in modo relativamente uniforme. Serve anche a proteggere le aziende dalla proliferazione incontrollata di sigle sindacali, come pure da rivendicazioni interne, magari extra-sindacali, che in assenza di un contratto quadro possono dare agli imprenditori grossi grattacapi.
Un’altra incognita riguarda destino e strategie della Fiom e dei suoi iscritti, in presenza di un’intesa che dal 2012 li esclude dalla newco Mirafiori - salvo un esito diverso del referendum. A Torino sarà assunto solo chi giura di non appartenere alla Fiom? Oppure dovrà nascondere la propria identità sindacale? O, al contrario, dovrà portare un badge che permetta ai capi di distinguerli a vista? Fuori Torino, poi, le cose potrebbero essere anche più complicate. Chi sa se l’ad Fiat si rende conto che in molte aziende meccaniche, comprese quelle che fabbricano componenti, la Fiom è il sindacato di maggioranza; in non pochi casi è l’unico. All’epoca della produzione giusto in tempo, il parabrezza o la sospensione o il disco dei freni che non arrivano perché il fornitore è fermo per una vertenza sindacale, può danneggiare la produttività di Mirafiori molto più che non i 40 minuti di pausa per turno invece di 30, o la pausa mensa a metà turno invece che alla fine. Le grandi strategie sovente naufragano per aver trascurato i dettagli.
Non serve andarci, a Pompei. Quei crolli si ripetono ovunque. Il dramma della Casa dei Gladiatori si diffonde come un virus da Nord a Sud. In Sicilia pensano al noleggio di tute e bombole per lanciare la visita subacquea della colonia di Kamarina. Dopo 2.600 anni sulle terre emerse, ora se la sta mangiando il Mediterraneo. E nessuno sembra capace di fermarlo. Avanti così, secondo gli archeologi, fra pochi anni non ne resterà traccia. Come laggiù, nel resto d'Italia ogni giorno c'è una crepa che si apre, un monumento che cede, un marmo che si crepa. La colpa è solita: decenni di sperperi, incuria, soldi buttati, scarsa manutenzione. L'ultimo allarme in ordine di tempo viene da Pisa, dove il museo delle navi antiche, 30 imbarcazioni del Terzo secolo avanti Cristo riemerse dalle piene dell'Arno 12 anni fa, dopo l'inaugurazione in pompa magna con passerella di politici, è abbandonato a se stesso. Ma i casi sono decine.
Talmente tanti che non esiste nemmeno un dossier aggiornato, né una commissione parlamentare che vigili. Mentre la mozione di sfiducia che sarà discussa in Parlamento dopo le feste di Natale fa infuriare il ministro Sandro Bondi, che parla di aggressione politica e mediatica, resta il fatto che al dicastero dei Beni culturali perdono il conto dei disastri. Non sanno bene quanti e quali siano i siti a rischio: dalle mura romane corrose dalle piogge acide alle pericolanti Torri di Bologna, viviamo in una macabra lotteria nazionale. La prossima volta potrebbe toccare all'anfiteatro di Santa Maria Capua Vetere nel casertano come alla Cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze. Potrebbe essere la cinta muraria di Aurelio a crollare sotto i colpi del traffico romano, come invece il Colosseo a cedere di nuovo, oppure il tempio greco di Selinunte.
Quello che è certo è che le falle che si aprono negli scavi archeologici sono troppe per i conti in rosso del ministero. "Non si deve intervenire con una grande guerra, ma con una lotta continua, un'azione perseverante come nelle battaglie anti-terrorismo, altrimenti finisce tutto sottoterra", spiega Andrea Carandini, presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali. Eppure solo quest'anno è stato tagliato più di un miliardo e mezzo da un budget insufficiente da almeno un decennio. Il personale è metà di quel che servirebbe. E poi chi va in pensione non viene sostituito: "Serve un commissario", replica il governo ogni volta che un crollo riporta l'attenzione sul più grande dramma silenzioso del Paese: l'eutanasia di Stato per scavi e rovine.
CROLLI A NORD
A Roselle si poteva passeggiare attorno alle mura etrusche. Enormi pietre incastonate a secco sei secoli prima di Cristo. Tre chilometri di storia sopravvissuta a guerre e saccheggi. Da lì si guardava la collina, il bosco verde scuro, addirittura la sagoma della Corsica che spuntava dal mare così come la vedevano sei secoli prima di Cristo. Adesso un'impalcatura sbarra la strada e la visuale. Se appoggi la mano alla pietra gelata senti l'acqua che le scorre nelle venature. Buchi e crepe di tre, anche cinque centimetri la fanno tremare. Le piante l'hanno infilzata con le radici legnose e, da dentro, rischiano di abbattere il muro che si oppose per secoli a eserciti e predatori. Tre chilometri di cinta che potrebbero cadere come un domino. Da quando la parete principale, lunga un centinaio di metri, è stata dichiarata pericolante. Un allarme corale, che parte dai responsabili della soprintendenza toscana, Fulvia Lo Schiavo e Carlotta Cianferoni per arrivare al sindaco di Grosseto, Emilio Bonifazi. Che dopo i crolli di Pompei ci pensa ogni notte. Inutile dire che anche qui basterebbero i soldi. Un piano di interventi metterebbe in salvo quel patrimonio dell'umanità. E invece fra ritardi, tagli e blocco delle assunzioni, chi lavora a Roselle si sente abbandonato a se stesso. Lo dicono i custodi che, dopo i crolli, non hanno visto nessuno venire da Roma. Lo ripete la gente cui non resta che sperare che "la mobilitazione per Pompei faccia ricordare a qualcuno che esistiamo anche noi".
Nel cuore di Bologna, poi, è ormai straziante il lamento della Garisenda. È la più bassa delle due Torri ed è in pericolo come la sorella maggiore degli Asinelli. Lo ha detto il sismologo Enzo Boschi. Lo ha ripetuto Legambiente. Lo ammettono pure al ministero. Ma soldi non se ne vedono. A Firenze la musica è la stessa. Il segretario della Uil Beni culturali, Gianfranco Cesaroli, lo ripete da mesi. La cupola di Santa Maria in Fiore è monitorata costantemente. L'ex convento di Sant'Orsola è abbandonato da anni. E dove l'acqua non fa paura, ci pensa invece il cemento. A Canossa l'antico insediamento gallo-romano sta per essere schiacciato da decine di condomini. È dagli anni Novanta che a Reggio Emilia si vive di emergenza. Quella spianata è stata resa edificabile ormai vent'anni fa, ma finora Legambiente era sempre riuscira a impedire che dalle parole si passasse ai fatti. Anni di pace, con gli scavi che continuavano e le aree archeologiche aperte agli alunni delle scuole. Un sogno nell'Italia che va in pezzi, destinato a diventare un incubo. E così il consiglio comunale ha adottato la variante al piano regolatore. Una delibera che trasforma un parcheggio a ridosso dell'area di Luceria in palazzine di cemento armato. Con il dubbio che fra i proprietari dell'area possano spuntare, ripetono gli abitanti di Canossa, pure i nomi di un paio di politici locali.
PERICOLO CAPITALE
Roberto Cecchi è il commissario delegato per le aree archeologiche di Roma e Ostia. Significa metà dei monumenti italiani o giù di lì. Dopo uno screening accurato, ha varato 65 interventi urgenti nell'area di Roma. E tra i tanti pericoli è ancora il Palatino a correre i rischi più gravi. Il piano di interventi c'è. E per quanto possano le tasche della Soprintendenza, è pure partito. Per il colle dei Cesari sono 15 gli interventi in corso. Una spesa di 9,6 milioni di euro e ne restano altri due da impegnare. Molte situazioni pericolose sono state sanate, sono stati aperti nuovi percorsi, scoperti luoghi sacri e affreschi mai svelati. Ma non basta mai. Resta la grande emergenza della Domus Tiberiana, il palazzo imperiale modificato nei secoli, chiuso al pubblico da trent'anni e ormai imprigionato nella rete metallica delle impalcature. Lesioni, crepe, dissesti strutturali (in profondità si scorge un metro di vuoto fra le murature) stanno impegnando a pieno ritmo architetti, ingegneri, geologi, archeologi: una situazione di instabilità, legata alla stessa conformazione del colle, che è aggravata dalla presenza di gallerie sotterranee e cavità (ora allo studio con nuovi strumenti di indagine) dove si accumulano le piogge. "L'acqua è un nemico pericoloso in un terreno sfruttato nei millenni", sottolinea Maria Grazia Filetici, architetto della Soprintendenza: "Si devono quindi evitare sia accumuli che smaltimenti errati, ripristinando, dov'è possibile, le condutture antiche".
L'acqua è anche il nemico, anzi il killer, della Domus Aurea sul colle Oppio. Il soffitto è un prato e, quando piove, l'acqua non assorbita cade all'interno. L'ultimo allarme è stato il crollo di alcuni mesi fa, che fortunatamente non riguardava le sale affrescate. L'ennesimo. Dopo che il padiglione era già chiuso da quattro anni. Certo i tecnici della Soprintendenza sono al lavoro. Ma il problema è che i soldi non bastano: "Con i cinque milioni dei primi due lotti", spiega il commissario Luciano Marchetti, "stiamo provvedendo sia a mettere in sicurezza che a impermiabilizzare questa zona, la prima a riaprire entro due anni, di più non possiamo fare. Per completare i lavori necessari occorrono ben altri investimenti, almeno 15 milioni di euro".
È la stessa storia del Colosseo. Quando, a poco più di un mese dal crollo nella Domus, una malta della struttura originaria si stacca da un ambulacro centrale e crolla al suolo. Un crollo che è anche il simbolo del fallimento del ministro Bondi, che avendo il budget prosciugato, ha aperto la caccia agli sponsor privati. Servono 25 milioni per tentare un recupero definitivo del più famoso monumento del mondo.
SPROFONDO SUD
In Sicilia è da dieci anni che esiste la "Carta del rischio dei beni culturali". È una specie di cartella clinica che traccia lo stato di salute di monumenti, siti archeologici e musei. La paga Bruxelles scucendo 4 milioni di euro. Eppure degli oltre 10 mila beni censiti, soltanto un quarto a distanza di nove anni dall'avvio del monitoraggio ha una scheda specifica. Dati parziali, ma già allarmanti. Quei documenti raccontano una Sicilia che cade letteralmente a pezzi. Tanto le aree considerate più a rischio, cioè le provincie di Palermo, Catania e Messina. Quanto Caltanissetta e Enna, ufficialmente immuni dal degrado, ma protagoniste dei peggiori crolli degli ultimi anni. Basti pensare che proprio in provincia di Caltanissetta, a metà novembre, è caduto il portale dell'antico santuario di Maria d'Alemanno, una chiesa del Tredicesimo secolo realizzata dall'Ordine dei cavalieri teutonici. Il santuario di Gela attende il restauro dal 1985, quando lo stato di conservazione era già considerato a rischio di cedimenti. Eppure rimasta senza soldi.
Anche dove i fondi alla fine arrivano, spesso restano sulla carta. Da sette anni, ormai, la villa romana del Casale di Piazza Armerina è un cantiere a cielo aperto. Dal 1997 la Villa è inserita nella World Heritage List dell'Unesco. Per salvare i cento milioni di tessere dei mosaici, disposti su un'area di oltre 4 mila metri quadri della dimora patrizia, sono piovuti oltre 18 milioni di euro dall'Unione europea e dalla Regione Sicilia. Quattrini assegnati già nel gennaio del 2003 al consorzio stabile Beni culturali di Firenze. Ma basta passarci per capire che i lavori sono ancora in alto mare, nonostante all'impresa toscana fossero stati concessi due anni per completare il ripristino. Dopo tre anni spesi a litigare per le nomine dei tecnici, con da un lato Vittorio Sgarbi nel ruolo di Alto commissario per la Villa e dall'altro gli uffici del Sovrintendente di Enna, il progetto di restauro viene finalmente approvato dalla Commissione regionale. Ma alla fine del 2006 arriva l'ennesimo stop, con la Regione che sospende l'affidamento: due delle cinque imprese non avevano i requisiti tecnici necessari. Poi i lavori partono, ma non finiscono mai. Tanto che da metà novembre Piazza Armerina è di nuovo chiusa. E la nuova data per la consegna è slittata alla primavera 2011. Stesso copione anche per il tempio di Selinunte. Dal 2007 si parla di lavori di ripristino, ora l'accesso al pubblico è limitato per evitare che i calcinacci del cemento, utilizzato per il restauro di mezzo secolo fa, vengano giù sulla testa dei turisti. È il parco archeologico più grande d'Europa e continua a sbriciolarsi con i visitatori costretti alle acrobazie tra pedane di ferro e tubi di alluminio.
A Cagliari i giganti di Is Concias sono umiliati. Prima i vandali passavano indisturbati nel nurago, adesso sono addirittura i turisti a smontarlo pietra dopo pietra. Per allestire, su quei massi antichi, i loro moderni barbecue. Le associazioni sarde da mesi denunciano lo scempio, ma la risposta del Comune è la solita: stiamo aspettando i soldi.
la Repubblica
Ultimo OK per il CERBA, i cantieri in aprile
di Alessia Gallione
Dopo cinque anni, da quando è ufficialmente partito l’iter, il Cerba si avvicina sempre di più al traguardo. Nell’ultima riunione del 2010, la giunta comunale ha adottato il piano urbanistico: un passaggio fondamentale, che può essere considerato l’anticamera dei cantieri. Tanto che, adesso, si guarda alla partenza dei lavori del nuovo polo di ricerca e cura che dovrà nascere nel Parco Sud: la prima pietra potrà essere posata già tra l’aprile e il maggio del prossimo anno, con la prima fase del parco scientifico internazionale di 620mila metri quadrati sognato da tempo dall’oncologo Umberto Veronesi che terminerà tre anni dopo.
Non è stato sempre facile, il cammino del Cerba. E non soltanto per l’opposizione degli ambientalisti che hanno contrastato a lungo la nascita del Centro europeo di ricerca biomedica avanzata all’interno del verde del Parco Sud, su terreni di Salvatore Ligresti. Lo ammise lo stesso Veronesi, nell’aprile dello scorso anno. «Ci sono stati grandi entusiasmi ma anche molte battute d’arresto», disse quando fu firmato da tutte le istituzioni l’accordo di programma che sbloccò il progetto, dopo una battuta d’arresto e un ritardo sulla tabella di marcia di un anno. Adesso - i cantieri sarebbero dovuti iniziare nel 2010 - arriva il voto della giunta.
«Un passaggio importante», lo definisce l’assessore allo Sviluppo del territorio Carlo Masseroli. L’atto di ieri, infatti, è l’adozione del programma urbanistico. Che ora, dopo il tempo a disposizione dei cittadini per le osservazioni, passerà nuovamente in giunta per l’approvazione finale, tra gennaio e febbraio del prossimo anno. Il piano, però, c’è già ed è tutto contenuto nel documento appena votato. È di fatto il via libera al maxi-polo (progettato da Stefano Boeri) per la cura e la ricerca nei campi più vari: dall’oncologia alla neurologia, dalla radioterapia allo studio del Dna. Ci sarà spazio anche per edifici residenziali e ricettivi per i pazienti, i loro parenti, gli studenti e i medici e per un parco attrezzato di 320mila metri quadrati che la Fondazione si impegna a gestire per 30 anni.
