«Ex Caserma Masini. Oltre 10mila in piazza dopo gli sgomberi del Làbas e di Crash, l’8 agosto. Il sindaco Merola corre ai ripari e promette un’altra sede». Ha compreso che il potere urbanistico non è della CDP. il manifesto, 10 settembre 2017
Almeno diecimila persone in corteo a Bologna per «riaprire Làbas» ieri hanno cambiato il segno dell’estate dei manganelli e degli sgomberi. Tra i portici e i viali ha sfilato una densa rappresentanza plurale, e non riconciliata, della sinistra politica, dei movimenti e dei sindacati che hanno risposto all’appello degli attivisti dell’ex Caserma Masini sgomberata l’8 agosto scorso insieme al laboratorio Crash. Altrove diviso, spesso invisibile, stretto dalla repressione, questo schieramento è stato il risultato di una campagna efficace e l’effetto della percezione di un pericolo estremo: il deserto politico chiamato «legalità» e «decoro».
Gli sgomberi di Crash e Làbas sono stati considerati la goccia che ha fatto traboccare il vaso tanto a Bologna, quanto nel resto del paese. L’apice di una stagione di eventi drammatici, come quello dei rifugiati eritrei da piazza Indipendenza a Roma, mentre la politica è ostaggio dai poteri di polizia e della magistratura. In questo vuoto democratico, dove prevalgono le istanze di una legalità astratta e un razzismo diffuso, ieri è stata data una risposta di segno opposto. «Ogni città prende forma dal deserto a cui si oppone» sostengono gli attivisti di Làbas.
Non è mancata l’ironia sui paradossi della situazione. «Il popolo di Bologna sa tenersi cari i suoi poeti e anche i suoi ribelli – ha detto all’inizio del corteo Lodo Guenzi, il cantante de «Lo Stato Sociale», citando beffardamente una prolusione del sindaco Merola su Freak Antoni degli Skiantos – Una persona che piange al suo funerale faccia in modo che i ribelli di oggi diano nuova vita alla loro città».
La manifestazione è stata preceduta da un risultato importante. In una lettera il sindaco di Bologna Virginio Merola ha assicurato che entro due mesi sarà data a Làbas una soluzione «ponte». L’opzione più accreditata è quella di vicolo Bolognetti, già sede del quartiere San Vitale dove per cinque anni ha operato l’occupazione. Le attività di Làbas dovrebbero trasferirsi in seguito nell’ex caserma Staveco, dove sono previsti anche i nuovi uffici giudiziari. «Pensate che bello, gli uffici della legalità accanto alla vita della società. Comune è quello che fate voi, questo è il comune» ha ironizzato Alessandro Bergonzoni a una piazza XX settembre gremita.
A metà agosto su questa assegnazione è scoppiato un conflitto tra il sindaco e i magistrati bolognesi, contrari a questa soluzione. Per gli attivisti di Làbas, invece, si tratta di «una straordinaria conquista per la città» perché «ci permette di dare continuità e non disperdere le attività» che hanno riscosso il consenso degli abitanti di San Vitale. Il senso di questa «conquista» è considerato anche rispetto alle altre realtà sgomberate (Crash, che terrà un concerto-protesta in piazza Verdi giovedì 14) o sotto sgombero (XM24).
Il ritorno alla politica potrebbe arrestare la catena di sgomberi e rimettere in discussione il «Piano Operativo Comunale» (Poc) con il quale la giunta Merola (Pd) intende ridisegnare il futuro urbanistico di Bologna. Làbas chiede un cambio del Poc e un uso socialmente utile degli spazi e delle case vuote. Il criterio è quello della rigenerazione urbana realizzata attraverso processi di partecipazione e auto-governo, necessari per affrontare l’emergenza abitativa e la richiesta diffusa di culture e relazioni. Su queste pratiche a Bologna si può avviare un «processo di convergenza» tra «migliaia di persone» sostiene Detjon Begaj, consigliere di Coalizione civica nel quartiere di Santo Stefano.
Questo processo dovrebbe essere «sostenuto da attività organizzate dal basso che mirano a costruire qualcosa con le persone e non per gli utenti» sostiene un documento che ha raccolto l’adesione dell’XM24, Consultoria, Usb Asia e altre realtà. Una dialettica «non riducibile alla forma associativa o al patto collaborativo» precisano. Si tratta di una critica alla sussidiarietà del welfare che trasforma l’auto-organizzazione in un erogatore di un servizio che lo Stato non intende più fornire, e non in un «laboratorio di sperimentazione politica dal basso». In questa tensione, tipica di una democrazia conflittuale, si è collocato il corteo a cui hanno partecipato anche Maurizio Acerbo (Rifondazione), Giorgio Cremaschi (Eurostop) e i sindacati di base (Adl Cobas, Usb).
«L’amministrazione deve cogliere la ricchezza del corpo più profondo – sostiene Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana) – questi progetti non possono essere derubricati a semplice ordine pubblico». «La politica deve adattare gli strumenti amministrativi per rappresentare questa aspirazione e queste pratiche. Senza queste esperienze le città diventano più povere» commenta Federico Martelloni, già candidato sindaco e consigliere comunale per Coalizione Civica. «Il corteo ha avuto il grande merito di porre questione vere sul futuro di Bologna che vive la rivoluzione 4.0 nelle fabbriche e la trasformazione urbana – sostiene Michele Bulgarelli, segretario Fiom di Bologna – Si è creata una larga coalizione da Libera all’Anpi, all’associazionismo, realtà autogestite, partiti e sindacati a sostegno di un nuovo progetto».
«Viviamo in un mondo in cui i poteri al governo si sono mostrati ben disposti a sfruttare le crisi per portare avanti le proprie politiche più regressive, che ci spingono lungo la strada di un “apartheid climatico”». comune-info.net, 10 settembre 2017 (p.d.)
È giunto il momento di parlare del cambiamento climatico che rende disastri come Harvey catastrofi umane. In tv dicono che questo tipo di precipitazioni non ha precedenti. Che nessuno l’avesse previsto, e come quindi nessuno potesse prepararsi adeguatamente. Quel che non sentirete è il motivo per cui eventi climatici del genere stiano avvenendo con tale regolarità. Ci è stato detto che non si vuole “politicizzare” una tragedia umana, il che è comprensibile. Ma ogni volta che fingono che un disastro meteo sia una punizione divina, i giornalisti prendono una decisione altamente politica. Si vuole evitare controversie e non dire una scomoda verità. Perché la verità è che questi eventi sono stati previsti da tempo dagli scienziati del clima. Oceani più caldi provocano tempeste più forti. Livelli del mare più alti significa che le tempeste si riversano in luoghi mai raggiunti prima. Temperature più alte portano a precipitazioni estreme: lunghi periodi secchi interrotti da precipitazioni di neve o pioggia. Il tempo non si comporta più come una volta.
I record che vengono rotti anno dopo anno – per siccità, ondate di tempesta, incendi o caldo – stanno accadendo perché il pianeta è notevolmente più caldo di quanto non lo fosse all’inizio delle registrazioni. Coprire eventi come Harvey ignorando questi fatti, senza dare spazio agli scienziati del clima che li rendono chiari e non citando mai la decisione di Trump di ritirarsi dagli accordi climatici di Parigi, fallisce nel dovere fondamentale del giornalismo: fornire dati contestualizzati. Lascia al pubblico la falsa idea che questi disastri non abbiano cause e che non si possa far nulla per prevenirli. Vale anche la pena notare che la copertura su Harvey è stata altamente politicizzata fin da molto tempo prima che la tempesta toccasse terra. Ci sono state discussioni infinite su se Trump la stesse prendendo seriamente e su se questo uragano sarà il suo “momento Katrina”. Ovviamente si ignora convenientemente che mettere gli interessi delle società di combustibili fossili davanti alla necessità di un controllo dell’inquinamento sia una cosa decisamente bipartisan.
In un mondo ideale, tutti saremmo in grado di mettere in pausa le discussioni politiche fino a fine emergenza. Poi, quando tutti fossero al sicuro, avremmo un lungo dibattito sulle implicazioni. Cosa significa per il tipo di infrastrutture che costruiamo? Cosa significa per il tipo di energia su cui ci basiamo? (una domanda con nocive implicazioni per l’industria dominante nella regione colpita, quella di petrolio e gas). E l’iper-vulnerabilità alla tempesta di malati, poveri ed anziani cosa ci dice del tipo di reti di sicurezza che dobbiamo tessere, dato il sentiero traballante che abbiamo già intrapreso? Con migliaia di sfollati, potremmo anche discutere dei legami tra disgrazie climatiche e migrazione – dal Sahel al Messico – premettendo che gli Usa ne sono una delle cause. Ma non viviamo in un mondo che permette un dibattito del genere. Viviamo in un mondo in cui i poteri al governo si sono mostrati ben disposti a sfruttare le crisi per portare avanti le proprie politiche più regressive, che ci spingono lungo la strada di un “apartheid climatico”. L’abbiamo visto dopo l’uragano Katrina, quando i repubblicani non persero tempo per privatizzare il sistema scolastico, indebolire le leggi su lavoro e fiscalità, aumentare la perforazione e la raffinazione di petrolio e gas, e lasciare la porta aperta a società mercenarie come Blackwater. Mike Pence fu un architetto chiave di quel cinico progetto, e non dovremmo aspettarci niente di diverso nel dopo Harvey, ora che lui e Trump sono al comando.
Il presidente sta già usando la distrazione dell’uragano per perdonare Joe Arpaio e per militarizzare ulteriormente le forze di polizia. Sono movimenti particolarmente minacciosi, dato che controlli dell’immigrazione continuano ad operare ovunque le autostrade non siano inondate (grosso disincentivo all’evacuazione dei migranti) e che i funzionari municipali parlano di sanzioni massime per i “saccheggiatori” (vale la pena ricordare che dopo Katrina, diversi residenti afroamericani di New Orleans vennero sparati dalla polizia in mezzo a questo tipo di retorica). In breve, la destra non sprecherà tempo per sfruttare Harvey e qualsiasi altro disastro simile, per spacciare false soluzioni, come militarizzare la polizia, creare più infrastrutture di petrolio e gas e privatizzare i servizi. Le persone informate devono citare le reali cause di questa crisi – collegando i punti tra inquinamento climatico, razzismo sistemico, insuccesso dei servizi sociali ed eccesso di fondi per la polizia. Dobbiamo anche cogliere il momento per mettere a punto soluzioni su più livelli, che riducano notevolmente le emissioni nonché tutte le forme di disuguaglianza ed ingiustizia (qualcosa che abbiamo cercato di mettere nel Leap Manifesto e che gruppi come il Climate Justice Alliance propongono da tempo). E deve accadere proprio ora, proprio quando gli enormi costi umani ed economici dell’inazione sono evidenti a tutti. Se non ci riusciamo o se esitiamo, lasciamo la porta aperta ad attori spietati che sfrutteranno questo disastro per scopi personali.
La finestra per avere questi dibattiti è estremamente piccola. Non ci sarà alcun tipo di dibattito dopo che questa emergenza sarà cessata; i media torneranno a coprire ossessivamente i tweet di Trump ed altri intrighi di palazzo. Perciò, anche se potrebbe sembrare inutile parlare di cause mentre la gente è ancora intrappolata nelle proprie case, questo è realisticamente l’unico momento in cui i media hanno interesse a parlare di cambiamento climatico. Vale la pena ricordare che la decisione di Trump di ritirarsi dall’accordo sul clima di Parigi – un evento che avrà effetti a livello mondiale per i decenni a venire – ha ricevuto due giorni circa di copertura dignitosa. Poi si è tornati a parlare di Russia tutto il giorno. Poco più di un anno fa, Fort McMurray, la città nel cuore del boom di Alberta per le sabbie bituminose, è quasi bruciata totalmente (leggi L’inferno di Fort Mc Murray). Per un certo tempo, il mondo è stato inondato dalle immagini dei veicoli allineati su un’unica autostrada, circondati dalle fiamme su ambo i lati. Al tempo, ci venne detto che era insensibile parlare di come il cambiamento climatico stesse aggravando incendi come quello. Era tabù connettere il riscaldamento globale all’attività economica che tiene in piedi Fort McMurray e che impiegava la maggioranza degli sfollati, cioè una forma particolarmente carbonica di petrolio. Il tempo non era quello adatto; era un momento di compassione, aiuto e zero domande.
Ma, naturalmente, nel momento in cui veniva ritenuto opportuno sollevare tali questioni, i riflettori dei media erano da tempo passati ad altro. Oggi, mentre Alberta spinge per almeno tre nuovi oleodotti per aumentare notevolmente la produzione di sabbie bituminose, non si è imparato nulla da quella storia. C’è una lezione invece per Houston. La finestra per avere una discussione importante è piccola. Non possiamo permetterci di gettarla al vento. Parlare onestamente di ciò che sta alimentando questa epoca di disastri non è una mancanza di rispetto per le vittime. Anzi, è l’unico modo per onorare veramente le loro perdite, e la nostra ultima speranza per impedire un futuro pieno di innumerevoli altri morti.
La questione della casa è uscita dall'agenda politica. I frutti avvelenati di questa scelta sciagurata, a Roma, sono molto evidenti. Numeri e raffronti con altre capitali ci aiutano a capire come stanno le cose. Il manifesto, 10 settembre 2017. (m.b.)
A Roma l'amministrazione capitolina assegna 490 case popolari all'anno: al ritmo attuale ci vorrebbero circa 35 anni per smaltire i 16.000 nuclei in lista che nel frattempo continuerebbero a crescere in modo esponenziale. Cerchiamo di capire la natura di questo blocco, senza risolvere il quale è impossibile ogni politica per la casa. Vanno analizzate le ragioni dello stallo della macchina politico-amministrativa rispetto alla gestione delle case popolari. A questo scopo risulta utile fare un confronto con il modello tedesco operante a Berlino e con quello francese funzionante a Parigi. Emerge così che, senza un sistema integrato di servizi sociali e senza l'azzeramento dell'evasione fiscale, il welfare non funziona, quindi non può garantire diritti.
Nella Capitale ci sono circa un milione e duecentomila abitazioni. Oltre il 70% dei romani è proprietario dell'alloggio in cui vive, in linea con il livello nazionale. Il mercato immobiliare dell'affitto è composto da circa 200.000 case e il pubblico detiene un terzo dell'intero mercato, ovvero 74.000 alloggi tra Ater (Azienda territoriale per l'edilizia residenziale pubblica) e Comune di Roma. Dunque un peso notevole, un po' come se la Coca-Cola non fosse leader nel settore delle bevande gassate.
I nodi critici
Nelle case popolari ci sono 10.000 occupanti abusivi più altri 5.000 nuclei già decaduti per superamento dei limiti di reddito (in media 55.200 euro annui secondo la determinazione commissariale Ater n. 3 del 17/9/2013). Per riportare la legalità ci vorrebbero 42 anni alla media di uno sgombero al giorno. Ma chi sono i decaduti? È gente che, se fosse sfrattata avrebbe bisogno di aiuto? Contemporaneamente, ogni anno ci sono mille nuove occupazioni di case popolari. Quindi, se lo Stato facesse uno sgombero al giorno, si ritroverebbe con due nuovi appartamenti occupati perché mancano i controlli, come vedremo nella seconda parte dedicata alle proposte. Ma i paradossi non finiscono qui. Abusivi e decaduti, cioè il 12% del totale di quelli che vivono in una casa popolare (15.000 persone) contribuiscono per il 48% al totale degli affitti, anche perché gli abusivi pagano un canone sanzionatorio (che non gli da però il diritto a restare). Dunque, se lo Stato li cacciasse gli enti gestori fallirebbero, perché l'Ater ha l'obbligo di pareggio di bilancio. A queste situazioni incredibili si aggiunga che l'Italia ha i canoni per le case popolari più bassi d'Europa. Vale la pena dunque dare uno sguardo alle politiche europee sulla casa. Un'analisi comparativa degli strumenti usati nei vari Paesi UE sul tema casa è difficile perché in Europa le politiche di welfare (abitative, lavorative, sostegno al reddito, inclusione sociale), sono interconnesse. E poi perché ogni Stato, anzi ogni territorio, ha il suo approccio al tema. In Europa esistono due macro-modelli per garantire il diritto alla casa. Il primo è quello universalistico diffuso in Danimarca, Svezia e Paesi Bassi, il secondo quello selettivo riservato ad alcune categorie disagiate, diffuso nel resto della UE.
In Germania l'accesso all'edilizia pubblica dipende da soglie di reddito che variano in ogni città: a Berlino la soglia è di 16.500 euro per una famiglia con un componente, 25,200 euro per due, con un incremento di 5.740 euro per ogni componente aggiuntivo. Invece a Roma bisogna avere un reddito inferiore a circa 20.000 euro e, questa la prima differenza con il sistema tedesco, esiste un limite per perdere il diritto che è fissato intorno ai 30.000 euro. Mentre da noi i canoni degli alloggi popolari sono determinati in base a scaglioni di reddito, in Germania, grazie ad una poderosa rete di sussidi integrativi (di disoccupazione, al reddito, all'affitto e, in alcuni casi, al pagamento del canone di locazione), hanno un costo fisso al metro quadro di 5 euro, cioè il minimo stimato per poter garantire la copertura delle spese gestionali, il personale amministrativo e la manutenzione. Ma, a differenza dell'Italia, in Germania esiste un robusto sistema di verifica fiscale. A Roma i fondi destinati al sussidio all'affitto (L 431/95) non hanno mai coperto tutto il fabbisogno. Il tempo medio per ottenere un sussidio in Germania è di una settimana, a Roma di tre mesi, intervallo in cui i nuclei in difficoltà possono accumulare morosità importanti. Il sistema dei sussidi, sebbene appaia contorto in quanto lo Stato prima eroga i fondi alle famiglie e poi li richiede per l'affitto dell'alloggio, ha il vantaggio di non scaricare i costi sociali ed economia sugli enti gestori di edilizia residenziale pubblica (ERP). A Roma il deficit manutentivo del solo patrimonio comunale è stimato in 260 milioni di euro e questo dipende soprattutto dai bassi canoni di locazione che non permettono investimenti. Agli enti tedeschi invece è garantito il minimo gestionale per ottemperare al fabbisogno manutentivo degli immobili. Questo ha consentito l'ingresso nel mercato degli alloggi pubblici anche a operatori privati che costruiscono e gestiscono alloggi con convenzioni ventennali, ovvero il tempo stimato affinché un nucleo disagiato possa risollevarsi dopo di che il vincolo si esaurisce e i proprietari privati rientrano nella disponibilità degli alloggi.
