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La città invisibile, 13 settembre 2017. «Nardella tenta di riscattarsi dopo il putiferio estivo seguìto all’abbattimento di centinaia di alberi in città”: di male in peggio». (m.c.g.)

Nardella tenta di riscattarsi dopo il putiferio estivo seguìto all’abbattimento di centinaia di alberi in città. Ammaliato dal messaggio green di Stefano Boeri, autore del grattacielo “verde” a Milano, il sindaco ha bandito un concorso per decorare con vegetazione arbustiva e magari con alberi i dispositivi di protezione antiterroristica del centro fiorentino. La “Chiamata alle arti” (ahi, così si intitola il bando) contribuirà a definire un arredo urbano di tutto decoro, e pure un po’ ecologico, che risolverebbe l’urgente questione di sicurezza globale. Put flowers in your gun è il messaggio di un Nardella versione “figlio dei fiori”.

Celare con elementi vegetali e rivestire con la magia del design la recinzione delle enclaves turistiche può solo lenire la crudezza della “città dei recinti”, della segregazione, della zonizzazione tra ricchi e poveri, tra consumatori del lusso e marginalità sociali. È la versione freak di un sindaco che plaudiva al decreto Minniti perchè finalmente il Daspo urbano gli offriva armi più efficaci per garantire borghese decoro e sicurezza proprietaria.

Il concorso per le verdi, “gotiche barriere” (avrebbe scritto Carlo Cattaneo) è bandito in una città il cui patrimonio arboreo è stato pesantemente impoverito. Nel solo mese di agosto: 59 ippocastani abbattuti in viale Corsica. 107 pini neri in viale Guidoni. 45 pini domestici in viale Belfiore. Platani secolari intorno alla Fortezza da Basso. 5 olmi in piazza san Marco. 20 pini in piazza Stazione. 282 piante in totale, molte delle quali non classificate come “pericolose o malate” nella VTA (Visual Tree Assessment) comunale.

Stessa sorte è prevista per altre centinaia di esemplari del centro storico oltrarno (piazza Tasso, viale Michelangelo, Bobolino etc.) e poi alle Cascine e a Novoli. I cantieri del tram e della nuova stazione TAV (e del relativo tunnel) che immobilizzano il traffico cittadino da mesi, già avevano reso necessario il sacrificio dei lecci secolari di via dello Statuto, dei platani della Fortezza-viale Milton, degli alberi ai Macelli, di viale Morgani e di molte altre piante lungo i tracciati infrastrutturali.

In viale Corsica, il taglio degli ippocastani (e il futuro reimpianto di peri cinesi, alberelli non disdicevoli che tuttavia non compenseranno l’assenza di alberi d’alto fusto) ha innescato l’ira dei cittadini, che si vedono depauperati di qualità urbane e ambientali. L’alberatura accresce infatti il benessere da tutti i punti di vista: olfattivo, auditivo, visivo, estetico, simbolico e persino affettivo. La massa vegetale svolge poi una non trascurabile funzione depurativa dell’aria, ha effetti mitiganti sulle temperature, ed è indispensabile perciò nell’attenuare le condizioni favorevoli al manifestarsi di eventi meteorologici estremi, verificatisi anche a Firenze negli anni scorsi. La tromba d’aria del settembre 2014 e l’uragano (downburst) del 1 agosto 2015 hanno travolto, trasformandole in “pericolo” per la cittadinanza, proprio le alberature trascurate, non potate e non adatte a costituire filari stradali.

Dunque, per attenuare gli effetti dei cambiamenti climatici, abbattere le alberature d’alto fusto, sane, e sostituirle con piante di piccola taglia, è la prima cosa da evitare. Eppure. Eppure la paura fa novanta.

Nel giugno 2014 un ramo di un albero malcurato uccide una bambina e una donna alle Cascine. Per di più, su anni di malagestione e sui relativi danni erariali indaga oggi la Procura: falso in atto pubblico e deturpamento di bellezze naturali (cfr. “la Repubblica”, 11 agosto 2017). Per decenni infatti a Firenze si sono trascurate le basilari regole di sostituzione graduale: gli esperti indicano nel 2-3% del patrimonio arboreo cittadino la quota di alberi da sostituire annualmente (quota che si è ampiamente superata nei tagli dell’agosto scorso). Si è trascurato il valore culturale del paesaggio vegetale che risale in buona parte al disegno urbano postunitario di Firenze capitale. I magistrati rilevano la mancata regolarità nella programmazione della manutenzione che ha provocato il decadimento delle condizioni di molti esemplari arborei, per i quali si è dovuto procedere all’abbattimento; ciò è avvenuto anche nelle zone della città sottoposte a vincolo paesaggistico.

In nome della santa sicurezza, l’amministrazione prevede nel bilancio del 2017 ben dieci milioni di euro (con un incremento del 3.600% rispetto al bilancio 2014, parola dell’assessore) dedicati al verde urbano, per abbattimenti, sostituzioni e reimpianti. In mancanza di una seria programmazione e progettazione del verde, i tagli sono avviati d’urgenza nei mesi estivi, poco indicati anche per via delle nidificazioni dell’avifauna selvatica, e procedono di gran carriera; con cantieri improvvisati, gli abbattimenti avvengono a tappeto nell’agosto più caldo degli ultimi cento anni.

Le procedure democratiche saltano. Il consiglio comunale non è avvertito dell’operazione che investe la città. I lavori sono avviati con determine del sindaco. Alla Commissione ambiente in cui il grande taglio è presentato ai consiglieri, l’assessore non si palesa. Ai cittadini, tenuti all’oscuro, non resta che constatare il fatto compiuto.

Ma comitati e associazioni ambientaliste promettono battaglia.

Concluso il processo, che non ha coinvolto i veri corrotti e corruttori, ci si appresta ora a completare l'opera. Come? Alla solita maniera, i soldi ce li mettiamo noi, e a decidere saranno le imprese o gli amici del CVN. Articoli di Alberto Vitucci e Alberto Zorzi, la Nuova Venezia e Corriere del Veneto, 19-20-21 settembre (m.p.r.)

la Nuova Venezia 21 settembre
MOSE, LA CARICA
DEGLI ASPIRANTI DIRETTORI

di Alberto Vitucci

Storie e legami politici e professionali dei candidati che puntano alla direzione generale del Consorzio Venezia Nuova

Un colloquio di lavoro come tanti altri. Per capire le caratteristiche e le capacità dei candidati. Ma l'incarico non è uno qualunque. Cominciano in questi giorni gli "esami" per il posto di direttore generale del Consorzio Venezia Nuova. Una decina di candidati saranno ascoltati dai due commissari straordinari Giuseppe Fiengo e Francesco Ossola, sui circa trenta che hanno aderito al bando. A lavori quasi ultimati, problemi e criticità che spuntano ogni giorno, il direttore avrà l'arduo compito di portare a termine la grande opera dello scandalo. Avviata da altri e gestita oggi dai commissari straordinari. 220 milioni lo stipendio (ai tempi di Mazzacurati arrivava fino a sei milioni di euro) per un ruolo che dovrebbe rilanciare i lavori e le aspettative delle imprese bloccate dal grande scandalo.

Che non sia un incarico qualunque lo si vede dalla caratura dei candidati. Tra cui spiccano anche nomi noti della politica "prima" dello scandalo. Uno è Tommaso Riccoboni, ex Forza Italia, già assessore all'Urbanistica della giunta di Giustina Destro a Padova. Titolare di uno studio di ingegneria in via Altinate, «padre» del cavalcavia di corso Australia. «Galan? Un grande amico», diceva. Anche se all'epoca, e non solo in Forza Italia, erano in tanti a dirsi «amici di Galan». Ecco Silvano Vernizzi, dirigente di Veneto Strade, già commissario del Passante e responsabile dell'Ufficio Ambiente all'epoca di Renato Chisso, assessore di Galan. Entrambi hanno patteggiato nello scandalo Mose. Ci sono due ingegneri collaboratori dello Studio Altieri di Lia Sartori (assolta nel processo Mose), Marino Tura e Umberto Rulli. L'ingegnere Alberto Borghi, superconsulente per la viabilità della giunta Zanonato a Padova tra il 2007 e il 2010.
Ci sono anche ingegneri che lavorano per le imprese azioniste del Mose. Come Massimo Paganelli di Condotte e l'ingegner Bellipanni di Grandi Lavori Fincosit e Cidonio. Sabina Pastore ha lavorato invece come consulente per Veneto Tlc del gruppo Mantovani e coordinatore per gli impianti elettromeccanici del Mose. Chiede di entrare a dirigere il Mose anche l'ingegner Virgino Stramazzo, dal 1989 direttore dell'area tecnica di Save, la società aeroportuale presieduta da Enrico Marchi, ingegnere idraulico collaudatore per la Regione Veneto. E poi Nicola Torricella, direttore tecnico dell'Autorità portuale nominato da Paolo Costa e confermato ora dal nuovo presidente Pino Musolino. Ancora, Alberto Vielmo e Diego Semenzato (già consulente del Consorzio per le barene in laguna e l'isola di Malamocco), l'ex direttore di Insula ed ex ingegnere capo del Comune Ivano Turlon. Infine, due dirigenti del Provveditorato alle Opere pubbliche e ministero delle Infrastrutture. L'ingegner Valerio Volpe, da anni a capo dell'Ufficio salvaguardia del Magistrato alle Acque; Francesco Sorrentino, dirigente dell'attuale Provveditorato.
Un plotone di pretendenti tra cui adesso i commissari dovranno scegliere il nuovo direttore. Che dovrà portare in porto una nave che si annunciava come l'ammiraglia della flotta italiana. Uscita ammaccata dallo scandalo. Con tante criticità non ancora risolte. Come la corrosione dei materiali e delle cerniere, il malfunzionamento del jack-up, la nave porta paratoie da 52 milioni di euro. Problemi anche di cronoprogramma. Con la fine dei lavori che potrebbe ulteriormente slittare. Dal 2018 (consegna dell'opera il 1 gennaio 2022) a dopo. Si comincia in questi giorni la posa delle paratoie di Chioggia. Poi toccherà alla serie del Lido-San Nicolò. Ma a Malamocco, dove sono già state affondate, ancora non è stata costruita la centrale elettrica. Le dighe non si possono alzare, e nei corridoi sott'acqua già si sono formate muffe e incrostazioni
la Nuova Venezia 21 settembre
«ANCORA SOLDI, OLTRE IL DANNO LA BEFFA»
di Alberto Vitucci

«Non permetteremo che il governo sottragga altri fondi pubblici per pagare con i nostri soldi i conti lasciati aperti dalle tangenti». Arianna Spessotto (nella foto) deputato veneziano del Movimento Cinquestelle, va all'attacco. E usa parole durissime per l'ipotesi, trapelata negli ultimi giorni . La proposta è quella di "anticipare" con la prossima Finanziaria circa 200 milioni necessari al completamento del Mose e allo sblocco dei cantieri. I soldi ci sono, ma sono bloccati dai vari contenziosi giudiziari che vedono contrapposte le imprese al Consorzio.

«Oltre al danno arriverebbe anche la beffa», scrive Spessotto, «con il Governo che vorrebbe mettere altri 200 milioni di risorse pubbliche - dopo i milioni già generosamente elargiti negli ultimi Def- per tappare i buchi finanziari creati dalla più costosa opera della storia italiana, che rimarrà chissà per quanti anni ancora incompiuta e nessuno ancora sa se mai funzionerà!». «Il Mose è responsabile di un danno erariale e Matteoli, condannato a 4 anni, se ne deve andare dalla presidenza dei Lavori pubblici del Senato»


Corriere del Veneto, 20 Settembre 2017
MOSE, PRIMA I SOLDI
O PRIMA I LAVORI?

LO SCONTRO TRA IMPRESE
E COMMISSARI BLOCCA TUTTO

di Alberto Zorzi
In cassa risorse ingenti, il nodo sono diventate le regole
Venezia. Oltre 120 milioni già nelle casse del Provveditorato interregionale alle opere pubbliche. Oltre 300 milioni, tra cui quelli appena citati, già affidati per il suo completamento. E 400 milioni di euro che potranno essere «recuperati» grazie a un ricalcolo complessivo delle spese per i tassi d’interesse (crollati negli anni da oltre il 20 per cento al 3), che nell’intenzione dei commissari potrebbero essere utilizzati per i tre anni di avviamento dell’opera, tra inizio 2019 e fine 2021, prima della gara per l’affidamento della gestione. Messe in fila così queste cifre, si potrebbe dire che il Mose non ha mai avuto tanti soldi disponibili. Eppure, per un incredibile paradosso contabile, le dighe mobili che dovranno salvare Venezia dall’acqua alta rischiano di incagliarsi in quello che in termini poco tecnici ha un nome ben preciso: cane che si morde la coda.

Il ragionamento è questo. Il provveditore Roberto Linetti, come detto sopra, ha in cassa già i soldi per pagare i lavori. Ma per legge può pagare solamente i cosiddetti «Sal», cioè gli stati di avanzamento dei lavori, come avviene in qualunque cantiere: se in casa tua l’impresa A ha messo le piastrelle, fa la fattura e la paghi, così come la B che ha dipinto le stanze. A fare i Sal è il Consorzio Venezia Nuova, il pool di imprese che sta costruendo il Mose, sulla base dei lavori realizzati. Le imprese però, in questi mesi, di lavori ne stanno realizzando pochissimi, perché sono in polemica con i commissari del Consorzio, Giuseppe Fiengo e Francesco Ossola, accusati di non pagarle. Tanto per dire, Mantovani, che fa la parte del leone, lamenta Sal non pagati per 39 milioni e ci aggiunge altri 29 milioni per il fatto che molti cantieri alla bocca di Lido non sono stati collaudati (alcuni da anni) e dunque le spese sono rimaste in carico al colosso padovano delle costruzioni. Ma la situazione non cambia per gli altri, in primis Condotte e Grandi Lavori Fincosit, sempre per cifre milionarie. Niente lavori, niente Sal, niente pagamenti di Linetti: da cui la storia del cane.

Le versioni, però, a questo punto divergono. Le imprese sostengono infatti che siano i commissari a non fare i Sal sui lavori già realizzati, per punirle delle spese che il Consorzio ha dovuto sostenere per i danni e le false fatture emerse poi nell’inchiesta che ha portato ai processi, il principale chiuso proprio nei giorni scorsi: circa 65 milioni di euro complessivi. «In realtà io i Sal li ho pagati tutti e non posso ripagare due volte lo stesso lavoro - dice invece Linetti - ma i commissari hanno dovuto usare i soldi per far fronte ad altre spese: tasse non pagate, fatture false, mutui, sub-appalti». Certo, alcuni Sal sono bloccati per contestazioni, ma sono pochi. Nei primi due anni del commissariamento, iniziato a fine 2014, la strategia è stata una mediazione continua con le imprese: un po’ ti pago, un po’ no, perché tu mi devi dei soldi. Posizione che le imprese hanno sempre digerito male, convinte che i lavori andassero pagati subito e i contenziosi risolti in tribunale, senza collegamenti.