In tutto (l’intero disegno si concluderà nel 2019) costerà 1 miliardo e 226 milioni, che arriveranno da finanziamenti privati. Ed è proprio questa la sfida che ora dovrà affrontare la Fondazione Cerba: trovare i fondi. Anche se il direttore Maurizio Mauri è ottimista: «L’adozione è un passo importante perché significa che tutte le istituzioni credono nel progetto. Per i fondi siamo nella fase della raccolta, ma siamo sicuri che con l’approvazione definitiva le dimostrazioni di interesse, che sono tante, si concretizzeranno».
Corriere della Sera
Via libera al piano urbanistico Entro un anno i lavori per il Cerba
Il Cerba è più vicino ed entro il 2011 partiranno i cantieri del Polo della scienza e della salute che nascerà a sud della città. La giunta comunale ha adottato ieri il piano urbanistico per la realizzazione del Centro europeo di ricerca biomedica avanzata: ora, scattano i tempi utili per le osservazioni e, nel giro di un paio di mesi, si conta di arrivare all’approvazione definitiva. Nell’ottobre del 2009 era stato ratificato l’accordo di programma, già sottoscritto da Regione, Provincia e Fondazione Cerba. Soddisfatto l’assessore all’Urbanistica, Carlo Masseroli: «È un traguardo importante, soprattutto perché questo centro diventerà un’eccellenza internazionale e Milano si pone sempre più come capitale mondiale della ricerca e della sanità pubblica e privata» .
Il costo dell’intervento, che riguarda un’area del costruttore Salvatore Ligresti ed è un progetto dell’architetto Stefano Boeri, è di un miliardo e 226 milioni. L’area interessata, limitrofa all’Istituto Europeo di Oncologia, è di 620 mila metri quadrati, oltre la metà dei quali diventeranno un parco pubblico. Per quanto riguarda il Centro, sono previsti 45 mila ricoveri all’anno, 800 mila visite ambulatoriali, un accesso di 19 mila persone al giorno e 5 mila operatori, con la garanzia di nuovi posti di lavoro e di un indotto economico sulla città e comuni limitrofi. Per la parte della ricerca, poi l’ambizione è di dare spazio a 500 scienziati. Preoccupato il consigliere Basilio Rizzo: «Il Cerba in sé è una proposta importante. Ma farlo nel Parco Sud significa minare la salvaguardia dell’area»
Nota: il riferimento per qualche dato in più sul CERBA è all'articolo pubblicato qui a suo tempo (f.b.)
Cemento e burocrazia così i nostri fiumi diventano una minaccia
di Roberto Mania, Fabio Tonacci
VICENZA - «Vada in mona ghe se da vergognarse. Quel casso de, de…». Ce l’ha con il Bacchiglione il vecchio di Cresole, frazione di Caldogno, a due passi da Vicenza. Il fiume è lì a una cinquantina di metri, gonfio e melmoso, di nuovo prossimo alla piena. Resta ostile quel fiume. Compresso, ancora dentro gli argini indeboliti, mentre dal cielo continua a piovere. Tanto che ieri è di nuovo scattato l’allarme a Vicenza, alcune strade si sono allagate. C’è il rischio di una nuova alluvione a poco di un mese da quella di Ognissanti, quando acqua e fango entrarono violenti nella città, affondando tutta la campagna intorno, giù fino a valle alle porte di Padova. Tre morti (uno proprio qui a Cresole), danni per oltre un miliardo di euro.
Centocinquantamila animali annegati, tremila persone temporaneamente sfollate. I segni del disastro stanno scomparendo, però: ci si è messi al lavoro subito, senza aspettare gli aiuti e neanche le visite di rito dei governanti. L’antipolitica nordestina si pratica pure così. A Vicenza sono arrivate meno richieste di soldi per la ricostruzione di quanti ne siano stati stanziati. Ma perché si aspetta l’alluvione e i morti per intervenire? Perché è meglio l’emergenza anziché la manutenzione? Perché i disastri aumentano con il passare degli anni? Perché negli altri paesi è diverso?
LA RIMOZIONE
Il vecchio non ha mai amato il Bacchiglione che ha rotto solo poco più a nord e che già nel 1966 trasportò distruzione. Continua a disprezzarlo. Come un po’ tutti da queste parti. Perché c’è stata una sorta di rimozione collettiva, quasi a nasconderlo quel corso d’acqua con i suoi centodiciannove chilometri e il suo fittissimo reticolo di affluenti e sorgive. Qui, in questo pezzo della "metropoli padana" senza identità comune con un tasso impressionante di urbanizzazione, dove i capannoni e le casette con giardino si sono costruiti dovunque per aggrappare il benessere, si vive sopra l’acqua. Perché questa è la zona del Veneto dove piove di più. I paesi sono come sulle palafitte. Qui il fiume non lo vorrebbero più. Ricorda la fatica e la miseria dei secoli passati. Così l’hanno imbrigliato, rettificato, svuotato, spolpato, raddrizzato, modernizzato. Niente più anse, bensì un percorso dritto, veloce. Troppo veloce. Forse lo stanno uccidendo il fiume. Che come un animale in gabbia ogni tanto si ribella perché vorrebbe vivere, esondare e rientrare.
Ma il Bacchiglione non è altro che un fiume dell’Italia. Solo ieri sono scattati gli allarmi anche per il Piave, per il Secchia, per il Panaro. In Italia non si fa prevenzione perché alle elezioni non paga. Il nostro è il paese dove non si interviene a monte perché se ne avvantaggerebbe la popolazione a valle, dove si è imposta la strategia dell’emergenza al posto della normale manutenzione, dove si frammentano le competenze tra Genio civile, Autorità di bacino, Magistrato delle acque, Protezione civile, Consorzi di Bonifica, enti locali. Dove - certifica l’ultimo rapporto del Consiglio nazionali dei geologi - tra il 2002 e il 2010 ci sono state 35 frane e 72 alluvioni che hanno provocato 219 vittime, 126 per frane e 91 per alluvione.
Vuol dire 30 morti ogni anno a causa del dissesto idrogeologico. C’è stato un peggioramento dalla seconda metà degli anni Ottanta, e il picco nel decennio successivo. Con un costo dunque crescente: 52 miliardi nell’arco degli anni dal 1948 al 2009, pari a 800 milioni l’anno. Ma se si dividono i periodi (tra il ‘48 e il ‘90 e tra il ‘91 e il 2009) emerge che fino agli anni Novanta la media era di 700 milioni per diventare poi quasi il doppio: 1,2 miliardi a causa del non controllo. È l’Italia che produce i "disastri a km zero", tutti fatti in casa, autentici. Nulla di importato. Completamente colpa nostra. E tutti lo sanno. Da decenni e forse più.
CASE E CAPANNONI
Ancora a Cresole. In piazza della Chiesa il monumento ai caduti guarda dal basso in alto il Bacchiglione che scorre. Questa è una golena naturale. Era. Ora è un paesino che galleggia. Si tirano su le case a meno di trenta metri dal fiume. Sono previste già altre cinque palazzine a due piani. Cementificazione si chiama. Ma non è abusivismo, è tutto regolare qui. Case, capannoni e chiese. Quasi dentro il fiume. La sede della polizia municipale che un tempo ospitava la scuola elementare sta in Ca’ Alta, vuol dire strada alta. E dice tutto. Dal Duemila i residenti di Caldogno sono aumentati di mille unità, sono diventati 11.150. Si è costruito ma non si è fatto nulla per mettere in sicurezza la zona.
L’onda di Ognissanti ha buttato giù i garage, invaso gli interrati, distrutto le automobili. Da ieri si è ricominciato a tremare. Fa paura l’acqua. A novembre c’erano i sommozzatori qui in Piazza della Chiesa. Ora si ripara tutto, in fretta. Si rimuove, appunto. Perché è troppo tardi per mettere in discussione questo modello di sviluppo. Lo sa bene il sindaco di Caldogno, Marcello Vezzaro, ex Psi, eletto con una lista civica ("Amministrare insieme") formata da ex popolari, ex forzisti del Pdl. Con la sinistra e la Lega all’opposizione. L’Ici non c’è più, spiega, e gli oneri di urbanizzazione finiscono per essere una fonte importante di entrate. Costruire, allora.
Dice Michele Bertucco, presidente della Legambiente del Veneto: «Molti Comuni pensano di fare cassa non sapendo che questo porterà ad un aumento della spesa». Questa è l’Italia delle contraddizioni localiste, dei tagli ai trasferimenti dal centro alla periferia, del federalismo mal concepito, delle colate di cemento sempre e dovunque. L’Italia. E la Lega Nord? Il governo del territorio non doveva essere la risposta al malgoverno centralista di Roma?
Perché questa è anche l’Italia della Lega, del ribellismo nordista. Del rancore antistatalista. E - forse - di fronte all’acqua che avanza e alla richiesta di aiuti a Roma, del fallimento leghista.
«No, mi pare un’esagerazione parlare di fallimento», sostiene Ilvo Diamanti, politologo, cittadino di Caldogno, che ha definito «una tragedia minore» quella dell’alluvione perché consumata lontano dai «centri della comunicazione Roma e Milano». Aggiunge: «E’ piuttosto l’ evidenza che un modello di sviluppo localista ti rende vulnerabile. Ciascuno ha fatto programmazione nel proprio orto, nel proprio pezzo di terra. Si è costruito un territorio puntiforme senza programmazione comune. E questo territorio è diventato una plaga, una grande megalopoli inconsapevole. E’ Los Angeles, è Chicago. Ma tutti continuano a pensare in modo localistico». Il fiume è di tutti e allora non è di nessuno. Rimozione.
GUERRA DI LOBBY
Sul fiume si scontrano interessi, lobby contrapposte, corporazioni. Si combatte su e lungo quelle acque. Non solo contro la costruzione della nuova base militare Usa del "Dal Molin", dove a pochi metri dagli argini sono stati impiantati 3.500 piloni a una profondità di 18 metri. «Provocando un rialzo della falda di 20 centimetri», ci spiega Lorenzo Altissimo, direttore del Centro idrico di Novoledo, che del fiume, dei percorsi rettificati, delle trasformazioni di questo territorio e della sua popolazione, sa tutto.
Ci sono i contadini sussidiati dall’Unione europea che preferiscono essere espropriati dei loro terreni per destinarli alla costituzione delle cassa di espansione e si oppongono invece al meno remunerativo indennizzo, che include la manutenzione dell’argine; ci sono i "signori della ghiaia", che qui contano eccome, e anche quelli, un po’ in declino, dell’argilla con cui si fanno i mattoni. Antonio Stedile ha assistito in diretta dai campi della sua azienda alla rottura del Timonchio, affluente del Bacchiglione. I suoi campi sono immersi nell’acqua ma i danni sono stati relativi. Da venti anni provava a spiegare quanto fosse pericoloso il fiume e debole l’argine. Inutilmente. Ma lui, come gli altri agricoltori, si oppone alla cassa di espansione e alla diversa destinazione produttive dei campi. C’è un "fronte del no" guidato da Gianfranco Farina, che non è un agricoltore bensì un tecnico. Rappresenta la maggior parte dei contadini. Dicono no al progetto della cassa di espansione.
Rinviare gli interventi ci ha fatto almeno risparmiare? C’è stato un beneficio per le casse pubbliche ai vari livelli? C’è chi ha fatto qualche conto: se la cassa fosse stata realizzata trent’anni fa sarebbe costata meno di 35 milioni di euro, quasi la metà dei danni provocati dall’alluvione dei primi di novembre. Sprechi.
Cambiare le coltivazioni potrebbe essere una soluzione? Oppure: non si dovrebbero lasciare gli spazi per far esondare i fiumi? I contadini sostengono che quei terreni perderebbero di valore, che le falde sono destinate ad essere inquinate, che l’indennizzo è ridicolo e che, infine, il progetto di passare dalle attuali coltivazioni (dal mais alle erbe mediche agli alberi da frutto) a quella di alberi da legno a ciclo breve da tagliare a fini energetici non stia in piedi.
Dietro il progetto della cassa a Caldogno ci intravedono la sagoma delle imprese dell’argilla. Perché le lobby sono sempre in agguato. Dappertutto, nel paese dei mille campanili. Sono pronti - gli agricoltori di Caldogno - a ricorrere al Tar e poi agli organismi comunitari, come si fa sempre in Italia. Rilanciano allora: mini bacini a monte per ridurre la velocità del fiume. L’idea, tra le altre, è di costituirne uno su a Meda, dopo Piovene Rocchetta, sull’Astico, affluente del Bacchiglione. E’ un’idea antica. Si trattava di alzare la diga dagli attuali 23 a 45 metri. Il ricordo della tragedia del Vajont bloccò tutto - per sempre - quasi cinquant’anni fa. Mezzo secolo buttato. Ora non è neanche possibile immaginare un innalzamento della diga perché l’area è diventata industriale.
Le fabbriche, d’altra parte, sono entrate nel fiume, o il fiume è entrato nelle fabbriche. Ma è la stessa cosa. Dove c’era il Cotonificio Rossi - siamo a Debba, periferia di Vicenza - c’è ora una serie di capannoni. C’è da quasi quattordici anni anche la Sdb di Claudio Bagante, produce cavi elettrici speciali. Il fiume è lì a un passo. È entrato dentro il capannone trascinando fango e detriti. Bagante stima di aver subito un danno intorno ai 200 mila euro. Ha buttato 15 tonnellate di rame. Dieci giorni di fermo produttivo, poi ha ripreso, insieme ai suoi venti dipendenti, dopo aver rimesso in ordine la fabbrica, smontato e ripulito tutti motori dei macchinari. Circa l’80% della produzione va all’estero. «Questa - dice - è la nostra unica fonte di sopravvivenza». Prevedeva di chiudere l’anno con un fatturato intorno ai cinque milioni, saranno quattro e mezzo. «Nessuno - aggiunge - ci aveva avvisato di quello che stava accadendo».
I RIMEDI
Eppure tutto era prevedibile. Tutto. Come quasi sempre, in Italia. A Padova c’è uno dei dipartimenti di Ingegneria idraulica tra i più prestigiosi nel mondo. A guidare la "scuola padovana" è Luigi D’Alpaos, bellunese, ordinario di Idrodinamica, che da giovane assistente fece parte nella seconda metà degli anni Sessanta della "Commissione De Marchi" incaricata dal governo di individuare i rimedi per evitare i danni provocati dall’alluvione del 1966. Le proposte della Commissione stanno sul tavolo di D’Alpaos, un po’ ingiallite, alcune superate. Tutte inattuate. Decenni persi in chiacchiere, veti e controveti. Dice D’Alpaos: «Si è considerato il rischio idraulico come un accidente dal quale prescindere. Provate a trovare un sindaco che non abbia tombato un fosso per costruire una pista ciclabile! A Vicenza si lamentano ma hanno costruito la zona industriale dove passa il Retrone, affluente del Bacchiglione. Che, alla fine, è stato ingessato in maniera indecente».
Da quasi vent’anni D’Alpaos ha messo a punto un modello matematico che permette di calcolare, e prevedere, le conseguenze, lungo il tragitto, di una eventuale piena. Insomma la tragedia di Ognissanti, come tante altre, poteva essere largamente evitata. «Ma io - aggiunge D’Alpaos - non vado per gli uffici - e quali poi? - a proporre i miei studi. Non è compito mio. Tutti dovrebbero sapere quello che si fa in una università. C’è uno scollamento tra il mondo della ricerca e le istituzioni che ai diversi livelli devono decidere». Ma non è solo colpa della politica. Pure i tecnici, secondo il professore, non hanno avuto «la capacità di mantenere l’attenzione sul problema». E allora? «Servirebbe un dittatore delle acque, perché non c’è nulla di democratico nella gestione di un fiume». Ma forse è troppo tardi. Il Bacchiglione, come tutti i fiumi, statisticamente esonda più o meno ogni cinquanta anni. Ma si continua a stare fermi, ad aspettare la prossima tragedia. Bacchiglione, fiume italiano.
