Gli altri litigano, e lui fa promesse. Peccato che siano sempre le stesse. Evidentemente non funzionano. L’altro ieri fisco «friendly», ieri l’ennesimo piano casa. Dopo il flop dell’ultima proposta, che finora ha registrato pochissimi interventi su gran parte del territorio nazionale, a parte il Veneto. Così Giulio Tremonti procede spedito sul suo sentiero di grande «timoniere» della coalizione, ufficialmente fedele al premier, ma anche a lui pericolosamente alternativo.
L’ultimo annuncio seduce la platea dei geometri, che plaudono al nuovo cemento promesso. Il ministro annuncia un decreto a inizio maggio, che dovrebbe contenere le semplificazioni per l’edilizia, con chiarimenti sulla Scia (segnalazione certificata di inizio attività), i distretti turistici costieri, già annunciati al momento del varo del pnr (piano nazionale di riforme) e opere pubbliche. Sulle abitazioni i numeri ricalcano quelli già in vigore: possibilità di ampliamento del 20% e fino al 30% in caso di demolizione e ricostruzione. Annunciando la solita falsa rivoluzione, Tremonti va all’affondo contro i «nemici del cambiamento»: le Regioni, la Costituzione, i vincoli, e naturalmente i Verdi, gli «oppositori » per antonomasia.
La verità è esattamente contraria agli slogan triti del ministro. Quando, nel marzo del 2009, si arrivò ad un’intesa sul piano casa con le Regioni, tutti i governatori, chi prima chi dopo, vararono la loro legge. Dunque, nessun veto dalle amministrazioni. Quello che non rispettò l’impegno preso allora fu proprio il governo, che avrebbe dovuto varare un decreto di semplificazione mai visto. Tante altre cose si sono stratificate negli anni, mentre tutti promettevano e nessuno faceva. «Aspettiamo dalla primavera scorsa i chiarimenti sulla Scia – dichiara Anna Marson, assessore al territorio della Regione Toscana - e tanto per dirla chiara, aspettiamo da decenni la nuova legge urbanistica nazionale, che è addirittura del ‘42». Anche la Toscana, come le altre Regioni, ha varato il suo piano, e lo ha confermato con il cambio di amministrazione con aggiustamenti richiesti da Comuni e costruttori. Naturalmente qualsiasi normativa deve rispettare gli strumenti urbanistici vigenti. Restano in vigore i vincoli sui centri storici, paesaggistici, sulle coste, sulle aree golenali. Oggi il ministro promette maggiori libertà: vuole abolire anche questi? Non si sa. In materia a governare sono le Regioni, che hanno subito rivendicato il loro ruolo. «Tutte le Regioni hanno emanato una legge che rispetta le linee di indirizzo dell'accordo - ha dichiarato Vasco Errani - alcuno spazio per polemiche fra le istituzioni su questo tema». Sta di fatto che la nuova proposta somiglia pari pari alla prima che non ha funzionato. Ci si aspettavano investimenti per 60 miliardi, ci sono state briciole. «Il fatto è cheunintervento di questo tipo funziona solo in caso di villette monofamiliari - spiega Marson - Ecco perché in Veneto ha tirato. Ma nel resto del Paese gli effetti sono molto limitati».
«Naturalmente qualsiasi normativa deve rispettare gli strumenti urbanistici vigenti. Restano in vigore i vincoli sui centri storici, paesaggistici, sulle coste, sulle aree golenali. Oggi il ministro promette maggiori libertà: vuole abolire anche questi?» Naturalmente si, rispondiamo. E’ quello che vogliono, che vuole il vasto e ramificato partito del mattone, il più grande di tutti, con tentacoli ovunque. Sembra che lo slogan vincente, contro il quale troppo pochi si oppongono nelle istituzioni e nei partiiti, sia ancora: “Lotta dura per una maggiore cubatura”.
Via i vincoli del piano regolatore, finché i piani regolatori non saranno tutti ispirati allo “sviluppo del territorio”, finché i piani paesaggistici buoni, o anche solo decenti, non saranno tutti rifatti dai cappellacci di turno.
Settimane cruciali per il futuro di Milano come capitale europea della ricerca e delle cure mediche. In gioco c’è la costruzione dei due mega poli scientifici previsti, inizialmente, entro l’Expo 2015, con investimenti da capogiro. Progetti ambiziosi, studiati per rafforzare il primato sanitario della Lombardia. Uno è il Centro europeo di ricerca biomedica avanzata (Cerba), voluto dallo scienziato Umberto Veronesi e destinato a sorgere su terreni del Parco Sud messi a disposizione dal costruttore Salvatore Ligresti. L’altro è la Città della Salute: sponsorizzato dal Pirellone, il progetto prevede il trasferimento dell’Istituto dei tumori e del neurologico Besta nelle aree a nord-ovest di Milano di fianco all’ospedale Sacco. Realizzarli entrambi oggi sembra un’impresa titanica. La crisi economica impone spese sempre più oculate.
Uno dei due, allora, è di troppo? È la domanda che circola anche al Pirellone, pronto a rivedere, se necessario, programmi e strategie. La questione si pone per i criteri di scelta che la Regione da sempre dichiara di seguire: la razionalizzazione delle risorse economiche e l’esaltazione della ricerca scientifica. Obiettivi che adesso rischiano di rivelarsi incompatibili con la nascita di due colossi sanitari simili. È il derby degli ospedali di Milano La partita è da miliardi di euro. Per il Cerba sono necessari un miliardo e 226 milioni, finanziati interamente da privati. Per la Città della Salute non bastano 520 milioni, di cui 228 messi dalla Regione, 40 dallo Stato e i 250 rimanenti da coprire con il project financing.
È la formula di finanziamento che prevede l’investimento di privati che recupereranno i soldi con la gestione dei servizi (come posteggi, mense e pulizie) e, soprattutto, con un canone di disponibilità a carico del Pirellone. Conti superati. Le ultime stime fanno lievitare la cifra a 680 milioni. I business plan del Cerba risalgono al 2004. L’idea dell’unione del Sacco con l’Istituto dei Tumori e il Besta prende forma nel 2006. Ma, da allora, sono cambiate molte cose. Una imprevista doccia fredda per il Pirellone arriva con i tagli del ministro dell’Economia Giulio Tremonti nella seconda metà del 2008: il governo toglie dal decreto fiscale i fondi Inail per la ricerca, con il conseguente blocco di un finanziamento da 380 milioni destinato alla Città della Salute.
È solo l’inizio. I ritardi nella tabella di marcia del Cerba finiscono col fare sovrapporre la sua realizzazione con quella del polo scientifico di Vialba, con il rischio di doversi contendere gli investitori di peso. Il tutto mentre il Pirellone deve fronteggiare altri tagli: dal 31 maggio 2010 sono fermi, sempre al ministero dell’Economia, quasi 500 milioni di euro destinati a 85 interventi di edilizia sanitaria. Ancora. Per la Regione si apre anche un nuovo fronte di investimenti con il salvataggio del centro di ricerche di Nerviano, che già nell’aprile 2009 aveva reso necessario un rifinanziamento di 30 milioni da parte di UniCredit (a fronte di garanzie patrimoniali).
E il San Raffaele, sommerso da un debito di 900 milioni di euro, complica ulteriormente gli scenari. Di qui i dubbi sull’opportunità di realizzare (subito) entrambi i poli scientifici: del resto, già in un documento presentato il 28 giugno 2004 durante un incontro in Mediobanca, il neurologico Besta era destinato ad annettersi al Cerba. Immaginare un esperimento di convivenza tra pubblico e privato, con la realizzazione di un’unica Città della Salute non è dunque un’ipotesi campata per aria. Ma, eventualmente, dove sarà? I dubbi si rincorrono soprattutto dopo l’ultimo via libera di Palazzo Marino, venerdì scorso, al Cerba. Ora suoi cantieri possono iniziare. Bisogna decidere il da farsi. E il tempo stringe.
Spetterà all'Ufficio centrale presso la Corte di cassazione stabilire se il referendum indetto per il 12 e 13 giugno sul nucleare potrà essere annullato dall'approvazione della nuova normativa che il governo ha intenzione di fare approvare dal Parlamento. La decisione che i giudici dovranno adottare è delicata e non può essere data per scontata. Non è infatti sufficiente l'abrogazione della normativa oggetto della richiesta di referendum. Sul punto la giurisprudenza della Corte costituzionale si è espressa in modo chiaro sin dal lontano 1978 (sent. n. 68 del 1978): la modifica legislativa intervenuta nel corso del procedimento referendario non è in grado di impedire lo svolgimento del referendum qualora l'abrogazione non colpisca «i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente» ovvero «i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti». In tali casi il referendum si effettua egualmente, sebbene «sulle nuove disposizioni legislative». Il linguaggio della Corte sarà tecnico, ma il senso è del tutto evidente. Ciò che si vuole evitare è che la maggioranza parlamentare introduca modifiche marginali ovvero adotti un escamotage normativo - come ben evidenziava l'intervento ieri del ministro per lo sviluppo economico Romani - al solo fine di impedire l'espressione della volontà popolare. È perciò che è stato assegnato a un giudice (l'Ufficio centrale) il delicatissimo compito di valutare la natura dell'abrogazione e se questa soddisfi o meno la pretesa dei promotori del referendum.
Per stabilire se l'abrogazione delle norme sottoposte al referendum del 12 e 13 giugno abbiano tale carattere l'Ufficio centrale dovrà prendere in considerazione gli effetti conseguenti all'intervento del legislatore. E il punto più delicato sembra essere il carattere definitivo o meno della scelta contraria alla produzione dell'energia tramite la costruzione delle centrali termonucleari. È questo infatti il «principio ispiratore» su cui si fonda l'iniziativa referendaria.
Può dirsi che la cancellazione delle specifiche norme oggetto del referendum comportino una rinuncia definitiva da parte del governo della scelta nucleare? Ovvero esse sono solo un modo per bloccare il pronunciamento popolare? Diversi indizi dovrebbero far ritenere che si tratta di uno stratagemma politico, dunque non in grado di impedire il referendum.
Anzitutto sono le stesse dichiarazioni del governo nonché gli atti precedentemente posti in essere, che evidenziano la volontà di sospendere solo momentaneamente le decisioni in materia di produzione energetica. La moratoria precedentemente stabilita, ma soprattutto l'espressa motivazione che sostiene la proposta di abrogazione dell'attuale normativa, non sembrano lasciare adito a dubbi. Una pausa di riflessione resa necessaria - si esplicita - «al fine di acquisire ulteriori evidenze scientifiche mediante il supporto dell'Agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza nucleare, tenendo conto dello sviluppo tecnologico in tale settore e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione Europea». Più chiaro di così. Un rinvio in attesa di tempi (politici, oltre che tecnologici) migliori.
È allo studio un progetto per creare il terzo polo autostradale italiano con una forte connotazione lombarda e, nella prima fase, pubblica. Nascerebbe intorno a una holding da creare ex novo. Battezziamola «Autonord» . È un piano in cinque fasi. In Autonord confluirebbero, in una prima fase, le partecipazioni degli enti pubblici, a partire dal 52%della Provincia di Milano e il 18%del Comune meneghino, nella Milano Serravalle, pezzo forte del nuovo polo. Ma gli apporti riguarderebbero anche le altre partecipazioni della Provincia (Pedemontana, Tangenziali Esterne, ecc.) oltre a uno stock di debiti compreso fra 150 e 200 milioni.
In una seconda fase sarebbe coinvolto il gruppo Intesa Sanpaolo. E su questo vi sarebbero stati già contatti ai massimi livelli tra i soggetti coinvolti nel progetto, in particolare il presidente della Provincia, Guido Podestà, e l’amministratore delegato di Intesa, Corrado Passera. Intesa ha infatti svariati interessi nel sistema autostradale, sia con partecipazioni azionarie dirette (l’Autostrada Brescia-Padova di cui è da poco azionista di riferimento, la Pedemontana, Autostrade Lombarde) sia come finanziatrice dei lavori. Gli incroci sono innumerevoli, un guazzabuglio di partecipazioni che la nuova holding potrebbe razionalizzare (il grafico in pagina illustra solo i principali collegamenti).
E i soggetti coinvolti potrebbero essere anche altri, come la banca Ubi o il gruppo autostradale Gavio, anch’essi incastonati nel labirinto di partecipazioni, o altre banche finanziatrici del «sistema» . Dunque Autonord funzionerebbe da polo aggregante con due soci forti come Provincia di Milano e Intesa (per via dei loro apporti). In sostanza è su quest’asse che si decide la fattibilità del piano. Per ora il livello della discussione è molto «politico» ma tra i molti soggetti interessati qualche carteggio è già circolato.
E da qui filtra lo schema della fase tre: apertura del capitale di Autonord a nuovi investitori, anche stranieri, i fondi sovrani per esempio, che vogliano scommettere sulle infrastrutture di un’area tra le più ricche d’Europa. La partecipazione pubblica potrebbe essere ridotta sotto il 50%ma con patti parasociali che garantiscano il controllo sulle opere infrastrutturali. Il nodo dei patti parasociali, che essenzialmente dovrebbe riguardare Provincia Milano e Intesa, è un tema allo studio. Una volta riunite le partecipazioni in Autonord e raccolto denaro con l’ingresso di nuovo soci, scatta la fase quattro, fondamentale: portare a compimento le principali opere infrastrutturali avviate.
A quel punto non più è solo una questione d’interesse pubblico ma anche privato, cioè degli investitori che pretendono un ritorno (e che magari hanno in mano un’opzione put da far valere). È evidente che il progetto è concepito soprattutto per attirare nuove risorse, al di fuori del canale bancario, essenziali ai lavori infrastrutturali. Risorse che la Provincia dai bilanci asfittici non ha. La fase quattro si dovrebbe concludere con l’Expo del 2015, tempo limite per chiudere i lavori dei collegamenti stradali e autostradali già progettati per l’evento. Poi la fase cinque: la quotazione in Borsa di Autonord. È un progetto, si vedrà se e quanto realizzabile.
Gli sembrano «maledettamente meridionali», come i grattacieli di spazzatura urbana, anche il calcestruzzo di Pompei, vecchio o nuovo ma sempre infiltrato d’umidità, e i ponteggi e i puntelli che «ricordano più le emergenze di Beirut che la manutenzione quotidiana dei cantieri sempre vivi di Efeso o di Delo», e poi il cemento armato comunque ossidato, le tettoie di zinco, gli impacchettamenti informi e i crolli, «quelli di orsono sei mesi e quelli evidentemente in attesa, quelli incombenti», i crolli come cifra antropologica del sud del pianeta: «Meridione è il mondo dove le cose non si consumano, crollano; non cambiano, crollano; non si evolvono, crollano».