A spazzare via questo labile «accordo» sono però arrivati due problemi: il primo è il mutuo con la Banca europea degli investimenti, il secondo le gare pubbliche per alcune parti del Mose (le paratoie, gli impianti, eccetera), imposte dall’Unione Europea per chiudere la procedura di infrazione aperta a metà anni Duemila. Quando i commissari hanno analizzato il mutuo Bei da 600 milioni hanno infatti scoperto una cosa incredibile: che i soldi erogati dalla banca europea spesso non erano stati usati per le voci indicate nei contratti e poi non venivano restituiti. Il risultato è che solo l’anno scorso il Consorzio ha dovuto pagare alla Bei 267 milioni di euro, a fronte di Sal al Provveditorato per 300 milioni. Alle imprese, dunque, sono rimaste solo le briciole: 33 milioni. Ma mentre prima ci si poteva un po’ accordare con i consorziati, promettendo tempi migliori in futuro, ora ci sono altre imprese, terze, che non hanno nulla a che fare con lo scandalo Mose e chiedono solo di essere pagate, e presto. Per dire, ci sono i croati di Brodosplit che hanno realizzato le paratoie di tre bocche di porto su quattro (Malamocco, Chioggia e ora stanno finendo Lido Sud) e avanzano 16 milioni.

Per questo lunedì Linetti è andato a Roma al ministero delle Infrastrutture per cercare una soluzione: inserire nella legge di stabilità un anticipo sui Sal (si ipotizza di 120 milioni di euro) per sistemare i conti con le imprese e rilanciare i lavori. Anche perché nel frattempo il Cvn aveva fatto una gara per cercare una banca che gli concedesse un mutuo: gara andata deserta. «E’ un momento topico», ammette Linetti.



la Nuova Venezia 19 settembre
FONDI PER I LAVORI

LO STATO ANTICIPA
di Alberto Vitucci

Per poter sbloccare i cantieri, nella prossima Finanziaria a disposizione 200 milioni. Linetti forse terzo commissario

Venezia. Il Mose slitta. Mancano soldi e i guai tecnici non sono finiti. Così la conclusione dei lavori della grande opera, annunciata dal governo per il giugno 2017, poi rinviata al 2018 con consegna dei lavori nel 2021, potrebbe allontanarsi ancora. Ieri nella sede del ministero delle Infrastrutture si è tenuto un vertice tecnico chiesto dal commissario per l'Anticorruzione Raffaele Cantone e dal ministro Graziano Delrio. Confronto a tratti ruvido fra gli uffici che rappresentano lo Stato. Per cercare di risolvere la mission impossible: riuscirà lo Stato italiano, dopo aver speso 5 miliardi e mezzo di euro di fondi pubblici, dopo lo scandalo e gli arresti, a portare a compimento la più grande opera italiana degli ultimi decenni?
Altre nubi si addensano sul futuro del Mose. Anche senza la corruzione, i problemi sono tanti. Il primo, ha detto ieri agli alti funzionari del ministero il presidente del Provveditorato alle Opere pubbliche del Veneto Roberto Linetti, «è quello finanziario». Cause civili in corso tra lo Stato e le imprese del Mose, tra il Consorzio oggi governato dai commissari di Cantone e le stesse imprese. Contenziosi e ricorsi a Tar sulle opere non finite o su quelle finite male, diversità di interpretazione per i pagamenti dei danni da parte delle assicurazioni. Fatto sta che i cantieri sono bloccati. Le imprese reclamano lavoro, la macchina non va avanti. I soldi già stanziati diventano spendibili solo dopo un anno, un anno e mezzo. Perché dopo il grande scandalo le banche non garantiscono più, e tutto passa attraverso i ministeri con tempi infiniti.
La soluzione individuata ieri è quella che con la prossima Finanziaria lo Stato potrà anticipare qualcosa come 200 milioni. Liquidità preziosa per far ripartire i cantieri in laguna. I conti definitivi si faranno alla fine delle cause e delle richieste reciproche di risarcimento danni. Ma quello finanziario non è certo l'unico problema. Negli ultimi mesi la struttura tecnica del Consorzio Venezia Nuova, retta dal commissario Francesco Ossola, ingegnere torinese, si è trovata a fare i conti con imprevisti e magagne che nessuno aveva messo in conto. Le incrostazioni delle paratoie, la corrosione di alcune parti delle cerniere del Mose, la muffa nei corridoi dei cassoni, i danni provocati dalla mancanza della centrale elettrica. Struttura che costa almeno 70 milioni di euro, che si è deciso di realizzare dopo la posa delle paratoie. Risultato, stando sott'acqua senza essere ventilate e rialzate, le paratoie di Malamocco si stanno già rapidamente deteriorando.
Contrasti evidenti fra i due commissari (Ossola e l'avvocato dello Stato, Giuseppe Fiengo), con il provveditore Linetti a fare da mediatore. Non è ancora esclusa la nomina di un terzo commissario in sostituzione di Luigi Magistro, colonnello della Finanza che ha deciso di dimettersi qualche mese fa. Ma la soluzione più probabile, a quanto si è capito dopo l'incontro di ieri, potrebbe essere la nomina di Linetti a commissario non retribuito. Una figura tecnica ma anche un rappresentante dello Stato in laguna, che potrebbe mediare tra imprese e struttura consortile. Tra le esigenze di trasparenza ed economia del commissario Fiengo e quelle tecniche del commissario Ossola. Da parte delle imprese (Mantovani, Condotte, Fincosit), il cui peso torna a farsi sentire, c'è anche chi ha suggerito a Roma di dichiarare conclusa l'opera dei commissari, smantellando l'ufficio veneziano che fa capo a Cantone. Ipotesi che però non sembra essere di gradimento all'Anticorruzione. Una partita che potrebbe essere risolta con l'arrivo del nuovo direttore generale, che il Consorzio sta cercando con un bando dopo l'uscita di scena di Hermes Redi, due anni fa. Una decina di posizioni sono state ritenute "interessanti" tra coloro che hanno presentato il curriculum. I colloqui per la scelta cominceranno nei prossimi giorni.

la Nuova Venezia 19 settembre
«MA I DANNI NON VANNO IN PRESCRIZIONE»

di Alberto Vitucci


Vincenzo Di Tella, ingegnere da sempre critico sulla grande opera: «Mancate risposte sulle criticità»
Venezia. I danni del Mose non vanno in prescrizione. Tecnici e ingegneri che da sempre si sono opposti alla grande opera in laguna commentano con una punta di amarezza la sentenza del processo Mose che ha mandato assolti anche per intervenuta prescrizione alcuni imputati, tra cui l'ex presidente del Magistrato alle Acque Maria Giovanna Piva.«Vorremmo sapere chi pagherà i danni provocati da scelte sbagliate, gli errori del progetto», attacca l'ingegnere Vincenzo Di Tella, specialista in costruzioni sottomarine a autore insieme ai colleghi Sebastiani e Vielmo del progetto alternativo al Mose delle paratoie a gravità. Venne proposto dal Comune guidato da Massimo Cacciari al governo Prodi, ma scartato senza studi di approfondimento.
«Sulla vicenda penale non voglio intervenirre», dice Di Tella, «ma ci sono ancora troppi interrogativi aperti sul lato tecnico. Il primo punto è il comportamento delle paratoie del Mose in caso di mare agitato. Lo studio della società Principia ha dimostrato che c'è il rischio di risonanza e di malfunzionamento». Secondo punto, secondo Di Tella, i modelli. Quelli usati per il progetto Mose a parere dell'ingegnere non sarebbero completi, e non avrebbero tenuto conto di alcuni dettagli. Accuse circostanziate e documentate, che erano costate a Di Tella qualche anno fa un processo dopo la causa civile intentata dal Consorzio di Mazzacurati. Alla fine però il coraggioso ingegnere era stato assolto. «Non fu diffamazione, ma legittimo diritto di critica», aveva deciso il giudice.
La lista delle accuse è lunga. E secondo Di Tella vi sono domande tecniche a cui nemmeno la nuova gestione del Consorzio del dopo scandalo ha mai dato risposte. «Abbiamo chiesto un confronto pubblico», dice, «ma non ci siamo riusciti».Tra gli altri punti sollevati quello della subsidenza. Studi recenti del Cnr hanno dimostrato che il fondale dove posano gli enormi cassoni in calcestruzzo cede di qualche centimetro l'anno. In media molto più che il resto della costa italiana. «Cosa succederà fra qualche anno quando l'allineamento non sarà perfetto?». Altro nodo quello della manutenzione. «Come fa il sistema a durare cento anni e la singola paratoia cinque quando in alcuni casi dopo qualche mese di immersione la diga è già visibilmente alterata?».
Infine gli errori. Come quelli di progettazione e costruzione della conca di navigazione a Malamocco, le incrostazioni, il malfunzionamento di alcune parti e la corrosione dei materiali. «Torniamo a chiedere un confronto con tecnici super partes», dice Di Tella, autore anche di un volume sulle criticità del progetto Mose, «vogliamo esporre le nostre critiche. Cosa che non è stata possibile qualche anno fa. Quando alle osservazioni tecniche il Consorzio ha risposto con la querela».

La Nuova Venezia, 19 settembre 2017. Il primissimo capitolo di una lunga storia. Sono pubbliche molte delle carte in cui è scritta. Ma è ancora da scrivere la storia della devastante corruttela operata dal Consorzio Venezia Nuova su tutte le istituzioni pubbliche e private veneziane. con postilla.

«L'inventore Mazzacurati stabiliva le quote di lavori spettanti a ogni impresa, i prezzi e le consulenze, la destinazione dei finanziamenti. Tutto»

VENEZIA. Lo scandalo Mose non è finito. La sentenza di ieri mette un punto fermo sugli aspetti penali della vicenda, chiedendo il conto ad alcuni protagonisti della salvaguardia degli ultimi vent'anni. Giudizi non ancora definitivi. E orizzonte parziale, anche se importante.

La storia giudiziaria del Mose è giovane. Le indagini della Finanza e della magistratura hanno portato in superficie un mondo fatto di corruzione e malaffare, di tangenti e illeciti. Ma la storia politica del Mose, la più grande opera del Dopoguerra finanziata dallo Stato e affidata in concessione a un pool di imprese private, è molto più antica.

Una storia in parte ancora da scrivere. Trent'anni di monopolio e di decisioni imposte dall'alto. Anche contro la volontà dei territori e delle popolazioni di Venezia. Il monopolio. La madre di tutti i vizi - e di molte tangenti - è il particolare meccanismo ideato nel 1984, 33 anni fa, con la seconda Legge Speciale: l'affidamento della concessione unica al Consorzio Venezia Nuova.

Si stabiliva allora, in nome della salvezza di Venezia, che le opere di salvaguardia sarebbero state eseguite dal nuovo Consorzio. Niente gare d'appalto, né concorrenza. I controlli li doveva fare il Magistrato alle Acque. Ma, corruzione a parte, l'ufficio lagunare dello Stato non ha mai avuto le forze per controllare il concessionario.

Mazzacurati. L'inventore del Mose era il padrone quasi assoluto del Consorzio. Lui stabiliva le quote di lavori spettanti a ogni impresa, i prezzi e le consulenze, la destinazione dei finanziamenti. Si scoprirà poi che buona parte di quel denaro veniva accantonato per costituire i fondi neri necessari a «oliare» il meccanismo.

Il presidente Mazzacurati diventa anche direttore. Guadagna in otto anni 32 milioni di euro. 50 mila euro di stipendio al mese più benefit. Quando se ne va dal Consorzio gli riconoscono una liquidazione di 7 milioni. Viene arrestato, ironia della sorte, per «turbativa d'asta» sullo scavo dei canali portuali. Lui che di aste e gare ne ha fatte davvero poche.

Dodici per cento. L'altra invenzione all'origine del grande malaffare si chiama «oneri del concessionario». Per ogni lavoro grande e piccolo realizzato dalle imprese del Mose, al Consorzio spetta il 12 per cento. Su sei miliardi di costo sono più di 700 milioni di euro.

Oltre ai fondi neri, un altro serbatoio dove attingere. In trent'anni il Consorzio ha finanziato pubblicazioni e riviste, opere liriche e scuole del patriarcato, ricerche universitarie e squadre sportive, aziende e consulenti. Tra le spese anche quintali di olio commissionati da Mazzacurati all'azienda del figlio. Pagati con i soldi del Consorzio e distribuiti agli amici.

La Finanza. Quando nell'estate del 2010 la Guardia di Finanza entra al Consorzio Venezia Nuova, qualcuno capisce che il santuario non è più tale. Cercano i fondi neri, che poi daranno origine alla grande inchiesta. «Normale verifica fiscale che si fa alle aziende», rassicura Patrizio Cuccioletta, presidente del Magistrato alle Acque, poi arrestato nell'inchiesta Mose. Mazzacurati viene avvisato in mattinata. «Qualche giornale scrive che la Finanza è a caccia di fondi neri». «Sarà il solito giornalista», replica l'ingegnere.

Gli extracosti. Non ci sono solo tangenti e fondi neri. Ma anche i prezzi gonfiati. Facile in regime di monopolio. Solo per i sassi del Mose sono stati pagati 61 milioni in più. La Corte dei Conti indaga. Ma dove sono finiti quei soldi?

Soldi che scivolano anche nelle pieghe delle convenzioni firmate dallo Stato con il Consorzio per il «prezzo chiuso». Ma il costo complessivo delle dighe lievita, passa dal miliardo e mezzo del progetto preliminare (anni Novanta) fino ai 5 miliardi e 600 milioni di oggi, manutenzione e gestione esclusa (almeno 80 milioni l'anno). Baita.

Piergiorgio Baita, ingegnere e presidente della Mantovani, socio di maggioranza del Mose nell'era Galan, è il primo a essere arrestato a inizio 2013 per fatture false. Si fa 200 giorni di carcere, racconta e alla fine darà una grossa mano ai pm a ricostruire il quadro della corruzione. Per lui ancora non c'è il rinvio a giudizio.

Corte dei conti. L'allarme su quanto stava succedendo era stato dato nel 2007 da un coraggioso magistrato della Corte dei Conti di Roma, Antonio Mezzera. La sua relazione è un duro atto di accusa su sprechi e mancanze del progetto.

Le alternative. Una delle accuse dei comitati e di molti scienziati critici con il progetto Mose è quella di non aver mai preso seriamente in considerazione le alternative progettuali. Altre idee su come ridurre le acque alte, meno costose, meno impattanti e forse anche più affidabili.

I progetti illustrati dal'ex sindaco Cacciari al governo Prodi non erano stati considerati. Prodi, dopo Berlusconi, aveva scelto di dare carta bianca alle tesi del Consorzio: «Si va avanti con il Mose». Non vengono considerati i pareri critici degli scienziati indipendenti sulle tante criticità del Mose.