E a Vicenza e Padova torna la paura
di Filippo Tosatto
PADOVA - Torna l’incubo alluvione nel Veneto dove lo scioglimento delle nevi a bassa quota e le intense precipitazioni hanno ingrossato i fiumi a livello di guardia. In particolare, la possibile piena del Bacchiglione - il cui livello ha superato i cinque metri - fa vivere ore di angoscia a Vicenza, ancora ferita dalla valanga d’acqua del primo novembre. In serata sono stati allagati alcuni rioni e il sindaco Achille Variati (al quale il governatore Zaia ha conferito poteri di intervento urgente) ha esortato i commercianti a trasferire le merci in luoghi sicuri - «La nostra città non reggerebbe un altro disastro», ha dichiarato - mentre in tutti i quartieri i megafoni di vigili e volontari avvertono i residenti sui rischi di una possibile esondazione e li invitano a ridurre al minimo l’uso dell’auto. Numerose famiglie, che abitano nelle zone già colpite dall’alluvione, hanno preferito trasferirsi, magari solo per una notte, da parenti e amici, in attesa di capire l’evolversi della situazione.
Nelle vie centrali più a rischio, lo shopping natalizio ha lasciato spazio ai sacchi di sabbia mentre la protezione civile ha riaperto l’unità di crisi in prefettura. Ore d’ansia anche nella vicina Caldogno, la cittadina di Roby Baggio già messa in ginocchio dalla furia del canale Timonchio: il corso d’acqua è di nuovo al limite della tracimazione e non si escludono sgomberi nella notte. A Recoaro Terme è la montagna a spaventare: le violente piogge provocano smottamenti nel Rotolon, costringendo il Soccorso alpino a isolare la zona circostante. Nel Padovano, oltre al Bacchiglione, fa paura il Muson: «Il forte vento di scirocco - spiega la protezione civile - impedisce ai corsi di defluire regolarmente verso il mare». Strade sott’acqua a Saccolongo e a Viggiano ma anche nella periferia del capoluogo si sta lavorando a rafforzare gli argini. I veneziani, infine, trascorreranno la Vigilia natalizia tra stivaloni e passerelle: ieri le sirene hanno risuonato più volte e l’acqua alta ha raggiunto i 123 centimetri sul medio mare.
Presidente Marcegaglia, le scrivo a proposito dell' impresa a Malfatano in Sardegna, nella quale è coinvolta; perché quell'intervento sta producendo lacerazioni dolorose in un paesaggio fantastico. Scrivo a lei, immaginandola sensibile al tema della tutela dei luoghi, sul piano etico e ed estetico, e non ai suoi partners, Benetton, Sansedoni-Monte dei Paschi, Caltagirone. Magari è un pregiudizio sbagliato: ma ho idea che siano poco attenti al corpo fragile e all'anima di Malfatano. La sua intraprendenza mi sembra invece conciliante, mi auguro non indifferente ai costi sociali degli investimenti, e refrattaria all'idea che luoghi e persone diventino scene e comparse, mascherate mortificanti (penso all' umiliazione/'omologazione del corpo della donna, nel racconto di Lorella Zanardo).
E' inusuale fare appello a un'impresa perché trascuri i suoi interessi. Ma ci sono in questa speculazione premoderna aspetti che lei potrebbe non conoscere (non sempre gli investitori sanno dei loro investimenti). Non si può controllare tutto: la sua ditta produce tubi e lamiere, condensatori, scope e spazzole e si occupa anche di turismo nella versione duplice di gestione e realizzazione di attrezzature per la vacanza. Per Malfatano il programma è un mix: un po' di alberghi e molte case da vendere. Una formula che abolisce il rischio: nel ramo palazzinaro, con l'assistenza diretta di una banca, sono bravi tutti.
Se l'iniziativa si svolge nei litorali della Sardegna è una meraviglia: a scapito di paesaggi come questi si va sicuri, metti 1 e prendi 10, se va male. A basso investimento (il costo di costruzione più di tanto non cresce) corrisponde un utile inimmaginabile con la siderurgia. Il valore è dato da quel quid che mettiamo noi, il paesaggio bene comune. E siamo noi a perdere da questa impresa, che non sarebbe oggi consentita con le disposizioni vigenti in Sardegna. Il progetto è di un'altra epoca, quando la disciplina urbanistica del Comune di Teulada era conforme a sconvenienti piani per il paesaggio, poi cassati perché troppo compiacenti verso gli interessi immobiliari. Un procedimento che sta in una fase incerta su cui la Magistratura sta indagando per sapere di alcuni passaggi poco chiari.
Nel frattempo i lavori proseguono, e ogni gesto è un pezzo di Malfatano che perdiamo per sempre.
Penso che basterebbe un'occhiata: sentirebbe il rimorso, presidente, per una violenza anacronistica, che si vedrà meglio tra qualche anno. A bellezza violata e a futuro negato corrispondono promesse di lavoro precario, una trentina di camerieri e sguatteri e per due mesi all'anno, forse. I muratori che manifestano a sostegno di questa impresa – per perpetuare il ciclo edilizio – fanno tristezza, ricordano i tagliaboschi di boschi nell'Ottocento.
Quest'inverno si sta riscaldando. Mai come in questi mesi lo stato generale di quest'Italia è stato così deprimente. La disoccupazione cresce, anche i sindacati non stanno tanto bene e la politica è un disastro. I partiti che una volta avevano un nome (Dc, Pci, Psi, Pri, etc) adesso hanno sigle prive di identità: nomina sunt essentia rerum. Nessun nome preciso e, quindi, disponibile a tutto e al contrario di tutto.
L'attuale governo, dopo aver ottenuto la maggioranza di soli tre voti, conferma il detto secondo il quale al peggio non c'è fine. Il presidente del consiglio minaccia di scendere in piazza se la Corte Costituzionale impedirà l'approvazione del legittimo impedimento, che ove non fosse approvato porterebbe Berlusconi da Palazzo Chigi a Regina Coeli. E so di esagerare. E intanto si è dimessa la ministra Prestigiacomo. Manca ancora la notizia di un messaggio di congratulazioni del nostro presidente all'amico Lukashenko. Siamo a un caos agonico della Repubblica italiana fondata sul lavoro e non sui disoccupati, i precari e quant'altro.
In questa palude velenosa e micidiale lo scatto di vita c'è venuto dai giovani, dagli studenti, dalle università e dalle scuole tutte. È da settimane che i giovani manifestano, esprimono la loro rabbia, anche disperazione e soprattutto volontà di cambiare, di procedere e far procedere il paese su un binario liberatorio. A Roma, a Palermo, a Torino, a Milano e in tutte le sedi universitarie questo movimento è sceso in piazza a chiedere una svolta. E quando c'è un popolo di giovani che protesta e chiede di cambiar strada poco valgono gli strilli di denunzia contro qualche inevitabile episodio di violenza. Il fiume è in piena. E ben lo ha capito il presidente della Repubblica che ieri ha ricevuto una delegazione di questi studenti. Bene farebbe la Cgil ad accettare la richiesta degli studenti e della Fiom di uno sciopero generale.
Dobbiamo, anche perché un po' più anziani (anche molto) stare vicini a questo movimento: «uniti contro la crisi» è un'affermazione di volontà e di realismo. Il manifesto nella sua ormai quarantennale storia è stato sempre con i giovani, solidale e anche critico. Il manifesto è ancora con questa fiduciosa realtà giovanile. Ma forse anche per questo il manifesto è diventato un obiettivo di questo governo, che prima ha abolito il diritto soggettivo a un contributo statale all'editoria libera e poi, adesso, minaccia di far bella figura togliendo i soldi destinati all'editoria per darli al 5 per mille. E qui, anche in polemica con gli amici de il Fatto, ribadiamo che il contributo pubblico all'editoria senza padroni non è un'elemosina, ma un dovuto contributo alla cultura e alla libertà. Ove queste minacce diventassero realtà, sappiano i nostri potenti nemici, ma anche i giovani del movimento, che non molleremo.
Non molleremo perché siamo in una crisi e in uno scontro sociale (direi di classe) che non consente ritirate. Non torneremo a casa quando nello stato delle cose presenti il pericolo è di una deriva verso il peggio. Peggio anche dell'attuale peggio berlusconiano.
Ancora non è finita la conta dei danni provocati dall'alluvione che ha devastato il Veneto all'inizio di novembre, facendo due morti e gravi danni in 328 comuni e 3433 imprese, che la giunta regionale del presidente leghista Andrea Zaia ha posto le basi della più grande speculazione immobiliare che a memoria d'uomo si ricordi. Archiviati i recenti pianti di coccodrillo sulla cementificazione che provoca le alluvioni, la Lega di lotta e di cemento, ha varato col Pdl una legge regionale che modifica le norme in materia di governo del territorio e dà via libera alla possibilità di ristrutturare ruderi e baracche di pochi metri su terreni agricoli, ampliandoli fino a 800 metri cubi. Chiunque - non solo chi fa l'agricoltore - può costruirsi una villa di 270 metri quadrati o una palazzina di tre piani con tre appartamenti da 90 metri al posto di quattro sassi in croce.
I ruderi agricoli sono decine di migliaia nella regione e alcuni, posti nelle località turistiche più pregiate, sono assai appetibili. Soltanto a Cortina sono 200 e, calcolato il valore medio del metro quadrato che è tra i più alti d'Italia, la ristrutturazione selvaggia voluta dal governatore palazzinaro nel territorio comunale produrrà un plusvalore immobiliare valutato in 800 milioni di euro. Naturalmente non ci sono solo la montagna e le valli alpine, ma anche appetibili mete turistiche marine e lacustri, come Jesolo, Bibione, Caorle e il Garda. Per cui l'operazione leghista vale miliardi ed è destinata ad avverare la premonizione del poeta Andrea Zanzotto:"Una volta c'erano i campi di sterminio, adesso arriva lo sterminio dei campi". Non più capannoni eretti intorno alle ville palladiane, emblemi del miracolo industriale, dei distretti, della piccola impresa diffusa che strappava quelle terre alla endemica povertà, ma una scelta tutta palazzinara che certifica la nuova fase "economicista" della Lega, più attenta al controllo della Fondazioni bancarie e alle grandi speculazioni che ai problemi delle cosiddette partite Iva, che furono la base di partenza per la conquista del nord. Adesso vengono prima potere e affari, mentre Zaia, che ha le casse completamente vuote, prosciugate dal debito di un miliardo della sanità, si appresta a mettere le mani nelle tasche dei veneti, come direbbe Berlusconi, se non sarà Tremonti a soccorrerlo.
Il primo a denunciare ciò che la nuova legge regionale comporta è stato il sindaco cortinese di destra Stefano Verocai, che, invece dei suoi nella giunta e nel Consiglio regionale, ha accusato il Partito democratico di non essersi opposto allo scempio con forza sufficiente. Una ricostruzione che Laura Puppato, presidente del gruppo in Consiglio regionale e "uomo forte" del Pd veneto, nega con veemenza, raccontando tutte le fasi in cui lo scempio legislativo è stato coscientemente compiuto: "Il vicesindaco di Cortina se la prenda con i suoi amici della Lega e del Pdl perché noi abbiamo fatto una dura battaglia degli emendamenti, due dei quali sono stati accolti e hanno permesso di sventare altrettanti colpi di mano del centrodestra. Da un lato l'esproprio delle competenze dei consigli comunali sui Piani Urbanistici Attuativi, conferendo ogni potere alle giunte; dall'altro il tentativo di imbavagliare le soprintendenze ai beni ambientali, privandole di ogni voce in capitolo sui vincoli urbanistici".
La Puppato rivendica di aver condotto una battaglia di opposizione senza ambiguità, che ha limitato lo scempio, contrariamente agli oppositori dell'Udc che hanno bocciato l'emendamento anti-ampliamenti, contribuendo a far passare "un provvedimento indegno nato nel solco del Piano Casa della regione approvato nella scorsa legislatura sotto Giancarlo Galan e concepito per guardare agli interessi commerciali e non alla difesa del territorio".
Il Senato affidato alla matriarca leghista Rosi Mauro «è la pucchiacchia in mano a creatura». È la sceneggiata, in mezza giornata già un cult di youtube, sul contrasto tra la più sofisticata macchina procedurale e le maniere sbrigative di una volitiva massaia rurale che ha cercato di governare il Senato con la stessa sapienza con cui si governano e si cucinano i conigli. Ma è anche uno dei momenti probabilmente più maschilisti del nostro Parlamento.
Questo governo sa come manovrare intrighi e gestire affari opachi, ma non sa fare la cosa più normale e importante: tenere una relazione di ascolto riflessivo con i cittadini che fuori dalle istituzioni vogliono far sentire la loro voce a chi è stato eletto per prendere decisioni nel nome di tutti. La violenza che si è scatenata nei cortei degli studenti è stata manipolata ed usata per criminalizzare tutto il movimento, giustificare il pugno duro della coercizione e imporre il volere di chi comanda. La risposta al dissenso che questa maggioranza dei 3 voti di limpido consenso dà, è quanto di più improvvido e autoritario; è la dimostrazione del fatto che gli studenti non sono considerati degni interlocutori da questa maggioranza, la quale probabilmente mette in conto che quelli degli studenti non sono voti suoi. Punire gli studenti è come punire l´opposizione tutta, quella parte del Paese che questo governo non rappresenta, che vuole anzi umiliare e reprimere; quella parte che non applaude e che è rubricata come "comunista" e va dalle toghe non domate, ai giornali non padronali, agli operai non marchionisti. Gli studenti sono in buona compagnia. Le loro esigenze sono senza voce, trattate come una questione di "sicurezza".
Eppure le esigenze espresse dagli studenti non sono corporative, non chiedono prebende, l´azzeramento di un mutuo o promesse di posti ad personam. Chiedono cose politiche: che questo progetto di riforma venga fermato e rivisto nella sostanza perché è pessimo per gli studenti di questa generazione e di quelle successive. A queste obiezioni, la politica che siede a Palazzo Chigi e in Parlamento non ha risposte se non il dileggio e il pugno duro. Da settimane gli studenti dicono all´opinione pubblica una cosa molto semplice: manca in questa proposta di riforma una visione di futuro positiva e di crescita per i giovani, ovvero per il Paese. Un riforma che restringe e rende asfittica la ricerca, che monitora la didattica con metodi da contabilità aziendale, che non riesce a dare il senso di un´università aperta al ricambio generazionale per merito provato e documentato. L´immagine dell´università che il ministro Gelmini ci propone è indifferente al mondo della ricerca e soprattutto ai principi scritti nella Costituzione che parlano di eguali opportunità e di cultura come patrimonio nazionale da proteggere e alimentare.
