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Della Valle compra l’esclusiva del monumento: chi vuole usarlo, deve chiedere il permesso. A lui. (In calce un’intervista a Resca, DG del Mibac)

Il principe Antonio De Curtis ci aveva provato con la Fontana di Trevi nel celebre Tototruffa. Cinquanta anni dopo il Governo Berlusconi è riuscito nell'opera con il Colosseo. Il nostro monumento più famoso al mondo è stato ceduto alla Tod's, nel senso che l'Anfiteatro Flavio e la sua immagine non sono più liberamente utilizzabili dal ministero dei Beni Culturali. Se, per esempio, lo Stato volesse affittare il Colosseo a una società cinematografica o a una casa automobilistica per usarlo come location di uno spot o come sfondo per una campagna dovrebbe chiedere il permesso alla Tod's e a un'associazione ancora da costituire da parte della società calzaturiera che rivestirà in essa un ruolo predominante. L'accordo stipulato il 27 gennaio scorso dal Commissario straordinario all'area archeologica di Roma, l'architetto Roberto Cecchi, e da Diego Della Valle prevede l'impegno da parte della società di pagare i lavori di restauro del Colosseo per complessivi 25 milioni di euro e in cambio riserva alla Tod's il diritto esclusivo sull'utilizzazione commerciale dell'immagine del Colosseo e permette allo sponsor dei lavori di costruire un centro servizi nell'area archeologica più vincolata del mondo.

Oltre a una serie di diritti correlati come quello di apporre il marchio Tod's sui cantieri del Colosseo e sui biglietti acquistati dai visitatori. L'accordo, descritto dalla stampa come un atto di puro mecenatismo del valore di 25 milioni di euro “presenta molti lati oscuri”, secondo il segretario generale della Uil Beni Culturali, Gianfranco Cerasoli. Il sindacalista ha presentato un esposto alla Procura di Roma e alla Procura della Corte dei Conti, per chiedere di accertare eventuali profili di illegittimità. Nell'esposto Cerasoli cita un primo effetto dell'accordo: la richiesta presentata al Ministero (e sospesa a causa dell'accordo con la Tod's) della Volkswagen di usare il Colosseo per il lancio di un nuovo modello. "Il problema sta", scrive Cerasoli nell'esposto, "nella errata e grave sottovalutazione fatta dal Commissario nella valutazione economica di un accordo che qualsiasi economista valuta superiore ad oltre 200 milioni di euro considerando l'esclusività concessa e la durata superiore ai 15 anni con un piano di comunicazione e di commercializzazione spendibile in tutto il mondo".

Nell’articolo 4 dell'accordo si prevede che i “diritti concessi all'Associazione e allo Sponsor sono concessi senza limitazione territoriali e, pertanto sono esercitabili sia in Italia che all'estero”. La durata dei diritti in capo all'associazione è di 15 anni eventualmente prorogabili mentre i diritti dello sponsor Tod's decorrono “dalla data di sottoscrizione dell'accordo e si protraggono per tutta la durata degli interventi di restauro e per i successivi due anni”. Il permesso per il lancio del nuovo modello della Volkswagen, insomma, potrebbe essere solo il primo di una lunga serie, come lo stesso Mario Resca, direttore generale per la valorizzazione del patrimonio culturale del ministero, ha confermato nell'intervista che pubblichiamo sotto. Il Fatto ha contattato il Commissario straordinario Roberto Cecchi ma non ha avuto alcuna risposta. Fonti vicine alla Tod's, invece, spiegano: “Ci stupiamo dello stupore. Una società quotata in borsa che investe 25 milioni di euro nel restauro di un monumento deve motivare agli azionisti il suo comportamento. Sarebbe assurdo non prevedere un'esclusiva in favore di Tod's nel periodo dei lavori”. Secondo le fonti vicine alla Tod's "l'accordo è un esempio da seguire perché porta un vantaggio al paese, che restaura il suo patrimonio senza spendere un euro, e alla società sponsor. Ma non si può pretendere di realizzare una simile operazione senza concedere l’esclusiva” La posizione di Tod’s è legittima.

Quello che lascia perplessi sono le modalità della stipula dell’accordo e la sua comunicazione. Il Commissario straordinario Roberto Cecchi aveva indetto una gara con scadenza il 30 ottobre del 2010 che effettivamente è andata deserta. Subito dopo però ha avviato le trattative solo con Tod's, chiuse velocemente senza coinvolgere l'ufficio legislativo e il gabinetto del ministro né l'avvocatura. Anche la comunicazione dei contenuti dell'accordo è stata poco trasparente. L'allora ministro Sandro Bondi aveva parlato di “accordo storico”. Il sindaco di Roma Gianni Alemanno aveva detto: “Della Valle fa un grande regalo all'Italia”. Mentre per il sottosegretario alla presidenza Gianni Letta "Della Valle non è uno sponsor, ma un mecenate moderno”.

Tutto vero. L'accordo sottoscritto dal patron della Tod's prevede effettivamente un onere importante per la sua azienda. Ma accanto al do esiste un importante des rimasto finora sotto traccia.

INTERVISTA

Mario Resca, direttore generale ministero Beni culturali:

“Rischiamo di perdere occasioni milionarie”

Mario Resca è un uomo forte del ministero ma più che un burocrate si sente un manager della cultura nella duplice veste di consigliere per le politiche museali e Direttore generale per la valorizzazione del patrimonio culturale del ministero dei Beni culturali.

È stato spesso accusato di avere una visione troppo commerciale e berlusconiana del patrimonio artistico nazionale. Stavolta però l’ex amministratore delegato di Mc Donald’s Italia, scelto da Silvio Berlusconi per sfruttare al meglio i monumenti, è stato scavalcato a destra dal segretario generale del ministero Roberto Cecchi con il suo accordo con la Tod’s. Il Fatto Quotidiano gli ha chiesto un parere su quello che sta accadendo e lui non si è tirato indietro.

Direttore, è vero che lo Stato italiano non è più padrone di concedere il Colosseo a un’impresa che voglia usarlo per un evento come ha scoperto la Volkswagen, costretta a chiedere il permesso a Diego Della Valle?

È vero che c’è una proposta arrivata tramite un consulente del gruppo Volkswagen per avere la disponibilità dell’uso del Colosseo per un evento che riguarda il lancio di un nuovo modello. Effettivamente io ne ho parlato con Diego Della Valle e ora dovremmo vederci a breve perché, anche se il contratto non l’ho visto, mi sembra di capire che ci sia questo problema.

Il segretario della Uil Gianfranco Cerasoli sostiene che, solo questo evento della Volkswagen, poteva fruttare una cifra intorno al milione di euro.

No, la cifra è più bassa. Prima ci è stata scritta una lettera che conteneva un’offerta molto più bassa. Poi a voce mi è stata fatta un’ipotesi che, in caso di accordo poteva arrivare a un ammontare molto più alto, fino a una cifra di 500 mila euro. Ma non c’è stata negoziazione perché devo prima incontrare Diego Della Valle per capire bene come si possa risolvere questo problema.

Non ritiene che l’uso del Colosseo e del suo sfruttamento commerciale sia stato concesso in esclusiva per 15 anni con troppa leggerezza?

Guardi, l’unica cosa che posso dirle è che, da quando sono arrivato, io ho sempre detto che bisogna attrarre i privati perché è sempre un fatto positivo. I privati possono mettere soldi e competenze. Ad esempio ad Ercolano da dieci anni collaboriamo con la Fondazione Packard (David Woodley Packard, con la sua fondazione Packard Humanities Institute Ndr) che però ha fatto mecenatismo puro. Ha messo denari e ha messo competenze ed Ercolano è un esempio molto positivo.

È vero che in questo caso non l’hanno coinvolta e non hanno coinvolto nemmeno il gabinetto del ministro e il suo ufficio legislativo?

Preferirei non parlare di questo argomento. In fondo io non ho competenza perché ricade sotto il commissario straordinario, l’architetto Roberto Cecchi. C'è un decreto della presidenza del consiglio che gli dà i poteri.

La Volkswagen cosa voleva fare?

Voleva fare un lancio della nuova autovettura con una serie di serate all’infuori degli orari per invitare i loro distributori provenienti da tutte le parti del mondo. Poi però si è tutto bloccato e so che stanno valutando altre sedi europee. Peccato. Loro avevano un forte interesse perché lei capisce che il Colosseo è un’icona mondiale ma la cosa non è andata avanti e penso si stiano ritirando.

Il Colosseo secondo lei ha delle potenzialità di sfruttamento commerciale inespresse?

Ma certo. Lei pensi al Gladiatore. Siamo a dieci anni dall’uscita del film Il Gladiatore e abbiamo visto con grande chiarezza che certamente ci ha portato in tutto il mondo grandissima notorietà. Non a caso noi stiamo parlando adesso con Woody Allen perché vuole fare un film ambientato a Roma (il regista ha annunciato che trascorrerà l’estate nella Capitale per girare la sua nuova pellicola, ndr) e noi gli abbiamo detto che siamo disponibilissimi ad aiutarlo se ha bisogno di ambientazioni nei monumenti di Roma, musei. Lei immagini Il fantasma del Louvre quanto ha aiutato il Louvre. Io mi occupo di comunicazione e il mio obiettivo è proprio quello di portare più visitatori. Io da quando sono arrivato ho puntato su questo e il mio obiettivo non è la mercificazione ma l’avvicinamento dei monumenti al popolo. In due mesi abbiamo fatto più 27 per cento di visitatori.

Se Woody Allen volesse usare Il Colosseo, dovrebbe chiedere il permesso alla Tod’s?

Preferisco non rispondere. Chieda al ministero e al sottosegretario Giro. Io le posso dire solo che incontrerò Della Valle al ritorno dal mio viaggio negli Stati Uniti, tra un paio di settimane poiché abbiamo questa richiesta specifica della Volkswagen. Ci potrebbero essere i numeri uno del mondo in quell'evento e fare un party simile al Colosseo non sarebbe male.

Volkswagen ha rinunciato?

Io ho parlato due giorni fa con chi ha in mano la cosa e sono scoraggiati ma vediamo di risolverla. Io vorrei condividere con Della Valle una strategia di valorizzazione che la mia direzione generale ha in mente e che è lontana dalla mercificazione.

"Piano urbanistico, tutto da rifare"

Via al ricorso dell´opposizione

di Teresa Monestiroli

L’avevano promesso il giorno dopo l’approvazione da parte del consiglio comunale del Piano di governo del territorio: «Faremo ricorso al Tar contro un provvedimento che riteniamo illegittimo». L’hanno fatto, depositando la richiesta di valutare una decisione che è stata presa in maniera «lesiva del diritto-dovere dei consiglieri di decidere sulle osservazioni al Pgt», negando la possibilità di discutere (e votare) una a una tutte le richieste di modifica presentate dai cittadini.

Due mesi dopo il via libera del documento che rivoluziona le regole urbanistiche della città si riapre così lo scontro tra maggioranza e opposizione. Con 14 consiglieri di centrosinistra (su 24) che firmano un ricorso lungo trenta pagine per denunciare le irregolarità con cui il piano, secondo loro, ha raggiunto l’approvazione finale. Tutto ruota, ancora una volta, sulla decisione della maggioranza di accorpare le 4.765 osservazioni in 8 gruppi tematici considerati, dai ricorrenti, «non omogenei» perché affiancavano osservazioni «prive di qualunque attinenza» le une con le altre, ma unificate solo dal fatto di essere state poste sotto la stessa etichetta. Un tema su cui, nei giorni caldi in cui il provvedimento era all’esame dell’aula, i partiti si sono più volte scontrati. Ma che il centrodestra ha superato imponendo a colpi di voti la propria decisione. «Avremmo preferito risolvere la questione in aula attraverso il dibattito politico - spiega Patrizia Quartieri, consigliere di Rifondazione comunista - ma non è stato possibile. La maggioranza ci ha imposto la sua modalità e ora ci tocca dimostrare le nostre ragioni attraverso la giustizia amministrativa».

Il Tar, i ricorrenti ne sono certi, «darà torto al centrodestra». Per questo si è deciso di andare direttamente alla sentenza di merito senza chiedere la sospensiva come normalmente avviene. Il rischio, dicono quelli dell’opposizione, è che il tribunale respinga la richiesta di congelare il provvedimento fino alla discussione del merito, dal momento che ancora non è stato pubblicato e che non entrerà in vigore prima di luglio. «Un ritardo che si giustifica solo con il timore delle stessa giunta Moratti di ricorsi al Tar da parte dei cittadini - commenta Pierfrancesco Majorino, capogruppo del Pd - Per questo sfidiamo l’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli a pubblicare il piano il più presto possibile». Fino ad allora, infatti, né le associazioni né i singoli potranno rivolgersi alla giustizia amministrativa.

Per ora, quindi, l’hanno fatto solo i rappresentati del consiglio comunale. Il ricorso, che ripercorre dettagliatamente le ultime concitate sedute riportando dichiarazioni dei consiglieri e sentenze del Tar che darebbero loro ragione, vuole dimostrare come la decisione di raccogliere 4.765 osservazioni in otto gruppi sia stata illegittima. Per sostenere maggiormente la loro tesi, i ricorrenti citano l’ultima discussione in aula quando, di fronte al gruppo di osservazioni denominato "varie ed eventuali", il capogruppo del Pdl Giulio Gallera chiese uno smembramento in quattro sottogruppi ritenuti a loro volta omogenei. «È evidente che il gruppo "varie" raccoglieva tutte le osservazioni che non rientravano in nessuna delle altre sette categorie - spiegano i consiglieri - Come potevano essere omogenee fra loro?». «È chiaro che il Pgt va riscritto da capo - commenta Basilio Rizzo della lista Fo - e quando vinceremo le elezioni così sarà. In particolare bisognerà rivedere le regole di edificazione all’interno del Parco Sud, lo spostamento delle volumetrie in luoghi già affollati come il centro storico, e l’edilizia popolare».

La road map della rivoluzione

di Alessia Gallione

La rivoluzione dell’urbanistica partirà a luglio. Ancora tre mesi e poi il vecchio Piano regolatore andrà in pensione per lasciare spazio alle nuove regole del Pgt. Perché la marcia di Palazzo Marino continua. Nonostante i ricorsi. Ed è da allora, quando il documento che ridisegnerà la Milano dei prossimi vent’anni diventerà legge, che potranno partire anche le grandi manovre sulle 26 aree che traineranno la trasformazione. A cominciare dagli ex scali. Da Farini a Porta Romana: più di un milione di metri quadrati di binari dimessi, che Ferrovie metterà sul mercato.

Gli uffici del Comune sono al lavoro. Con un obiettivo: concludere tutte le pratiche entro fine giugno per far sì che il Pgt venga pubblicato sul Bollettino ufficiale della Regione all’inizio di luglio. Solo allora entrerà in vigore. Anche se per costruttori e Comune ci sarà bisogno di una fase di rodaggio: non solo a causa di un mercato del mattone in crisi, ma perché c’è ancora qualche tassello che manca. Un esempio su tutti: la possibilità di scambiare le volumetrie potrà decollare realmente da settembre in poi. Il Comune è sicuro di poter presentare il "registro pubblico" in cui verranno annotati tutti i movimenti dei metri cubi a luglio, ma l’Agenzia (Palazzo Marino avrà in mano il 51 per cento del controllo) che farà incontrare domanda e offerta deve essere ancora creata. L’assessore allo Sviluppo del territorio Carlo Masseroli vuole far approvare subito la delibera di giunta che la istituirà. Ma soltanto il prossimo consiglio comunale la potrà votare.

Eccola, la road map del Pgt disegnata da Palazzo Marino. Un percorso già avviato all’interno della macchina comunale che sta subendo una riorganizzazione complessiva, tra informatica e nuove norme da studiare. Masseroli è convinto che il Piano «inizierà a muoversi dai piccoli interventi e ci sarà un gran fermento dal punto di vista dei servizi». Chi dimostrerà di realizzare qualcosa per la città, infatti - la lista è lunga: dai centri sportivi ai negozi storici fino ai laboratori artigiani - potrà costruire senza consumare volumetrie e mettere quei metri cubi sul mercato. Eppure, anche sul fronte dei grandi interventi potrebbe muoversi presto qualcosa.

Il Pgt ha disegnato 26 aree destinate a trasformarsi in nuovi quartieri: è lì che nei prossimi decenni potranno calare 18 milioni di metri cubi di nuove case e uffici. In questa mappa i più "maturi" sono i sette scali ferroviari: da Farini a Porta Romana, da Porta Genova a Rogoredo, si tratta di un milione e 300mila metri quadrati di spazio e di 3 milione di metri cubi di possibili costruzioni. Aree d’oro, che Ferrovie dello Stato è pronta a mettere all’asta entro l’anno. A dare l’annuncio è stato lo stesso Carlo De Vito, amministratore delegato di Fs Sistemi urbani: «Adesso che è stato approvato il Pgt siamo pronti. Entro l’anno partiranno i primi bandi». Il più appetibile è Farini, dove le demolizioni sono iniziate e si potranno realizzare 650mila metri quadrati di volumetrie insieme a un grande parco.

«Ma per sviluppare interventi così imponenti - ragiona il presidente dei costruttori, Claudio De Albertis - dovranno nascere alleanze trasversali tra operatori, fondi, istituti di credito. Nessuno, in questo momento di crisi, potrebbe affrontarli da solo». Oltre agli scali ferroviari, Masseroli si augura che possano concretizzarsi presto anche i disegni sull’area di Bovisa (in teoria una cittadella della ricerca scientifica) e lo scambio dei volumi al Parco Sud, sulle aree di Salvatore Ligresti: accettando di costruire su un pezzo dell’Ortomercato, il verde potrebbe diventare proprietà del Comune.

Ma a luglio quali potrebbero essere i primi effetti concreti? L’aspetto immediato dovrebbe riguardare gli edifici già costruiti. Quando il Piano sarà legge, cambiare le destinazioni d’uso sarà più semplice. Il primo esempio lo ha fatto Masseroli: le due torri ex Fs di Garibaldi accoglieranno uffici non pubblici. La vicenda della casa in stile Batman del figlio del sindaco, poi, ha riportato all’attenzione i loft ricavati in ex spazi industriali diventati abitazioni senza permessi. Almeno 5mila, secondo le stime degli uffici comunali, per i quali si potrà chiedere il passaggio da commerciale o industriale a residenziale. A patto, però, di pagare oneri e di dimostrare di essere in regola con le bonifiche.

Partiti e società civile. Insieme, in una "Notte bianca" per difendere la democrazia italiana. E per fermare l´ennesima legge ad personam ideata per proteggere Silvio Berlusconi: in particolare la combinazione tra processo breve e prescrizione breve che rischia di cancellare migliaia di cause e con essere le aspettative di tante parti lese. La "Notte bianca" è un´iniziativa promossa da Articolo 21, Libertà e Giustizia, Popolo Viola, Partito democratico e Italia dei valori. Appuntamento a Roma, martedì 5 aprile. Prima in piazza Montecitorio, nel pomeriggio, quando la Camera esaminerà i provvedimenti al centro della polemica. Poi dalle 20 alle 24, in piazza Santi Apostoli. Per un incontro in nome della Costituzione e del tricolore.

Tanti gli interventi attesi. Artisti, rappresentati delle associazioni e delle forze politiche. In un happening che vedrà anche la partecipazione di esponenti del Terzo polo e di Sinistra e Libertà. L´obiettivo è incontrare i cittadini, portare nelle strade le motivazioni della campagna contro i provvedimenti messi in cantiere dal governo.

La manifestazione del 5 aprile non è la sola prevista. La protesta è diffusa, e grazie alle rete sono tante le micro iniziative che vengono annunciate. In grande fermento il Popolo Viola. Che oltre ad animare il presidio permanente all´esterno del Parlamento, ha stilato un denso calendario di sit-in e flash mob all´esterno delle prefetture di tutt´Italia. Poi Libertà e Giustizia, che con "Le strade e le piazze della Costituzione" darà vita a numerosi incontri nelle città italiane.

E proprio per spiegare le ragioni della protesta, Libertà e Giustizia pubblica sul proprio sito un intervento del suo presidente onorario Gustavo Zagrebelsky. "Dobbiamo avere chiaro - scrive l´ex presidente della Corte costituzionale - che in gioco non c´è la sorte processuale di una persona. C´è l´affermazione che, se se ne hanno i mezzi economici, mediatici e politici, si può fare quello che si vuole, in barba alla legge che vale invece per tutti coloro che di quei mezzi non dispongono". E ancora: "Questo è il momento della mobilitazione e della responsabilità. Dobbiamo evitare che le piazze si scaldino ancora. La democrazia non è il regime della piazza irrazionale. Lo è la demagogia. La democrazia richiede però cittadini partecipi, attenti, responsabili, capaci di mobilitarsi nel momento giusto".

Intanto, nel Pd, da registrare la posizione di Rosy Bindi. Che invita i democratici a un´opposizione più dura: «Non si può ignorare che il marasma in cui è precipitata la maggioranza, e che ha portato al rinvio del processo breve, è stato innescato dalla saldatura tra la protesta sacrosanta e necessaria della piazza e la nostra battaglia parlamentare». E il partito di Bersani annuncia, per venerdì 8 aprile, un´altra "Notte Bianca". Iniziative a Torino, Milano, Bologna e Napoli. Ancora in piazza, per la democrazia e la scuola pubblica.

Ancora una volta a favore della pace e della manifestazione che oggi la invoca da piazza Navona a Roma e non solo. Senza se e senza ma, come già abbiamo fatto per l'Iraq, per l'Afghanistan, per la Somalia, per l'ex Jugoslavia. Direi, anzi, che oggi possiamo farlo con più convinzione di prima perché ognuna delle precedenti vicende ci ha ormai insegnato che a mano armata non si toglie il burka alle donne, non si cacciano gli integralisti, non si sconfigge il nazionalismo, non si instaura la democrazia. Si fanno solo più morti innocenti, si accumula più rabbia, rancori, catene di risentimenti. Sopratutto si ammazza la sola forza che può, per difficile che sia e certo in tempi lunghi, ottenere ciò che con gli interventi militari detti umanitari non si strappa: una società civile articolata, capace di creare egemonia, di intervenire sul potere, di controllarlo, denunciarne gli abusi. Meccanismi elettorali e istituzioni calate dall'alto, senza questo protagonismo sono solo belletto, così come le bombe servono solo a far tacere, intimidire,confondere, marginalizzare ogni soggettività popolare.

Lo so che talvolta la via della pace è difficile e si vorrebbero delle scorciatoie per cacciare più presto questo o quel dittatore. Ma non ci sono: restano solo più cadaveri, e non vorrei entrare nel conteggio di quanti siano quelli dei ribelli e quanti dei coscritti di Gheddafi. Il fatto anche più grave è che ferite gravemente già appaiono le primavere arabe che dalla vicenda libica non escono rafforzate ma deviate per via di un intervento esterno ed autoritario che ha loro tolto ruolo. Per via di un'azione armata che ha già scelto i suoi paladini: i prodi ministri scappati all'ultimo momento (e fra questi persino che si è stato a capo nientemeno che del dicastero della giustizia e degli interni del regime) ai quali viene affidato il compito di costruire la democrazia libica.