In Italia il sistema dell’edilizia residenziale pubblica è sostenuto con fondi pubblici (edilizia sovvenzionata) per la costruzione di alloggi popolari poi assegnati con un bando, ma con lo scioglimento della Gescal non c'è più certezza ne continuità dei fondi, quindi le realizzazioni sono quasi inesistenti. Gli enti tedeschi, forti di bilanci in attivo, sono molto competitivi e, tra le nuove realizzazioni, una parte degli alloggi sono destinati sia al mercato privato della vendita per rifinanziare l'investimento iniziale, sia all'edilizia pubblica. Questa modalità consente di realizzare senza gravare sulla collettività garantendo il giusto mix sociale per evitare fenomeni di ghettizzazione. Il sistema italiano invece prevede lo stanziamento di fondi pubblici per la costruzione di soli alloggi popolari locati esclusivamente agli assegnatari di bando, quindi a redditi omogenei tendenti al basso. Oltre al rischio ghetto, in Italia i fondi non sono in grado di rigenerarsi e il patrimonio si depaupera per scarsità di manutenzione. Nel modello francese la distinzione fra alloggi sociali e popolari è ancora più labile poiché il sistema opera attraverso soglie per l'affitto scaglionate per fasce di reddito. Gli utenti sono suddivisi in tre fasce secondo le capacità contributive. La definizione delle fasce di reddito varia a seconda di indicatori locali.
Nell'area di Parigi, il reddito imponibile di una famiglia di due componenti non deve superare i 21.120 euro per un alloggio in regime Piai (Prêt Locatif Aidé d'Intégration) rivolto ai più disagiati, i 35.200 euro per un alloggio in Plus (Prêt Locatif à Usage Social) e i 45.760 euro per una casa in Pis (Prêts Locatif Social) rivolto a per chi, pur con un reddito medio, non trova un appartamento in locazione (cioè, parte di quelli che oggi a Roma hanno sforato il tetto per la permanenza in una casa popolare, ma avrebbero comunque bisogno di aiuti). Anche in Francia il canone è determinato in base ai metri quadri dell'alloggio per poter garantire una corretta gestione e manutenzione degli immobili.
Dalla breve carrellata sul modello tedesco e su quello francese, emerge con chiarezza l'esigenza di ripensare in blocco l'intero sistema di welfare italiano. Tuttavia ci sono delle situazioni come quella romana che hanno bisogno di un intervento immediato per scongiurare ulteriori peggioramenti. Nella prossima puntata vedremo come.
a Repubblica, 9 settembre 2017, con postilla (m.c.g.)
Caro direttore, ho visto l’articolo dedicato da Repubblica al parcheggio che verrà realizzato a Bergamo in via Fara. Leggendolo si ha l’impressione che l’intervento sia frutto di una decisione avventata, in contrasto con il recente riconoscimento delle Mura venete come parte del patrimonio Unesco. Non è così. Il progetto del parcheggio risale al 2004 ed è accompagnato da un contratto impegnativo per il Comune. Uscirne, vista anche la colpevole inerzia dell’amministrazione precedente, avrebbe significato secondo la nostra avvocatura affrontare un contenzioso e, con ogni probabilità, dover risarcire la controparte per svariati milioni di euro.
Non si tratta affatto di un “ecomostro”, bensì di una struttura totalmente interrata, praticamente invisibile alla conclusione dei lavori, che l’Unesco - puntualmente informata sulla previsione - non ha giudicato in alcun modo in contraddizione col prestigioso riconoscimento che ha voluto attribuire alle nostre Mura. Anzi, siamo convinti che possa contribuire alla tutela e alla valorizzazione di Città Alta.
Il progetto che abbiamo varato - pur rispettando i vincoli del contratto iniziale - è infatti profondamente diverso dal punto di vista funzionale. Il parcheggio di via Fara, collocato alla base del colle di Città Alta, diventerà l’unico luogo dedicato alla sosta dei visitatori, ponendo fine all’assalto cui è sottoposto ogni angolo del borgo storico. Tutti i posti auto lungo le Mura saranno di conseguenza lasciati ai residenti e questo ci consentirà di liberare dalle macchine - esattamente come auspicava Le Corbusier - alcune meravigliose piazze del borgo storico, oggi tristemente adibite a parcheggio.
Questo è il progetto, correttamente raccontato. Lo abbiamo approvato in Consiglio comunale a larga maggioranza, senza mai sottrarci al confronto con le associazioni dei cittadini. Rispettiamo pertanto le seimila firme che ci sono state consegnate qualche giorno fa (pur sapendo che nessuna di queste è certificata e che oltre la metà dei firmatari non abita a Bergamo). Ma riteniamo che la nostra scelta sia quella giusta, per tutelare gli interessi dei cittadini (i soldi del Comune sono soldi loro) e per realizzare quella rivoluzione della mobilità che ci permetterà di proteggere e di valorizzare la bellezza di Bergamo Alta.
postilla
Stupisce la differenza di stile fra l’articolo di Paolo Berizzi pubblicato su la Repubblica e la risposta del sindaco: il primo aggressivo e partigiano, la seconda molto tecnica e garbata. Poiché non avevo seguito la vicenda, mi sono informata e ho trovato, sulla stampa locale, una lettera aperta molto dettagliata rivolta ai cittadini, firmata dal sindaco e dalla giunta, che spiega le ragioni della scelta, i cambiamenti apportati al progetto originario e i vantaggi che si otterranno nel governo della mobilità su gomma in Città Alta. Per inciso, nulla di simile si è mai verificato a Milano in merito ai progetti più controversi: in genere, si "mandano avanti" i consulenti prezzolati dell’accademia; in genere non si risponde nel merito ai cittadini organizzati in comitati; in genere, se si apportano modifiche, sono sempre a favore degli interessi immobiliari.
La voce dei comitati civici è indubbiamente rilevante (anche se nell’articolo sembra essere l’unica fonte utilizzata); ma anche il cambiamento di passo della attuale giunta e, in particolare, la natura intelligentemente riformista di alcuni recenti provvedimenti urbanistici meriterebbero l’attenzione di un grande quotidiano di diffusione nazionale che dovrebbe privilegiare il giornalismo d’inchiesta rispetto a quello dell’insulto. Invece la tecnica dell’insulto e dell’aggressione sembra aver fatto scuola, partendo dall’esempio "storico", davvero censurabile, delle celie indirizzate da Francesco Merlo all’allora sindaco Ignazio Marino, irriso per “le cene a sbafo, bottiglie di vino a scrocco, ma senza la simpatia del vero morto di fame, del Totò che dice: a proposito di politica… ci sarebbe qualche coserellina da mangiare?”.
Nell’imminenza delle elezioni regionali, sarebbe sembrato più che opportuno che il giornalista di Repubblica autore dell’articolo riportasse anche il parere dell’amministrazione in carica, e in particolare del sindaco di Bergamo il quale, ad oggi, sembrerebbe essere il candidato più competitivo nei confronti della maggioranza che ormai da decenni governa, o meglio sgoverna, la Lombardia. Viene il sospetto che, come il quel caso, l’insulto sia strumentale all’avvio di una ennesima campagna elettorale condotta in modo irresponsabilmente divisivo. (m.c.g.)
Riprendiamo da Internazionale (8 settembre 2017) articoli di J. Watts, J. Adhikari, G. Ansaldi e G Milani sugli ultimi disastri ambientali. Siano conseguenze del cambiamento climatico o dell'espansione scellerata di attività umane che rendono fragili i territori, è chiaro che questo sviluppo ci mette sempre più in pericolo. (i.b.)
Una spiegazione agli uragani, cicloni, tempeste e inondazioni che hanno colpito Stati Uniti, Nepal, India e Bangladesh. E una recensione del libro "Storia culturale del clima" di Wolfgang Behringer, utilissimo per orientarsi su un tema, quello dei cambiamenti climatici, complesso, dibattuto e contrastato (i.b). A questo proposito rimando all 'articolo di Naomi Klein, "L'apartheid climatico e i media", qui su eddyburg.
Sull'uragano Harvey che ha colpito le zone del sud-est del Texas, incluso Houston, e della Louisiana si legga anche l'articolo "Houston, la fragilità del capitalismo senza limiti" pubblicato qui, dal manifesto. (i.b.) The Guardian
UN FUTURO PERICOLO
di Jonathan Watts
I 64 miliardi di metri cubi di pioggia (più o meno l’equivalente di 26 milioni di piscine olimpioniche) rovesciati sul Texas dall’uragano Harvey alla fine di agosto hanno stabilito un nuovo record per un ciclone tropicale negli Stati Uniti. Ma è un record che difficilmente durerà a lungo, visto che le emissioni di anidride carbonica provocate dagli esseri umani stanno spingendo il clima in un territorio sconosciuto.
Le immagini delle strade allagate in Texas fanno pensare a quelle delle comunità colpite dalle inondazioni in India e in Bangladesh, alle recenti valanghe di fango in Sierra Leone e all’esondazione di un affluente del fiume Yangtze, in Cina, che ha provocato decine di morti ad agosto. In parte si tratta di calamità stagionali, e le loro conseguenze dipendono anche da fattori locali. Ma gli scienziati sostengono che gli eventi estremi di questo tipo diventeranno sempre più frequenti e devastanti a causa dell’aumento delle temperature globali e dell’intensità delle precipitazioni.
Il nostro pianeta sta vivendo un’era di record spiacevoli. Ogni anno, dal 2015 a oggi, le temperature hanno toccato picchi mai visti dalla nascita della meteorologia, e probabilmente da 110mila anni. La quantità di anidride carbonica nell’aria è ai livelli più alti degli ultimi quattro milioni di anni. Non è questo a provocare eventi come l’uragano Harvey: in questo periodo dell’anno nel golfo del Messico ci sono sempre tempeste e uragani. Ma l’aumento delle temperature rende questi eventi più piovosi e potenti.
Più l’acqua degli oceani si riscalda, più evapora facilmente e fornisce energia alle tempeste. E, scaldandosi, l’aria sui mari trattiene una quantità maggiore di vapore acqueo. Ogni mezzo grado in più fa aumentare di circa il 3 per cento l’umidità dell’atmosfera. Questo vuol dire che i cieli si riempiono prima di acqua e ne hanno una quantità maggiore da scaricare. Oggi nel golfo del Messico si registrano temperature di superficie superiori di un grado rispetto a trent’anni fa.
A contribuire all’aumento delle tempeste c’è anche il fatto che, negli ultimi cento anni, il livello dei mari si è alzato di venti centimetri a causa del riscaldamento globale provocato dall’uomo. I ghiacciai si sono sciolti e le acque marine hanno subìto un’espansione termica. Quando le piogge in Texas si sono avvicinate al record statunitense di 120 centimetri di precipitazioni registrato nel 1978, i meteorologi hanno dovuto introdurre un nuovo colore nei graici. Potrebbe non essere l’ultima revisione.
“Probabilmente i paesi grandi come gli Stati Uniti raggiungeranno altri record di precipitazioni, e non solo a causa degli uragani”, ha affermato Friederike Otto, vicedirettrice dell’Environment change institute dell’università di Oxford. Si tratta di una tendenza globale. “Nell’immediato futuro in tutto il pianeta toccheremo nuovi picchi di caldo e precipitazioni estreme”. La situazione potrebbe cambiare da un paese all’altro, avverte Otto. I fattori in gioco sono molti, ma le conseguenze dell’attività umana sul clima hanno contribuito a scatenare tempeste più violente e siccità più gravi.
Una questione nuova
Nelle ultime settimane in India e in Bangladesh l’aumento del livello dei mari si è aggiunto a un monsone particolarmente forte, che ha inondato alcune regioni uccidendo circa 1.200 persone e costringendone milioni a lasciare le loro case.
Ora è importante capire se il cambiamento climatico ha a che fare con la “sedentarietà” delle tempeste. Negli Stati Uniti gli uragani di solito si spostano verso l’interno e la loro potenza diminuisce man mano che si allontanano dal mare. Ma Harvey è rimasto nella stessa area per giorni, e questo spiega il record di precipitazioni in Texas. Secondo gli scienziati potrebbe essere la questione più grande sollevata da Harvey. “Non credo che qualcuno si sia mai posto il problema. E non credo che qualcuno avesse previsto un evento di questo tipo”, ha detto Tim Palmer, ricercatore della royal society all’università di Oxford.
Di recente i ricercatori hanno individuato un rallentamento nella circolazione atmosferica estiva alle medie latitudini, conseguenza del forte riscaldamento dell’Artico. Secondo Palmer, tuttavia, per studiare gli schemi della pressione servono strumenti analitici più potenti, tra cui i supercomputer. Ma negli Stati Uniti la ricerca è condizionata dalla politica: il presidente Donald Trump sostiene che il cambiamento climatico è una truffa inventata dalla Cina, e ha annunciato che Washington si ritirerà dal trattato di Parigi sul clima e taglierà i fondi per la ricerca sul clima. “Cercare di capire quanto saranno frequenti eventi come Harvey in futuro non dovrebbe essere oggetto di discussioni politiche”, conclude Palmer.
Internazionale
SVILUPPO INSOSTENIBILE
Giovanni Ansaldi
Mentre a Houston le acque portate dall’uragano Harvey si ritirano, una cosa è chiara: una parte dei danni – umani ed economici – poteva essere evitata”, scrive il New York Times. Uno dei problemi principali è lo sviluppo urbanistico. Negli ultimi trent’anni il boom dell’industria petrolifera ha causato una forte crescita immobiliare: a Houston sono nati nuovi quartieri residenziali e di uffici in zone a forte rischio di inondazioni. In tutta la città sono stati costruiti parcheggi, strade ed edifici che hanno cancellato la vegetazione fondamentale per facilitare il drenaggio. A questo si aggiunge il fatto che le mappe della federal emergency management agency (Fema, l’agenzia statunitense che si occupa di gestire e prevenire le emergenze), create per evidenziare le zone a rischio in caso di catastrofe, non sono mai state aggiornate. Confrontando le mappe con le foto scattate dopo il passaggio dell’uragano, si vede che alla fine di agosto sono state inondate zone che secondo la Fema avevano lo 0,2 per cento di possibilità di essere invase dall’acqua. Le mappe non sono aggiornate perché il congresso non assegna abbastanza fondi all’agenzia. Inoltre non tengono conto degli effetti futuri dei cambiamenti climatici. “Ancora più preoccupante è il fatto che il Texas non sembra preparato ad affrontare la ricostruzione”, osserva il New York Times. “La maggioranza dei residenti della regione colpita non era assicurata”.
Secondo The Atlantic, quello che è successo a Houston è un segnale d’allarme per tutto il paese e mette in discussione una certa idea di sviluppo: “Quando si parla di gestione degli uragani, l’aspetto più difficile da affrontare è la convinzione degli statunitensi di poter vivere e lavorare dove preferiscono. Nel paese ci sono zone – come alcuni quartieri di Houston e di New Orleans o intere regioni della florida – che non dovrebbero essere abitate”. E che in futuro saranno sempre più a rischio a causa dell’innalzamento del livello dei mari e dei disastri naturali causati dai cambiamenti climatici.
The Conversation
I DISASTRI DELLA POLITICA
IN ASIA MERIDIONALE
di Jagannath Adhikari
Nelle ultime settimane il Nepal è stato colpito da forti inondazioni che hanno alimentato le tensioni regionali. I politici e i mezzi d’informazione locali sostengono che le infrastrutture indiane lungo il confine hanno reso il Nepal più vulnerabile.
Durante un incontro in India alla fine di agosto, il primo ministro nepalese Sher Bahadur Deuba e l’indiano Narendra Modi hanno rilasciato un comunicato in cui promettono che lavoreranno insieme per evitare nuove alluvioni. Ma i rapporti tra i due paesi restano tesi.
La tensione è dovuta in parte alla geografia dell’Himalaya: una diga o una strada costruita nel paese può provocare un’inondazione in un paese confinante. Così India, Cina e Nepal si accusano a vicenda di politiche egoiste e poco lungimiranti. La mancanza di un’organizzazione regionale che raccolga le informazioni e coordini le operazioni di soccorso ha sicuramente aumentato le sofferenze della popolazione.
Miniere illegali
Nella regione dell’Himalaya le inondazioni sono eventi quasi annuali. Grandi fiumi che nascono nella catena montuosa attraversano le popolose pianure del Terai, che si estendono sia in India sia in Nepal, e durante la stagione dei monsoni il livello dell’acqua cresce notevolmente.
Ma le inondazioni di quest’anno sono state particolarmente devastanti. Negli ultimi due mesi in Nepal, India e Bangladesh hanno colpito venti milioni di persone e ne hanno uccise almeno 1.200.
Questi eventi sono un problema politico ma anche logistico. Nel caso delle ultime inondazioni, il ministro dell’interno nepalese ha puntato il dito contro due grandi dighe costruite dall’India lungo i fiumi Koshi e Gandaki, e anche contro le strade, gli argini e i canali costruiti lungo i 1.751 chilometri del confine tra India e Nepal, sottolineando che queste infrastrutture hanno ostacolato il corso naturale dell’acqua.
L’India accusa a sua volta il Nepal, e molti sono convinti (anche se negli ambienti scientifici la tesi è discussa) che la deforestazione in corso in Nepal contribuisca alle piene in India. Il problema è che la costruzione di infrastrutture di un paese può avere conseguenze importanti per i paesi vicini, soprattutto nella stagione dei monsoni. Almeno una decina di persone sono rimaste ferite l’anno scorso negli scontri durante le proteste contro la costruzione di una diga in India che, secondo il Kathmandu Post, causerà l’inondazione di alcune aree del Nepal una volta completata.
I problemi non sono causati solo dalle dighe. Gli esperti di disastri e gli idrologi nepalesi sostengono che le recenti inondazioni sono state aggravate dall’intensa attività mineraria illegale sulle colline Churia per estrarre sassi e sabbia da usare nell’edilizia indiana, in rapida espansione.
E le dispute non riguardano solo India e Nepal. Nel 2006 India e Cina hanno firmato un accordo per la condivisione di informazioni idrologiche sui grandi fiumi che scorrono in entrambi i paesi, per rispondere meglio alle piene annuali. Ma all’inizio dell’anno il ministro degli esteri indiano ha accusato la Cina di non aver condiviso dati essenziali, e di aver così peggiorato gli effetti delle inondazioni nell’India nordorientale.
Prospettiva regionale
Non è un incidente isolato. Nel 2013 una grande inondazione in quella zona dell’India ha ucciso circa seimila persone. All’epoca le autorità indiane hanno sostenuto di non aver ricevuto informazioni dal Nepal sulle forti piogge in collina o sulle condizioni dei ghiacciai. Le autorità nepalesi hanno risposto che la Cina era in una posizione migliore per condividere le informazioni sulle condizioni climatiche in quell’area dell’Himalaya. Alcuni studi condotti in seguito hanno stabilito che un’efficiente condivisione delle informazioni e un’allerta tempestiva avrebbero potuto ridurre sensibilmente i danni.
Il problema è particolarmente urgente in un momento in cui la regione dell’Himalaya è colpita dagli effetti del cambiamento climatico. I climatologi hanno sottolineato che qui le “inondazioni estreme” sono aumentate, a causa di piogge meno frequenti ma più intense.
Bisogna cambiare il modo in cui le istituzioni gestiscono questi disastri. Alla fine di agosto India e Napal hanno annunciato che creeranno una commissione congiunta per la gestione delle inondazioni e delle alluvioni, e una squadra di esperti per “migliorare la cooperazione bilaterale” nella gestione dell’acqua. È un segnale positivo.
Ma nella regione dell’Himalaya c’è urgente bisogno di istituzioni con competenze regionali invece che nazionali. Queste organizzazioni potrebbero condividere le informazioni sul clima, agire per ridurre i danni causati dalle inondazioni e consultarsi durante la costruzione di infrastrutture che potrebbero avere conseguenze per gli stati vicini.