Da anni, i vari governi che si sono insediati, di destra come di sinistra, hanno voluto lasciare alla storia una loro "riforma" dell´università. In molti casi, hanno sbriciolato l´università che c´era nelle risorse e avvilita nelle potenzialità, senza riuscire a renderla migliore. Il risultato di questo sperpero sistematico è il seguente: le scuole e i licei formano generazioni di fuoriusciuti; le tasse dei contribuenti italiani contribuiscono al futuro dei Paesi stranieri. Dal Belgio alla Spagna, dall´Inghilterra alla Germania, dagli Usa al Canada o al Brasile: dovunque si trova la stessa realtà, quella di studenti italiani espatriati, non per cercare l´Eldorado o perché figli di papà in viaggio, ma perché bravi e senza futuro degno e onesto nel loro Paese. È questa la realtà, il fatto di riferimento che l´algida Gelmini dovrebbe considerare quando trincera la sua riforma con la rituale dichiarazione che si tratta di una "buona riforma". Non si fa una riforma che è "buona". Si fa una riforma che è ottima, la migliore possibile data la situazione reale alla quale deve rispondere. Una riforma "buona" in questa contingenza è cattivissima: per il sistema di reclutamento, per la subordinazione dei criteri del valore a quelli aziendali, per un´intollerabile decurtazione delle risorse. Zero Euro. È questo il senso della riforma Gelmini. L´anoressia dei cervelli.
Di fronte a questi problemi, che gli studenti comprendono benissimo, la risposta del governo è in linea con la sua identità politica: paternalismo («i genitori facciano stare a casa i figli», come se i ragazzi non fossero adulti e liberi di decidere) e autoritarismo. Infantilizzazione e dominio repressivo; anche a costo di rispolverare l´arresto preventivo, un istituto che con le carte dei diritti non ha alcuna relazione; mentre ce l´ha con il regime del Ventennio nero: quando Mussolini andava in visita in una città si mettevano preventivamente in carcere i sospetti sovversivi per rilasciarli quando il duce se n´era andato. Le soluzioni proposte dal governo non sono né impreviste né irrazionali perché l´autoritarismo è l´esito certo quando si interrompe la relazione tra cittadinanza e rappresentanza. Non la si chiami democrazia autoritaria però, perché la democrazia autoritaria è un non-senso. Ciò che può esistere e c´è, è un esecutivo autoritario che soffoca la democrazia.
Il bacino amazzonico cattura tra i 12mila e i 16mila km cubici di acqua l'anno, di cui solo il 40% scorre lungo i fiumi. Il resto viene restituito all'atmosfera mediante evapotraspirazione delle foreste, e si distribuisce a tutta l'America del Sud. La deforestazione riduce l'umidità che, trasportata dai venti, contribuisce all'equilibrio idrico di vaste aree del continente, oltre ad accentuare l'erosione e il drenaggio superficiale, che sottrae acqua non solo all'irrigazione naturale dell'Amazzonia, ma anche ai terreni agricoli più lontani.
Nel 2026, una Amazzonia «ultima riserva mondiale di cereali», attraversata da nuove strade e megaprogetti per l'energia e l'integrazione regionale, attirerà investimenti per miliardi di dollari, ma con una riduzione delle foreste e dell'acqua pulita, provocando un grave degrado ambientale accentuato dal cambiamento climatico.
È questo lo scenario di «Sull'orlo del baratro», il rapporto di Geo Amazonia elaborato negli ultimi due anni con il contributo di 150 scienziati di otto paesi della regione amazzonica, coordinati dal Centro de Investigación de la Universidad del Pacífico, con sede a Lima, Perù.
Lo studio «Prospettive ambientali in Amazzonia», patrocinato dal Programma delle Nazioni unite per l'ambiente (Unep) e l'Organizzazione del Trattato di cooperazione amazzonica (Acto), e diffuso la scorsa settimana, delinea quattro possibili scenari futuri, secondo diverse variabili. Il più ottimistico, «Amazzonia emergente», prevede per il 2026 una migliore gestione ambientale e controllo delle attività produttive, in base al principio «chi inquina paga», ma ancora con un ritardo nelle tecnologie ad efficienza energetica e nello sfruttamento efficace della biodiversità. Secondo un altro scenario, «Luci ed ombre», la regione starà ancora cercando percorsi di sviluppo sostenibile, con uno specifico accento su scienza, tecnologia e innovazione, e tentando di frenare le attività produttive più dannose. «L'inferno è verde», prospetta un futuro più drammatico, con una «perdita irreversibile della ricchezza naturale e culturale», più povertà e maggiori disuguaglianze.
La metodologia Geo (Global environment outlook) elaborata dall'Unep, è interessante perché offre una visione d'insieme e descrive «possibili situazioni condizionate da diversi fattori e incertezze» per orientare le decisioni, ha commentato Marcos Ximenes, direttore dell'Istituto di ricerca ambientale dell'Amazzonia (Ipam), che ha contribuito alla stesura del rapporto.
La grande sfida è che poi tutte queste informazioni e conoscenze devono essere «prese seriamente dai responsabili delle decisioni», ha detto Ximenes, ricordando la sua esperienza con altri rapporti Geo che alla fine non hanno portato a nessun risultato concreto. Ad ogni modo, questo processo di conoscenze deve diventare permanente, con maggiori risorse e più promozione. Questo primo rapporto è stato elaborato con pochi fondi e contributi volontari, ha lamentato. I dati e le analisi di Geo Amazonia non sono nuovi né attuali o completi, ma il fatto di averli raccolti in modo sistematico è una novità, anche perché includono l'intera regione e non solo le componenti nazionali, ha commentato Adalberto Veríssimo, dell'Istituto per l'uomo e l'ambiente dell'Amazzonia (Imazon). Per la prima volta, sono stati presentati i dati sul disboscamento dell'intero bacino amazzonico, anche se «sicuramente sottovalutati», poiché i vari paesi, eccetto il Brasile, non hanno ancora sviluppato sistemi di misurazione adeguati, ha spiegato.
L'area disboscata totale, secondo il rapporto, era di 857.666 km quadrati nel 2005, equivalente al 17% dell'intera regione amazzonica. L'espansione della deforestazione ha raggiunto la media annuale di 27.218 chilometri quadrati tra il 2000 e il 2005. La deforestazione riguarda già il 18% dell'Amazzonia, di cui un 15% in Brasile, ha stimato Veríssimo, responsabile del monitoraggio del fenomeno nella parte brasiliana. Secondo l'esperto, sarebbe «ottimistico» il bilancio sulle minacce alla biodiversità - che stima 26 specie già estinte; 644 «ad alto rischio» e 3.827 «in pericolo» e «vulnerabili» - poiché basato su informazioni di diversi anni fa. Geo Amazonia avrebbe però un ruolo positivo, in quanto stimolerebbe i paesi a migliorare le capacità di ricerca e di monitoraggio, orientando studi e stabilendo priorità, ammette lo studioso.
È fondamentale l'aggiornamento costante. Il rapporto, per esempio, non riporta la riduzione della deforestazione in Brasile dello scorso anno, che ha smentito una correlazione fino a oggi comune, secondo cui l'aumento dei prezzi agricoli nel mondo comportava un aumento della deforestazione per fare spazio a nuove colture, ha osservato Paulo Barreto, di Imazon. Di fatto, la deforestazione in Brasile continua a ridursi da prima della crisi economica mondiale, quando erano ancora molto alti i prezzi della soia e della carne di manzo - fattori tradizionalmente legati all'espansione dell'attività agricola e dell'allevamento in Amazzonia, ha spiegato.
Lo scenario che emerge dal rapporto non lascia molto spazio all'ottimismo. L'allevamento, attività maggiormente responsabile della deforestazione, è passato da 34,7 milioni di capi di bestiame nel 1994 a 73,7 milioni nel 2006 nell'Amazzonia brasiliana, e si espande a un ritmo accelerato nelle aree amazzoniche di Bolivia e Colombia. Anche la soia, l'estrazione del legno e mineraria, i grandi progetti idroelettrici brasiliani e altri portati avanti dalla Iniziativa per l'integrazione dell'infrastruttura regionale sudamericana (Iirsa), considerati prioritari per il governo brasiliano, esercitano pressioni economiche sulle foreste e la biodiversità amazzoniche.
La pressione demografica è evidente in una popolazione che cresce più rapidamente della media nazionale. I poco più di cinque milioni di abitanti del 1970 si sono moltiplicati per sei, raggiungendo i 33,5 milioni nel 2007, cioè l'11% del totale della popolazione degli otto paesi amazzonici. Diviso in sette capitoli, il rapporto Geo Amazonia copre dagli aspetti territoriali alla situazione attuale e agli scenari futuri.
Dalle conclusioni emerge un crescente degrado dell'ecosistema e la necessità di una maggiore partecipazione delle comunità locali nella discussione per definire «linee d'azione», come costruire una visione integrale, armonizzare politiche pubbliche, delineare strategie comuni e promuovere la valorizzazione economica dei servizi ambientali.
(traduzione francesca buffo)
Dalla crisi globale alla crisi ambientale, alla crisi di civiltà. L'Amazzonia come esempio vivo e scottante del livello raggiunto dalla distruzione dell'ambiente. E' stata questa la questione centrale di oggi all'ottavo Forum sociale mondiale. In diversi tavoli di lavoro si è andati elaborando una diagnosi: l'Amazzonia è lo scenario di una doppia domanda. La prima coinvolge movimenti ambientalisti di tutto il mondo che lottano per la preservazione della foresta, con i governi della regione che rivendicano la loro sovranità. La seconda mette di fronte i popoli indigeni e i contadini che vivono nel territorio, e giganteschi progetti stradali e energetici promossi da quegli stessi governi. Dietro queste questioni si trovano sia le differenze e contraddizioni esistenti tra movimenti popolati e governi progressisti dell'America latina, sia la disputa per un altro modello di sviluppo o di civiltà.
L'Amazzonia è una metafora dei dilemma che attraversano la sinistra, dilemmi grandi quanto la stessa regione. L?America latina è cresciuta negli ultimi anni esportando materie prime. I governi progressisti hanno intercettato risorse straordinarie per i loro programmi favorendo lo sfruttamento petrolifero, minerario e forestale, dando anche facilitazioni alla produzione estensiva di soia, Ma l'espansione di queste attività ha provocato forti conflitti con comunità indigene e contadini.
Il Rio delle Amazzoni è il fiume più lungo e ricco del pianeta. Insieme con il Canada è la maggiore riserva di acqua dolce del pianeta. Nasce sulle Ande del sud del Perù e sbocca nell'oceano Atlantico. Ha più di mille fiumi tributari di una certa importanza. Attorno al fiume cresce la maggiore selva tropicale del pianeta, estesa su 5,5 milioni di chilometri quadrati in Brasile [60 per cento], Bolivia, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Surinam, Venezuela e Guyana francese. La ricchezza della sua biodiversità è complessa ed esplosiva, ma il suo equilibrio è molto fragile: in parte della foresta lo strato di humus non oltrepassa i 30 o o40 centimetri.
La pressione privata su questa terra e queste risorse naturali è enorme. Si cerca di costruire grandi dighe idroelettriche, espandere l'estrazione mineraria e l'agro-business, seminare soia e ingrassare bovini. Secondo il Coordinamento delle organizzazioni indigene dell'Amazzonia brasiliana [Coiab], «l'Amazzonia ha perduto negli ultimi trent'anni 80 milioni di ettari di foresta a causa di attività di sviluppo non durevole». Il rischio che la foresta si trasformi in una savana, in modo irreversibile, è reale.
L'umanità intera deve essere preoccupata per l'Amazzonia, dice il teologo Leonardo Boff, secondo il quale «il Forum mondiale deve fare pressione sul governo brasiliano perché elabori una politica chiara, esplicita e oggettiva per conservarla. Non lo ha fatto. Ci sono politiche occasionali per risolvere conflitti sulla terra e impedire lo smantellamento di alcune zone, ma non molto di più». Secondo Boff, l'Amazzonia è il banco di prova del nuovo paradigma di civiltà che occorre costruire, basato su una diminuzione dei livelli di consumo. Bisogna ridurre, riciclare e riutilizzare, dice.
Le voci che nel Forum mettono in guardia sul pericolo che incombe sull'Amazzonia sono molteplici e diverse. Tra molte altre, si trovano quelle dei contadini del Movimento Sem Terra del Brasile, di ambientalisti e di scienziati. Ci sono, anche, gli attivisti vegetariani, che insistono sul fatto che dietro ogni hamburger che mangiamo c'è un albero in meno. «Consumando carne, voi state finanziando la devastazione dell'Amazzonia. Non siate complici di questo crimine. Diventate vegetariani», dice la loro propaganda. Che offre come dimostrazione il fatto che, tra il 1990 e il 2006, la quantità di capi di bestiame allevati in questa regione sia aumentata del 180 per cento, da 26 milioni di animali a 73 milioni.
Lungo il Rio delle Amazzoni vivono 135 popoli originari, Rappresentanti di molti di essi si trovano al Forum, e hanno dedicato una parte molto grande dei loro sforzi a mettere in guardia circa i pericoli di pendono sui loro habitat. Vestiti con i loro tipici abbigliamenti e con il corpo dipinto di rosso e di nero hanno invocato lo spirito degli antenati per salvare la foresta. «Veniamo ad alzare la voce dei popoli indigeni che non vogliono che le loro terre e le loro acque siano trasformate in merci da vendere», ha detto la aymara Viviana Lima. Il fatto è che, come ha detto Jorge Nancucheo, rappresentante del Coordinamento andino delle organizzazioni indigene, «soffriamo dell'avanzata delle multinazionali che arrivano e calpestano i nostri territori, saccheggiando la nostra acqua, i nostri boschi, le nostre risorse naturali. Prima avevamo una economia in cui non esisteva la fame, nella quale i nostri bambini non morivano. Oggi noi indigeni siamo i più poveri dei poveri. Questo modello è in crisi, ma non è morto».
L'avanzata della modernità selvaggia sulla foresta minaccia anche le terre di indigeni, contadini, estrattori di caucciù e pescatori. La situazione è così grave che il governo di Lula ha dovuto ingoiare il boccone amaro delle dimissioni di Marina Silva, ministra dell'ambiente e riconosciuta ambientalista, stanca di dover affrontare praticamente da sola i voraci interessi delle grandi compagnie. «Il governo di Lula – dicono i Sem Terra – ha appoggiato l'avanzata di questo modello predatorio in Amazzonia». Come esempio di questo c'è la denuncia fatta da analisti sociali, rappresentanti dei popoli inadatrdigeni e attivisti rurali contro l'impresa multinazionale Vale do Rio Doce, colpevole della devastazione della foresta amazzonica. In origine era una compagnia statale, ma Henrique Cardoso [precedente presidente brasiliano, ndt.] la privatizzò nel 1997. E' l'impresa mineraria più grande dell'America latina e la seconda nel mondo. Il cuore delle sue operazioni è un vasto territorio nell'Amazzonia centrale conosciuto come Carajàs.
Sarà uno degli affari immobiliari più importanti degli ultimi 20 anni: oltre 50 milioni di euro, 43 mila metri quadrati di residenziale e più di 30 mila metri quadrati per la realizzazione di una vera e propria cittadella universitaria con campus, alloggi per studenti e spazi verdi. L'asta per la vendita dell'ex ospedale Umberto I di via Solferino è stato pubblicato. Il proprietario del terreno e degli immobili, vale a dire l'azienda ospedaliera San Gerardo, ha dato via libera alle danze e attende proposte «allettanti» entro l'11 febbraio 2011, a mezzogiorno. In gioco c'è un'operazione urbanistica che promette di cambiare volto alla città.