Le cerniere. Il cuore del sistema Mose sono le cerniere. Costruite, anche queste senza gara, dalla Fip di Selvazzano di proprietà della Mantovani, specializzata in cerniere «saldate».

Armando Memmio e Lorenzo Fellin, ingegneri strutturisti, sollevano dubbi nel Comitato tecnico di magistratura sulla durata delle cerniere saldate rispetto a quelle fuse. Vengono licenziati.

Le incognite. Gli effetti dello scandalo non sono finiti. Criticità e problemi di corrosione, di tenuta, di manutenzione vengono alla luce insieme ad errori progettuali. Ma questa è la seconda parte della storia.

postilla

Se si volesse scrivere una storia appena un po' più completa della vicenda del MoSE e del Consorzio Venezia Nuova (a partire dalla follia originaria del progetto e dall'esistenza di alternative radicali, proposte fin dall'inizio e scartate dal ministro portavoce degli interessi economici), basterebbe leggere gli ultimi capitoli del libro di Luigi Scano,
Venezia. Terra e acqua, Corte del Fontego editore.
Ma per verificare la corruttela esercitata sulla grande maggioranza degli attori personali e collettivi veneziani bisognerebbe poter esaminare i loro bilanci.


architetti.com, 11 settembre 2017. Da un idea dell'arch. Boeri, per "abbellire" le "zone ansiogene" e le barriere difensive. Come se per fermare il terrorismo bastasse un muro, e per rendere uno spazio vivibile bastasse un orpello. (i.b).

Il Comune di Firenze ha lanciato in questi giorni una gara internazionale di idee per trovare soluzioni innovative per i dispositivi di protezione degli obiettivi sensibili delle città, che siano anche elementi di arredo urbano di qualità, con l’obiettivo di “proteggersi dal terrorismo usando la bellezza e trasformando la necessità di maggiore sicurezza in un’occasione di abbellimento delle città”.

#FlorenceCalling – questo il nome che è stato dato alla chiamata alle artipromossa dal Comune di Firenze dopo l’idea lanciata dall’architetto Stefano Boeri– si rivolge a aziende, scuole, progettisti, creativi e studi professionali, che dovranno ideare dissuasori ed elementi di protezione e sicurezza in grado di non compromettere, e anzi, di migliorare la qualità estetica e urbana degli spazi pubblici del centro storico di Firenze e, per estensione, di altre città. Il tutto, ovviamente, garantendo il passaggio dei mezzi di soccorso e la massima fruibilità a cittadini e turisti.

Dopo aver già provveduto a mettere in sicurezza i propri spazi pubblici recependo le indicazioni del Comitato provinciale per l’Ordine e la sicurezza Pubblica, Firenze punta quindi all’abbellimento: “La nostra risposta allodio del terrorismo è nell’arte e nella bellezza. Non possiamo permettere ai terroristi di allontanarci dai luoghi pubblici, dai nostri spazi aperti e bellissimi, dalle nostre piazze storiche. Non vogliamo trasformare le nostre piazze in zone ansiogene e imbruttite da barriere e blocchi di cemento”, ha affermato Nardella durante la presentazione del bando. Secondo Boeri, #Florencecalling è “l’invito a trasformare la necessità di proteggerci da chi minaccia la morte, nell’opportunità di inventare nuove architetture generatrici di vita, per lo spazio pubblico delle nostre città”.

Ansa - Sardegna 19 settembre 2017. Il PD sardo (o parte di esso) non è d'accordo con il primato della tutela del paesaggio sullo sviluppo economico (nello specifico, l'incremento dei volumi edificabili). È ovviamente esplosa una polemica, di cui il testo dell'agenzia Ansa - Sardegna dà conto con equilibrio

Il PD sardo si è indignato, e ha diramato un duro comunicato, perché il rappresentante dello Stato in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio esprime severe e sacrosante critiche a una legge regionale che contraddice e cancella le regole della tutela nelle aree più delicate e tutelate dell’Isola. Le Stato, ovviamente reagisce, in attuazione delle sue responsabilità. Ecco una ricostruzione degli eventi

La protesta del PD sardo

Le prerogative della Regione Sardegna in materia di urbanistica non possono essere messe in discussione, né rallentate, se non nelle forme e nei modi previsti dalla Costituzione. E' il senso della mozione presentata dal gruppo del Pd in Consiglio regionale - anticipata dal capogruppo Pietro Cocco all'ANSA subito dopo il vertice di una settimana fa con Francesco Pigliaru - a seguito dell'impugnazione della legge omnibus su cui si fonda la nuova normativa per governare il territorio isolano.

L'atto impegna il Pigliaru a "rappresentare con urgenza al presidente del Consiglio dei ministri lo sdegno per l'inaccettabile atteggiamento, qui riportato puntualmente, assunto dagli uffici territoriali del Mibact nei confronti della Regione Sardegna", e a chiedere "quali siano le ragioni di tale atteggiamento", infine se "le dichiarazioni della sottosegretaria Borletti Dell'Acqua Buitoni, nel merito di provvedimenti sui quali si deve pronunciare la Corte costituzionale, corrispondano al parere del Cdm".

In riferimento alla legge di manutenzione impugnata, la sottosegretaria aveva parlato di "un impianto normativo tale da privare il Mibact del potere di valutare". Posizione che aveva alimentando aspre polemiche, nell'Isola come a Roma, e che vede la Giunta di Francesco Pigliaru contrapporsi al Governo, al ministero e al sovrintendente Fausto Martino.

L'ex assessore Sanna (Pd) replica: "farsa incommensurabile"

"Una farsa incommensurabile". Così l'ex assessore all'Urbanistica della Giunta Soru, Gianvalerio Sanna, a proposito della mozione del Pd contro il Mibact depositata in Consiglio regionale. "E' il segno evidente e clamoroso della sconfitta della politica regionale che si nasconde dietro una azione apparentemente muscolare che susciterà, oltre il Tirreno, una quantità notevole di risate - scrive Sanna sul sito Sardegna soprattutto - tuttavia alcuni punti è bene siano chiari: ognuno ha le proprie competenze, il Mibac sul paesaggio e sui beni culturali, la Regione sull'Urbanistica".

L'ex assessore manifesta "sconcerto e rabbia davanti alla folle decisione del Governo regionale sardo di portare comunque avanti una legge urbanistica insensata e priva di qualunque cognizione di coerenza e modernizzazione, rispetto alla fase che si era aperta in Sardegna con l'approvazione del Ppr".
"Se si cerca di aggirare e abbattere i vincoli sovraordinati con le norme urbanistiche - spiega - Pd e compagnia si mettano l'anima in pace, lo Stato ha il dovere di intervenire e tutelare il dettato Costituzionale". Quindi l'affondo: "Credo che la maggioranza di Governo in Sardegna farebbe bene a mostrarsi meno supponente e riflettere su gli effetti negativi e distorsivi di una cultura renziana che ha espropriato anche i nostri desideri di immaginarsi realizzabili".

Il Fai stronca la mozione

"L'attacco di una parte del Partito Democratico sardo al sottosegretario al Ministero dei Beni e Attività Culturali Ilaria Borletti Buitoni e al soprintendente Fausto Martino per un atto impugnato dal Governo avvilisce qualunque cittadino italiano; non sono infatti, questi, temi che possono essere considerati di esclusiva competenza delle regioni, come chiaramente ci ricorda la Costituzione". Così il presidente del Fai Andrea Carandini che interviene sulla mozione del gruppo consiliare del Pd contro i due esponenti del Mibact.

"La difesa dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio storico e artistico riguarda l'identità, la cultura e l'economia, non a breve termine, dell'intero Paese - argomenta - È un tema di interesse generale, sul quale tutti i partiti e i movimenti italiani dovrebbero impegnarsi senza personalismi, riserve e rivendicazioni". Secondo il numero uno del Fai, questa disputa "deprime e non fa ben sperare". "Osservo un forte contrasto fra il tono della lettera del presidente della Regione Sardegna Francesco Pigliaru, in risposta a una mia lettera aperta del 5 settembre, e quello di questo intervento di partito. Speriamo - conclude Carandini - che si risolva a vantaggio della salvezza della Sardegna".

Si allarga il fronte del no al ddl.

Si allarga il fronte del No al disegno di legge sull'urbanistica varato dalla Giunta guidata da Francesco Pigliaru e ora all'attenzione della commissione Governo del territorio del Consiglio regionale. All'appello della Consulta Ambiente e Territorio per chiedere al governatore di confermare il livello di tutela previsto dal Ppr, da estendere anche alle zone interne, sospendendo l'iter di approvazione del ddl, hanno risposto ambientalisti, intellettuali e politici, oltre che alcune associazioni che si affiancano ai primi sottoscrittori: Wwf, Grig, Italia Nostra e Federparchi.

Tra i firmatari della lettera che critica il disegno di legge ritenuto "incostituzionale" e foriero di una "destabilizzazione della tutela del territorio dell'Isola, con effetti devastanti specialmente nella fascia costiera", ci sono tra gli altri lo scrittore Luciano Marrocu, il senatore Luigi Manconi, il leader di Possibile Giuseppe Civati, il regista Enrico Pau, l'ex direttore dell'Unione Sarda Anthony Muroni, l'architetto Alan Batzella, il giornalista Giacomo Mameli, il regista documentarista Tullio Bernabei, gli ex direttore generale e presidente di Legambiente Francesco Ferrante e Roberto Della Seta, le associazioni VAS, Articolo 9, Green Italia e Mareamico.

Nell'appello vengono definite "insostenibili" anche le critiche "mosse da esponenti della Giunta regionale al soprintendente Fausto Martino", al quale viene espressa solidarietà e apprezzamento "per la benemerita azione che svolge in difesa dei beni culturali dell'Isola"

arcipelagomilano.org 19 settembre 2017.Una sintesi critica degliattori (e degli interessi) che, con argomenti a dir poco controintuitivi, purdi garantire la valorizzazione delle aree postExpo, sono disposti a tutto:anche a svuotare dalle facoltà scientifiche Città Studi


Dopo lapresentazione del professor Balducci & C. il 18 luglio scorso a PalazzoMarino, avrei voluto intervenire criticamente a botta calda, ma sarei cascatonella completa disattenzione estiva. Ai fini del prosieguo del dibattito tra lacittadinanza attiva da un lato, e l’amministrazione comunale e i responsabilipolitici della maggioranza, dall’altro, è mancato un serio lavoro diconfronto-e-verifica intorno al tavolo con le rappresentanze della cittadinanzaattiva.

Le riunionipubbliche a Palazzo Marino sono state in pratica per poter dire che il metododi scelta è stato democratico. Inoltre si è cercato di dimostrare che èl’Università che chiede di andare a ex-Expo. Comunque, in uno generaleripensamento urbanistico di questa portata le università e gli enti di ricercapubblici possono esprimere le proprie esigenze e orientamenti, ma non in modounico ed esclusivo rispetto alle altre componenti della cittadinanza.

Il traslocodi Statale scientifica da Città degli Studi a Rho-ex-Expo è un fatto politico?Sì. Cercherò di dimostrarlo, analizzando alcune frasi autoconsistenti (incorsivo) espunte da quattro documenti che rappresentano la posizione dellagiunta Sala e delle forze politiche che la sostengono:
* la Comunicazione stampa del Comune di Milano, del 10 maggio2017;
* il documento “
Da Città Studi allo studio dellacittà” diSinistraXMilano, datato 13 maggio 2017;
* il volantino del PD del Municipio 3 intitolato “
Città Studi rinnovata”, diffuso in giugno 2017;
* lo studio del professor Alessandro Balducci, commissionato dal Comune,intitolato “
Città Studi 2.0”, presentato a Palazzo Marino il 18luglio 2017.
Per avereun’immagine urbanistica di questa infelice area ex-Expo basta guardare in Google Map la sua struttura: un triangolocontornato da strade-autostrade di grande comunicazione (A8 – E64 – A62),Milano-Fiera, ferrovia a sud-ovest, con alcuni ingressi, proprio come le portenelle mura dei ghetti di infausta memoria.

La Comunicazione stampa del Comune di Milano
Èintitolata: Città Studi. Comune, Regione, Università e Agenzia del Demanioconfermano la funzione universitaria anche dopo il 2022. Mi limiterò asegnalare alcuni punti intrinsecamente critici.
Mantenere [a Città Studi] la funzione universitaria del quartiere … eprevedere un nuovo polo dell’Amministrazione Pubblica che riunisca tutti gliuffici del Demanio a Milano.” Ma come, per mantenere la funzioneuniversitaria si svuotano 100.500 mq di organismi scientifici per sostituirlicon una cattedrale di uffici amministrativi?
“… si è fatto il punto sull’attuale situazione delle aree ad oggi occupatedagli studenti che andrebbero a liberarsi“– È uno strafalcione semantico.Le università, in particolare quelle scientifiche, in tutto il mondo, sono“occupate” strutturalmente dai ricercatori-docenti che lì sviluppano il propriocurriculum scientifico individuale e di gruppo, durante anni di ricerca, e inbase a esso sono in grado di insegnare agli studenti.
Nella lunga comunicazione stampa si tacciono le vere ragioni dell’operazione:l’errore di investire tanti soldi in Expo2015 ha lasciato grossi debiti dasanare.
Il documento di SinistraXMilano
Anche inquesto caso tralascio un’analisi puntuale, preferendo segnalare alcunequestioni salienti: a proposito della nuova area scientifica a ex-Expo dice: “…costruire strutture e infrastrutture moderne, che permettano agli universitaridi studiare meglio, ma anche di avere alloggi a prezzi compatibili e cibo diqualità … accedere a servizi, divertimento …” – Tutte cose che già esistonoa Città Studi dove, semmai, potrebbero essere potenziate. Oggi studenti e docentiuscendo a piedi dai dipartimenti sono in città. Da ex-Expo dovrebbero venire incittà.
Lestrutture delle facoltà scientifiche in Città Studi non sono adeguate …” –Non è vero, specialmente per il quadrilatero Ponzio – Celoria – Golgi –Venezian e piazza Aspari (Farmacologia). I dipartimenti di Fisica, Chimica,Bioscienze, Farmacologia, Virologia, Scienze Alimentari, Scienze della terrasono stati tutti costruiti a iniziare dal 1975-1980 e non sono ruderi che“cadono a pezzi”; l’edifico di Informatica è oggi in fase costruttivaterminale.
Un’altraaffermazione di SinistraXMilano è degna di particolare rilievo (in questo casopositivo!): “L’area ex-Expo, abbandonata o privatizzata, sarebbe unasconfitta… Potremmo discutere per anni sulle scelte sbagliate di RegioneLombardia e di Letizia Moratti“. – Meno male che SXMi ha il coraggio didire la verità! Bisognerebbe aggiungere a questa affermazione che il sindacoPisapia, all’inizio del mandato (i lavori per Expo non erano ancora iniziati),dopo una lunga pausa di riflessione, ha deciso di procedere (seconda sceltasbagliata). Oggi, proprio per evitare una terza scelta sbagliata, molto piùgrave delle precedenti, bisogna trovare soluzioni diverse per l’utilizzo diquell’area: ad esempio, un parco pubblico di 100 ettari. Appare piuttostomistificatorio cercare di dimostrare che la scelta di spostare Statalescientifica a ex-Expo, sia una scelta ottimale dal punto di vista tecnico: “…si tratta di una area fondamentale [?] altamente accessibile [?] e infrastrutturata,che può diventare un modello di sviluppo urbano [?] …” – Ma vogliamoscherzare?