Le attività umane e la miopia della politica hanno aumentato gli effetti negativi delle inondazioni. È ora che tutti i paesi della regione accettino di condividere le responsabilità e s’impegnino per aiutare le persone colpite, a prescindere dalla nazionalità.
Internazionale CLIMA, STORIA E CULTURA
di Giuliano Milani
Wolfgang Behringer, "Storia culturale del clima", Bollati Boringhieri, 349 pagine, 14 euro
Mentre negli ultimi anni si sono aperte feroci polemiche sul riscaldamento globale, la storia del clima ha assunto una nuova importanza. Capire se in passato ci sono stati periodi in cui la temperatura è cambiata, quantiFicare il cambiamento e comprenderne le ragioni è diventato importante per affrontare le side che ci pone il presente. Non sempre è facile accedere alle ricerche che permettono di capire come si è evoluto il clima del nostro pianeta. Ecco perché è utile questo libro che, dopo aver spiegato come il clima cambia, ricostruisce questa vicenda dall’inizio della Terra a oggi, con sempre maggiore dettaglio avvicinandosi al nostro tempo. Si segue il riscaldamento dell’olocene, cominciato
12mila anni fa e i vari, occasionali raffreddamenti che in quel periodo si alternarono ai momenti più caldi (nell’età romana e nel basso medioevo).
Per la “piccola età glaciale”, cominciata nel trecento e terminata nel corso del novecento, il maggior numero di fonti e dati consente a Behringer alcune ipotesi sulla relazione tra clima e fenomeni sociali
e politici come la stregoneria, la democratizzazione, l’illuminismo. La cautela con cui questi collegamenti sono fatti e la quantità d’informazioni fornite al lettore rendono questo libro un’efficace chiave di lettura per orientarsi in un campo di studi nuovo, complesso e già al centro di molte
discussioni.
il manifesto, 9 settembre 2017
«Sardegna bene paesaggistico d’Italia». Si intitola così l’appello che architetti, urbanisti, storici dell’arte, giuristi, archeologi e giornalisti hanno lanciato contro la legge urbanistica che la giunta regionale sarda sta per presentare in consiglio per l’approvazione. Tra i firmatari ci sono molti nomi di grane autorevolezza, da sempre impegnati sul fronte della difesa del paesaggio e dell’ambiente. Tra gli altri, Paolo Berdini, Piero Bevilacqua, Vezio De Lucia, Vittorio Emiliani, Maria Pia Guermandi, Paolo Maddalena, Tomaso Montanari, Edoardo Salzano e Salvatore Settis. Ai quali si aggiungono il vicepresidente della Federparchi Tore Sanna e i membri della Consulta delle associazioni ambientaliste dell’isola Maria Paola Morittu, Antonietta Mazzette, Sandro Roggio, Stefano Deliperi, Carmelo Spada e Alessio Satta.
«Il Piano paesaggistico della Sardegna (Ppr) approvato dalla giunta Soru nel 2006 – si legge nel testo – è obbligatorio secondo il Codice dei beni culturali e del paesaggio ed è strumento indispensabile per la difesa delle coste della Sardegna, nonché ottimo esempio per altre esperienze di pianificazione. In questi dieci anni ha resistito al referendum abrogativo contro la “Legge salvacoste” del 2004, suo presupposto, e a numerosissimi ricorsi presso i tribunali, oltre che al goffo tentativo di cancellarlo fatto (…) dal governo di centro destra di Ugo Cappellacci».
Dopo la difesa del Ppr, le obiezioni di merito: «L’attuale governo di centrosinistra alla guida della Sardegna – scrivono i firmatari dell’appello – nel marzo scorso ha approvato un disegno di legge che contiene gravi deroghe al Ppr in violazione dell’articolo 9 della Costituzione (…). La legge, se sarà approvata, sarà certamente dichiarata incostituzionale, ma nel frattempo produrrà la destabilizzazione della tutela del territorio della Sardegna, con effetti devastanti specialmente nella fascia costiera». «L’obiettivo del disegno di legge – continua l’appello – è soprattutto evidente in alcuni articoli che darebbero vita a un programma di deroghe alle norme di tutela paesaggistica durevole, con l’ampliamento di alberghi a pochi passi dal mare (articolo 31), favorendo grandi progetti pure in contrasto con il Ppr sui tratti di costa non ancora toccati dal cemento (articolo 43)».
«Allo stesso obiettivo di allontanamento dalla vigente disciplina di tutela – prosegue l’appello – vanno ascritte le inaccettabili critiche mosse da esponenti della giunta regionale al soprintendente Fausto Martino, al quale va la nostra solidarietà e il nostro apprezzamento per la benemerita azione che svolge in difesa dei beni culturali della Sardegna». Il riferimento è alla lettera che nei giorni scorsi l’assessore all’urbanistica della giunta regionale sarda, Cristiano Erriu, ha spedito al ministro dei beni culturali Dario Franceschini. Secondo Erriu, il soprintendente al paesaggio della Sardegna in alcune sue dichiarazioni sarebbe uscito dai limiti della sua carica istituzionale per esprimere giudizi di merito politico sull’operato della giunta. Secondo i firmatari dell’appello, invece, e secondo il fronte ambientalista (sardo e nazionale), Martino non ha fatto altro che compiere il suo dovere, richiamando la giunta al rispetto delle leggi, a cominciare dalla Costituzione. Anche il ministro Franceschini, che ieri ha incontrato il soprintendente, lo difende: «Le azioni di Fausto Martino sono in linea con la scelta del Governo di impugnare la legge sarda in materia urbanistica»», ha detto riferendosi alla legge sulle manutenzioni edilizie appena bocciata dal Consiglio dei ministri.
L’appello contro la nuova legge urbanistica si chiude con un invito al presidente della Regione, Francesco Pigliaru, «non solo a confermare il livello di tutela previsto dal Ppr, ma anche ad estenderlo alle zone interne dell’isola» e la richiesta «di sospendere l’iter di approvazione del disegno di legge, avviando un riesame del testo alla luce delle numerose e autorevoli critiche espresse in questi mesi». Le adesioni all’appello possono essere inviate alla Consulta delle associazioni ambientaliste della Sardegna: consulta.sardegna@tiscali.it
Tra il taglio indiscriminato dei paesaggi urbani formati degli alberi antichi in superfici e la macelleria trsforatrice delle inutili infrastruttura nel sottosuolo Firenzi si sta confermando come la capitale delle follìe urbane. la Città invisibile online, 6 settembre 2017 (c.m.c.)
Non si sa da dove cominciare per parlare del progetto TAV fiorentino, quei sette chilometri di doppio tunnel ferroviario e quella stazione sotterranea in cui praticamente non circoleranno treni.
Proviamo a partire degli ultimi sviluppi di una vicenda che ormai ha i toni dell’assurdo: dopo un dibattito che è sfociato perfino nella rissa politica (tra renziani e veterodiessini) l’accordo finale è difficile da spiegare perché non risponde ad alcuna ragione razionale, è completamente privo di logica.
Le ferrovie avrebbero deciso che i treni ad alta velocità continueranno a fermare alla stazione principale, Santa Maria Novella; alla nuova stazione si attesterebbero solo una ventina di treni al giorno per un numero di passeggeri che non arriva oggi a 2000. Nei tunnel sotto la città passerebbero, oltre quelli, i treni senza fermata in città, un numero esiguo.
Dunque si va avanti con un progetto miliardario per meno treni che in una linea secondaria? Anche i nostri “decisori” si sono resi conto dell’assurdità della cosa e allora cosa si è trovato di giustificazione alla grande opera? La mega stazione sotterranea diventerà la fermata dei bus extraurbani! No, non è uno scherzo: si vogliono costruire due tunnel in ambiente urbano e una stazione sotterranea per fare – in superficie – una fermata di autobus.
Chi scrive ancora si chiede se ha capito bene o se il caldo di questa estate gli ha ottenebrato la mente, ma pare sia proprio così: si costruisce una linea ferroviaria sotto terra per autobus in superficie. Forse i principi della logica che hanno accompagnato la cultura occidentale da Aristotele in qua sono stati abbandonati? Forse qualche mistica visione ha fatto sì che si decidesse di costruire un tempio agli dei sotterranei per metterli in contatto diretto con quelli celesti?
Non chiedete a noi, ma a questa classe politica e imprenditoriale che ormai ha preso il volo e staziona ad altezze così vertiginose da non essere più compresa dai comuni mortali (che comunque pagheranno devotamente tutto con i soldi delle loro tasse). Noi continuiamo a vivere vicino a terra, quella terra che verrà scavata dalle viscere di Firenze e si accumulerà, trasformata in fango, sulle rive del lago di Santa Barbara, vicino a Cavriglia, dove si vorrebbero conferire quelle terre inquinate per fare risanamento ambientale (sic).
E così, strisciando nei bassifondi della curiosità, continueremo a farci domande:
I grandi decisori (come il sindaco fiorentino Dario Nardella) hanno detto che è una grande idea quella di creare un “hub” tra ferrovia e gomma. Ma di che hub si parla? Cosa si metterà in collegamento se NON ci saranno treni?
Nella grande stazione interrata col tetto di vetro progettata da Norman Foster saranno trasferiti tutti i bus extraurbani che servono Firenze e quelli dei turisti che arrivano in città. Ma è stato fatto uno straccio di studio di fattibilità? Si sono verificate le conseguenze sul traffico e soprattutto sui pendolari che usano questo servizio? I turisti che arriveranno in bus come raggiungeranno il centro cittadino? Si è fatto uno studio per verificarne la sostenibilità? Se sì, dove sono questi documenti?
L’idea di trasformare una stazione ferroviaria in una stazione di autobus è una modifica sostanziale del progetto; questo richiederebbe una nuova VIA (valutazione di impatto ambientale). Come si pensa di fare? Far finta di nulla e andare avanti come si è fatto fin’ora, visto che NON ESISTE una VIA per la stazione Foster? Chi straparla di legalità chiude gli occhi davanti al più grande abuso edilizio in Toscana?
Il progetto TAV è stato interessato da due pesantissime inchieste della magistratura che hanno portato ad un processo che dovrebbe iniziare a breve: corruzione, traffico di rifiuti, truffa, associazione a delinquere, infiltrazioni della Camorra… un elenco lungo e vergognoso. Su questo si tace nelle dichiarazioni di politici e costruttori. Eppure una delle inchieste si chiamava “sistema”, proprio perché denunciava come esistesse una pianificazione, fin dal Ministero dei trasporti, nella distribuzione delle grandi opere inutili, con metodi corruttivi e con spaventosi sperperi di risorse pubbliche; compresa quella fiorentina. Possibile si sia dimenticato tutto questo?
I lavori di questo Passante ferroviario sono andati avanti a singhiozzo e molto lentamente non per lungaggini burocratiche, ma per i troppi errori progettuali. Il più evidente è quello che prevede l’utilizzo delle terre, ovviamente contaminate, per il risanamento ambientale a Santa Barbara, nel comune di Cavriglia. Già nel 2008, in un convegno, l’allora assessore ai trasporti Riccardo Conti chiese pubblicamente al ministro dell’Ambiente Altero Matteoli di modificare la normativa sulle terre di scavo, altrimenti “il sottoattraversamento fiorentino era irrealizzabile”. http://www.nove.firenze.it/a807010031-tav-conti-i-senza-deroga-alle-norme-sullo-smaltimento-dello-smarino-il-sottoattraversamento-di-firenze-e-irrealizzabile-i.htm Il regolamento è stato modificato con mille forzature e adesso, secondo i fautori del TAV, sarebbe pronto lo scavo. Ma cambiare una legge rende più pulite quelle terre?
Il Comitato No Tunnel TAV, con i suoi tecnici, ha fatto un attento lavoro di studio del progetto ed ha verificato una miriade di criticità di cui continua a chiedere conto a Ministero, Regione, Comune, Osservatorio Ambientale (una delle istituzioni “foglia di fico” più inutili che si siano mai viste). Come è possibile che ancora non si sia data una risposta?
Ecco una breve selezione delle mancate risposte ai difetti ed errori del progetto:
-Si continua ad ignorare che i danni agli edifici sono stati tutti sottostimati in confronto con la letteratura scientifica al riguardo.
-Si è autorizzato, da parte dell’Osservatorio Ambientale, lo scavo con una sola fresa delle due gallerie. Con questa modalità i danni in superficie saranno superiori fino al 60%.
-La falda è impattata e sbilanciata in tutti i cantieri con paratie, le mitigazioni non funzionano, ma si continua a tranquillizzare dicendo che “si monitora con attenzione”; monitorare non vuol dire risolvere.
-Gli studi sismici sulla stazione Foster sono stati eseguiti in maniera sbagliata, considerando terreni lontani dal cantiere.
-I consolidamenti previsti sotto i bastioni della Fortezza non sono adatti ai terreni argillosi presenti e provocano essi stessi danni. Si sono già verificati nel caso della scuola Rosai, ma si fa finta di nulla.
-Sul tracciato delle gallerie insistono ben più dei 280 edifici dichiarati dai costruttori e in questi si trovano parecchie migliaia di appartamenti e negozi. Nessuna opera di prevenzione è prevista; i famosi “testimoniali di stato”, effettuati negli anni passati, non servono a prevenire i danni, ma per tutelare i costruttori nell’evidente esplosione del contenzioso che ne seguirà.
I molti errori progettuali hanno rallentato la realizzazione del poco costruito ed i costi stanno esplodendo: dai dati dichiarati qualche mese fa, davanti a lavori eseguiti per il solo Passante del valore di circa 250 milioni, i costruttori accampavano costi ulteriori di 528 milioni che parrebbero ridotti, con una trattativa, a 350.
Ma su tutto domina la profonda ed assoluta inutilità dell’opera, soprattutto adesso che le FS hanno deciso di non mandare i treni TAV alla stazione ai Macelli.
Da questo quadro non è possibile che prevedere sfaceli multipli: per i cittadini che saranno (e sono) danneggiati dai lavori, per tutti i cittadini che pagano l’opera, per le FS che gettano al vento enormi risorse, per la politica nazionale e locale che ne sta uscendo screditata, per i viaggiatori che vedranno peggiorate le loro condizioni. Gli unici vantaggi saranno per i costruttori e i loro “amici”; questi hanno un nome: Condotte SpA, cioè la famiglia Caltagirone, dopo che la cooperativa Coopsette, tanto cara alle maggioranze in Regione e a suo tempo vincitrice della gara di appalto, è ignominiosamente fallita rovinando migliaia di soci.
«La sua estrazione incontrollata per l'edilizia sta devastando la biodiversità. Uno studio, appena pubblicato, sulla rivista Science». il manifesto, 8 settembre 2017 (c.m.c)
Su alcune delle più belle spiagge del nostro paese negli ultimi anni sono comparsi buffi cartelli che recitano «Vietato rubare la sabbia». Non solo l’erosione sta infatti consumando le nostre coste, trasformando la sabbia in un bene sempre più prezioso. La sabbia fa gola ai bambini e alle loro palette, ma soprattutto all’edilizia, che solo in Italia ne consuma circa cento milioni di tonnellate l’anno. Secondo una ricerca pubblicata dalla rivista Science, il suo iper-sfruttamento rappresenta un’emergenza globale. Complice il massiccio spostamento delle popolazioni verso le città, il fabbisogno di materiale da costruzione è in vertiginoso aumento.
Per costruire un palazzo di medie dimensioni, occorrono tremila tonnellate di sabbia. Per un chilometro di autostrada, dieci volte di più. «Tra il 1900 e il 2010, il volume di risorse naturali sfruttate nell’edilizia e nelle infrastrutture dei trasporti è aumentato di ventitre volte. La sabbia e la ghiaia ne rappresentano la maggior parte (l’80% del totale, cioè 28,6 miliardi di tonnellate l’anno)», riportano Aurora Torres, Jodi Brandt, Kristen Lear e Jianguo Liu, i membri della collaborazione Germania-Usa che ha firmato la ricerca. Le conseguenze per l’ecosistema sono catastrofiche.
L’estrazione incontrollata della sabbia mette a rischio la biodiversità, causando l’estinzione di alcune specie, come una ormai rara popolazione di delfini fluviali in India, oppure la diffusione di specie invasive – se la «vongola asiatica» è ormai diffusa dal nordamerica ai fossi del bresciano, lo si deve alle navi che trasportano sabbia (vongole comprese) attraverso gli oceani. Inoltre, ed è un tema di strettissima attualità, le pozze d’acqua che rimangono nei fiumi devastati dall’estrazione della sabbia sono un bacino perfetto per le zanzare che trasmettono la malaria. In alcune regioni, dall’Iran all’Africa occidentale, la diffusione della malaria e di altre malattie e le attività di estrazione della sabbia appaiono strettamente correlate.
Anche il territorio, soprattutto in aree povere della terra, ne appare devastato. In Indonesia, una ventina di isole sono letteralmente sparite, scavate via per trasformarsi nelle nuove terre che la città-stato di Singapore si sta costruendo intorno. Persino nei paesi arabi la sabbia arriva dalle coste dell’oceano indiano, in quanto quella proveniente dal deserto non è adatta a trasformarsi in cemento. In totale, si tratta di un’industria globale da 70 miliardi di dollari l’anno. Secondo i ricercatori, stiamo assistendo a una nuova «tragedia dei beni comuni», una celebre espressione coniata da Garrett Hardin nel 1968 a proposito dei pascoli inglesi: senza una regolamentazione, un bene comune a completa disposizione degli interessi individuali si esaurisce rapidamente.
Estrarre sabbia da coste e fiumi per farne cemento è stato finora considerato il modo più facile ed economico per rifornirsi. È ormai urgente che i governi aprano gli occhi sul fenomeno e che noi tutti iniziamo a ripensare la sabbia, la più umile delle materie prime, come una risorsa scarsa. E a studiare le possibili alternative, come sta avvenendo con il carbone e il petrolio. Qualche governo, soprattutto nei paesi più avanzati, sta prendendo provvedimenti. Alla fine di luglio, lo stato della California ha deciso la chiusura dell’ultima miniera di sabbia rimasta sulle spiagge degli Stati Uniti, nella baia di Monterey.
La sabbia, però, è preda anche delle organizzazioni criminali. Le «sand mafia» si stanno diffondendo in tutto il mondo. Il fenomeno è radicato e pericoloso soprattutto in India. Le vittime della Sand Mafia indiana si contano a decine, tra affiliati e forze dell’ordine. Secondo i dati forniti dell’indiana Aunshul Rege e dell’italiana Anita Lavorgna, il business nel subcontinente vale 16 milioni di dollari al mese. Analoga è la situazione in altri paesi, come Cina, Kenya o Marocco. Anche in Italia questa particolare forma di ecomafia ha dimensioni ragguardevoli. Tuttavia, lamentano Rege e Lavorgna, non c’è una conoscenza quantitativa precisa sul traffico illegale di sabbia in Italia, strettamente controllato da camorra e ’ndrangheta.
La gestione commissariale è solo l'ultimo grande abbaglio, riportare la legalità, per completare un'opera sbagliata, dannosa e pericolosa: quando? sempre più tardi. la Nuova Venezia, 7 settembre 2017 (m.p.r.)