L'area, a pochi passi dal centro storico, è compresa fra il canale Villoresi, via Solferino, via Mauri e via Cavallotti. In tutto si tratta di 18 padiglioni che saranno riqualificati in base all'accordo di programma siglato con la Regione nel 2008. Una parte del lotto sarà impiegata per costruire nuove palazzine (al massimo di 8 piani), uffici e negozi. Ma oltre all'aspetto residenziale, terziario e commerciale, il progetto prevede anche la trasformazione dei corsi universitari in Scienza dell'organizzazione aperti da 5 anni in una vera e propria università brianzola. Anzi, in una cittadella universitaria con uffici, aule, laboratori, un campus, alloggi per studenti fuori sede, parcheggi e giardini. La base d'asta indicata è 50 milioni e 150 mila euro. «Ovviamente — spiega Giuseppe Spata, il direttore —, contiamo di incassarne molti di più. Il nostro obiettivo è di investire questa somma nel piano di riqualificazione del nuovo ospedale».
Il crono-programma prevede la conclusione dell'iter di aggiudicazione entro luglio e l'apertura del cantiere entro ottobre. Nel frattempo sbarcherà in consiglio comunale la variante al Piano di governo del territorio, il documento sul quale il sindaco Marco Mariani e la sua giunta si giocano il mandato. Presentazione l’altra sera, poi una corsa contro il tempo per condurre in porto l'operazione da 4 milioni di metri cubi nel più breve tempo possibile. «Il piano — spiega l'assessore all'Urbanistica, Silverio Clerici —, prevede una crescita di 30 mila abitanti e la suddivisione della città in sei poli tematici» . E fra i nodi da sciogliere c'è anche l'annosa questione della Cascinazza. Il Partito democratico intanto ha bollato il nuovo strumento urbanistico come uno «scempio» e promette opposizione millimetrica in consiglio. Da parte loro, i costruttori brianzoli, stanchi di aspettare una variante che non arriva mai, hanno chiesto le dimissioni del primo cittadino se non ne otterrà l'adozione.
postilla
Si capisce già dall’articolo come questa operazione vecchio ospedale San Gerardo sia organica a un certo modo di concepire la città, mosaico di interessi particolari e lobbies, senza alcuna idea di spazio pubblico che non sia funzionale e sottomessa a questi. Ciò che invece non emerge affatto, ritenuto forse marginale, è l’aspetto urbanistico in senso lato dell’operazione, che forse richiede un paio di cenni storici. L’area occupata dall’ospedale non solo si caratterizza come complesso di valore, coi padiglioni ottocenteschi organizzati secondo gli schemi caratteristici della scienza medica prima che la diffusione degli ascensori sconvolgesse questi assetti spaziali (per intenderci, più o meno la stessa generazione dei carceri cellulari panottici o complessi assimilabili). C’è dell’altro. L’ospedale non è semplicemente “a pochi passi dal centro storico”, ma si inserisce in un quartiere che al centro storico è del tutto complementare, sinora sostanzialmente risparmiato (con qualche sgradevole eccezione) dagli appassionati del metro cubo duro a morire. Questo comparto urbano è il classico quartiere della stazione di impianto ottocentesco, adiacente lo scalo ferroviario anche se collocato su un terreno sopraelevato. Si compone di un viale perpendicolare alla stazione, con una piazza da cui si dipartono vie trasversali, quasi tutto ancora caratterizzato da edifici coerenti con l’impianto (salvo all’attacco del viale della stazione, storpiato proprio sull’angolo da un recentissimo intervento). L’ospedale, insieme al corso dell’ottocentesco Canale Villoresi, è parte integrale del quartiere: cosa potrò succedere di questi spazi se, con le funzioni e le trasformazioni ipotizzate, aumentassero esponenzialmente le pressioni in termini di traffico, nonché di “sviluppo” delle aree adiacenti. Già negli anni ’60 l’ipotesi poi non decollata del piano regolatore di Luigi Piccinato, di un centro terziario nell’area grosso modo fra il quartiere ottocentesco della stazione e la grande viabilità verso Milano poneva sostanzialmente i medesimi rischi. Ma nell’epoca della crescita indefinita accettata da tutti, con un piano urbanistico pensato per un capoluogo da 300.000 abitanti (oggi sono circa 120.000) forse anche queste cose potevano ritenersi accettabili. Ma oggi? (f.b.)
Ricordate lo scatto meccanico del braccio destro del dottor Stranamore nel film di Kubrick? Oggi in Italia il dottor Stranamore ha assunto il volto del capogruppo del Pdl.
L´onorevole Gasparri è una presenza abituale nei notiziari della televisione di Stato. Lo si è visto per anni impegnato nel faticoso tentativo di pronunziare frasi a effetto e di elaborare barlumi di pensieri politici, in contrasto palese con la natura dell´uomo al quale sarebbe più congeniale passare direttamente all´azione. Ma di recente i suoi pensieri mostrano l´affioramento in superficie di un qualche rigurgito fascista. Rigurgiti violenti e illiberali: non (solo) per gusto personale ma perché il clima di questi giorni lo richiede. Il rischio corso dal governo Berlusconi e l´avanzare di tempi difficili per la maggioranza hanno fatto saltare la vernice ridanciana e godereccia del Pdl, rivelando sempre più i caratteri di una macchina di potere personale sostenuta dall´avventura di una destra che si va radicalizzando a vista d´occhio.
A questo partito della libertà provvisoria e dell´arresto preventivo il "Gasparri-pensiero" offre oggi la sortita di una scommessa sull´assassinio di piazza. Spiace dirlo, ma è qualcosa di più di una impressione. Una scommessa che niente costa e che garantisce un premio sicuro. Non si è ancora spenta l´eco dell´allucinante proposta di arresto preventivo ed ecco che Gasparri rivolge ai genitori l´appello a tenere a casa i figli: le manifestazioni vanno evitate - dice - perché sono «frequentate da potenziali assassini».
Lo dice un uomo del governo: e nelle sue parole affiora un lontano sentore di Stato etico, con la famiglia come agenzia subalterna di un superiore potere statale nell´imporre ordine e obbedienza. Ma in questo invito c´è molto di più e di peggio. Se con la proposta dell´arresto preventivo la libertà individuale e il diritto di manifestare abbandonavano la zona garantita dalla Costituzione per diventare una graziosa e occasionale concessione del potere scaraventando l´Italia in coda alla graduatoria mondiale dei regimi tirannici, qui siamo davanti a qualcosa di ben più grave: nel gioco mortale di un regime traballante si investe perfino nell´assassinio. Ma anche la cultura della destra fascista si aggiorna: non commissionano più i delitti politici, si limitano a prevederli. Merito del governo se non ci saranno; colpa dell´opposizione, dei genitori e delle vittime se ci saranno.
Si tratta di un altro passo in precipitosa discesa sulla china imboccata fin dall´inizio dalla combriccola al potere: quella della paura. Ma rispetto alle esercitazioni dei decreti sulla sicurezza, con l´uso degli immigrati e dei rom come spauracchi per fondare sulle paure collettive una delega illimitata all´arbitrio e al regime di eccezione, stavolta il seme del terrore viene gettato direttamente in mezzo alle folle dei manifestanti, in quelle piazze riconquistate dai giovani in lotta per il loro futuro. Un futuro che è quello del nostro Paese: perché è evidente a tutti che dalla crisi si potrà cominciare a uscire solo quando si ridarà respiro e speranza di crescita intellettuale e civile alle giovani generazioni oggi senza prospettiva. Per questo il decreto sull´Università, al di là dei suoi contenuti e delle lambiccate alchimie dei suoi ritocchi alla fatiscente e indifendibile macchina universitaria, è diventato il simbolo di una volontà di rinascita e l´occasione scelta dai giovani per farsi ascoltare.
Ora, un governo democratico è tale solo nella misura in cui garantisce la libertà costituzionale di ciascuno mentre si prende cura della sicurezza di tutti. Scommettere sulla violenza lo trasforma in una associazione a delinquere. Ma si ricordino gli apprendisti stregoni che non è l´Italia il paese dove si possa cancellare così rapidamente il ricordo di come è stato sconfitto quel ricatto del terrorismo che voleva ricacciare i cittadini nel chiuso delle case. Allora l´attacco alla democrazia fu sconfitto riconquistando le piazze ed esercitando attivamente il diritto di manifestare. È così che fallirono i complotti orditi nell´ombra da forze politiche e istituzionali che restano ancora coperte dal segreto di Stato. Oggi è la parte giovane del Paese che manifestando all´aperto si assume un compito che è soprattutto suo e rivendica il suo diritto ad avere un futuro. La sua presenza nelle piazze è una garanzia e una speranza per tutti noi. È contro tutto il paese che in Italia qualcuno prova la carta della disperazione.
Se il pianeta ha la febbre a Cancun non è stata curata, anzi. Nulla di vincolante è stato deciso nell'accordo uscito all'alba di ieri, nonostante l'enfasi data dai governi riuniti e dalla stampa al testo conclusivo emerso dalle due settimane di lavori.
Cancun conferma sostanzialmente il consolidamento della logica emersa a Copenaghen, ampliando i meccanismi attraverso cui la gestione della crisi ambientale e climatica passa attraverso la finanziarizzazione e nuove speculazioni economiche. Il fondo verde, i mercati di carbonio e il meccanismo dei Redd+ non sono altro che false soluzioni che istituiscono una sorta di “diritto di inquinare”, in base al quale i paesi industrializzati continuano con le emissioni pagando “indulgenze” compensative che si risolvono nell'ennesimo ricatto verso i paesi del sud del mondo.
Che la logica di Copenaghen sia stata trasferita a Cancun è dimostrato anche dal ruolo centrale affidato qui in Messico alla Banca Mondiale, che paradossalmente, dopo esser stata tra i colpevoli della crisi economica ed ecologica, gestirà per i primi tre anni il Green Fund.
Ben lontani da incorporare nel proprio linguaggio espressioni come 'debito ecologico' , su cui invece i movimenti per la giustizia ambientale di tutto il mondo insistono, nei documenti si continua a puntare sull'urgenza del trasferimento tecnologico, ribadendo il ruolo centrale del settore privato e dei meccanismi finanziari.
Una “soluzione” palliativa che non risolve le cause principali, che facilita solo la creazione di nuovi mercati per le aziende già pronte a investimenti internazionali su larga scala e al mercato di nuove tecnologie definite 'appropriate per l'ambiente'. Tutto senza focalizzare l'impatto socio-economico, senza trattare degli effetti sulle popolazioni direttamente colpite e costrette alle migrazioni - che pure interesseranno anche i paesi più sviluppati, messi di fronte alla sfida posta dai nuovi e massicci flussi in entrata.
Dopo 5 anni di conferenza delle Parti nulla è stato risolto, anzi. Mentre a Cochabamba in soli tre giorni lo scorso aprile 40.000 delegati di 142 paesi e 40 rappresentanti di altrettanti governi avevano raggiunto un accordo che individuava le cause della crisi sistemica proponendo misure concrete per far fronte alla crisi climatica. Proposte che dopo essere state incluse nelle negoziazioni preliminari, sono rimaste lettera morta a Cancun, decisione che ha causato il no della Bolivia all'accordo finale.
La crisi ecologica non è fatta solo di cambiamenti climatici. È anche disastri ambientali, nuovi e massicci flussi migratori, distruzione di economie locali, violazione del diritto al cibo e alla salute e la distruzione di milioni di vite umane. Di fronte a questa consapevolezza nessun adattamento è possibile.
Parlare di giustizia climatica significa oggi in realtà parlare di relazioni di potere, di sistemi economici, processi produttivi e modelli di consumo. Per questo siamo più che mai convinti che per affrontare il maniera concreta la crisi sistemica (economica, ecologica, finanziaria, energetica, alimentare e migratoria ) occorra rimettere al centro la giustizia sociale ed ambientale.
È questa la scommessa concreta ed urgente che i movimenti e la società civile di tutto il mondo hanno iniziato ad assumere per unire sempre di più le lotte e le alternative in marcia dal nord ad sud del mondo, dalle fabbriche alle campagne, dalle città ai territori con un unico obiettivo comune: cambiare il sistema, non il clima.
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Dopo oltre vent’anni di silenzio ritornano. Per farsi sentire non badano a spese. I colossi dell’energia hanno infatti deciso d’investire 6 (sei) milioni di euro in una grande e suadente campagna pubblicitaria a favore del nucleare . (La fonte è il Sole 24 ore. ) In questi giorni sugli schermi televisivi appare una partita a scacchi. Primissimo piano sulla scacchiera e sulle mani che muovono i pezzi. I due interlocutori accompagnano ogni mossa con una affermazione. Dice uno dei giocatori: “Sono contrario all’energia nucleare perché mi preoccupo dei miei figli.” Talmente generico che appare quasi come un pregiudizio. Facile la replica del secondo scacchista che afferrando il cavallo afferma : “Io sono favorevole: anche loro avranno bisogno di energia e tra 50 anni non potranno più contare solo sui combustibili fossili.” Possiamo forse negare che il petrolio è in via di esaurimento? Commovente: si prodigano per il futuro dei nostri figli. Naturalmente gli spot televisivi sorvolano sui problemi della sicurezza e minimizzano il non risolto problema dello smaltimento definitivo delle scorie, lungamente e altamente radioattive. Eppure non c’è un solo sito sicuro e funzionante in tutto il mondo e gli USA hanno abbandonato, dopo anni d’inutili esperimenti, costati 8 miliardi di dollari, il deposito di Yucca Mountain in Nevada.In questo spot non viene toccato il tema dei costi. Forse perché autorevoli studi, come il recente rapporto del MIT, Massachustts Insitute of Tecnology, valutano il costo dell’elettricità da nucleare maggiore di quello prodotto sia dal gas che da fonti rinnovabili. Non è un caso che il 61% della nuova potenza elettrica installata in Europa nel 2009 è rappresentata da impianti alimentati da fonti rinnovabili. Ma, non possiamo certo pretendere che queste informazioni ci vengano fornite da chi punta a fare affari con il nucleare. Domandiamoci piuttosto perché sentono il bisogno di convincerci sulla bontà di un ritorno al nucleare nel nostro paese. Non si sentono al riparo dalle decisioni già assunte dal governo?
Tre notizie sembrano preoccupare realmente la lobby dell’atomo. La prima. Ieri (21 dicembre) sono state consegnate alla Camera dei deputati le firme a sostegno della proposta di legge d’iniziativa popolare“Sviluppo dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili per la salvaguardia del clima”.Decine di migliaia di firme, di cui oltre 8000 di cittadini del Veneto, per dire no al nucleare e si alle energie rinnovabili. Un’occasione per il tanto vituperato parlamento di recuperare credibilità affrontando i problemi veri sollevati dai cittadini. La seconda. La recente delibera del governo non convince le Regioni che si riservano un diritto di veto, territorio per territorio,sul nostro “rinascimento atomico”. La terza. L’appello di 200 imprenditori guidati dal vice Presidente di Confindustria Pistorio, contro la follia del nucleare. In particolare questi ultimi sostengono che non si possono sommare tutti gli investimenti possibili, occorre scegliere. Non ci sono soldi per investire su tutto. L’appello recita “Lo scenario prospettato dal Governo, 25% di elettricità atomica e 25% di rinnovabili al 2030, comporterebbe una enorme distrazione di risorse a discapito delle nuove energie (efficienza energetica e rinnovabili). La costruzione delle centrali nucleari interesserebbe, peraltro, una piccola minoranza di società italiane, mentre larga parte degli investimenti finirebbe all’estero. Nella migliore delle ipotesi, quando fra 10-12 anni si iniziasse a generare elettricità nucleare, se ne avvantaggerebbero pochi comparti industriali energivori e sarebbe lo Stato, attraverso la fiscalità generale, o gli utenti attraverso l’aumento delle bollette, a cofinanziare il nucleare. Questo perché il costo delle nuove centrali è estremamente oneroso”. In sostanza la scelta nucleare determinerebbe, necessariamente, una sottrazione di intelligenze, di risorse economiche, per giunta durante la peggiore crisi degli ultimi due secoli, rispetto ai più promettenti settori dell’efficienza e delle rinnovabili che saprebbero attivare, come in parte stanno già facendo, ricadute economiche e occupazionali immediate.