Dunque persino Deniz, il mio amico turco di Smirne, che è un magnifico pasticcio di storia conservata e di modernità sgangherata, dice con un sorriso complice: «Pompei è maledettamente meridionale, la vera capitale del Meridione». Legge, per esempio, nel primo e unico avviso bilingue ai visitatori: «Non permettete agli "stray dogs" contatto alcuno».
E quando una grossa randagia nera gli viene accanto, mi chiede: «Come faccio a dimostrare che è la cagna che si è avvicinata a me e non io alla cagna?». Qui i trenta cani randagi che avevano invaso l´archeologia sono stati adottati dalla Sovrintendenza. E dunque li vedi grassi e stanziali, promossi a cittadini onorari delle macerie, stesi al sole come vecchi servitori dello Stato in pensione, una sorta di entrismo rovesciato, «come se in piazza san Marco il comune smettesse di multare chi porta da mangiare ai piccioni e addirittura li nutrisse per farne arredo urbano "domato"».
Muri puntellati, pochi cartelli, ciceroni improvvisati, anacronistici graffiti sull’opus reticolatum, cani randagi ormai stanziali. Viaggio tra i resti di Pompei, in compagnia di un allibito studioso turco. Ecco come sono ridotti gli scavi romani più famosi al mondo.
Le bancarelle con guerrieri di gesso e madonne di plastica danno vita a una specie di suk.
Nell’anfiteatro restaurato col tufo al posto del marmo restano i segni di show e baccanali
Deniz Inan Gezmis ha lavorato a Beirut, a Damasco e poi ad Efeso in una squadra di grandi "scavatori", allievo di Ernest Will si è laureato alla Sorbonne ed è stato per anni il mio vicino di pianerottolo. Sempre in giro per il mondo, era in Italia e l’ho convinto a trascorrere un giorno a Pompei che lui considera capitale anche della storia antica e persino della psicanalisi: «L’archeologia qui è sempre stata solo un pretesto». E ricorda gli "antiquari" del Settecento, quelli che scrivevano in latino testi magnifici sulle finestre, sulle monete, sul sesso nell’antichità: «Pompei è importante per questo, non per le pietre che non sapete conservare». Gli antiquari napoletani del secolo dei Lumi erano odiati da Leopardi che li considerava nemici della poesia: «L’antiquaria non è storia, è il culto della morte. Leopardi non ce l’aveva con la storia ma con l’archeologia, con noi mummificatori».
Non so che cosa studia in questo periodo Deniz, sospetto che ormai l’antropologia lo appassioni di più dell’archeologia, vedo che fotografa «per il mio archivio privato» il "Sara ti amo", inciso sul rosso pompeiano della casa fullonica, la "A" di anarchia nella celletta del lupanare, "Ettore e Lilly" nella Domus di Proculus… Raccoglie e classifica sconcezze: «anche senza i crolli, basterebbero tutti questi sgorbi da metropolitana per far dimettere un sovrintendente o un ministro, ma per me Pompei è molto interessante proprio perché è il Far West dell´archeologia, la vita qui rientra da tutte le parti, anche se è vita degradata».
Ha appena visitato le ville palladiane, Venezia, Vicenza e le residenze del Piemonte, ma solo qui trova l’Italia pittoresca di cui ha letto tanto, di cui sa tanto, l’Italia che «fu tappa obbligata dell’educazione sentimentale europea, l’anima della classe dirigente di un tempo». Dunque è convinto che nelle campagne attorno a Pompei incontrerà le donne con la brocca in testa e i maschi con l´aria guappa ed è per questo che decidiamo di percorrere la statale e saltare l’autostrada. Vedo che si appassiona alla vista malinconica di quelle teorie di ville spettrali e di quelle larve di edifici aristocratici che si alternano ai soliti bruttissimi palazzi, miseria e nobiltà tra Portici e San Giorgio a Cremano, Ercolano, Torre del Greco, Torre Annunziata…, fino alla nuova Pompei che è certamente la più aggraziata: «è vero, hai l’illusione ottica di aver visto più cemento nella vecchia che nella nuova Pompei», e forse perché, nata nel 1928, non ha ancora avuto il tempo di invecchiare: «Quando comincia l’archeologia, finisce la storia».
E neppure indulgo troppo nel viaggio attraverso gli incontri con i suoi colleghi archeologi e con tutta la "pompeanità" degli ex sovrintendenti, dei sindacalisti, dei giornalisti specializzati, degli intellettuali nativisti, dei preti che hanno appunto costruito la nuova Pompei mariana, centrata sulla cattedrale e sul culto del beato Bartolo Longo contrapposto al culto di Priapo della vecchia Pompei pagana e ierofallica, dissipata e sibarita. Le bancarelle sono strepitosi teatri di conflitto e confronto tra la mentula e il rosario, l’etera e Maria, sacertà pagana e sacralità cristiana: ti rincorrono per strada, ti vendono di tutto, è il suk di madonne di plastica e di guerrieri di gesso. Faccio una piccola inchiesta volante sulla piazza del santuario e domando al venditore di statue quali miracoli ha fatto la Madonna di Pompei: «di preciso non lo so, ma ne ha fatti tanti» . Mi espongo un po’ al ridicolo e lo chiedo a una cassiera, a un pensionata, a una signora elegante che all’edicola compra Repubblica: nessuno lo sa, ma tutti ci credono. Credere in cose che non si conoscono con certezza è anche la sindrome dell’archeologo, lo stato epistemologico di chi vive accerchiato dai misteri del passato.
Eppure Pompei espone e attira anche studiosi, ci sono molte belle intelligenze come Antonio Varone, Matteo Orfini, Piero Guzzo, Umberto Pappalardo… Ci sono più intellettuali pompeiani che rovine pompeiane. Ed è una "second life" il racconto ingarbugliato dei commissariamenti, delle emergenze e delle inchieste giudiziarie, dalla bella intuizione di Veltroni che affidò Pompei a un "archeo-manager", una specie di primo cittadino della città antica, fino alle clientele, agli sprechi e alle violenze sul paesaggio del commissario Fiori «al quale si deve - mi dice l’appassionato sindacalista Biagio De Felice - il dissesto del territorio che forse ha determinato anche il crollo della casa dei gladiatori». Di sicuro Pompei è il posto dove tutti "scavano": il posto della vecchia talpa, direbbe Marx. E anche il posto di Freud. È dal racconto di Wilhelm Jensen su un bassorilievo pompeiano (la Gradiva) che Freud ricava la sua teoria sul delirio. Pompei è come la coscienza, ricca di vestigia sepolte.
Alle fine preferiamo bivaccare nelle rovine per un’intera giornata, tra le scolaresche che si inseguono a gavettoni d’acqua, le manate sui muri per tastare le pitture, l’incontinenza dei giovanotti che "si svuotano" contro le absidi. In tre giorni non ho incontrato mai la severità delle guardie, mi dicono che quotidianamente dovrebbero essercene trenta, ma non vedo una divisa autorevole da custode, qualcuno che rappresenti l’imperio del decoro e della decenza: «Efeso è piena di guardie in borghese che intervengono anche quando qualcuno, per riposarsi, fa solo il gesto di poggiare la pianta del piede sul muro alle sue spalle. E ci sono telecamere e squadre di tecnici sempre al lavoro. Ma trovo questo trambusto divertente. In Grecia, nella Turchia egea si lavora…».
Regalo a Deniz un vecchissimo numero di Topolino dove c’è la storia di Paperone che finanzia Pompeiropoli, un parco-giochi archeologico dove i paperi turisti indossano costumi romani, Nonna Papera riceve vestita alla maniera della matrona Eumachia, e Qui Quo Qua e Gastone, Paperino e Paperina…, tutti partecipano alla vita della città antica, cambiano i dollari in sesterzi, mangiano porco salato con il puzzolente garum e ogni pomeriggio c’è una finta esplosione del Vesuvio che erutta farina. Ebbene, «l’abbiamo fatto davvero» racconta Paolo Gramaglia, il proprietario del ristorante Il Presidente: «Sino alla scorso anno organizzavamo sugli scavi cene in costume e a tema. Con l’aiuto del professore Del Guadio, un insegnante in pensione, abbiamo riprodotto il menu degli antichi romani, in particolare i cibi afrodisiaci». Gli dico di un racconto di Théophile Gautier (Arria Marcella. Souvenir di Pompei) dove l’archeologo, a cui «le antiche vestigia procurano spesso buchi nello stomaco», ha paura di trovare nelle migliori osterie di Pompei «solo bistecche fossili e uova freschissime deposte prima della morte di Plinio». Il povero archeologo di Gautier cambierebbe mestiere se sapesse che lo scorso anno tra gli scavi si tenevano concerti, Riccardo Muti e i Synaulia con canti e danze dell’antica Roma, e poi esplosioni del Vesuvio simulate su megaschermi, musiche di Ennio Morricone. E l’incantevole anfiteatro, restaurato con il più economico tufo al posto dell’originale marmo, porta ancora i segni della baraccopoli per gli artisti dell’imbalsamazione…
All’ingresso del parco archeologico anche le guide smerciano se stesse con un fare losco da mercato nero, 70 euro senza ricevuta. Antonio, per esempio, si presenta così: «io ho un metodo molto accademico» forse perché ogni tanto intercala parole che non capisce, dice «apotropaico», e poi, rapsodicamente si lascia andare nel gorgo sussiegoso del latinorum. Una signora che gli fa concorrenza propone l’approccio «gossip divulgativo» forse perché insiste sulla simbologia fallica, sulla presunta lascivia delle donne pompeiane, sull’esplosione lavica del Vesuvio come punizione del peccato. Noi scegliamo Antonio che ci dice: «le pietre non sono documenti». L’archeologia per lui è fondata sulla chiacchiera, «quelle finestre sono arbitrarie» sentenzia, e poi: «chi l’ha detto che quel panettiere era davvero felix?». Le guide sono i più tipici personaggi di Pompei, interessati custodi della memoria che sopravvivono a tutti i sovrintendenti e ministri, sono come le mosche, la vita sulla morte.
È molto più facile governare una viva città caotica del Mediterraneo come Napoli o come Smirne che governare Pompei. Oggi, a disastro avvenuto, tutti i politici dicono che la politica deve fare un passo indietro, ma forse dovrebbe farne sette in avanti, consegnandosi alle grandi eccellenze. Diego Della Valle ha opportunamente proposto che ogni imprenditore campano adotti e finanzi una Domus con criteri privati. La sovrintendente Teresa Cinquantaquattro invoca un mecenate (e chi non lo vorrebbe, signora mia). La vecchia idea di Veltroni di nominare un sindaco-podestà della Pompei antica è ancora la migliore. Tutte le persone di buon senso penserebbero subito a Renzo Piano o, con più competenza, a Salvatore Settis. L’archeologa Anna Lucia D’Agata mi dice: «Il modello che in Italia funziona è quello del Max Planck di Firenze, ovviamente trasportato dalla ricerca scientifica all’archeologia: un duumvirato di eccellenze». Sarebbe magnifico: Salvatore Settis e Sergio Marchionne. Attenzione però: se lo diciamo al governo Berlusconi, Pompei finisce nelle mani del fauno ballerino Vittorio Sgarbi o di qualche semivip come Umberto Broccoli, quello che espose le auto dentro l’Ara Pacis. Preferiamo Mattia, la guida delle guide, il più bravo logografo: «Venghino signori venghino a fare l’amore a Pompei. Hic habitat felicitas».
Postilla
Passano gli anni, i Soprintendenti , i Ministri, ma Pompei continua a rimanere l’onfalos del nostro patrimonio culturale: nel bene e nel male.
Nel colorito articolo di Merlo, pur con alcune imprecisioni ed eccesso folkloristico (l’anfiteatro è un teatro, Renzo Piano non ha – che risulti – competenze utili al tema), si ripropone il problema di un sito in cui ancora evidenti sono i segnali di degrado.
A vari livelli: organizzativo e amministrativo, ma sociale anche e soprattutto politico nel senso più alto del termine.
Archiviata la devastante esperienza del commissariamento che ha contribuito a sprecare importanti risorse in attività effimere o addirittura sbagliate (il restauro del teatro), rimane – gigantesco – il problema di proporre un modello di gestione che superi le incertezze del presente.
Le competenze scientifiche ci sono (quelle della Soprintendenza e degli studiosi internazionali che a lungo hanno lavorato sul sito). E non solo quelle archeologiche, ma anche quelle relative all’elaborazione di programmi di manutenzione.
Si moltiplicano, ma in ordine sparso e con scarso coordinamento, le offerte di disponibilità (ma ben poco precisate) da parte di privati o di enti pubblici a vario livello: manca, drammaticamente, una visione di insieme in grado di pianificare sul medio lungo periodo il destino del sito archeologico più famoso del mondo.
L’aspettiamo con fiducia. Prima del prossimo crollo, possibilmente (m.p.g.)
Su Pompei, v. su eddyburg:
Pompei e i venditori di tappeti
Pompei o lo specchio della Medusa
L’Appia Antica svela un altro tesoro. L’unico esempio a Roma di architettura gotica cistercense. È la chiesa di San Nicola, con l’elegante campanile "a vela" che spicca al III miglio della Regina Viarum. Originale per la sua facciata asimmetrica, il monumento sorge di fronte al sepolcro di Cecilia Metella, svelando il cuore religioso di quel Castello Caetani che agli albori del XIV secolo Bonifacio VIII, il papa Caetani del primo giubileo, e il nipote cardinale Francesco, fecero edificare come baluardo della città.
Lasciato per secoli nell’oblio, è al centro da poco meno di un anno di un intervento di restauro avviato dalla Soprintendenza speciale ai beni archeologici con l’obiettivo di aprirlo al pubblico e di inserirlo entro un anno nel percorso di visita. Intanto i lavori iniziati con 70mila euro hanno registrato un primo traguardo: «Abbiamo riaperto la porta d’ingresso della chiesa, murata a fine 800», annuncia Rita Paris, responsabile dell’Appia Antica. Il colpo d’occhio regala una suggestione romantica: l’edificio non ha tetto, ma il restauro della struttura muraria ne restituisce l’idea complessiva, con la grande abside sullo sfondo, gli archi traversi che un tempo sostenevano la copertura in legno e le finestre ogivali impreziosite da cornici di marmo bianco.
Il problema maggiore è la mancanza di copertura: «Il primo intervento è stato di somma urgenza - dice la direttrice dei lavori Maria Grazia Filetici - Le intemperie hanno messo a serio rischio i delicati apparati decorativi». Per ultimare il recupero servono 700mila euro. «La perizia è pronta, stiamo aspettando il finanziamento - dice Paris – L’obiettivo è completare la messa in sicurezza del monumento, e musealizzarlo con pannelli didattici, oltre a studiare un’eventuale copertura». Potrà così iniziare la vita del monumento all’interno del Castrum Caetani, ancora in parte sacrificato dalle proprietà private: «L’intero perimetro originario del castello dovrebbe essere recuperato - osserva Paris - Così si offrirebbe al pubblico la percezione del recinto, l’unica testimonianza di Castrum a Roma». E il futuro di San Nicola potrebbe essere all´insegna della musica: cuore di un Festival dell’Appia Antica, con un progetto cui la Soprintendenza sta lavorando.