C'erano altre soluzioni che, dopo la prima ribellione di Bengasi, avrebbero potuto favorire una via d'uscita, quella che sin dai primi giorni ha continuato a suggerire monsignor Martinelli: il negoziato, la mediazione, ma anche l'isolamento politico che avrebbe potuto alla fine e con meno sangue strozzare il regime. Non ci si è neppure provato, si è scelta la via dei bombardamenti a tappeto, la violazione del mandato dell'Onu, ora si discute di armare i ribelli e si inviano le «truppe dell'ombra», i consiglieri della Cia, entrando a gamba tesa in una vicenda che riafferma il potere dei più forti di decidere sugli affari del mondo: libertà di fare quel che vuole al sovrano del Bahrein, o ai militari israeliani a Gaza, non a Gheddafi. Cui naturalmente questa libertà andrebbe tolta, e al più presto. Ma se lo si fa in nome di questa pelosa giustizia sarà difficile far accettare a chiunque nuove regole di convivenza internazionale.

Giorni fa al Left Forum che come ogni anno si tiene a New York riunendo circa 5.000 militanti della variegata sinistra americana, avrebbe dovuto intervenire una donna afghana, deputata nella passata legislatura. Washington le ha negato il visto, ma si è riusciti a vederla e ad ascoltarla ugualmente attraverso sky pay e l'immagine ingrandita sullo schermo in una grande affollatissima sala. Se venissero ascoltate le sue parole, non dico dai potenti che hanno buone ragioni per tapparsi le orecchie, ma da chi tentenna di fronte alla condanna delle guerre umanitarie, capirebbe cosa vuol dire esser state «liberate» dalle armi e imparerebbe che l'alternativa non è stare con le mani in mano, ma sostenere - e ci sono mille modi di farlo - chi si impegna a far crescere, dal di dentro, le condizioni del protagonismo democratico.

Nel silenzio generale, passa alla camera l'aumento del tetto della trattativa privata negli appalti pubblici: meno gare, niente trasparenza, uguale più corruzione

Il 15 marzo, con un emendamento approvato nel disegno di legge per lo statuto delle imprese, l’aula della camera dei deputati ha triplicato la soglia che consente l’uso della trattativa privata senza pubblicità negli appalti pubblici, innalzata da 500.000 euro a 1.500.000 euro.

Emendamento proposto dalla Lega Nord, approvato da una maggioranza bulgara e traversale con 485 voti favorevoli, solo 2 astenuti e nessun contrario, dentro un provvedimento approvato dalla camera e ora avviato per la discussione al senato.

Gli effetti sul mercato sono dirompenti: la sottrazione dalle gare di una quota robusta di lavori pubblici, senza alcuna forma di pubblicità, aiuterà di sicuro la già dilagante corruzione. Il Cresme ha effettuato una stima dell’impatto della norma per Edilizia e Territorio (settimanale del Sole 24 ore) da cui si deduce che prendendo come riferimento l’anno 2010, verrà sottratto al mercato il 76% dei bandi di gara in termini di numero e circa il 16% se si calcola il valore in termini di importo. In pratica su 18.848 bandi emessi nel 2010, ben 14.239 sarebbero stati affidati senza bando e senza pubblicità, direttamente dal responsabile del procedimento. In termini di valore questo equivarrebbe a sottrarre al mercato circa 5,1 miliardi di lavori pubblici su di un totale di 32, 9 miliardi di investimenti pubblici.

In più con altri emendamenti il ddl sullo statuto alle amministrazioni pubbliche, vi è l’esplicito mandato di favorire negli appalti le imprese del territorio, per quelle con meno di 250 dipendenti e con meno di 50 milioni di fatturato. Non è chiaro come questo possa in pratica avvenire dato che tutte le normative europee ed italiane vietano ogni riserva in materia di gare e lavori, ma forse si pensa di rispettare questa indicazione proprio con la trattativa privata dove l’ente locale potrà scegliere in modo discrezionale, senza motivazione e senza pubblicità, a chi affidare i lavori.

Nella stessa norma, la soglia per le amministrazioni locali, da affidare direttamente e senza gara gli incarichi di progettazione, viene innalzata da 100.000 a 193.000. Una norma contro la quale si è già scagliata pesantemente l’Oice (associazione delle società di ingegneria) che ha denunciato la scomparsa del mercato della progettazione e l’incremento quindi dei costi, dato che il 91% dei bandi rientra in questa soglia.

L’argomento invocato per affidare direttamente i lavori è il solito: fare presto, togliere i lacci e lacciuoli come richiesto dalle amministrazioni, venire incontro alle difficoltà dei piccoli comuni impossibilitati a selezionare decine di imprese per ogni gara data la scarsità di risorse e personale, nonché una “sedicente” autonomia territoriale invocata dalla Lega Nord. Problemi reali ai quali però è stata data una risposta completamente sbagliata, mentre si doveva semplificare ed unificare le stazioni appaltanti (per esempio a scala provinciale) dentro un unico soggetto pubblico in modo da fornire professionalità, risorse e trasparenza dei bandi e dei risultati delle gare. È noto che anche la polverizzazione delle gare rende difficile controllo e vigilanza e quindi incrementa comportamenti e pressioni illecite.

Contro l’innalzamento della trattativa privata si è schierata l’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici. Il suo presidente Giuseppe Brienza è stato molto netto: con questa norma ben il 96% degli appalti dei comuni è sottratto al mercato, e ha censurato soprattutto la mancanza di obbligo di pubblicità e trasparenza. Ha fatto anche capire che se la norma non verrà corretta dal Senato si renderà necessario un provvedimento dell’Autorità che renda indispensabile la motivazione con cui l’amministrazione intende applicare l’affidamento diretto, quali siano le regole comunque da applicare e quali i criteri di invito alla procedura informale. Solo a queste condizioni minime sarà possibile svolgere un’azione di vigilanza su questi lavori, che sfuggirebbero non solo alla concorrenza ma anche al controllo dell’Autorità.

Del resto la stessa Autorità a gennaio aveva reso pubblici i risultati di una ricognizione sugli affidamenti a trattativa privata dei grandi comuni degli ultimi tre anni (2007-2010), da cui era emerso un quadro desolante: con più di 80.000 contratti per un valore di 61 milioni affidati senza gara. Da quando nel 2008 la soglia era stata innalzata a 500.000 euro per la trattativa privata vi era stato un incremento vertiginoso di lavori senza gara dove un lavoro su due era ormai affidato senza procedura competitiva. Il comune di Roma è stato tra i più solerti ad affidare senza gara con ben 42 bandi e un valore nel triennio di ben 248 milioni di euro. Non solo, in diversi casi i lavori sono stati frazionati artificiosamente proprio per rientrare sotto la soglia fissata per poter applicare la trattativa privata.

Nonostante che questa soglia, questo limite per consentire l’uso della trattativa privata sia stato ritoccato dall’approvazione della legge Merloni nel 1994 ben 5 volte. La norma originaria prevedeva 150.000 ecu di soglia, diventata 300.000 nel 1998. Nel 2002 si consente la trattativa privata fino a 100.000 euro e fino a 300.000 in caso di gara deserta. Nel 2006 si attesta a 100.000 euro per poi balzare nel 2008 a 500.000 e adesso, se la norma verrà confermata anche dal Senato, triplicherà fino ad arrivare a 1.500.000 euro. Quindi si era già tenuto conto delle difficoltà delle amministrazioni locali, nonché delle direttive europee, che contemplano delle soglie molto ampie dato che devono essere il riferimento per tutti i paesi, mentre gli effetti di sottrazione dal mercato sono soprattutto in quei paesi come l’Italia dove vi sono migliaia di istituzioni locali e una miriade di piccole e medie imprese, mentre in altri paesi come la Germania o la Francia il numero di appalti sotto queste soglie è decisamente minore.

Anche l’Ance si è schierata duramente contro l’aumento della trattativa privata e il suo presidente Paolo Buzzetti ha parlato di un mercato che “andrebbe sott’acqua”, proponendo in alternativa l’innalzamento a un massimo di 1 milione di euro con precisi obblighi di trasparenza come la rotazione degli inviti, l’obbligo di pubblicità per ogni fase dell’affidamento.

Mentre l’Aniem, l’associazione delle piccole e medie imprese edili, si è schierata a favore della norma “perché da 15 anni il settore degli appalti pubblici è bloccato con leggi da stato di polizia” e con questo provvedimento si supererebbe questa situazione di controllo. Insomma la logica è sempre quella: dato che i controlli servono a ben poco contro la corruzione meglio eliminarli!

La gravità della norma, a mio giudizio, sta anche nel fatto che si somma a tante procedure specifiche e speciali sottratte al mercato, dove la trattativa privata e la deroga sono diventate la regola, nelle grandi opere, per gli eventi speciali e le ricostruzioni dopo terremoti e alluvioni.

È il caso dell’alta velocità ferroviaria, dove tre tratte per oltre cinque miliardi di lavori sono state restituite a trattativa privata ai vecchi consorzi, dei lavori nel settore autostradale dove la nuova riforma del governo di centrodestra consente alle concessionarie di svolgere in house il 60% dei lavori, per le opere e gli interventi della protezione civile, inclusi gli eventi speciali, che sono affidati direttamente in nome dell’emergenza (e abbiamo visto i risultati con le inchieste della magistratura sulla “cricca”).

Mentre inchieste sono già in corso sulle infiltrazioni per la ricostruzione dell’Aquila e in Abruzzo e sia per il business lanciato dall’Expo di Milano, dove è presente la “ndrangheta”. È la stessa recente relazione annuale antimafia inviata al parlamento a darne conto con un quadro drammatico della strategia e della capacità delle cosche mafiose di infiltrarsi negli appalti e nel ciclo di realizzazione degli interventi, con un mercato parallelo molto ben gestito e organizzato, e anche conveniente per l’imprenditore. Tranne che per lo stato e per la collettività che impegna i soldi per la realizzazione dell’opera pubblica.

Quindi buona parte del mercato ormai, sia per grandi opere e sia per piccoli interventi è ormai sottratto alla concorrenza e alla trasparenza, mentre le inchieste della magistratura registrano gravi fenomeni di corruzione e concussione nell’affidamento di appalti, lavori e servizi.

La Corte dei Conti, presieduta da Luigi Giampaolino, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2011 nella sua relazione ha censurato questi fenomeni nel settore degli appalti, prodotti da una grave elusione delle regole, con un’aggressione continua alla concorrenza, il massiccio ricorso alla trattativa privata anche in violazione delle norme al quale sovente risultano connesse tangenti per favorire gli affidamenti. Fenomeni che hanno influenzato negativamente l’efficienza della spesa, la qualità di gestione delle amministrazioni e depresso la funzione anticiclica della spesa pubblica.

Non può dunque che creare allarme e preoccupazione l’emendamento che amplia la trattativa privata senza regole e senza pubblicità, approvato all’unanimità dalla camera, perché non tiene conto della situazione opaca e deformata già presente nel mercato a ogni livello. Siamo ancora in tempo per correggere la norma al senato, con una misura che coniughi efficienza e legalità.

A Milano, città della moda e del design (così ci ripetono da lustri e tocca crederci per forza, bloccati negli ingorghi delle settimane dello stile, del mobile ecc.) si vive nella fede assoluta per la creatività spontanea e selvaggia. Uno si sveglia la mattina, beve il caffè, tira un bel respiro profondo e zac! esce fisiologica l’idea vincente della giornata. Vincente soprattutto sui giornali, di solito, dato che la città pare sempre più cosparsa di sconfitti nei vari campi in cui si è applicato il metodo, dall’ambiente, alla casa, ai trasporti, alle politiche urbane in generale. Ecco, è proprio quello che pare scomparso dall’orizzonte, il problema delle politiche urbane: sono ancora in vita, magari sepolte dalla valanga di sparate creative e elettorali? Parrebbe proprio di no, ma non si sa mai.

Perché le politiche urbane, da non confondere con la discrezionalità politica dell’amministrazione in carica o di quella virtuale dell’opposizione, sono proprio il contenitore di riferimento che manca, a Milano e in tante altre città. Le sole vicende legate a pedonalizzazioni, mezzi pubblici, mobilità ciclabile e relative integrazioni sono ad esempio lì a dimostrarlo. Mentre invece nei posti dove il problema lo si è affrontato, da destra a sinistra in alto e in basso, non si parte dal progetto, ma dal programma, inteso come pochi obiettivi chiari e verificabili (le emissioni, i consumi energetici o simili) e poi a scendere coi piani di settore e infine i progetti attuativi. Le piste ciclabili, le rotaie del tram, la pedonalizzazione di un tratto di via del centro e la congestion tax, in sé e per sé, sono solo fiori all’occhiello, destinati ad appassire in fretta se stanno appuntati sul nulla.

Tempo fa in un'intervista l’assessore all’urbanistica milanese Masseroli raccontava ai giornali la sua idea di mobilità ciclabile. E in teoria già poteva accendersi qualche speranza, visto che appunto si trattava del delegato a un aspetto di primissimo piano del metabolismo della città, ovvero le grandi trasformazioni urbane e infrastrutturali. Ma c’era qualcosa che non quadrava, almeno a prima vista, quando l’assessore spiegava come lo spazio fosse poco, e toccasse condividerlo …. fra pedoni e ciclisti! Prego? E le auto? Quelle cosette di lamiera che in movimento o ferme occupano gran parte dello spazio cosiddetto pubblico della città? Loro non devono condividere nulla? Si devono ritagliare piste ciclabili nei pochi spazi in cui la pedonalità non è proprio confinata a una striscia di un metro scarso rasente gli edifici?

Non è tutto. Se si parla di politiche urbane, è perché salta all’occhio di chiunque come il modo di muoversi si intrecci con tempi e funzioni, localizzazione di servizi, stili di vita medi. E quindi solo per restare a un ipotetico cittadino pedalante è quantomeno fantascientifico pensare alla sua giornata come a una specie di cortocircuito casa-ufficio attraverso il nastro conduttore della pista ciclabile, più o meno ritagliata dal marciapiede, o immersa nel verde a cinque minuti dal centro. Perché nemmeno nelle caricature fantozziane più estreme esistono personaggi del genere. Perché “casa” e “ufficio” ovvero origine e destinazione, oltre l’iper-uranio dei ragionamenti assessorili non sono cubicoli sospesi nello spazio interstellare, ma cose complesse, dotate di interfaccia altrettanto complessi: dove sistemare la bici, se e come caricarla eventualmente sui mezzi pubblici, come fruire di alcuni servizi essenziali (i negozi, eventuali ripari dalle intemperie ecc.) lungo il percorso.

Adesso, in un’altra intervista estemporanea, nell’ormai classico stile delle dichiarazioni da fashion designer nuova stagione, l’assessore (vedi l’articolo di Teresa Monestiroli riportato di seguito) parla di “patto sociale” o di “cambiamento di mentalità” ovvero paradossalmente continua imperterrito a ragionare in una logica di progetto, delegando le politiche urbane, il coordinamento, la visione di insieme, alla buona volontà dei singoli. I quali si dovrebbero con un colpo di bacchetta magica scordare come fino a ieri si negava addirittura l’esistenza di una idea generale, salvo il magico risultato della ricomposizione dei comportamenti individuali grazie alla Provvidenza. Beati credenti!

A New York, che non è il paradiso ma sicuramente un posto un po’ più normale di altri, la mobilità pedonale, ciclabile, sui mezzi pubblici, non sta inserita nello spazio interstellare, ma nel piano strategico del sindaco chiamato PLANYC2030 dove gli obiettivi sono ambientali, sanitari, socioeconomici, di localizzazione delle attività economiche ecc. Poi ci sono i commissioners delegati “di settore”, come ad esempio le due signore di ferro Amanda Burden all’urbanistica e la fascinosa Janette Sadik-Kahn alla mobilità. Che oltre ai fiori all’occhiello come il parco centrale sulla ex sopraelevata ferroviaria, la pedonalizzazione di una fetta di Broadway, il piano generale per il waterfront, ragionano e operano con riferimento agli obiettivi strategici.

Poi, siccome siamo sulla terra e non in un telefilm, ci sono anche scontri e polemiche. Sulle piste ciclabili abitanti inferociti ricordano all’amministrazione che we’re not in Copenhagen! ma nessuno si sentirà mai dire che l’errore è della sua mamma, che l’ha fatto nascere con la mentalità sbagliata.

la Repubblica ed. Milano, 2 aprile 2011

Raggi, cerchi, micropiste ma l’ok al piano bici è rinviato causa elezioni

di Teresa Monestiroli

Più che una rivoluzione della viabilità sarà «una riforma culturale», perché la prima cosa che bisogna cambiare, dice Carlo Masseroli, assessore all’Urbanistica, è «la mentalità dei cittadini». È a partire da questo presupposto, e dal dato di fatto che nelle casse del Comune non ci sono i soldi per realizzare grandi opere infrastrutturali, che il padre del Piano di governo del territorio ha ideato un piano di indirizzo per potenziare le piste ciclabili in città e stimolare l’uso della bici.

«A Milano ci sono 600 auto ogni 1000 abitanti - spiega l’assessore - Più del doppio delle grandi città europee. Dobbiamo fare i conti con questa realtà se vogliamo trovare una strategia vincente». Soprattutto dopo aver constatato che il sogno promesso dal sindaco cinque anni fa di raddoppiare i chilometri di piste - da 85 a 190 entro il 2015 - è ancora lontano e che le resistenze della politica - centrodestra in testa - nei confronti delle due ruote hanno più volte frenato i progetti. Ecco allora che l’assessore studia il piano B. Una rete di percorsi ciclabili misti composto da tratti di piste esistenti e tratti di "viabilità promiscua" tra auto e bici, o tra pedoni e bici, che andrà a toccare tutta la città. Una mappa ancora in via di preparazione ma che sta già suscitando dubbi all’interno della maggioranza, tanto che le due delibere già firmate da Masseroli sono state rinviate a un futuro prossimo, probabilmente dopo le elezioni. «Sono solo state rimandate perché erano poco chiare» è la risposta ufficiale dei colleghi di giunta.

L’idea è realizzare tre cerchi concentrici (la prima circonvallazione, la 90-91 e i parchi esterni) e una serie di raggi che dal centro portano all’esterno mettendo insieme le piste già pronte con percorsi ricavati tracciando una striscia sull’asfalto, oppure trasformando i controviali in "zone a 30 all’ora" dove auto e bici convivono. Ma anche microcollegamenti tra un raggio e l’altro utilizzando, dove è possibile, i marciapiedi. La prima sperimentazione, in viale Padova, partirà lunedì. «La delibera per fare una prova anche sui controviali è già pronta - spiega l’assessore - Partiremo da viale Romagna e, se funzionerà, estenderemo il modello a tutti i controviali». Un terzo passo sarà individuare percorsi sui marciapiedi: e in questo verranno coinvolti anche i cittadini attraverso questionari inviati a casa, quartiere per quartiere.

Il progetto, quindi, avrebbe minimo impatto sulla città - toglierebbe pochissimi posti auto - e sul portafoglio del Comune. Ma come convincere i milanesi a rispettare i percorsi promiscui, se già oggi le poche piste ciclabili esistenti sono spesso invase dalle auto? «Quello che ci vuole è un patto sociale fra cittadini - dice Masseroli - È una scommessa, ma sono convinto che quando le piste inizieranno a essere usate gli automobilisti avranno più rispetto».

Per gli ambientalisti, però, oltre al patto ci vuole la sanzione. «Se non si spendono soldi per le infrastrutture - osserva Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia - bisogna attuare una seria politica di regolamentazione della sosta che, prima di rendere i marciapiedi ciclabili, li faccia tornare pedonali. Una drastica azione contro le doppie file e il parcheggio selvaggio, e magari anche l’eliminazione del posteggio su un lato della via per introdurre piste ciclabili anche in strade a senso unico».

«Spalanca, spalanca» . Al piano nobile del castello di Camigliano risuona un pianoforte. Gualtiero Ghezzi, padrone di casa, guarda verso Montalcino. «Apri le finestre, tutti devono sentire» . Dieci metri più sotto, le note rompono il silenzio del borgo di Camigliano, entrano nelle case dei 36 abitanti, con i ragazzi che giocano ancora alla ruzzola a corda. Ghezzi è l’ultimo feudatario d’Italia. Un caso più che una scelta. Nel borgo semideserto, lui nel castello, i 36 attorno alle mura, si occupa dei destini incrociati degli abitanti. Distribuisce lavoro e, a date fisse, svago.

Tutti o (quasi) sono impiegati nella sua azienda agricola che con il borgo si identifica (e viceversa). Una volta l’anno Ghezzi chiude il paese e porta tutti in gita. Pranzo, discorso, generose sorsate di vino del podere. A Natale invita i paesani a pranzo. Sembra un borgomastro. Non eletto, ma designato in quanto possessore della terra. «Chiedono e io faccio — racconta l’ex ingegnere milanese trasformato in vignaiolo— organizzo lo scuolabus per Montalcino, decido che fare se l’unico negozio di alimentari chiude per anzianità dei proprietari (lo acquisto e trovo una famiglia di giovani per riaprirlo).

«Quando il padre di Gualtiero, Walter Ghezzi, arrivò qui da Milano — racconta la moglie Laura — c’erano solo maiali e mucche chianine. Era il 1957, due anni dopo vennero impiantati i primi vigneti di Sangiovese, che qui si chiama, appunto, Brunello. I Ghezzi si innamorarono di queste colline e dell’abbazia di Sant’Antimo, dove si celebra (e si canta) ancora con il rito gregoriano» . I vitigni sono stati recuperati fino a coprire 92 ettari dei 530 della proprietà, la vecchia cantina è stata ricostruita sotto terra per non ostacolare lo sguardo dal paese verso il bosco. Sono arrivati nuovi tini d’acciaio a temperatura controllata accanto alle botti in rovere di Slavonia da 25 a 60 ettolitri. E il vino viene lavorato con uno speciale metodo, a caduta.

«Per non farlo stressare» , spiega il produttore-ingegnere. Così il Brunello di Camigliano si è, poco a poco, affermato sul mercato. Fino a far scrivere al critico Luca Maroni, nell’annuario dei vini 2010, che il Brunello Gualto 2003 è «di intesa fragranza mentosa dell’aroma, violacemente balsamico, suadentemente armonioso, uno dei migliori del millesimo e di sempre» . «Far funzionare questa azienda è il modo per non far morire il borgo, senza di noi si svuoterebbe in fretta» , dice sicuro Gualtiero Ghezzi.

