Ai distributori di New York e Washington la benzina già costa già dieci centesimi in più solamente rispetto a una settimana fa. I depositi e le raffinerie della East Coast sono a corto di petrolio, l’«oil» che, tramite una vasta rete di condutture, proviene dal Texas e dal Golfo del Messico, resta lì. La pipeline gestita da Colonial, che innerva tutta la costa orientale, è paralizzata e non si sa ancora quanto ci vorrà per renderla di nuovo operativa. L’economia americana, con la sua strutturale bulimia di petrolio, è messa duramente alla prova. Questa volta non è l’arretrata Louisiana a essere messa in ginocchio ma il Texas dei petrolieri e delle booming cities come Houston. Lo stato americano delle booming cities come Houston, uno degli stati trainanti e indispensabile serbatoio dell’intero sistema energetico.
Gli uragani americani, si sa, picchiano molto duro, specie negli stati del sud, e ormai non solo in quell’area degli Usa. Si può ancora dubitare che la loro forza brutale sia diventata vieppiù distruttiva per via del cambiamento climatico? Chi lo nega – Trump in testa – avrà la decenza di non ripeterlo, almeno in questi giorni? Di sicuro, ogni volta che un hurricane assume la portata di Katrina o di Harvey – ma è il caso anche di uragani meno impetuosi – l’America mette in evidenza le sue fragilità. Dovute anche alla sua indiscutibile potenza economica. Alle distorsioni di una crescita che non si pone confini.
In un’area metropolitana di sei milioni di abitanti – Houston e dintorni – si scopre l’esistenza di impianti chimici molto pericolosi dentro il centro abitato. Impianti vulnerabili. Così alle devastazioni di un meteo impazzito s’aggiunge l’allarme di una fabbrica che produce perossido organico e i cui serbatoi, uno dopo l’altro, deflagrano creando nubi altamente tossiche. Houston, scrive The Nation «è un monumento a un capitalismo senza limiti». Il gigante americano, con il suo nuovo presidente gradasso, si scopre debole. E se ieri insolentiva i paesi di confine, oggi deve ringraziare il Messico, che invierà in Texas personale medico, tecnici, provviste, farmaci e veicoli. Lo fece già nel 2005, quando duecento militari messicani portarono acqua, viveri e medicine agli abitanti di New Orleans stremati da Katrina. E allora s’accorsero perfino, i media americani, che Cuba era meglio equipaggiata per fronteggiare quella stessa emergenza che prima aveva colpito l’isola.
Il presidente Donald Trump, che vive in una sua realtà parallela, probabilmente considera superata la crisi texana, per il solo fatto di aver visitato le zone del disastro senza avere aggiunto altri danni, e già si dedica ad altro, alla sua riforma fiscale, che poi non è altro che l’ennesima riedizione della reaganomics, la ricetta che lo stesso Bush padre definì «voodoo economics», l’economia dello stregone. In borsa non ci credono, ovviamente, molti affaristi conoscono di persona the Donald, manager e i consiglieri di amministrazione delle maggiori banche corrono al disimpegno nei confronti dei loro stessi gruppi. Warren Buffett non crede neppure agli ultimi dati sulla crescita sbandierati dall’amministrazione: «Non sembra di essere in un’economia che sale del tre per cento, sembra più un’economia al più due».
Tutto questo in uno scenario in cui non è ancora chiara l’entità dei danni provocati da Harvey e le loro conseguenze, non solo per il Texas. L’intero scenario va ricalibrato, ma appare evidente che la ripresa del Texas dipenderà da ingenti aiuti federali, proprio mentre la destra al potere racconta favole di un’America che può fare a meno dello stato. Ma loro sono oggi i primi a non crederci. Ted Cruz, il senatore del Texas che era considerato il candidato presidenziale in pectore, prima del ciclone Trump, oggi invoca l’intervento di Washington nel suo stato. Fu lo stesso che cercò di bloccare gli aiuti agli stati della costa orientale colpiti dall’uragano Sandy. E già, «siamo tutti socialisti dopo un disastro naturale, perfino il senatore del Texas Ted Cruz», commenta sarcastico The Nation.