Postilla
Straordinario l’impegno dei funzionari della Soprintendenza Archeologica di Roma, veri - e unici - eredi di Cederna nella tutela della Regina Viarum. Ma i loro sforzi rischiano di essere depotenziati da quanto accade nell’area della via Appia immediatamente circostante. Tutto intorno alla chiesetta di San Nicola che si sta recuperando, il complesso del castrum Caetani, di grandissima importanza storica e monumentale, è ancora in larga parte – incredibilmente – di proprietà privata e – meno incredibilmente – luogo di abusi edilizi continuati nel tempo. Impossibile, fino a questo momento, per continui ricorsi, tutelare in maniera adeguata un’area di altissimo e riconosciuto valore archeologico.(m.p.g.)
L'annunciata sospensione dei programmi nucleari in Italia, in modo tale da «tener conto» di quanto emergerà a livello europeo nei prossimi mesi, è una brillante mossa populista del governo. Che il clima intorno alla politica nucleare dopo l'incidente giapponese fosse drammaticamente mutato nel nostro paese (e anche a livello internazionale) non era un mistero. È sufficiente considerare i recenti rumorosi successi elettorali dei Verdi tedeschi per averne sentore. Berlusconi, in crisi, deve presentarsi con qualcosa alle ormai imminenti elezioni. Mostrare un volto responsabile sulla politica energetica può in parte compensare le intemperanze sulla magistratura e sulla scuola pubblica.
Ma gli effetti della mossa rischiano di non fermarsi qui. Già la moratoria di un anno aveva cercato di sdrammatizzare la questione nucleare nel tentativo di mandare gli elettori al mare nei giorni del referendum, il 12 e 13 giugno. Oggi il rinvio a tempo indeterminato della ripresa del programma nucleare italiano prosegue in quella direzione, e c'è chi dichiara che questa mossa rende inutile il referendum, che quindi non potrebbe più essere celebrato insieme a quelli sull'acqua e sul legittimo impedimento.
Naturalmente questa decisione non spetta al governo né ai suoi tifosi parlamentari, perché nel nostro ordinamento costituzionale l'organo deputato alla decisione è l'Ufficio centrale per il referendum della Corte di Cassazione. Si tenga conto che ogni referendum è portatore di un effetto giuridico rafforzato, perché l'effetto abrogativo di un suo eventuale successo deve durare almeno cinque anni. Ben difficilmente quindi un provvedimento come questo, diverso dall'espressa e specifica abrogazione delle (molte) norme che saranno oggetto del giudizio del corpo elettorale, può essere sufficiente a persuadere i magistrati a revocarne l'indizione.
Questa decisione, che da un lato può essere salutata come una prima battaglia vinta dal fronte antinuclearista, d'altro canto può essere molto pericolosa per l'esito finale della guerra di liberazione dei beni comuni. Il referendum nucleare infatti verrà tacciato di inutilità e gli elettori potrebbero essere indotti a disertare le urne, rischiando di travolgere così il raggiungimento del quorum per l'acqua e per il legittimo impedimento (che credo stia molto a cuore al premier).
La strategia del silenzio, utilizzata fin qui in modo spietato in materia di acqua nonostante il milione e mezzo di firme raccolte, è più difficile per il nucleare dopo Fukushima. La catastrofe nucleare giapponese, giorno dopo giorno, dimostra come la presunta "sicurezza" del nucleare civile non sia che l'ennesimo delirio di onnipotenza dell'uomo moderno. In tutto il mondo sembrano perciò maturi i tempi per invertire definitivamente la rotta e il popolo italiano difficilmente potrà essere tenuto del tutto all'oscuro dell'opportunità di votare. Inoltre il governo trova politicamente conveniente polemizzare con i francesi che stanno sfilando ai nostri interessi di bottega il potenziale bottino energetico in Libia, sicché ora Tremonti maramaldeggia sul presunto «debito nucleare» francese, tentando di nascondere che proprio con i francesi di Edf la nostra Enel si stava apprestando a fare affari.
L'Ufficio centrale della Cassazione potrebbe far saltare il referendum e se anche ciò non avvenisse (cosa che auspichiamo) avrà comunque prodotto un alleggerimento della pressione, cosa molto pericolosa per chi deve affrontare lo scoglio ciclopico del quorum. Spetta al popolo vigilare per difendere la propria sovranità.
In nome dell’acqua pubblica, uno dei quesiti referendari propone l’abrogazione di un intero articolo di legge (il 23 bis del decreto legge 25 giugno 2008 n.112, più volte modificato). Inutile dire che (contrariamente a quanto vogliono farci credere i pasdaran del referendum) quell’articolo di legge non ha nulla a che fare con la proprietà della “risorsa acqua”, ma solo con le modalità di gestione del servizio idrico. È invece utile sottolineare che il 23 bis (come viene familiarmente chiamato dagli addetti ai lavori) riguarda anche altri servizi pubblici locali, tra cui i trasporti. L’eventuale abrogazione del 23 bis, dunque, riporterebbe il trasporto locale alle norme vigenti prima del giugno 2008. Qualcuno potrebbe fare spallucce e dire “poco male: dopotutto, il 23 bis non innovava granché”. Certo, il 23 bis non era la rivoluzione che alcuni speravano (e altri temevano); ma rispetto alla normativa precedente qualche pregio l’aveva. Vale la pena ricordare che - abrogato il 23 bis - tornerebbero a valere esclusivamente le norme del pasticciato e reticente Regolamento europeo CE/1370/2007 e dell’ormai lontano D.Lgs. 422 del 1997, nelle parti migliori purtroppo superato proprio dal Regolamento europeo. Non fosse altro, il 23 bis dice almeno con chiarezza che la modalità ordinaria di affidamento dei servizi è “la procedura competitiva ad evidenza pubblica” e pone una serie di vincoli agli affidamenti “in house”, cui invece il citato Regolamento comunitario lascia più o meno libero corso. Dunque, se il 23 bis verrà abrogato con il referendum del 12 giugno, liberi tutti di ricorrere al “fatto in casa”. Chissà come è contento il sindaco di Roma Alemanno del regalo che gli vogliono confezionare le vestali dell’acqua pubblica! Proprio nei giorni scorsi, in previsione di un esito abrogativo del referendum, il leader capitolino ha stretto accordi con i sindacati per confermare ad libitum il regime “in house” del trasporto pubblico romano (il fascino del “casereccio” a Roma è irresistibile) e ha poi accettato le dimissioni di quell’amministratore delegato che, nella bufera dei mesi scorsi, era stato nominato alla guida dell’Atac per riportare un po’ di ordine e di moralità in azienda. Purtroppo, il regalo non sarà solo per Alemanno: infatti è ormai esplicita e dichiarata la volontà di buona parte degli amministratori locali di non fare gare per diminuire il costo dei servizi locali, anche in caso di sprechi vistosi o gestioni dissennate: sono certi che le loro imprese non potranno fallire e che i contribuenti (e gli utenti) alla fine saranno chiamati a pagare. Sono anche convinti, evidentemente, che perderanno meno consensi così facendo piuttosto che ottenendo gestioni più sane e meno costose. Anche solo per dare loro finalmente torto, sarebbe bello che il quesito referendario venisse sonoramente bocciato.
Postilla
A parte il solito tono aggressivo e insolente che si commenta da solo, Boitani e Ponti ribadiscono il mantra e confermano i limiti (ormai davvero imbarazzanti) della loro professione. In primo luogo, ignorano quanto tutti fuorché gli economisti neoliberisti sanno da oltre mezzo secolo: separare la proprietà dalla gestione, particolarmente in ambiti come i servizi pubblici, ma anche in via generale, è operazione strutturalmente impossibile e quindi fondamentalmente ideologica. Berle e Means hanno mostrato come il management (avido di profitti e benefici privati) sia il vero proprietario. Oggi la nozione giuridica di bene comune delegittima interamente anche sul piano teorico ogni operazione di riduttivismo positivistico. Non ci basta che l’ acqua sia pubblica. Deve essere governata come un bene comune!
Inoltre i nostri irriducibili neoliberisti assumono una petizione di principio che non fa onore a una rivista avente qualche pretesa di scientificità. La “gara” aprendo al privato darebbe risultati più desiderabili della gestione in house! La gara per un monopolio naturale, in regime di asimmetria informativa grave, porta conseguenze disastrose per l’ interesse pubblico. Noi pensiamo esattamente il contrario ossia che la gestione pubblica abbia potenzialità che quella privata non ha. Sul piano teorico ciò risulta ovvio, perché la ricerca del profitto privato non puo’ dare soddisfazione a diritti e bisogni fondamentali quali acqua, trasporto, smaltimento rifiuti ecc. per l semplice fatto che la logica che deve governare questi settori non puo’ che essere ecologica, ossia di riproduzione e non di produzione. Poi sul piano concreto sarebbe bello comparare situazioni comparabili. Di esempi di malagestione privata ne abbiamo a bizzeffe. Rimando qui al bel libro di Alessandro Zardetto, H2Oro .
Ugo Mattei
Grazie, Presidente! Grazie, Silvio! Confesso di aver vacillato per un istante sotto la mole delle proteste, contestazioni, indignazioni, distinguo, recriminazioni, persino pianti e lacrime, e ingiurie, calunnie, prese in giro, dileggi e persino sputi in faccia suscitati dal mio articolo sul manifesto del 13 aprile. Per fortuna (attenzione, questa è una battuta), qualche giorno fa, sabato 16 aprile, ho potuto ascoltare il discorso pronunciato dal Presidente del Consiglio all'incontro con quest'altra bella invenzione politico-organizzativa, che è il movimento «Al servizio degli Italiani», e mi sono facilmente persuaso che le cose non stanno affatto come le avevo descritte e interpretate in quell'articolo: stanno molto peggio.
Cosa c'è infatti di nuovo in tale discorso anche rispetto al nostro più recente passato? C'è che Berlusconi ha sentito il bisogno, proprio in questo momento (sottolineo: proprio in questo momento), di pronunziare un'allocuzione così estesa e impegnativa, anche se condita inevitabilmente di qualche inaudita volgarità (del resto, more solito). Egli, evidentemente, nutre oggi la piena sicurezza di poterlo fare, e ci ha tenuto, more solito, a darlo a vedere. Ha parlato, cioè, da vincitore, o che si crede tale (per lui spesso sono la stessa cosa, e questo, inverosimilmente ma incontestabilmente, aumenta sempre la sua potenza di fuoco).
Ne è scaturito un vero e proprio, impegnativo, denso e suggestivo, programma di lavoro, che torna orgogliosamente alle origini, ricostruisce, come forse finora non era mai accaduto con tanta chiarezza, una propria genealogia politica (dal pentapartito anticomunista pre-'89 a Bettino Craxi, non a caso tutti liquidati a loro tempo dalla protervia eversiva di magistrati di sinistra, anticipatori di quelli che oggi perseguitano lui), si spinge con grande sicumera fino alla fine della legislatura, si propone di riempire i prossimi due anni di tutti gli strumenti atti a vincere di nuovo le elezioni, va ancora oltre, disegna a tutto tondo un ritratto dell'Italia da ricostruire.
Nella sostanza questo discorso, questo programma di lavoro si può legittimamente considerare come il vero, autentico Manifesto di una visione pre e para-dittatoriale dell'agire politico in Italia. Suggerirei, a chi ne ha i mezzi tecnici, di rivedere il filmato al rallentatore, isolando, e tornando più volte a rivedere, i momenti culminanti di tale discorso, che andrebbero uno per uno ritrasmessi e illustrati per la chiarezza interpretativa di ascoltatori ed elettori. Come in tutte le progettazioni politiche che si rispettino, la costruzione del nuovo è preceduta dalla decostruzione del vecchio: e qui la decostruzione è totale. Il forsennato odio per qualsiasi forma di «giudizio» (l'Unto del Signore non può essere giudicato) mette al centro del programma l'annichilimento della macchina giudiziaria italiana, l'avvilimento subalterno, quasi servile, dei pm, la separazione e insieme lo smembramento delle funzioni, la persecuzione, minacciata e gridata, dei giudici e dei pm che fanno il loro lavoro, la subalternità della magistratura al potere politico.
Ma poi tutto il resto è coerente con questo disegno di decostruzione totale. Pensate al virulento attacco alla scuola pubblica. Perché costui ce l'ha tanto con i «professori», nella grandissima maggioranza dei casi onesti funzionari dello Stato, che fanno un lavoro di enorme responsabilità, sottopagati e sottostimati? Ma perché - come io vado sostenendo da tempo, e mi ostino a ripetere in tutte le situazioni - la scuola pubblica italiana, con tutti i suoi difetti e tutte le sue povertà, è uno degli architravi portanti dello spirito di unità e civiltà nazionali, il luogo dove programmaticamente si cerca di formare coscienze non succubi e non subalterne. Per questo diventa così esplicitamente il secondo obiettivo da distruggere dopo la magistratura. L'attacco ai libri di testo fa il resto. E chi potrà impedire che, secondo una sciagurata consuetudine storica, che pensavamo seppellita nel nostro più fosco passato, si passi in breve dai libri di testo ai libri tout court, alle case editrici che li pubblicano, ai loro autori malfamati e perciò destinati a entrare in un nuovo indice a uso e consumo dell'Unto?
E poi: l'attacco al meccanismo faticoso e snervante del gioco parlamentare (se ne farebbe volentieri a meno), la denuncia accorata dell'impotenza del governo e in modo particolare, ovviamente, del suo Capo, l'inceppo intollerabile rappresentato dalla Coste costituzionale, l'eccesso di potere (almeno per ora) nelle mani del Presidente della Repubblica... Insomma: tutto da cambiare, tutto da riformare, tutto da decostruire e rendere impotente, affinché tutto sia più soggetto al suo potere. La prospettiva che ne scaturisce è quella di un cambiamento radicale di struttura e costituzione formale e materiale dello Stato democratico e repubblicano, in vista di un accentramento dei poteri nelle mani del Capo, cui farebbe da pendant illusorio una diffusione crescente delle libertà individuali nel paese, secondo il principio - cui il Capo del resto si è esemplarmente ispirato nel corso di tutta la sua carriera e che anche in questo caso ha eloquentemente perorato - per cui «è lecito tutto quello che ti fa comodo». Non parliamo in questo quadro di diritti del lavoro e di obblighi di solidarietà sociale, tramontati ovviamente insieme con tutto il resto. E non parliamo, ma solo per ora, delle questioni attinenti all'unità politico-istituzionale del paese, da decidere più avanti con i complici della Lega.