Il volantino del PD del Municipio 3
Dopo varierichieste (inevase) dall’interno del PD per discutere il problema in modoesaustivo su un tavolo specializzato, è circolata una prima bozza, seguita daltesto definitivo distribuito nel quartiere il 26 giugno scorso. Innanzitutto vaesaminato il titolo Città Studi Rinnovata – Cosa vuol dire “rinnovata”? Ilvolantino lo spiega: “Si trasformerà in un polo inter-universitario dirilevanza europea” – Cioè, secondo gli estensori del volantino, finora èstato un polo di secondo ordine, con scarsa qualità scientifica? Questaformulazione suona come un insulto ai matematici, fisici, chimici, biologi,geologi che vi hanno lavorato finora con produzioni scientifiche di ottimolivello e rapporti internazionali.
Nuovefacoltà e una cittadella della Pubblica Amministrazione (Uffici del Demanio) nefaranno parte … Nella riunione del 10 maggio [vedi sopra] si è convenuto dimantenere intatta la vocazione universitaria del quartiere” – Non si riescea credere che la riduzione secca del 60% degli attuali spazi di ricerca edidattica, e la loro sostituzione con gli uffici del demanio (1600amministrativi) possa essere spacciata per un “rinnovo” di Città Studi. Nelrestante quadrilatero Colombo – Celoria – Ponzio – Botticelli (area nonvendibile perché demaniale e vincolata), dopo lo svuotamento di Agraria,Veterinaria, Scienze Alimentari, Medicina triennio, verrebbero collocatiscampoli e spezzoni di risulta di Statale-Umanistica, Poli-Architettura,Milano-Bicocca, più un museo dei diritti umani (che era stato previstoprecedentemente di insediare nel Cimitero di Musocco!). Il “rinnovamento”, dicui parla il volantino, si commenta da sé.

Lo studio Città Studi 2.0
Nell’intervistapubblicata dal Corriere il 27 marzo 2017 il professor AlessandroBalducci aveva affermato: “Tutti gli insediamenti della Statale, trannequalche eccezione, cadono a pezzi e sono in gran parte degradati. Unasituazione inadeguata per un’università che vuol competere nel mondo … “ –Ci aspettavamo che Balducci il 18 luglio presentasse una dettagliatadocumentazione tecnica sul degrado dei singoli edifici di Città Studi,attualmente occupati dai ricercatori-docenti, dalla quale emergesse la“inadeguatezza” di quegli edifici, quindi l’impossibilità di ristrutturarli.Invece non dice nulla!
Viceversa,l’indagine sintetica sul campo del professor Riccardo Ghidoni (presentata aPalazzo Marino il 19 maggio 2017) riporta per ciascuna delle 20 sedi dellaStatale a Città Studi: Dipartimento, Proprietà, Anno di costruzione, Grado dioccupazione, Condizioni strutturali e edilizia. Essa smentisce nettamente lavalutazione sommaria del professor Balducci, sopra citata, che vienesbandierata negli altri tre documenti come motivo della non idoneitàstrutturale della situazione attuale. In effetti la “inadeguatezza” è una falsamotivazione.

Tre domandeal Comune, alla Regione, al Governo
1. Come mainella relazione Balducci, commissionata dal Comune di Milano, non esiste alcunadettagliata e credibile analisi per dimostrare la “inidoneità” dell’areaCeloria – Golgi – Venezian – Ponzio alla permanenza di strutture di ricercaqualificate a livello internazionale?
2. Come maitra le tante aree dismesse-abbandonate di Milano, per trasferirvi la Statale-scientifica, è stata scelta la ex-Expo la più infelice da tutti i razionali puntidi vista?
3. È seriodefinire “rinnovamento” l’eliminazione dei dipartimenti scientifici e la lorosostituzione con gli uffici dell’Agenzia del Demanio?

il manifesto, 20 settembre 2017. «Un'analisi suggestiva di Teresa Tauro ora spiegata nel volume Alle origini dell’urbanistica di Napoli». (c.m.c)

«Per le nostre città, le grandi città italiane, è (…) necessario, prima di tutto, avere consapevolezza del proprio ethos, delle proprie radici, del proprio senso storico, della propria memoria. Se non si parte da qui è molto difficile, impossibile, direi, reimmaginarle o reinventarle». Così, in un libro di interviste dedicate a Napoli, si esprimeva, vari anni fa, Massimo Cacciari. Scoprire la propria memoria, indagare le origini della propria città è dunque fondamentale, propedeutico per qualunque reale cambiamento, trasformazione, reinvenzione.

Da vari anni, Teresa Tauro, architetta pugliese d’origine che vive da tempo nella città partenopea, si dedica a studiare le origini della città che la ha accolta. Le sue indagini, le sue ipotesi e le sue scoperte sono ora esposte in un piccolo libro, scritto insieme a Fausto Longo, professore di Archeologia all’Università di Salerno, intitolato Alle origini dell’urbanistica di Napoli (Pandemos, pp. 32, euro 12). Il testo – nato inizialmente come contributo a Dromoi (volume che raccoglie una serie di studi in onore di Emanuele Greco) – seppur breve è davvero interessante e ricco di rivelazioni importanti sulla antica Neapolis.

Anzitutto si scopre che la fondazione della città, in genere fissata al 470 a. C., va retrodatata almeno all’ultimo quarto del VI secolo, in piena Megale Hellàs, quando erano attivi Pitagora e il suo circolo. Indagando la struttura urbanistica emergono poi elementi significativi legati al concetto di città ideale vitruviana, si scopre nell’impianto topografico il rapporto tra cerchio e quadrato si vede che viene utilizzato un nuovo modo di suddivisione dello spazio urbano, proporzionale e armonico, basato sulla corrispondenza numerica delle varie grandezze architettoniche.

Soprattutto emerge, sulla base della geometria frattale, che la città di Neapolis sia stata creata come un ologramma: la particella urbanisticamente più piccola conteneva in sé la forma dell’intera città. Tante le scoperte e le suggestioni che questo piccolo libro permette di conoscere e non soltanto in ambito architettonico e urbanistico. Un testo che esibisce una scrittura rigorosa e precisa, ma chiaramente comprensibile anche per i non addetti ai lavori.

La Nuova Sardegna, 19 settembre 2017. Una sofferta riflessione, con un incipit utilmente autobiografico, sul turismo balneare che, scongiurato nel 2006 dal piano paesaggistico rischia, adesso di riprendere lo sfruttamento e il degrado.

Molti si interrogano sul modello di accoglienza turistica più conveniente per la Sardegna. Stringi stringi è la questione al centro del dibattito sul DdiL del governo regionale in materia urbanistica.

Alle mie deduzioni sono arrivato passando per varie tappe, due essenziali che richiamo per spiegare l'evoluzione dei punti di vista sul tema. La prima tappa: da consigliere comunale di Sorso (debutto a 25 anni). Irresistibile l'appello di Enrico Berlinguer, il partito preso senza dubbi (quando ero ancora incerto se amare più i Beatles o i Rolling Stones). La voglia di mettere i piedi in terra, in testa suggestive lezioni di pianificazione territoriale e l'impegno della sinistra sull'urbanistica in città del centro Italia.

L'attività di amministratore prolungata (un'infatuazione Sturm und Drang) mi ha consentito di seguire da vicino il corso del dibattito di quegli anni. E di convincermi: nel territorio costiero meglio non costruire nulla tranne i servizi connessi alla balneazione. Per conservare i paesaggi costieri, ma pure per la sconvenienza delle comunità insediate più o meno vicino al mare. Impedire l'ospitalità sparsa nella linea di costa a vantaggio di chi abita a 3 km. Ragionevole utilizzare le urbanizzazioni di un paese, i servizi e pure le dignitose case disabitate. I turisti mischiati ai residenti. Possibile con qualche accorgimento. Senza complessi d'inferiorità perché i villaggi turistici offrono meno opportunità ai vacanzieri sempre più interessati a conoscere la Sardegna che esiste pure d'inverno.

Difficile da proporre: l'offerta ricettiva in un centro di origini contadine in alternativa alle proposte glamour di Club Med o Valtur, ma pure alle sciatte iniziative immobiliari sulla spiaggia.

Scontati gli insuccessi come documentano i suburbi di Platamona (non saranno molti a difenderli). E dai dai la lezione di quegli errori è rimasta nello sfondo, e oggi la costa di Sorso è integra per circa il 70%.

Tutt'altro che scontato. La politica isolana schierata al tempo per fare case ovunque e una legislazione lasca. Qualche sussulto grazie a Luigi Cogodi in un Pci- Pds sviluppista poco propenso a dargli retta. Così le scorrerie non avrebbero avuto veri ostacoli fino all'imprevisto Ppr 2006 ( due anni dopo, le dimissioni di Soru, mai spiegate, raccontano l'ostilità a quella scelta di un pezzo del PD sardo con ciò che consegue).

La seconda tappa in questa temperie: l'impegno nella redazione del PUC di Orosei, antico centro a un paio di km dal mare; paesaggio articolato, montagna- campagna-mare e il Cedrino, confine pacificatore tra la terra dei pastori e quella dei contadini. Molta natura superstite, l'incanto di Biderrosa superstar, e le ferite come altrove.

La maggioranza al governo d'accordo con l'orizzonte indicato dal PPR, la minoranza non del tutto ostile a quella visione. Una trentina di affollati confronti dopo il 2008, il piano adottato dal Consiglio nel 2010. Una sollecitudine che certifica una sostanziale adesione della popolazione al progetto.

Anche in questo caso è servita la percezione del pericolo e quindi l'accoglimento dell'idea di fondo nel PPR: impedire le trasformazioni nei litorali e facilitare l'accoglienza nelle aree urbane. Un'altro modello di sviluppo. Condiviso da tanti comuni con sbocco a mare: vicini al mare come Sorso e Orosei, o anche lontani come Villanova Monteleone.

È sempre più vasto il consenso delle comunità locali al disegno di tutela, in crescita la diffidenza verso le promesse di occupazione, più volume = più turisti: non ci crede nessuno. La sfida quell'altra: estendere gli effetti del turismo nello spazio (oltre le coste) e nel tempo ( non solo in agosto), come ripetono con molta passione alcuni sindaci non di mare (come Daniela Falconi di Fonni e Angelo Sini di Pattada). Appunto per concorrere a frenare lo spopolamento, più intenso in aree distanti dalle rive. Tutti d' accordo per impedire lo squilibrio territoriale, pure il governo regionale che parla bene ma non è conseguente com'è evidente in alcuni articoli del Ddl Erriu.

C'è speranza di invertire la tendenza solo se si andrà senza indugi oltre su connottu: il programma predatorio, dissipatore e inopportuno che conosciamo da secoli. E poi la Sardegna, si sa, non è in crisi perché scarseggiano residenze stagionali e alberghi. E comunque occorre cautela con l'edilizia nei litorali. C'è il rischio che si riduca l'attrazione dell'isola, come ammoniva il prof. Francesco Pigliaru nei suoi libri: “ogni investimento effettuato per aumentare il grado di sfruttamento turistico della risorsa (strutture ricettive, per esempio), ne determina un 'consumo' irreversibile”. Meglio non azzardare!

Internazionale, 15 settembre 2017. A tutte le latitudini, la rigenerazione urbana sembra innescare sempre processi di gentrificazione, che costringono i meno abbienti a lasciare le zone rigenerate, con postilla (i.b.).

I corridoi del leggendario palazzo bianco di Phnom Penh, un tempo pieni di musica, odori di cucina, chiacchiere, risate e bambini stanno per essere demoliti con i bulldozer. Il complesso, uno degli ultimi esempi dello stile modernista incarnato dalla nuova scuola di architettura khmer degli anni sessanta, sta per lasciare il posto a un condominio di lusso di 21 piani che sovrasterà tutte le case e i negozi del centro della capitale cambogiana.

Il Palazzo Bianco oggi (fonte: Fabien Mouret)

Molti dei vecchi inquilini, come Chhey Sophoan, 62 anni, non volevano lasciare la struttura ormai pericolante. Sophoan è un insegnante in pensione ed è stato tra i primi a rientrare nell’edificio quando, nel 1979, i Khmer rossi – che durante i loro quasi quattro anni di governo avevano decimato la popolazione – furono sconfitti dalle forze guidate dai vietnamiti. Ed è stato uno degli ultimi a lasciarlo, per andare a dormire sul pavimento del minuscolo appartamento del nipote. Sua moglie, invece, si è trasferita nella nuova casa appena costruita alla periferia della città.

“È difficile descrivere quello che ho provato al momento di andarmene”, mi ha detto Chhey Sophoan quando a metà giugno ho parlato con lui sulle scale decrepite vicino al suo vecchio appartamento. “Sono triste, avevamo tanti amici qui”.

La demolizione del palazzo bianco – che in periodi diversi ha ospitato dipendenti pubblici, artisti, famiglie e tossicodipendenti – segna un passo importante nella progressiva gentrificazione del centro
di Phnom Penh. Il risanamento della zona, in parte ancora sporca e fatiscente, indubbiamente richiederà tempo, ma è già a buon punto.

Il Palazzo Bianco nel 1963 (fonte: National Archives of Cambodia)

Il palazzo bianco fu costruito all’apice dell’“epoca d’oro” della Cambogia moderna, un periodo di prosperità seguito all’indipendenza dalla Francia del 1953. Molti lo ricordano con nostalgia, perché la capitale fu segnata da un grande risveglio artistico e culturale.

Le autorità governative, e il “padre fondatore” della nazione, il re Norodom Sihanouk, si erano resi conto che la popolazione della capitale stava crescendo rapidamente perché molte persone si trasferivano dalle campagne in cerca di lavoro. Per ospitare il primo progetto di edilizia popolare della città fu scelta una zona non lontana dal fiume Bassac e, sotto la guida del famoso architetto cambogiano Vann Molyvann (a cui a volte è erroneamente attribuito il progetto del complesso), l’ingegnere francese di origini russe Vladimir Bodiansky e l’architetto cambogiano Lu Ban Hap ne seguirono la costruzione. Nel 1963 l’edificio (costituito da 468 appartamenti distribuiti in sei blocchi larghi e bassi, allineati per un tratto lungo 300 metri e uniti tra loro da scale esterne) era pronto per essere occupato dai suoi inquilini a basso reddito. “È stato ideato da architetti e urbanisti che volevano realizzare un complesso di appartamenti in cui l’aria potesse circolare. Perciò in origine era sopraelevato rispetto al terreno e con molte scale collegate tra loro”, dice lo storico dell’arte Darryl Collins, uno degli autori del libro del 2006 Building Cambodia. “New khmer architecture” 1953-1970. “Era un edificio molto funzionale”.