MUFFE E DEGRADO
PARATOIE BLOCCATE Corrosione in aumento, vernici già vecchie. E senza impianti non si possono sollevare le dighe. L'opera finirà in ritardo
Venezia. Corrosione in aumento. Paratoie che non si alzano, muffe e degrado nei corridoi dei cassoni sotto la laguna. E anche paratoie, da sei mesi esposte alle intemperie e alla salsedine a Santa Maria del Mare, da ridipingere. I problemi del Mose non finiscono mai. E adesso quelli riscontrati da tecnici e ingegneri delle imprese e del Consorzio rischiano di rimettere la grande opera al centro delle polemiche. E di ritardarne ancora la conclusione. Dopo il grande scandalo, le tangenti e gli arresti (giugno 2014) il treno del Mose che correva spedito è deragliato. Per farlo ripartire non basta la gestione straordinaria dei commissari anticorruzione, creata dal Raffaele Cantone per riportare la legalità. Occorre risolvere i tanti problemi emersi e trovare soluzioni.
Gli impianti.
L'ultimo è il ritardo nella costruzione degli impianti elettrici per il sollevamento delle paratoie. Come noto, il sistema Mose ha bisogno di energia per sollevare la schiera delle dighe, e non sfrutta in questo caso l'energia naturale delle onde e del mare. A Treporti, dove la prima schiera di paratoie verso Punta Sabbioni è stata posata nel 2013, è stata costruita una centrale elettrica nella vicina isola articiale del bacàn. Non così a Malamocco, dove si è deciso di posare le paratoie sul fondo prima che la centrale fosse realizzata. Risultato: da qualche mese il sistema è adagiato sul fondo ma non è possibile fare le prove di sollevamento.
Corrosione e fouling.
Le prime ispezioni hanno già verificato l'esistenza di corrosione di problemi di fouling. Secondo problema: la mancanza di energia impedisce la corretta d ventilazione dei corridoi di collegamento sotto la laguna. Dove passano i cavi e i sistemi, e i tecnici addetti all'ispezione del sistema. Sulle pareti e sugli impianti si è depositato uno strato di 5 centimetri di muffa. Il Mose è un sistema concepito per stare sempre sott'acqua. E senza vigilanza e manutenzione i problemi si moltiplicano. Come la corrosione dei alcune parti delle cerniere, già denunciata qualche mese fa. Che si fa? Il Consorzio Venezia Nuova, retto dai commissari Raffaele Fiengo e Francesco Ossola, ha deciso di bandire la gara per la costruzione degli impianti. Vinta da due gruppi di mpres, la Abb Comes di Taranto e la Abb Idf di Brindisi. Non è stata accolta la proposta di realizzare nel frattempo impianti provvisori per movimentare le paratoie. Sarebbero costati 14 milioni di euro.
Le vernici.
Ma adesso i problemi si intrecciano. Le paratoie che dovrebbero essere affondate nella bocca di porto sono da mesi in attesa sulla piarda di Santa Maria del Mare, il cantiere dei cassoni del Mose. Il ritardo nella posa è dovuto alla rottura del jack-up, la nave da 52 milioni di euro che doveva servire per il loro trasporto che non ha mai preso il largo. Costruita quattro anni fa e mai funzionante. Ma anche per la decisione di fare la gara per gli impianti (pochi milioni di euro) alla fine, dopo che le paratoie sono state costruite da cantiere croato Brodosplit di Spalato. Da mesi gli operai della Comar combattono contro gli agenti atmosferici e i gabbiani, che hanno scelto le paratoie come loro nido. Il loro guano - anche questo non era previsto - corrode le vernici. tanto che a Malamocco si sentono colpi di cannone diffusi con l'altoparlante in cantiere per cercare di allontanare i pennuti. Tutto inutile: i mesi di esposizione e il mancato affondamento in acqua hanno provocato un deterioramento delle vernici anticorrosione. Adesso bisognerà intervenire.
I tempi.
In conclusione i tempi annunciati dal governo per la conclusione de l progetto Mose potrebbero slittare ancora. L'atto firmato solo pochi mesi fa dal Provveditorato alle Opere pubbliche con il Consorzio Venezia Nuova prevede che i lavori siano consegnati alla fine del 2021, dopo tre anni di prove e di «conclusione lavori impianti». Una tabella di marcia aggiornata per l'ennesima volta. Dopo che la fine lavori era stata modificata dall'annuncio iniziale (2011), prima al 2014, poi al 2017, infine al 2018 con la clasuola però che l'opera non sarà consegnata prima della fine del 2021. Ma la mancata soluzione delle criticità e l'insorgere di nuovi problemi rischia adesso di modificare ancora l'obiettivo. Ci vorranno almeno altri quattro anni per vedere le dighe finite
CONSORZIO, LE NUBI SUL FUTURO
E INTANTO LE BANCHE NON PAGANO
Tre anni dopo l'inchiesta i commissari sono rimasti due. I contrasti tecnici e le incognite, i rapporti con le imprese
Venezia. Tre anni dopo lo scandalo, il Mose è ancora in alto mare. I ritardi dovuti all'inchiesta, la scoperta di aspetti illegali e l'opera di "bonifica" di quello che era diventato un grande buco nero e una macchina per creare fondi neri e distribuire tangenti si riflettono adesso sul futuro dell'opera.Si finirà mai il Mose? Situazione delicata dopo le dimissioni, qualche mese fa, del commissario Luigi Magistro, il primo nominato da Cantone.
A guidare il Consorzio, una volta "regno" assoluto di Giovanni Mazzacurati, sono adesso due commissari. L'avvocato dello Stato napoletano Giuseppe Fiengo e l'ingegnere torinese Francesco Ossola. I rapporti tra i due sono formali e non troppo cordiali. Il primo si occupa di bilanci e aspetti legali, il secondo dell'aspetto tecnico. Ossola, già consulente del Consorzio negli anni Ottanta per le rive dei Tolentini, docente al Politecnico di Torino e progettista dello Juventus Stadium, ha nominato tre suoi consulenti. L'ingegnere Sara Cristina Lovisari per la manutenzione e progetti speciali, le verifiche sui progetti, lavori e forniture del jack-up; i fenomeni di corrosione, i monitoraggi. E poi l'ingegnere Francesco Cefis per i progetti dell'Arsenale e per gli interventi in laguna, e per le opere alle bocche l'ingegnere Mauro Scaccianoce. Uno staff che sta gestendo la fase tecnica in contatto con il provveditorato alle Opere pubbliche (ex Magistrato alle Acque) presieduto da Roberto Linetti.
Ma molte sono le incognite sul futuro del Consorzio. Che si trova spesso in contrasto con le imprese sue azioniste, Mantovani, Condotte, Fincosit. Che chiedono soldi e lavoro, ma vedono il progetto andare a rilento.Dopo gli arresti e il commissariamento, il meccanismo dei finanziamenti è stato modificato. Non più mutui pagati automaticamente dalle banche, ma fondi che fanno parte del bilancio dello Stato. Che spesso arrivano in ritardo.
Il Consorzio insomma, dopo aver tagliato incarichi e spese - anche alle sue imprese - si trova adesso in difficoltà per la gestione dei pagamenti e della cassa. Le banche rifiutano di finanziare senza garanzie precise. E il nervosismo delle imprese, abituate negli anni passati ad avere lavori per centinaia di milioni di euro l'anno, aumenta.Aumenta anche la conflittualità legale. Pendenti in Tribunale al Tar ricorsi sui bilanci e sugli atti della Convenzione. Richieste di danni da parte del Consorzio alle imprese, delle imprese al Consorzio. Situazione intricata per cui i commissari devono governare una barca costruita e messa in mare da altri. Per il futuro del Consorzio (e dei commissari) si annuncia un autunno molto caldo.
Ma andiamo per ordine: lo scorso 29 agosto, su proposta del premier Paolo Gentiloni, il Consiglio dei ministri ha impugnato la legge sarda sulle misure urgenti per l’edilizia e l’urbanistica approvata il 3 luglio perché considerata in contrasto con le norme statali in materia di paesaggio e per aver violato l’articolo 117 della Costituzione, quello che disciplina le potestà legislative dello Stato e delle regioni. Stessa sorte, all’inizio del mese di agosto, aveva subìto la norma varata dalla giunta De Luca in Campania per fermare la demolizione degli edifici abusivi. L’ultima è di qualche giorno fa, quando l’assessore sardo all’urbanistica Cristiano Erriu, ex Dc e Popolari approdato al partito di Renzi, ha inviato al ministro dei beni culturali Franceschini una nota dai toni risentiti per chiedere la testa del sovrintendente Martino, un atto senza precedenti nella storia dell’autonomia sarda.
L’accusa rivolta al dirigente statale è di essersi espresso pubblicamente contro la politica urbanistica dell’amministrazione Pigliaru e di aver difeso con zelo eccessivo il vincolo di inedificabilità dei trecento metri dal mare dalle richieste dei costruttori, in testa la Sardinia Resort del Qatar: «Ha pregiudizi – è scritto nella lunga nota – e con lui è difficile qualsiasi interlocuzione, d’ora in poi con Martino non parleremo più».
Effetto immediato, gli ispettori del Mibac pronti a calare negli uffici sardi, col sovrintendente che affida il proprio pensiero a poche parole: «Non sapevo che manifestare opinioni fosse un reato, comunque in questi anni non ho fatto altro che chiedere il rispetto delle norme, mi pagano per questo».
Originario di Salerno, Martino è un architetto che la sa lunga anche sugli aspetti giuridici della materia paesaggistico-ambientale. Nel suo passato un confronto piuttosto intenso con l’attuale governatore della Campania Vincenzo De Luca e in Sardegna, siamo ai tempi recenti, una serie di interventi che tra l’altro hanno fermato un generoso condono edilizio sollecitato dal parlamentare del centrodestra Pierpaolo Vargiu, il taglio indiscriminato della meravigliosa foresta del Marganai nel sud dell’isola, oltre ad aver contrastato l’applicazione di un piano casa della Regione sospettato di assomigliare troppo a quello della giunta Cappellacci, già bocciato dalla Consulta.
Uomo determinato, Martino sarebbe riuscito a bloccare anche il raddoppio della discarica dei fanghi rossi, un immenso spazio devastato dove da decenni l’Eurallumina di Portoscuso scarica i suoi veleni. Gravato da usi civici, quel sito sarebbe intoccabile, ma pur di superare lo scoglio normativo si è mosso il senatore sardo Silvio Lai (Pd): a luglio è riuscito a far inserire nel decreto del Sud (la legge 91 del 2017) un emendamento di poche righe col quale il vincolo degli usi civici viene cancellato.
Un pensiero rivolto dallo Stato alla Sardegna, dove la partita su cemento e paesaggio promette un autunno ancor più caldo dell’estate.
postilla Siamo stati tra i primi a denunciare lo stravolgimento del piano paesaggistico regionale della Sardegna operato dall’attuale presidente della Regione, il piddino Francesco Pigliaru, che abbiamo giudicato essere ancora peggiore del suo predecessore berlusconiano Ugo Cappellacci. Abbiamo giudicato intollerabile, anche dal punto di vista dei rapporto tra le pubbliche istituzioni, il suo ukase contro il soprintendente Fausto Martino, denunciato per aver adempiuto correttamente al suo ruolo di vigile guardiano della tutela del paesaggio in nome degli interessi generali della nazione e dello stato, e ci siamo congratulati con lui per la correttezza e l’utilità sociale della sua azione. Non siamo stati i soli ad assumere questo atteggiamento nei confronti dell’attuale presidente della Sardegna e del suo ineffabile assessore all’urbanistico. Sull'argomento si vedano su eddyburg le interviste di Edoardo Salzano a la Nuova Sardegna e al manifesto, e gli articoli di Costantino Cossu, di Antonietta Mazzette e di Sandro Roggio.
la Repubblica, 7 settembre 2017 (c.m.c)
Una frana è più di un macigno. E una figura di palta può generare un dissesto più rognoso di qualsiasi penale. Se poi in nome dello sviluppo urbanistico sfregi con uno scavo di 70mila metri cubi di terra un patrimonio dell’umanità, forse rischi il destino di Tafazzi. È la morale di quanto sta succedendo da sei giorni, ruspe al lavoro, a Bergamo alta: sulle Mura venete, fiore all’occhiello della città. Mura insignite dall’Unesco del titolo più prestigioso per un sito.
La storia, venuta al pettine dopo 13 anni, è complessa. Ma essenziale nel suo scheletro. Protagonista è un mega parcheggio interrato: nove piani per 496 posti auto. Auto di turisti e visitatori. Un bestione così, di norma, trova posto ovunque tranne che nei centri storici. Figurarsi in un gioiellino che vanta vestigia medievali, botteghe di età romana, opere della Serenissima tra cui, appunto, i baluardi e le porte veneziane. Dunque a Bergamo dove sorgerà l’autosilo? Qui, all’interno della cinta muraria tutelata. Al di sotto dell’ex parco faunistico della Rocca, polmone verde geologicamente delicato.
Nel 2008 è venuta giù una frana mentre si stava iniziando a scavare. Adesso gli operai si sono rimessi all’opera nonostante le vibranti proteste dei residenti e, più in generale, dei bergamaschi a cui l’idea di vedere violentate le Mura dell’Unesco fa venire l’ulcera. «Fermate questa vergogna» — tuona Giovanni Ginoulhiac, tra i promotori del comitato NoParking Fara che da mesi chiede al sindaco Giorgio Gori di fare marcia indietro. L’altro giorno hanno consegnato al primo cittadino 6.383 firme “contro”. Prima ci sono state manifestazioni di protesta, appelli, richiesta di carte e di cifre (quelle mai comunicate a cui ammonterebbero le penali per il mancato rispetto della convenzione stipulata dall’amministrazione con Bergamo Parcheggi). Le hanno tentate tutte, per contrastare il cantiere. Zero. Il sindaco ha azionato gli escavatori. «È la migliore soluzione per un’eredità difficile», ha scritto Gori a fine giugno in una lettera ai cittadini.
Torniamo alla frana del 2008: in pericolo non finirono solo le abitazioni adiacenti il cantiere, ma anche l’ex convento di San Francesco, la Rocca, la porzione di Mura venete sottostanti. Da allora il progetto fu congelato (e la frana tamponata in emergenza con tonnellate di materiale al centro di un processo per discarica abusiva di rifiuti speciali tossici a carico dell’imprenditore Pierluca Locatelli). Una frana, evidentemente, non è bastata. Accadesse di nuovo? «Lo scandalo è doppio — attaccano i NoParKing — La messa a rischio di un patrimonio storico e il non senso di una scelta in controtendenza rispetto a quello che stanno facendo tutte le città europee: portare le auto fuori dai centri storici».
Con il nuovo parcheggio (costo 18 milioni: 70% privato e 30% pubblico), in Città alta le auto dei turisti entreranno 24h24. Alla faccia delle fasce Ztl introdotte proprio per decongestionarla. A ottobre 2016 la giunta ha approvato la nuova convenzione per il via all’autosilo. «Siamo obbligati, altrimenti pagheremmo penali stratosferiche», hanno ripetuto da Palazzo Frizzoni. Sull’eventuale salasso pecuniario, però, aleggia una nebulosa. Si rimanda al parere dell’avvocatura comunale. La quale tuttavia il 20 febbraio 2017 scrive: «Nessun parere è stato formulato dallo scrivente ufficio sull’opportunità di proseguire i lavori afferenti alla realizzazione del parcheggio».
«L’eredità scomoda», dunque. La patata bolle dal 2004. Tre giunte si scaricano la palla. Poi arriva Gori e decide di metterla in rete. «L’obiettivo è togliere le auto dalle piazze: per questo il parcheggio sarà riservato ai residenti e ai lavoratori del centro storico». Ma l’autosilo, sorpresa, sarà invece destinato ai turisti. I commercianti già sognano l’effetto Firenze o Venezia. Gioisce l’impresa assegnataria (Collini spa), coinvolta in un’indagine conclusasi nel 2010 con un patteggiamento per turbativa d’asta e corruzione.
E gli altri? Legambiente e Italia Nostra vedevano il parcheggio come il fumo negli occhi: la prima si è rassegnata, la seconda inabissata. E L’Unesco che dirà? Curiosità: Gori abita a 300 metri dal cantiere della discordia e è iscritto al circolo Pd di Città alta. Che resta assai contrario. «Abbiamo chiesto un dialogo, ma il sindaco non ha dato retta a nessuno», — dice il segretario dem Alessandro Tiraboschi. Qualcuno ricorda il commento di un ammirato Le Corbusier in visita a Bergamo nel 1949: «Le automobili dei visitatori devono essere lasciate fuori dalla città vecchia». Parole al vento.
La ragionata e critica recensione del saggio La questione meridionale in breve. Centocinquantanni di storia, il manifesto, 5 settembre 2017 (m.p.r.)
Scomparso da tempo dall’agenda politica dei governi e persino dagli slogan elettorali del ceto politico, il “continente Sud” riappare di tanto in tanto sullo scenario pubblico solo grazie all’ iniziativa di singoli studiosi. E’ accaduto lo scorso anno con un insieme di saggi di alcuni fra i maggiori studiosi del Mezzogiorno a cura di Sabino Cassese (Lezioni sul meridionalismo, il Mulino 2016 ) accade in questo scorcio d’anno per iniziativa di Guido Pescosolido, La questione meridionale in breve. Centocinquantanni di storia, Donzelli, pp.161 € 20).
Si tratta anche in questo caso di una lodevole iniziativa che si lascia apprezzare soprattutto per l’ardimento intellettuale e storiografico con cui l’autore affronta quella che senza dubbio resta la più controversa questione della nostra storia unitaria. Un ardimento che può possedere solo chi, com’è il caso di Pescosolido, ha dedicato al tema una parte considerevole dei propri studi. E infatti l’operazione appare perfettamente riuscita, perché l’autore, in poco più di 150 pagine di testo dell’agile collana delle Saggine Donzelli, riesce a dar conto dei problemi, dei caratteri strutturali, delle svolte, delle stagioni politiche di ben 150 anni di una storia su cui si è accumulata una letteratura sterminata. Beninteso, l’autore, il più autorevole allievo di Rosario Romeo, ricostruisce l’intera vicenda storica e interpreta l’evoluzione del divario da un punto di vista liberal-liberistico (ma non neoliberistico) che non è quello di chi scrive. Ma bisogna riconoscere che un merito di questo libretto è lo sforzo continuo del suo autore di una obiettività interpretativa dei fatti realizzata tenendo conto dei più vari contributi e punti vista emersi negli studi degli ultimi decenni.
Senza esagerare nelle polemiche con i risorgenti neoborbonismi - che offuscano anche gli sforzi di chi legittimamente vuole fare storia degli sconfitti, privati di ogni storia - l’autore rivendica il carattere positivo dell’unificazione italiana, sia da un punto di vista politico istituzionale che economico sociale. Io non sono convinto che la scelta apertamente liberistica della Destra storica, all’indomani dell’unità, sia stata la migliore politica economica possibile. Benché occorra tener conto del contesto internazionale di allora, e dei limiti di manovra dei nostri governanti. Così come credo (e come ho cercato di provare) che i gruppi dirigenti ignorarono gravemente gli specifici problemi territoriali del Sud e si disfecero, con danno e per pregiudizio politico, dell’esperienza bonificatrice dei tecnici borbonici. Ma certamente l’unità è stata una delle svolte politiche più rilevanti nella storia secolare del nostro Paese, di cui anche il Sud ha alla lunga beneficiato. Benché a prezzo di non pochi sacrifici e torti, come pure Pescosolido riconosce, ad es. nelle pagine dedicate al brigantaggio. D’altra parte l’autore non dimentica che «il Mezzogiorno è stata parte integrante dello sviluppo capitalistico nazionale, e il mercato meridionale decisivo ai fini dell’avvio e del consolidamento dell’industrializzazione del Nord».