Facciamo ora un passo, anzi due indietro. La domanda che innanzi tutto ponevo nel mio precedente articolo era: è vero o non è vero che esiste in Italia una situazione di rischio mortale per la democrazia ad opera del progetto politico e, se si vuole, anche della megalomania (ma questa è l'associazione che sempre si verifica in casi del genere) dell'attuale Presidente del Consiglio? Questo è il punto, questo è il punto, questo è il punto. Non mi pare sconsiderato affermare che l'ultima uscita sua - quella di cui abbiamo testé parlato - formalizzi e per così dire istituzionalizzi i presupposti di tale analisi e di tale previsione. Certo i fattori della crisi sono anche altri: per esempio, la debolezza della prospettiva politica e della coesione ideale delle forze di centrosinistra, come mi rammenta Pierluigi Battista sul Corriere della sera. Ma se questo è vero, non è vero e anche più decisivo l'altro fattore - l'attacco alla divisione dei poteri, al sistema delle garanzie, all'indipendenza dell'ordine giudiziario e al «pubblico» in tutte le sue forme - di cui invece non si parla o si parla troppo poco e quasi di sfuggita?
Se anche questo è vero - e questo, sì, questo io penso che sia assolutamente vero - ne scaturiva la seconda domanda: come si affronta, e si supera, una crisi verticale della democrazia che avanza a colpi di infrangibili e inattaccabili, sorde e mute, maggioranze parlamentari? È qui che la mia proposta di istituire a partire dall'alto uno «stato di eccezione» volto a garantire il ritorno alla «normalità» democratica, contro l'attuale fase di degenerazione estrema del sistema, ha suscitato proteste e dissensi anche in campo amico. Sono corse castronerie bipartisan d'ogni tipo - dal golpe militare alla «dittatura democratica», e altro - mentre non era impossibile capire (lo hanno fatto con grande chiarezza Paolo Flores d'Arcais e Furio Colombo sul Fatto quotidiano e Piero Bevilacqua sul manifesto), che forzare intenzionalmente la natura della soluzione avrebbe significato costringere tutti ad uscire allo scoperto - come è accaduto, e come forse con una più piana e perbenistica dimostrazione non sarebbe accaduto.
Comunque, accantono la proposta ma rinnovo la domanda: come si affronta, prima che sia troppo tardi, l'inedita questione, per cui il precipitare di una democrazia verso un'(altrettanto inedita) forma di governo populistico-autoritario, avviene a colpi di maggioranza parlamentare? Ci si può accontentare del residuo, sempre più disperato gioco delle parti all'interno delle Camere? È possibile invece prevedere una consultazione preventiva e non necessariamente pre-elettorale di tutte le forze di opposizione - tutte le forze di opposizione - per una denuncia clamorosa di quanto sta accadendo? Si può tornare a ragionare distesamente delle prerogative in materia del Capo dello Stato (io, ad esempio, nella mia ignoranza giuridica, non penso affatto che l'art. 89 della Costituzione ponga delle condizioni ostative nei confronti dell'applicazione dell'art. 88, ma naturalmente bisognerebbe discutere)? Non sarebbe auspicabile una dichiarazione solenne da parte di chi può che l'indipendenza della magistratura e il sistema delle garanzie (Csm, Corte Costituzionale) non si toccano - anzi, non si possono toccare? E, infine, per tornare al linguaggio duro, non sarebbe meglio prevedere e favorire - e perciò ben governare - una crisi istituzionale invece di aspettare passivamente tutte le conseguenze negative striscianti? Insomma, scegliete voi, purché scegliate, e scegliate presto, perché non c'è più tempo.
Tutto ciò, probabilmente, non avrebbe l'urgenza che io sento e vedo, se nel frattempo, come sempre è accaduto in tutte le consimili situazioni del passato, non si fosse scatenato l'esercito dei cani da guardia del sistema, cui è demandato per professione il compito di far piazza pulita delle menti libere e dello spirito critico - spirito critico sempre commendevole anche quando sbaglia. La caccia è aperta. A chi? Ma all'untore, ovviamente, mentre nel frattempo da tutti i pori del sistema spira indisturbata la pestilenza. Non è anche questo un argomento degno d'esser trattato nel quadro dell'attuale degenerazione del costume etico-politico italiano? Giro la domanda ai politici perbene e a quei commentatori che non hanno rinunciato a vedere al di là del proprio naso e della propria (non in tutti i casi egualmente stimabile) buona educazione.
Due mesi prima della marcia su Roma, l´8 agosto 1922, Luigi Einaudi prese la penna e disse quel che andava detto nelle ultime ore della democrazia. Disse alcune cose semplici, profetiche: che «è più facile sperare di risolvere con mezzi rapidi ed energici un problema complesso, che risolverlo in effetto». Che l´idea di sostituire il politico con uomini provenienti dalle industrie, dalla «vita vissuta», è favola perniciosa.
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Acqua è una parola che ha occupato le cronache di queste settimane del marzo 2011. Il 22 marzo è stata celebrata la giornata mondiale dell'acqua; sabato 26 marzo ci sono state manifestazioni nazionali a sostegno del referendum, che si terrà il 12 giugno, contro la privatizzazione dell'acqua. Ho sostenuto, e voterò con convinzione "si" in questo referendum che propone l'abrogazione delle norme delle leggi 99 e 166 del 2009 (IV governo Berlusconi) che autorizzano, anzi impongono la partecipazione di capitali privati nelle operazioni di prelievo dalle fonti naturali (sorgenti, fiumi, acque sotterranee, per definizione pubbliche, della collettività, e gratuite) di circa 8 miliardi di metri cubi all'anno di acqua, di distribuzione dell'acqua nei milioni di rubinetti delle abitazioni italiane, di depurazione delle acque di fogne e di riscossione delle relative tariffe, un affare di oltre dieci miliardi di euro all'anno. Chi vuole abrogare le norme di legge esistenti chiede che tali ingenti somme siano riservate a imprese pubbliche che, ci si augura, operino "pro bono publico", nell'interesse pubblico, dei cittadini utenti e acquirenti dell'acqua, il bene essenziale per la vita.
Finora abbiamo parlato di affari, di spartirsi dei soldi, mentre "acqua" significa molte altre cose di cui meno si parla. Nelle chiese cattoliche domenica scorsa è stato letto un brano del Vangelo che racconta che Gesù, un giudeo, è andato a chiedere e ha ottenuto l'acqua da bere da una samaritana (fra l'altro di non illibati costumi, ma questo poco conta), appartenente ad un popolo, gli abitanti della Samaria, che i concittadini di Gesù odiavano con tutto il cuore. C'è, in questo breve racconto, la ricetta per la soluzione di un problema, quello della sete, che esisteva duemila anni fa e che esiste ancora di più oggi; la sete può essere alleviata soltanto con la solidarietà fra persone e regioni e popoli, che, anche se si odiano cordialmente e hanno interessi contrastanti, hanno a disposizione una comune fonte di acqua; penso ai popoli che accedono, ciascuno con i propri egoismi, alle acque dei fiumi internazionali come quelle del Giordano o del Tigri e Eufrate o del Mekong, eccetera. Conflitti per l'acqua ci sono anche in Europa, per le acque del Reno o del Danubio che passano attraverso molti paesi, ciascuno dei quali vuole una propria quota di acqua e inquina, per la sua parte, l'acqua che arriverà ai paesi a valle. E anche in Italia ci sono simili situazioni; non si può certo dire che i pugliesi odiano gli abitanti della Basilicata o della Campania o del Molise, ma ci sono conflitti per spartirsi le acque dei bacini idrografici che si estendono fra le rispettive regioni, ciascuna con la sua sete e i suoi diritti.
"Giornata dell'acqua" dovrebbe significare un impegno a considerare le risorse di acqua dolce, non certo infinite, come "bene comune" attraverso accordi che superino le divisioni politiche, religiose, ideologiche. Quanto siamo ancora lontani, quanto poco la parola solidarietà risuona nelle scuole, nelle aule parlamentari, nelle conferenze internazionali, quanto denaro sprecato: si pensi a quello speso per gli armamenti che portano la morte e che potrebbe essere investito in acquedotti, fognature, depuratori che portano la vita.
Ma la giornata mondiale dell'acqua suggerisce anche altre considerazioni su problemi che sono sotto i nostri occhi ogni giorno. Può essere autunno, inverno, primavera, estate, ma sempre più spesso le acque escono dagli argini dei fiumi, allagano le campagne, le abitazioni, le officine, distruggono ricchezze e vite umane; le acque impregnano la terra denudata dal diboscamento e scorrono via veloci, trascinano a valle frane che interrompono strade e distruggono ponti. Nessun governo e, devo dire, nessuna parte politica, pone al primo punto, fra le grandi riforme, le opere per la difesa del suolo, per la sistemazione del corso dei fiumi, per la pulizia del greto dei torrenti, per il rimboschimento e la difesa del verde esistente, l'applicazione dei divieti di edificazione nelle zone note e dichiarate ufficialmente a rischio idrogeologico.
Capisco bene che molte delle zone a rischio sono appetibili per la speculazione edilizia, ma governare dovrebbe pur comprendere il coraggio di dire no alle opere, private e pubbliche, che trasformano l'acqua, da fonte di vita, a fonte di morte e di distruzione. Ho davanti agli occhi le facce disperate delle persone che, dopo una alluvione, con i piedi nel fango, si guardano intorno a cercare quanto resta del letto, del bancone, dei macchinari, in Basilicata come in Lombardia, nelle Marche come nel Veneto, in Sicilia come in Liguria, una dolorosa "Unità" dell'Italia a mollo. Chi sa che, prima del 200° anniversario dell'Unità, qualche governo non riesca ad inserire nei suoi programmi quello della difesa del suolo e del governo delle acque.
Questo articolo è stato inviato anche alla Gazzetta del Mezzogiorno
La crisi che investe il Casinò di Venezia, come per gli altri Casinò d’Italia, risente inevitabilmente della crisi economica globale dovuta alle scarse disponibilità e liquidità della clientela, ma anche ha fattori strettamente legati alla gestione, e all’incertezza sulle strategie future per un suo rilancio.
Per il Casinò di Venezia c’è da sottolineare che gli incassi sarebbero assai inferiori se non ci fosse una stabile e costante clientela cinese, ormai più di un terzo degli accessi quotidiani nelle sedi di Ca’ Noghera e Ca’ Vendramin. Un dato confortante ma decisamente preoccupante se per incanto questo tipo di clientela non ci fosse più.
Questo per dire che la situazione potrebbe essere persino peggiore di quella che constatiamo da un po’ di tempo a questa parte, e penso sia sbagliato in questa contingenza economica, uscirne solo con dei tagli o riducendo i costi del personale senza provocare una reazione sindacale che danneggerebbe pesantemente la già difficile situazione.
Al contrario serve un rilancio della casa da gioco, un rilancio che passa inevitabilmente per la nuova casa da gioco votata dal precedente consiglio comunale con la variante al Prg di Tessera, preceduta da una lunga e delicata intesa fra Comune, Regione e Save, ed è augurabile che l’attuale amministrazione la faccia propria per intero senza apportare modifiche sostanziali che ne allungherebbe enormemente i tempi di approvazione e di realizzazione, in attesa che la Regione si esprima per la definitiva ufficializzazione.
Deve essere chiaro che questo è un passaggio obbligato oltre che delicato strategicamente per mantenere una fonte di entrate fondamentali per il bilancio comunale e per tutti i servizi che da tale fonte ne deriva alla città nel suo insieme, tra l’altro in un contesto di pesanti tagli alla finanza pubblica da parte del governo agli enti locali, una ragione in più per fare presto senza stravolgimenti significativi che ne snaturino l’impianto e l’intesa faticosamente raggiunta a suo tempo.
Se nella malaugurata sorte il così denominato Quadrante di Tessera non dovesse trovare una condivisione nell’attuale maggioranza di Ca’ Farsetti al punto tale da stravolgerne l’impostazione originaria, non resterà che prendere in considerazione lo scioglimento del cda del Casinò spa e riportare la gestione nelle mani dirette del Comune, unico modo forse per ridurre i costi della gestione e della società.
Un’ipotesi che francamente non condivido ma che forse qualcosa farebbe risparmiare, del resto non tutti i Casinò sono gestiti da spa. Il nodo perciò è ancora una volta politico e politicamente va affrontato e possibilmente risolto
Ricordiamo che cos’è “Quadrante Venezia”, riprendendo alcuni brani dall’eddytoriale 137 su Tessera City (altra denominazione per Quadrante Venezia).
«È una vecchia idea di Gianni De Michelis, attivissimo colonnello di Benito Craxi, avanzata alla fine degli anni 80 nel quadro della proposta di realizzare a Venezia l’Expo 200. Questa proposta allora fu bocciata dai parlamenti europeo e italiano, che raccolsero l’allarme partito da Venezia. Oggi il progetto dell’insediamento sul margine della Laguna è stato ripreso e portato alla vittoria dalla coppia bipartisan Massimo Cacciari (sindaco di centrosinistra della città) e Giancarlo Galan (presidente di centrodestra della Regione). […]
«La vicenda di Tessera City è esemplare. Essa testimonia l’arroganza e la presunzione d’impunità dei suoi protagonisti, e il disprezzo che i governanti dimostrano per la legalità. È una vicenda complessa, ma l’essenziale si comprende anche attraverso una rapida sintesi. Nel 2004 il comune di Venezia approvò una variante che raddoppiava i volumi già previsti dal vigente PRG per la realizzazione di uno stadio e numerosi annessi (commercio, ricreazione, ricettività, uffici ecc.) accanto all’aeroporto Marco Polo, a Tessera. Passarono gli anni: la Regione non approvò (come avrebbe dovuto entro tempi brevi), e il comune non sollecitò (come per suo conto sarebbe stato obbligato a fare). Nel frattempo si completavano transazioni immobiliari nelle aree circostanti, dove si comprava a prezzi agricoli. A un certo punto il maggiore proprietari (la Save s.p.a, che gestisce l’aeroporto), cui si accodò subito la società di proprietà comunale (ma il sindaco ha recentemente proposto di vole vendere parte consistente delle azioni a privati) che gestisce il casinò, presentarono alla Regione una ulteriore “osservazione” alla variante del 2004. Avvennero incontri pubblici tra i rappresentanti delle due società, il sindaco Cacciari e il presidente Galan, nei quali questi ultimi dichiararono trionfalmente di condividere il piano presentato dalle società.