Ora le casette in pietra rimaste vuote vengono affittate ai turisti. È anche stato aperto un piccolo ristorante da una giovane coppia. C’è un sacerdote part time a Camigliano: arriva in Ape, confessa, benedice, poi chiude e se ne va. La chiesa ha la forza di una parabola: c’è una porta d’ingresso per i battesimi, l’altra per l’ultima uscita, il funerale. Una strage di pennuti, chiamata sagra del galletto, nella prima settimana di ottobre, è il solo evento plebeo del borgo, con tavolate e giochi d’altri tempi. La coppia dei neofeudatari, come impone il ruolo, apre il castello agli artisti. Fino a qualche anno fa chiamava a rapporto ogni anno un gruppo di disegnatori che esponevano i loro lavori tra satira e storia locale. Poi venivano organizzate rassegne di arte contemporanea. In quelle occasioni la cantina diventa una galleria.

È la signora del castello a mettersi al lavoro per sfamare ospiti e artisti con i piatti della tradizione, la ribollita e la bistecca alla fiorentina. I neofeudatari non hanno personale di servizio. «Ci aiutano le donne del paese, come gli uomini nei campi» . La visita in cantina inizia con le lodi di Ghezzi al Moscadello, rinascimentale vitigno citato dal poeta Redi nel suo «Ditirambo» . Poi il tesoro: 160 mila bottiglie di Brunello ottenute in 50 ettari tra le crete senesi. L’annata del 2006 del Camigliano dei castellani ha ottenuto 92 punti su 100 pochi giorni fa dagli americani di Wine Enthusiast, e ieri è stata presentata al Four Seasons di Milano con sette stelle del Brunello di Montalcino (Castello Banfi, Castello Romitorio, Col d’Orcia, Marchesato degli Aleramici, Mastrojanni, Siro Pacenti, Tenute Silvio Nardi).

Vigne, ulivi e il bosco padronale, non c’è altro per chilometri attorno al borgo. Il paese-azienda è un insieme di nuovo e antico: tutto sembra continuare da secoli, riti medievali compresi. Invece, almeno per l’economia delle vigne, tutto è cambiato. Il Brunello di Montalcino è un vino dell’età moderna. Dal 1870 fino agli anni Cinquanta c’era un solo produttore, Biondi Santi. «Quando siamo arrivati parte del castello era in rovina e nei campi servivano grandi investimenti» , raccontano i Ghezzi. Mezzo secolo dopo il castello, e il Brunello, hanno salvato il borgo.

Nota: non è certo questo modello neofeudale a ispirare i protagonisti di una vicenda simile ma al tempo stesso assai diversa, come quella raccontata nel film Langhe Doc da Paolo Casalis (f.b.)

Come si sono ridotti così? Prima un po’ alla volta, poi tutto insieme. Il volto, i volti della classe dirigente riflettono ormai la deriva di un’agonia politica. Il ghigno stupefacente di Ignazio La Russa, l’isterico lancio della tessera del guardasigilli Alfano, lo sguardo esterrefatto di Fini, i deputati leghisti che ringhiano «handicappata di merda» alla collega disabile Ileana Argentin.

La malattia degenerativa di una democrazia di colpo assume i modi, le espressioni, i gesti di un’esplosione schizofrenica. Nell’ora dei telegiornali milioni d’italiani assistono attoniti a uno spettacolo di degrado, di squallore definitivo. Dentro l’aula l’impressione era ancora più penosa. Da un momento all’altro ti aspettavi che i leghisti prendessero anche a calci la carrozzella della deputata tormentata dalla distrofia o che qualcuno estraesse all’improvviso un’arma, come in Bowling for Colombine. Ogni tanto bisognava uscire fuori, per strada, fra la folla ordinata e pacifica che contestava in piazza Montecitorio, per respirare un po’ di normalità civile.

Vergogniamoci pure per loro, che non ne sono capaci. Ma perché sono arrivati a tanto? Il fatto è che il governo non esiste, la maggioranza non esiste e lo sa. Non esistono più da tre mesi, dal 14 dicembre scorso, quando il governo avrebbe dovuto essere sfiduciato dalla Camera e invece la scampò per i voltagabbana dell’ultima ora, i dipietristi pentiti Scilipoti e Razzi. Un colpo di coda col quale il premier è riuscito a garantire la propria sopravvivenza, ma niente di più. Il governo, la maggioranza sono comunque morti il 14 dicembre. Non decidono più, non sussistono. Se non all’unico scopo di sfornare leggi in grado di proteggere il premier dai processi. Per il resto, il governo è una nave fantasma, incapace da dicembre di compiere qualsiasi scelta, qualunque cosa accada. Terremoti, tsunami, crisi nucleari, guerre civili alle porte, rivoluzioni a un tiro di missile da casa. Niente. Disoccupazione, inflazione, scalate estere ai gruppi industriali. Silenzio. Uno dopo l’altro, sono spariti dalla scena i ministeri e i ministri, anche i più popolari e decisionisti. Che fine hanno fatto Brunetta, Maroni, Gelmini, perfino Tremonti? Ridotti a comparse. Sulla scena rimane l’ondivago Frattini, il nulla stesso fatto ministro, inventore del situazionismo in politica estera. E l’improvvisatore Ignazio La Russa, che fa notizia soltanto per calci, insulti e gestacci, mai per essere ministro della Difesa della nazione al centro del Mediterraneo in fiamme. Il mondo procede già come se l’Italia non avesse ufficialmente un governo, a prescindere. Perché convocare a un summit sulla crisi libica una sedia vuota?

Libera da ogni altra missione che non sia la salvaguardia di Berlusconi dalla legge, la maggioranza si divide soltanto sulle linee difensive. Oggi il gran dibattito nel centrodestra si svolge fra avvocati di Berlusconi, all’interno dei due principali studi legali. Quello di Gaetano Pecorella, scettico sulla necessità della battaglia per la prescrizione breve, e l’altro di Niccolò Ghedini, ideatore di leggi ad personam sempre più modellate sulle stringenti esigenze di Berlusconi. Con il ministro Alfano e la Lega nel ruolo di arlecchini servitori di due padroni.

È una condizione abbastanza umiliante da spiegare la deflagrazione di rabbia e violenza di questi giorni, il senso d’inutilità che esplode in un misto di rancore e vittimismo. Tanto più da parte di chi, come gli ex An e i leghisti, coltivava l’ambizione di far politica o almeno la pretesa di farlo credere agli elettori. Ma si ritrova imprigionato nella livrea del maggiordomo, scavalcato nella considerazione dall’ultimo venduto, dall’ultimo compagno di merende e compagna di bunga bunga, e allora se la prende con gli avversari, con i manifestanti, con chiunque ancora osi esibire brandelli di dignità, segnali di esistenza. Il governo e la maggioranza non ci sono più. Nella notte si sono svolte trattative fra i collegi di avvocati del premier, in vista della riconvocazione della Camera. Sarà un altro spettacolo d’angoscia. Per fortuna martedì torneranno in piazza anche i manifestanti in difesa della Costituzione, così potremo uscire ogni tanto dal manicomio di Montecitorio a respirare un po’ di civiltà.

[…] La realtà - purtroppo molto diversa - è quella fotografata dall’indagine Microdis - l’Aquila, finanziata dalla Comunità europea e realizzata dalle università di Firenze, delle Marche e de L’Aquila. Con quindicimila contatti, si è scoperto che per il 71% degli aquilani «la comunità è morta assieme al terremoto», che il 68% vorrebbe lasciare la propria abitazione attuale, e che il 43% della popolazioni soffre di stress, una percentuale che arriva al 66% per le donne. Il 73% denuncia «una totale mancanza di posti di ritrovo per la comunità», il 50% l’assenza di servizi essenziali.

Il sindaco Massimo Cialente non è sorpreso da questi numeri. «La comunità sta morendo perché il sisma ha distrutto la città, non pezzi di città. In tanti non l’hanno capito. Se non si adottano misure eccezionali - come è successo nel primo anno, quando il governo ci è stato vicino - si commetterà un omicidio: quello di un’intera comunità. Nei primi mesi, in 65 giorni, siamo riusciti a costruire i Musp, i moduli provvisori ad uso scolastico e ad aggiustare 60 scuole. Poi il nulla. Da quando, 14 mesi fa, è stata dichiarata la fine dell’emergenza, con la partenza della Protezione civile, ci sono tanti commissari e sub commissari che però affrontano i problemi in modo "normale", senza deroghe. E così abbiamo perso 14 mesi e l’Aquila non riesce a riavere la questura e altri palazzi pubblici indispensabili, 1.200 famiglie sono ancora fuori dalle case popolari perché per avviare i lavori ci vogliono gli appalti … Io sono pronto ad assumermi la responsabilità politica, morale e anche giuridica di un colpo di acceleratore, perché se la città muore davvero, dopo potremo avere solo rimpianti. Fino ad oggi non è arrivato un euro per il rilancio economico, la ricostruzione pesante - quella vera - non è ancora partita. Io venti giorni fa mi sono dimesso, volevo che la città ricevesse una scossa. Commissari e sub commissari, a nome del governo, erano per il Comune un muro di gomma. La mia stessa maggioranza non aveva capito che la città era in agonia. Ora sono tornato in Comune perché il governo ha promesso che ci si metterà tutti attorno a un tavolo per discutere le cose da fare, con lo stesso spirito che c’era nei primi giorni. Speriamo sia vero».

Ci sono ancora i soldati, a presidiare il centro storico pieno di macerie. «Non siamo più cittadini - dice Stefania Pezzopane - ma inquilini. C’è chi pensa che città significhi un insieme di case e garage. Ma anche per chi ha un tetto - ci sono comunque 36.000 persone in attesa di tornare a casa loro - non c’è più quel "vivere assieme" che è l’essenza della città. La cosa che fa più male è che anche i giovani se ne vogliono andare via. Gli studenti del liceo Domenico Cotugno, che era a fianco del Comune, hanno detto che dopo il diploma o la laurea partiranno tutti. Ora il liceo è in periferia, vorrebbero almeno studiare in centro, al pomeriggio, anche per potersi incontrare fuori da un supermercato o dai pub di via Croce Rossa. Per loro stiamo preparando un prefabbricato, davanti alla basilica di San Bernardino».

C’erano 850 attività commerciali, nel centro storico. I negozi riaperti sono 20 in tutto. «Altri 70 potrebbero alzare la serranda - dice l’assessore Pezzopane - ma non lo fanno perché in centro non ci sono abitanti. Ormai le insegne più famose dei bar e dei negozi sono state messe nelle baracche di legno che circondano il centro ed hanno occupato ogni spazio libero. La città senza città pone problemi anche al Comune: abbiamo 26 milioni da spendere per il ripristino della rete sociale, per costruire centri per gli anziani e luoghi per i bambini ed i ragazzi. Dove li costruiamo? Nel centro senza abitanti o nelle new town piene di gente e senza nessun servizio? Dobbiamo riflettere. Se investiamo lontano dalle antiche mura, nel cuore della città potremo tornare solo per quelle che noi chiamiamo le passeggiate del dolore».

C’erano 6.000 persone, nelle «domeniche della carriole» del febbraio e marzo dell’anno scorso. Ventimila ad occupare l’autostrada a luglio. Meno di cento persone nell’ultima iniziativa dei comitati l’altra settimana, per togliere l’erba dalla scalinata di San Bernardino. «L’Aquila - dice Eugenio Carlomagno, direttore dell’Accademia di belle arti - più che sconfitta è rassegnata. Da due anni chi vuole tornare a vivere nella propria casa in centro si scontra con i ritardi, la burocrazia e l’assenza di scelte politiche. In centro sarà necessario costituire fra i 300 ed i 400 consorzi per la ricostruzione, fino ad oggi ne sono nati solo 15 e ancora oggi non sappiamo a chi presentare la domanda di finanziamento. La rassegnazione non può stupire nessuno».

Oggi il sindaco Cialente incontrerà la stampa estera a Roma, anche per ricordare gli impegni assunti dai Grandi al G8 e in gran parte non mantenuti. Chiese e monumenti «adottati» sono ancora orfani. Fra le poche eccezioni, il Giappone. Il sindaco ha inviato un messaggio al governo giapponese, per esprimere il lutto per il terremoto che ha colpito quel paese, e i giapponesi hanno ringraziato, aggiungendo che manterranno il proprio impegno di costruire - dopo la nuova sede del conservatorio - anche un nuovo palazzetto dello sport.

Massimo Casacchia, professore di psichiatria all’ateneo e responsabile dei servizi psichiatrici all’ospedale San Salvatore, conosce la tristezza della città sia come medico che come abitante di una new town. «In questi ultimi mesi stanno aumentando lo scoraggiamento, la rassegnazione, la tristezza. In termini clinici, questa si chiama depressione. Né è colpito il 40% della popolazione, forse la metà. Sono persone che hanno bisogno di colloqui con il loro medico o qui all’ospedale. Io vivo nella new town di Pagliare di Sassa. Un tetto, il caldo e nulla intorno. Se hai il tuo lavoro, te la cavi. Chi resta qui tutto il giorno non riesce a trovare un punto di incontro con gli altri, quasi tutti sconosciuti perché il terremoto è stato come una bomba che dal centro ci ha buttati in periferia e anche più lontano. Nelle frazioni invece delle new town hanno fatto i Map, moduli di abitazione provvisoria. Qui almeno hai come vicini di appartamento quelli che abitavano accanto a te, le relazioni rinascono subito. E sappiamo che il vero antidoto al disturbo e alla malattia mentale è la rete sociale». Anche nella sua new town, al tramonto, si vedono solo uomini con cani al guinzaglio.

DUE INTERVISTE

DI FRANCESCO ERBANI

Vezio De Lucia: è ora di tornare alla gestione ordinaria



"Recuperare il centro questa è la vera sfida"

Eppure è danneggiato, in alcuni casi gravemente, ma non distrutto. I crolli sono relativamente pochi

«La ricostruzione del centro storico è ancora il problema fondamentale dell’Aquila. E si può affrontare solo immaginando il suo recupero integrale. Com’era e dov’era». Vezio De Lucia è stato fra i primi urbanisti a impegnarsi attivamente dopo il sisma (insieme ad altri ha scritto Non si uccide così anche una città?).

Perché è il problema fondamentale?

«L’Aquila è disseminata in più di cinquanta frazioni e il centro era il luogo ordinatore, dove c’era tutto, le istituzioni, l’università, il commercio. Racchiudeva le identità cittadine. Questa funzione la svolgeva prima del terremoto e dovrebbe svolgerla tanto più ora che la dispersione abitativa è appesantita dalle 19 cosiddette new towns».

E invece?

«Senza centro non c’è una città, ma un agglomerato edilizio. Il centro è abbandonato. Eppure è danneggiato, in molti casi gravemente, ma non distrutto. I crolli sono relativamente pochi. È possibile intervenire con un restauro per il quale abbiamo eccellenti competenze».

Ma non si interviene. Di che cosa c’è bisogno?

«Occorre tornare a una gestione ordinaria, bandendo i commissariamenti. Tutto deve passare nelle mani dell’amministrazione comunale. Ora iniziano ad arrivare i finanziamenti. Ma fin da subito si poteva usare la disciplina prevista dal vecchio piano regolatore, mentre ci si è baloccati inventando complicazioni burocratiche che hanno sfinito la popolazione. Finalmente si è capito che non si potevano indennizzare integralmente solo le prime case, perché così non si sarebbe ricostruita neanche la metà degli edifici. Ma ci sono voluti due anni».

Federico Oliva: compromesso il futuro del territorio

"Quelle 19 new town un errore definitivo" In questo modo non si rimette in piedi il tessuto complesso di un organismo urbano

«A L’Aquila si è sbagliato tantissimo», secondo Federico Oliva, professore a Milano e presidente dell’Inu, Istituto nazionale di urbanistica. «Se si ha in mente di ricostruire una città, bisogna partire dal centro storico. Se invece si hanno altri obiettivi, si possono anche immaginare strade diverse: ma così non si rimette in piedi il tessuto complesso di un organismo urbano».

Ricostruire il centro com’era e dov’era?

«Dov’era, senz’altro. Il com’era è una questione che mi appassiona meno. Ogni epoca ha il suo linguaggio».

Lei è favorevole a introdurre edifici moderni in un contesto antico?

«Sì. Mettendo mano alla ricostruzione di un’area così vasta come il centro dell’Aquila è indispensabile. Anche se devo ammettere che non abbiamo dato buone prove in passato. Ma a L’Aquila certi condizionamenti di tipo speculativo non dovrebbero esserci, trattandosi comunque di una ricostruzione tutta affidata al pubblico. Rispettando una serie di vincoli e muovendosi delicatamente in un contesto pregiato, il moderno può convivere con l’antico».

Che errori si sono commessi a L’Aquila?

«Si è deciso per motivi politici di ricostruire subito una parte definitiva della città: i 19 nuovi insediamenti. Che sono stati localizzati senza tenere in nessun conto questioni urbanistiche, ma solo la disponibilità delle aree».

Con quali conseguenze per la città?

«È stata irreparabilmente compromessa la sua forma futura. E inoltre sono state sottratte risorse e attenzioni alla ricostruzione del centro storico. Che invece era il punto da quale partire».

Expo, il fantasma delle opere

di Carlo Petrini

Di che orto stiamo parlando? È con una certa sorpresa che ho accolto le parole dell’ad dell’Expo 2015 di Milano, Giuseppe Sala, che ha dichiarato non vendibili e con scarso appeal gli orti previsti nel master plan, rinunciando così a metterli in atto.

Gli architetti avevano fatto un buon lavoro. Intanto, ieri, la signora Moratti ha tenuto un discorso al Consiglio Comunale milanese da cui si potrebbe evincere che non è successo niente. Sembrerebbe tutto verde, tutto pulito. Ma non si capisce se ci crede veramente o è stato soltanto uno spot elettorale. Per parlare di queste cose bisogna avere cognizione di causa e le categorie culturali giuste. Come fa la Moratti a dichiarare che l’agricoltura milanese è «moderna, intensiva, diversificata e rispettosa dell’ambiente»? Non si rende conto che sono quattro elementi in contraddizione o come minimo incompatibili tra di loro?

Se ci fossero persone con un minimo d’idea del mondo in cui vivono, saprebbero che l’elemento centrale della nutrizione in questo momento, a livello internazionale, è il ritorno alla terra. Tutti discutono di come realizzare una produzione sufficiente e non deleteria per gli equilibri ambientali, eminenti professori sostengono che la prossima bolla a scoppiare sarà quella agricola, proliferano i farmers’ markets. Gli orti nascono ovunque, nelle scuole, nelle città, in tanti piccoli appezzamenti privati che prima avevano soltanto scopo ornamentale. Sono la vera tecnologia del futuro, nel Nord come nel Sud del mondo. Li hanno fatti alla Casa Bianca, Londra ne vuol realizzare 2012 entro il 2012, l’anno delle Olimpiadi. Li stiamo anche aiutando a costruire in Africa grazie alla ricerca di fondi di Slow Food, e questi cambiano la vita a intere comunità.

Il mondo evoluto tecnologicamente, dagli Stati Uniti in giù, guarda con grande attenzione a questi fenomeni: non ci sono più dubbi che rappresentino ciò con cui avremo a che fare nei prossimi decenni, e invece a Milano ci dicono che all’Expo vogliono fare il supermarket del futuro. Mentre pensano questa cosa pensano una cosa già vecchia. Quando lo realizzeranno tra quattro anni (se lo realizzeranno, visto come stanno andando le cose in materia di Expo) faranno una cosa vecchia. Rischiamo di farci ridere dietro dal mondo intero.

Sono deluso e sono anche un po’ indignato, perché sta passando l’idea che i contadini di oggi siano fermi a secoli fa. Non è vero, nelle campagne del mondo s’inventa, si crea, si fa vera cultura post-moderna. Pensare che l’umanità abbia a cuore soltanto la futura visione del supermercato è offensivo per miliardi di contadini, nonché un errore madornale. Com’è un errore andare a spiegare a queste persone come devono vivere e lavorare grazie ai progetti di cooperazione che cita la Moratti, importando una visione tecnologica occidentale che non ha futuro e può fare danni irreparabili nel Sud del mondo.

Prendo atto che l’Expo sta rinunciando a diventare ciò che dovrebbe essere: un grande momento di cultura mondiale, in cui presentare i problemi e proporre le soluzioni sul tema "Nutrire il Pianeta, energie per la vita". Prendo atto che non rinunciamo ai vecchi paradigmi che ci hanno portato a questa situazione planetaria così critica e non voglio pensare male (e nemmeno citare Andreotti). Tuttavia la questione dei terreni del sito mi pare scottante: non c’è la volontà di salvare un terreno agricolo e restituirlo integro e valorizzato alla città dopo l’evento. Mantenerlo tale, senza cambiare destinazione d’uso sarebbe uno degli atti politici più grandi e lungimiranti che si possano fare per Milano, ma c’è invece la chiara volontà di assecondare l’interesse di pochi, concedendo l’edificabilità dei terreni.

Non sono attrattivi gli orti? Allora forse abbiamo capito bene cos’è attrattivo per chi sta coltivando un orto molto meno verde di quelli previsti dal master plan: un orticello che non ho ancora capito con che coraggio stiamo proponendo al mondo. Il quale, va ricordato, ci sta guardando e ci guarderà sempre più attentamente man mano che ci avviciniamo al 2015.

Tre anni fa Milano si è aggiudicata la Esposizione Universale del 2015. Ma i lavori non sono mai partiti e ora la città rischia un flop mondiale

di Alessia Gallione e Roberto Rho

Tre anni. Millenovantadue giorni. Ventiseimilatrecento ore. Milano vuole organizzare una grande festa internazionale: convoca 130 Paesi, manda 20 milioni di inviti, programma di investire 1.750 milioni (più annessi e connessi). Ma tanto tempo non è bastato neppure per acquisire la disponibilità dei terreni su cui tenere l’evento, ricevere le delegazioni dei Paesi ospiti, accogliere i visitatori. Chiunque abbia organizzato perlomeno una festa di compleanno per i propri figli sa che prima di spedire i cartoncini d’invito dev’essersi assicurata l’agibilità del locale dove piazzare il buffet e far esibire clown e musicanti. Milano no.

Ha messo in piedi il progetto per l’Expo 2015, si è aggiudicata la vittoria - esattamente tre anni orsono, il 31 marzo 2008 a Parigi - nella sfida a due con la turca Smirne, ma ancora oggi non ha alcuna certezza sulle aree - quelle adiacenti la Fiera di Rho-Pero - su cui intende svolgere la manifestazione.

Perché quelle aree, qualcosa più di 1 milione di metri quadrati di terreni incolti, accatastati come agricoli, sono per oltre metà (520mila metri quadrati) di proprietà della Fondazione Fiera di Milano, per un quarto (260mila metri quadrati) del gruppo Cabassi e solo per la parte rimanente di proprietà pubblica: Poste Italiane e i Comuni di Milano e di Rho. E i terreni non sono l’unica cosa che manca. Mancano i soldi, e tanti. Di quei 1.746 milioni necessari per allestire il sito (molte altre centinaia di milioni sono previste per le infrastrutture e altri 1.280 milioni per l’organizzazione dell’evento), quasi metà (833 milioni) toccano al governo. E anche se Giulio Tremonti apre i rubinetti sempre malvolentieri, l’amministratore delegato di Expo, Giuseppe Sala, è sicuro che da quel fronte non arriveranno problemi insormontabili. Ce ne sono e soprattutto ce ne saranno sul fronte degli enti locali: Comune e Regione devono mettere 218 milioni a testa, la Provincia e la Camera di Commercio 109 ciascuna.