Senza dubbio, la fase storica in cui i termini del divario si sono attenuati è quella del decennio 1962-1973, non a caso il periodo interno al trentennio d’oro delle politiche keynesiane nel mondo occidentale. Una stagione storica in cui non soltanto l’andamento del Pil tra le due sezioni territoriali del Paese tende ad avvicinarsi, ma quella in cui tanti altri indici della vita sociale, civile e culturale migliorano decisamente. Dopo quella stagione, pur conoscendo il Sud trasformazioni radicali, la divaricazione in termini di reddito non si è più attenuata e oggi, a quasi 10 anni dall’esplosione della crisi mondiale, ben 40 punti separano il pil pro-capite meridionale da quello del Centro-Nord.
L’autore non si sottrae allo sforzo di individuare le cause della crescita del divario nelle scelte di politica economica e nella condotta delle forze politiche e sindacali, che sono seguite a quegli anni - su cui non concordo del tutto - e nella grande svolta istituzionale del 1970: «il grande fallimento delle regioni e delle classi dirigenti meridionali». Un giudizio giustamente severo che io attenuerei per i governi dell’Abruzzo e della Puglia. Senza dimenticare, più in generale, «la non funzionalità del “sistema Italia”, nelle sue articolazioni, giudiziarie, istituzionali, politiche, amministrative».
C’è tuttavia un rischio oggi, nel riproporre la questione meridionale come divaricazione economica netta Centro-Nord- Sud: quella di favorire una indiscriminata prospettiva di sviluppo. Non solo perché alcune tare storiche del Mezzogiorno, come la criminalità mafiosa, sono ormai diventate nazionali. E non solo perché il Sud è un continente molto variegato con elementi di dinamismo in vari ambiti – come lo stesso Pescosolido ricorda – che non consentono una raffigurazione uniforme. Ma soprattutto perché il Sud è per eccellenza l’area delle disuguaglianze italiane, esaltate negli ultimi decenni dalle politiche neoliberistiche di tutti i governi. Qui vivono famiglie gettate nella disperazione sociale e una borghesia parassitaria che alimenta consumi sontuosi senza produrre alcunché, che distorce in senso clientelare l’amministrazione pubblica, che è generalmente incolta e dunque contribuisce ad abbassare il tono civile dell’intera società. Questa borghesia, che investe prevalentemente nell’edilizia e nel saccheggio del territorio, impegnata a intercettare le risorse che passano attraverso le regioni, è la fonte di tanti problemi del Mezzogiorno, anche per gli oscuri legami che non di rado intrattiene con la criminalità.
«Gli alberi sono una delle componenti del paesaggio urbano e il paesaggio è un organismo complesso che richiede molti sguardi».il Fatto Quotidiano online, 1 settembre 2017 (c.m.c.)
Gli alberi non sono solo una faccenda per agronomi, proprio come gli esseri umani non sono solo una faccenda per medici. Senza alberi l’uomo non campa, invece gli alberi camperebbero meglio senza uomini. In questi giorni a Firenze, città perfetta, accade qualcosa di grave agli alberi e agli uomini.Dieci milioni di euro per il verde. Come racconta l’assessora all’ambiente di Firenze, Alessia Bettini, intervistata a Radio radicale (minuto 3.44 del podcast del 13 agosto delle ore 15.00) ha destinato ad alberi e piante dieci milioni per il 2017 contro i 285mila dell’amministrazione precedente (giunta Renzi). Bene, abbiamo pensato, chissà quanti alberi nuovi e quante cure per quelli vecchi. Ma i quattrini, si sa, non basta averli. E con quella cifra abnorme, in pochissimi giorni, stanno stravolgendo a colpi di motosega uno dei paesaggi urbani più conosciuti al mondo.
La scuola di Agraria di Firenze, con il professor Francesco Ferrini e l’ordine degli agronomi hanno collaborato con il Comune, dice l’assessora. Insomma, il risultato è che abbattono poco meno di 300 alberi e ne pianteranno 800 nuovi. Ma per ora si vedono dolorosi abbattimenti. Tanto terribili che hanno innescato una pioggia di critiche anche se la città è in apoplessia feriale. Critiche anche da parte di altri agronomi. Però dai loro profili – ormai siamo profili – i sostenitori dei tagli raccontano che bisogna lasciar fare agli esperti. Ohiohi, quante volte l’abbiamo sentita questa faccenda degli esperti.
Strada dopo strada, angolo dopo angolo stanno modificando – con una brutalità che inquieta – luoghi che eravamo abituati a vedere da mezzo secolo e più con le loro alberature. In altre parole cambiano in pochi giorni il paesaggio di Firenze. Cacciano via, con la motosega, l’anima di piazze e viali. Viale Corsica e i suoi 49 ippocastani (di cui 20 pericolanti) tutti segati per sostituirli con un orribile alberello che è diventato un simbolo di questo cambiamento pericoloso. Il pero cinese. Una pianta piccola, infestante, che farà mai ombra, mai fresco e meno ossigeno. E i pini della stazione? Anche quelli segati. Chi arriva a Firenze penserà d’essersi perso. E gli olmi mozzati in piazza San Marco? Un paesaggio scempiato.
Fermarsi, riflettere e migliorare il piano attuale? No, vanno avanti. Eppure gli argomenti per fermarsi e i dubbi sono tantissimi. Anche i bambini sanno che la città è una metafora del cambiamento e della vita stessa. Ma tutto, benessere e malessere, sta nelle modalità del cambiamento, nella sua entità e velocità. Ovvio pure che anche gli alberi hanno una vita e muoiono, ovvio che tra qualche anno i nuovi alberi ricresceranno.
Ma non si può – rudimenti di urbanistica – affidare il paesaggio di Firenze agli agronomi, per quanto bravi e appassionati. Loro vedono solo alberi. Non sono tenuti a vedere il contesto. Gli alberi sono importanti, vitali, ma sono una delle componenti del paesaggio urbano e il paesaggio è un organismo complesso che richiede molti sguardi, molte conoscenze, molti occhi e teste.
Firenze possiede dieci milioni e li usa per abbattere alberi e non per curarli? Erano tutti incurabili e pericolanti? E la scelta dei peri cinesi in viale Corsica? Sembra una bestemmia botanica. Chi arriverà e troverà peri cinesi si chiederà dove diavolo è finito. Firenze ha una sua anima che non rassomiglia a quella delle città dove piantano peri orientali. E quell’anima vincerà. Però nel frattempo dovrà rinunciare a un poco d’ombra, fresco e ossigeno. E sarà meno bella e felice.
E poi uno si fa domande. Come si spendono dieci milioni di euro in alberi? Quanto costa abbattere e quanto valgono gli alberi? Da dove arrivano i nuovi? Non è cultura del sospetto questa. E’ cultura della curiosità. I vivai tengono in vita famiglie e rappresentano un’economia importante e sostenibile, certo. Ed è certo pure che l’agronomia è una scienza nobile. Ma che lo scrigno del sapere sia conservato nelle università è da dimostrare. Dalle mie parti, per esempio, l’università governa e si occupa di paesaggio. Sono gli esperti e sono pure di “sinistra”, però le cose vanno male.
Governare è difficile, si sa. Ma siamo tutti, senza eccezione, un po’ Erostrati, vogliamo lasciare un segno. Così anche la giunta che governa Firenze le studia tutte per non essere dimenticata. Con gli alberi segati un segno lo lascia di certo. La città ha superato situazioni terribili. Ma non si era mai dedicata a disfare crudelmente e repentinamente un tessuto urbano e una memoria che sono costati tanto tempo e sofferenza.
«Il momento migliore per piantare un albero è vent’anni fa.
Il secondo momento migliore è adesso».(Confucio)
Corriere della Sera, 5 settembre 2017 (p.d.)
Caro Presidente, all’indomani dell’impugnativa del Governo sulla cosiddetta legge sulle Manutenzioni la Sardegna è tornata al centro dell’attenzione dell’Italia intera, cittadini e istituzioni, spaventati da una politica che sembra non tutelare a sufficienza, e anzi mettere a rischio, il prezioso patrimonio ambientale e paesaggistico della sua Regione, che proprio per esso, in Italia e nel mondo, spicca. Come Presidente del Fai non posso ignorare tale preoccupazione, che in parte - le confesso - sento anche io.
Prima dell’estate abbiamo preso atto, con grande soddisfazione, dell’iniziativa della sua Amministrazione di riformulare il testo della legge urbanistica che tante polemiche ha sollevato. Fin da subito ne abbiamo denunciato le criticità, perché su punti sostanziali - demolizioni e ricostruzioni, incrementi volumetrici e progetti ecosostenibili di grande interesse sociale - la riforma mostrava di voler procedere in deroga al Piano Paesaggistico Regionale e soprattutto secondo logiche inattuali, contraddittorie e poco rigorose.
Il rigore, invece, deve accompagnarci nell’affermare la tutela dell’ambiente e del paesaggio. Non è più tempo per lasciare ambiguità e spazi di interpretazione nella gestione del territorio, ché tutto quel che perdiamo, lo perdiamo per sempre. È innegabile la necessità di trasformare alcuni ambiti di paesaggio, anche per rispondere alle evidenti necessità di sviluppo industriale e turistico della sua Regione. Il paesaggio immobile è un paradosso e nessuno, tantomeno il Fai, crede più che la soluzione sia trasformarlo in una riserva museale. La trasformazione è un’opportunità, non una minaccia, ma se è ispirata e guidata da giusti principi: favorire progetti sostenibili, contenere il consumo di suolo, valorizzare i paesaggi e le loro storiche vocazioni, salvaguardare integrità delle coste e identità dei territori rurali, promuovere il riuso, la riqualificazione del già costruito e di quanto è compromesso e degradato.
Questi stessi principi sono virtuosamente enunciati nella premessa alla riforma urbanistica sarda e sappiamo che sono da lei ampiamente condivisi, ma è giunto il momento di vederli finalmente concretizzare nelle disposizioni di legge della sua Giunta. La Sardegna può essere un esempio per l’Italia, come è stato il suo Piano Paesaggistico Regionale, precoce e virtuoso strumento per una buona politica del territorio. È nelle sue mani oggi un’opportunità imperdibile, per affermare chiarezza di intenti e lucidità di visione. Questo chiedono i cittadini, e questo le chiede anche il Fai.
Abbiamo molto apprezzato la disponibilità della sua Amministrazione ad accogliere i nostri suggerimenti, facendo propri alcuni emendamenti alla riforma urbanistica avanzati dal Fai, che speriamo di ritrovare al più presto nella nuova formulazione della legge. Questo atteggiamento ci ha rassicurati, almeno per il tempo delle vacanze estive, ma nulla è ancora risolto. A quando, dunque, il nuovo testo?
Nel frattempo sta suscitando molte polemiche la cosiddetta legge sulle Manutenzioni, che mette mano agli «usi civici», baluardo di territori delicati, la cui pianificazione deve restare all’interno del Piano Paesaggistico. Purtroppo nessuna polemica, invece, ha suscitato l’emendamento al Decreto per il Sud proposto l’11 luglio dal Sen. Silvio Lai in Commissione Bilancio e approvato dal Governo (L.123/2017), che già di fatto sottrae agli «usi civici» i terreni interessati da piani di sviluppo industriale, aprendo la strada a trasformazioni del territorio in deroga al Piano Paesaggistico, e quindi senza la dovuta concertazione con il Mibact. Va quindi comunque lodata, a nostro avviso, l’impugnativa tempestiva e coraggiosa del Governo. Siamo ben lieti, anzi, di constatare quanto sia sempre più alta l’attenzione alla tutela del paesaggio, in particolare da parte del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e delle sue Soprintendenze. Tuttavia siamo qui oggi a chiedere azioni e rassicurazioni direttamente a lei, che presiede il governo del territorio sardo, perché colga quest’occasione per affermare una netta differenza tra il passato recente, meno consapevole del valore della tutela, e il presente, che sul paesaggio integro, protetto e valorizzato pone le fondamenta dello sviluppo della Sardegna e dell’Italia.
youtg.net, 2 settembre 2017
LEGGE URBANITICA. ILURO DELLA REGIONE
CONTRO ILOPRINTENDENTE.
«HA PREGIUDIZI E BLOCCA TUTTO»
La lettera più recente è indirizzata al ministro dei Beni culturali Dario Franceschini. A firmarla è l'assessore regionale all'Urbanistica ed Enti Locali Cristiano Erriu. L'oggetto è il disegno di legge urbanistica, la legge "madre" di governo del territorio approvata dalla giunta. Un argomento che nelle ultime settimane ha dato tanto da scrivere e da replicare al governatore Pigliaru e ad Erriu. Battaglia di lettere. Venerdì il presidente del Consiglio si era rivolto con una lettera al premier Paolo Gentiloni per replicare alla dichiarazioni del sottesegretario ai Beni culturali Ilaria Borletti Buitoni. Il governatore non aveva gradito in particolare «l'aver stabilito arbitrariamente una continuità tra le politiche in materia urbanistica della precedente Giunta di centrodestra e l'attuale, da sempre impegnata nella tutela del paesaggio e dell'ambiente». Per questo Pigliaru aveva scritto che la sottosegreteria chiedesse scusa.
Interviene Erriu.
Ora è l'assessore Erriu a difende il testo che porta il suo nome dalle critiche mosse dal rappresentante del ministero ai Beni culturali nell'isola, il sovrintendente per l'archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Cagliari, Oristano e ud ardegna, Fausto Martino. Che, scrive Erriu al ministro Franceschini, «attraverso molteplici e discutibili dichiarazioni tanto alla stampa che attraverso blog e social network, assume un atteggiamento considerato da tanti inappropriato per un alto funzionario dello tato nei confronti dell'istituzione regionale, esprimendo pareri di merito sulle scelte politiche dell'attuale Giunta».
Erriu ricorda le ultime dichiarazioni del Sovrintendente successive all'impugnazione da parte del Governo di alcuni articoli della legge 11 del 2017 - la legge omnibus o delle manutenzioni - «con le quali ha espresso giudizi sulle scelte politiche contenute nel disegno di legge sul governo del territorio attualmente in discussione in Consiglio regionale, scelte sulle quali la Regione ha competenza primaria, anticipando una posizione censoria delle decisioni che nell'assemblea verranno democraticamente assunte».
Martino aveva contestato la possibilità di incrementi volumetrici sulle coste dicendo che non è quella la strada giusta per tutelare il paesaggio. Erriu nella lettera a Franceschini spiega che con il Soprintendente i rapporti sono da sempre complicati: «Con gli uffici locali del ministero dei Beni e delle attività culturali c'è stata un'estenuante difficoltà di interlocuzione sin dal momento dell'insediamento dell'attuale governo regionale». Nonostante la Regione abbia «incessantemente cercato una fattiva collaborazione con il Mibact e i suoi organi locali per riprendere le attività di verifica e adeguamento del Ppr che si erano interrotte negli ultimi mesi della scorsa legislatura, tutte le proposte di dialogo e confronto che abbiamo avanzato non hanno prodotto risultati concreti - conclude l'assessore Erriu -. Ciò rende dubbia la praticabilità di prossime interlocuzioni con il Soprintendente che pare mosso da posizioni pregiudiziali, irrispettose dei ruoli e dell'autonomia sarda».
Nuova puntata
La sensazione è che ci saranno ancora lettere e comunicati al vetriolo. A innescare la nuova miccia è Maria Antonietta Mongiu, ex assessore della giunta Soru e sino a poco tempo fa presidente del Fai. In un recente incontro a Pattada la Mongiu, oggi al timone di Lamas e Sardegna oprattutto aveva puntato il dito contro l'accondiscendenza della giunta verso certi investitori stranieri (vedi Qatar) suscitando la reazione forte e indignata dell'assessore Erriu. Ora la Mongiu commenta la lettera di Pigliaru e Gentiloni: «Le parole con cui il presidente Pigliaru si rivolge al primo ministro Gentiloni contro la Borletti Buitoni impressionano per la violenza verbale e per come a sproposito difende l'autonomia speciale e il consiglio regionale contro lo stato centrale. In questo caso, Costituzione alla mano, è lo stato centrale che sta difendendo il paesaggio ed il suolo della Sardegna contro la classe dirigente che governa la Regione. piace constatare - l'affondo della Mongiu - che ha ragione la sottosegretaria nel dire che non c'è discontinuità tra Cappellacci e Pigliaru». (si. sa.)
la Nuova Sardegna, 3 settembre 2019
LO CONTRO ULL'URBANITICA.
ERRIU ATTACCA MARTINO
CAGLIARI. “Attraverso molteplici e discutibili dichiarazioni tanto alla stampa che attraverso blog e social network, il Sovrintendente per l'Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Cagliari, Oristano e ud Sardegna, Fausto Martino, assume un atteggiamento considerato da tanti inappropriato per un alto funzionario dello tato nei confronti dell'istituzione regionale, esprimendo pareri di merito sulle scelte politiche dell'attuale Giunta”.
Lo sostiene l'assessore dell'Urbanistica Cristiano Erriu, in una lettera inviata al ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini. L'esponente della Giunta Pigliaru nella missiva ricorda le ultime dichiarazioni del oprintendente successive all'impugnazione da parte del Governo di alcuni articoli della legge n.11 del 2017 “con le quali ha espresso giudizi sulle scelte politiche contenute nel disegno di legge sul governo del territorio attualmente in discussione in Consiglio regionale, scelte sulle quali la Regione ha competenza primaria, anticipando una posizione censoria delle decisioni che nell'assemblea verranno democraticamente assunte”.
“L'atteggiamento critico e irrituale tenuto dal Soprintendente - prosegue Erriu - si accompagna a una estenuante difficoltà di interlocuzione con gli uffici locali del Ministero dei Beni e delle Attività culturali sin dal momento dell'insediamento dell'attuale governo regionale. Questo - attacca l'assessore all'Urbanistica - vale per la annosa questione della necropoli di Tuvixeddu, per la copianificazione dei beni paesaggistici per la verifica e adeguamento del Ppr che il soprintendente Martino ritiene indispensabile ma per la quale non si è mai reso effettivamente disponibile, e per la stessa legge urbanistica la cui bozza, per leale collaborazione, gli fu trasmessa svariati mesi prima della presentazione, senza ricevere osservazioni in merito".