«Nel 2009 (cinque anni dopo!) la Regione restituisce la variante del 2004 al Comune e gli dice: te l’approvo, se tu accetti formalmente la nuova soluzione delle società. Una procedura mai vista: una osservazione presentata da enti d’interesse privato (perché tale è anche il casinò, benché oggi la proprietà sia ancora del comune) anni dopo l’approvazione della variante, che è fatta propria dai portatori d’interessi pubblici. Eppure si tratta di una modifica non marginale (si tratta del quadruplicamento della cubatura iniziale del Prg, e del raddoppio di quella della Variante), e una modifica non nell’interesse pubblico (i promotori dichiarano ufficialmente che la modifica serve perché “bisogna produrre risorse”), apportati a un piano con forzando le procedure di garanzia previste dalle leggi vigenti.
«Tutto questo per collocare oltre un milione di metri cubi sul margine della Laguna, in una delle aree a più alto rischio idraulico dell’intero Veneto. Un mega-affare senza nessuna relazione con qualsiasi analisi dei fabbisogni locali. Una logica meramente affaristica: una gigantesca estensione della prassi di molti comuni di vendere pezzi di territorio per fare cassa, svolgendo il ruolo di apripista per gli interessi privati. Il sindaco-filosofo dichiara (vedi il Gazzettino del 16 gennaio) “è il giorno più bello della mia vita”. Anche per i proprietari delle azioni della società che gestisce il casinò: il loro valore è aumentato in poche ore del 20%.»
Nonostante qualche iniziale distinguo la giunta attuale (sindaco Orsoni, assessore all’urbanistica Micelli) sembra determinata a dfendere quel progetto, con argomentazioni deliranti e nel quadro di una più generale cementificazione, presentata come occasione per attrarre investimenti dall’Oriente!. Ne riparleremo.
La Destra italiana è così. Mentre l'Italia è divorata da una crisi dura e incalzante su questioni drammatiche, il Parlamento si occupa delle leggi per B. In Sardegna il sistema produttivo è alla deriva e la miseria si vede dappertutto, ma molte energie sono spese per smantellare il Piano paesaggistico, una conquista per cui va alla Regione un plauso di organismi internazionali.
Lo schieramento di Berlusconi in Sardegna (non di Cappellacci: di Berlusconi) aveva annunciato in campagna elettorale, con toni estremisti e qualunquisti, l'intendimento di cancellare le principali disposizioni di tutela del PPR, e nella foga anche i più moderati (come l'ex ministro Beppe Pisanu) avevano usato parole forti contro le scelte del governo di Renato Soru. Nel proseguo, annunciata dalle dichiarazioni programmatiche del nuovo presidente, la demolizione del sistema di salvaguardia del PPR è stata descritta con cenni confusi, stile Cetto Laqualunque. Il Piano casa ha poi posto le premesse per dare un primo colpo, in un paio di articoli appositamente dedicati alla revisione dello strumento (norme davvero intruse, come si dice). Un disegno di legge correttivo del Piano casa (fortunatamente bocciato) conteneva la prova di un sospetto fondato: per modificare il PPR si immaginano scorciatoie e espedienti per dare risposte rapide e con azzardi come quello di resuscitare lottizzazioni abrogate dal PPR, con effetti terribili nelle aree di maggiore pregio.
Poi, secondo il copione, è iniziata la commedia, la solita: nello sfondo parole che fanno immaginare un esito nell'interesse di tutti avendo in mente l'obiettivo di produrre vantaggi per una parte. Così è stato dato il titolo ammiccante “Sardegna nuove idee” a una serie di iniziative propagandistiche con l' immancabile slogan “partecipazione e condivisione”. Facilitatori di parte all'opera e il bisogno di dare coperture all'azione (si è pure detto della partecipazione delle università sarde, mai confermata ma neppure smentita). “Diteci – sindaci dei comuni costieri – cosa volete cambiare nel punitivo PPR di Soru”. Ecco il metodo liquido, il governo regionale attende la lista delle richieste dalla base per fare risultare una massa di dissenso su cui fare leva. Un modo rozzo e demagogico: il governo non dice la sua idea di riforma in modo articolato e lascia ampi margini di ambiguità a partire dal solito concetto della Regione di Soru prevaricatrice di interessi locali.
Da una parte si pensa di mettere in moto il Piano casa – per le urgenze – e si capisce che la strada è in salita (1). Dall'altra si pensa di fare la variante, ma anche questa strada è in salita (2).
La salita 1 incontra ostacoli come la sentenza del CdS (Tuvixeddu) e una recente ordinanza dei giudici amministrativi (sulla applicazione del Piano casa in fascia costiera di Costa Smeralda) che spiegano che il PPR è solido tanto più a fronte di disposizioni regionali inammissibili (e forse incostituzionali) verso uno strumento che deriva da una legge statale e copianificato con il Ministero dei BBCC.
La salita 2 prevede il procedimento ordinario di variante al PPR che appunto si vorrebbe sgravato dalle faticose incombenze, come la ineliminabile azione di copianificazione con gli organi del Ministero BBCC, e della partecipazione delle associazioni ambientaliste, tutto previsto dal Codice Urbani. Un percorso obbligatorio nel quale si dovrebbe spiegare con argomenti scientifici la ambita cancellazione di vincoli a tutela di beni paesaggistici come la fascia costiera accuratamente definita/motivata nei documenti del PPR. Le aree più vicine al mare sono il luogo della contesa di sempre, specie l'ambito dei 300 metri, vera ossessione dei palazzinari che fanno i conti sugli investimenti in questa straordinaria ubicazione.
Ci proveranno con ogni mezzo e con chissà quante sbandate e al di là del buon senso. Il risultato, temo, non proverrà dal dibattito politico, dal confronto pure aspro su differenti idee di governo del territorio. Sarà una contesa tutta nel versante giuridico per via di forzature alle leggi, di disinvolte procedure piegate alle necessità di pochi. E' evidente che sempre più spesso gli scontri sui temi delicati arrivano nelle aule dei tribunali. La linea del governo regionale sardo potrebbe essere – in accordo con la linea romana – quella di andare allo scontro oltre le leggi. Il progetto berlusconiano che fa strame della legalità è ormai un dato acquisito.
Sulle mura di Milano è ancora fresca la colla dei manifesti che attaccano i giudici come terroristi dando voce alle irresponsabili piazzate di un capoparte populista: e oggi è sempre lo stesso capoparte che si lancia in un nuovo attacco a testa bassa, questa volta contro la scuola pubblica. Si tratta di attacchi eversivi. Nel senso proprio del termine, diretti cioè a distruggere le istituzioni statali. Non è per caso se si è passati dai giudici delle Procure alla scuola pubblica. Sono i luoghi dove per definizione tutti i cittadini sono o dovrebbero essere posti in condizioni di uguaglianza nel godimento di diritti fondamentali. Se non lo sono, questo accade per strozzature sociali a monte che i padri costituenti della Repubblica ebbero ben presenti e indicarono come ostacoli da rimuovere. Oppure accade per strozzature a valle, perché le risorse disponibili sono scarse, perché si taglia il personale che dovrebbe garantire il funzionamento delle istituzioni pubbliche più delicate. Sappiamo molto bene come, riducendo mezzi e persone, chi manovra le finanze statali possa uccidere le reti istituzionali della vita associata: lo vediamo tutti i giorni sotto i nostri occhi.
Non è difficile però comprendere le ragioni dell´odierno attacco contro la scuola pubblica. Vediamole, premettendo che l´accusa alla scuola pubblica di essere un luogo di indottrinamento ideologico da parte della sinistra è una tesi indimostrabile e speciosa. Ma è probabile che l´attacco del premier sia stato ispirato dalla scoperta fatta dai 19 deputati del Pdl guidati dall´onorevole Gabriella Carlucci che nei manuali di storia c´è chi "getta fango su Berlusconi", da cui la richiesta di una commissione d´indagine. Se tutto il problema si riduce a questo, si faccia pure l´indagine: ma non certo per sostituire i manuali oggi scelti autonomamente dagli organi scolastici competenti con la lettura obbligatoria dell´autobiografia del premier. La scuola pubblica è tale proprio perché è il luogo della serietà e della libertà dell´apprendimento, cioè l´esatto contrario dell´indottrinamento passivo. La scuola pubblica come palestra di formazione non può che essere luogo di responsabile libertà del docente e dell´impegno serio e assiduo dei discenti, mentre allo Stato deve garantire quel principio liberale del premiare i capaci e meritevoli tra i docenti e tra i discenti. Su questi e non su altri fondamenti è nata la scuola che, dai tempi di Napoleone, si definisce "pubblica" per distinguerla da quella "privata".
C´è però una ragione più generale alla radice di questa polemica: l´avversione contro tutto ciò che è pubblico, dall´ordinamento istituzionale del paese ai valori della carta costituzionale che lo tengono unito. È questo che suscita la reazione dell´uomo che sta risucchiando nei gorghi del suo privato tutto ciò che tocca. Quello che vediamo è la versione italica di un conflitto profondo e sostanziale tra la privatizzazione capitalistica delle risorse pubbliche e i fondamenti stessi della democrazia. In un progetto che tende allo svuotamento della sostanza democratica e costituzionale del paese la scuola non è un obbiettivo secondario. Come ha ricordato il presidente Napolitano, è alla scuola e all´istruzione pubblica che spetta un compito fondamentale: «Diffondere tra le nuove generazioni una più approfondita conoscenza dei diritti e dei doveri che da più di mezzo secolo la Costituzione repubblicana garantisce e indica a tutti i cittadini». Un compito importante e delicato : è stato ancora Napolitano a sottolineare quanto ne dipenda la crescita del paese nel contesto del sistema e dei valori dell´Europa unita. Ecco perché non bisogna stancarsi di difendere i diritti alla scuola dall´attacco dei privatizzatori; ed ecco perché agli studenti bisogna chiedere che non si stufino di difendere la scuola pubblica dagli attacchi di chi avrebbe tante ragioni per dichiarare fallimento e ritirarsi da una scena politica dove ha portato solo divisione e scandali.
Secondo la nostra Costituzione, nessun atto del Presidente della repubblica è valido se non viene controfirmato dal Governo, dunque anche il decreto di scioglimento delle Camere (articoli 89 e 88). Ciò non comporta però che il governo possa essere considerato a pieno titolo contitolare del potere di scioglimento. La controfirma, di per sé, individua solo il modo ordinario di esercizio dei poteri presidenziali, nessuno escluso. Non indica invece il ruolo che in concreto possono esercitare i soggetti coinvolti. Dunque, come ha ammesso la stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 200 del 2006, è necessario distinguere gli atti del Presidente secondo criteri sostanziali. A volte gli atti sono solo formalmente presidenziali, ma sostanzialmente di altri organi dello Stato, del governo in particolare. Si pensi ai decreti legge ove la firma del Capo dello Stato non comporta certamente una sua partecipazione diretta al merito dell'atto, bensì è apposta solo a garanzia e controllo dell'attività dell'esecutivo. In altri casi le parti s'invertono e al governo in sede di controfirma spetta solo certificare la validità dell'atto senza che esso possa entrare nel merito della scelta presidenziale (com'è ad esempio nel caso della nomina dei giudici costituzionali). Vi è, infine, una terza categoria di atti presidenziali: quelli in cui la decisione assunta dal Capo dello Stato è espressione di un concorso di volontà. Così la nomina del governo ovvero lo scioglimento anticipato delle Camere.
Se questo è il quadro "sistematico", c'è da dire che appare mal formulata la domanda troppo secca: può il Capo dello Stato sciogliere le Camere contro la volontà del governo? Essa tende a non considerare la complessità costituzionale della scelta di interrompere il corso della legislatura, che non può dipendere né dal volere assoluto del Presidente, né può essere impedita in ogni caso dal potere di veto del governo. Alcuni scioglimenti delle Camere, in passato, hanno provocato vivaci discussioni politiche, ma è vero che sino ad ora essi sono sempre stati concordati con i governi in carica, perlopiù dimissionari. Dirò di più: anche oggi, la previsione di uno scioglimento contro il governo in carica appare difficilmente configurabile. Dinanzi al rifiuto del governo di controfirmare il decreto di scioglimento la crisi politica precipiterebbe e la strada di sollevare un conflitto tra poteri di fronte alla Corte costituzionale non sarebbe, almeno nell'immediato, risolutiva.
Come fare allora per impedire che il governo utilizzi la controfirma come potere di veto assoluto? La risposta è semplice nella sua formulazione, ben più complessa per la sua realizzazione. Si tratta di determinare le condizioni politiche e istituzionali che rendono necessaria la decisione di sciogliere le Camere.
Quando Napolitano denuncia «l'asprezza raggiunta dai contrasti istituzionali e politici», invitando tutte le parti a uno sforzo di contenimento delle attuali tensioni, «in assenza del quale sarebbe a rischio la stessa continuità della legislatura, egli fotografa una situazione di crisi estrema, che non può proseguire». La stessa convocazione di tutti i capigruppo, effettuata senza l'apertura di una crisi di governo, e dunque non per consultazioni formali, esprime il forte disagio del Capo dello Stato. Se l'attuale situazione dovesse proseguire e i rischi di paralisi istituzionale permanere, si può prevedere che Napolitano possa utilizzare anche in modo più incisivo i propri poteri di stimolo per richiamare alla responsabilità i soggetti politici, non limitandosi più ai soli comunicati, lettere o esternazioni informali, egli potrebbe rivolgersi anche in modo più diretto al Parlamento. Tutto ciò, però, non porterà allo scioglimento delle Camere se il Presidente continuerà a rimanere solo a manifestare l'insopportabilità della crisi istituzionale e politica.
Non dico che non sia sostenuto dalle esangui opposizioni parlamentari (ci mancherebbe!), ma sono tutti gli altri soggetti che pure partecipano alla formazione della volontà presidenziale ad essere assenti. Lo scioglimento è un atto complesso, in cui non concorrono solo due volontà, quella del Capo dello Stato e quella del governo (come pure ritiene parte dei costituzionalisti), bensì vi partecipano un insieme di soggetti, dai presidenti delle Camere (i quali devono essere consultati), ai gruppi parlamentari (decisivi nel rapporto con il governo e la maggioranza), ai singoli parlamentari (i quali rappresentano ciascuno l'intera nazione ed esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato). Credo che non possa ritenersi estranea neppure la società civile (il popolo, che esercita la sovranità nelle forme e nei limiti della Costituzione). A questi spetta creare le condizioni per superare l'attuale fase di emergenza costituzionale. Entro una dialettica anche aspra, in cui si garantisca il rispetto dei ruoli di ciascuno: delle istituzioni, delle maggioranze e delle opposizioni, delle singole rappresentanze. Ma che almeno si mostri una chiara comprensione delle ragioni che sostengono le fondate preoccupazioni presidenziali.