Il Comune deve finanziare la società Expo ma anche pagare le opere (due linee di metropolitana e varie altre minori) che ha inserito nel dossier di candidatura. Ben difficilmente - a maggior ragione in un’epoca di vacche magrissime - riuscirà a sostenere tutte le spese previste. Chi certamente non ha i soldi, lo ha già detto e ripetuto, è la Provincia guidata dal berlusconiano Guido Podestà. E neppure la Camera di commercio, che fin qui si è nascosta dietro un cavillo statutario che le impedisce di spendere quattrini per infrastrutture che non siano strettamente legate alle proprie attività, pare disposta a mettere soldi sul piatto. Infine, i privati: 260 milioni sono attesi da pubblicità e sponsorizzazioni. Ma è una stima pre-crisi e nessuno sa se, chi e quanto sarà disposto a spendere.

Dunque, a 1.495 giorni dalla data dell’inaugurazione l’Expo non ha i terreni su cui costruire l’infrastruttura espositiva e non ha i soldi per allestirla. Per Letizia Moratti, artefice della vittoria di Parigi, sindaco di Milano da cinque anni e commissario con poteri straordinari, l’Expo è come la centrale atomica di Fukushima: una bomba nucleare fuori controllo. È in campagna elettorale, ed è costretta a ostentare tranquillità e sicurezza, come ha fatto anche ieri davanti al Consiglio comunale. «Entreremo nella storia», ha detto, ripetendo alla noia che sarà un’Expo ancora più verde del previsto e che non ci sono ritardi né rebus irrisolvibili.

La verità è un’altra: la "Milano del fare", che era cinque anni fa ed è ancora oggi il suo slogan elettorale, rischia una catastrofe internazionale sotto il profilo dell’immagine. In tre anni la Moratti ha messo insieme una sequela di inefficienze, cambi di manager e litigi, tutti in casa centrodestra e quasi tutti con il condomino Formigoni. Ancora oggi sono avvitati in una querelle estenuante su quale sia la formula migliore per acquisire i terreni di Rho-Pero: dopo mille oscillazioni tra il comodato d’uso (i privati "prestano" i terreni, li riavranno nel dopo-Expo con il valore aggiunto del cambio di destinazione d’uso che consente di costruire a piacimento) e la "newco" (società mista pubblico-privata nella quale i soci pubblici mettono i quattrini e i privati i terreni), oggi il barometro si è spostato decisamente sull’ipotesi dell’acquisto tout court.

Regione e Comune girano una cifra compresa tra 100 e 140 milioni a Fondazione Fiera e Cabassi e acquisiscono la proprietà delle aree, le usano per l’Expo e dopo il 2015 raccolgono il plusvalore generato dall’edificabilità di quei terreni, oggi agricoli. Operazione complessa, tutta da costruire, sulla quale la Corte dei Conti e forse anche qualche magistrato potrebbero avere da ridire: è lecito che enti pubblici acquistino terreni agricoli inglobando nel prezzo d’acquisto un cambio di destinazione d’uso futuro (che loro stessi si propongono di fare)? E che quegli stessi terreni vengano poi rivenduti come edificabili o direttamente sfruttati dagli stessi enti pubblici per la prevedibile speculazione edilizia?

Già, perché comunque vadano le cose, che siano i privati a mantenere la titolarità di quei terreni o i soci pubblici ad acquisirla, la speculazione è il perno su cui ruotano l’affare dell’Expo e, di conseguenza, le guerre di potere e le polemiche di questi 1.092 giorni. Al momento è tutto fermo: si attende per il 5 aprile una relazione dell’Agenzia del territorio che dovrà stimare il valore dei terreni e delle infrastrutture che li renderanno fruibili. Ma tutti prevedono che la relazione non scioglierà nessuno dei nodi e allora Moratti e Formigoni riprenderanno a litigare. Una finta soluzione - com’è accaduto nell’autunno scorso - sarà raffazzonata in vista dell’incontro con il Bureau International di Parigi il 19 aprile. Poi si tornerà a litigare.

Intanto il tempo corre: non avendo la proprietà dei terreni, la società Expo 2015 non ha potuto neppure entrarci. Con due conseguenze: il manager Giuseppe Sala, che ad aprile avrebbe dovuto lanciare la prima gara da 90 milioni per la rimozione delle interferenze (la ripulitura dei terreni), l’ha già spostata a giugno. Prima di ottobre non si muoveranno le ruspe. Secondo: il concept dell’Expo è - o forse sarebbe meglio dire "era" - un immenso orto planetario in cui ognuno dei Paesi dovrebbe presentare coltivazioni proprie e idee per l’agroalimentare. Ma senza la disponibilità dei terreni, il lavoro (che richiede anni) non può neppure cominciare.

Il problema potrebbe essere superato dal cambio in corsa della filosofia dell’Expo, annunciato nei giorni scorsi dal management. «Troppo verde non si vende», ha detto in sostanza Sala, prefigurando una sterzata in direzione delle nuove tecnologie che nessuno ha ben compreso e che, secondo Carlo Petrini e Stefano Boeri, gli ideatori dell’orto globale, è un clamoroso errore. Di più: per Boeri «una manovra che occulta la reale intenzione di rimpiazzare i campi coltivati con padiglioni facilmente smontabili e sostituibili con nuove costruzioni. Cemento, cioé valore aggiunto per i proprietari delle aree». E si torna al rischio speculazione, che in tre anni di caos è l’unica vera costante.

Milano, in piena campagna elettorale, assiste attonita a uno spettacolo che sono in molti a considerare indecente. Giuliano Pisapia, candidato del centrosinistra, fatica a far sentire la sua voce nel frastuono della propaganda, che ogni giorno annuncia successi roboanti, come - ultimo ieri - l’adesione della Cambogia all’Expo. Si chiede, Pisapia, se dopo tre anni di scempio il supercommissario Moratti non debba essere, lei sì, commissariata. Il sindaco non fa una piega: «L’Expo ha bisogno di continuità». Cioè di lei stessa. Tutti intorno sorridono. Il suo partito, il Pdl, chiede una relazione sulla vicenda. Formigoni ha l’aria sorniona di chi controlla l’unica cassaforte ancora munita, quella della Regione. Tremonti, vero manovratore dei cordoni della borsa, considera l’Expo una fastidiosa incombenza. E Berlusconi? Raccontano che, ai dirigenti del suo partito che gli chiedevano come affrontare la vicenda, abbia risposto lapidario: «Passiamo ad altro».

postilla

Spero di aver già chiarito altrove la mia perplessità, sia quella ovvia sulle scelte di modificare il progetto originario (che considero piuttosto meschine e di basso profilo), sia sulle polemiche, che paiono concentrarsi sul solo aspetto della “cementificazione”, a cui forse andrebbe affiancato un maggiore sostegno alla posizione invece ben espressa e sostenuta da Petrini.

E proprio sull’intervento di quest’ultimo vorrei brevemente intervenire, provando a rispondere alla questione centrale posta, in particolare quando si dice che “sta passando l’idea che i contadini di oggi siano fermi a secoli fa”. È certamente quanto pensano i ragionieri (con tutto il rispetto per i veri professionisti della contabilità) autori della proposta di supermarket e/o stand gastronomici al posto dell’orto e delle serre, che sarebbe più “moderno” e vendibile. Ma non corrisponde naturalmente alla realtà.

Il concetto però andrebbe ribadito anche a chi, in un modo o nell’altro e peraltro con ottime intenzioni, non riesce a schiodarsi esattamente da questa leggenda metropolitana del contadino dalle mani callose e oneste, diciamo pure un po’ pirla, che posa in camicia a scacchi e cappello di paglia davanti a un tramonto agreste. Di un mondo fatto a immagine di cartolina, più simile a certa iconografia piccolo borghese dell’arcadia suburbana che a qualunque realtà. E che sotto sotto comunica (magari anche ai potenziali investitori messi in fuga dall’orto ma affascinati dai carrelli del supermarket) una gran voglia di tornarsene, alla fine del meritato relax campagnolo, nel mondo vero, dove si fanno le cose utili, e si guadagna abbastanza da potersi concedere anche quelle vacanze cartolina.

Città e campagna, invece, sono entrambe cose serie, modernissime, tangibili, degne di rispetto. Da trattare come tali. Sempre (f.b.)

Oggi la lotta contro i magistrati; solo ieri è finita la campagna contro i "baroni" universitari. Prima debellati questi – soltanto per i profili più importanti: un po´ di piccolo potere locale è loro rimasto – , ora minacciati quelli. Certo, la politica di Berlusconi è soprattutto una storia di salvezza personale: su questo obiettivo si orientano molte delle residue energie del governo. Ma c´è un senso anche nell´attività politica non direttamente riconducibile alle sorti individuali del premier. Ed è un pessimo senso.

Che ha come obiettivo principale la riduzione del potere e dell´influenza delle élites tradizionali, cioè di quelle vaste e articolate formazioni di specialisti intellettualmente e professionalmente qualificati che costituiscono l´ossatura di uno Stato e che garantiscono l´interfaccia tra attività di governo e dinamiche della società civile; che sono indispensabili alle strutture d´ordine e alla dinamiche di progresso. Anche se non sono portatori della razionalità stessa dello Stato – come voleva Hegel – , si tratta di ceti dal ruolo strategico, anche nel mondo d´oggi: ogni Paese li produce e li seleziona in modi diversi, secondo storia, caratteristiche e esigenze.

In alcune realtà, come la Francia, si tratta prevalentemente di grandi burocrati; in altre, di militari; in altre ancora, come l´Italia, di professori e giuristi. Sono agglomerati istituzionali, o semi-istituzionali, che costituiscono una preziosa riserva di sapere e di potere (o almeno di competenze e di influenza) nella società e nella politica; come una sorta di ossatura, di spina dorsale, del Paese, che, informalmente, ne assicura la stabilità, che ne cura e rinnova gli interessi permanenti. Un interlocutore indispensabile per la politica: non per chiedere privilegi, ma per darle aiuto, per assicurarle coerenza, per istituire con essa una dialettica il più possibile ricca e feconda. Una società democratica, uno Stato liberale, una repubblica minimamente certa di sé, si articolano anche in questa complessità, in questa ricchezza.

Contro la quale, invece, si scaglia – sistematicamente, coscientemente, coerentemente – la strategia della maggioranza: che infatti non è né liberale né democratica ma populista. E del populismo condivide il timore e il disprezzo per le élites, il risentimento contro il presunto privilegio dei "pochi" che non si presentano come parvenus ma che esibiscono un´appartenenza di ceto, comportamenti dettati non dalla smania di acquisizione o di protagonismo ma dall´ethos e dall´orgoglio professionale, dalla consapevolezza del merito, dalla certezza del dovere. Contro questi "poteri forti", contro questi "radical chic", contro questi "aristocratici da salotto", viene scatenata la massa populista; a cui si additano i professori come indecenti nepotisti, e i magistrati come impuniti persecutori di innocenti; agli uni e agli altri – pur così diversi tra loro, quanto a funzione – deve essere fatta pagare la loro aria di superiorità, il sentore di privilegio che li accompagna. In realtà, quello che devono veramente scontare è di essere un contropotere rispetto al potere politico: un contropotere debole, che chi ha vinto le elezioni – e dunque è in possesso dell´unica legittimità che, secondo il pensiero dominante, possa essere fatta valere – può spazzare via, o almeno intimidire, ridurre a più miti consigli, con una strategia di bastone (molto) e di carota (poca), volta a disarticolare i ceti, a costringere i singoli componenti alla trattativa. La Casta (vera) contro le Caste (presunte).

Fare una riforma dell´Università che ponga "al centro lo studente", istituire la responsabilità civile dei magistrati, sono – nelle condizioni di oggi – solo abili mosse demagogiche che hanno la finalità reale di ridurre all´obbedienza élites riottose. Benché sia vero che nessuna di esse è immune da pecche, anche gravi, la lotta del potere politico non è contro queste, quanto piuttosto contro il ‘sistema´ stesso delle élites, i cui membri devono limitarsi a erogare anonimamente un "servizio" tecnico meramente funzionale.

Del tutto in linea con questo intento è anche il finanziare la cultura rendendone evidente e sommamente impopolare la fonte – le accise sulla benzina – come per mettere il popolo, le masse, contro i lussi sofisticati e incomprensibili dei "pochi". E perfino la lotta contro i metalmeccanici – quel che resta dell´aristocrazia operaia – è interpretabile, oltre che nelle sue connotazioni più ovvie, anche all´interno del medesimo disegno di riduzione tendenziale della società a uno spazio liscio, disorganizzato, abitato da consumatori massificati, in cui emerge solo il potere plebiscitario di chi ha vinto le elezioni, più qualche folkloristico campanile a rappresentare le "radici" del popolo. Unica élite ammessa, a scopi meramente funzionali e, com´è giusto, rigorosamente individuali: gli avvocati difensori.

Questo è un problema per l´oggi e per il domani, durante Berlusconi e dopo Berlusconi: qualcuno, un po´ lungimirante (se c´è), dovrà pure cominciare anche a pensare in termini di ricostituzione delle élites, cioè di saperi e competenze che a partire da una specifica professionalità sappiano costituire l´ossatura generale del Paese. E intanto, per favore, coloro che stanno realizzando questa Italia invertebrata, almeno non si definiscano liberali.

Quando si parla di Appia fanno notizia l’abuso edilizio, la demolizione, la piscina e vicende di questo genere. In realtà la notizia vera dovrebbe essere che l’Appia non esiste, ossia non è quello che la gente si aspetta che sia, un “parco archeologico” dove si possa passeggiare e ammirare i monumenti antichi che qui sono tanti e in splendida sequenza.

Il progetto ottocentesco di “ristabilimento” della strada e i suoi monumenti fu realizzato con grande impegno perché tutti lo desideravano, ossia desideravano che quei monumenti visitati e immortalati dai viaggiatori e dagli artisti del Grand Tour nel ‘700 diventassero patrimonio disponibile per la collettività. Fu creato “un museo all’aperto” con concezione moderna, dove i reperti antichi furono lasciati sul posto grazie a un allestimento che ne consentiva la conservazione e l’ammirazione da parte di tutti. Anche gli espropri necessari per portare a compimento quest’opera, dilatando lo spazio della strada, furono definiti in piena armonia con i proprietari in vista del dell’utile grande che si procurava alla storia, all’arte.

Ci si aspetterebbe oggi che questo museo all’aperto e il territorio circostante venissero conservati come risorsa preziosa ed esclusiva, gestita con la perizia maturata in questo arco di tempo dai tecnici esperti, con la duplice finalità di conservazione e di valorizzazione per la fruizione e il benessere pubblico.

A proposito di ciò che è accaduto e accade quotidianamente sull’Appia e prendendo spunto dall’episodio trattato nell’articolo apparso su la Repubblica del 26 marzo 2011, vi sarebbero molte considerazioni da fare ma innanzitutto viene da domandarsi se esiste un interesse della collettività a fronte di interessi esclusivamente privati, quindi se esiste ancora il vincolo del rispetto delle regole e se vi è qualcuno preposto alla attuazione dello stato di legalità.

Il riconoscimento di interesse pubblico, quando definito, deve essere rispettato e nel caso dell’Appia - senza neppure appellarsi ai vincoli che pure esistono e che dettano prescrizioni - dovrebbe bastare la consapevolezza dei valori delle zone in cui si vive e si lavora. Espressione civica che non si manifesta solo assegnando all’azienda agricola di famiglia il nome del complesso monumentale in cui è situata.

I funzionari della Soprintendenza non amano svolgere un ruolo di controllo di tipo poliziesco, né avere comportamenti vessatori; si tratta per lo più di professionisti che hanno studiato la letteratura e l’arte del mondo antico, che si dedicano allo scavo e alla sua interpretazione, che ricercano e sperimentano le migliori tecnologie del restauro, per la conservazione e che trovano la migliore soddisfazione nel proprio operato quando il loro impegno è offerto al pubblico godimento, quando le scuole, i cittadini e gli studiosi di tutto il mondo vengono in questi luoghi e ne apprezzano la bellezza e il valore storico e culturale.

Tentare di entrare in una proprietà privata con il risultato di essere lasciati sulla porta è un’incombenza in più, non piacevole, anche perché molto spesso si è costretti a prendere atto di interventi e situazioni non conformi alle prescrizioni che pure per tutti dovrebbero valere.

In qualsiasi altra parte del mondo civile e forse anche in altre parti della nostra nazione vi è ancora il rispetto dei valori, tanto più quando si tratta di beni culturali. Chi vive e lavora sull’Appia invece, ha adottato un modo molto particolare di intendere l’amore per l’antico che si esplica nella continua violazione delle regole, in una conflittualità protratta con chi ha l’onere di salvaguardare questo territorio esercitando gli strumenti della legge.

In questi ultimi anni l’Appia è stata una fabbrica di scavo, di restauro, di rilievo, di studio e ricerca, di sperimentazione di sistemi e tecniche di conservazione, di allestimenti, di didattica, di formazione, di organizzazione di eventi culturali; tutto questo cercando di incrementare il patrimonio pubblico per metterlo a disposizione della collettività.

Che la strada e suoi monumenti sui lati costituiscano un unico complesso monumentale in consegna allo Stato forse non è noto a tutti: come tale va invece trattato attraverso una opportuna informazione e protezione con cancelli (come era fino ai primi decenni del ‘900) a cui oggi si potranno aggiungere sistemi di videosorveglianza. Sarà più facile il controllo dei furti e anche ovviamente del traffico improprio che guasta, notte e giorno, quello che la Soprintendenza va quotidianamente restaurando e conservando.

Ma soprattutto, la situazione di continua illegalità che caratterizza una delle aree archeologiche più preziose della capitale richiede delle risposte ormai improcrastinabili: l’attività dei pochi funzionari statali deve tornare ad essere il risultato di scelte di tutela e gestione del nostro patrimonio esplicite e rinnovate al più alto livello. L’Appia è un bene comune che, come tale, deve essere difeso, nella diversità dei ruoli e delle competenze, dall’intera collettività.

Un lettore mi fa notare che la mia presa di posizione contro il ritorno italiano al nucleare (Repubblica del 17 e 21/3) mal si concilia con i precedenti articoli avversi alle «due fonti alternative fondamentali, l’eolico e il fotovoltaico». Ma allora, si chiede il lettore, dovremmo tornare al Medioevo? Cercherò di dissipare questo dubbio ma per l’immediato vorrei segnalare una preoccupazione ben più incombente. E, cioè, la ripresa della campagna per un ristabilimento pieno degli incentivi da parte, tra l’altro, di gruppi mafiosi più volte finiti tre le maglie della Giustizia e di politici che hanno fatto dell’ecologia uno strumento di influenze e tangenti. Ora gli incentivi per i due settori sono stati in Italia i più alti del mondo e i più dannosi per l’ambiente e il paesaggio. Tocco solo due punti: I) l’eolico è sostenibile, pur sempre con incentivi, se il vento spira quasi sempre e spira forte. In proposito i calcoli internazionali danno un limite minimo di funzionamento che si aggira mediamente sulle 2000 ore/anno per assicurarne una convenienza relativamente economica. Su questo plafond si basano i parchi eolici degli altri Paesi, mentre da noi i venti sono assai meno impetuosi ed hanno finora dato prova di poter spirare come dolci zefiri per 1.252 ore/anno in rapporto alla potenza installata. Un vero fallimento ma non per gli installatori, i gestori e soprattutto i «facilitatori», come vengono denominati i promotori-faccendieri che spesso perfezionano fino alla virgola il dossier per le autorizzazioni, costruzioni, incentivi, tangenti sottostanti incluse e che intascano il pattuito e rivendono l’affare ad altri.

La convenienza per tutti era fin qui assicurata dalla dimensione, la più alta del mondo, degli incentivi, rimborsi, certificati verdi e quant’altro.

Tremonti, dunque, non poteva certo tagliare scuola, cultura e spesa sociale lasciando indenne quest’orto protetto. Se una critica può esser mossa, tale da richiedere una modifica, riguarda la retroattività di taluni provvedimenti che colpiscono proprio alcune industrie del fotovoltaico che avevano agito secondo le direttive già impartite. Comunque, contro la potatura eolica, si leva ora il coro delle proteste trasversali che mette assieme «volenterosi» dei diversi schieramenti politici e qualche organizzazione ecologista «embedding». II) Per il fotovoltaico il discorso è diverso. A parte il costo altissimo di questa tecnologia, va considerato il disastro paesaggistico di migliaia di ettari di terreni agricoli ricoperti da praterie di specchi fotovoltaici (altra cosa sono i pannelli solari per l’acqua calda nelle abitazioni). Per contro grandi impianti fotovoltaici possono venire istallati senza danno sui tetti di capannoni, edifici industriali, strutture pubbliche e private con coperture adatte (stazioni, autorimesse, ecc.) e quant’altro non rovini il paesaggio. La priorità della salvaguardia deve, invece, essere assicurata per i terreni agricoli che fanno parte inscindibile del patrimonio ambientale.

Vi è, inoltre, da notare che appare assurdo concentrare gli sforzi solo sulle fonti rinnovabili elettriche quando l’elettricità rappresenta il 30% del contenuto energetico delle fonti primarie (per questo anche l’uso del nucleare avrebbe un effetto assai relativo sui consumi totali che potrebbe in gran parte essere sostenuto da usi energetici efficienti) mentre l’energia termica copre il 39,4 %. (e i carburanti il 22,2). Per contro è stato calcolato che le rinnovabili termiche possono dare ben il 49% dell’energia rinnovabile (attraverso la geotermia, i pannelli solari, pompe di calore, biomasse, caldaie a condensazione), valendosi di tecnologie italiane di avanguardia, e facendo parte integrante dei progetti di riqualificazione del tessuto residenziale e dei piani di efficienza industriale. Infine offrono opportunità per centinaia di migliaia di nuovi posti.

Eppur esse non sono state neppure individuate come tipologia dall’assurdo sistema di incentivazioni messo in piedi dai nostri governi.