Promesse e ottimismo

Quelli che all’epoca erano chiamati appartamenti comunali facevano parte di un gruppo di strutture costruite nella zona nell’arco di tutti gli anni sessanta. Il lungo complesso sulle rive del Bassac ospitava anche il teatro nazionale Preah Suramarit, gravemente danneggiato da un incendio nel 1994 e poi demolito, un centro espositivo, che ormai non svolge più quella funzione,e il palazzo grigio di Vann Molyvann, che ora ospita degli uffici e una scuola. “L’idea era creare un’unica area pubblica, che avrebbe permesso ai cittadini di avvicinarsi al fiume e di accedere alle abitazioni, ai posti dove mangiare e a centri culturalmente rilevanti”, dice Collins.

L’atmosfera della città era carica di ottimismo e di promesse. Le immagini degli anni sessanta mostrano il palazzo bianco appena costruito circondato da alberi sullo sfondo di giardini ben tenuti. Ma nel 1970, quando il generale Lon Nol guidò un colpo di stato per detronizzare Sihanouk, scoppiò una guerra civile che scatenò combatti- menti anche fuori della capitale. Il 17 aprile 1975, dopo la caduta del governo di Lol Nol per mano delle truppe comuniste e la presa del potere da parte dei khmer rossi, gli uomini di Pol Pot costrinsero tutta la popolazione della città a trasferirsi nelle campagne per piantare riso e costruire dighe.

Per una ventina d’anni, compresa la successiva occupazione vietnamita durata fino al 1989, il popolo cambogiano ha sofferto molto e la manutenzione dei palazzi non fu certo una priorità. “Senza manutenzione gli edifici invecchiano”, dice Collins, e negli anni ottanta il palazzo bianco era già in rovina. “Quando nel 1979 e nei primi anni ottanta è tornata a vivere a Phnom Penh, la gente ha dovuto accontentarsi di quello che c’era, e molte persone hanno rioccupato l’edificio. Probabilmente in parecchi casi i proprietari originari non sono mai tornati. E a occupare gli appartamenti sono state quasi tutte famiglie a basso reddito e artisti”.

A più di cinquant’anni dalla sua realizzazione, il palazzo bianco mostrava gravi segni di abbandono: non era più bianco, era pieno di spazzatura e i muri erano coperti di crepe. Le autorità lo hanno condannato ufficialmente alla demolizione nel 2014, dicendo che non era più sicuro, anche se inizialmente avevano pensato a una ristrutturazione.

A ottobre del 2016 si è saputo che l’impresa edile giapponese Arakawa era pronta ad abbattere la struttura e a sostituirla con un grattacielo. Nel progetto originario si scopre che l’azienda aveva previsto di lasciare cinque piani per gli inquilini esistenti, offrendogli un aumento del 10 per cento dello spazio. Ma secondo Sia Phearum, che dirige l’organizzazione non governativa Task force per il diritto alla casa, la comunità era divisa. “Il proprietario dell’Arakawa avrebbe voluto che i poveri che già abitavano nel palazzo vivessero insieme ai ricchi che avrebbero comprato gli appartamenti dopo i quattro anni di lavori”, spiega Sia Phearum, che ha assistito gli inquilini durante le trattative. “Ma la gente ancora non si fida del governo cambogiano, a causa delle brutte esperienze delle comunità Borei Keila e Boeung Kak”, dice, riferendosi a due recenti dispute sull’esproprio di alcuni terreni che sono durate a lungo. Dopo circa nove mesi di trattative, quasi tutte le 493 famiglie che occupavano l’edificio (alcuni appartamenti erano stati divisi) hanno accettato l’offerta alternativa di risarcimento equivalente a 1.170 euro al metro quadrato. Ma non tutte erano soddisfatte: la cifra era inferiore a quella che avevano chiesto nelle varie fasi della discussione (tra i 1.500 e i 1.900 euro), e molte non volevano proprio andarsene. Tra loro c’era Dy Sophannara, un’ex funzionaria del ministero della cultura di 70 anni che viveva lì dal 1979 e che, quando la maggioranza degli inquilini ha accettato, non ha avuto scelta e ha dovuto abbandonare la sua casa. Ora vive in una stanza dove paga l’equivalente di 84 euro al mese di affitto. “Quando guardo il palazzo in cui abitavo, mi commuovo”, dice. “Mi si spezza il cuore al pensiero che sarà demolito”.
Sacrificio inevitabile

Secondo Collins la demolizione dell’edificio è una grande perdita per il patrimonio culturale, ma non tutta l’architettura di quel periodo, o di qualsiasi altra epoca storica, può essere salvata. “In una città che sta cambiando, a volte è molto difficile proteggere gli edifici, soprattutto se sono in mano a privati”, dice. “In questo caso è ancora più difficile perché i proprietari sono più di 400”.

Eppure Sia Phearum considera il risarcimento una grande vittoria per gli inquilini, soprattutto se si pensa ad alcuni sfratti drammatici avvenuti in città. Elogia anche il ministro per la gestione del territorio, l’urbanistica e l’edilizia, Chea Sophara, che ha partecipato alle trattative e sembra sia riuscito a ottenere un risarcimento più alto per gli inquilini degli appartamenti più piccoli per incoraggiarli ad andarsene. “Almeno è stata la gente a scegliere”, dice Sia Phearum. “È andata bene a tutti: a loro, alla società immobiliare e al governo.

Se anche altri potessero seguire questo modello, penso che sarebbe il modo migliore per garantire uno sviluppo pacifico”. Ci saranno sicuramente altri casi come questo. Phnom Penh sta crescendo a un ritmo frenetico. Il periodo successivo all’era dei Khmer rossi – quando a causa della guerra fredda la Cambogia era tagliata fuori da buona parte del commercio mondiale e poteva contare solo sull’aiuto del Vietnam e dell’Unione Sovietica è ormai un lontano ricordo. Il tasso di crescita economica che si è cominciato a registrare alla fine degli anni novanta è rimasto costante, e il prodotto interno lordo del paese garantisce una crescita annua media del 7,6 per cento da più di vent’anni.

Secondo la Banca mondiale, il settore edilizio è “uno dei principali motori della crescita”. Le cifre ufficiali del governo mostrano che nel 2016 il valore dei progetti edilizi approvati ha superato i sette miliardi di euro, rispetto ai 2,8 dell’anno precedente. Sono state autorizzate migliaia di nuove costruzioni – 2.636 nel 2016 e più di 1.500 nel 2017 – e il settore non dà segno di voler rallentare. Thida Ann, che dirige la società immobiliare Cbre Cambodia, dice che almeno dal 2007 Phnom Penh in particolare ha subìto un’enorme trasformazione. “Dieci anni fa in città non c’era nessun grattacielo di più di dodici piani”, dice. “C’erano solo pochi palazzi di uffici e nessun condominio residenziale”. A suo avviso la maggior parte dei cittadini è contenta di questo sviluppo, che “porta più investimenti stranieri diretti, più possibilità di specializzazione, maggiori opportunità di lavoro, accesso agli strumenti finanziari e un continuo miglioramento delle infrastrutture. Anche se la città incontra molte difficoltà, questi aspetti sono comunque considerati positivi da quasi tutti. In particolare, questo diventa evidente grazie all’emergere di una nuova classe media, che sarà fondamentale per la prosperità e lo sviluppo sociale del paese”.

Ma Thida Ann ammette anche che la città per la maggior parte della popolazione non si sta sviluppando in modo positivo: nonostante esista un piano regolatore, dietro ai progetti edili spesso sembra non ci sia nessuna programmazione. “I ministeri non applicano sempre le leggi e le norme e, anche se la situazione sta migliorando, bisogna fare di più per garantire che Phom Penh diventi uno spazio vivibile per tutti i suoi abitanti”.

Una città irriconoscibile

Altri temono invece che nei prossimi decenni la capitale diventerà irriconoscibile. È già profondamente cambiata dall’epoca in cui è stato concepito il palazzo bianco,quando dominavano gli edifici coloniali francesi dipinti di giallo e contro il cielo si stagliavano solo le guglie delle pagode. “Phnom Penh continuerà a cambiare”, dice Kavich Neang, un regista di trent’anni che è cresciuto nel palazzo bianco e sta lavorando a un film ambientato al suo interno. “È un bene che la Cambogia si stia sviluppando, ma dobbiamo pensare a quello che è giusto fare, riflettere sulle conseguenze”.

Una delle principali conseguenze della ristrutturazione del centro della città è che pochi, o forse nessuno, degli inquilini del palazzo bianco potranno permettersi di comprare una casa vicino a dove abitavano prima, anche se molti di loro hanno avuto risarcimenti per più di 34mila euro. Secondo
Thida Ann, negli ultimi dieci anni il prezzo degli immobili del centro è raddoppiato, e ormai ci sono poche case popolari a Phnom Penh.

Kavich Neang, la cui famiglia si è trasferita a Chak Angre Krom, 25 minuti di auto più a sud, dice che alcuni dei suoi vicini hanno preso i soldi dell’Arakawa e si sono spostati in campagna. “È difficile vivere al centro della città, ci siamo tutti allontanati”, dice. Sia Phearum l’ha sentito ripetere tante volte: “Al governo interessano solo i ricchi, costruisce solo condomini e case costose, i poveri non hanno nessuna possibilità di rimanere in centro”, dice. “Li mandano lontano o gli danno un risarcimento minimo, come nel caso di Boeung Kak (dove circa 17.500 persone sfrattate dal 2008 hanno ricevuto solo 8.500 dollari ognuna) anche se possedevano un grande appezzamento
di terreno. Se lo stato e le aziende collaborassero per costruire case popolari, anche i poveri potrebbero vivere in centro. Ma il governo non ha un progetto chiaro per il futuro e nel giro dei prossimi venti o cinquant’anni nessun povero potrà permettersi una casa in centro”.

A metà luglio del 2017 tutti gli inquilini del palazzo bianco avevano già fatto le valigie e hanno continuato ad andarsene alla spicciolata per settimane. I ricordi di Kavich Neang dell’unica casa che ha mai conosciuto sono molto intensi. “Sentivi il suono della musica e a volte la gente che guardava la boxe in tv. O il canale del karaoke. Quando c’era una festa in una casa, ascoltavo i vecchi cantare e qualche volta mi offrivano da mangiare. Quando qualcuno cucinava, il profumo si sentiva in tutto il
corridoio. Era questa, per me, la cosa unica di quel posto, il senso di comunità.

postilla


E’ circa dal 2004 che la capitale della Cambogia sta attraversando un’ esplosione immobiliare, soprattutto nel centro storico, grazie all’afflusso di investimenti diretti esteri nel paese, la crescita del turismo e l’esportazione di indumenti. Questo ha incoraggiato la costruzione di edifici residenziali e commerciali, che hanno cambiato lo skyline della città, e l'espansione urbana nelle aree periferiche. L‘industria delle costruzioni è diventato un settore importante e c’è una classe media in aumento. Ma la gran parte degli abitanti non trae beneficio da questo boom immobiliare. La città si sta espandendo a macchia d'olio senza un piano e il governo municipale non riesce a far fronte agli speculatori, mantenendo un atteggiamento ambiguo nei confronti della tutela dei poveri. Infatti, il progetto di riduzione della povertà urbana di Phnom Penh, lanciato nel 1996, ha avuto un limitato impatto sugli sgomberi forzati praticati dagli investitori nei distretti centrali. Alla maggior parte dei cambogiani, essendo di fatto esclusa dal mercato della casa, non rimane che il settore informale, che continua a crescere.

Con la demolizione del “Palazzo Bianco” verrà anche distrutta la comunità che vi abita. Il "palazzo Bianco" non è solo un edificio, ma una comunità vivace ed eterogenea, che ospita più di 2.500 abitanti, tra cui ballerini, musicisti, maestri, artigiani, operai, funzionari e venditori di strada. Oltre all’articolo suggerisco il sito del white building project, un archivio che cerca di raccogliere le testimonianze di questa comunità, dove troverete immagini e video: http://whitebuilding.org (i.b.).


la Nuova Venezia, 17 settembre 2017. Due giornate di protesta contro gli interventi programmati, che comporterebbero la distruzione di un ambiente naturale e storico unico al mondo, con postilla




CROCIERE, TORNA LA PROTESTA
DEI COMITATI
di Enrico Tantucci

«Sabato e domenica prossimi alle Zattere manifestazione delle associazioni ambientaliste. Musica dal vivo e palco in acqua»

Sono almeno una decina le navi da crociera che il prossimo weekend - sabato 23 e domenica 24 novembre attraccheranno o partiranno da Venezia. E proprio per quei due giorni le associazioni ambientaliste - a cominciare dal Comitato NoGrandiNavi, da Ambiente Venezia e da Italia Nostra hanno organizzato una due giorni di mobilitazione alle Zattere che avrà un respiro europeo, per la partecipazione di molti movimenti ambientalisti europei, contro il passaggio che continua delle navi da crociera dal Bacino di San Marco, in attesa della soluzione alternativa che il Governo non ha ancora formalizzato, anche se il nuovo terminal a Marghera e lo scavo del canale Vittorio Emanuele - entrambi contestati dagli ambientalisti - restano sempre d'attualità. E ci sarà un clima comunque festoso, per i gruppi e i musicisti che si esibiranno alle Zattere, sul palco che verrà montato su una banchina in acqua. La manifestazione è stata presentata ieri nella sede del Comitato NoGrandiNavi e a prendere la parola in particolare sono stati l'attivista Tommaso Cacciari e l'architetto Cristiano Gasparetto, di Italia Nostra. «Due giorni di festa per ribadire che la tutela della laguna e dei suoi abitanti è più importante dei ricavi delle multinazionali crocieristiche», è stato detto ieri della manifestazione.

A Venezia, secondo gli organizzatori, confluiranno rappresentanze dei “No Tav” dalla Valdisusa, i siciliani “No Muos”, i campani “Stop Biocidio” e i “No Tap” dal Salento. Inoltre, parteciperanno i tedeschi del movimento contro Stuttgard 21, “Ciutat per a qui l'habita” di Palma delle isole Baleari, i portoghesi di “Academia CidadÒ” e il francese “Comitè contre la construction de l'aereporte de Notre Dame des Landes”. Punto focale del programma sarà la manifestazione alle Zattere, il 24 pomeriggio, dove sul palco galleggiante si esibiranno tra gli altri musicisti come i 99 Posse, Cisco dei Modena City Ramblers.