Sino a che il Capo dello Stato sarà lasciato solo a salvaguardia della legalità costituzionale, a combattere contro le ormai insopportabili tensioni che mettono a rischio non solo l'attuale legislatura, ma la stabilità costituzionale nel suo complesso, non credo possano auspicarsi forzature istituzionali. Quando - e se - le parti si invertiranno, e il governo dovesse trovarsi isolato a difesa di una impossibile continuità della legislatura, allora si riaprirà la questione dello scioglimento e potrà farsi valere la pretesa che nessuno è titolare di un potere di veto, e quella maledetta controfirma dovrà essere apposta oppure un altro governo si formerà.
Massimo D'Alema ha «auspicato» che il Presidente utilizzasse il potere di scioglimento, meglio sarebbe «attivarsi» affinché ciò possa avvenire. Nessuno è senza colpa se la democrazia italiana deperisce. Un appello ai «responsabili» di ogni partito, a ogni parlamentare, a ciascuno di noi deve essere rivolto: è il momento di far sentire la propria voce. Un Presidente ascolta, l'altro ascolterà.
La sentenza a carico dei dirigenti della ThyssenKrupp è molto dura. Su un punto fondamentale, quello di giudicare gli investimenti in tema di sicurezza consapevolmente non effettuati come prova di omicidio volontario da parte dell´amministratore delegato, la Corte ha accolto in pieno le richieste dell´accusa.
Come si aspettavano familiari e compagni delle vittime. Condannando la massima autorità dell´impresa al massimo della pena proposta dai Pm, sedici anni, e cinque dirigenti a pene che vanno da dieci anni – un anno in più rispetto alla richiesta – a tredici e mezzo, la sentenza riafferma con estrema forza un principio cruciale: di lavoro non si può, non si deve morire. Per cui ogni dirigente o imprenditore che non si occupa e preoccupa a sufficienza della sicurezza dei dipendenti sui luoghi di lavoro incorre in una colpa grave. Anche quando non abbia contribuito direttamente all´incidente che ha ucciso qualcuno, ma in qualche modo abbia accettato che esso succedesse come effetto eventuale del suo comportamento. Come decidere di non predisporre adeguate misure di sicurezza in un impianto che di lì a qualche tempo si dovrebbe chiudere o trasferire, perché in fondo esse sarebbero, nella ratio della contabilità aziendale cui un dirigente ritiene di doversi attenere, un inutile spreco. Anche se, per evitare quello spreco, finisce che ci vanno di mezzo vite umane.
La contabilità fondata sull´idea del "non è mai successo, perché dovrebbe accadere adesso?" è molto diffusa nelle imprese di ogni dimensione. Essa contribuisce a provocare oltre mille morti l´anno, decine di migliaia di infortuni invalidanti, nonché gran numero di malattie professionali che rattristano e accorciano la vita. La sentenza ThyssenKrupp è un grosso aiuto per combattere tale cultura. Essa fa severamente presente a dirigenti e imprenditori che se quello che non sarebbe dovuto succedere poi accade davvero, perché loro non hanno preso le dovute misure precauzionali, d´ora innanzi rischiano molto.
Una pena di tal gravità non era mai stata avanzata nelle numerose cause derivanti da incidenti sul lavoro che si sono susseguite negli scorsi decenni. Poiché gravissime erano le colpe degli imputati, si può essere soddisfatti perché giustizia è stata fatta, anche se essa non riduce né l´entità della tragedia né il dolore delle famiglie. Ma v´è un aspetto di questa sentenza che va al di là del senso di restituzione di qualcosa che era dovuto alle vittime, ai loro compagni, ai familiari. Negli ultimi decenni il mondo del lavoro ha pagato un prezzo elevatissimo in termini di compressione dei salari, peggioramento delle condizioni di lavoro, erosione dei diritti acquisiti, oltre che di vittime di incidenti e malattie professionali che la legge sulla sicurezza nei posti di lavoro dovrebbe limitare, se negli ultimi anni non fosse stata indebolita in vari modi dal legislatore. Questa sentenza – che arriva una volta, ma può essere una volta determinante; e verte su un caso specifico, che può però diventare generale – afferma che tutto ciò non è giusto. E che tutti i suoi elementi si tengono, per cui se si attenta a uno si compromettono anche gli altri. Da ultimo è il lavoro a creare benessere per tutti. E´ la base su cui si regge sia la ricchezza privata che quella pubblica. Merita un ampio riconoscimento sociale – lo dice perfino la Costituzione. Perciò né il lavoro né il lavoratore dovrebbero essere trattati come una merce che si usa se serve, si butta da parte se non serve, si cerca di pagare il meno possibile, e non importa poi troppo se chi presta il lavoro ci rimette la vita perché l´impresa, in nome della globalizzazione e del mondo che è cambiato, deve anzitutto far quadrare il bilancio. Dopo la sentenza di Torino, un simile modo di ragionare dovrebbe ridurre un po´ la sua iniqua presa, nel sistema economico non meno che in politica.
Estratto da: Comune di Milano, PII Cerba, Relazione Tecnica Illustrativa, gennaio 2011, pp. 14-15)
Sulla base del Piano Regolatore Generale del Comune di Milano vigente (approvato il 26 febbraio 1980 e successive modifiche) l’ambito considerato risultava compreso in parte in Zona Omogenea F/E – aree a destinazione d’uso SI_VI con attività agricole adiacenti alla Zona di espansione residenziale C.14.11, la via Ripamonti, la Zona Omogenea B2 14.9 e le rogge Cascina Ambrosiana e Barbara, con destinazione funzionale VA – aree comprese nei parchi pubblici e territoriali, destinate alla formazione di parchi pubblici (art. 41 delle NTA) e in esse è consentito l’esercizio dell’attività agricola, sempreché non contrasti con specifici usi pubblici del piano particolareggiato del Parco per le singole aree. Le aree rimanenti ricadono in parte in Zona omogenea B1 (aree a ridosso delle Zone di espansione residenziale C 14.11 e C 14.9) con destinazione funzionale a VC – zone per spazi pubblici a parco, per il gioco e lo sport a livello comunale, di cui rispettivamente agli artt. 17 (comma 1.2), 19 e 38 delle medesime NTA. A conclusione sono riconoscibili le indicazioni grafiche di percorsi ciclopedonali lungo il fontanile Tua (dismesso) e la roggia Inferno (anche Cavo Danese).
La pubblicazione dell’Accordo di Programma ha prodotto l’efficacia dello stralcio a Piano di Cintura Urbana e poiché sono state introdotte nuove funzioni rispetto a quelle di cui all’allegato A del PTC del Parco Agricolo Sud Milano, la Giunta Regionale con delibera n. 9311 del 22 aprile 2009 ha approvato lo stralcio al parco di Cintura Urbana con effetto di Variante al PTC di Parco Sud Milano e di PRG.
La variante costituisce pertanto un adeguamento della strumentazione urbanistica sia di livello comunale che di livello sovracomunale e permette al soggetto giuridico di legittimare la comune volontà degli enti coinvolti nell’Accordo di Programma al raggiungimento dei seguenti obiettivi:
- migliorare l’offerta sanitaria e lo sviluppo dell’attività di ricerca;
- aumentare l’efficienza/riduzione dei costi grazie alla condivisione di servizi clinici, tecnologici, di supporto alla ricerca;
- creare un programma di formazione universitaria su modelli già diffusi all’estero;
- beneficiare dell’interazione tra ricercatori attivi operanti all’interno di uno stesso centro con aree contigue con la possibilità di usufruire di una comune piattaforma tecnologica all’avanguardia e di confronto diretto tra casi clinici in aree terapeutiche diverse;
- migliorare l’interazione diretta con la ricerca, perseguendo protocolli di cura all’avanguardia;
- dare la possibilità di beneficiare di terapie innovative personalizzate secondo le caratteristiche genetiche.
[…] Pertanto la variante al PRG destina l’intera area a zona SI-H e cioè zona per attrezzature pubbliche di interesse generale di livello intercomunale di carattere ospedaliero.
Corriere della Sera ed. Milano, 16 aprile 2011
Via libera al Cerba: cantiere aperto entro l’estate
Ultimo atto in Comune, entro l’estate via ai lavori per il Cerba. La giunta ha approvato ieri il programma integrato di intervento del Polo della scienza e della salute che nascerà a sud della città. I cantieri per la realizzazione del Centro europeo di ricerca biomedica avanzata potrebbero partire già a luglio, al più tardi a settembre. «— e un progetto eccezionale per la città e per il sistema sanitario a livello nazionale— commenta l’assessore allo Sviluppo del Territorio, Carlo Masseroli— Tra l’altro è un progetto assolutamente bipartisan, anche perché il progettista scelto dal gruppo Ligresti è l’attuale capolista del Pd, Stefano Boeri» .
Il costo dell’intervento, che riguarda appunto un’area del costruttore Salvatore Ligresti, è di un miliardo e 226 milioni. L’area interessata, limitrofa all’Istituto Europeo di Oncologia, è di 620 mila metri quadrati, oltre la metà dei quali diventeranno un parco pubblico. Nel dettaglio il piano approvato prevede un minimo di 263 mila metri quadri per istituti clinici, di ricerca, laboratori di analisi, edifici universitari e di formazione professionale; un massimo di 7000 metri quadrati per attività commerciali e un massimo di 40 mila metri quadrati per residenze temporanee. Per quanto riguarda il Centro, sono previsti 45 mila ricoveri all’anno, 800 mila visite ambulatoriali, un accesso di 19 mila persone al giorno e 5 mila operatori, con la garanzia di nuovi posti di lavoro e di un indotto economico sulla città e non solo. Sul fronte ricerca, il Cerba ha l’ambizione di dare spazio a 500 scienziati.
Nota: tra le cose curiose di questo inopportuno office park suburbano a orientamento automobilistico, il numero dei posti macchina, 6.200, esattamente uno ogni mille metri quadrati di superficie complessiva; molto di quanto si poteva dire a proposito dell'inadeguatezza dell'operazione "bi-partisan" l'abbiamo scritto parecchio tempo fa; qui anche un' antologia di opinioni varie; scaricabile di seguito la carta con l'intera area e le destinazioni del PII (f.b.)
Molti hanno già provato l’ebbrezza di sciare in città, ma soltanto durante le vacanze di Natale, nel "villaggio" che il Comune da anni allestisce al Sempione. Ma d’ora in poi, si potrà cimentarsi con la discesa su materiale sintetico tutto l’anno. Estate compresa. E, magari, muovere proprio a Milano i primi passi con gli sci ai piedi. Perché Palazzo Marino vuole creare una struttura permanente dedicata agli sport invernali, che sfrutterà una pendenza naturale del Parco Lambro: un pendio che si trova vicino all’ingresso di via Feltre. È qui che nascerà un "villaggio" con tanto di scuola di sci aperta tutta la settimana e una baita in stile montano per il ristoro. Solo il primo punto, però, di un progetto più vasto per trasformare gli spazi verdi in «palestre a cielo aperte» dedicate a diversi sport: dalla mountain bike all’arrampicata.
È stata la giunta comunale di ieri ad approvare il bando di gara (che rimarrà aperto 45 giorni) che servirà a trovare l’associazione che si occuperà dell’allestimento della pista. Con i lavori per la costruzione che dovrebbero già partire nei prossimi mesi. Non prima, però, che la struttura abbia avuto tutte le autorizzazioni necessarie. Compresa quella paesaggistica. In tutto, verrà concesso l’utilizzo di uno spazio di circa 4mila metri quadrati perché venga attrezzato. Sulla pista si potrà sciare, scendere utilizzando lo snow board e anche speciali gommoni. Nelle linee di indirizzo del bando (che prevedono offerte al rialzo), non c’è un tempo preciso di concessione.
Il Comune, però, vuole rendere la struttura permanente e chi si offrirà di fare l’investimento (calcolato in più di 500mila euro), potrà avere lo spazio in affidamento fino a 19 anni. Tra i requisiti richiesti dall’amministrazione necessari anche per decretare «l’interesse pubblico» dell’iniziativa: il vincitore dovrà garantire corsi a prezzi agevolati per determinate categorie "sociali", organizzare attività con le scuole e campus estivi. «Questo è anche un modo per far vivere di più i parchi - dice l’assessore allo Sport uscente Alan Rizzi - e garantire un presidio del territorio».
Il secondo passo per attrezzare i parchi con strutture sportive, sarà trasformare la montagnetta di San Siro. Il Comune sta cercando infatti lo sponsor per creare una pista dedicata alla mountain bike. E si spera di riuscire a trovarlo nelle prossime settimane, prima della fine del mandato.
«In progetto - spiega ancora Rizzi - c’è anche un percorso estivo per i runner e, d’inverno, potrebbero essere organizzati anche sul Monte Stella sport invernali».
probabilmente le opposizioni più decise a questo genere di cretinata (perché di cretinata allo stato puro si tratta) verranno da chi ha una idea poetica e un po’ veterorurale del verde, del bel tempo andato delle cascine e compagnia bella. Per quanto mi riguarda, sono assolutamente convinto che la città debba fare la città, con le mille luci e tutto il resto, lasciando certe atmosfere alla campagna, quella vera intendo, che a Milano comincia a malapena nella seconda cintura metropolitana. Ma mantenendo al proprio interno tutti gli elementi di qualità abitativa che da sempre ne fanno un grande elemento di attrazione non solo per speculare, ma anche per vivere: fra questi elementi di qualità c’è il verde dei parchi urbani, che come capisce qualunque idiota purché in buona fede sono altra cosa rispetto ai luna park e dintorni.
Per i parchi divertimenti ci sono tante localizzazioni che la postmodernità ci mette a disposizione, ad esempio le superfici dismesse, magari nell’arco di tempo in cui si pensa a cosa farne e/o si aspettano gli investimenti dei soliti salvatori della patria. Così invece dei cantieri eterni, inaugurati con taglio di nastro e poi lasciati alle erbacce per lustri, ci sarebbero dei begli impianti stile Dubai per sciare d’estate o fare windsurf in mutande a Natale. Ma che questa roba debba stare sopra i pochi prati che rendono la vita degna di essere vissuta anche in periferia (e senza la seconda casa al mare o in montagna) proprio NO. In termini tecnici queste cose si chiamano cazzate. In termini politici speculazione e circoscrizione di incapace, ovvero trattare il cittadino elettore come una falena, attirata dalle luci e poi folgorata … strappandogli da sotto il sedere il poco che aveva. (f.b.)
Un ex assessore alle Infrastrutture della Regione Toscana che quindici giorni dopo aver lasciato l’incarico entra nel cda di un fondo pronto a investire nelle stesse infrastrutture. Un uomo che mentre siede nel consiglio di amministrazione è coordinatore del settore Infrastrutture del Pd. La storia di Riccardo Conti, esponente del Pd vicino a Massimo D’Alema, è emblematica delle polemiche che rischiano di spaccare il centrosinistra toscano. Oggetto: le grandi opere. Due in particolare: gli aeroporti (Firenze, ma anche Siena) e la famigerata autostrada Livorno-Civitavecchia. Da una parte il Pd, soprattutto la componente dalemiana, che sostiene le opere in singolare consonanza con il Pdl (il ministro alle Infrastrutture, Altero Matteoli). Dall’altra l’Idv e la sinistra che mostrano più di una cautela.