Provate a immaginare un vostro nonno. Non dico uno di quelli che sono partiti per l'America con un posto ponte sulla nave, biglietto di sola andata. Anche un nonno che lascia il paese in Calabria per andare a cercare lavoro a Torino. Immaginatelo ragazzo. A diciott'anni, diciamo. Che tutta la famiglia per anni ha messo da parte quel che gli sarebbe servito a partire, pochi soldi e due vestiti. Che saluta con la valigia in mano la madre il padre i fratelli, gli amici e la ragazza che ama. Che non ha mai visto nient' altro che i campi attorno a casa sua, che ha paura, che non sa cosa l'aspetta, che va in un posto lontanissimo di cui non conosce bene la lingua, l'italiano, e dove fa freddo e non ci sarà nessuno ad aspettarlo. Però va perché non c'è altro da fare, perché i suoi genitori la sua famiglia tutto il suo mondo si aspettano questo da lui, che parta e trovi un lavoro e mandi a casa i soldi per campare, che sia la loro promessa di vita e la sua. Secondo voi se vostro nonno, all' arrivo a Torino, alla stazione, alla fine di quel viaggio che sembra lungo giorni invece dura l’esistenza intera, se scendendo dal treno avesse trovato un funzionario con un foglio da firmare e cento lire in mano, uno che gli diceva “ti do questi soldi se torni a casa tua” lui sarebbe tornato? Io di mio nonno penso di no. Forse mi sbaglio, perché uno non sta mai davvero nella testa di un altro. Ma penso che gli avrebbe detto no, guardi, cento lire se le tenga non so cosa farmene: a me serve una vita. Lei ce l'ha una vita da darmi? Allora si sposti, scusi, che devo passare e cercarmela da solo. Con queste gambe e queste mani che son tutto quello che ho.

Penso anche che uno che scende da una barca su cui ha attraversato il mare rischiando di morire e vedendo morire quelli attorno a sé sia anche meno propenso di mio nonno ad accettare 1500 euro in cambio della rinuncia alla vita che ha sperato. È un’offerta insensata e umiliante persino per chi la fa. A volte basta poco per dire e proporre cose sensate, eventualità utilissima specie se il compito è quello di governare un Paese, lo dico pensando al ministro Frattini che immagina di risolvere il problema della fuga dal Nord Africa mettendo in mano la mancia ai disperati che arrivano. Basta mettersi per qualche secondo, sforzandosi persino cinque minuti, nei panni di chi si ha di fronte.

Mettersi nei panni e ascoltare. Diranno che è un atteggiamento emotivo e non razionale. Difendo la razionalità delle emozioni, penso alla piazza di ieri. Chi non abbia ancora capito cosa muove la protesta per l'acqua pubblica (in specie quella sull'acqua, ma anche sul nucleare – di cui abbiamo moltissimo parlato in queste pagine – e sulla giustizia) non ha nessuna idea del paese in cui vive, della gente che lo abita, di cosa può accadere quando goccia dopo goccia si buca la pietra. C'è un film bellissimo, “Anche la pioggia” (Tambièn la lluvia, ne ho già parlato qui) che racconta della rivolta per l'acqua pubblica in Bolivia. Sì, sì, lo so. L'Italia non è la Bolivia. I disperati che muoiono in mare non sono i nostri nonni con la valigia di cartone. Però somigliano, a guardare da vicino e a trovare le analogie tra quel che cambia nel tempo che cambia. Gli uomini, alla fine e in ogni luogo, c'è qualcosa per cui sono disposti a morire. Per dar da bere ai figli, per farli nascere in un luogo dove possano crescere. Per ribellione all'ingiustizia. Per essere liberi di pensare e di parlare, persino, certe volte, alcuni.

ACQUA PUBBLICA

LA PIAZZA, LA SORPRESA


di Angelo Mastrandrea

Impressione numero uno, guardando il lento fluire della manifestazione che si appresta a inondare piazza San Giovanni a Roma: il colore azzurro dell'acqua domina su tutto, chiazze di giallo rimandano al nucleare, l'arcobaleno compare a sprazzi come da previsioni della vigilia. Impressione numero due, dopo aver visto sfilare due terzi del corteo: confermato il primo colpo d'occhio cromatico, ma «il bello, il brutto e il cattivo» del titolo del manifesto di giornata, vale a dire l'acqua, il nucleare e la guerra, è come se si fossero fusi in un sentimento unico, producendo un'inedita contaminazione di pacifismo e ambientalismo. Impressione numero tre, abbandonando la piazza: non si è ascoltato un solo slogan su Berlusconi e sul governo. A ben sentire, nemmeno sull'opposizione. Quasi che il giudizio fosse nei fatti: la legge che privatizza le risorse idriche è opera del Pdl, ma sulla stessa barca ci sono un'abbondante fetta del centrosinistra, Confindustria e una potente lobby trasversale non seconda a quella (altrettanto trasversale) che lavora per il ritorno al nucleare.

Stando così le cose, quante possibilità ha un ecologismo popolare così diffuso di incidere realmente sulle scelte politiche del nostro Paese? Poche, pochissime, a giudicare dal boicottaggio politico e dal sostanziale silenzio mediatico su questioni che pure coinvolgono milioni di persone. L'unica speranza è che il 12 giugno ci svegliamo con una sorpresa: spiagge vuote e urne piene di sì per l'acqua pubblica e per l'abbandono del nucleare. La piazza di ieri dice che la sorpresa, e non sarebbe la prima volta in Italia, è a portata di mano.

MARCIA PER LA VITTORIA

di Andrea Palladino

Una grande manifestazione apre la campagna referendaria di giugno. Gli organizzatori: siamo 300 mila. In piazza centinaia di comitati per l'acqua pubblica da tutta Italia: «Ora il quorum»

A ben pensarci c'è qualcosa di curioso nel vedere decine e decine di migliaia di persone sfilare, a Roma, per l'acqua. Non è la Bolivia delle rivolte di qualche anno fa, o il Maghreb infiammato dai costi dei beni essenziali. È un paese pigro e cupo, l'Italia che ci mostrano quotidianamente, che nulla dovrebbe avere a che fare con un movimento così forte, capillare, anticonformista e orgoglioso come quello che chiede - da almeno cinque anni - di cambiare la politica partendo dal concetto di beni comuni. Eppure ieri a Roma centinaia di comitati cittadini, associazioni più o meno informali, parti di una rete cresciuta nel silenzio allineato dell'informazione e della politica - almeno quella parlamentare - hanno riaffermato la centralità del movimento per i beni comuni nel nostro paese. Con volontà e creatività, prendendo in mano per qualche ora la capitale, puntando al raggiungere il quorum dopo sedici anni di referendum falliti, un obiettivo che potrebbe rivoluzionare la politica italiana, soprattutto a sinistra.

Un milione e quattrocentomila firme raccolte in tre mesi non avrebbero senso senza tenere a mente questo volto della società italiana dell'era di Berlusconi, che è la vera spina dorsale di quello che i media chiamano - semplificando - il popolo dell'acqua.

Elencare le città comporebbe una lista immensa e senza senso. Conviene allora citare una parte importante e unica del movimento, il gruppo degli enti locali per l'acqua pubblica che ieri aprivano il corteo con i gonfaloni storici delle città. Un'intera regione, le Marche, le province di Cagliari e Campobasso e tantissimi comuni, con i sindaci, le delegazioni, le fasce tricolori. Uno fra tutti, quello di Aprilia, che con determinazione ha presentato il foglio di via al gestore privato Acqualatina, dopo avere visto le pattuglie con vigilantes armati andare a staccare l'acqua a chi contestava gli aumenti a tre cifre.

Il ricordo della prima manifestazione nazionale - che ha percorso le vie di Roma nel 2009 - sembra già affondare nella preistoria. Allora i manifestanti erano meno di quarantamila e il punto di arrivo era la piccola piazza Farnese, con un piccolo camion come palco. Lo scorso anno il centro storico venne letteralmente invaso dalle centinaia - oggi forse migliaia - di comitati cittadini, Sembrava l'apice di un movimento, un punto di non ritorno. Non era che l'inizio.

Ieri i movimenti per l'acqua non hanno temuto di accogliere le altre parti della società civile, quella antinuclearista e l'anima pacifista. E non era solo la cronaca ad imporre un ritmo differente, una suddivisione del corteo, sostanzialmente aperto e coinvolgente. Qualcosa sta cambiando, a ben guardare i trecentomila volti sfilati da piazza della Repubblica fino a San Giovanni, sfidando i grandi numeri. Ci sono segnali chiari e oggettivi, che rendono misurabile il movimento: «Lo scorso anno avevamo si e no riempito un pullman - spiegano i gruppi venuti dalla Calabria - quest'anno ne abbiamo organizzati quattro, e saremmo andati oltre se non c'era un problema di costo». Stessi numeri e stesso balzo in avanti per un'altra regione, il Piemonte. E poi la presenza forte delle zone storiche del Pd - che sul tema dell'acqua mostra ancora molte ambiguità - come la Toscana e l'Emilia Romagna. E poi la Puglia alle prese con la prima grande ripubblicizzazione in Italia, la Campania, dove i comitati si trovano di fronte all'eterna emergenza dei rifiuti, la Sicilia, che grazie al movimento per l'acqua ha raggiunto il primo obiettivo di una legge regionale che potrebbe togliere le risorse idriche ai privati. E la Calabria, dove la rete che oggi si riunisce attorno alla difesa dei beni comuni era nata nell'ottobre del 2009, con la manifestazione di Amantea per la verità sulle navi dei veleni.

Il quorum da raggiungere per i referendum su acqua e nucleare sembra non spaventare i comitati che ieri hanno colorato una Roma un po' sonnacchiosa e primaverile. Un segno importante è stato la partecipazione del gruppo ecodem - l'area ecologista del Pd - al corteo, con uno striscione sorretto, tra gli altri, da Roberto Della Seta. In questi mesi la posizione dei democratici non era stata particolarmente netta, soprattutto sul secondo quesito che prevede l'eliminazione del profitto garantito per i gestori privati dell'acqua. E proprio gli ecodem fin dall'inizio avevano agitato lo spettro del quorum ritenuto impossibile da raggiungere. Con il disastro di Fukushima le cose sono ovviamente cambiate. Ma forse è cambiata anche la percezione che viene dai territori, dove il Pd vede crescere in maniera esponenziale il movimento per l'acqua. Un confronto che guadagna sempre più consenso e coscienza critica.

NO NUKE

«SOLE, VENTO E MARE MA NON NUCLEARE»

di Eleonora Martini

«La catastrofe nucleare in Giappone basta e avanza, fermiamo le centrali atomiche». Molti degli striscioni e delle bandiere gialle che punzecchiano qua e là il grande corteo blu-acqua di Roma, odorano ancora di fabbrica. Nuovi di zecca, come la miriade di comitati locali «Vota sì per fermare il nucleare» sorti come funghi in tutto lo Stivale nelle ultime settimane. «Siamo nati come movimento in difesa dell'acqua pubblica, ma è l'intero pianeta il nostro bene comune, da difendere a tutti i costi contro la follia atomica: una tecnologia inutile, rischiosa e costosa». Ma dopo Fukushima e dopo il grande «bluff» della moratoria sul piano nucleare pensata solo per boicottare il referendum, hanno deciso di esplicitare meglio il loro messaggio «No Nuke».

Due istanze, la proprietà collettiva dell'oro blu e un territorio denuclearizzato, che viaggiano a braccetto, e non conoscono idea politica: a sfilare nelle strade della capitale ci sono elettori di destra e di sinistra, c'è perfino «Fare Verde», un'associazione nata 25 anni fa come di estrema destra ma, tentano di spiegare le donne e gli uomini dello spezzone che qualcuno ha cercato di cacciare dal corteo, «ora è composta da cittadini di ogni orientamento politico», «molti di sinistra, come me», puntualizza un pescarese.

Ciascuno ha aggiunto un simbolo, una parola, contro il nucleare sullo striscione o sul cartello, o una spilla gialla appuntata sulla giacca. Calzano tute bianche e maschere antigas; una stilista fiorentina indossa la bandiera antinuclearista che ha trasformato in un abito da cortigiana. Sono solo delegazioni, però, perché decine di altre manifestazioni No nuke si sono tenute ieri contemporaneamente in molte città italiane. Alcuni sardi in trasferta a Roma raccontano che a Cagliari ieri in molti hanno risposto alla geofisica Margherita Hack, che ha indicato la Sardegna come miglior sito nucleare, portando in piazza il vessillo indipendentista nella versione radioattiva: quattro teschi al posto dei quattro mori. Arrivano dalla Lombardia e dall'Umbria: «Uniti vinceremo di nuovo: Italia denuclearizzata». Dalla Sicilia, dal Lazio e dalla Basilicata, dalla Puglia, dal Piemonte e dall'Abruzzo. Vengono dalla Campania e sono «di ogni appartenenza politica», i «Movimenti Cap» che portano striscioni numerati e con una scritta «Socialità e progresso»: sono i codici di avviamento postale delle singole città, un modo per dire che ogni paese è un popolo che dice «No al nucleare». «Perché - spiegano - lo sappiamo già che se ci sarà bisogno di una pattumiera per le scorie radioattive, saremo noi i primi della lista».

Greenpeace, Legambiente e Wwf hanno mobilitato migliaia di persone da tutta Italia. E sono tanti i lavoratori e gli imprenditori delle energie rinnovabili che hanno speso capitali, tempo, energia e speranze in progetti di produzione - fotovoltaico, soprattutto - e ora rischiano di perdere tutto a causa del decreto Romani. «Anni di battaglie burocratiche, progetti bocciati e ripresentati mille volte e poi infine approvati, non sai nemmeno perché, senza aver cambiato una virgola - racconta Roberto, ingegnere, che per il suo progetto aveva trovato anche capitali esteri -e ora, dopo due mesi dall'entrata in vigore dell'ultima legge, il governo cambia tutto. Il termine ultimo per allacciare gli impianti è il 31 maggio, ma per l'Enel ogni cavillo è buono per rinviare: sono due mesi e mezzo che aspettiamo». Una storia tra tante. Ma i politici che sfilano sono pochi, qualcuno degli Ecodem e dell'Idv, i Verdi, Sel e Rifondazione. Anche se, come dice Paolo Ferrero: «A differenza di tanti altri temi su cui abbiamo manifestato, questo del referendum sull'acqua e sul nucleare è un terreno dove si può concretamente vincere».

NO WAR

I PACIFISTI COME PESCI NELL ACQUA

di Cinzia Gubbini

Non è un mare di bandiere arcobaleno, che pure ci sono a colorare il blu dei vessilli del movimento per l'acqua pubblica. Ma una cosa è certa: l'arcobaleno è nel cuore dei difensori dei beni comuni. Forse un po' a sorpresa, visti i grandi dibattiti sulle lacerazioni interne al movimento pacifista, piazza San Giovanni ieri era integralmente contro i bombardamenti e per la pace. Ora, qualcuno a favore dell'intervento in Libia deciso dopo la risoluzione Onu ci sarà pure stato - uno, a fatica, lo abbiamo trovato pure noi - ma la maggior parte delle persone che si sono messe in marcia da piazza della Repubblica non ha dubbi: è stato un errore bombardare la Libia, e ancor peggiore è stata la decisione dell'Italia di partecipare per cercare un posto al sole.

Ragionamenti concreti, anche un filino sofferti, non chiacchiere in libertà. «Oggi avremmo portato tutte le bandiere, compresa quella arcobaleno, che comunque è nel nostro cuore e nella nostra testa», dicono Lorena e Stefania, arrivate da Modena. «Gli insorti chiedevano aiuto? Bisognava trovare altre strade. E ora inneggiano all'intervento armato? Non so, io ho letto cronache di gente anche molto molto disperata per gli effetti delle bombe occidentali», dice Lorena. «E poi - aggiunge Stefania, che indossa una maglietta di Emergency - vogliamo chiederci come mai lì sì e in altri posti no?». Fabio, un loro amico, prima sta zitto, ma poi interviene come un fiume in piena: «Che sia una guerra sbagliata lo si capisce dal fatto che neanche loro sanno più come uscirne. E bisogna mettersi in testa una cosa: non c'è una guerra che abbia risolto i problemi».

Che il concetto di «guerra umanitaria» sia penetrata anche a sinistra è una cosa che fa imbestialire Marianna, del centro sociale Mezza Canaja di Senigallia: «Non si fa una risoluzione Onu e dopo 20 minuti cadono le bombe, c'erano altre strade da tentare». Quali? «Armare i ribelli, aiutarli nel loro processo di rivolta sociale che certo avrebbe avuto i suoi tempi ma sarebbe stato più giusto». Daniele, compagno di centro sociale, annuisce: «Io un'idea chiara ancora non ce l'ho, ne discuteremo al centro. Ma mobilitarsi per l'acqua pubblica è più di istinto, il discorso sulla guerra richiede maggiore approfondimento».

Rosa e Pier Giorgio da Cosenza meriterebbero un capitolo a parte, se non altro per la loro storia: marito e moglie per vent'anni, da dieci sono separati, ma le manifestazioni se le fanno ancora insieme. Condividendo tutto, o quasi. Rosa infatti non apprezza che Pier Giorgio abbia portato un cartello apertamente anti berlusconiano («basta all'uso giudiziario della politica») perché «la questione dell'acqua riguarda tutti, e per vincere questo referendum dobbiamo prendere i voti di tutti. Non esiste destra e sinistra». Ma sulla questione della pace non ci piove: «Intervento sbagliatissimo. Certo, bisognava fermare il folle. Ma non così. E poi? L'Italia, col suo carico di passato colonialista, interviene in Cirenaica?». Contraria anche Agar, una ragazza nata a Roma ma di origine egiziana, che segue con passione le rivolte nel Maghreb: «Io sono contro Gheddafi, ma anche contro le bombe sui civili, senza dubbi».

E qualcuno che pensi fosse necessario intervenire armati? C'è: «Scriva pure il mio nome e cognome: Francesco Gatti da Nuoro. Io penso che ci sono situazioni un cui non bisogna avere paura di usare la forza per difendere i civili. Questa era una di quelle»

La Marson "osserva" fuori tempo massimo

Piano strutturale, Regione scettica ma le "osservazioni" arrivano in ritardo. «E´ arrivato dopo il 12 marzo, cioè oltre il tempo massimo», fa sapere il Comune. E solo per una sorta di cortesia istituzionale, cioè per i buoni rapporti che intercorrono al momento tra il sindaco Renzi e il governatore Rossi, Palazzo Vecchio non ha risposto con un «irricevibile».

Come tutte le «osservazioni», anche quella trasmessa dall´assessore regionale Anna Marson non è vincolante. E il Comune non sembra avere in effetti molta intenzione di tenerne conto. Ma è comunque utile per capire cosa pensa la Regione del Piano che Renzi ama sempre presentare come il primo a «volumi zero». Perché a giudicare dalle considerazioni che spuntano qua e là tra i rilievi tecnici, l´assessore Marson ha qualche moto di scetticismo.

Anzitutto a proposito del cosiddetto meccanismo del credito edilizio. Palazzo Vecchio ha calcolato in 150.000 metri quadrati il totale interessato del meccanismo. Che è questo: chi possiede un capannone dismesso nell´area centrale della città può decidere di conferirlo al Comune con l´obiettivo di lasciare spazio ad una piazza o ad un giardino. E in cambio il Comune acconsente al trasferimento in periferia delle stesse metrature. Anzi, come incentivo concede al privato la possibilità di aumentare la superficie del 10 per cento. Ma così si costruisce là dove non c´era ancora niente: «Essendo trasferite in nuove aree rappresentano nuovo impegno di suolo e pertanto dovrà essere verificata e valutata la sostenibilità», rileva la Regione nel documento. Come dire, altro che «volumi zero».

In più, si punta il dito contro i contenitori «di particolare valore» com´è il caso del tribunale di piazza San Firenze. Che all´indomani del trasferimento nel nuovo Palazzo di giustizia, al momento previsto a novembre, dovrà essere destinato a nuove funzioni. Quali? E´ qui che punta l´indice dell´assessore Marson: per questi edifici, che ammontano a 217.000 metri quadrati, «si ritiene che debbano essere definite strategie per la valorizzazione sia in termini funzionali che in rapporto all´accessibilità».

La responsabile urbanistica della Regione rileva poi che «gli interventi di recupero con una superficie lorda inferiore a 2.000 metri quadrati non sono computati nel dimensionamento». Cioè nel conto della metrature. E Marson fa presente che «non risultano chiare le motivazioni di tale esclusione» perché in realtà il totale di questi interventi è una cifra di rispetto «e si ritiene necessario conteggiarla». Attenzione, avverte ancora la Regione: «All´interno degli isolati urbani è necessario chiarire le modalità di impiego delle volumetrie, nonché le condizioni per interventi di completamento, sopraeleveazione o saturazione del tessuto insediativo». Manca cioè, dice la Marson, una indicazione delle condizioni di trasformabilità. La responsabile urbanistica chiede anche di riscrivere le norme sulla grande distribuzione per valutarne meglio la compatibilità con la dotazione infrastrutturale.

Dall´assessore regionale ai trasporti Luca Ceccobao si pone invece una domanda cruciale a proposito dell´Alta velocità: «E´ necessario che il Comune verifichi se è di propria competenza prescrivere condizioni alla realizzazione del sottoattraversamento». La Regione, sembra di capire, rivendica un proprio ruolo nella trattativa in corso con l´ad di Ferrovie Moretti.

Il Comune non si smuove "volumi zero" parola d´ordine

L´assessore Marson nutre dubbi sui «volumi zero» previsti dal Piano? «Noi non li abbiamo», replica Palazzo Vecchio. E´ vero che il «credito edilizio» prevede nuove costruzioni dove adesso non c´è niente. Ma si tratta di quantità minime: 150.000 metri quadrati è solo il conto totale degli edifici posti nell´area centrale che ricadono sono questa tipologia.

Non sarà comunque facile convincere i proprietari ad abbandonare il centro per la periferia (da qui l´incentivo del 10 per cento). E in ogni caso i trasferimenti eventuali saranno possibili solo in zone ben precise: da una parte la zona di via Pistoiese, dall´altra quella di viale Nenni, dove una volta tanto l´infrastruttura (la tramvia per Scandicci) precede l´insediamento edilizio. Non solo. Palazzo Vecchio ricorda che, coerentemente all´annuncio dei «volumi zero», sono stati cancellati anche i residui. Cioè le previsioni su terreni identificati come edificabili dal vecchio pano regolatore, nei casi in cui i proprietari non avevano ancora ritirato le concessioni edilizie. Una decisione che potrebbe costare, chissà, alcuni contenziosi tra Comune e privati proprietari delle aree.

Se poi ci si riferisce a Castello, l´obiezione non è pertinente. Il progetto Fondiaria-Sai è stato oggetto di convenzioni e non è cancellabile. A meno di sicuri ed onerosi contenziosi. Castello, unico ma autentico caso di espansione della città (che potrebbe tornare per aria per effetto della variante del Pit e dello sviluppo aeroportuale), è una eredità del passato.

La parola d´ordine «volumi zero», che secondo il sindaco Renzi sarebbe meglio declinare in «basta con il consumo di nuovo suolo», non è dunque in discussione. Il Piano strutturale, che potrebbe essere adottato entro maggio, afferma una chiara discontinuità con i Piani del passato e anche con la cultura urbanistica corrente. E non può essere il credito edilizio a ribaltare il senso generale.