Considerato anche il limitato consenso nel Paese, pensiamo che il progetto nucleare si arenerà, ma avrà fatto perdere all’Italia tempo e ricchezze. Per questa ragione ci siamo rivolti al Parlamento con una proposta di legge che si propone non solo l’obiettivo di bloccare il tentativo di tornare al nucleare in Italia ma anche e soprattutto quello di mettere ordine nelle scelte degli investimenti, occupazionali, ambientali e di tutela della salute che sono il risultato di un’azione coerente di salvaguardia del clima, almeno per la parte che dipende da noi. Ci rivolgiamo però anche al Presidente Zaia perché anche nel Veneto, come sta facendo per esempio l’Emilia Romagna, si adotti un Piano energetico regionale improntato all’efficienza energetica: un piano di riqualificazione energetica degli edifici che ne riduca i consumi di elettricità e calore e sposti le attività del settore edile verso la manutenzione e riqualificazione del già costruito abbandonando la cementificazione del territorio (le recenti alluvioni non hanno insegnato nulla?); un piano per sottoporre il Veneto ad “una cura del ferro” per spostare la mobilità delle persone dalla gomma al ferro, metropolitana di superficie e tram, e al cabotaggio sulle autostrade del mare e le idrovie, concentrando in questa direzione gli investimenti anziché su strade e nuove devastanti autostrade.
E poi serve una più attenta pianificazione per l’installazione delle fonti rinnovabili (solare termico e fotovoltaico) privilegiando l’istallazione sui capannoni e le case ed escludendo i terreni agricoli e ancora, mini impianti geotermici, eolici e idroelettrici su piccoli salti.
Pensate forse che questo sia il programma dei soliti ambientalisti sognatori che, come ironizza Tremonti, “si trastullano con i mulini a vento”? Allora vi consiglio per le vacanze natalizie una interessante lettura che vi spiazzerà. Si tratta delle “Proposte di Confindustria per il Piano Straordinario di Efficienza Energetica 2010”. Lo studio, ricco di analisi di dettaglio, giunge alle seguenti conclusioni di sintesi: “Il complesso delle misure di efficienza energetica nei vari settori industriali porterebbe ad un risparmio potenziale del nostro paese nel periodo 2010 – 2020, pari a oltre 86 Mtep di energia fossile, per raggiungere la quale si attiverebbe un impatto socio-economico pari a circa 130 miliardi di euro di domanda, un aumento della produzione industriale di 238,4 miliardi di euro ed una crescita occupazionale di circa 1,6 milioni di unità di lavoro standard”. Dunque unmilioneseicentomila posti di lavoro contro i diecimila propagandati dai promotori del nucleare. Per giunta con un effetto positivo sul bilancio statale. Non è materia sufficiente per aprire un dibattito pubblico?
L’autore è responsabile del dipartimento Ambiente e territorio della CGIL Veneto
In Europa nascono interi quartieri dove la macchina è vietata. Ma le città italiane segnano il passo, 30 anni dopo la prima isola pedonale
A ricordarlo o raccontarlo oggi c´è da non crederci. Eppure era così. Piazza Navona a Roma, Piazza del Duomo a Milano, Piazza del Plebiscito a Napoli... Trent´anni fa chi si fosse affacciato dalla finestra su una di queste icone del nostro Paese, avrebbe "ammirato" un tappeto di automobili in movimento o parcheggiate. Uno sfregio di lamiera a scenografie antiche, medievali, rinascimentali, barocche, che si ripeteva immutabile nei centri storici di ogni città italiana. Piccola o grande che fosse.
Poi, il 30 dicembre del 1980, la svolta. La giunta comunale di Roma guidata dal sindaco Luigi Petroselli, approvò la norma che avrebbe cambiato profilo al volto urbano del nostro Paese: il nuovo assetto dei Fori Imperiali con il divieto di circolazione delle auto a ridosso del Colosseo. "Partiamo in questa operazione da una situazione di emergenza dovuta ai gas di scarico degli automezzi e alle vibrazioni causate dal traffico", spiegò Petroselli con parole che ancora calzerebbero a pennello per un sindaco dei nostri giorni. Era la prima isola pedonale nella storia d´Italia e da quel giorno, anche se a gran fatica per l´iniziale opposizione delle lobby dei commercianti, la cultura delle aree libere dal traffico si sarebbe diffusa nel resto del Paese. Ultimo tassello in ordine di tempo, la pedonalizzazione nell´ottobre dello scorso anno di Piazza Duomo a Firenze. Un quadro confortante ma che, come vedremo, ci vede in abbondante ritardo sul resto d´Europa, dove ormai non si parla più di isole pedonali ma direttamente di interi quartieri "carfree". Una rivoluzione culturale impensabile per un Paese, come il nostro, dove il 30,8% degli spostamenti motorizzati avviene su tragitti inferiori a due chilometri.
Oggi in Italia - secondo i dati di "La città ai nostri piedi", un rapporto realizzato da Legambiente e Aci (Automobile club d´Italia) in occasione, appunto, del trentennale della prima isola pedonale - ogni 100 abitanti ci sono una media di 34 metri quadrati di zone interdette al traffico motorizzato (Venezia, naturalmente, insieme a Verbania, Cremona e Terni sono i centri in testa alla graduatoria con più di 100 metri quadrati ogni 100 abitanti, mentre in coda troviamo un drappello di città - da Agrigento a Ascoli Piceno, da Caserta a Rovigo - dove le isole pedonali non esistono). Nel complesso, i capoluoghi di provincia che adottano le isole pedonali sono 93, con effetti positivi ormai indiscutibili: riduzione del livello di smog e rumore, aumento degli utenti del trasporto pubblico, migliori tutela dei monumenti e valorizzazione turistica, aumento della vivibilità e della sicurezza sia stradale che generale, rivalutazione del mercato immobiliare. E, soprattutto considerando le iniziali perplessità dei negozianti, l´innalzamento del volume d´affari delle attività commerciali non inferiore al 20%.
Ma i trent´anni di isole pedonali in Italia impallidiscono davanti ai quasi sessanta dell´Olanda, apripista europea con la chiusura al traffico nel 1953 di Lijnbaan, principale distretto commerciale di Rotterdam. Oltre mezzo secolo di cultura del pedone che da qualche anno si è trasformata in qualcosa di diverso e di più ambizioso: la creazione di interi quartieri completamente liberi dal traffico dei mezzi motorizzati.
Come a Vienna, dove c´è l´esperienza consolidata dell´Autofrei Siedlung di Nordmanngasse, un´area residenziale a circa 8 chilometri dal centro servita in modo perfetto dai mezzi pubblici: le circa 600 famiglie che abitano lì, al momento della firma del contratto si sono impegnate a non possedere un´auto propria, scegliendo così per gli spostamenti quotidiani i mezzi pubblici, la bicicletta o i piedi. "Il denaro e lo spazio risparmiato grazie alla mancata costruzione dei parcheggi sottolinea il rapporto di Legambiente possono essere investiti in migliore qualità residenziale, spazi verdi, servizi collettivi". E dopo Nordmanngasse è già in progettazione una replica, Bike City, con 3.400 persone che hanno già prenotato un appartamento. Tornando in Olanda, anche Amsterdam ha il suo quartiere carfree: GWL Terrein, realizzato negli anni Novanta su un´area di 6 ettari che in precedenza era occupata da un grande impianto di trattamento dell´acqua. A GWL Terrain vivono circa mille persone e tra un edificio e l´altro ci sono soltanto sentieri, piste ciclabili e prati. L´accesso è consentito esclusivamente ai mezzi d´emergenza, mentre per disincentivare l´uso dell´auto i parcheggi edificati a ridosso del quartiere possono contenere non più di 135 mezzi. E´ attivo un servizio di car sharing (auto in multiproprietà) utilizzato dal 10% degli abitanti e gli altri preferiscono la vasta rete di piste ciclabili e le linee tramviarie intorno al quartiere.
Dall´Olanda alla Scozia. L´insediamento di Slateford Green, a Edimburgo, è sorto su una zona precedentemente occupata dalla ferrovia: 251 appartamenti senza un solo posto auto privato. Anche in questo caso esistono servizi di trasporto pubblico efficientissimi, il car sharing e scuole facilmente raggiungibili a piedi. Risultato: solo il 12% delle famiglie possiede un´auto, parcheggiabile naturalmente soltanto fuori dal quartiere. Indicativo per l´intero fenomeno delle città carfree, uno studio condotto a Slateford Green dall´Università del Canada ha rivelato che la gran parte dei residenti ha rinunciato all´auto non tanto per una scelta ambientalista o di responsabilità civile, quanto piuttosto per convenienza economica e per necessità.
Rimanendo in Gran Bretagna, anche Londra ha il suo quartiere libero da auto. Si chiama BedZed (BedZed (Beddington Zero Energy Development) ed è autosufficiente dal punto di vista energetico e a bilancio zero in fatto di emissioni di anidrite carbonica. Un centinaio di case, 3000 metri quadrati di uffici, negozi e impianti sportivi, un centro medico-sociale e un asilo nido: per scoraggiare l´uso delle auto, è stato promosso lo shopping online e messo a disposizione degli abitanti un parco di mezzi gestito in car sharing e car pooling (utilizzo della vettura da parte di un minimo di tre persone). Disponibile, inoltre, una piccola flotta di scooter elettrici per gli spostamenti più brevi.
In Germania, a 3 chilometri da Friburgo (città che adottò le isole pedonali già negli anni Settanta), a partire dal 1998 si sta sviluppando quello che potrebbe diventare l´insediamento carfree più grande d´Europa, con circa 6000 abitanti e 2000 edifici. Piste ciclabili, spazio limitato per i posti auto, bus e ferrovia leggera efficienti: uno schema che a Vauban è partito dal basso, ovvero dall´associazione di cittadini "Forum Vauban" che ha partecipato a tutti i progetti di edificazione del quartiere. Tra le idee realizzate, il pagamento di una tassa a parte per chi sceglie di possedere un´auto, con il gettito destinato alla costruzione e alla gestione dei parcheggi. Una zona carfree che in Germania esiste anche a Kronsberg, nel distretto di Hannover, dove si è sfruttata l´occasione dell´Expo del 2000 per minimizzare il fabbisogno di mobilità motorizzata.
E in questo elenco non poteva mancare la Svezia. A Malmö, il nuovo quartiere residenziale di Augustenborg ha puntato esclusivamente su vie pedonali, piste ciclabili e mezzi pubblici. Così, solo il 20% delle famiglie possiede un´automobile, rispetto alla media comunque bassa dell´intera Malmö (35%); l´80% delle strade ha un limite di velocità fissato a 30 chilometri orari; il 40% degli spostamenti casa-lavoro avviene in bici; gli autobus sono alimentati a gas naturale o biogas; la rete dei tram è molto estesa; funziona un servizio di car sharing molto efficiente.
Una rassegna di chimere se si pensa alle città italiane nelle quali probabilmente non basteranno altri trent´anni per approdare ai quartieri carfree. Legambiente e Aci, in un´inedita alleanza tra ambientalisti e automobilisti, provano comunque a guardare avanti con una serie di proposte alle amministrazioni locali e al governo: un´authority nazionale che coordini programmazione e interventi sul territorio; una legge quadro che introduca criteri generali per la realizzazione dei nuovi quartieri nelle città; un´altra norma quadro che fissi criteri uniformi per i provvedimenti di ogni Comune in tema di limiti alla circolazione delle auto; l´introduzione del pedaggio per l´accesso nei centri urbani; investimenti per rendere più efficienti e meno inquinanti i trasporti pubblici locali; pagamento del bollo auto in rapporto ai livelli di emissione e alla dimensione; incentivi al car sharing e al car pooling.
La palla, dunque, passa a esecutivo, sindaci e governatori. Intanto le isole pedonali continueranno la loro lotta di resistenza quotidiana contro l´assedio dell´esercito motorizzato.
Crisi o non crisi le famiglie italiane continuano a non indebitarsi troppo. Soprattutto nel confronto degli altri europei degli americani e dei giapponesi. Quando lo fanno, poi, è principalmente per accendere un mutuo e comprare casa, che rappresenta il pezzo forte del loro patrimonio. Lo rivela l’indagine Bankitalia sulla ricchezza delle famiglie italiane nel 2009, cioè il secondo anno di recessione, il più "nero"della crisi. Si tratta quindi di dati condizionati da una realtà congiunturale difficile, che confermano la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi fortunati ma che dimostrano anche che gli italiani, forse per la connaturata voglia di risparmiare e per l’attaccamento al mattone, resistono meglio di altri alle avversità dell’economia. La piramide del benessere non è molto cambiata negli ultimi anni: il 10%delle famiglie possiede quasi il 45%della ricchezza complessiva che solo per il 10%è suddivisa tra la metà più povera dei cittadini. E’ un dato che sorprende sempre anche se è ancora più stupefacente scoprire che la quasi totalità delle famiglie italiane ha una ricchezza netta superiore a quella del 60%delle famiglie dell’intero pianeta. Insomma nonostante tutto l’Italia appartiene alla parte più ricca del mondo. Il confronto internazionale premia gli italiani anche sui debiti: sono i più parsimoniosi visto che hanno passività pari al 78%del reddito disponibile contro il 100%di Germania e Francia, il 130%di Stati Uniti e Giappone, il 140%di Canada e il 180%del Regno Unito. Il 41%dei debiti delle famiglie italiane è rappresentato dai mutui per l'acquisto della casa che è la parte preponderante del loro portafoglio: circa 196 mila euro a nucleo (4.667,4 miliardi complessivi, cioè oltre l’ 82%dei beni reali posseduti). La componente finanziaria è più conten
uta e i Bot sono decisamente scesi nella lista delle preferenze degli italiani che preferiscono tenere i soldi liquidi in banca o in Posta o nell’investimento in Borsa. In complesso la ricchezza lorda delle famiglie italiane alla fine del 2009 era stimabile in quasi 9.500 miliardi di euro, quella netta in 8.600 miliardi, corrispondenti a circa 350 mila euro in media per famiglia. Nel 2010 le cose sembrano essere andate peggio: tra gennaio e giugno la ricchezza netta delle famiglie sarebbe diminuita dello 0,3%in termini nominali.
L’astutissima intervista in cui Bersani liquida le primarie e annuncia di volersi alleare con Fini e Casini anziché far fronte comune con Vendola e Di Pietro ha finalmente ricompattato il popolo dei democratici. Lo si evince da una passeggiata nel sito del Pd.