«Abbiamo presentato da tempo la richiesta di uno spazio acqueo all'autorità portuale, proprio come abbiamo fatto in altre occasioni», spiega Tommaso Cacciari, «e devono ancora risponderci. Ma in ogni caso, la festa si farà. Sarà una festa per terra e per mare con tantissime barche in canale. Sarà una festa per tutti i veneziani e per chi ha a cuore Venezia. Ai signori politici che dopo 5 anni e mezzo devono ancora prendere una decisione, chiediamo solo che la smettano di prenderci in giro». Per Cacciari, riguardo alle soluzioni allo studio, «manca solo che qualcuno proponga di sostituire il Ponte della Libertà con uno levatoio per dirottare le navi a Murano e siamo a posto con la lista delle idiozie. La realtà è che non sanno dove sbattere la testa e prendono tempo perché altro non sanno fare. Puntualmente, ogni tre mesi, salta fuori qualcuno con una soluzione nuova. L'ultima è quella di spostare il porto a Marghera. Dico solo: fateci vedere i progetti e ve li smontiamo scientificamente come abbiamo fatto per il Contorta. Perché qualsiasi soluzione che non preveda l'allontanamento delle grandi navi dalla laguna non può essere compatibile con la sua tutela».

«SONO COME UN CEMENTIFICIO
PER IL TASSO DI INQUINAMENTO»

«Grandi Navi e Mose non sono altro che due facce della stessa medaglia». L'architetto ambientalista Cristiano Gasparetto, consigliere della sezione veneziana di Italia Nostra ha aperto l'incontro di presentazione della Due Giorni contro le Grandi Opere, in programma sabato 23 e domenica 24 settembre, prendendo spunto dalla sentenza del processo per lo scandalo del Mose.

«Dopo la condanna all'ex ministro Altiero Matteoli - ha dichiarato - ci chiediamo perché si è arrivati ad un sistema di corruzione così diffuso. La risposta è semplice: perché senza un diffuso sistema di corruzione il Mose non sarebbe mai stato approvato. Le Grandi Navi, e tutte le Grandi Opere in generale, funzionano con lo stesso principio. Senza la corrutela, non avrebbero ragione di esistere". Gasparetto ha ricordato che una grande nave all'ormeggio produce inquinamento pari di un cementificio, in particolare per il contributo delle polveri ultrasottili e le conclusioni di Paolo Costa, al tempo presidente dell'Autorità Portuale di Venezia erano state: «Non è il porto ad essere nella posizione sbagliata ma le abitazioni». «Tra di noi ci sono posizioni articolate sulle soluzioni al problema Grandi Navi - ha spiegato - perché Italia Nostra, ad esempio, è contraria a qualsiasi ingresso in laguna, mentre il Comitato No Grandi Navi accetterebbe anche la creazione di un terminal crocieristico galleggiante di fronte al Lido, con lo sbarco dei crocieristi e il loro trasbordo sino alla Marittima. Tutti però siamo radicalmente contrari allo scavo di canali in Laguna e anche la soluzione Marghera, con il raddoppio del Canale dei Petroli per consentire il passaggio delle navi da crociera e di quelle commerciali avrebbe un impatto devastante. La verità è che le lobby, a cominciare da Vtp [la potente società che gestisce i traffici della Grandi navi-n.d.r.], continuano a prendere tempo, senza alcuna reale soluzione alle porte, per lasciare tutto così com'è».

postilla

La Laguna di Venezia è un ecosistema unico al mondo, in cui l'equilibrio tra le diverse componenti è rimasto tale per secoli grazie all'accorta manutenzione praticata da governi saggi fino al XIX secolo. Con l'avvento delle pratiche della contemporaneità (dalle grandi infrastruttura alla distruzione delle zone umide, dall'edificazione incontrollata alla motorizzazione dei trasporti all'invasione turistica dei centri storici) l'equilibrio ecologico del sistema lagunare e le caratteristiche della città storica si è venuto via via degradando. I programmi di nuove infrastrutture, e lo sregolato afflusso di masse di turisti comporterebbero la distruzione definitiva di ciò che è rimasto. Perciò non si può non concordare con la posizione radicale di Italia Nostra, espressa da Cristiano Gasparetto nell'articolo. Su Venezia e la sua Laguna vedi i numerosi articoli nelle cartelle Venezia e la sua Laguna del vecchio archivio e nell'analoga cartella del nuovo eddyburg

L'origine dei mali odierni spacciati per emergenza è nell'assenza di politiche abitative. Seconda parte di una riflessione su Roma, il manifesto, 17 settembre 2017, con riferimenti (m.b)

Parlare di emergenza abitativa a Roma è fuorviante perché la vera emergenza è la lunghissima assenza di una politica per la casa. Da una prima fotografia scopriamo che, in condizione di disagio abitativo, ci sono sia i nuclei in sofferenza economica cioè in difficoltà a pagare il mutuo o l'affitto, sia quelli senza alloggio e senza soldi per ottenerlo. Quindi gli strumenti per affrontare la sofferenza abitativa devono essere eterogenei: se gli alloggi popolari sono la risposta per i nuclei senza casa, un'integrazione all'affitto è la risposta per chi ha problemi economici. Una seconda fotografia rivela che nel 2014 le richieste di sfratto sono state circa 10.000 (ne sono state eseguite 230 al mese). Questa è la punta dell'iceberg di un fenomeno molto più ampio perché negli ultimi dieci anni gli sfratti per morosità sono saliti al 95% del totale. Quindi è un problema di impoverimento, dunque di welfare.

Vediamo allora qual è il costo dell'emergenza cronica e come una politica miope sta alimentando la formazione di quartieri ghetto. Il 66% della domanda abitativa (42.000 famiglie) proviene da chi ha un alloggio ma non riesce a fronteggiare l'affitto o il mutuo. Un'amministrazione seria dovrebbe intervenire in via preventiva per evitare che i nuclei sulla soglia di povertà finiscano nei CAAT (centri di assistenza alloggiativa temporanea, detti residence) che prosciugano le casse pubbliche. Il costo medio di un appartamento in un residence oggi è di 1.700 euro mensili per una spesa di 32 milioni di euro all'anno: per questo l'amministrazione Marino cercò di chiudere i residence attraverso il «buono casa» (dgc. 368/2013), un sussidio dato ai nuclei in attesa di un alloggio popolare. La diffusione dei CAAT segue la distribuzione degli alloggi popolari: i residence non solo concentrano il disagio all'interno delle loro strutture pensate appunto per accogliere persone in condizione di marginalità urbana, ma lo fanno in zone della città già molto critiche. Eppure una regola basilare di ogni politica urbana è di evitare la concentrazione del disagio, cioè la formazione di ghetti. Invece, negli ultimi venticinque anni, i reietti della città, per dirla con Loïc Wacquant, sono stati relegati in case popolari oggi degradate - perché, come abbiamo visto nella precedente puntata, l'Ater non ha i soldi per la manutenzione -, nei residence e nelle occupazioni, ma anche nei centri di accoglienza per stranieri, nei campi rom e nelle nuove baraccopoli. Molte delle cento occupazioni romane si sviluppano nelle ex aree industriali in disuso oppure in spazi di risulta di insediamenti residenziali pubblici, locali commerciali e scuole, tutti servizi mai utilizzati che nel tempo sono stati occupati. In altre parole in questi venticinque anni sono state create le premesse per la nascita delle prime banlieues capitoline. Una terza fotografia rivela che attualmente sono 8.406 i nuclei (circa 20.000 persone) privi di alloggio o in sistemazioni precarie, tra ospiti dei residence, occupazioni e sfrattati.

E allora, quali sono le proposte per uscire dalla logica dell'emergenza? Per invertire questa rotta servirebbe un imponente sforzo pubblico sia per riformare alla radice il welfare italiano, sia per intervenire sulle periferie romane perché, come abbiamo visto, le misure fin qui adottate sono insufficienti per qualità dell'offerta e inadeguatezza dei finanziamenti. Tuttavia, a livello cittadino la giunta attuale potrebbe intervenire. Dalla vendita già avviata del patrimonio pubblico si stima infatti un ricavo di 360 milioni di euro, soldi che non dovrebbero confluire nel bilancio ordinario ma essere destinati interamente alla casa. Poi ci sono i 197 milioni di euro stanziati dalla Regione Lazio nel 2016 per il contrasto dell'emergenza abitativa con l'acquisto di alloggi popolari e per operazioni di rigenerazione urbana. Parte di questi soldi dovrebbero essere investiti anche per la prevenzione. Ci sono infatti 7.000 nuclei in affanno con il pagamento delle rate dei mutui e spesso basta un piccolo contributo per evitare di accumulare morosità con il rischio di perdere l'immobile (dopo 18 rate non pagate la banca può pignorare l'immobile). Inoltre, è necessario finanziare la Delibera 154/97 di contributo al reddito per garantire quei nuclei che per impoverimento non riescono più a pagare la pigione. Infine si dovrebbe modificare la delibera comunale che assegna fondi per la morosità incolpevole oggi troppo restrittiva perché i soldi ci sono ma il blocco politico-amministrativo di cui parlavamo nella parte precedente dell'inchiesta non consente di spenderli. Per capirci, a fronte di 10.000 richieste di esecuzione sfratti, nel 2015 sono stati erogati appena 33 contributi. Ma, per uscire dalla logica dell'emergenza, occorre chiudere i residence, per esempio implementando il «buono casa» e combinandolo con il sussidio al reddito per i casi di maggiore fragilità. Poiché la maggior parte dei nuclei nei residence sono in attesa di un alloggio popolare, è fondamentale aumentare il numero delle assegnazioni, che si possono raddoppiare arrivando a quota mille attraverso l'acquisto di nuovi alloggi, la razionalizzazione del patrimonio esistente (qui servirebbe un articolo dedicato) e la lotta all'abusivismo.

Come abbiamo visto nella prima parte, ogni anno ci sono mille occupazioni abusive di alloggi pubblici per un danno stimato di 250 milioni di euro. Si potrebbe aumentare da subito l'organico della task force della Polizia Locale che controlla le case popolari (appena 25 agenti per 74.000 alloggi); mettere in rete le banche dati di Agenzia delle Entrate, Anagrafe, Ater e Patrimonio con un datamatching che segnali le verifiche da compiere; rinnovare il protocollo tra il comune di Roma e la Guardia di Finanza per incrociare i dati su residenze, redditi e patrimonio degli assegnatari e su quelle degli ospiti.

Premesso che una parte dei fondi per queste azioni ci sono, servirebbe volontà politica, capacità e coraggio. Purtroppo il bando appena pubblicato dalla Giunta Raggi impegna 12 milioni di euro per cambiare nome ai residence, non si chiameranno più CAAT ma SASSAT (come quando Veltroni passò dai campi rom ai Villaggi della Solidarietà), sancendo così la continuità segregazionista del modello Roma. Con questo bando infatti, il Comune di Roma chiede ai proprietari di mettere a disposizione 800 alloggi, anche cielo terra, da un minimo di 10 fino a un massimo di 50 appartamenti arredati e in un solo municipio. L'affitto sarà deciso al massimo costo del listino dell'osservatorio immobiliare (ossia a prezzo di mercato), quindi il colpo di grazia al canone concordato e la fine del «buono casa» che, essendo rivolto ai piccoli proprietari, da un lato faceva sì che il disagio sociale non si concentrasse in un unico luogo, dall'altro stabiliva un prezzo massimo di 800 euro ad alloggio, adesso invece innalzato a 1.250.

Di fatto l'amministrazione comunale apre ai costruttori con invenduto, drogando ulteriormente il mercato immobiliare.

In conclusione, a prescindere dal modello, universalistico o selettivo, la differenza sostanziale è tra una politica per la casa e una per cronicizzare l'emergenza abitativa, ossia nascondere la polvere sotto il tappeto e rimandare la soluzione all'infinito. Con il rischio di focolai di rivolta nelle periferie in ebollizione.

Riferimenti

In eddyburg potete leggere la prima parte di questa riflessione, pubblicata su il manifesto il 10 settembre scorso, e un'ampia rassegna sul tema in questa cartella

Articoli di Giacomo Talignani e Paolo Rumiz, la Repubblica, 17 settembre 2017. Emilia e Lombardia separate, code di tir, pendolari esasperati “Vecchi e fragili il governo ci aiuti". (c.m.c)

la Repubblica 17 settembre 2017
I PONTI MALATI SUL PO
COSÌ IL GRANDE FIUME TORNA
A DIVIDERE L'ITALIA
di Giacomo Talignani

Parma.Separati dal grande fiume, isolati e colpiti da un’economia in sofferenza. Tra l’Emilia e la Lombardia migliaia di cittadini stanno soffrendo le pene di quella che era un’emergenza annunciata da tempo: i ponti di confine fra le province sono “malati” e sul Po non si passa più. Quello principale, fra Parma e Casalmaggiore, è stato chiuso a inizio settembre a tempo indeterminato per lesioni.

Con gli altri attraversamenti a mezzo servizio, un’itera area nel cuore della food valley è finita così in ginocchio. «Nessuno ha voluto curarli per tempo e questi sono risultati» dicono pendolari e residenti a cui è cambiata la vita. Il caos, a cavallo di tre province (Parma, Cremona, Mantova), è esploso a fine agosto quando un agricoltore, mentre lavorava sotto il ponte che collega Colorno a Casalmaggiore, ha notato problemi alle travi: dopo i primi rilievi il ponte è stato chiuso a data da destinarsi. Delle 156 travi, 93 sono risultate lesionate. Era una sorta di autostrada alternativa fra le strade della Bassa: lì passavano ogni giorno 25mila veicoli, per lo più tir che attraversavano le due regioni (anche per raggiungere il Brennero) e lavoratori “frontalieri”. Dalle mamme costrette ad allungare di un’ora il tragitto per portare i figli a scuola, ai pendolari senza più alternative, sino ai commercianti che hanno perso «il 90% dei clienti», riuscire ad arrivare “al di la dell’acqua” è diventata un’impresa.

Anche perché gli altri ponti, vecchi di 50 anni, soffrono tutti. Ci sono i cantieri sul viadotto della A21 nel cremonese. Il Ponte Verdi, a corsia alternata fra Ragazzola e San Daniele Po, vede code infinite nelle ore di punta e sull’unica alternativa senza lavori, Viadana-Boretto, si riversano migliaia di mezzi. I sindaci, precisando di «non avere soldi per intervenire», hanno definito la situazione «molto seria» e dopo una riunione d’urgenza delle Province hanno chiesto l’intervento del ministro Graziano Delrio e fondi governativi «immediati ». Come tampone all’emergenza, c’è chi propone perfino battelli mobili per le merci. Sono talmente esasperati, gli esercenti dell’Asolana, che nei bar a ridosso del grande ponte ormai gli affari si misurano in brioches.

«Quando funzionava a quest’ora del mattino ne vendevo almeno 100. Sa quante ne hanno mangiate oggi? Otto», si lamenta Luigi Dabellani del ristorante Il Lido, sul versante parmense. «Abbiamo perso il 90% dei clienti. Ieri ho tenuto aperto il ristorante da solo. I miei dipendenti vengono in treno e non sanno se faranno in tempo a tornare». Poco più in là, al ristorante Bello Carico, la titolare dice: «Dal 2000 il ponte l’hanno già chiuso tre volte. Ora non sanno nemmeno dirci quando riaprirà».