Il titolare dell'Urbanistica segnala al Ministro Franceschini che “la Regione ha incessantemente cercato una fattiva collaborazione con il Mibact e i suoi organi locali per riprendere le attività di verifica e adeguamento del Piano Paesaggistico, ai sensi dell'articolo 156 del Codice del Paesaggio, che si erano interrotte negli ultimi mesi della scorsa legislatura. A tal fine - ricorda Erriu - io stesso mi sono recato più volte al Mibact con il mio staff tecnico per istituire un rapporto di leale collaborazione sui vari e delicati temi che riguardavano congiuntamente le due istituzioni, ricevendo dalle sottosegretarie Barracciu, prima, e Borletti Buitoni, poi, ampie rassicurazioni in tal senso e l'impegno alla più ampia collaborazione". E tuttavia, lamenta l'assessore, "mi duole rilevare che, purtroppo, agli impegni presi in quelle sedi, da parte degli uffici ministeriali non seguirono i fatti".
“Non certo alla Regione sarda – si legge nella lettera indirizzata a Franceschini - può essere attribuita la volontà di affrontare queste delicate questioni in solitudine, ma che, al contrario, ogni tentativo sia stato fatto per operare con il pieno coinvolgimento del Ministero, purtroppo senza apprezzabili risultati, con la conseguenza che questioni particolarmente critiche per l'Isola, attendono ancora soluzione. Ciò - denuncia Erriu - rende dubbia la praticabilità di prossime interlocuzioni con il Soprintendente che pare mosso da posizioni pregiudiziali, irrispettose dei ruoli e dell'autonomia regionale sarda”.
“Ci rendiamo tuttavia disponibili - conclude l'assessore - per affrontare al più alto livello istituzionale le diverse questioni con l'obiettivo di riportare il rapporto su un piano di ragionevolezza e di lealtà istituzionale”.
la Nuova Sardegna, 3 settembre 2019
LO CONTRO ULL'URBANITICA.
ERRIU ATTACCA MARTINO
CAGLIARI. “Attraverso molteplici e discutibili dichiarazioni tanto alla stampa che attraverso blog e social network, il Sovrintendente per l'Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Cagliari, Oristano e ud Sardegna, Fausto Martino, assume un atteggiamento considerato da tanti inappropriato per un alto funzionario dello tato nei confronti dell'istituzione regionale, esprimendo pareri di merito sulle scelte politiche dell'attuale Giunta”.
Lo sostiene l'assessore dell'Urbanistica Cristiano Erriu, in una lettera inviata al ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini. L'esponente della Giunta Pigliaru nella missiva ricorda le ultime dichiarazioni del Soprintendente successive all'impugnazione da parte del Governo di alcuni articoli della legge n.11 del 2017 “con le quali ha espresso giudizi sulle scelte politiche contenute nel disegno di legge sul governo del territorio attualmente in discussione in Consiglio regionale, scelte sulle quali la Regione ha competenza primaria, anticipando una posizione censoria delle decisioni che nell'assemblea verranno democraticamente assunte”.
“L'atteggiamento critico e irrituale tenuto dal Soprintendente - prosegue Erriu - si accompagna a una estenuante difficoltà di interlocuzione con gli uffici locali del Ministero dei Beni e delle Attività culturali sin dal momento dell'insediamento dell'attuale governo regionale. Questo - attacca l'assessore all'Urbanistica - vale per la annosa questione della necropoli di Tuvixeddu, per la copianificazione dei beni paesaggistici per la verifica e adeguamento del Ppr che il soprintendente Martino ritiene indispensabile ma per la quale non si è mai reso effettivamente disponibile, e per la stessa legge urbanistica la cui bozza, per leale collaborazione, gli fu trasmessa svariati mesi prima della presentazione, senza ricevere osservazioni in merito".
Il titolare dell'Urbanistica segnala al Ministro Franceschini che “la Regione ha incessantemente cercato una fattiva collaborazione con il Mibact e i suoi organi locali per riprendere le attività di verifica e adeguamento del Piano Paesaggistico, ai sensi dell'articolo 156 del Codice del Paesaggio, che si erano interrotte negli ultimi mesi della scorsa legislatura. A tal fine - ricorda Erriu - io stesso mi sono recato più volte al Mibact con il mio staff tecnico per istituire un rapporto di leale collaborazione sui vari e delicati temi che riguardavano congiuntamente le due istituzioni, ricevendo dalle sottosegretarie Barracciu, prima, e Borletti Buitoni, poi, ampie rassicurazioni in tal senso e l'impegno alla più ampia collaborazione". E tuttavia, lamenta l'assessore, "mi duole rilevare che, purtroppo, agli impegni presi in quelle sedi, da parte degli uffici ministeriali non seguirono i fatti".
“Non certo alla Regione sarda – si legge nella lettera indirizzata a Franceschini - può essere attribuita la volontà di affrontare queste delicate questioni in solitudine, ma che, al contrario, ogni tentativo sia stato fatto per operare con il pieno coinvolgimento del Ministero, purtroppo senza apprezzabili risultati, con la conseguenza che questioni particolarmente critiche per l'Isola, attendono ancora soluzione. Ciò - denuncia Erriu - rende dubbia la praticabilità di prossime interlocuzioni con il Soprintendente che pare mosso da posizioni pregiudiziali, irrispettose dei ruoli e dell'autonomia regionale sarda”.
“Ci rendiamo tuttavia disponibili - conclude l'assessore - per affrontare al più alto livello istituzionale le diverse questioni con l'obiettivo di riportare il rapporto su un piano di ragionevolezza e di lealtà istituzionale”.
Ho conosciuto Fausto Martino fin dai tempi in cui era alla Soprintendenza di Salerno. Sono stato felice quando ha assunto il ruolo di Soprintendente in Sardegna. Siamo stati sicuri (credo di poter testimoniare anche a nome degli altri componenti del Comitato scientifico del Piano) che il nostro lavoro di tutela delle coste era affidato a mani sicure (almeno per la parte di competenza dello tato). Ho conosciuto personalmente anche Francesco Pigliaru, all'epoca assessore della Giunta di Renato Soru. Francamente non pensavo che potesse comportarsi addirittura peggio del suo predecessore, Ugo Cappellacci, fedelissimo di Silvio Berlusconi. Ma i tempi cambiano, e con essi le persone. Non ho invece il piacere di conoscere l'assessore Erriu; ma mi basta aver letto dell'aboniminevole articolo col quale la sua legge urbanistica si propone gli affari immobiliare alla tutela per non desiderarlo (e.s.)
«Le previsioni oggi permettono di dare l’allerta in tempo ma poi bisogna ragionare: dove sarò quando arriverà la pioggia? Che precauzioni prendere? Guai a pensare “non capiterà mai a me”». il Fatto Quotidiano, 3 settembre 2017 (p.d.)
Dopo un’estate italiana tra le più calde e asciutte di sempre, arriverà l’autunno con le sospirate piogge. Magari un po’ troppo intense, e ci troveremo così a scrivere gli articoli sull’emergenza alluvione. Nel Paese delle inutili polemiche del dopo-evento, proviamo per una volta fin da oggi a prevenire, a riflettere prima che ciò avvenga. Otto von Bismarck disse che è stupido imparare dai propri errori, è meglio imparare da quelli degli altri! Prendiamo come esempio l’enorme inondazione texana provocata dalla tempesta Harvey.
Oggi le previsioni meteo funzionano e l’allerta è stata data con successo con alcuni giorni di anticipo. Ma le piogge hanno superato le attese, con valori fino a circa 1300 millimetri caduti in pochi giorni su vasti bacini pianeggianti, e gli allagamenti sono stati molto più estesi del previsto. Gli abitanti si sono così trovati isolati, senza luce, acqua potabile e cibo, e con il pian terreno invaso da fango inquinato. Le vittime sono state poche decine grazie alla relativa calma della piena, a differenza di quanto avvenuto nel 2005 a New Orleans, dove l’uragano Katrina aveva divelto le dighe costiere e l’invasione delle acque in città era stata repentina e irruenta, con oltre 1800 vittime.
In Italia abbiamo sia la piena fluviale lenta e prevedibile, come quella del Po, sia le piene-lampo (flash-flood) dei territori montuosi, dove in pochi minuti insieme all’acqua precipitano anche detriti rocciosi e alberi, come frequentemente avviene a Genova. Anche le zone percorse dagli incendi di quest’estate, specie se vicine a centri abitati, dovranno essere tenute sotto controllo in quanto potrebbero essere soggette a rapida erosione durante forti precipitazioni.
Ma veniamo alle istruzioni per ridurre il rischio: all’emissione di un bollettino meteo di allerta (intensità crescente da gialla-arancione-rossa), prima di tutto bisogna chiedersi: dove sarò io in quel momento? Se in casa, conviene già alcuni giorni prima farsi uno scenario mentale: ho cose preziose al pian terreno facilmente allagabili? Le porto a un piano superiore. Dove è parcheggiata l’auto? La sposto in luogo sicuro (molte vittime sono annegate in garage sotterranei nel tentativo di salvare la loro tonnellata di ferraglia invece della vita, come in Costa Azzurra a inizio ottobre 2015). Ho riserve di cibo in caso rimanga isolato per alcuni giorni? Faccio una piccola riserva di scatolame non deperibile, pensando pure a un’avaria del frigo per mancanza di elettricità. Ho messo da parte qualche tanica di acqua potabile? E se la mia casa è esposta a frane, ho considerato l’opzione di andarmene da parenti o amici in zona più sicura? Se ho in programma di essere in auto, posso annullare il viaggio e starmene a casa per sorvegliare che non ci siano grane?
Se devo per forza muovermi, so che non devo mai entrare in un sottopassaggio che si sta allagando? L’auto galleggia in mezzo metro d’acqua e resterei imprigionato sul fondo senza poter risalire, con elevato rischio di annegamento, come dimostrano decine di banali incidenti simili. Se passo su un ponte su un fiume in piena, non mi fermo a guardare: potrebbe crollare o essere sormontato dalle acque. Se è già stato transennato dalle autorità, non forzo il blocco, perché è meglio attendere mezza giornata che morire tra i flutti: accadde durante l’alluvione del Tanaro nel novembre 1994.
Dedicare un po’ di tempo alla simulazione mentale di un evento meteorologico estremo è sempre molto utile sia per evitare di cacciarsi nei pasticci con le proprie mani, cioè scansandoli a priori, sia per cavarsene fuori nel modo migliore in caso si venisse sorpresi. Molte persone nella loro vita non ci hanno mai pensato, prigionieri dei meccanismi psicologici di rimozione del tipo “tanto a me non capiterà” o “sono brutte cose, meglio non pensarci, ridiamoci su e tocchiamo ferro”. Una volta acquisito questo allenamento mentale, in caso di allerta l’altro ingrediente è l’attenzione a ciò che capita attorno a noi: essere vigili, osservare come sta piovendo, ascoltare i rumori, tener d’occhio quel ruscello che scorre sotto casa, sempre quieto, non ha mai fatto danni (nello spazio della tua breve vita…). Molto importante cogliere un’eventuale improvvisa riduzione della portata di un corso d’acqua: potrebbe essersi formata una diga di detriti a monte, o un tappo su un ponte, che poi cedendo di colpo provocherebbe un’onda di piena devastante: scappare a gambe levate dalle adiacenze del torrente. E mai campeggiare sulle rive di un corso d’acqua in tempo di pioggia: una piena notturna avrebbe esiti drammatici, già successo per esempio con i 13 morti di Soverato il 10 settembre 2000.
Le nostre cronache sono piene di alluvioni di tutti i tipi, basterebbe studiarsele per capire le varie situazioni da evitare. Purtroppo questo non allevia i rischi infrastrutturali dovuti agli abusivismi, alla cementificazione selvaggia degli ultimi cinquant’anni. Quella può soltanto essere arrestata, e il rischio può essere leggermente diminuito con opere idrauliche (argini, canali scolmatori). Ma di nuovo Houston insegna: anni di spregiudicata urbanizzazione senza limiti condita da qualche piccolo canale di scolo che ha diffuso un senso di falsa sicurezza accelerando l’ulteriore occupazione di suolo, e poi ti arriva la pioggia mai vista e succede un disastro.
Il problema della vulnerabilità è sempre sottovalutato: il pericolo è rappresentato dall’evento estremo, ma se non c’è nulla da distruggere il rischio è nullo. Se invece su quel territorio ci aggiungo condomini, villette, auto, strade, gasdotti, linee elettriche, industrie, centri commerciali e chi più ne ha più ne metta, la vulnerabilità cresce a dismisura e con essa il rischio di danni e vittime. Quindi laddove possibile, se si diminuisce il capitale esposto invece di accrescerlo, si può ridurre il rischio. Ma questi sono discorsi difficili da fare e ancor più da attuare nella terra dell’improvvisazione e dei piccoli e grandi interessi di parte.
«Bisognava scegliere “il meglio” in astratto, senza riguardo alla storia culturale e professionale dei prescelti, se davvero avevamo scelto il meglio, perché ora ce lo facciamo sfilare?». la Repubblica, 2 settembre 2017 (c.m.c.)
«Un brutto segnale». Il giudizio di Stefano Boeri, membro del comitato scientifico degli Uffizi, è azzeccato.Chi scrive ha un giudizio radicalmente negativo della riforma che ha portato Eike Schmidt a dirigere il più importante museo italiano. Ma è proprio chi crede in quella riforma che ora dovrebbe porsi alcune domande.Ci è stato detto che bisogna trattare i musei come aziende, scegliendone i direttori sul mercato internazionale. Ebbene, quale amministratore delegato di una grande impresa annuncerebbe — prima ancora della metà del mandato, e con la proprietà che incoraggia pubblicamente a progettarne un secondo — che abbandonerà quel posto per assumerne uno analogo presso un concorrente?
Ci è stato detto che bisogna scegliere “il meglio” in astratto, senza riguardo alla storia culturale e professionale dei prescelti. Se avevamo davvero scelto il meglio, perché oggi non ci viene portato via dal Metropolitan di New York o dal Louvre ma da un museo, che seppur meraviglioso, non è paragonabile agli Uffizi, nella carriera di un direttore? Più semplicemente: se davvero avevamo scelto il meglio, perché ora ce lo facciamo sfilare? Se concepiamo il sistema dei musei come una sorta di “calcio mercato” allora non dovremmo anche disporre dei soldi per tenerci stretti i “campioni” che abbiamo “comprato”? Il dubbio è che una riforma affrettata non abbia dato ai direttori gli strumenti, e la serenità, necessari ad attuare i cambiamenti largamente annunciati. Basti pensare alla sentenza del Consiglio di Stato che dovrà decidere sulla legittimità di alcune delle nomine dei direttori non italiani (con potenziali effetti a cascata su tutte, Uffizi inclusi).
A fare le spese di tutto questo rischiano ora di essere gli Uffizi: un museo, anzi un complesso museale, delicatissimo. Eike Schmidt ha attuato qualche cambiamento: da quello del nome ufficiale a quello delle tariffe d’ingresso. Ma soprattutto ha annunciato decisioni molto ambiziose: dall’attuazione dell’ormai storico progetto del nuovo ingresso al riordinamento complessivo delle collezioni. Si tratta di passi davvero molto impegnativi, ciascuno dei quali meriterebbe una profonda e serena discussione. Ma ora, dopo l’annuncio dato agli italiani dal ministro della Cultura austriaco, è legittimo chiedersi con quale autorevolezza, convinzione, credibilità tutto questo potrà essere attuato da chi ha già scelto di non legare il proprio futuro professionale al frutto del proprio lavoro.
«Si chiude la peggiore stagione degli incendi in Italia da 30 anni a questa parte. Le cause si possono riassumere in cinque punti. Tutti hanno a che fare con la scarsa attenzione al territorio e al bene comune». lavoce.info, 1° settembre 2017 (c.m.c)
Quasi a termine della peggiore stagione negli ultimi 30 anni per gli incendi in Italia, vediamo di analizzare le cause di questo fenomeno, cercando di fare una valutazione più ampia sullo stato delle risorse boschive Possiamo raggruppare le cause di questo fenomeno in cinque categorie, di cui le ultime due collegate a problemi generali del settore forestale che travalicano lo specifico tema degli incendi boschivi.
Condizioni meteorologiche
La prima causa, quasi un prerequisito per lo sviluppo degli incendi, sono le condizioni meteorologiche: aridità, alte temperature, bassa umidità, forte vento con il maggior numero di eventi estremi, come le sette ondate di caldo di questa estate, tutti fenomeni collegati ai cambiamenti climatici. L’eccezionalità climatica sarà sempre più norma; tra l’altro gli scenari di cambiamento climatico prevedono che la regione del Mediterraneo sia più esposta a fenomeni di riscaldamento di altre regioni, con una maggiore riduzione delle precipitazioni nella primavera e con maggiori ondate di caldo in estate, con incendi quindi potenzialmente più rapidi, intensi e di larghe dimensioni.
Incendiari volontari e no. E rari piromani
La seconda causa è legata alla diffusione dei casi di incendi volontari o da comportamento irresponsabile. Non si tratta della diffusione della piromania, una malattia mentale molto rara, ma si tratta di comportamenti dolosi di una moltitudine di soggetti: pastori in cerca di pascoli più ricchi e “puliti”, incendiari con motivazioni vendicative, operai forestali stagionali in cerca di future opportunità di impiego, cacciatori interessati a controllare e concentrare le aree di rifugio della selvaggina, raccoglitori di prodotti selvatici. Ma la causa prevalente sono i comportamenti colposi collegati a noncuranza, negligenza, imperizia e sottovalutazione del rischio. Nell’Europa meridionale quasi il 70 per cento degli incendi sono legati a bruciature di residui vegetali e al desiderio di rigenerare e rendere più produttivi i pascoli.
Prevenzione e spegnimento
Una scarsa attenzione alla prevenzione attiva degli incendi è la terza causa. Nulla di nuovo nel panorama della gestione del territorio in Italia: alla prevenzione viene data una minor attenzione rispetto al ripristino. La prevenzione può essere indiretta o diretta. Per prevenzione indiretta si intendono pratiche quali la scelta delle specie appropriate, la realizzazione di diradamenti e di interventi di pulizia del sottobosco, interventi che hanno anche una importanza fondamentale per aumentare la resistenza e la resilienza delle formazioni forestali. Prevenzione diretta significa realizzazione e manutenzione di fasce tagliafuoco, riduzione del materiale combustibile, pulizia delle fasce laterali delle strade e di quelle sottostanti le linee di comunicazione. Nel considerare l’antitesi prevenzione-spegnimento degli incendi non vanno trascurate le differenze in termini di investimento economico delle due opzioni: la prima interessa soprattutto i piccoli operatori del mondo rurale, il secondo coinvolge soggetti esterni al settore forestale e in particolare l’area del business connessa alla flotta aerea e ai sistemi di monitoraggio, settori fortemente legati all’industria militare.
La foresta abbandonata
Le ultime due cause hanno una rilevanza più ampia, che va ben al di là dello specifico caso degli incendi e interessano le modalità organizzative del settore forestale italiano, negletto dalla politica (in parte perché rappresenta lo 0,08 per cento del valore aggiunto nazionale), nonostante le superfici forestali coprano più di un terzo del territorio e rappresentino quella che è stata definita la più grande infrastruttura verde del paese. Una infrastruttura che, nonostante incendi e attacchi parassitari, è in espansione a seguito della ricolonizzazione di terreni agricoli abbandonati. La prevenzione a costi minori è quella connessa alla rivitalizzazione dell’economia del settore: un bosco che produce valore è un bosco che viene difeso e che difficilmente brucia. In effetti tutto il settore è ancora condizionato da una cultura che è quella dell’Italia della fine dell’Ottocento quando il paese si era dotato di una rigida normativa di vincolo dei territori boscati e di una forza di polizia specializzata nella tutela delle risorse forestali. Di fatto il singolo, più potente, strumento di politica forestale sono ancora i diversi tipi vincoli (idrogeologico, paesaggistico, naturalistico). Negli ultimi 50 anni la superficie forestale è raddoppiata. C’è bisogno di un cambiamento di paradigma di riferimento nella politica forestale: dal “vietare per proteggere e ricostruire il patrimonio” a “gestire il patrimonio, valorizzandolo anche economicamente, per ridurre i costi della sua tutela”.