«Sono un ex iscritto e tra poco sarò un ex elettore» (Francesco). «Ma Fini è di destra! Come è possibile anche solo pensare a un’alleanza con lui?» (Michele). «Stasera restituisco la tessera» (Francesca). «Così non andiamo da nessuna parte, anzi sì: al suicidio» (Chiara). «Mi domando cosa avete nel cervello. Ma davvero le partorite voi queste cavolate? Andatevi a nascondere e non fatevi più rivedere!» (Gianni). «Cacchio, ma si può?» (Gian Piero). «Se succede, lascio il partito in un secondo» (Gianluca). «Bersani fa bene, sono d’accordo con lui» (Fassina, ma forse è la sorella dell’ex segretario). «Cioè, fatemi capire: dovrei scegliere alle prossime elezioni fra Fini e Berlusconi?» (Alessandro). «Dopo la fatica che abbiamo fatto a liberarci di Binetti e Rutelli, paffete che ci ritroviamo a subire i loro veti!» (Monica). «State ancora una volta riuscendo a rivitalizzare Berlusconi. Sono allibito» (Stefano). «Ero un ventenne che aveva trovato una piccola speranza. Ora lei me l’ha spenta di nuovo. Grazie, segretario» (Riccardo). «D’ora in poi come inizierà i suoi comizi? Cari democratici, cari compagni, cari camerati?» (Concita). «Grazie a tutti quelli che stanno commentando l’intervista» (Pier Luigi Bersani). «Segretario, tu ci ringrazi, ma i commenti li leggi o guardi solo le figure?» (Monica).
L’urbanista Italo Insolera è stato fra i protagonisti di quel movimento di intellettuali e di politici che portò al primo esperimento, trent’anni fa, dell’isola pedonale intorno al Colosseo. «La scelta del sindaco Luigi Petroselli fu presa dopo l’allarme lanciato dalla Soprintendenza sui danni che i gas delle macchine arrecavano al Colosseo e all’Arco di Costantino. Ma per noi – oltre a me, Leonardo Benevolo, Adriano La Regina, Antonio Cederna e altri ancora – quella chiusura era il primo passo in vista di una chiusura totale di tutta l’area archeologica romana. Avevamo in mente una soluzione urbanistica, non solo a salvaguardia del patrimonio storico-artistico».
Dunque un’isola pedonale risponde a esigenze più ampie?
«Certamente. Il primo progetto per realizzare un’area archeologica dall’inizio dell’Appia antica fino a Piazza Venezia risale al 1887. Non c’erano ancora le macchine, ma s’immaginava comunque di consegnare ai romani un grande spazio per passeggiare. Il Fascismo decise invece che da lì sarebbe partito il grande stradone che portava al mare, l’attuale via Cristoforo Colombo. Ma quando riprendemmo il progetto di pedonalizzazione la nostra idea era di impedire alle macchine di raggiungere piazza Venezia e di realizzare un profondo cuneo di verde e di storia antica».
Quel progetto si arenò?
«Sì. Rimase solo la pedonalizzazione intorno al Colosseo, ma la rimozione della via dei Fori Imperiali fu cancellata. Si è realizzato meno di un decimo di quel che si immaginava nel 1887».
Ma quanto serve, in generale, un’isola pedonale?
«Produce molti effetti sulla vita delle persone. Basta dare uno sguardo alle piazze sottratte alle macchine: sono piene di gente, sono spazi di convivenza. Il punto è che ce ne sono molto pochi perché non c’è sufficiente attenzione alla dimensione pubblica della città. Laddove questa è elevata gli effetti sono vistosi. Ogni quartiere dovrebbe avere le sue piccole isole pedonali, ma purtroppo non è fra le priorità di molte amministrazioni italiane».
Nella sua esperienza di urbanista ci sono anche isole pedonali?
«Sì, numerose. Ma una delle più significative è quella che abbiamo realizzato a Lucca: un’isola pedonale a tempo, nelle strade che i bambini percorrevano quando andavano o uscivano da scuola».
In Europa non ci sono solo isole, ma interi quartieri pedonali.
«Da noi molto meno. Un quartiere romano che potrebbe fare a meno delle macchine è la Garbatella. E poi aree interamente pedonali si possono progettare nei nuovi quartieri, evitando che lo spazio pubblico sia ridotto a centro commerciale».
«Una volta c'erano i campi di sterminio, ora lo sterminio dei campi», disse il poeta Andrea Zanzotto del suo Veneto "assatanato di cemento". I capannoni consumavano via via le campagne, assediavano le città, sfregiavano le ville palladiane, in nome del miracolo industriale del Nord Est, dei distretti, della ricchezza diffusa che sconfiggeva la povertà endemica e la pellagra. Ma mai Zanzotto avrebbe potuto immaginare che tanti anni dopo la sua accorata denuncia e le ricorrenti alluvioni in una terra cementificata e senza più capacità di assorbimento, in balia della pioggia, del Bacchiglione e degli altri corsi d'acqua, la regione leghistizzata avrebbe varato, praticamente senza significativa opposizione, una modifica alla legge urbanistica del 2004 che apre praterie sconfinate alla speculazione.
Mentre il presidente Luca Zaia si affannava alla ricerca dei primi 300 milioni necessari per far fronte al miliardo di danni dell'alluvione del novembre scorso, che colpì 328 comuni, 3.433 imprese e fece due morti, il consiglio regionale approvava con 36 presenti su 60 e con l'astensione del Partito democratico, una norma che consente a chiunque di ristrutturare edifici su terreni agricoli, ampliandoli fino a 800 metri cubi. Il che significa la possibilità di costruire una palazzina di tre piani al posto di un rudere di 30 metri quadrati.
Ciò a cui si va incontro lo ha ben sceneggiato il vicesindaco e assessore all'Urbanistica di Cortina Stefano Verocai, proiettando gli effetti della norma sul territorio del suo comune. Nei prati della città dolomitica sono censiti 200 baracche e ruderi, spesso apiari da 30 metri quadrati, che chiunque può adesso trasformare in ville da 270 metri o in palazzine con tre appartamenti da 90 metri quadrati. Fin qui, anche in seguito a un ricorso al Consiglio di Stato, la norma era limitata agli agricoltori che ristrutturavano i ruderi per insediarvi un'azienda agricola, coltivare la terra e abitarvi con la famiglia.
Dimenticato l'incentivo ai giovani coltivatori, l'ex ministro dell'Agricoltura Zaia ha preferito i palazzinari e ha scoperto le carte della speculazione.
Chiunque può fare incetta di baracche e costruirsi l'affare milionario della vita, dal momento che il plusvalore delle future nuove case nella località che ha i prezzi del metro quadrato tra i più alti d'Italia, è valutabile in 800 milioni di euro. L'ulteriore paradosso è che con questa nuova legge a Cortina si può edificare soltanto in zona agricola, mentre continua ad esserci il divieto di costruzione in zone a vocazione edilizia.
«Se non si ravvedono e non modificano la norma, inviterò il popolo ampezzano a scendere in piazza con i forconi», avverte il battagliero vicesindaco, il quale si interroga sull'indifferenza manifestata su una legge così nefasta dalla timida opposizione del Pd al governo regionale leghista, che sembra ben più interessato alle banche, alla sanità e al cemento che alla difesa del territorio. Si vede che la catastrofe ecologica come direbbe il poeta di Pieve di Soligo è non solo del territorio, ma anche delle menti.
Bascetta, Il pensiero unico organizza la riscossa
Pantaleo (CGIL) Le proteste non sono un problema di ordine pubblico
Vecchi, Atenei aperti (ai privati) e città bloccate
Università, il pensiero unico
riorganizza la riscossa
di Marco Bascetta
Domani il ddl Gelmini tornerà in aula. È una scelta criminale, una provocazione scellerata. Il segno di una arroganza che sfocia nell'idiozia. Un messaggio irricevibile: con una maggioranza di tre nullità a buon prezzo, con una opposizione sociale gigantesca e determinata e il rifiuto di gran parte del mondo della cultura e dell'università, procederemo comunque, useremo fino in fondo il potere di cui disponiamo, quello dei voti come quello dei manganelli per imporre la nostra volontà.
Spirito di vendetta? Astiosa resa dei conti con il fronte sconfitto della sfiducia? Grottesca simulazione di una capacità di governo ormai irrimediabilmente liquefatta? Perchè tutto questo accanimento, questa fretta di segnare il punto? Questa strategia di sfondamento? Il fatto è che intorno alla riforma dell'università si gioca una partita, simbolica e politica, di enorme portata e di lungo periodo. Berlusconi e i suoi federali lo capiscono benissimo, l'opposizione centrista e perfino di sinistra, è restia a rendersene conto, come se si trattasse di una pacata disputa legislativa sui dettagli.
Il primo elemento che dovrebbe saltare agli occhi di tutti è che mettere in calendario il ddl Gelmini con questi tempi e in questo clima configura un preciso stile di governo: quello di un potere che disponendo di una maggioranza, comunque raccattata, agisce a prescindere dalla situazione sociale del paese come pura e semplice affermazione di autorità. Chi, pur apprezzando per un verso o per un altro questa pessima riforma, è disposto ad accettare un siffatto stile che assomma l'onnipotenza berlusconiana alle esibizioni muscolari di Maroni e La Russa? Senza rendersi conto che l'approvazione del disegno di legge potrebbe comportare una catastrofe ormai annunciata in ogni modo.
Ma vi è un secondo elemento ancora più importante: la normalizzazione aziendalista dell'università configura un modello sociale complessivo. Un modello che espelle dal suo orizzonte l'idea stessa dell'investimento come investimento sociale, che nega alla radice qualunque possibilità di concepire la crescita culturale di un paese come processo collettivo, e che, sotto le bandiere del «merito», stabilizza e inasprisce gli strumenti di ricatto che disciplinano il mondo del lavoro precario.
Un modello che non concepisce affatto i «tagli» nemmeno come una dolorosa necessità, ma come un principio di giustizia, quasi divina, e una straordinaria occasione per redistribuire i redditi verso l'alto. Un modello, infine, che cerca di riaffermare, costi quel che costi, i principi e le politiche neoliberiste infragiliti e attanagliati dalla crisi. È insomma a partire dall'Università e dall'intero sistema della formazione che il «pensiero unico» e il «non ci sono alternative» sta riorganizzando la sua riscossa, radunando le file, affilando le armi. Per questo non mollano e per questo sono disposti a tutto.
Facciamo i debiti scongiuri e ristabiliamo le debite proporzioni, ma la questione dell'università occupa nella testa (e nella pratica) dei poteri dominanti, da Londra a Roma a Parigi, lo stesso posto che i minatori, a suo tempo, occuparono in quella della «lady di ferro» e i controllori di volo nella testa di Ronald Reagan. È il fronte da spezzare, l'avversario da sbaragliare per predisporre il campo del presente, e soprattutto quello del futuro, all'esercizio incontrastato del potere e del profitto. È il «nulla sarà più come prima», è l'aggressione selvaggia a qualunque pretesa di benessere sociale, di libertà individuale e di rilevanza politica. Non si levano forse da tutte le parti gli inviti all'«umiltà», alla riduzione delle aspettative e all'arte di arrangiarsi? Rivolte indifferentemente a studenti, operai e lavoratori precari?
Certo, i minatori e i controllori di volo hanno perso: gli era difficile parlare all'insieme della società. I primi perchè legati a tradizioni e forme produttive in evidente declino, i secondi per la loro specificità corporativa. Ma con il lavoro cognitivo è tutta un'altra storia. Non si può sostituirlo con le macchine e gli schiavi, né farlo svolgere dai militari. Una certa libertà ne è l'indispensabile carburante, penetra le fabbriche e i più diversi comparti produttivi. Non nutre nostalgie, ma non accetta la chiusura del futuro.
L'Università, insomma, può parlare oggi alla società tutta intera. Chi avesse avuto la pazienza di ascoltare come la città di Roma ha percepito l'insorgenza del 14 dicembre, avrebbe facilmente registrato la sovrapposizione della mobilitazione studentesca all'insieme della condizione giovanile e non solo. Non si parlava degli «studenti», ma di gente derubata del futuro, e di una classe politica complice o impotente. Quanti, nell'aula parlamentare, si troveranno a partire da domani a fare i conti con il colpo di mano del governo sappiano che della complicità o dell'impotenza saranno chiamati a render conto. È proprio a loro che ingiungiamo, per una volta, di isolare i provocatori e i violenti che siedono sui banchi del governo. Quanto alla piazza, ai movimenti, si può star certi che non resteranno a guardare. Non possono farlo. La posta in gioco è troppo alta. Troppo seria per lasciarla alla miseria di questa politica.
Pantaleo (CGIL) Le proteste non sono
un problema di ordine pubblico
intervista di Roberto Ciccarelli
«Siamo l'unico paese europeo in cui il declino peggiora ogni giorno - afferma Domenico Pantaleo, segretario della Flc-Cgil - ma le proteste giovanili vengono trattate come un problema di ordine pubblico. Non dimentichiamo che siamo in un sistema autoritario, c'è l'idea che i conflitti vanno annichiliti, mentre la politica si rinchiude nei palazzi».
Per questo il ministro dell'Interno Maroni propone di estendere il Daspo alle manifestazioni?
Non sono d'accordo, la prevenzione degli incidenti nel corso delle manifestazioni deve avvenire in maniera diversa. Il Daspo è un provvedimento adottato per gli stadi e rischia di impedire la libera partecipazione ai cortei. Fermo restando che bisogna mettere in campo le iniziative necessarie per prevenire i disordini, mi auguro che le prossime manifestazioni siano pacifiche e chiedo al governo di permettere agli studenti di manifestare liberamente.
Come giudica la campagna di diffamazione e criminalizzazione in atto contro gli studenti e i ricercatori?
Molto negativamente. Come Flc rivendico il dialogo politico con il movimento studentesco e quello dei ricercatori che è stato utile per noi, come anche per loro. Il nostro rapporto è iniziato con l'Onda quando gli studenti si sono opposti al Disegno di legge Gelmini e alla politica dei tagli alla scuola e all'università voluta dal ministro dell'Economia Tremonti. Questo rapporto si è rafforzato da quando il loro movimento reclama un modello di sviluppo basato sui beni comuni e alternativo a quello neo-liberista. Stiamo lavorando ad una piattaforma comune da più di un anno, cioè da quando abbiamo promosso un'assemblea con gli studenti e i ricercatori precari alla Sapienza. Insieme a loro abbiamo partecipato alla manifestazione Fiom del 16 ottobre e a quella del 27 novembre in quella della Cgil. E presto lanceremo il percorso degli «stati generali della conoscenza» rivolto a tutti i soggetti che vivono e lavorano nel ciclo dell'istruzione pubblica.
Come giudica gli incidenti visti a Roma martedì scorso?
Ribadisco la mia ferma condanna per quegli atti di violenza. Altra cosa però è l'indignazione espressa in quella piazza. Quella bisogna comprenderla per evitare che le nuove generazioni cadano nella disperazione o nell'isolamento. Gran parte delle tensioni di questi giorni sono dovute al fatto che questo movimento fa paura al governo, rivendica un sistema sociale all'altezza del benessere delle persone ed è capace di costruire alleanze sociali e di conservare il consenso che si è guadagnato nella lotta contro il Ddl Gelmini. Rispetto alla generazione del niente diritto allo studio, lavoro stabile o stato sociale, senza alcuna garanzia per il reddito o per la pensione, qui si è iniziato a rivendicare il diritto al futuro.
Chi è il protagonista di questa rivolta generazionale?
Il lavoro della conoscenza altamente qualificato che ha perso identità ed è stato ridotto alla condizione di sottoproletariato. È questo il protagonista di uno scontro di classe per molti versi inedito in questo paese. La nuova generazione degli studenti ha ormai capito che un alto tasso di scolarità non garantisce alcuna mobilità sociale, l'apprendimento non garantisce l'emancipazione né l'affermazione professionale nella vita. In più questa società gli nega qualsiasi spazio alla cultura, al reddito e alla libertà. È una situazione soffocante contro la quale il movimento propone un'alternativa di civiltà.