Le aziende agroalimentari sono costrette a far passare i camion più a ovest, tra Ragazzola e San Daniele Po, ma non va meglio. «Ieri c’erano chilometri di coda. Ho contato 17 tir fermi qui davanti», dicono dalla stazione di rifornimento sulla sponda lombarda. Il ponte è a una sola corsia e «si può stare in coda anche 40 minuti ». Su quello che va da Viadana a Boretto, il serpentone di veicoli si snoda a rilento in direzione Parma. Sul ponticello dell’affluente Enza, «si è passati all’improvviso da 20mila a 40mila mezzi », nota il sindaco. Uno di quei tir, pochi giorni fa, ha investito un’anziana uccidendola, forse la prima vittima di una «disastro che si poteva evitare».

la Repubblica 17 settembre 2017
QUEI SIMBOLI
DEL NUOVO MEDIOEVO

di Paolo Rumiz

I nostri ponti? Simbolo perfetto di un Paese fondato sull’incuria. Per capire, non devi guardarli da terra. Devi passarci sotto, con la corrente. Vedere i piloni circondati da una corona di spine di tronchi sospesi a mezz’aria; il segno del livello delle ultime piene. Li ho visti, scendendo in barca il fiume d’Italia, ed è sempre la stessa storia. Foreste intere di alberi morti sotto le campate, ai quali nessuno sembra prestare attenzione.

Per anni nessuno ci pensa, perché levare quella ramaglia è un affare costoso e complicato. Ma chiunque ha dimestichezza con l’acqua sa che, alla prima grande pioggia, quella foresta aggrappata alla pietra genererà sulla struttura una pressione intollerabile. Decine di ponti sono venuti giù, negli ultimi trent’anni, per questo unico motivo. Gli alvei troppo stretti, troppo veloci e troppo ingombri di materiali che vanno ad accumularsi attorno al primo pilone.

Oh certo, abbiamo le autostrade, il calcestruzzo, le grandi gallerie transalpine e transappenniniche, le ardite campate dei viadotti. Ma i ponti sfuggono allo sguardo di una nazione che ha perso dimestichezza con l’acqua al punto da diventare idrofoba. Quando andai a monitorare la scomparsa dei torrenti nel Mugello a causa del traforo ferroviario Bologna- Firenze, constatai che in alcuni Comuni i pubblici amministratori non s’erano nemmeno accorti che, sotto i loro ponti, i letti dei corsi d’acqua erano all’asciutto. Ora, attorno a Piacenza, Emilia e Lombardia, nuovamente separate del fiume, si ritrovano a scoprire la corretta etimologia della parola “rivale”, cioè “colui che, stando sull’altra riva del fiume, può essermi in qualche modo ostile se non nemico”. I ponti non sono soltanto realizzazioni ingegneristiche ma simboli di unità di un territorio altrimenti governato da antagonismi di campanile. I ponti hanno un’anima e chi li costruisce compie un sortilegio, da cui la parola “pontefice”.

Dopo duemila anni abbiamo ponti romani ancora in piedi. Alcuni esempi: il Pont du Gard nel Sud della Francia, e il Pont Saint Martin all’uscita del Lys sulla Dora Baltea in Valle d’Aosta. Sulla via Appia, molto di essi hanno funzionato ininterrottamente fino al 1944, quando i Tedeschi, ritirandosi a Nord, non li hanno fatti saltare. Ma la loro potenza è ancora visibile.

Giganteschi conci di pietra intatti nelle campate sopravvissute alla dinamite. La storia insegna. La fine della Romanità fu segnata dall’insicurezza delle strade. Dal crollo della loro manutenzione. E allora ci si chiede se non tocchi anche a noi tornare ai guadi. Ai santi traghettatori, tipo quello sul “Transitus Padi” del vescovo Sigerico, che qualcuno, forse per lungimiranza, ha rimesso in esercizio a Sud di Milano per via dei pellegrini della Francigena. In un Paese dove i Comuni in bolletta si svendono all’eolico o alla speculazione idroelettrica dei privati, la crisi dei ponti può avvertirci di un nuovo medioevo.

il Fatto Quotidiano, la Nuova Venezia, Corriere del Veneto. 15 settembre 2017,-Articoli di Andrea Tornago, Ernesto Milanesi, Alessandro Zuin. «I pezzi grossi, quelli veri, in tribunale non hanno mai messo piede». La “giustizia” si è dovuta accontentare di recuperare 45 milioni di euro a fronte di un miliardo di tangenti. (m.p.r.)

il Fatto Quotidiano
MOSE. CONDANNA A 4 ANNI
PER L'EX MINISTRO MATTEOLI
di Andrea Tornago
Undici anni di reclusione, milioni di euro confiscati e maxirisarcimenti per le parti civili. Dopo 32 udienze del processo veneziano sul Mose, istruito nei confronti degli otto imputati che non avevano patteggiato all’indomani degli arresti del 2014, alla fine la condanna più pesante è arrivata per il senatore di Forza Italia Altero Matteoli: 4 anni di reclusione per lui e per l’amico imprenditore Erasmo Cinque, imputati di corruzione. Il Tribunale di Venezia li ha riconosciuti entrambi colpevoli per una tangente di 550 mila euro nell’ambito dell’assegnazione dei lavori di bonifica della Laguna di Venezia e ordinato una confisca di 9,5 milioni ciascuno.
Il senatore - ex ministro del l’Ambiente (2001-2006) e delle Infrastrutture (2008-2011) con Berlusconi - ieri mattina in aula ha ribadito di non aver preso “un euro” dal Consorzio Venezia Nuova: “E quindi non comprendo questa sentenza”, ha aggiunto dopo la condanna. Assolto invece, ma con una parziale prescrizione, l’ex sindaco di Venezia del Pd, Giorgio Orsoni: imputato per finanziamento illecito al partito, il collegio presieduto dal giudice Stefano Manduzio l’ha assolto per i 450 mila euro (di cui 50 mila secondo l’a ccusa consegnati personalmente in contanti) che il Consorzio Venezia Nuova gli avrebbe fornito per finanziare la sua campagna elettorale per le comunali di Venezia del 2010, dichiarando la prescrizione invece per i 110 mila euro versati illecitamente dal consorzio al Pd senza che la cifra fosse stata deliberata e iscritta a bilancio.
Condannato per corruzione e finanziamento illecito anche l’imprenditore Nicola Falconi; mentre è millantato credito il reato commesso, secondo i giudici, dall’avvocato ed ex presidente di Adria Infrastrutture Corrado Crialese: avrebbe fatto credere di poter aggiustare le sentenze al Consiglio di Stato facendosi consegnare dal consorzio (invano) 340 mila euro. Assolti dalle accuse di finanziamento illecito l’ex eurodeputata di Forza Italia, Lia Sartori, e da quella di corruzione l’ex magistrato alle acque di Venezia Maria Giovanna Piva (con parziale prescrizione) e l’architetto Danilo Turato per la ricostruzione della villa dell’ex governatore del Veneto Giancarlo Galan.
Sono le prime condanne per il “sistema” quasi perfetto del Mose: uno dei più imponenti intrecci di corruzione dell’Italia repubblicana - che avrebbe coinvolto per anni ministri, magistrati, politici, funzionari e imprenditori ruotanti attorno a un mare di denaro pubblico – scoperchiato nel giugno del 2014 dall’inchiesta dei pm veneziani Stefano Ancilotto e Stefano Buccini.
Un sistema corruttivo che per la Procura si muoveva intorno alla più grande opera pubblica italiana: la barriera idraulica del Mose e la connessa bonifica di Porto Marghera, lavori affidati in concessione al Consorzio Venezia Nuova guidato da Giovanni Mazzacurati. Il processo, dopo i patteggiamenti a raffica (tra cui quelli dell’ex presidente della Regione Galan, dell’assessore regionale Chisso, del generale della Guardia di Finanza Spaziante e dell’ex magistrato alle acque Cuccioletta) era partito con non poche difficoltà nel gennaio 2016. Le difese hanno chiesto da subito di esaminare in aula Mazzacurati, presidente del Cvn, “grande burattinaio” diventato il principale accusatore del giro di tangenti. Niente da fare: l’ingegnere, dopo aver riempito pagine di verbali raccontando ai magistrati il sistema delle mazzette intorno al Mose, nel frattempo si è trasferito a San Diego, in California (non prima di aver ricevuto una liquidazione da 7 milioni di euro) dove - secondo le perizie medico legali disposte dal tribunale - “ha perso la memoria”. I giudici hanno tuttavia considerato utilizzabili i verbali con le dichiarazioni dell’accusatore e il dibattimento è andato avanti fino alla sentenza di primo grado.
Il tribunale ha anche condannato Matteoli e Cinque – interdetti dai pubblici uffici per 5 anni – a risarcire le parti civili con provvisionali subito esecutive: 1 milione di euro allo Stato (Palazzo Chigi e ministero delle Infrastrutture), uno al Comune di Venezia e altre somme a Regione Veneto, Città Metropolitana di Venezia e allo stesso Consorzio Venezia Nuova. La bonifica della Laguna e il Mose, intanto, restano in alto mare.

il Fatto Quotidiano
L’ESERCITO DI CHI HA PATTEGGIATO
(COME GALAN) E PAGATO 45 MILIONI
PER USCIRE DAL PROCESSO

Dei 100 e più nell’inchiesta Mose, che nel giugno 2014 portò a 35 arresti (tra cui quello dell’ex governatore Galan e del sindaco di Venezia Orsoni) solo 8 sono finiti a giudizio. La più grande inchiesta sulla corruzione in Italia, che ha portato alla luce un flusso di tangenti da 1 miliardo di euro, è soprattutto la storia di un “processo mancato”: la maggior parte degli indagati ha chiesto il patteggiamento poco dopo gli arresti, per evitare di sostenere il dibattimento. Giancarlo Galan ha patteggiato una pena di 2 anni e 10 mesi e una confisca da 2,6 milioni di euro, l’ex generale della Finanza Emilio Spaziante a 4 anni di carcere (più la confisca di 500 mila euro), l’ex presidente del magistrato alle acque Patrizio Cuccioletta a 2 anni e una multa di 700 mila euro, l’ex assessore regionale alle Infrastrutture Renato Chisso a 2 anni e sei mesi e una confisca di 2 milioni di euro. Hanno patteggiato gli imprenditori del Mose, gli ingegneri, i consulenti. Lo Stato in questo modo ha recuperato più di 44 milioni di euro.

il manifesto

MOSE. L'EX MINISTRO MATTEOLI
CONDANNATO A QUATTRO ANNI
di Ernesto Milanesi
Grandi Opere. Il tribunale di Venezia: confiscati 9,5 milioni di euro, assolto l’ex sindaco Giorgio Orsoni. L’associazione Ambiente Venezia e il Comitato NoMose: «L'inchiesta ha dimostrato l'esistenza di una cupola»

La giustizia ordinaria sullo scandalo Mose sembra proprio incarnare il simbolico cieco equilibrio. Quattro condanne e altrettanti verdetti di assoluzione o prescrizione del reato. All’ex ministro Altero Mattioli inflitta una pena di 4 anni più la confisca di 9,5 milioni di euro e l’interdizione dai pubblici uffici per un lustro. L’ex sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, invece, risulta innocente per il finanziamento «in bianco» e beneficia della prescrizione per i soldi «in nero».

Ieri, poco dopo le 18, il presidente del tribunale Stefano Manduzio (Fabio Moretti e Andrea Battistuzzi a latere) legge la sentenza che conclude un dibattimento lungo 16 mesi con 32 udienze (dopo le 11 preliminari) e un centinaio di testimoni. L’inchiesta sulla più grande opera della Repubblica – affidata in concessione unica al Consorzio Venezia Nuova – riempie oltre 70 mila pagine di faldoni. Ammontano già a 5,5 miliardi di euro i costi del sistema di dighe mobili nelle bocche di porto della laguna. Ma il «deus ex machina» del mega-progetto Giovanni Mazzacurati si è ritirato negli Usa; l’impresa Mantovani, presieduta dall’ex questore Carmine Damiano, ha appena minacciato 170 licenziamenti; la fine dei cantieri del Mose è già slittata al 2018 con almeno altri ulteriori tre anni di indispensabili collaudi.

Dal punto di vista giudiziario, erano usciti di scena 31 imputati che hanno patteggiato con la Procura. Su tutti spicca il nome di Giancarlo Galan, ex governatore del Veneto e ministro dei beni culturali, costretto a liberare la prestigiosa villa Rodella sui Colli Euganei pagando anche 9 mila euro di danni provocati nel trasloco.

Ora la sentenza di primo grado, di fatto, chiude la vicenda perché i termini della prescrizione «ghigliottinano» il processo d’appello. Non si chiude però la partita dei risarcimenti con l’Avvocatura dello Stato che ha chiesto 8 milioni di euro. E soprattutto è acclarato che il mega-progetto del Mose abbia «fatturato» tangenti a beneficio di politici, funzionari, imprese, coop, professionisti e perfino fondazioni ecumeniche o premi culturali.

Nel dettaglio, la sentenza del tribunale di Venezia ha condannato alla stessa identica pena comminata a Matteoli anche Erasmo Cinque, imprenditore romano della Socostramo. Assolta l’ex presidente del Magistrato alle Acque, Maria Giovanna Piva per le imputazioni relative al collaudo, con la prescrizione per l’altra. Inflitti due anni e due mesi a Nicola Falconi, titolare della Sitmar di Venezia. Assolto l’architetto padovano Danilo Turato che aveva seguito la ristrutturazione della villa di Galan. Come Orsoni, nessuna sanzione penale anche per Amalia Sartori che ha prima presieduto il consiglio regionale e poi occupato un seggio all’Europarlamento. Un anno e dieci mesi all’avvocato romano Corrado Crialese, imputato di millantato credito.

Al termine della requisitoria, i pm Stefano Ancilotto e Stefano Buccini avevano sollecitato otto condanne: 6 anni richiesti per Matteoli, 2 anni e 3 mesi per Orsoni e Turato, 2 anni anche per la Sartori. Amara la dichiarazione dell’ex ministro e senatore dopo il verdetto: «Come ho avuto modo di confermare davanti al tribunale non sono un corrotto, mai ho ricevuto denaro né favorito alcuno. Non comprendo quindi questa sentenza verso la quale i miei avvocati ricorreranno in appello. Ho il dovere di credere ancora nella giustizia, nonostante la forte amarezza che patisco da quasi quattro anni» sostiene Matteoli.

L’Associazione Ambiente Venezia e il Comitato NoMose insistono a manifestare contro la «mafia di Venezia» con una lettura a 360 gradi: «Il Mose è la più grande opera di ingegneria ambientale al mondo, ma c’è stata qualche mela marcia: questa è stata la gestione politica, da parte del governo Renzi e poi Gentiloni, del più grande scandalo del secolo. L’inchiesta della Procura ha dimostrato l’esistenza di una vera e propria cupola, costituita da Mazzacurati e dai manager delle “grandi” imprese del Consorzio e delle “piccole” delle cooperative di tutti i colori, che si divideva lavori e dazioni da pagare a tecnici e politici più o meno eccellenti. Lo scopo non era ottenere appalti, visto la concessione unica sui lavori, ma far ottenere tutti i via libera ad un progetto sbagliato che prosciuga le risorse pubbliche».