Un problema di governance
E qui entra in gioco il quinto e ultimo fattore: l’assetto istituzionale del settore, profondamente modificato dalla Legge Madia di riforma della pubblica amministrazione, e in particolare dal Decreto Legislativo 177/2016 che ha ridefinito le istituzioni che operano nel settore forestale a livello centrale. Come spiegato nella scheda tecnica che ha accompagnato il fact-checking sulle attività di spegnimento degli incendi, con il Decreto 177 è stata fatta la scelta di militarizzare il Corpo forestale dello stato (Cfs) inglobando gran parte dei componenti nell’Arma dei Carabinieri. Il Decreto 177 ha avuto uno specifico effetto sull’organizzazione della difesa dagli incendi boschivi nelle regioni a statuto ordinario. Attualmente le competenze risultano divise tra regioni, Vigili del fuoco, i Protezione Civile e Carabinieri forestali, secondo la ripartizione riportata nella scheda tecnica. Con la riforma delle competenze definita dal Decreto si rendono necessarie nuove convenzioni tra Regioni e Vigili del fuoco i quali, tuttavia, in molte Regioni dovrebbero ereditare le competenze negli interventi avendo problemi organizzativi e di personale.
Il rischio che vada sempre peggio
Infine, da una lettura del Decreto, si potrebbe ipotizzare che la prevista Direzione foreste del ministero delle Politiche agricole, forestali e alimentari assuma una funzione di indirizzo delle attività anti-incendio. Questa Direzione è ancora in attesa di una definitiva strutturazione. Con il Decreto 177 si è così riusciti a fare due significativi errori con una sola decisione: si sono affidate responsabilità operative ad una organizzazione (i Vigili del fuoco) che non ha una struttura logistica diffusa sul territorio rurale perdendo le competenze nel coordinamento sul campo accumulate da alcuni decenni di attività antincendio del Cfs. Nello stesso tempo si è accentuato quel processo di securizzazione e, più specificamente, di militarizzazione dell’apparato centrale dello stato nel campo della gestione delle risorse naturali proprio in un momento in cui sarebbe fondamentale avere una pubblica amministrazione che accompagni sul piano tecnico e amministrativo la gestione dei beni comuni, che privilegi la prevenzione sulla repressione, i rapporti di cooperazione e responsabilizzazione con i portatori di interesse sugli interventi securitari. Se questa strada, prepariamoci a molte altre estati di fuoco.
«"Com’era e dov’era" aveva promesso Renzi, ma il comune distrutto del terremoto non rinascerà più». il manifesto, 1° settembre 2017 (p.d.)
Pescara del Tronto non rinascerà più, il puntino che la rappresentava sulle mappe geografiche sarà spostato di qualche centinaio di metri almeno: dal costone di pietra a ovest di Arquata alle sponde del fiume Tronto, o forse ancora più in là. Quarantanove vittime nella notte del 24 agosto 2016, divenuto cumulo di macerie nel giro di pochi secondi, il borghetto di pietra è il primo paese ufficialmente cancellato dal terremoto.
La decisione è stata comunicata nella mattinata di ieri al sindaco Aleandro Petrucci e ai cittadini dell’associazione «Pescara del Tronto 24-08-216 Onlus» dal commissario Vasco Errani e dai tecnici del Cnr: la collinetta dove erano arroccate le case praticamente non esiste più e quello che per mesi è stato un sospetto, adesso è ufficialmente una realtà. Cambiano le cartine e la famosa ricostruzione «com’era e dov’era» promessa dall’ex premier Matteo Renzi non avverrà mai, perché Pescara è destinata a essere soltanto il primo caso di una lunga serie: quando verranno ultimate le microzonazioni sismiche, molti altri borghi verrano destinati esclusivamente alla demolizioni e allo spostamento in una zona più sicura.
Il terremoto ridisegna così la geografia politica dell’Appennino: tutte le decisioni in questo senso verranno prese entro febbraio, quando finirà lo stato d’emergenze e si comincerà a discutere sul serio di una ricostruzione che riguarderà 140 comuni più relative frazioni. «Sapevamo già che Pescara non sarebbe stata ricostruita lì dov’era prima – spiega il sindaco Petrucci -. Certo, abbiamo sperato fino all’ultimo che qualcosa potesse cambiare, ma i tecnici hanno confermato che non è possibile rifare tutto dov’era».
Pescara è stato il paesino più colpito dopo Amatrice: le case di tufo e arenaria sono state letteralmente schiacciate dai tetti in cemento armato: di quasi 200 abitanti, in 49 non ce l’hanno fatta a sopravvivere alla scossa di terremoto. Molti sono rimasti sotto le macerie per ore prima di venire estratti dai soccorritori, altri sono riusciti a fuggire in tempo e a veder crollare tutto. Adesso, a passare nei pressi di Pescara non si vede più nulla, solo macerie: un paese demolito nella notte del primo terremoto e poi polverizzato dalle scosse di ottobre e gennaio. Impossibile farlo tornare a vivere, e le poche decine di persone che lo scorso luglio hanno ricevuto le chiavi delle casette provvisorie possono solo guardare dalla strada il niente che è rimasto e che non tornerà mai più com’era fino a un anno fa.
L’alternativa ancora non è pronta, ma tutto lascia presupporre che le nuove case verranno costruite a valle, lungo la Salaria e nei pressi. «Abbiamo preso con i tecnici l’impegno di rivederci nel giro di un mese per prendere la decisione definitiva – conclude Petrucci -, vorrei prima sentire i cittadini per capire cosa vogliono, ma ancora non sappiamo quali sono le idee del Cnr e dello stesso Errani». Il commissario, comunque, non sarà della partita, visto che il suo mandato scadrà il 9 settembre e ancora non è chiaro quali siano le idee del governo sul futuro della sua carica, se esisterà ancora o se le sue competenze verranno affidate alla protezione civile e alle Regioni. Così scompare Pescara del Tronto: i tecnici sostengono che il rischio frane lì sia ancora molto elevato e che sarebbe comunque impossibile mettere in sicurezza il costone di roccia. È un discorso difficile da fare: Amatrice, Accumoli, Arquata e tutti i borghi che circondano questi tre comuni sono adagiati esattamente sopra una faglia sismica e questo ovviamente complica moltissimo tutto quanto.
È tutto da valutare anche il discorso relativo ai beni artistici e culturali di Pescara: la chiesa di Santa Croce, edificata nel quarto secolo dopo Cristo, è letteralmente implosa a causa del sisma, mentre è stato recuperato miracolosamente illeso il crocifisso del tredicesimo secolo che stava dietro all’altare. Resterà, e questa è una certezza, il cimitero: qui i danni causati dal sisma non sono stati devastanti, e la nuova cappellina del camposanto è stata la prima opera completata all’interno del cratere del terremoto.
il manifesto, 30 agosto 2017 con riferimenti (c.m.c.)
Ieri il consiglio dei ministri ha deciso di impugnare la legge sull’edilizia della giunta Pigliaru (Pd) approvata a metà luglio dall’assemblea regionale sarda. Con i suoi 34 articoli la legge interviene in diversi campi: regolamentazione delle varianti di progetti edilizi in corso d’opera, mutamenti di destinazione d’uso, procedimenti di semplificazione per l’approvazione dei Piani urbanistici comunali (Puc), utilizzo degli usi civici.
La richiesta di impugnativa è stata avanzata dalla soprintendenza ai beni culturali di Cagliari e istruita dal ministero di cui è titolare Dario Franceschini, che ha portato la pratica sul tavolo del consiglio dei ministri. Per palazzo Chigi, alcuni passaggi della legge impugnata «prevedono interventi che si pongono in contrasto con le norme fondamentali in materia di paesaggio contenute nella legislazione statale, eccedendo dalle competenze statutarie attribuite alla Regione Sardegna dallo statuto speciale di autonomia e violando l’art. 117 della Costituzione», che affida allo stato la competenza esclusiva in materia di tutela dell’ambiente e dei beni culturali.
Lo stop che arriva da Roma avrà due conseguenze. La prima è politica. Subito dopo la approvazione in consiglio della legge sull’edilizia bocciata ieri dal governo, la giunta Pigliaru ha presentato una legge urbanistica di governo del territorio fortemente avversata da tutto il fronte ambientalista sardo e nazionale. Per due motivi: primo perché viene disposto che sui tratti di costa sarda ancora non cementificati e tutelati dal Piano paesaggistico regionale (Ppr) del 2006 si possano costruire alberghi e villaggi turistici qualora alla giunta vengano presentati da imprenditori privati progetti edilizi che l’esecutivo giudichi «di particolare rilevanza economica e sociale» .
E secondo perché viene prevista la possibilità di un aumento di volumetria degli alberghi già esistenti situati nella fascia di trecento metri dal mare protetta dal Ppr. Ora che il governo rigetta una legge, quella sull’edilizia, che, rendendo più flessibili regole e normative, era chiaramente propedeutica a quella urbanistica, è evidente che per la giunta Pigliaru sarà molto più difficile difendere questo secondo provvedimento, che ancora deve passare al vaglio del consiglio.
Gli ambientalisti segnano un punto a loro favore nella battaglia per difendere il Piano paesaggistico regionale e le coste sarde. Ma segna un punto anche la corrente, minoritaria dentro il Pd, che si rifà a Renato Soru, ex presidente della giunta “padre” del Ppr. Soru ha dichiarato più volte che, qualora la legge urbanistica arrivasse in consiglio così com’è oggi, darebbe indicazione ai suoi consiglieri di votare no.
La seconda conseguenza è che adesso sarà molto più difficile raddoppiare il deposito altamente inquinante dei fanghi rossi scarto di lavorazione della fabbrica Eurallumina di Portovesme, nel Sulcis. Per far ciò, infatti, bisognerebbe occupare terreni soggetti a usi civici. La legge sull’edilizia bocciata dal governo questo lo consentiva; dopo lo stop di ieri tutto sarà bloccato. E visto che i padroni di Eurallumina, il gruppo russo Rusal, vincolano alla realizzazione del progetto di raddoppio del deposito gli investimenti per rilanciare una fabbrica la cui gestione ritengono antieconomica, per gli operai la prospettiva di uscire dalla cassa integrazione, che dura ormai da otto anni, si allontana.
D’altra parte, il raddoppio del deposito è stato dichiarato illegale da una recente sentenza della Corte costituzionale, che il consiglio dei ministri ieri non ha potuto che ribadire.
«Sono bruciati 30mila ettari, il 5% del manto boschivo, mentre il cemento si è mangiato il 26% della superficie agricola. Il Sud in testa al disastro ambientale». il manifesto, 29 agosto 2017 (p.d.)
Il cemento, pervasivo ed abusivo, non è il solo nemico del paesaggio italiano e, in particolare, di quello del Mezzogiorno. Negli ultimi mesi ha infuriato in tutta Italia, e continua ad infuriare soprattutto nel meridione, il fuoco devastatore degli incendi, tutti dolosi.
Secondo l’elaborazione di Legambiente, condotta sulla banca dati del progetto Copernicus della Ue, le regioni italiane più colpite, al 26 luglio 2017, sono la Sicilia con 25.071 ettari distrutti dal fuoco, la Calabria con 19.224 ettari e ancora la Campania (13.037), il Lazio (4.859), la Sardegna (3.512), la Puglia (3.049). Dal 26 luglio ad oggi la situazione è molto peggiorata soprattutto in Calabria nella quale, nel periodo che va dal 1 giugno al 25 agosto 2017, gli incendi sono stati 7372 (fonte Protezione civile Calabria) con una superficie percorsa dal fuoco che si ipotizza, non abbiamo ancora dati definitivi, sia superiore ai 30.000 ettari, il 2% dell’intero territorio regionale, il 5% del suo manto boschivo.
Una catastrofe di dimensioni bibliche, se si tiene conto, per esempio, che nel solo incendio di Longobucco, in provincia di Cosenza, sono andati in cenere più di 8.000 ettari di bosco (stime Protezione civile regione Calabria). Un’apocalisse di fuoco che ha incenerito, in tre mesi, i boschi, le pendici delle montagne precipiti sul mare, le valli e le pianure coltivate, il terzo paesaggio delle sterminate periferie urbane, ha bruciato anche la maestosa “magna Sila” di Virgilio senza che nessuno riesca a porvi rimedio.
La Calabria, già nel 2016, era stata la regione più colpita da questo crimine con 4391 incendi; nel 2017, con 7372 incendi fino ad oggi, sarà di nuovo, purtroppo, al primo posto. Una devastazione che si aggiunge a quella perpetrata per mezzo del cemento che (dati Istat) ha consumato il 26 % della superficie agricola della regione dal 1990 al 2005. La Calabria è, purtroppo, anche la regione italiana che (dati Istat) presenta il maggior numero di abitazioni rispetto al numero di abitanti: 1.243.643 alloggi, di cui 482.736 vuoti, per poco meno di 2 milioni di abitanti. Solo a Cosenza i vani vuoti sono 165.398 e la sua provincia è la seconda in Italia per numero, 15.188, di immobili degradati.
Gli incendi colpiscono ogni anno non solo le stesse regioni, quelle meridionali, ma addirittura le stesse province. Nel 2017, secondo Legambiente, con un’azione preventiva in sole 10 province (Cosenza, Salerno, Trapani, Reggio Calabria, Messina, Siracusa, Latina, Napoli, Palermo, Caserta) si sarebbero potuti salvare quasi 50.000 ettari, il 64% circa del totale bruciato. La regione Calabria, che ha il 40,6% della sua superficie regionale coperto da 613.000 ettari di boschi e foreste, ha approvato solo il 12 giugno 2017 il Piano Aib (antincendi boschivi) 2017 e solo il a luglio ha sottoscritto l’apposita convenzione con il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco. Al 26 luglio, secondo Legambiente, non aveva ancora indicato il numero degli operatori impegnati nella lotta attiva agli incendi boschivi, pur avendo a disposizione gli 8.076 dipendenti dell’Azienda regionale Calabria Verde che gestisce più di 6.000 operai forestali.
Tutte le regioni meridionali sono in ritardo nell’attuazione della legge 353 del 2000, ma la Calabria si distingue per immobilismo al punto che non si è riusciti, nemmeno, a far tornare dalle loro super-ferie i consiglieri regionali per una riunione urgente del Consiglio, mentre la Regione affitta, a caro prezzo, mezzi aerei che non possono fermare, da soli, gli incendi per insufficienza del numero di uomini e di squadre a terra. Non c’è bisogno di ricordare, forse, che a bruciare il Mezzogiorno e la Calabria sono, soprattutto, le mafie che usano il fuoco per aggiudicarsi appalti per manutenzione e per rimboschimenti, per assunzioni clientelari di personale forestale, per aumentare le superfici di pascolo o di edificabilità dei territori, per ritorsioni e come strumento di ricatto, forse anche per favorire la costruzione di centrali a biomasse.
Il paesaggio sta per essere cancellato dalla mano dell’uomo compromettendo, per sempre, la stabilità degli spazi geografici e dei paesaggi che garantisce alle società un senso di perpetuità in grado di conservare la memoria individuale e quella collettiva, l’identità. La sfida politica per le forze di sinistra è quella di porre al centro del loro programma un gigantesco e capillare piano di risanamento dei territori, dei mari, dei boschi, dei fiumi e delle coste che impegni, da subito, alcune decine di migliaia di giovani. Si potrebbe iniziare, per esempio, dall’area dell’ex Liquichimica di Saline Joniche, in provincia di Reggio Calabria.
«Tre ministeri (Beni culturali, Ambiente, Agricoltura) legiferano pestandosi i piedi tra loro, per non dir poi delle Regioni e dei Comuni, che ignorano spesso le norme statali». il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2017 (p.d.)
Giunti ai saldi di fine stagione di una legislatura in gran parte sprecata inseguendo a vuoto una riforma costituzionale sbagliata e arrogante, governo e Camere sono invischiati nel piccolo cabotaggio delle leggi da approvare in articulo mortis, sbandierate in base alla retorica delle riforme purchessia, senza badar troppo a come poi sono scritte. Manca dalla scena l’ingrediente essenziale: uno sguardo lungimirante, un progetto per il Paese. Eppure è necessario stringere i denti, provando a pensare l’Italia che vorremmo. Immaginando, a prescindere da chi poi ci governerà, quali sarebbero le cose da fare. Ripudiando il tran-tran di leggine che mettono una toppa ai problemi via via che vengono a galla: pessima abitudine, che cuce addosso alla pretesa maestà della Legge una sbrindellata veste di Arlecchino fatta di norme incoerenti fra loro. Sarebbe il momento, invece, di agire in profondità sull’ordinamento, se e dove ce n’è bisogno. Perché, ad esempio, le periferie brutte e obese, l’abusivismo, i condoni a ripetizione? Perché la gentrification che separa i poveri dai benestanti, scaccia dai quartieri più appetibili i giovani, gli immigrati, gli anziani? Perché una gestione del territorio irrazionale e irresponsabile, che genera diffuse patologie sociali?
Il peccato originale è il mancato raccordo tra la legge Bottai sulla tutela del paesaggio (1497/1939) e la legge urbanistica 1150/1942. La legge Bottai previde i “piani territoriali paesistici”, posti sotto la sorveglianza del ministero dell’Educazione; tre anni dopo la legge urbanistica introdusse, dandone la competenza ai Lavori pubblici, i “piani territoriali di coordinamento”, collegati a piani regolatori comunali o intercomunali. Ma tra i piani paesistici del 1939 e i piani urbanistici del 1942, nonostante l’aggettivo “territoriali” che hanno in comune, non fu previsto alcun raccordo: come se il “paesaggio” si arrestasse alla soglia delle città, e l’“urbanistica” nulla avesse a che fare col territorio circostante. Tra campagna e città restava così una zona grigia, una terra di nessuno. Questo l’ordinamento con cui la Costituente dovette fare i conti. L’Assemblea proiettò e incardinò nella Carta la legislazione ordinaria vigente, attribuendo allo Stato la tutela del paesaggio (art. 9 Cost.) e trasferendo alle Regioni la materia urbanistica (artt. 117 e 118 Cost.). Ma separando il paesaggio dall’urbanistica la zona grigia intermedia fu consegnata alla legge della giungla (ancor peggiorata dalla riforma del Titolo V, 2001).