Quale?
La cultura di destra ha fino ad oggi sostenuto che le persone da sole possono essere più libere di realizzarsi. Questi ragazzi dicono che solo collettivamente si può cambiare il mondo. Oggi in campo non c'è solo un'opposizione al governo, ma una proposta che rovescia l'idea per cui il successo formativo dipende dal reddito delle famiglie e non dal valore del lavoro intellettuale. Per il movimento, la scuola e l'università non sono più legate all'aziendalismo, alla retorica della meritocrazia e alla selezione dei migliori. Vengono anzi considerati luoghi dove costruire forme di partecipazione dove le persone producono saperi e non sono soggetti passivi di apprendimento.
1990-2010
Atenei aperti (ai privati) e città bloccate
di Benedetto Vecchi
Anni di controrivoluzione. O di rivoluzione passiva, secondo il vecchio adagio gramsciano per indicare le innovazioni sociali, produttive e politiche che il capitalismo mette in campo dopo che si è consumata una sconfitta del suo antagonista storico, la classe operaia. Ma al di là della passione definitoria, gli anni Ottanta erano stati anni dove la sconfitta dei movimenti radicali degli anni Settanta aveva i colori sgargianti del made in Italy ed era illuminata dalle luce algide delle televisioni commerciali di un «furbetto del quartiere» che da lì a una mancata di anni, grazie a spericolate operazioni immobiliari rese possibili dai suoi rapporti con il gruppo di potere craxiano, avrebbe occupato la scene dei media e della politica per non abbandonarle per molti, troppi anni.
Per chi aveva conosciuto gli anni Settanta, il decennio successivo era l'anno dello scontento, della disillusione. L'unica possibilità concessa era capire cosa era accaduto non solo in Italia, ma in un mondo dove impazzavano Ronald Reagan e Margaret Thatcher, i migliori interpreti politici della controrivoluzione liberale.
E quando un pragmatico ministro annuncia che per migliorare la vita negli atenei italiani, le università devono avere l'autonomia finanziaria per attrarre i capitali che la crisi fiscale dello stato sociale non può garantire, il clima asfissiante e le luci tutte lustrini di alcune città italiane vengono cancellate da giovani cresciuti negli anni Ottanta e che dell'edonismo cosiddetto reaganiano ne hanno le scatole piene. È il movimento della Pantera, mix vitale di radicalismo vecchio stile e attitudine controculturale; di stile grunge o punk e forme di vita metropolitane.
La Pantera esplode a Palermo. Gli studenti delle altre città, in una dinamica quasi carbonara, tessono fili di una comunicazione che tuttavia diffondono il virus del movimento. Pochi mesi e il ritornello da stadio «la pantera siamo noi e chi cazzo siete voi?» è il verace mantra che accompagna i cortei. Identità sfuggente, mimetica, ma capace, nelle intenzioni, di graffiare e fare male. I media, come è di consueto, ignorano. E quando lo fanno si affannano a lanciare strali contro il Sessantotto o gli anni di piombo. La sinistra politica è annichilita dalla caduta del Muro e vede nella Pantera solo dei «bravi ragazzi».
In cerca di autonomia
Ogni movimento sociale inventa la sua tradizione e la Pantera non è da meno. L'ecologismo, le teorie della complessità, la dimensione controculturale degli anni Sessanta, le elaborazioni eterodosse della sinistra marxista e la narrativa cyberpunk sono frullate per elaborare un punto di vista che rivendica un'autonomia dal potere, punto di partenza ma anche fondamento del «fare movimento». Non è infatti un caso che molti degli attivisti della Pantera, una volta che il felino si è defilato, costituiranno la componente più riconoscibile dei centri sociali che fioriranno in tutta Italia. Centri sociali come zona temporaneamente autonoma, così come erano state pensate le facoltà occupate durante la Pantera.
La Pantera è un movimento difficile da definire. È fatto di studenti, va da sé, che si battono contro la proposta di Ruberti, ma parla un linguaggio che annulla i confini tra università e società in forme radicalmente diverse dal passato. Sono giovani cresciuti nell'Università di massa e ciò che rifiutano è un futuro scandito dalla logica del mercato, nel quale possono trovare un lavoro dequalificato. La precarietà di massa è dietro l'angolo, ma la forma dominante nei rapporti tra capitale e lavoro è ancora all'insegna del tempo indeterminato.
C'è inoltre un altro aspetto che va nominato. Riguarda l'ingombrante eredità della Pantera, cioè quel rapporto tra produzione di conoscenza e produzione di merci. Ingombrante perché le università sono sempre più diventate una istituzione preposta a formare forza-lavoro docile e bendisposta a un regime di precarietà a tempo indeterminato. «Batti il tuo tempo, fotti il potere», scandiva una posse negli anni della Pantera. Refrain sempre affascinante e che funziona anche adesso, a patto però che il tempo di cui si parla sia quello della lunga durata e non di una immanenza che si dissolve come la fiamma di una candela.
Il liberismo rapace
Sono passati due decenni e le Università sono di nuovo in rivolta. Ciò che la Pantera paventava come rischio è divenuto realtà. L'Università è divenuta un'agenzia di formazione di precari, mentre ai privati viene promesso di potersi prendere il meglio. Come ha scritto Naomi Klein, è nella crisi che prende forma un liberismo rapace e autoritario. Questa volta i giovani che vogliono scandire il proprio tempo sentono sulle loro spalle la crisi economica e che non la vogliono pagare. Quando manifestano ciò che diventa centrale non è una condizione studentesca ritenuta miserabile. Sono molto più sensibili a una condizione sociale generalizzata, quella che è riassunta nella parola «precarietà». Vedono un mondo dove le diseguaglianze sociali sono cresciute, dove la povertà è tornata a popolare la metropoli. Sono inoltre consapevoli che la loro vita avrà molte meno chance di quella dei loro genitori o nonni. Ma fuggono le passioni tristi del rancore o dell'invidia. Anzi si percepiscono come gli unici antidoti a quel clima claustrofobico e asfissiante che, come una cappa, instilla veleno nelle relazioni sociali. Sono cioè precari che parlano con altri precari, magari incatenati in una fabbrica o in un ufficio o che si «sbattono» tra un lavoro e l'altro.
Ricordare la Pantera significa quindi prendere le distanze da un'immagine patinata dei movimenti e fare i conti con una realtà dove la rivolta è un momento, certo rabbioso, di quel tentativo di trovare la strada per riprendersi il presente e il futuro. Può non piacere, ma questa è la realtà. E mette tristezza leggere chi ha nostalgia per l'immagine patinata dei movimenti e che prende le distanze da quanto sta accadendo. È il riflesso pavloviano di chi visto un pericolo nasconde la testa sotto la sabbia. Per chi invece vuol cambiare la realtà è difficile abbandona il campo, perché in politica i rischi vanno corsi. Con intelligenza e duttilità.
Ascoltato Maroni che si lamenta della magistratura e osservate le mosse di Alfano che ordina un´ispezione ministeriale, si deve concludere che il governo non ha capito o non vuole capire che cosa è accaduto a Roma il 14 dicembre. Peggio, sembra non comprendere che cosa può accadere mercoledì prossimo quando al Senato sarà approvata definitivamente la "riforma Gelmini". Questo provvedimento ormai non parla più soltanto dell´università o agli studenti e ai ricercatori.
È diventato il simbolo della crisi di una generazione e del suo futuro. Si è trasformato nella rappresentazione dell´indifferenza dei governanti per i governati, dell´incapacità del potere di ascoltare chi è in difficoltà e impaurito. È ormai l´allegoria del disinteresse della politica per la sofferenza del mondo del lavoro, per lo smarrimento di chi, colpito da una catastrofe (un terremoto, la crisi dei rifiuti), è stato abbandonato a se stesso.
Il 14 dicembre a Roma non è accaduto soltanto che un gruppo di violenti si sia impadronito della protesta e - poi - la violenza di ogni ragione. È accaduto che per la prima volta nei modi del tumulto (lasciamo perdere l´esasperazione di chi parla di «guerriglia») ha preso forma pubblica e collettiva un rancore senza speranza, la rabbia di un Paese incattivito, socialmente fragile, segnato «da forme sommerse di deprivazione, di vera e propria povertà e soprattutto di impoverimento», come documenta Marco Revelli nel suo Poveri, noi. Un Paese dove il prezzo della crisi - e delle soluzioni preparate dal governo - cala come un maglio sulla vita e sulle aspettative soprattutto dei più giovani. Le statistiche ufficiali ce lo raccontano. Per l´Osce, nei 33 Paesi maggiormente industrializzati, l´Italia è al penultimo posto per l´occupazione giovanile con il 21,7 per cento di occupati: soltanto uno su cinque lavora. Tra chi è occupato il 44,4 per cento ha un lavoro precario e il 18,8 lavora part-time. Tra chi è disoccupato, il 40 per cento lo è da lungo tempo e il 14,9 ormai non studia né lavora. D´altronde - dice Marco Revelli - «l´80 per cento dei posti di lavoro perduti tra il 2008 e il 2010 riguarda i giovani, quelli che erano entrati per ultimi nel mercato del lavoro, attraverso la porta sfondata dei contratti atipici, a termine, a somministrazione, a progetto... Precari nello sviluppo, disoccupati nella crisi, senza la copertura degli ammortizzatori, spesso senza neppure un sussidio minimo. I più istruiti e altamente qualificati, quelli che appartengono al "mondo dei cognitivi", alle nuove professioni come l´informatica, sono ormai ridotti a sottoproletariato».
Se rimuove questo quadro, il governo si impedisce di comprendere, ammesso che lo voglia, le ragioni della violenza. Non le ragioni di chi, vestito o no di nero, centro sociale o "cane sciolto", vuole "stare in piazza" con le pratiche dei black bloc e, prigioniero di un freddo nichilismo, non si fa alcuna illusione sulla democrazia e pensa - come il "blocco nero" - che «la violenza non sia un problema morale, è semplicemente la vita, il mondo in cui siamo capitati che non lascia altra strada che l´illegalità».
Queste ragioni sono inaccettabili e questa violenza va anticipata, isolata e ogni illegalità punita. È un´operazione che può avere un esito positivo soltanto se - in tutti coloro che il 14 dicembre non si sono opposti o hanno addirittura approvato quelle violenze - si alimenta una speranza nella democrazia e la fiducia nel dialogo con le istituzioni; se si attenua la convinzione diffusa in una larga fascia di giovani (16/35 anni) di essere le vittime sacrificali del declino, le anime morte della crisi.
Il messaggio che ieri il governo ha voluto diffondere è stato di segno opposto. Come se la crisi sociale rappresentata il 14 dicembre potesse essere affrontata come "questione di ordine pubblico", Maroni e Alfano hanno voluto dire soltanto della forza, con quale violenza e determinazione il governo avrebbe affrontato l´emergenza di nuovi tumulti. Lo hanno fatto nei soliti modi di un governo che crede in un diritto diseguale e immagina, per i potenti, un diritto debole e per i deboli leggi e dispositivi brutali. Questi campioni del "garantismo" che chiedono legittimamente per Cosentino, Dell´Utri, Verdini, Bertolaso l´accertamento della responsabilità personali, la verifica della fondatezza delle accuse e dell´attendibilità delle fonti di prova pretendono, abusivamente, un lavoro all´ingrosso per i giovani e giovanissimi arrestati a Roma l´altro giorno. Invocano, al di là delle prove, una detenzione esemplare non per le dirette responsabilità degli indagati, ma per le colpe di chi è riuscito a farla franca come se la stessa presenza a una manifestazione travolta dalle violenze sia già una prova di colpevolezza. Un´idea autoritaria che trova la sua dimostrazione nella insensata proposta del sottosegretario all´interno Alfredo Mantovano di allargare il "divieto di accedere alle manifestazioni sportive" (il D. a. spo.) dagli stadi alle piazze, come se una manifestazione di dissenso possa essere paragonata a una partita di calcio.
È l´avvilita idea di democrazia della destra berlusconiana. Ci deve consigliare attenzione perché non sarà con la forza e con "la repressione", invocata già a caldo dal ministro Sacconi, che si verrà a capo della crepa che si è aperta tra le generazioni più giovani e le istituzioni. Sarebbe azzardato e imprudente se un governo politicamente e socialmente debole decidesse di rafforzare se stesso allargando quella ferita, accendendo la collera invece di raffreddarla prestando ascolto alle ragioni del disagio.
Appennino Pistoiese, è mezzanotte di giovedì, la luna splende in un gelido cielo, non c’è da credere che domani nevichi, ma si sa, oggi le previsioni meteo sono quasi infallibili. A guardar bene c’è un sottile velo di cirrostrati che avanza da occidente, appena un alone attorno alla luna, eccolo lì l’indizio. Alba di venerdì 17, cielo plumbeo e primi fiocchi, alla stazione di Prato comincia a imbiancare per terra. Treni in ritardo, anche il mio intercity da Napoli, dove tuttavia non nevica e ci sono tre gradi. Passato l’Appennino i prati sono verdi, a Bologna termometro a meno quattro, qualche fiocco svolazzante e altri treni in ritardo.
La neve ricompare a Forlì e a Rimini ce ne sono dieci centimetri, un paesaggio fiabesco che prosegue lungo un ceruleo Adriatico fino in Puglia, dove però la nevicata si era fatta vedere soprattutto mercoledì e giovedì: a Bari appena una spruzzata. E non è certo la prima volta che le spiagge e l’entroterra pugliesi si imbiancano all’inizio dell’inverno: il 15 dicembre 2007 si verificò la fioccata più abbondante degli ultimi anni, con 15 centimetri di manto a Foggia e perfino una trentina nell’entroterra barese. Per non parlare del 1993, quando il 2-3 gennaio le stesse zone furono coperte da mezzo metro di neve sotto le gelide correnti balcaniche.
Ma allora perché ogni volta improvvisamente tutto si complica e diventa difficile, e per una decina di centimetri di neve anche l’informazione assume contorni apocalittici? Nemmeno si può invocare la sorpresa, perché le previsioni l’annunciavano da tre giorni. Sarà forse perché il nostro contatto con l’ambiente naturale si è affievolito, completamente allontanato dai nostri ritmi quotidiani fatti di affari sempre più cittadini, corse contro il tempo, realtà virtuali, fiumi di telefonate e valanghe di Internet, dove improbabili spot pubblicitari inneggiano ad automobili senza limiti che arrampicano impavide sul ghiaccio e contrastano con la goffaggine quotidiana di chi non riesce nemmeno a uscire dal garage, e meno che mai a montare le catene.
Sarà che una banale nevicata diventa come una scintilla che fa esplodere una società sempre sull’orlo del collasso. O sarà forse perché psicologicamente vogliamo che la nevicata sia un evento di stacco, di purificazione di un mondo sporco che ci piace sempre meno.
Allora questi pochi centimetri di bianco che ricoprono i nostri paesaggi abituali diventano occasione per desiderare un rinnovamento, un cambio di prospettiva. Ci lamentiamo dei disagi ma in fondo siamo contenti di aver avuto per una giornata un diversivo e una testimonianza che là fuori esiste ancora un pianeta dove le cose semplicemente avvengono senza il nostro controllo.
Ma intanto, tra poche ore sarà tutto finito: dopo i venti nordici arriveranno, a partire da domani, quelli atlantici più miti e umidi. La neve fonderà e lascerà il posto alla pioggia su molte regioni italiane. Così, passato il gelo, torneremo a lamentarci di altre faccende.