Per Palazzo Vecchio, che inizierà ad esaminare le osservazioni mercoledì nella commissione urbanistica guidata da Titta Meucci, l´unica annotazione condivisibile avanzata dalla Regione è quella sui contenitori dismessi e sulle future destinazioni d´uso. A cominciare proprio da tribunale di piazza San Firenze. D´altra parte, se nel Piano le indicazioni per questo palazzo sono ancora vaghe, è perché una decisione definitiva ancora non c´è. Il sindaco Renzi aveva ipotizzato di ospitare nel palazzo le università straniere. Ma la riflessione, dice Palazzo Vecchio, è ancora in corso.

MONZA— Forse aveva ragione Cicciolina. Nel maggio del 2002, candidata alle Comunali di Monza nella lista dei Libertari, la mai dimenticata Ilona Staller propose un casino (accento sulla o) all’interno della Villa Reale, «per portare turismo e farla rivivere» . Forse aveva ragione lei. Di sicuro ce l’ha chi pensa che la reggia di Monza debba tornare a rinascere, facendo dimenticare le brutte immagini che potete vedere qui a fianco: calcinacci, stucchi sbrecciati, quadri bucati, arredi distrutti. Per dovere di cronaca, va detto che non tutti i 740 locali dell’ex residenza estiva dei Savoia sono così malmessi: il degrado è concentrato nel corpo centrale e in una delle due ali (la nord) che lo racchiudono. Sono zone proibite al pubblico, oscurate e tristi ma comunque esistenti: in sintesi, una vergogna che mortifica il bello e la cultura.

La situazione è questa, e bisogna correre ai ripari. Il problema è come farlo, chi deve farlo, con quali soldi: la discussione sta avvelenando il clima politico del capoluogo brianzolo. Monza è guidata da una giunta di centrodestra con sindaco leghista, ma il colore del potere c’entra poco: anche amministrazioni di segno opposto sono inciampate per decenni nell’ingombrante presenza del grande complesso all’interno del Parco cintato di 700 ettari, il più vasto d’Europa. Nessuna è mai riuscita nell’impresa di ridare piena dignità ambientale e culturale al luogo. Ogni monzese doc conosce la storia della Villa: sa che re Umberto I, proprio lì fuori, davanti alla società sportiva Forti e Liberi, si prese la revolverata fatale dall’anarchico Bresci.

Comincia in quel momento (siamo nel 1900) il lento declino che ha portato al degrado di oggi. E in quegli anni cominciano a circolare gli improbabili piani di recupero che qualcuno si è preso la briga di contare: almeno 180. Del casinò abbiamo riferito. Ma che dire del progetto che prevedeva un sanatorio per «militari smobilitati e tubercolotici» ? E come giudicare, culturalmente parlando, destinazioni tipo centro commerciale, autosilo, parco divertimenti, case di riposo per artisti in pensione? Idee tante e confuse, risultati pochi, e non soltanto per mancanza di fondi. Oggi Monza sta litigando su un progetto per metter mano alla Villa. Tutta no, costerebbe troppo: almeno 110 milioni di euro, secondo il progetto-quadro Carbonara (del 2004).

Ma un pezzetto sì, tanto per cominciare, con denari già stanziati e pronti nel piatto. Il percorso è stato questo: gli attuali proprietari (Comune di Monza, Regione Lombardia, Stato) più Milano che possiede una quota-Parco, hanno creato nel 2009 un Consorzio che ha affidato a Infrastrutture Lombarde — una spa di Regione Lombardia — la gestione del bando per i lavori. Al bando hanno risposto due società, che attendono (a giorni) il verdetto. Si tratta di restaurare il corpo centrale e una parte dell’ala nord, i più disastrati. L’importo dei lavori di questo primo lotto è di 23 milioni. e 400 mila euro, di cui 19 provenienti da fondi pubblici e 4 e mezzo a carico del privato, che avrà in concessione per 30 anni (a 30 mila euro di affitto annuo) gli spazi restaurati. Si progetta di riconvertire stanze piene di storia in ristorante, sale convegni, aree dedicate al commercio e all’artigianato.

Il Consorzio pubblico avrà a disposizione 36 giorni l’anno per organizzare eventi. Questo l’accordo, difeso dalla maggioranza e criticato duramente dall’opposizione, Pd in testa. La tesi della maggioranza: la riqualificazione ridarà lustro e bellezza alla Villa. La tesi dell’opposizione: i privati la trasformeranno in un orrendo luna park. Si è mossa anche la società civile: il comitato «La Villa Reale è anche mia» ha raccolto 11 mila firme di cittadini «che dicono no — argomenta la portavoce Bianca Montrasio— a un bando che di fatto privatizza un bene pubblico» . All’appello hanno aderito Oliviero Toscani e Renzo Piano, Gillo Dorfles e Walter Veltroni, Margherita Hack e Rita Levi Montalcini, moneta pesante da spendere in un incontro richiesto al presidente della Repubblica Napolitano.

«Il Comune— insiste Maurizio Oliva di Italia Nostra — ha affidato ai privati un ruolo ambiguo. Ha senso chiamarsi fuori dalla gestione di un bene del territorio?» . Anche il Fai è perplesso: «La logica di intervento a spezzatino premia i tempi del consenso politico ma è perdente sui tempi della cultura» . Replica Pietro Petraroia, ex sovrintendente, direttore del Consorzio Villa: «Ci sono confusione e disinformazione. Viene demonizzato il privato, senza sapere che restauro e gestione avverranno sotto lo stretto controllo della mano pubblica, in linea con le norme del Codice dei beni culturali e del paesaggio. La realtà è che la Villa Reale, per la prima volta dal 1861, è interessata da un progetto unitario e globale» . Il sindaco Marco Mariani parla di «opzione storica» e sostiene che le firme dei cittadini sono state «estorte con l’imbroglio» : «La realtà è una sola:— commenta sbrigativo e colorito — la Villa sta crollando e bisogna impedirlo. Chi non è d’accordo si comporta da pirla» .

La Camera di commercio di Monza e Brianza, presente nel Consorzio, snocciola numeri interessanti, tipo i 70 milioni di indotto all’anno che potrebbe offrire una Villa completamente restaurata, con la creazione di 800 nuovi posti di lavoro e il coinvolgimento di 300 imprese. Ma le cifre non spengono la polemica. Domani sera, consiglio comunale. Il fronte del no sosterrà anche la tesi di irregolarità nella procedura di assegnazione del bando (Mariani nega: «Ci sono tutte le firme che servono» ). Il fronte del sì ribadirà la validità del progetto. La sensazione è che la partita vivrà come minimo i tempi supplementari, con gli inevitabili ricorsi al Tar. Il traguardo del 2014, indicato nel progetto, sembra davvero un miraggio nel deserto. Al sole di primavera, la Villa Reale è di una bellezza sfolgorante: sembra una vecchia signora adagiata sul prato. In quasi due secoli e mezzo di vita ne ha viste tante, e ha persino retto all’urto di Cicciolina: è un luogo del cuore che merita dignità.

Gazebo e piscine tra i resti romani sfregi continui nel cuore dell´Appia antica

Carlo Alberto Bucci, la repubblica, ed. Roma, 26 marzo 2011

«Mi dispiace, la signora è partita e io non posso aprirle». Clic. Così la domestica ha riattaccato la cornetta del citofono e lasciato fuori dal cancello di via Appia antica l’inviata della Soprintendenza. Rimasto senza risposta il fax spedito due giorni prima a Maria Cecilia Fiorucci, appartenente alla celebre azienda alimentare, giovedì scorso la funzionaria statale ha bussato alla porta per verificare «lo smontaggio e gli eventuali danni» arrecati dalla tensostruttura installata per un affollato ricevimento serale. Si tratta di un gazebo montato senza la prevista autorizzazione, proprio a ridosso del sito archeologico della villa dei Quintili. E sul terreno privato dove si trovano i resti del Circo della villa d’età adrianea.

Ma che male può fare un gazebo alle vestigia romane dei Quintili? D’altro canto, più dell’85 per cento del parco regionale è in mano ai privati, che hanno pure il diritto di organizzare feste all´aperto. «Certo, ma devono rispettare le regole edilizie, anche per le strutture temporanee» precisa Rita Paris, l’archeologa responsabile della tutela sull’Appia. «In questo caso - sottolinea - non ci hanno inoltrato la richiesta di autorizzazione e, ora che chiediamo di andare a verificare gli eventuali danni dei pali nel terreno, neanche ci fanno entrare. Ho spedito una nuova richiesta di sopralluogo, ma intanto gli operai stanno finendo di smontare la tendopoli: e sì che noi avremmo dovuto seguire anche il montaggio».

Cade dalle nuvole Maria Cecilia Fiorucci: «Se ho una colpa, è quella di non aver fatto richiesta di autorizzazione. Ma, visto che siamo confinanti, pensavo che la Paris potesse facilmente vedere che ciò che abbiamo fatto montare per la festa del mio matrimonio è una struttura sospesa sul prato, senza pali nel terreno. Mi chiedo perché la Soprintendenza perda tempo a tormentare i privati invece di pensare di vegliare sui monumenti lungo la strada, che se non fosse per noi che controlliamo verrebbero spogliati dai marmi ogni notte, e alle feste, continue, che vengono allestite nelle ville date in affitto. Questa è casa mia da 40 anni, mi chiamo Cecilia in nome della Metella, e non ho commesso nulla di male».

Non si tratta solo del gazebo per una festa, sostiene la Paris, che parla «di un corposo fascicolo "Fiorucci" di contestazioni fatte alla proprietà dal momento che ha trasformato il casaletto agricolo anni Trenta in sfarzosa residenza privata». In ballo c’è anche la piscina «su cui pende dal 2003 una denuncia alla procura, firmata dall’allora soprintendete La Regina, per abuso edilizio». E sull’Appia, zona sottoposta a decine di vincoli in base ai quali non si dovrebbe costruire più nulla, oltre agli edifici illegali sono molte le piscine, in case private e circoli sportive, che attendono di essere demolite perché abusive.

«Le norme, che qualcuno oltre a noi sarebbe ora si decidesse a far rispettare, vietano che si accendano falò e che si facciano fuochi d’artificio» racconta l´archeologa. «Sono un pericolo d´incendio per il parco, che è invece continuamente vittima dell’inquinamento acustico e luminoso causato dalle centinaia di ricevimenti che si tengono nelle ville private». Per non parlare dello smog delle auto, visto che il parco è attraversato ogni giorno da un fiume di macchine (2000 l’ora, nelle ore di punta). Tanto che due anni fa l’ex presidente del parco, La Regina, e l’ex assessore alla Cultura, Croppi, avevano lanciato l’idea di una ztl con accesso solo per residenti e visitatori. «Parliamone eccome - insiste la Paris - . Il ministero dei Beni culturali, la Regione e il Comune si devono prendere, tutti insieme, le loro responsabilità. E devono dire cosa dobbiamo fare di questa strada che dall´Ottocento, come la via Sacra nel Foro Romano, è un "monumento": il primo, straordinario "museo all’aperto" europeo. Pensate che agli inizi del secolo scorso i funzionari si lamentavano perché "sulle basole appena restaurate passano i carri e il bestiame". Cosa direbbero ora che dobbiamo assistere ogni sera al corteo di camion per il catering e di auto lussuose che scorrazzano sul selciato romano per raggiungere i ricevimenti in villa?».

I Tesori dell'appia antica: privati pronti a venderli, e lo stato non compra

Laura Larcan, il Venerdì di repubblica, 25 marzo 2011

Strano caso, quello dei monumenti antichi "privati" dell'Appia Antica. I proprietari si sono decisi a venderli, anche perché i beni risultano vincolati da almeno trent'anni, e le richieste di condonare costruzioni abusive e arredi "impropri" sono state respinte.A comprare dovrebbe essere la Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma, cui spetta il diritto di prelazione. Ma nelle casse dei dirigenti archeologi non ci sono soldi e la trattativa sembra destinata ad arenarsi.

In ballo c'è il Mausoleo degli Equinozi, del I secolo a.C., chiamato così perché nei giorni degli equinozi di primavera e d'autunno il sole filtra attraverso una finestra a bocca di lupo e illumina il centro esatto della stanza. Prezzo base, 600 mila euro. L'altro è il Sepolcro di Sant'Urbano, edificio funerario d'età imperiale, considerato luogo di sepoltura del martire cristiano, che l'archeologo Rodolfo Lanciani definì "uno dei più importanti scavi di Roma". Quota di partenza, circa 500 mila euro.

"Proprio ora che i privati danno spiragli di apertura, dopo decenni di chiusure, non possiamo affrontare una trattativa" lamenta Rita Paris, dirigente della Soprintendenza, responsabile dell'Appia Antica. "Con questo tiro della cinghia inflitto alla cultura per il 2011, i pochi fondi che abbiamo li dobbiamo spendere per la manutenzione, e al momento non c'è nessuna prospettiva di incrementare il patrimonio. Ci si può solo augurare che qualche illuminato sponsor prenda a cuore questa situazione, visto che lo Stato non è in grado di farlo".

Sono quindici anni che Rita Paris conduce la sua battaglia solitaria per risollevare le sorti della Regina Viarum, quasi tutta di proprietà privata. Fondamentale, spiega, è il recupero di Sant'Urbano che svetta con la sua aula in cortina laterizia in quella che era proprietà dei fratelli Lugari, ceduta nel 1981 alla famiglia Anzalone. A far soffrire il monumento è stata la separazione dalla contigua Villa Marmenia, un gioiello d'età imperiale, che, dai Lugari, è rimbalzata per tre proprietà diverse, collezionando dagli anni 70 una sfilza di abusi edilizi mascherati da finti restauri. "Cominciando ad acquisire Sant'Urbano si potrebbe poi risolvere anche la questione della Villa in modo da ricostituire l'originario complesso" avverte Paris.

Più fortunato il Mausoleo degli Equinozi, di proprietà dei fratelli Passarelli, che nelle date degli equinozi offrono ai visitatori cibi preparati secondo la cucina antica.

Guglielmo Ragozzino, Democrazia in cammino

Marco Bersani, La prima tappa di una sfida decisiva

Eleonora Martini intervista Stefano Ciafani, «Il quorum? Non ci fa paura Oggi Roma è no-nuke»

Rocco Di Michele, Uniti per lo sciopero e anche per la pace

Alberto Lucarelli e Ugo Mattei, Una Costituente per i beni comuni

Democrazia in cammino

di Guglielmo Ragozzino

Oggi si chiude la settimana dell'acqua, con una grande manifestazione per i due Sì al referendum del 12 e 13 giugno. Il tema dell'acqua, bene comune, avrà voce insieme ad altri beni comuni: salute e sicurezza, giustizia; e poi il rifiuto della guerra, quella guerra che l'Italia ripudia. Un coro potente, appassionato, un concerto non dissonante, allegro.

L'acqua in primo luogo. Il successo clamoroso nella raccolta delle firme ha un valore in sé, ma descrive anche una forma di partecipazione, alternativa a quella democrazia che si risolve in un sol giorno, in un solo voto e poi rimette le scelte degli altri giorni a un migliaio di professionisti politici, talvolta capaci, talvolta inaffidabili.

Il governo dell'acqua lo vorremmo invece affidato a persone competenti e motivate, al corrente delle cento caratteristiche locali di domanda e di offerta idrica. I referendum e la manifestazione che li lancia servono proprio a collegare queste diversità in un impegno comune. A risparmiare e risanare; e inoltre a estinguere tutte le seti con equità; a non sprecare mai, non sporcare mai il bene prezioso.

Il modello partecipativo ha due pregi, tra gli altri. Mette al sicuro l'acqua da inopinate vendite di comuni indebitati a padroni multinazionali. Si evita così di sottoporre l'acqua di tutti alla finanza che, come si sa, non ha mai sete di acqua, ma sempre e solo di dividendi. Il movimento ha poi un altro obiettivo: impedire che l'investimento di grandi capitali nel settore idrico renda indispensabili profitti che solo la lievitazione delle bollette consente. Né va mai dimenticata la deformazione, il vero e proprio cambio di stato, che subisce l'acqua in bottiglia.

Questa ha l'effetto di impoverire, di acqua buona e di denaro, gli enti locali, costretti oltretutto a subire la pubblicità negativa che «la minerale» evoca nei confronti dell'acqua del sindaco - di tutti i sindaci - dal momento che quest'ultima diventa meno potabile, meno sana, di fronte alle acque reclamizzate alla televisione. La riflessione collettiva per la giornata mondiale dell'acqua ha mostrato i problemi crescenti che le generazioni future dovranno affrontare, per bere, lavarsi, nutrirsi, produrre il necessario: in pace e sicurezza. Le soluzioni che i poteri economici mondiali suggeriscono sono quelle di affidare alla legge del profitto tutto il problema della sete che verrà. Servono investimenti giganteschi, ci avvertono, e noi soltanto possiamo procurarli. Servono scienza e tecnica e noi soli ne siamo depositari. Scienza e tecnica, ma sarebbe meglio dire conoscenza, sono invece valori universali, non quotati, non brevettati. Quelli delle multinazionali sarebbero sorpresi se si rendessero conto di quante cose sappiamo, noi dei beni comuni, noi che rifiutiamo gli steccati e le barriere in cui cercano di rinchiuderci. Da loro più che soluzioni ci aspettiamo problemi. Il profitto immediato che essi pretendono non disseta le città che raccoglieranno in un prossimo futuro tanta parte dell'umanità. Nelle enormi città dei nostri nipoti, se lasciamo che le multinazionali erigano le loro barriere, ci saranno ovunque ghetti per ricchi; e intorno poveri che pagheranno per tutti o saranno liberi di morire di sete.

Nucleare e legittimo impedimento, nel giorno dell'acqua, non sono espressioni di volontà popolare separate tra loro. Descrivono in primo luogo una forma di democrazia popolare in cui tutto si tiene. La gestione idrica, la forma dell'energia, : rinnovabile e diffusa, impostata sul risparmio oppure l'altra, di enorme taglia, con una gigantesca - ed eterna - impronta lasciata nella natura. Oggi l'occasione di ridisegnare il paese di domani è formidabile. Si parla infatti anche di giustizia, dell'eguaglianza universale e di chi è più uguale di tutti di fronte alla legge e può far valere il suo impedimento, per legittimo o truffaldino che sia.

E poi la guerra. Noi della pace non abbiamo talvolta buona stampa, accusati come siamo di protestare solo in determinati casi, contro alcuni regimi e non contro altri. In primo luogo, la protesta è sempre contro il governo, contro le sue politiche, le sue alleanze. Dieci anni fa a Genova la protesta voleva dire «non in mio nome» questa guerra contro l'Iraq e il movimento italiano - Carlo Giuliani tra i tanti - voleva rappresentare la volontà dei giovani del mondo intero in lotta contro la guerra.

In Libia, cent' anni fa abbiamo aggredito e sottomesso popolazioni che non ci avevano fatto niente di male. Poi, per i trent'anni successivi, le truppe italiane le hanno oppresse e massacrate, mentre cercavano di ribellarsi. Non saranno i miliardi di Bonaventura-Berlusconi a ripagare quei torti. Servirà piuttosto una forma di interposizione, la proposta di trattative, un'azione finalmente non violenta. 26 marzo. Una data da ricordare.

La prima tappa di una sfida decisiva

di Marco Bersani

Centinaia di migliaia di donne e uomini sfileranno oggi per le strade e le piazze della capitale. Chiamate dal popolo dell'acqua, giunto alla sua terza manifestazione nazionale e alla tappa decisiva del suo percorso di mobilitazione territoriale e di sensibilizzazione sociale: i referendum del prossimo 12-13 giugno. Un movimento dal basso, radicale e inclusivo, autonomo e partecipativo, che, raccogliendo oltre 1,4 milioni di firme nella scorsa primavera, ha saputo far irrompere nell'agenda politica del paese il tema dell'acqua, dei beni comuni, e della democrazia. Oggi sarà naturale la connessione fra la straordinaria esperienza del movimento per l'acqua e tutte le esperienze di conflittualità ambientale e di lotta per i diritti e per i beni comuni presenti in questo Paese. Prima fra tutte, quella contro il nucleare, a cui la tragedia di Fukushima restituisce la drammaticità dell'unica verità possibile: fermare le produzioni energetiche basate sul dominio e il disprezzo della vita e dell'ambiente, affermare un altro modello di energia e di società.

E altrettanto naturale sarà la connessione con le istanze della pace, che, ancora una volta, dovranno gridare l'indignazione per l'ennesima guerra - il cui unico risultato sarà quello di interrompere la primavera di democrazia dei popoli arabi - e chiedere a gran voce l'accoglienza di quanti, fuggendo, approdano sulle nostre coste. Non sarà tuttavia una semplice sommatoria di esperienze e di culture. Ciò che la sensibilizzazione collettiva ha messo in campo nel lavoro carsico e reticolare di questi anni è molto di più : le strade e le piazze di oggi diranno a voce alta come lo scontro sia tra la Borsa e la vita, ovvero tra il pilastro del modello liberista che vuol mettere a valore finanziario l'intera vita delle persone, privatizzando l'acqua e tutti i beni comuni, e le centinaia di migliaia di donne e uomini che vogliono riappropriarsi di ciò che a tutti appartiene, gestendolo in forma partecipativa e con la cura di chi guarda al domani. E soprattutto non sarà la piazza delle semplici resistenze, tanto dense di valore ideale quanto minoritarie nell'azione politica : oggi sarà il futuro a riempire la piazze e le strade della capitale, portando con sé l'indignazione consapevole del presente assieme allo sguardo fiero e sereno del cambiamento possibile e in corso.

Perché da domani comincia una tappa decisiva : ciò che oggi è già maggioranza culturale nel Paese può diventare maggioranza politica. I sì ai referendum del 12 e 13 giugno sono l'occasione per sconfiggere, per la prima volta dopo due decenni, le politiche liberiste con un voto popolare e democratico, che apra la strada alla ripubblicizzazione dell'acqua, ad un altro modello energetico, e ad un'uscita dalla crisi, basata sui diritti e sulla riappropriazione sociale dei beni comuni. Arrivarci comporterà un lavoro impegnativo ed entusiasmante, perché richiederà a tutte e tutti, compatibilmente con la propria vita quotidiana, di mettere in campo ogni energia possibile ed ogni sforzo necessario. Questa volta si vince senza deleghe. Ma sarà bello scoprire che solo la partecipazione è libertà.

* Attac Italia - Forum italiano dei movimenti per l'acqua

«Il quorum? Non ci fa paura Oggi Roma è no-nuke»

Eleonora Martini intervista Stefano Ciafani, del comitato referendario

«Benvenuto tra noi, Tremonti». Stefano Ciafani, responsabile scientifico di Legambiente, una delle 60 associazioni fondative del comitato «Vota sì per fermare il nucleare» - costantemente in espansione - non trattiene l'ironia. «Finalmente anche il ministro dell'economia, parlando a Cernobbio la settimana scorsa, lo ha ammesso: c'è il debito pubblico, quello privato e poi c'è anche il debito atomico, perché le centrali lasciano un buco nelle casse dello Stato». Un riconoscimento importante, spiega Ciafani, uno dei portavoce del comitato referendario che in queste ore non riesce a «tenere il conto di quanti comitati locali spontanei No nuke siano spuntati negli ultimi giorni come funghi in tutta Italia». «Il quorum? non ci fa più paura», afferma.