Cominciamo dall’aeroporto di Firenze (tra i soci il gruppo Benetton). Nessuno ha dubbi: la struttura attuale non è adeguata a una città con 8 milioni di turisti l’anno. Le ipotesi: la realizzazione di una pista parallela all’autostrada (200 milioni) oppure l’allungamento di quella attuale (60 milioni).
A chi, soprattutto a Firenze, si schiera per la costruzione del nuovo tracciato, rispondono i comuni vicini: la pista parallela “peserebbe” su di loro invadendo zone agricole di pregio. Il progetto è fortemente avversato dal Coordinamento dei Comitati della Piana di Prato, Firenze e Pistoia.
Ma il dibattito non è solo logistico. Imprenditori e politici giocano ruoli chiave. E il centrosinistra segue, appunto, due piste diverse. Le cronache cittadine registrano le prese di posizione a favore della nuova pista. Prima fra tutte quella del sindaco Matteo Renzi che vedrebbe l’aeroporto ampliarsi liberando aree da destinare magari allo stadio (altre polemiche). Ma tra gli alleati di Renzi spunta il toscanissimo ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli (Pdl).
I nodi, però, sono altri. L’Idv è perplessa. A cominciare da Anna Marson, assessore regionale all’Urbanistica, che sta suscitando malumori nel Pd toscano per le sue scelte anti-cemento: “La Regione ha approvato un documento che prevede entrambe le ipotesi. Ma per la pista parallela dobbiamo ancora valutare il rapporto con l’ambiente”. Marson racconta: “Vedo grandi manovre a livello nazionale per la nuova pista”. Quali? “Il ministero delle Infrastrutture ha presentato uno studio in cui l’aeroporto di Firenze improvvisamente diventa di interesse nazionale”, spiega l’assessore. Aggiunge: “Poi c’è l’Enac, che dovrebbe essere garante. Invece si è schierato per la seconda pista”. Il presidente Vito Riggio l’ha detto chiaramente: “Senza nuova pista l’aeroporto finirà in serie B”.
Qui la questione si allarga. Ampliare l’Amerigo Vespucci significherebbe mettere in sofferenza tre scali importanti nel raggio di 150 chilometri: Firenze, Bologna e Pisa. E infatti a Pisa non l’avevano presa bene perché l’aeroporto va a gonfie vele (4 milioni di passeggeri l’anno). Oggi il sindaco Marco Filippeschi pare più tranquillo: “La Regione ha stanziato 28 milioni per il trasporto veloce tra la stazione e l’aeroporto. Questo indica la scelta di puntare su Pisa. Con Firenze non dobbiamo essere concorrenti, ma alleati”. L’assessore Marson ricorda altri “dettagli”: “La pista parallela potrebbe porre problemi di sicurezza e di rumore nei paesi vicini”. Ancora: “Così si allontanerebbe l’aeroporto dalla Piana di Castello, aumentando il valore delle aree dove Salvatore Ligresti deve costruire (il re del mattone lombardo è anche socio dell’aeroporto, ndr)”.
Non basta. Marco Manneschi, consigliere regionale Idv, punta il dito sul Pd: “Il fondo di investimenti F2i vuole entrare nella società dello scalo fiorentino. È stato proprio l’ex assessore Riccardo Conti a comunicarlo. Ci colpisce che si ritrovi, in veste di manager, a voler comprare le infrastrutture di cui si occupava come amministratore”.
Ecco le due anime del centrosinistra. Conti è anche coordinatore del settore Infrastrutture del Pd. E soprattutto è stato uno degli sponsor della contestatissima autostrada Livorno-Civitavecchia (che dovrebbe essere realizzata dalla Sat, controllata da Benetton): “Certo che sono favorevole, è l’unica zona costiera d’Europa senza un’autostrada. Ma va fatta bene, deve essere ambientalizzata, non un troiaio”, spiega oggi Conti. Una grande opera che, di nuovo, ha sollevato questioni di opportunità sul doppio ruolo (prima politico, poi manageriale) di un esponente Pd: Antonio Bargone è stato sottosegretario proprio ai Lavori Pubblici e oggi si ritrova presidente della società che realizzerà l’autostrada.
Sempre il Pd vicino a D’Alema. Conti non si scompone: “Sono amico di Massimo, è un peccato?”. E il passaggio dalla poltrona di assessore a quella di manager nelle infrastrutture? “Il nostro fondo è pubblico-privato e non ha intenti speculativi”. Ma chi l’ha indicata per la poltrona? “La fondazione Monte dei Paschi di Siena”.
La “banca rossa”, l’ultimo tassello dell’amore tra il centrosinistra e gli aeroporti toscani. Mps è tra i soci del fondo F2i. Non solo: è anche nello scalo di Siena (21 per cento) di cui sostiene l’ampliamento (avversato dagli ambientalisti, e non solo). Una storia finita in Procura: il presidente di Mps, Giuseppe Mussari, è sotto inchiesta per concorso morale in turbativa d’asta e falso in atto pubblico. Secondo i pm Mario Formisano e Francesca Firrau, la selezione del partner privato per l’adeguamento infrastrutturale dell’aeroporto di Ampugnano fu falsata.
Obiettivo niente scioperi. Mai
di Rocco Di Michele
Una guerra in cui non si fanno prigionieri. Quella dichiarata dalla Fiat contro i propri dipendenti non ha precedenti nella storia repubblicana di questo paese. Il doppio colpo portato ieri è da questo angolo visuale chiarissimo.
La mattina si è discusso un problema apparentemente minore: il «monte ore» di permessi sindacali di cui - in proporzione agli iscritti - godono i delegati di fabbrica alla Sata di Melfi, la Sevel in Val di Sangro e la Fma di Pratola Serra. La Fiat aveva disdettato qualche tempo fa gli accordi che andavano avanti da decenni. Ora si è capito perché. In cambio di un certo numero di ore di permesso annuo, ha preteso fosse applicata una «clausola di responsabilità» per cui i sindacati che avrebbero firmato si impegnavano a evitare scioperi e proteste - anche quelle spontanee che nascono sulle linee quando «la catena» va troppo veloce. Se ci saranno, scatteranno sanzioni contro le organizzazioni, che perderanno parte o tutti i permessi e l'agibilità sindacale.
Solo apparentemente questa versione della «clausola» sembra meno grave di quella infilata negli accordi per Pomigliano e Mirafiori. Lì, infatti, era previsto anche il licenziamento dei lavoratori che scioperavano. Qui «solo» la riduzione della libertà sindacale. In realtà, cambia poco: i delegati - fin qui eletti dai lavoratori, in futuro si vedrà - vengono posti in conflitto diretto (per banale «interesse personale» a lavorare qualche giorno in meno l'anno) con gli altri lavoratori. Se i secondi scioperano, i primi ci rimettono. E ovviamente la Fiom non ha firmato.
Questo delle sanzioni per il sindacato è un obiettivo condiviso da tutta Confindustria (ne avevano parlato nei giorni scorsi sia Giorgio Usai, di Federmeccanica, che la presidente Emma Marcegaglia). E si crea una tenaglia chiarissima: «da una parte nei contratti individuali si chiede al lavoratori di impegnarsi a non scioperare, dall'altra si richiede identica disponibilità al sindacato». Giorgio Airaudo non ci va giù tenero. «Non stiamo neppure parlando di autoregolamentazione o procedure di raffreddamento, ma di uno scambio tra libertà d'azione sindacale e qualche privilegio per singoli sindacalisti». In generale, «sono restrizioni della democrazia; così la Fiat contribuisce alla disintegrazione della coesione sociale». Si «pratica l'obiettivo» di creare «un altro modello sindacale e altre ipotesi di rappresentanza».
Poche ore dopo è toccato alla ex Bertone, ora Officine Automobilistiche Grugliasco. Nell'incontro, chiesto dai sindacati«complici» (Fim e Fismic, soprattutto) per vedersi consegnare il testo dell'«accordo» da sottoporre al giudizio dei lavoratori, la Fiat si è rifiutata di esibirlo. Nel prossimi giorni, forse, sarà loro mostrato un «dispositivo» che avrà a «riferimento» il «futuro contratto dell'auto». Quale possa essere lo ha spiegato la stessa Fiat: il testo approvato per Pomigliano. Avremmo dunque un altro record: un contratto aziendale (doveva essere un «caso unico», giuravano!) che diventa «nazionale» senza altre discussioni.
L'idea di Marchionne è molto semplice: «in Fiat non ci possono essere due stati». Quindi tutti gli stabilimenti dovranno girare sullo stesso regime. A Grugliasco la Fiom raccoglie il 62% dei lavoratori. Nei prossimi giorni le Rsu - che avevano presentato addirittura una propria piattaforma - esamineranno la situazione. In ogni caso avevano già stabilito che qualunque accordo sarebbe stato sottoposto a referendum.
La Fiat, su questo punto, mostra di avere qualche incertezza. E quindi - stando alle parole dei dirigenti del Fismic (l'ex Sida fondato direttamente dal Lingotto negli anni '50) - non anticiperà più il pagamento della cassa integrazione (in violazione esplicita dell'accordo firmato solo un anno e mezzo fa). Un modo esplicito di ricattare i dipendenti: finché non votate come io voglio, non vi dò neppure i soldi che poi io (azienda) mi vedrò restituire dall'Inps.
Un'incertezza che la dice lunga anche sulla fiducia che ripone nei sindacati «complici». Ieri Di Maulo (segretario del Fismic) a fine incontro aveva detto erroneamente che «tutti i dipendenti di Grugliasco sarebbero passati a Mirafiori». L'ufficio stampa della Fiat è dovuto scendere di corsa per fargli correggere le dichiarazioni.
BERTONE
Chi fermerà Marchionne?
di Loris Campetti
Si scrive Fim, si traduce «Fabbrica Italia Mirafiori». È il nuovo nome depositato da Sergio Marchionne alla Camera di commercio con cui d'ora in poi si chiameranno le carrozzerie del gigante torinese. Non è uno scherzo, certo non è il prodotto di una trattativa tra la Fiat e il sindacato dei metalmeccanici Cisl - tu firmi tutto e io ti faccio pubblicità - però fa ridere.
Peccato che non ci sia molto da ridere. L'escalation del supermanager della Provvidenza fa paura. Prima bombarda Pomigliano fino a strapparne lo scalpo, i diritti dei lavoratori; poi procede con la panzer division contro Mirafiori e per il rotto della cuffia il ricatto antioperaio passa anche qui; ora è la volta della Bertone, più di mille operai da anni senza lavoro a cui impone le stesse condizioni servili delle due fabbriche maggiori. Marchionne non riesce a strappare l'anima, la dignità, ai suoi lavoratori e allora lacera il loro corpo. È ancora più indecente che questo avvenga alla Bertone, dove l'acquisto da parte della Fiat dopo 8 anni di tribolazioni, cassa integrazione, amministrazione controllata, tentativi di speculazione era stato accolto dagli operai come una liberazione, una speranza di futuro. Eccoli serviti a dovere.
Alla Bertone i due terzi dei lavoratori sta con la Fiom che si rifiuta di sottoscrive l'atto di condanna a morte dei diritti individuali e collettivi, si proibisce lo sciopero e si espellono le organizzazioni che non sottoscrivono. Dunque la sfida eccita ancor più Marchionne che vuol vedere se di fronte all'ultimatum «o accettate o vado a costruire la Maserati all'estero» la dignità reggerà, o prevarrà per fame il realismo di chi ha figli da mantenere e mutui da pagare. Fim, Uilm e Fismic si sono già consegnati e pretendono di consegnare tutti i lavoratori, a mani alzate, al generale occupante, fingendosi sindacati ragionevoli mentre servilmente mettono le loro guarnigioni a disposizione dell'esercito nemico per espugnare la roccaforte della Fiom. In cambio riceveranno distacchi e permessi sindacali, non diritti perché quando i diritti non sono per tutti si chiamano privilegi, merce di scambio sulla pelle di chi lavora che non potrà più scegliere da chi farsi rappresentare. Sempre nel caso in cui il ricatto passi al voto della fabbrica, sennò la Maserati sfreccerà su altre piste. Persino il timido tentativo del sindaco di Torino Sergio Chiamparino (per arrivare a una scelta condivisa la Fiat tolga le clausole sul diritto di sciopero) è stato rifiutato dall'arrampicatore della Chrysler, il «Marchionne del Grillo» come lo aveva definito questo giornale, quello che «io so' io e voi non siete un cazzo», nonché compagno di scopone di Chiamparino.
L'escaltion di Marchionne non si ferma qui. La Fiat annuncia che non pagherà più gli anticipi di cassa integrazione, in piena violazione di accordi sottoscritti. E aggiunge che a chi non firma saranno decurtati i permessi sindacali. Per concludere, il cancro alla Fiat produce le sue metastasi nelle aziende dell'indotto: la Magneti Marelli avrà commesse per la nuova Panda, ma solo a condizione che i suoi dipendenti accettino il contratto strappato a Pomigliano.
Marchionne è un pericolo per la democrazia italiana, democraticamente va fermato. Non è un compito della sola Fiom.
Che tristezza, che indegna campagna si sta scatenando contro il nostro collaboratore Alberto Asor Rosa. Addirittura girano appelli bipartisan, meritevoli di altri destinatari, per questo mai disturbati. Asor Rosa è un intellettuale che esprime liberamente il suo pensiero, talvolta anche in modo paradossale. Non ha truppe cammellate, né un partito alle spalle, ma solo un piccolo giornale contro il quale altre volte sono state scagliate accuse di ospitare il pensiero dei "cattivi maestri", sempre lanciate dalla destra del Pci. E non a caso questo attacco oggi, come ieri, viene portato da un ex stalinista.
Strumentalizzare una provocazione è gioco facile, specialmente se si possiedono i potenti mezzi della televisione. Parliamo naturalmente del clamore suscitato dall'articolo di Asor Rosa («Non c'è più tempo», manifesto 13 aprile), pubblicato nella prima pagina accanto a un articolo di Valentino Parlato (ancora sull'emergenza berlusconiana) e a uno di Ugo Mattei sul furto di legalità contro i referendum.