Lo sviluppo abitativo del Dopoguerra spostò il centro di gravità dal paesaggio all’urbanistica, all’edilizia, a una nuova viabilità dominata dalle autostrade. La legge del 1942, pensata quando le campagne erano ancora il luogo di una diffusa civiltà contadina e pastorale, restò in vigore anche negli anni del boom, mentre le campagne si svuotavano. La sua inadeguatezza fu spesso avvertita, ma non si è mai trovato chi riuscisse a porvi rimedio (ci provò nel 1963 Fiorentino Sullo, presto messo alla porta dal suo stesso partito, la Dc). Con marcatissimo contrasto, proprio mentre la Costituzione innalzava la tutela paesaggistica al massimo rango costituzionale, ponendo l’articolo 9 tra i principi fondamentali dello Stato, le debolezze della politica spingevano la normazione urbanistica in direzione di una crescente deregulation.
Ma la molteplicità e contraddizione di sistemi normativi oggi vigenti si spinge anche oltre. Di fatto, il territorio nazionale è governato da quattro insiemi di leggi separati e incoerenti fra loro, che riguardano il paesaggio e il territorio urbanizzato, ma anche l’ambiente e i suoli agricoli, moltiplicando in tal modo l’Italia per quattro. Tre ministeri (Beni culturali, Ambiente, Agricoltura) legiferano pestandosi i piedi tra loro, per non dir poi delle Regioni e dei Comuni, che ignorano spesso le norme statali, né si coordinano tra loro se confinanti. Contrasti che allargano le zone grigie, seminando speculazione edilizia e abusivismi, terreno di coltura dei periodici condoni.
Rimediare a questa gigantesca stortura richiede competenza e intelligenza politica, agendo sull’ordinamento ma anche sulla Costituzione, con un intervento limitato e mirato, e non riforme “a raffica” stile Renzi-Boschi. Un buon punto di partenza sarebbe la proposta di Massimo Severo Giannini (anni Settanta) di introdurre forme di controllo pubblico delle aree fabbricabili. Si può fare, scorporando il diritto di proprietà, che resta intatto, dal diritto di edificazione, e assoggettando quest’ultimo a un rigoroso sistema pubblico di controllo, basato su parametri verificabili. Basterebbe, ad esempio, commisurare le ipotesi di crescita urbana a previsioni di crescita demografica certificate dall’Istat per troncare alla radice una gran parte della cementificazione del territorio (molti Comuni truccano impunemente le statistiche). Altri criteri: la presenza e la frequenza di edifici abbandonati, invenduti o inutilizzati, e di aree de-industrializzate da destinare a uso collettivo; o ancora il tasso di edilizia condonata. Infine, un radicale riesame dei “piani-casa” regionali e degli stessi condoni alla luce della Costituzione (vedi il Fatto Quotidiano del 13 agosto), ma anche di una corretta gestione del rischio sismico e idrogeologico.
Città e paesaggi sono la principale ricchezza d’Italia. Sono il sangue e l’anima della nostra memoria storica e culturale, l’eredità che abbiamo ricevuto e che dobbiamo consegnare alle generazioni future. Lo slogan straccione “padroni in casa propria”, che Renzi ha copiato da Berlusconi, guida un degrado civile che privilegia il miope profitto privato sull’interesse pubblico e sulla legalità. È lecito a un cittadino sperare che la prossima legislatura, chiunque ci governi, segni una svolta? Sono ancora attuali le parole di Aldo Moro (1964): “Dobbiamo por fine alla sostanziale sopraffazione dell’interesse privato sulle esigenze della comunità, all’irrazionalità e alla disumanità degli sviluppi delle nostre città, con la conseguenza di una diffusa e crescente distorsione del vivere civile”. Per rispondere a questa responsabilità storica troppo a lungo disattesa, agire sull’ordinamento è necessario e urgente.
Anche nel cuore dell’Asia c’è il rischio di una guerra per il controllo dell’acqua. Alla base del conflitto: usi contrastanti (acqua per energia e irrigazione), un bene non disponibile omogeneamente e uno sfruttamento legato a interessi particolari. Internazionale, 25 Agosto 2017. (i.b)
Il 17 maggio del 2017 il ministro degli esteri del Tagikistan, Sirodjidin Aslov, è volato a Bruxelles per promuovere, di fronte a un gruppo di funzionari dell’Unione Europea, il progetto per la costruzione della centrale idroelettrica di Rogun, sul fiume Vachš. Ma per quale motivo l’Unione europea dovrebbe essere interessata a una centrale elettrica sulle remote montagne dell’Asia centrale? E perché mai un rappresentante del governo di Dušanbe si è recato fino in Belgio per ottenere il via libera alla realizzazione di un’infrastruttura nel suo paese?
Il punto è che questa banale iniziativa è in realtà la testimonianza del fatto che nel cuore dell’Asia i rischi di una guerra sono concreti. Non si può escludere, infatti, che le ex repubbliche sovietiche della regione possano entrare in conflitto per il controllo di una risorsa molto preziosa: l’acqua.
Irrigazione ed energia Ormai da qualche tempo sia i mezzi d’informazione occidentali sia quelli dei paesi ex sovietici si occupano regolarmente del rischio, tutt’altro che remoto, di una guerra per l’acqua in Asia centrale. Non sono previsioni infondate, considerato che questa risorsa è distribuita tra i paesi della regione in modo estremamente disomogeneo.
L’alto corso dei fiumi che nascono nel territorio del Kirghizistan e del Tagikistan garantisce enormi riserve d’acqua. Ma più a valle, in Uzbekistan, Turkmenistan e Kazakistan, l’acqua non basta: il 77 per cento delle risorse idriche consumate dagli uzbechi arriva dall’estero, in Turkmenistan la percentuale supera il 90 per cento e in Kazakistan è il 40 per cento.
Le tensioni legate al controllo dell’acqua, che non hanno ancora raggiunto la fase più critica, sono cominciate subito dopo l’indipendenza delle cinque repubbliche sovietiche, nel 1991. Alla radice dei contrasti c’è il fatto che i fiumi possono essere sfruttati sia per l’irrigazione sia per produrre energia elettrica, e se l’acqua destinata a irrigare i campi è necessaria d’estate, i consumi di elettricità aumentano invece d’inverno, cosa che costringe le aziende energetiche a impiegare nella stagione fredda le risorse di cui avrebbero invece bisogno gli agricoltori con l’arrivo del caldo. In epoca sovietica la gestione centralizzata del settore idrico-energetico consentiva di agire nell’interesse di tutte le parti coinvolte, ma oggi i nuovi stati indipendenti nati dalla disgregazione dell’Unione Sovietica non riescono ad amministrare insieme le risorse.
Negli anni novanta il Kirghizistan e il Tagikistan approvarono progetti per la costruzione di grandi centrali idroelettriche sui fiumi che proseguono il loro corso in Uzbekistan. In Kirghizistan fu pianificata la realizzazione della centrale di Kambara tin 2, sul fiume Naryn; in Tagikistan fu invece varato il progetto della già citata centrale di Rogun, sul fiume Vachš. L’Uzbekistan considerò quei progetti come una minaccia alla sicurezza nazionale: le nuove dighe avrebbero infatti interrotto i lussi, lasciando i contadini uzbechi senz’acqua per l’irrigazione. Inoltre, cosa di cui rara mente si parla in modo esplicito, le dighe avrebbero costituto una gravissima minaccia per i centri abitati lungo il corso inferiore dei due fiumi: nel caso di un cedimento tecnico o di un attentato terroristico la violenza dell’acqua avrebbe distrutto tutto. Negli anni novanta il Tagikistan visse una guerra civile che oppose il governo agli estremisti islamici (ancora non del tutto sconfitti), mentre il Kirghizistan era un paese molto instabile, anche per gli standard postsovietici.
In questo contesto, per l’Uzbekistan i grandi progetti di Dušanbe e Biškek rappresentavano un rischio enorme. Da allora le cose non sono molto cambiate: Tagikistan e Kirghizistan sono paesi tuttora imprevedibili e potrebbero entrare in possesso di uno strumento per ricattare gli stati a valle. Per questo nel 2015 il presidente uzbeco di allora, Islam Karimov, dichiarò senza mezzi termini che i problemi idrici nella regione sarebbero potuti “peggiorare fino al punto di generare non solo gravi tensioni, ma perfino una guerra”. E aggiunse che la realizzazione della centrale di Kambaratin avrebbe dato un duro colpo alla produzione agricola dell’Uzbekistan, una delle principali voci d’esportazione del paese.
Il chiodo fisso
Nel marzo del 2016 il governo kirghiso ha constatato con preoccupazione che il tentativo di riprendere il controllo degli impianti lungo il confine aveva avuto come conseguenza un’intensificazione delle attività militari dell’Uzbekistan alla frontiera. Poco dopo i rapporti si sono ulteriormente inaspriti a causa della disputa sul controllo del bacino idrico di Kosonsoy, al confine tra i due paesi. Ad agosto sia il governo di Biškek sia quello di Taškent hanno inviato militari e poliziotti in questa striscia di terra la cui sovranità è ancora indefinita.
Nell’ottobre del 2016 il presidente del Tagikistan, Emomali Rahmon, si è messo alla guida di un bulldozer per gettare il primo carico di terra nelle acque del iume Vachš e inaugurare così la costruzione della centrale idroelettrica di Rogun. Secondo i suoi avversari, Rahmon si è potuto permettere un simile gesto simbolico solo dopo la morte, nel 2016, di Karimov, il presidente uzbeco considerato di fatto il patriarca dell’intero spazio postsovietico, che era sempre stato inflessibile nella difesa degli interessi di Taškent. Già nel 2009, infatti, Rahmon aveva costretto i cittadini tagichi ad acquistare azioni della centrale. Per Dušanbe il progetto è da tempo un chiodo fisso.
Nel frattempo il nuovo presidente uzbeco, Shavkat Mirziyoyev, ha dimostrato di non avere nessuna intenzione di cambiare la linea seguita di Karimov. Durante una visita ad Astana, a marzo, ha ribadito, insieme al presidente kazaco Nursultan Nazarbaev, che le risorse idriche sono un patrimonio comune di tutti i paesi della regione. La questione è di grande importanza anche per il Kazakistan, considerato che l’acqua consumata nel paese arriva non solo dall’Uzbekistan e dal Kirghizistan, ma anche dalla Cina. Le sorgenti dei fiumi Ili, Irtyš e Tekes, che riforniscono d’acqua alcune regioni del Kazakistan, si trovano infatti nel nordest della Cina, proprio l’area in cui Pechino negli ultimi tempi sta concentrando i suoi progetti di sviluppo. L’economia della regione autonoma dello Xinjiang, abitata dalla minoranza musulmana degli uiguri, ha grande bisogno d’acqua, che però nella zona scarseggia. L’Irtyš e l’Ili risentono già delle conseguenze dello sviluppo frenetico della regione, e la loro portata sta diminuendo. Il problema di questi fiumi è aggravato anche dal rapido scioglimento dei ghiacciai, legato al riscaldamento globale.
Secondo il sinologo russo Konstantin Syroežkin, il Kazakistan è in una posizione di debolezza nei negoziati con Pechino sulle risorse idriche. “Ha giocato tutti gli assi nella manica che aveva”, spiega. “Non gli rimane che fare aidamento sulla disponibilità dei cinesi”. Considerato che la Cina ha investito nell’economia kazaca tra i 24 e i 27 miliardi dollari, stando ai dati del 2016, per Astana non è facile aprire una disputa con Pechino. La Cina, tuttavia, ha importanti investimenti anche negli altri paesi della regione. Dopo la visita di Mirziyoyev, Cina e Uzbekistan hanno concluso un accordo del valore di 22 miliardi di dollari.
Durante il viaggio a Pechino, il presidente uzbeco ha partecipato anche al forum della nuova via della seta, cioè la strategia di Pechino per sviluppare nuovi collegamenti con i paesi dell’Eurasia e trovare un’alternativa alle rotte marittime tradizionali, che sarebbero vulnerabili in caso di un conflitto.
Ma la presenza della Cina nella regione può davvero contenere il rischio di una guerra per l’acqua? A giudicare dal tono degli esperti interrogati dai giornali occidentali, la risposta è no.
Riserve di stabilità
Come ha scritto alla fine del 2016 l’agenzia d’intelligence privata Stratfor, “l’Asia centrale sta consentendo alla Cina di sviluppare una rotta verso l’Europa più distante dai mari in cui sono presenti gli Stati Uniti. Se quindi la stabilità dell’Asia centrale dovesse crollare, per Pechino sarebbe un incubo. E le regioni confinanti diventerebbero un bacino di fuga per le organizzazioni separatiste armate”.
Alcuni anni fa gli esperti della Stratfor avevano anche previsto che nella regione centrosiatica le tensioni legate alla gestione dell’acqua non sarebbero finite presto. A gennaio del 2017, inoltre, un esperto della Harvard International Review, la rivista dell’università di Harvard, ha ammesso di essere “scettico sulla possibilità di risolvere i problemi dell’acqua nella regione, problemi che stanno assumendo dimensioni preoccupanti”. Secondo le sue previsioni, in futuro le dinamiche politiche della regione saranno dominate dal principio del “tanto peggio, tanto meglio”.
A marzo The Diplomat, una rivista online che ha la redazione a Tokyo, è arrivata a chiedersi in un articolo se le guerre per l’acqua possano mandare a monte i piani della Cina in Asia centrale. La risposta dell’autore è stata chiarissima: “Pechino deve prendere atto che sono ormai mature le condizioni per lo scoppio di conflitti e per una destabilizzazione della regione”. Oggi né i paesi dell’Asia centrale né le vicine Cina e Russia vogliono un conflitto nella regione. Tuttavia, come ha ricordato qualcuno parlando della vigilia della prima guerra mondiale, anche allora “nessuno voleva la guerra. Ma la guerra era inevitabile”.
Non si può escludere che alla fine le previsioni più catastrofistiche si riveleranno sbagliate. Una cosa è certa, però: nella regione le riserve di stabilità si stanno esaurendo.
«Allo studio del governo la cancellazione di Tasi e Imu e la detrazione delle spese da Irpef e Irap. Oggi 3,2 milioni di italiani nelle aree a rischio di frane e alluvioni». la Repubblica, 29 agosto 2017 (c.m.c)
Quando quindici anni fa la Regione Campania cercò di convincere parte degli 800 mila abitanti delle zone vesuviane ad alto rischio vulcanico a trasferirsi con una serie di incentivi fuori dalla “zona rossa”, consentendo l’abbattimento delle vecchie case, accadde che molte famiglie incassarono l’incentivo e poi affittarono quelle case ad altre persone. Risultato: addio demolizione. Il rischio fu semplicemente trasferito da un gruppo di famiglie a un altro. E anzi da allora il numero dei Comuni in pericolo salì da 18 a 25.
Nelle duecento pagine del rapporto della Struttura di missione “Casa Italia”, che da Palazzo Chigi ha il compito di preparare un piano pluriennale per la messa in sicurezza delle nostre case, bastano quelle poche righe sui falliti tentativi di trasferire chi abita sulle pendici del Vesuvio, per far capire come la politica di delocalizzazione della popolazione minacciata da disastri naturali verso zone più sicure sia rimasta in tutta Italia lettera morta, soprattutto per la scarsa determinazione delle amministrazioni locali. Ma a fallire non sono solo i piani di demolizione e ricostruzione degli edifici abusivi esistenti in zone al alto rischio di eruzioni vulcaniche, frane o alluvioni. I poteri locali – dice il rapporto – non sono riusciti neppure a evitare che in quelle zone si costruissero nuove case. Il 10% dei Comuni tra il 2005 e il 2015 ha continuato a edificare e urbanizzare vicino ai letti di fiumi e torrenti o sotto i terreni franosi.
Questa inerzia più o meno compiacente di molte amministrazioni, che hanno chiuso un occhio in tutti questi anni di fronte al volto peggiore dell’abusivismo edilizio (quello che mette a repentaglio migliaia di vite umane), non scoraggia tuttavia i 17 esperti di Casa Italia. Che trovano nel Comune di Messina un prezioso alleato: quella amministrazione, infatti, sta predisponendo proprio in questi giorni un piano per trasferire con tanto di incentivi gli abitanti delle zone più esposte ad alluvioni e frane verso zone più sicure.
Un ripensamento a 180 gradi rispetto agli scandalosi e ripetuti insediamenti di case lungo i 70 torrenti della provincia siciliana. Messina diventa così una specie di progetto pilota anti-abusivismo che se andrà in porto, potrà costituire un esempio per il resto d’Italia. Un’operazione che tuttavia avrà bisogno di incentivi sia urbanistici che fiscali. Ecco perché in uno schema di proposta legislativa, gli esperti insediati a Palazzo Chigi invitano il governo a cancellare per 5 anni in tutta Italia, nelle operazioni di demolizione e ricostruzione, Tasi e Imu, e a detrarre le spese da Irpef e Irap.
Il governo, che ha già avuto una serie di incontri con i tecnici di Casa Italia, sta valutando la proposta. Se ne parlerà probabilmente già oggi in Consiglio dei ministri, così come si valuterà l’idea, che non dispiace al viceministro delle Infrastrutture Riccardo Nencini, di un potere sostitutivo dello Stato nei confronti di quei Comuni che rifiutano di rendere operative le ordinanze definitive di demolizione degli edifici abusivi più a rischio. Oggi – dice il rapporto – un milione e 200 mila italiani vivono sotto il pericolo di frane e quasi due milioni sono a rischio- alluvioni.
Ma la lotta all’abusivismo edilizio è solo una delle sfide che si è posto il team di Casa Italia. Le altre due sono da una parte la riduzione dei rischi idrogeologici, e dall’altra il tentativo di rendere meno vulnerabili gli edifici nelle zone più esposte ai terremoti. Sul primo punto, sono già stati stanziati quasi dieci miliardi in otto anni, ma secondo le Regioni ne servirebbero ventidue. Sul secondo, gli esperti hanno cominciato a tracciare una prima mappa, andando a vedere nelle zone a maggior rischio di terremoti quanti sono gli edifici abitativi meno resistenti, ossia quelli in muratura portante o quelli in calcestruzzo armato ma costruiti prima del 1970, quando non c’erano ancora norme anti-sismiche. Sono quasi 570 mila, posizionati in 643 Comuni, e concentrati per quasi il 60% in due sole regioni: Calabria e Sicilia.
A questo punto, la proposta di Casa Italia, fatta propria dal governo e già finanziata con cento milioni, prevede l’invio di tecnici sul posto per verificare il grado di vulnerabilità di quegli edifici, comunicarlo ai proprietari e renderli consapevoli dei rischi che corrono. In questo modo si spera di poterli convincere a utilizzare il “sisma-bonus”, già in funzione ma finora non molto usato: si tratta di una detrazione fiscale che arriva fino all’85% delle spese necessarie per rendere più sicura la propria abitazione.
Se i proprietari di tutti i 570 mila edifici a rischio vi ricorressero, la spesa di sarebbe di 46 miliardi. Nella prossima legge di Bilancio il governo ha intenzione di estendere quel bonus anche alle ex case popolari: su 2.760 edifici in zona sismica, 1.100 hanno infatti bisogno di miglioramenti urgenti. Il costo aggiuntivo per lo Stato sarebbe di circa 400 milioni. L’esecutivo potrebbe anche introdurre il “certificato di stabilità” limitatamente, per ora, alle sole nuove costruzioni, ma con l’intenzione di estenderla a tutti i nuovi contratti di affitto e di compravendita.
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