«Ora che, purtroppo a causa della catastrofe giapponese, è stata gioco forza rimossa la censura imposta, e i media hanno ricominciato a parlare di nucleare - aggiunge Ciafani - gli italiani si sono aggiornati su una tecnologia insicura, inquinante e costosa». Per questo oggi a Roma è prevista una partecipazione massiccia, difficilmente contabilizzabile proprio perché non organizzata. Ma tanto per fare un esempio dalla Puglia sono attesi una decina di autobus, 15 dal Veneto. Molti saranno i lavoratori delle imprese produttrici di energie rinnovabili, un settore letteralmente congelato dal decreto Romani perché fa paura alle lobby dell'atomo: «Troppo democratico - spiegano nella sede centrale del comitato referendario - troppo poco controllabile: ciascuno può infatti diventare produttore di energia alternativa».

Ciafani, finita la moratoria di un anno, cosa avverrà ?

Nulla, perché inizierà la campagna elettorale del 2013, e il governo sa che è impossibile andare ad elezioni con la clava del nucleare. Che gli italiani, di destra e di sinistra, non vogliono.

Il problema è la scelta dei siti?

Enel e Efd, autorizzati dall'accordo stipulato da Berlusconi e Sarkozy nel febbraio 2009, sanno già dove piazzare i loro quattro reattori Epr: due sicuramente a Montalto di Castro, gli altri rischiano di finire a Trino Vercellese, Caorso, Latina o Garigliano. Di reattori Epr, la III generazione avanzata, al mondo non ce n'è uno in funzione, solo 4 in costruzione. È una tecnologia bocciata ovunque, sia per la scarsa sicurezza che per i costi alti: ha perso una quantità infinita di gare internazionali, altro che «gioiello della tecnologia francese», come ci veniva descritto. Il modello italiano sarebbe il più grande reattore nucleare mai costruito: 1600 Mw.

Ieri il Consiglio d'Europa ha deciso che gli stress test si faranno su tutte le 143 centrali europee, con standard uguali per tutti. E i risultati dovranno essere resi pubblici. Cosa ne pensa?

Anche la storia degli stress test è una presa in giro, per come si sta delineando: prendono tempo. Anche il Giappone li aveva fatti, e Fukushima lo aveva superato. L'unico stress test che ha senso è quello deciso da Merkel la quale torna sui passi di Schroeder, che aveva deciso la chiusura totale entro il 2021, perché dopo aver scelto di prolungare la vita delle centrali nucleari obsolete ha perso tutte le elezioni amministrative. Gli standard di sicurezza, così come i criteri degli stress test che attualmente ciascun Paese svolge come vuole, dovrebbe definirli una volta per tutti e in tutto il mondo l'Aiea, che però non ha alcun interesse a farlo, perché non è affatto indipendente dalle lobby nucleari.

Ieri l'Idv ha denunciato che l'Italia lascia spente le centrali elettriche per importare l'energia nucleare francese.

Succede di notte, quando il consumo è minimo ed è più conveniente spegnere i nostri impianti e acquistare sottocosto l'energia dalla Francia, che non può spegnere le centrali nucleari. Di giorno, invece, anche al massimo del consumo, noi utilizziamo la metà della potenza elettrica installata sul territorio nazionale. Non c'è necessità di altri grande centrali di potenza, anzi la cosa che dovremmo fare nel prossimo futuro è cominciare a spegnere qualche centrale, magari quelle più obsolete, a carbone o a olio combustibile.

L'Italia può fare da apripista per un'Europa denuclearizzata?

Dal no italiano e tedesco (perché non siamo soli) si deve andare verso una dismissione graduale degli impianti in tutta Europa. Anche se, sia chiaro, è sempre meglio averceli distanti e oltre la barriera delle Alpi.

Uniti per lo sciopero e anche per la pace

di Rocco Di Michele

Guerra e precarietà, movimenti in assemblea alla Sapienza. Assemblea di «Uniti per lo sciopero» alla Sapienza di Roma. Apre Gino Strada che lancia la manifestazione del 2 aprile contro le guerre. Non solo pacifismo: sindacati, collettivi e organizzazioni di base provano a trovare un denominatore comune per le prossime mobilitazioni prima dello sciopero generale

A passo di corsa, ché niente come la guerra alle porte di casa smuove i cervelli. L'assemblea nazionale «Uniti per lo sciopero», filiazione diretta di «Uniti contro la crisi», registra quest'urgenza. Anche a costo di farsi spiazzare dal più impaziente di tutti, dall'unico in quest'aula che la guerra sa di certo cos'è. Nell'aula I di Lettere, cuore di mille assemblee storiche, Gino Strada lancia la manifestazione nazionale del 2 aprile, a Roma, in piazza S. Giovanni, sorprendendo un po' tutti i gruppi, i sindacati, i collettivi. La logica assembleare dei movimenti degli ultimi 20 anni, con la paziente ricerca della condivisione anche nel dettaglio, è sembrata immobile di fronte alla rapidità con cui jet anglo-francesi e missili Usa hanno aperto la danza infernale sui cieli libici.

Una difficoltà più obiettiva viene dal dover affiancare, in uno spazio stretto di tempo, mobilitazioni incentrate su temi vicini ma distinti (acqua, nucleare, scuola, contratti... guerra), scontando le piccole frizioni inevitabili quando 'insiemi' che si erano pensati come autonomi si devono concentrare. Serve maturità, e viene trovata rapidamente. Il collegamento in video con Lampedusa dà il senso del bisogno di fare, ora e qui. L'assemblea vira così verso un obiettivo semplice: prendere decisioni. Tocca a Gianni Rinaldini, coordinatore de «La Cgil che vogliamo», collegare strettamente i distinti. «Contro la guerra, contro i bombardamenti», con l'autocritica necessaria per la lentezza con cui i movimenti si sono pronunciati a sostegno delle rivolte del Nordafrica: «gli altri ci hanno giocato, per costruire una campagna di falsi che portava alla guerra». Ma è l'incidente di Fukushima, contemporaneo e gravissimo, a «segnare uno spartiacque rispetto al futuro». È «il modello di sviluppo centrato sul nucleare e il petrolio ad essere entrato irrimediabilmente in crisi». Chi si ostina a voler rimettere in piedi questo modello ­ tutti i governi dei cosiddetti paesi avanzati - non fa che «accelerare i processi di guerra per appropriarsi delle fonti di energia».

Dentro questo livello di complessità si collocano tutti i temi: quelli referendari sui beni comuni come l'acqua, il no al nucleare, e la precarietà, il reddito di cittadinanza, la scuola, le risorse finanziarie da trovare «tagliando le spese militari» e con nuovi strumenti fiscali che alleggeriscano la posizione di lavoratori e pensionati, redistribuendo il peso «su quel 10% di famiglie che possiedono il 50% della ricchezza». Tutti temi che chiamano in causa la riduzione di democrazia che stiamo vivendo qui. Perché se «si riducono i diritti del lavoro», «si elimina il contratto nazionale» e «si parte per la guerra», è la democrazia a venir svuotata di efficacia.

Difficile dirlo meglio di come ha fatto Moni Ovadia, che ritrova la parola giusta - «rivoluzionario» - per definire il bisogno di cambiare il modello di sviluppo. Modello che oggi - con il patto appena siglato tra capi di governo europei - «prevede esplicitamente di eliminare la contrattazione e fissa vincoli solo monetari, non sociali, alle politiche economiche». Facile prevedere davanti a tutti noi anni di «tagli finanziari e sociali insopportabili». Un punto essenziale riguarda il rapporto con i migranti, «eroi da difendere finché stanno sull'altra sponda del Mediterraneo e gente pericolosa da respingere quando arrivano qui». Ne vien fuori, oltre alla proposta di una «staffetta» con quanti stanno operando a Lampedusa, anche l'organizzazione di «una carovana che travalichi i confini della Tunisia».

Lo sciopero generale del 6 maggio, «strappato con fatica» a una Cgil a lungo esitante - lo ripeteranno in tanti, da Luca Casarini a Mimmo Pantaleo (segretario generale della Flc) - non è il sogno della «spallata finale», ma «una tappa fondamentale in un percorso che arriva a Genova, per il decennale». Ed è soprattutto Maurizio Landini, vulcanico segretario della Fiom, a spiegare che «bisogna farlo riuscire, svuotare i posti di lavoro, bloccare il paese»; «prolungarlo a 8 ore, generalizzarlo a tutte le figure sociali, ai precari»; non bisogna «sprecare l'occasione», anche se «non sarà sufficiente a cambiare il quadro politico e sociale». Si dovrà «andare avanti, costruire azioni unitarie sui territori», «includere e mettere all'opera l'intelligenza di tutti i lavoratori» per «delineare un sistema industriale con al centro le energie rinnovabili». Il nesso guerra-petrolio, del resto, è fin troppo chiaro. E brucia il futuro dell'umanità.

Il percorso disegnato nel documento finale ha tappe quasi settimanali di mobilitazione nazionale (oggi per l'acqua pubblica, sabato prossimo contro la guerra, il 9 aprile contro la precarietà, poi lo sciopero, i referendum e altre giornate ancora non calendarizzate, fino al 20 luglio ligure). A passo di corsa, perché «gli altri sanno benissimo cosa voglio e cercano già ora di dividerci».

Una Costituente per i beni comuni

di Alberto Lucarelli e Ugo Mattei

A dieci anni dal social forum di Genova il modo migliore per festeggiare quest'anniversario, dedicandolo alla memoria di Carlo, non potrà che essere la vittoria dei referendum su acqua e nucleare il 12 giugno prossimo. Una data irragionevole imposta da un governo che abusa dei suoi poteri per cercare di invalidare il voto, ostacolando con tutti mezzi, anche i più meschini, il raggiungimento del quorum. Quei trecento milioni gettati al vento andrebbero utilizzati tutti per i rifugiati di Lampedusa.

Uno dei meriti maggiori dei movimenti riunitosi a Genova nell'estate del 2001 fu proprio quello di "gridare" con vigore l'esigenza di spazi e beni comuni dove poter esercitare e veder soddisfatto ogni diritto. Da quel momento si apre in Italia, anche attraverso il ruolo determinante di tante realtà locali, la battaglia per i beni comuni, condotta contro la privatizzazione dei diritti di cittadinanza e contro gli abusi di un pubblico sempre più corrotto e contaminato da interessi particolari.

Da quel momento il concetto di partecipazione si libera dei formalismi giuridico-istituzionali nei quali era stata rinchiuso. I movimenti, anche attraverso un processo di informazione e formazione permanente, iniziano a pretendere che le politiche pubbliche (nazionali e locali) non siano più calate dall'alto e che le istanze partecipative, elemento decisivo per la gestione dei beni comuni, si trasformino in veri e propri diritti, espressione di antagonismo, proposta e controllo.

La straordinaria campagna referendaria per l'acqua pubblica, come è noto, ha raccolto circa un milione e mezzo di firme, con un risultato mai raggiunto nella storia della nostra Repubblica, suscitando una mobilitazione che non ha precedenti è la prova che partecipazione diretta e beni comuni sono categorie rivoluzionarie che stanno contribuendo alla nascita di nuove soggettività politiche fuori ed oltre il sistema dei partiti.

Queste nuove categorie politiche e giuridiche sono ormai entrate nel linguaggio della Corte costituzionale, che con la sentenza sull'ammissibilità del quesito referendario per l'acqua pubblica ha espressamente parlato di bene comune, seguita qualche giorno dopo dalla Corte di Cassazione.

Attraverso le battaglie sull'acqua ed ogni altra battaglia a difesa del territorio, dell'università pubblica, dei diritti dei migranti, contro il nucleare, gli inceneritori e le grandi opere inutili e dannose le moltitudini vogliono riappropriarsi del diritto di esprimersi sui beni comuni, che loro appartengono: quei beni che, secondo la definizione della Commissione Rodotà, esprimono utilità funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali, nonché al libero sviluppo della persona e che sono informati al principio ed alla salvaguardia intergenerazionale. Così operando, ciascuno con le proprie energie e capacità, ci stiamo riappropriando dell'art. 1 della Costituzione, ovvero del principio che assegna al popolo la sovranità, in una stagione di tragedia della democrazia rappresentativa.

Proprio nel decennale di Genova e dopo l'auspicata vittoria del 12 giugno, occorrerà partire con la fase 2 della grande marcia per i beni comuni, concentrandosi su eventuali altre campagne referendarie (a partire dalla legge Gelmini e dal Collegato lavoro) e impugnative costituzionali. I tempi sono maturi e quindi da subito ci dobbiamo mettere al lavoro per studiare le strategie politiche e giuridiche più efficaci ed incisive che, a partire dal 14 giugno, dovranno essere messe in campo anche a livello europeo (ad esempio la proposta di legge di iniziativa popolare per uno Statuto dei beni comuni che «circoscriva» il mercato).

Queste battaglie di portata nazionale, per le quali ci dobbiamo attrezzare, non potranno che partire dal lavoro della comunità locali che non sono più disposte a tollerare decisioni «non partecipate e calate dall'alto» da sindaci e consigli comunali impotenti quando non collusi. Si pretendano per esempio consigli comunali «aperti», che diventino reali luoghi di trasparenza e partecipazione, nei quali, a partire dal giorno successivo delle amministrative, i cittadini possano veramente sviluppare un senso di appartenenza verso la loro città e sia messo al primo ordine del giorno una grande discussione sul governo pubblico partecipato dei beni comuni. Le comunità locali dovranno pretendere l'adozione di nuovi Statuti comunali e regolamenti che, in armonia con la Costituzione e con i principi generale in materia di organizzazione pubblica, stabiliscano effettivi principi di organizzazione e funzionamento del comune, le forme di controllo, le forme e gli organismi di partecipazione.

Insomma, a dieci anni da Genova dobbiamo far partire, «uniti contro la crisi» e passando attraverso un successo nello sciopero generale del 6 maggio e nei referendum, un processo costituente dei beni comuni che individui gli strumenti le scadenze e gli obiettivi della Fase 2. Abbiamo di fronte a noi l'emozionante prospettiva di fermare il saccheggio ed invertire la rotta, puntando ad una nuova qualità del vivere insieme.

Oggi, a Roma, i promotori del referendum sull´acqua avviano non tanto la loro campagna elettorale, quanto piuttosto una grande riflessione destinata a incidere non poco sul corso della politica. In questi mesi è sembrato che i movimenti sempre più presenti nelle piazze e i partiti confinati nei loro palazzi (o in tv) appartenessero a mondi diversi, lontani.

Mondi persino caratterizzati da reciproche diffidenze. Quante volte nel centrosinistra si sono levate voci contro i rischi del movimentismo? Quante volte gli organizzatori delle manifestazioni hanno orgogliosamente sottolineato che nelle loro piazze non v´era alcun simbolo di partito?

Ora quei due mondi sono obbligati ad avvicinarsi sempre di più, fino ad incontrarsi nelle fatali giornate dei referendum. Lì confluiranno iniziative diverse. Alcune, quelle riguardanti il nucleare e il legittimo impedimento, sono state promosse dall´Italia dei Valori. Altre due, che hanno come oggetto la gestione dell´acqua, sono nate da una straordinaria mobilitazione di persone, gruppi, associazioni che, senza alcun sostegno del sistema dell´informazione, hanno raccolto un milione e quattrocentomila firme, un risultato mai raggiunto nella storia referendaria. Così i partiti sono chiamati a definire il loro rapporto con questo mondo che li circonda e che si esprime con modalità irriducibili agli schemi stanchi e ripetitivi di una politica logorata. Non dovranno confrontarsi con l´antipolitica, ma con la realtà di una politica diffusa. Nella maggioranza sono già evidenti i segni di una fuga dai referendum, la speranza che il quorum non venga raggiunto. E le diverse e variegate opposizioni hanno una occasione, forse irripetibile, per cominciare a ricostruire un consenso non più logorato da logiche oligarchiche, da culture autoreferenziali, da tattiche di brevissimo respiro.

Vi è un tratto che avvicina proposte referendarie nelle apparenze così lontane. È il "comune", quello che ci porta (o dovrebbe portarci) al di là degli egoismi e dei particolarismi, verso l´interesse generale, e così costruisce legami sociali. È giusto, allora, che siano i cittadini a dire la parola definitiva. Di che cosa ci parlano i referendum? Di un bene al quale è affidata la sopravvivenza - l´acqua. Di una condizione che riguarda la nostra stessa vita - la sicurezza. Di un principio dal quale una democrazia non può mai separarsi - l´eguaglianza.

Attraverso questioni specifiche si giunge così a nodi essenziali dell´organizzazione sociale. E, eccezion fatta per il legittimo impedimento in cui si riflette lo stato miserando in cui si trova la legalità in casa nostra, si tratta di questioni che attraversano l´intero pianeta. Una conferma, drammatica, arriva proprio dalle vicende di queste settimane. La catastrofe in Giappone ha riproposto il tema dell´energia nucleare con una radicalità che nessuna furberia consolatoria può eludere. Per il Maghreb si stima che, se non verranno prese misure adeguate, si andrà verso una crisi idrica che, nel 2050, interesserà il 90% della popolazione di quell´area.

Pensiamo davvero che ci si possa inoltrare in questo futuro che è già presente con le categorie concettuali, le coalizioni d´interesse, gli strumenti ai quali ci siamo finora affidati? Parole nuove percorrono il mondo. No copyright, software libero, accesso all´acqua, al cibo, alla salute, alla conoscenza, ad Internet come nuovi diritti fondamentali della persona. Intorno a questa inedita prospettiva sta davvero nascendo un altro genere di cittadinanza, non più legata all´appartenenza ad un territorio, ma caratterizzata appunto dalla dotazione di diritti che ogni persona porta con sé, quale che sia il luogo in cui si trova.

Così, davvero, l´intero mondo si configura come uno spazio "comune".

Ingenua utopia, illusione, estremo bagliore di una "ideologia" dei diritti fondamentali ormai al tramonto? O non è piuttosto vero che proprio l´osservazione della realtà ci mostra il numero crescente di persone che si mobilita in nome di diritti che non sono ricavati dal "canone occidentale", ma corrispondono a condizioni materiali dalle quali ci si vuole liberare e che spingono verso il nuovo "costituzionalismo dei bisogni" che ispira, ad esempio, le carte costituzionali di quello che era detto il Sud del mondo? E sono proprio i diritti così intesi ad indicare la via per una loro effettiva soddisfazione, che porta appunto verso i beni comuni, espressione di una diversa razionalità politica, economica, sociale, culturale. Si individua così una categoria di beni "a titolarità diffusa", sottratta alla pura logica mercantile, messa in rapporto diretto con tutti gli interessati, in tal modo promotrice di eguaglianza.

Non sono soltanto parole d´ordine. La considerazione dell´acqua come bene comune, sottratta alla stessa tirannia della contrapposizione tra pubblico e privato, ispira azioni concrete, capillari. Municipalità grandi e piccole si muovono in questa direzione. Ieri Parigi, oggi Berlino, dove si è appena svolto un referendum che ha visto il 90% dei votanti esprimersi per un ritorno alla gestione pubblica. Si obietta: ma lì ha votato solo il 27% della popolazione. Quanto basta per superare il quorum, fissato al 25%, per evitare manovre volte a sterilizzare il voto dei cittadini attivi e consapevoli (il vergognoso caso italiano del referendum sulla procreazione assistita), per rincuorare quanti fidano ancora nella possibilità di rivitalizzare la stanca democrazia rappresentativa grazie alla partecipazione convinta delle persone. Ricordiamo che il Trattato di Lisbona si è mosso proprio in questa direzione, prevedendo che un milione di cittadini europei possa presentare proposte per l´attuazione dei trattati.

Di fronte ad una prospettiva così ricca e così impegnativa, davvero una sfida per tutti, come reagisce il Governo della Repubblica? Prima opponendosi all´ammissibilità dei referendum e, una volta di più, la Corte costituzionale ha smentito la sua tesi. Ora ricorrendo al sotterfugio di una moratoria riguardante il nucleare, accompagnata da una virtuosa dichiarazione di un ministro che si è augurato che i cittadini non votino cedendo a strumentalizzazioni, all´emozione suscitata dal disastro giapponese. Dio mio, quanto deve essere emotiva Angela Merkel se dichiara «prima si uscirà dal nucleare e meglio sarà».

L'icona è tratta dal blog di Vito Vetrano

«Da maggio 2012 Msc crociere posizionerà a Venezia la prossima ammiraglia, la Msc Divina che potrà trasportare fino a 4200 passeggeri, aumentando ancora il volume di traffico generato dalla nostra compagnia in quello che consideriamo il nostro home port, il porto di riferimento». Questo l’annuncio di Massimo Bertoldero, area manager Nord Est della compagnia di navigazione, l’altra mattina a bordo della Msc Magnifica nell’ambito del convegno sul futuro del turismo balneare. «Anche noi - ha detto Bertoldero - vogliamo partecipare alla sfida di rilanciare il turismo in questo periodo di crisi. Per quanto ci riguarda le aspettative sono ottime con un boom di prenotazioni su Venezia, tanto che già adesso siamo praticamente quasi al 100% di copertura dei posti fino a giugno».

Il manager ha poi confermato l’impegno della compagnia sul porto di Venezia con 113 scali previsti nel corso del 2011 per un totale di circa 500 mila passeggeri. Impegno non solo estivo ma che copre l’intero anno con il posizionamento di tre navi, Magnifica, Musica e Armonia e tra settembre e ottobre anche con la Msc Opera che proporrà crociere di 12 giorni verso il Mar Nero.

Sul fronte del turismo balneare però non sono mancate le prese di posizione di fronte ad un business, quello delle crociere, in piena espansione e che qualcuno comincia a guardare con diffidenza. «Il settore delle crociere per noi è un competitor - ha detto con chiarezza il sindaco di Jesolo, Francesco Calzavara - perché se una famiglia spende duemila euro per andare in crociera poi non avrà molti altri soldi da spendere da noi». Il manager della Msc ha invece ricordato l’indotto generato dalla presenza del mezzo milione di passeggeri nell’intera area veneziana.

MILANO— L’orto non rende. «Non si può vendere l’Expo solo come un orto botanico planetario» : l’ad Giuseppe Sala dà la svolta culturale all’impostazione dell’Expo 2015. Doveva essere il festival delle colture di tutto il mondo, nella visione iniziale pensata dagli architetti coordinati dall’urbanista Stefano Boeri. Ma in corso d’opera, «parlando con il Bureau International des Expositions e con i Paesi invitati a partecipare», ci si è resi conto che quell’immagine non avrebbe richiamato l’attenzione che Milano vuole invece suscitare nel 2015. «Un’Expo verde e con tendoni leggeri— conferma Sala — troppo proiettata solo nella direzione agricola, non trova consenso in chi dovrà investire per Expo» .