Abbiamo pubblicato la sua opinione, compresa la paradossale conclusione, perché affonda lo sguardo sull'eutanasia della democrazia italiana, riflette sulla torsione autoritaria del regime (parola fino a qualche anno fa ostracizzata ma ormai diventata di uso corrente). Più che sulla boutade finale («chiamiamo i carabinieri, la polizia» e, già che ci siamo «anche la guardia di finanza») con cui si concludeva il suo intervento, sarebbe utile sviluppare la discussione sulla grave compromissione degli spazi di agibilità democratica provocati dal plebiscitarismo di Berlusconi, portato alle estreme conseguenze con la cancellazione dell'architrave delle democrazie moderne: la divisione dei poteri.
Noi crediamo nei movimenti, nella possibilità di sbarazzarci di Berlusconi e del berlusconismo con la loro forza, testimoniata in questi mesi in modo straordinario e ancora in campo in queste elezioni amministrative e nei referendum. Rispetto a uno sbocco positivo, lasciamo i paradossi alla loro funzione e discutiamo come affrontare lo stato di emergenza.
Il parlamento è trasformato in un collegio di difesa allargato del premier, l'assalto all'autonomia della giurisdizione è giunta fino all'approvazione della vergognosa legge sul cosiddetto "processo breve", e l'assommarsi delle prerogative del legislativo e del giudiziario nel potere esecutivo, sotto la spinta inarrestabile del conflitto di interessi, è davanti gli occhi di tutti. A cominciare da quelli del Presidente della Repubblica, come testimoniano le parole forti pronunciate ieri l'altro dal capo dello stato intervenuto sulla situazione politica.
E' Napolitano a parlare di «ristrette oligarchie dotate di poteri economici e sociali senza contrappesi», è ancora il Presidente della Repubblica ad allarmarsi perché «nulla potrebbe essere più lontano dall'idea di una democrazia di un corpo sociale indistinto in grado di esprimersi solo elettoralmente». E' il Quirinale che ieri ha esplicitato l'intenzione di verificare le conseguenze dell'ultima legge ad personam licenziata dalla Camera, prima ancora che giunga a approvazione definitiva da parte del Senato.
Se dunque le leggi del libero confronto, che si forma e si esprime nelle elezioni e nelle maggioranze parlamentari, si trasformano in un vuoto simulacro, parlare della dialettica tra opposizione e maggioranza rischia di diventare esercizio retorico. Scontiamo (purtroppo) l'inadeguatezza di un'opposizione che per prima non crede alla possibilità di mettere in campo un'altra politica, e la crisi istituzionale ne è una delle conseguenze. Del resto le forzature sono all'ordine del giorno: nell'aula di Montecitorio, D'Alema ha recitato l'articolo 88 della Costituzione: il Presidente della Repubblica può «sciogliere le camere sentiti i loro presidenti», anche in assenza di una crisi di governo. E se lo dice D'Alema...
Il progetto prevedeva anche una maxi-piscina. I sigilli della procura sono arrivati in tempo per impedire lo scempio. Dalle carte giudiziarie emergono ben 24 abusi. Tra questi l'allargamento di una strada pubblica
Prendete una antica Torre costiera, detta Torre Toledo, costruita nel 1277 da Carlo D’Angiò a difesa dell’abitato di Marina della Lobra e rifatta da capo nel 1540 su ordine di don Pedro de Toledo. E’ la Torre più antica sul territorio della penisola sorrentina, è l’immagine caratterizzante del borgo marinaro di una località turistica tra le più rinomate della Campania. Eliminate la merlatura sulla sommità della Torre. Aggiungete alcune opere di stravolgimento dell’edificio, come l’apertura e l’allargamento di finestre e la realizzazione di terrazzini di collegamento tra i balconi e il cortile. Infierite con la creazione tutt’intorno, in un’area di circa 10.000 metri quadrati, di una serie di manufatti adibiti a camere da letto con bagno, muri di contenimento, terrazzamenti, rampe di collegamento. Rifinite l’intervento con una bella piscina lunga 17 metri e larga 4 a valle della Torre e un solarium. Mescolate il tutto, e avrete la ricetta di una delle più importanti speculazioni alberghiere mai tentate in penisola sorrentina: la trasformazione di un edificio storico di grande pregio in un resort di lusso. Da compiere in una zona ultra vincolata, senza uno straccio di licenza e in spregio a ogni normativa.
Stava per accadere davvero. Se non si fosse messa in mezzo la Procura di Torre Annunziata, corsa ad apporre i sigilli quando i lavori erano in fase di avanzata realizzazione. Per comprendere e descrivere sino in fondo l’enormità dello scempio di Torre Toledo, dove fino al 1860 si trovavano i cannoni borbonici, il sostituto procuratore Mariangela Magariello ha svolto anche un sopralluogo via mare. Poi ha steso un capo di imputazione durissimo. Contestando il reato di lottizzazione abusiva, che prevede in caso di condanna la confisca dell’area interessata dagli abusi. E al processo ha chiesto una pena severissima per l’albergatore finito alla sbarra, il sorrentino Vincenzo Acampora, amministratore unico dell’Avi srl, la società che ha acquistato l’immobile dagli eredi Toledo. Per Acampora il pm ha proposto una condanna a 4 anni e 4 mesi, di cui 2 anni per la lottizzazione, 4 mesi per falso ideologico (in concorso con il tecnico che firmò una Dia risultata piena di dati fasulli, per il quale il pm ha chiesto 9 mesi) e 2 anni per crollo colposo.
Sì, perché nella frenesia edilizia sono crollate alcune murature. Il crollo, risalente al 2006, sarebbe stato causato dalla realizzazione abusiva di una trave di coronamento e di altre travi a sostegno del solarium della piscina. Lo sostiene la perizia di un geologo agli atti del fascicolo. Un cedimento bis è avvenuto l’anno successivo, più o meno per lo stesso motivo. C’era il rischio che il solarium precipitasse a mare, e immaginate con che conseguenze se il resort fosse stato aperto e pullulante di clienti. La Procura ha ipotizzato che lavori di questa portata fossero avvenuti con la complicità di qualcuno che avrebbe dovuto controllare e non lo ha fatto. Ma dopo aver perquisito qualche computer, ha archiviato questo filone d’indagine.
Però a leggere le carte dell’inchiesta c’è da mettersi le mani nei capelli. Nei verbali di sequestro troviamo 24 presunti abusi. Ce ne sono di tutti i tipi, compresi i 64 metri di strada di collegamento in pietre laviche tra la Torre e la strada pubblica. E anche l’allargamento della strada pubblica (sì, pubblica) di San Liberatore. La strada è stata poi ripavimentata in calcestruzzo cementizio, e con annessa modifica della pendenza, per circa 37 metri. Le auto dei turisti dovevano entrare nel resort senza difficoltà. Ma la difesa sostiene che non c’è prova che le opere realizzate e contestate dal pm avessero finalità alberghiere. Il Comune di Massa Lubrense, guidato dal sindaco Leone Gargiulo, si è costituito parte civile. La sentenza è attesa per luglio.
Sarà per il bianco panama del conte Carandini, ma le fotografie del sopralluogo pompeiano del nuovo ministro della cultura evocano (non senza ironia) le immagini dei ricchi e distratti milordi che passeggiavano tra le rovine alla fine del Settecento, in una tappa del loro Grand Tour. La sensazione di spaesamento aumenta quando si leggono le dichiarazioni di Carandini, il quale si dice finalmente «ottimista»: e non c'è da stare allegri se l'ottimismo del reintegrato presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali si basa sulle contemporanee esternazioni di Galan, il quale si guarda bene dal citare il contenzioso con Tremonti e preferisce invocare l'intervento dei privati (notoriamente in fila col libretto degli assegni), citando a mo' di esempio l'impegno del candidato Lettieri a sponsorizzare ben tre domus (!).
Eppure qualche segnale positivo c'è davvero. Proprio di fronte alle rovine della schola armatorum Sandro Bondi cercò di dar la colpa del crollo agli archeologi della Soprintendenza, e invocò la messianica figura di un manager e la taumaturgica realizzazione di una fondazione. Oggi, il suo successore Giancarlo Galan dichiara che l'idea della fondazione non lo entusiasma per nulla, perché non ne vede i vantaggi, e che ritiene invece necessario assumere subito trenta archeologi e quaranta tecnici specializzati. Chissà se il dilettantismo dei milordi lascerà spazio ad una vera politica della tutela, ad un vera progettazione di un'economia della tutela. Se lo facesse, Pompei potrebbe diventare un laboratorio per tutto il Paese.
Perché il consenso alla maggioranza non è ancora crollato, nonostante il premier abbia superato ogni limite e il Popolo della libertà sia lacerato dalle divisioni? Il moltiplicarsi delle rissose correnti del Pdl fa impallidire il ricordo della peggior Dc. Quella Democrazia Cristiana evocata dallo Sciascia di Todo modo, per intenderci. E così nei giorni scorsi Libero ha cercato di scongiurare il fantasma di un Berlusconi "bollito" (il termine è del quotidiano) mentre Giuliano Ferrara ha lanciato un "avviso ai naviganti" per ricondurre bruscamente alla ragione i riottosi. Le sempre più affannate e affannose esibizioni del premier rendono chiarissimo il suo obiettivo, incompatibile con un Paese civile –umiliare la magistratura e renderla subalterna al potere politico- e diventano al tempo stesso dei clamorosi autogoal. Si pensi solo all´ultima (per ora) menzogna sul caso Ruby: «L´ho pagata perché non si prostituisse»: come se fosse del tutto normale per i presidenti del consiglio frequentare fanciulle con simili vocazioni.
Perché, allora, quella parte del Paese che ancora sostiene il premier non mostra visibili e sostanziose crepe, trangugia escort e Stracquadanio, il rientro di Scajola e l´evocata uscita dall´Europa, le barzellette più squallide e la paralisi dell´attività parlamentare, sacrificata per intero ai guai giudiziari del leader? Senza misurarsi con questo nodo sarà difficile iniziare a invertire una deriva. Sarà difficile anche impedire il diffondersi di ripiegamenti e di pessimistiche rinunce, di rinnovate forme di scetticismo e di conformistiche chiusure nel "particulare".
C´è in primo luogo da chiedersi se la residua capacità di tenuta del premier si fonda esclusivamente sull´assenza –o sulla flebilissima presenza- di un´alternativa politica. Sarebbe riduttivo pensarlo, rimuovendo così i più generali processi che hanno attraversato il Paese sin dagli anni ottanta. E che lo hanno plasmato in profondità nell´ormai lunghissima fase "berlusconiana", trasformandolo in quel "Paese del pressappoco" tratteggiato con amara ironia da Raffaele Simone: un Paese inesauribile, ad esempio, nel trasformare disastri pubblici in vantaggi privati. Propensione antica, colta già da Goethe nel suo Viaggio in Italia: le strade di Palermo, annotava, sono coperte di immondizie in disfacimento ma ciò è apprezzato dalla nobiltà che ha: «Interesse a mantenere uno strato così morbido alle sue carrozze per poter fare con tutto comodo la solita passeggiata su un terreno elastico».
Anche al Paese profondo rimanda dunque il nodo da cui abbiamo preso le mosse: di qui la difficoltà ma al tempo stesso l´urgenza di invertire la rotta. Di avviare, almeno, un´inversione di tendenza, prima che sia davvero troppo tardi. Prima che le lesioni alle istituzioni siano diventate irrimediabili. E sarebbe una vera iattura se il logoramento del premier si consumasse solo per via giudiziaria, in assenza di proposte credibili: il ruolo della politica è dunque primario, e sin qui le carenze dell´opposizione sono state indubbiamente gravissime. Una decina di anni fa, nella stagione dei "girotondi", si diffuse l´idea che fosse sufficiente dare nuovo slancio a sentimenti di opposizione, portare nelle piazze un´indignazione crescente. E che spettasse poi al centrosinistra raccogliere quello slancio, dargli corpo e prospettive. Che spettasse interamente ad esso, insomma, il passaggio "dalla protesta alla proposta", come si diceva un tempo. Nella crescente abdicazione a questo compito sta una delle radici della paralisi attuale: non vi è alcuna via d´uscita se non si è capaci di delineare in modo credibile "l´Italia che vogliamo", per citare il più efficace ma anche il più disatteso slogan del centrosinistra prodiano. E forse è necessario ricominciare passo dopo passo, con umiltà e rigore, provando a colmare anche su singole questioni lo stridente divario fra i nodi sul tappeto e le nebulose incertezze del dibattito politico attuale.
Si prendano alcuni degli aspetti più scandalosi di questa agonia di regime. È difficile denunciare in modo credibile una legge elettorale sciagurata, che condiziona le dinamiche politiche e favorisce la compravendita dei deputati, se non è in campo una proposta alternativa su cui le opposizioni concordino (lo si è visto anche a dicembre, nel momento di maggior debolezza del premier). Sullo sfondo vi è, naturalmente, la riflessione generale sul "bipolarismo" italiano: è possibile rianimarlo o occorre prender atto che non è mai realmente nato e che il suo simulacro innesca oggi dinamiche ben poco virtuose? E´ un nodo intricato, certo, ma eluderlo contribuisce alla paralisi.
Si pensi anche ad un altro elemento di indecenza, la gestione della Rai: si è aperta anche qui una spirale senza ritorno che costringe costantemente la maggioranza ad alzare il tiro, a sbarazzarsi delle voci che pongono dubbi e aiutano a riflettere. È impossibile spiegare a un osservatore straniero l´ostracismo dato a Vieni via con me, e i veti alla sua ripresa. È difficile spiegargli perché siano duramente osteggiate anche altre trasmissioni di qualità, che pur stanno portando consistenti introiti alla televisione pubblica: da Report a Parla con me o a Che tempo che fa. E mentre si studiavano improponibili contrappesi e alternanze per togliere spazi a Floris e Santoro si accresceva la faziosità del telegiornale di Minzolini creandogli una "coda" rafforzativa. Anche su questo terreno, però, è difficile condurre battaglie credibili se non è sul tappeto un´ipotesi elementare di riforma della Rai che la ponga al riparo sempre, qualunque sia il governo, da guasti come questi. Per non parlare naturalmente del conflitto di interessi: ricordando però che entrambi i nodi sono stati colpevolmente lasciati marcire dal centrosinistra negli anni in cui ha governato.
Infine, è difficile dare sbocchi alla ripresa del protagonismo collettivo, che pur si è manifestata, senza delineare scenari convincenti per il futuro. Si pensi, per fare l´esempio più recente, alla protesta dei lavoratori precari: difficile che possa ampliarsi e trovare continuità se non prende corpo in sede politica una proposta concreta, capace di raccogliere esigenze e ipotesi –pur diverse fra loro- che sono state avanzate anche nei giorni scorsi.
Sono solo alcuni esempi ma rimandano a un elemento centrale: la necessità di verificare sin da subito se è possibile costruire un terreno comune alle differenti e non omogenee "anime" e forze politiche del Paese realmente convinte che occorra voltare pagina prima che sia troppo tardi.