L’annuncio arriva nel bel mezzo di una seduta di commissione consiliare convocata per fare il punto sulla situazione di Expo. Infatti, ci sono questioni importanti ancora aperte: dalla titolarità delle aree su cui sorgerà l’evento (ancora oggi di proprietà della Fondazione Fiera e della famiglia Cabassi) ai conflitti interni ai soci, ad esempio. Ma le affermazioni di Sala scatenano l’opposizione: «Se volete fare una colata di cemento invece del parco tematico di cui si parla nel dossier di registrazione, dobbiamo ridiscutere tutto» , tuona il capogruppo del pd, Pierfrancesco Majorino. Sala smentisce e replica: «Gli spazi dedicati alle serre, ai climi temperati e alla collina Mediterraneo ci sono e restano inalterate le cubature» , assicura. E aggiunge che «per convincere un visitatore a venire a Milano dobbiamo dargli qualcosa di più e unico che le serre, per quanto suggestive» . Il tema scelto da Milano, («Nutrire il pianeta, energia per la vita» ) sembra piacere molto: «Infatti non è mai accaduto che a 50 mesi dall’inaugurazione già 13 Paesi abbiano dato la loro adesione» , insiste Sala.

Ma serve uno spunto nuovo: «Vorremmo poter mostrare cose uniche, come un padiglione dedicato al supermarket del futuro, o a luoghi che spieghino cosa e come mangeremo tra vent’anni e così via» . Boeri, che è anche capolista del Pd per le prossime amministrative, difende il lavoro fatto: «Il nostro era un progetto avanzato, meno costoso di un Expo tradizionale, fatto di capannoni e padiglioni, e capace di lasciare in eredità a Milano il più moderno parco agroalimentare europeo, in grado di attirare investimenti, produrre ricerca e ospitare un grande salone dell’alimentazione in contatto con la fiera di Rho Pero e il mondo della ristorazione milanese» . E poi: «Resta piuttosto il sospetto che una revisione "tecnologica"dell’orto botanico nasconda in realtà l’intenzione di realizzare un Expo con più volumi costruiti, cedendo così, una volta di più, alle aspettative dei privati proprietari dell’area» . Sala è categorico: «Le volumetrie dei padiglioni sono addirittura diminuite rispetto al concept plan di Boeri e degli altri architetti.

Il sito conserva integralmente le sue caratteristiche di vivibilità e grande equilibrio ambientale e paesaggistico. Restano infatti inalterati sia il progetto delle serre che quello degli agrosistemi. Dal punto di vista della sostenibilità stiamo quindi confermando tutti gli impegni previsti» . L’ultimo dato è che «da tutto il mondo, come dalle categorie produttive italiane, ci giungono quotidianamente sollecitazioni per realizzare un’esposizione universale sulle frontiere della tecnologia, della ricerca e del futuro» . E l’europarlamentare Carlo Fidanza assicura che «non c’è nessun ripensamento rispetto all’idea originaria, ma certamente ora dobbiamo rendere attraente il "prodotto Expo"per i Paesi e le imprese, coniugando verde e serre con la tecnologia e il futuro» . Serve una svolta, quindi.

La battaglia sulla giustizia è un capitolo importante di una grande mutazione in corso nel nostro Paese che riguarda l’equilibrio delle forze sociali in generale e, per conseguenza, dei poteri dello Stato. Si tratta di un processo comprovabile di erosione dell’eguaglianza economica e di cittadinanza, con dati che mettono in luce l’aumento della povertà e la diseguaglianza tra i cittadini di influire sulle scelte politiche. Vista dal versante delle istituzioni, questa grande mutazione tocca l’ordine costituzionale che ci ha accompagnato in questi ultimi sessant’anni per riequilibrarlo in un senso che è più decisionista. Si tratta di una battaglia tutta da combattere e non conclusa e che impegna in forme e modi diversi chi opera nelle istituzioni. I magistrati hanno espresso come sappiamo giudizi fortemente negativi sulla proposta di riforma della giustizia, tanto che l’Associazione nazionale magistrati ha proclamato una "mobilitazione diffusa" denunciando i nodi nevralgici del testo Alfano: la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm e le norme sulla obbligatorietà dell’azione penale. Se il perno della nostra Costituzione è l’indipendenza della magistratura, il perno di questa riforma è la restrizione dell’indipendenza. Si tratta di una differenza notevole che può avere implicazioni gravi per i diritti di noi tutti. Insieme all’autonomia del potere giudiziario, infatti, la proposta di riforma mette in discussione quel delicato meccanismo di pesi e contrappesi sul quale si regge il governo della legge e la certezza dei nostri diritti di fronte al potere costituito.

La direzione impressa dal governo dimostra di essere in forte tensione con quella liberale, ribadita tra l’altro a livello comunitario con pronunciamenti via via più espliciti nel corso degli anni. È questo il caso del protocollo di Copenhagen del 1993, con il quale il Consiglio europeo, nella prospettiva dell’allargamento ai Paesi dell’Est, fece espresso riferimento all’autonomia dell’ordinamento giudiziario come condizione dell’allargamento. Tra i parametri di Copenhagen, quelli politici comprendono sia la democrazia e il primato del diritto che i diritti dell’uomo e la tutela delle minoranze. La democrazia e il primato del diritto sono esemplificati attraverso una serie di fattori tra i quali l’organizzazione e il funzionamento del Parlamento, del potere esecutivo e del potere giudiziario. La democrazia quindi non è solo voto popolare e opinione della maggioranza ma l’intero ordinamento. Circa il potere giudiziario, questo è definito in ragione della sua indipendenza dagli altri poteri sulla base di alcuni indici: il ruolo del governo nella nomina e nella progressione in carriera dei magistrati e l’esistenza di un organo di autogoverno della magistratura. L’Europa unita ha cioè sviluppato nel corso della sua storia una vera e propria teorica dello stato democratico nel quale vige il primato del diritto, e ha infine prodotto parametri di misurazione e verifica delle condizioni che fanno di uno stato democratico uno stato più o meno coerente con i principi dello stato di diritto. Se la riforma Alfano fosse approvata, come si collocherebbe l’Italia rispetto a questi parametri comunitari?

Alla base del costituzionalismo moderno vi sono una visione pessimista della natura umana e un profondo desiderio di proteggere la libertà. Da un lato l’accettazione del fatto che proprio perché non siamo santi abbiamo bisogno di governo; dall’altro l’idea che occorra fare in modo che chi governa sia messo nell’impossibilità di agire d’arbitrio. Come limitare il potere? Affidandosi non alla virtù, ci insegna Montesquieu, la quale non riesce a moderare se stessa, ma alla logica dei pesi e contrappesi, la quale da un lato presume che chi fa le leggi (o ha il potere di imporre obbedienza) ha tutto l’interesse a farle a suo vantaggio, e dall’altro cerca la soluzione a questo rischio fuori della volontà degli attori. Come Ulisse si fece legare per resistere al canto delle Sirene poiché sapeva di non potersi fidare della sua virtù, così il legislatore volle mettere i limiti del potere fuori della volontà di chi lo esercita. Questa è la logica vincente che ci hanno lasciato in eredità i padri fondatori del costituzionalismo. Una logica che ha usato la libertà come espediente di stabilità perché ha diviso il potere in modo tale che ogni sua parte fosse equipollente e capace di resistere alle pressione dell’altra. Così i Federalisti americani: «Alla base di quella separazione e distinzione dei vari poteri che viene in un certo caso ammessa da tutti come essenziale garanzia di libertà, è la necessaria autonomia di volere di ciascun potere, cosicché i membri di ciascun settore intervengano il meno possibile nella nomina dei membri degli altri settori».

Il meccanismo dell’equilibrio dinamico dei pesi e contrappesi ha per obiettivo quello di far sì che nessun potere dello Stato sia come un Ulisse slegato. Centrale è che il potere giudiziario (dal quale dipende la nostra libertà) resti un potere separato e autonomo, che il giudizio non sia costola della volontà, che non diventi in nessuna sua parte - per esempio il pubblico ministero- un organo alle dipendenze del Governo (del ministero dell’Interni, come era nello Statuto albertino). Ma lo sbilanciamento dei poteri è la logica che muove la proposta Alfano. C’è da chiedersi quale vantaggio ricaverebbe il cittadino da una riforma il cui esito è che una parte del lavoro della giustizia operi alle dipendenze più o meno dirette del governo.

La Repubblica

La Moratti si infila nel tunnel

di Teresa Monestiroli

Per Letizia Moratti il tunnel Expo-Linate è «un progetto utile e importante perché toglierà auto dalla superficie». Quindi si procede spediti verso l´approvazione della delibera in giunta prima della fine del mandato. «Una provocazione» per Basilio Rizzo della lista Fo, vista la decisione di vincolare l´opera alla discussione del Piano urbano della mobilità. «Un regalo ai privati» per Pierfrancesco Majorino del Pd.

Un´OPERA «utile e importante». Sono queste le parole con cui il sindaco definisce «tutto quello che toglie il traffico dalle strade». Compresa la maxigalleria Expo-Linate il cui progetto potrebbe arrivare in giunta prima del voto. «Il tunnel è simile alle metropolitane - afferma la Moratti - Le linee 4 e 5 faranno calare il traffico in superficie del 14 per cento. Tutto quello che favorisce la riduzione delle auto in città deve essere visto positivamente, come del resto hanno fatto le grandi capitali europee».

Si procede, dunque, e l´indirizzo politico non è cambiato. Nonostante il consiglio comunale abbia vincolato l´infrastruttura al nuovo Pum, il Piano urbano della mobilità, che verrà discusso dopo le elezioni, Palazzo Marino spinge perché la delibera sul tunnel venga approvata entro la fine del mandato. «È una provocazione - commenta Basilio Rizzo, consigliere della Lista Fo - Quando si trattava di approvare il Piano di governo del territorio la maggioranza assicurava che del tunnel non si sarebbe più parlato fino alla definizione del Pum, ora che il Pgt è passato scopriamo che i lavori procedono».

E speditamente, visto che ieri il Comune ha inviato una sostanziale approvazione al piano di fattibilità di Condotte, il colosso delle gallerie entrato nel gruppo dei privati che dovrebbero realizzare il tunnel in project financing. Una lettera che chiede alcuni cambiamenti tecnici, a cui la società è pronta a rispondere nel giro di pochi giorni. A quel punto Palazzo Marino sarà pronto per il passaggio in giunta e per l´avvio di una gara «senza pregiudizio patrimoniale» dove si specifica che l´opera è subordinata al voto del consiglio comunale.

Il progetto definitivo, presentato dai privati, prevede una galleria di 12,7 chilometri che collega l´aeroporto con l´autostrada dei Laghi, con 8 uscite intermedie in città, la cui realizzazione costerà 2,6 miliardi. Secondo i calcoli di Condotte sarà possibile consegnare i primi 7,5 chilometri, da Expo a Garibaldi, entro il 2015 se i lavori di scavo partiranno entro fine 2011. Nel piano di fattibilità viene anche indicato l´impatto che il tunnel avrà sulla città: 57.100 auto al giorno nel 2020 quando dovrebbe essere completata l´intera tratta, 22 milioni di ore l´anno risparmiate dagli automobilisti e 74 milioni di chilometri in meno percorsi. La società prevede di rientrare dei costi con una concessione di 60 anni e un pedaggio di 60-70 centesimi al chilometro.

«È un regalo ai costruttori - commenta Pierfrancesco Majorino, capogruppo del Pd a Palazzo Marino - Non servirà a togliere traffico delle strade ma, al contrario, riverserà le auto in centro. Con noi al governo non si farà mai». Contrari anche gli ambientalisti, con Franco Beccari di Legambiente che dice: «È irresponsabile pensare di sconvolgere Milano per portare migliaia di auto in città. Come può il sindaco dichiarare di volere più verde e allo stesso tempo programmare un´opera che per ripagarsi avrà bisogno di nuovo traffico a pagamento?». A favore invece il centrodestra, con il consigliere Pdl Marco Osnato che spiega: «Il tunnel non farà aumentare il traffico: gli automobilisti che lo utilizzeranno avrebbero comunque attraversato Milano, ma in superficie».

La Repubblica

Un buco nero sputa-traffico da cui è meglio tenersi alla larga

di Ivan Berni



Il sabba di fine legislatura della giunta Moratti non finisce di stupire. Dopo aver reclutato fra i supporter l´assessore rinnegato Croci, padre dell´Ecopass - ma abrogando l´Ecopass, al tempo stesso, dal programma dei prossimi cinque anni - ora è la volta dei progetti-zombie. La giunta, infatti, è pronta a resuscitare il progetto folle del tunnel sotterraneo Linate-Rho, che ieri il sindaco ha definito «utile e importante». Si tratta di quella incredibile galleria sputa-traffico lunga tredici chilometri che dovrebbe collegare un aeroporto in stato di (quasi) dismissione come quello di Linate all´area dell´Expo e della Fiera di Pero-Rho.

Un´opera faraonica, dal costo stellare di 2,5 miliardi di euro, per gran parte sovrapposta a linee del metrò e a linee ferroviarie in esercizio, riservata al traffico privato. Una colossale sciocchezza dal punto di vista della mobilità urbana, in totale contrasto con tutte le politiche di decongestionamento del traffico privato delle aree metropolitane praticate a livello europeo e per giunta assolutamente velleitaria dal punto di vista finanziario.

Secondo i calcoli resi pubblici dai promotori, per remunerare l´investimento - tutto di operatori privati - il tunnel dovrebbe infatti ingoiare almeno cinquantamila veicoli al giorno per un pedaggio di 70 centesimi a chilometro, vale a dire circa 9 euro per l´intero percorso. Giusto per fare due conti, un business plan che porterebbe a ricavi annuali dell´ordine di 120 milioni di euro. In altre parole, una infrastruttura che richiederebbe almeno un quarto di secolo per ripagare l´investimento e divenire remunerativa e che, nel frattempo, condizionerebbe qualsiasi politica di tutela dell´ambiente e della mobilità.

Perché va da sé che nessun privato al mondo sarebbe così pazzo da investire una simile massa finanziaria correndo il rischio di veder ridotti i propri ricavi. Ad esempio perché le amministrazioni pubbliche potrebbero introdurre il ticket d´ingresso alle auto private su tutto il territorio metropolitano. Oppure per effetto di altre misure di protezione ambientale, come la pedonalizzazione di vie, piazza e quartieri dove sono previsti gli svincoli di entrata e uscita del tunnel, che si prevede abbia almeno due corsie di marcia e un calibro "autostradale".

Si potrebbe continuare a lungo, nell´elenco dei motivi di buon senso e anche di banale rispetto della logica che sconsigliano di intraprendere una simile avventura. Contro il tunnel degli orrori, del resto, le opposizioni non a caso hanno fatto muro in consiglio comunale, ottenendo - almeno così sembrava - che lo sciagurato progetto venisse stralciato dall´agenda di questa legislatura. Tutto inutile, par di capire, di fronte all´urgenza di rispondere alle sollecitazioni della società Condotte, uno dei promoter, che al Comune ha spiegato che se non si parte oggi con la procedura d´appalto non si riusciranno a fare in tempo per l´Expo nemmeno i quattro chilometri di galleria fra via Lancetti e Rho, la tratta peraltro più insensata dell´intero percorso del tunnel.

Ma la cosa che più irrita è che se la giunta Moratti uscente approverà il via libera, la patata bollente ricadrà sul prossimo consiglio comunale nonché sulla prossima giunta, chiamati a quel punto a ratificare o - si spera - a smentire e smontare la decisione presa oggi. Insomma, una giunta che non ha avuto il coraggio di mettere la faccia su una scelta illogica, ambientalmente ed economicamente insostenibile, lo fa oggi di soppiatto, lasciando a chi verrà la rogna di gestirla. Il tunnel è la metafora del bilancio e del futuro dell´amministrazione Moratti: un buco nero. Da cui tenersi alla larga.

La Repubblica

"Inutile e folle sventrare la città è un regalo del sindaco ai privati"

intervista a Stefano Boeri, di Stefano Rossi

Stefano Boeri, architetto e capolista del Pd alle prossime elezioni comunali, che opinione ha del tunnel Expo-Linate?

«Non dovrebbe nemmeno essere preso in considerazione. La città non ha ancora il Piano urbano della mobilità, perciò non esiste un ragionamento di sistema nel quale inquadrare il tunnel».

Ma l´opera in sé si giustifica?

«Milano non ne ha bisogno. Il suo sistema di tangenziali funziona e per una, la est, è previsto un raddoppio. Il tunnel, al contrario, attira il traffico in città. Una scelta controcorrente con le politiche adottate in tutte le città moderne, che fermano le auto ai parcheggi di interscambio con il trasporto pubblico».

Letizia Moratti ha detto ieri che "tutti gli strumenti che tolgono le auto dalla strada sono utili e importanti".

«Beh, il tunnel non lo fa. Non intercetta le principali direttrici di entrata a Milano, vale a dire le autostrade da Bologna, Genova e Venezia, se non quest´ultima, ma con un lungo tragitto per arrivarci. È accessibile solo per chi arriva da Torino e dall´Autolaghi. Qual è allora lo scopo? Collegare Linate alla città? Se è così, si costruisca piuttosto la metropolitana, che oltretutto costa meno dei 2,5 miliardi della galleria».

Il tunnel è fatto in project financing. Sempre che i privati non chiedano poi un intervento pubblico.

«Appunto. È probabilissimo che la mano pubblica ci debba mettere dei soldi lo stesso. E ad ogni modo, grandi opere che incidono nel tessuto urbano presentano sempre spese connesse di infrastrutturazione, come i raccordi. Le rampe di una galleria che corre 50 metri sottoterra richiedono uno sventramento pazzesco, in una città che da otto anni soffre per le voragini del piano parcheggi dell´ex sindaco Albertini».

In una parola il tunnel Expo-Linate è...?

«Una follia».

Perché la Moratti crede in questa follia?

«Non me faccio una ragione, se non con spiegazioni estreme che mettono paura».

Quali?

«Il tunnel è avulso da qualunque logica urbanistica, economica e ambientale, non è nel programma elettorale del centrodestra, è stato tolto dal Pgt, il Piano di governo del territorio. Non ne parlava più nessuno, eppure il sindaco lo ripropone con forza a fine mandato, con il consiglio agli sgoccioli dei lavori ordinari. Viene da pensare che la Moratti sia eterodiretta».

Spieghi meglio.

«Se sommiamo l´urgenza sul tunnel al fatto che Expo è a rischio perché i proprietari delle aree tengono sotto scacco la città e il Paese, si ha l´impressione di un territorio governato da interessi privati. Ci sono due grandi progetti, uno buono e uno cattivo, ma nessuno dei due è deciso dalla politica sulla base di motivazioni urbanistiche. È questo che mi spaventa».

Il tunnel, insomma, si limiterà a incrementare il valore delle aree che attraversa?

«Banalmente, sì. Una valorizzazione legata esclusivamente all´uso del mezzo privato. Se con l´auto si arriva in centro in 15 minuti, anziché in 25, il vantaggio per i proprietari immobiliari è evidente».

Che cosa può succedere?

«Se il tunnel viene legato a Expo potrebbe sottostare ai poteri speciali del sindaco e mancherà una approfondita discussione in consiglio comunale sulla mobilità complessiva. Il tunnel è la morte di Ecopass e della sua evoluzione in congestion charge. Vorrei sapere cosa ne pensi l´ex assessore Edoardo Croci, ispiratore di Ecopass e promotore dei referendum ambientali, tornato di recente a fianco del sindaco».

Investimenti astronomici e una consiliatura in scadenza. Il tunnel non è già sul binario morto?

«Pareva già così quando fu tolto dal Pgt, eppure questa ostinazione fa dubitare. Ne abbiamo già viste di opere pubbliche che hanno soddisfatto determinati interessi solo per il fatto di avere aperto i cantieri, senza necessità di venire completate».

Corriere della Sera

Verde e housing sociale a Cascina Merlata La Moratti: il tunnel, un’opera importante

di Armando Stella

Un tempo fu parco agricolo, oggi è una landa di periferia. Diventerà il villaggio della Milano 2015: il villaggio Expo. La «rigenerazione» di Cascina Merlata è il primo sviluppo urbanistico legato all’Esposizione. Il masterplan ridisegna oltre 520 mila metri quadri al confine nord-ovest, tra l’A4, il cimitero e la ferrovia: palazzi da 9 a 23 piani, 3.800 appartamenti per 8 mila abitanti, housing sociale e affitti calmierati, e poi un hotel, un centro commerciale, uffici, 200 mila metri quadri di verde, alberi, piazze pedonali, scuole, asili, 6 chilometri di piste ciclabili, un frutteto, campi da tennis e piscine. L’accordo di programma sarà ratificato a breve dal consiglio comunale. I cantieri apriranno tra fine 2011 e inizio 2012:

«Realizzeremo il 90%delle opere in tre anni» , promette Alessandro Pasquarelli, ad dell’immobiliare EuroMilano e di Cascina Merlata spa. «Un nuovo habitat metropolitano sotto il segno dell’ecosostenibilità» , recita il claim del progetto. Ieri, il lancio in grande stile: cinema Odeon e presentazione 3D. La spina dorsale della cittadella è un parco lineare su cui si aprono molte isole residenziali, il prezzo degli alloggi varierà tra 1.980 e 2.500 euro e più al metro, il «mix abitativo» avvicinerà giovani, coppie, fasce deboli.

«È un nuovo modo di inquadrare la città— sottolinea il sindaco Letizia Moratti —. Mai più quartieri ghetto» . Il piano d’intervento, chiosa Pasquarelli, «dimostra che i canoni sociali si possono applicare, a Milano. Ci stiamo lavorando con Fondazione Cariplo e la Cassa Depositi e Prestiti» . Una passarella pedonale sospesa collega il villaggio al sito Expo. È un cordone ombelicale. I due poli nascono insieme. E comunicano. I 323 mila metri quadri di nuovi edifici, nel 2015, ospiteranno i duemila operatori della manifestazione e solo alla chiusura saranno messi sul mercato.

«Cascina Merlata — commenta l’assessore comunale all’Urbanistica Carlo Masseroli— certifica la buona alleanza tra interesse pubblico e privato stabilita dal Pgt» . Può essere «un bel progetto» , concede il capogruppo pd Piefrancesco Majorino, ma solo a patto che «si facciano le cose in modo trasparente. Cascina Merlata non c’entra niente col Pgt, questo è il suo pregio maggiore» . Gli architetti Paolo Caputo e Antonio Citterio, vincitori del concorso di progettazione, firmano il masterplan di riqualificazione: «È uno spazio aperto, inclusivo, da vivere. Non è un recinto» . Intanto, rispunta l’ipotesi del super tunnel di 11,5 chilometri che scorre la città dal sito Expo all’aeroporto di Linate: «Tutto quello che toglie traffico in superficie penso che possa essere visto come un progetto utile e importante» , sostiene la Moratti. La delibera potrebbe approdare in giunta entro la fine del mandato, consentendo l’avvio entro l’anno degli scavi per la galleria.

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