Corriere del Veneto
PROCESSO MOSE

LO SCANDALO, LE COLPE, LE ANOMALIE
di Alessandro Zuin

Nel caso qualcuno avesse rimosso o si fosse perso qualche puntata nel corso degli ultimi tre anni, stiamo parlando di una vicenda che è stata autorevolmente definita «il più grande scandalo europeo» per dimensioni finanziarie del malaffare, qualcosa come 8 miliardi di euro distribuiti da quel gigantesco collettore di fondi pubblici che è stato il Consorzio Venezia Nuova. Il quale aveva, per giunta, lo straordinario vantaggio competitivo di agire sotto lo scudo protettivo di una Legge Speciale. Perciò, ha ragione da vendere Massimo Cacciari – ex sindaco di Venezia, per la cronaca e per la storia l’unico in quel ruolo a dichiararsi apertamente contrario al Mose, mentre gli altri, magari con diverse sfumature, erano tutti a favore – quando afferma che la faccenda «non può essere ridotta a un processo al povero Giorgio Orsoni». E Orsoni, tra l’altro, se l’è pure cavata con un colpo di reni della prescrizione e un’assoluzione, per quanto l’amministrazione da lui guidata abbia pagato il prezzo politico più alto in questa storia, cadendo rovinosamente sotto i colpi dello scandalo e aprendo la strada della conquista di Venezia al sindaco fucsia Luigi Brugnaro.

Il processo
Non può essere ridotta a questo, innanzitutto, perché il processo che si è concluso con quattro sentenze di condanna e altrettante di assoluzione/prescrizione, era tutt’al più una riduzione in sedicesimo di quella che si usa definire come la «verità giudiziale», oltre che della mastodontica inchiesta penale da cui scaturirono, il 4 giugno di tre anni fa, i clamorosi provvedimenti di arresto per 35 persone, accusate a vario titolo di corruzione o finanziamento illecito ai partiti. Sulla scena giudiziaria, bisogna pur dirlo, erano rimasti davanti al Tribunale di Venezia alcuni personaggi di seconda fila del gigantesco affaire: un ex ministro della Repubblica non proprio tra i più in vista (Matteoli), un ex sindaco entrato e uscito dalla storia amministrativa di Venezia come una stella nelle notti d’agosto (il già citato Orsoni), un’ex potente eurodeputata in parabola politica discendente (Sartori), qualche imprenditore e professionista, un’ex funzionaria statale.

I pezzi grossi
I pezzi grossi, quelli veri, in tribunale non hanno mai messo piede: o perché, pur essendo coinvolti dalla testa ai piedi nella vicenda, recitavano la parte dei grandi accusatori, oppure perché erano usciti anzitempo dagli impicci, scegliendo (o vedendosi costretti a scegliere, a seconda della diversa interpretazione) di scendere a patti con l’accusa.

Gli accusatori
Tra i primi, gli accusatori, si annovera il «grande distributore» Giovanni Mazzacurati, ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, mai imputato, oggi incapace di stare in processo anche solo come testimone poiché affetto da una forma avanzata di demenza senile. Accanto a lui campeggia la figura di Piergiorgio Baita, già numero uno di Mantovani (la principale società tra quelle che componevano il Consorzio), il quale ha patteggiato 1 anno e 10 mesi per un reato minore (le false fatturazioni) e adesso gira il Veneto presentando il suo libro-verità «Corruzione. Un testimone racconta il malaffare» (si sottolinea la definizione «testimone»). E poi c’è donna Claudia, al secolo Minutillo, già inflessibile guardiana dell’agenda del governatore Giancarlo Galan, poi ascesa a manager dell’asfalto&cemento in Adria Infrastrutture: anche lei ha patteggiato una bazzecola per le fatture false. Sia Baita che Minutillo hanno ricevuto, nel cuore dell’estate, l’avviso di chiusura dell’indagine a loro carico per corruzione e finanziamento illecito ai partiti, dato che se vi sono dei corrotti (o finanziati), a rigor di logica ci dovrebbero essere anche dei corruttori (o finanziatori). Per Baita, neanche a dirlo, si prospetta un altro bel patteggiamento, mentre Minutillo potrebbe giocarsi anche la chance delle chance, una tombale prescrizione.

I patteggiatori
Nella categoria patteggiatori, invece, rientrano i due personaggi che hanno dominato la scena politica del Veneto nei primi 15 anni della Seconda Repubblica (1995-2010): Giancarlo Galan, governatore e poi ministro (pena di 2 anni e 10 mesi, già scontati, e 2,6 milioni di multa) e Renato Chisso, l’uomo delle infrastrutture in Regione (2 anni, 6 mesi e 20 giorni, anch’egli tornato nel frattempo uomo libero). Entrambi, va sottolineato, hanno patteggiato senza mai cedere di un millimetro sull’ammissione di una qualche responsabilità personale: come ai tempi di Mani Pulite, si sono arresi all’idea di concordare una pena con l’accusa, hanno sempre detto, per evitare una prolungata detenzione in carcere.

Magistratura penale e contabile
La magistratura penale e quella contabile hanno chiesto loro una montagna di soldi a titolo di restituzione e risarcimento del danno (Galan ci ha rimesso l’aristocratica residenza di villa Rodella, confiscata all’uopo) ma tutti quei milioni rimangono uno dei misteri gloriosi di questa vicenda. Secondo l’accusa sarebbero stati imboscati da qualche parte all’estero (e finora mai trovati), mentre sul punto un combattivo Chisso è arrivato a sfidare la procura: «Li cerchino pure dove vogliono - ha dichiarato in una recentissima intervista -, hanno il mio permesso per fare qualsiasi accertamento: non troveranno nulla».

Galan e Chisso
In tanti, oltre a Galan e Chisso, hanno tagliato corto patteggiando. Tanto da far pensare a un’inchiesta sottratta, se non per alcune posizioni, alla sua conclusione naturale: un processo che accerti, nel contraddittorio delle parti, le responsabilità di ciascuno. «Ma la sostanza e il valore dell’inchiesta – aveva ribadito all’apertura del dibattimento il procuratore Carlo Nordio, prima di lasciare la magistratura per malaccetto pensionamento – non cambiano, visti i ruoli di molte persone che vi sono entrate. La situazione di compromesso dettata dal ricorso al patteggiamento ha portato al recupero di denaro a favore dello Stato». Come dire: sotto l’aspetto che per certi versi più conta, quello pratico-economico, l’inchiesta è andata dritta a bersaglio.

L’anomalia
Rimane un ultimo tema, fuori dalle questioni giudiziarie, rispetto al quale la vicenda Mose si è rivelata altamente illuminante. In un Paese come l’Italia, governato da un groviglio di leggi farraginose e dal potere di interdizione esercitato dai vari livelli della burocrazia, probabilmente non sarebbe mai stato possibile realizzare seguendo le vie ordinarie un’opera mastodontica come il sistema salva-Venezia. Per farlo, si è dovuti ricorrere a una procedura che costituisce un’anomalia assoluta e l’anomalia era finita talmente fuori controllo da permettere un dilagante malaffare molto ben mascherato. Per dirla ancora con Nordio: «Il Mose è il caso tipico e paradossale in cui chi ha avvelenato i pozzi aveva in mano anche l’antidoto».




la Nuova Venezia online, 13 settembre 2017. Alla vigilia della sentenza sui casi di finanziamento illecito e corruzione legati alla più grande opera mai fatta dallo Stato ecco alcune cifre e date per capire com'è nata la più grande mazzetta della storia. E quello che ci attende in futuro.

Comprereste un’auto se il concessionario potesse scegliere per voi il modello, gli optionals, decidesse gli interventi di manutenzione e riparazione (a vostro carico) e, soprattutto, stabilisse per voi il prezzo? Diciamocelo: per noi comuni mortali che il pane ce lo guadagniamo il prezzo è il 90 per cento della scelta. Ma anche se conoscete un vero ricco, noterete che quando compra qualcosa il prezzo, chissà come mai, diventa ancora più importante. Quindi se la vostra auto costa 20 mila euro, voi provate a fare i calcoli e vi immaginate al volante.

Per il Mose, inteso come sistema complessivo di salvaguardia della laguna di Venezia, invece, la scelta non c’è stata. E questo, come dicono al bar, ha un suo perché. Alla vigilia della sentenza che giovedì 14 settembre, stabilirà colpe e condanne di quella che è stata la più grande mazzetta della storia della Repubblica Italiana, alcuni semplici passaggi spiegano molto di quel fiume di denaro finito nelle tasche di imprenditori, amministratori e politici.

Quando nel 1989 la stesura del progetto preliminare di massima delle opere mobili venne presentato al Consiglio superiore dei lavori pubblici i consiglieri fecero un balzo sulla sedia: il conto era stimato in 3.200 miliardi di lire italiane. Scritto in cifre appare come 3.200.000.000.000. In euro fa circa un miliardo e 660 milioni. Nel 2001 quando appare il progetto di massima la cifra non si modifica di molto:3.700 miliardi di lire pari a 1.920.083.030 cioè un miliardo e 920 milioni di euro.

Un solo anno e tutto cambia. Nel 2002viene presentato il progetto definitivo e il costo è magicamente raddoppiato a settemila miliardi di lire. Guardiamolo scritto in numeri: 7.000.000.000.000, un sette seguito da 12 zeri. Cioè 3.623.589.517 di euro: tre miliardi e 623 milioni del nuovo conio europeo.
Prima tranche di finanziamenti dallo Stato: 450 milioni di euro subito e poi a rivedersi nel 2013 quando la somma messa a disposizione sale a 4 miliardi e 987 milioni di euro. Appena un anno dopo, nel 2014, si arriva a 5 miliardi e 267 milioni di euro.

In questi giorni siamo al 90 per cento del completamento dei lavori e l'opera è costata 5 miliardi e 493 milioni di euro. Per il restante 10 per cento, se tutto va bene, ci vorranno quindi altri 549,3 milioni di euro. Il totale del costo del Mose sarà così di almeno 6 miliardi di euro. In lire la calcolatrice si rifiuta di far vedere la cifra e usa le potenze. E allora carta e penna: 11.562.000.000.000. Cioè 11 mila 562 miliardi di vecchie lire italiane. La vostra auto invece di 20 mila euro ne è costata 80 mila.
La prendete? Difficile. Anche perché uno che vi quadruplica il prezzo (e che prezzo!) può essere affidabile dopo, quando ci saranno i costi di gestione? Quindi guarderete il venditore e lo saluterete educatamente per andarvene.

Invece con il “sistema Mose” dovete restare seduti, pagare prima, ringraziare e prendervi l'auto e tutti i costi che scoprirete mano a mano che si presenteranno e che, se tanto mi dà tanto, comincerete a ritenere colossali. Penserete di essere stati fregati, insomma, che era meglio seguire il consiglio di vostra zia: "Ricorda che in famiglia non siamo tagliati per gli affari". Perché il vostro problema è che qualcuno prima aveva nominato proprio quel venditore di auto come unico venditore possibile per voi, che quindi siete obbligati a comprare tutto quel che vi offre.

La storia nasce dopo la famosa "acqua granda", l'acqua alta a 194 centimetri del 1966, quando arrivò la Legge speciale per Venezia, in cui, era il 1973, la salvaguardia di Venezia e della sua laguna vennero dichiarati per legge "preminente interesse nazionale". L'Italia si dichiarava disponibile a finanziare la difesa di quello che i veneziani non sapevano difendere. Due anni dopo il Ministero dei lavori pubblici apre una gara: “datemi il progetto migliore al prezzo più ragionevole e io ve lo finanzio”. Vi possono partecipare solo aziende italiane dato che all’epoca non esiste ancora l'obbligo di gara europea.

Incredibilmente nessuna azienda nazionale presenta un progetto ritenuto valido. Ora si urlerebbe: "C'è un accordo, un “cartello” di aziende che vuole rovinare la concorrenza". Ma allora forse erano tutti o un po' più scemi o tanto, tanto più furbi. Dipende dal punto di vista della guardia o del ladro. Alla fine tutti i progetti vengono riuniti e vengono affidati a un gruppo di esperti: viene steso il "Progettone". Perché poi diventa tutto grande. Dopo il Progettone una legge speciale approvata nel 1984, governo pentapartito di Bettino Craxi, crea il "Comitatone" come comitato di indirizzo, coordinamento e controllo, mentre il ministro Franco Nicolazzi, buonanima di navigato politico del PSDI, crea il "concessionario unico dello Stato". Cioè nessuno dice: “facciamo una gara, ditemi quanto volete per fare questa casa e vinca il migliore”.

No. Il ministro Nicolazzi (buonanima) e il presidente del Consiglio Craxi (buonanima) firmano un decreto che dice che un gruppo di industrie scelte da loro sono le migliori disponibili e le nomina Concessionario unico dello Stato. Nasce così il Consorzio Venezia nuova, un gruppo (privato) di industrie cui viene affidata "la ideazione, progettazione e realizzazione" del progetto. Chi controlla? Il Magistrato alle acque.

La più gigantesca opera realizzata dallo Stato con un fiume di soldi mai visti prima gestito da un unico soggetto privato viene quindi sottoposta a un solo vero controllore, affidandosi all’onestà dei singoli. Come sia finita lo hanno spiegato i due pubblici ministero Stefano Ancillotto e Stefano Buccini nella loro requisitoria: “I controllori erano a libro paga dei controllati”. Era così imprevedibile? Quando il 4 giugno 2014sono scattati all’alba gli arresti di 35 persone tra politici, funzionari, imprenditori, magistrati, ufficiali (100 gli indagati) si poteva onestamente dire che era stato fatto tutto il possibile perché non accadesse?

Fatto sta che tutto invece va avanti nella gloria. Nel 2002 il Consorzio sceglie un progetto molto particolare: le dighe mobili. Uno sbarramento formato da78 paratoie mobili in acciaio poste alle tre bocche di porto della Laguna: porto di Lido (due serie di 20 e 21 paratoie con i mezzo un’isola artificiale), porto di Malamocco (19 paratoie) e porto di Chioggia (18).

Ognuna fissata a un cassone di alloggiamento in calcestruzzo a cui sono collegate dalla cerniere (il vero "cuore" dell'intero sistema) su cui gli esperti si sono scatenati: fatte male secondo i critici, con acciaio non all’altezza dopo aver presentato invece cerniere in acciaio speciale nel modulo di prova. Cerniere che quindi potrebbero presentare molti problemi per la gestione, con costi di riparazione astronomici. Cerniere fatte bene, invece, secondo il Consorzio. Queste paratoie dovranno difendere Venezia da acque alte sino a tre metri. Il problema è che prima ancora di essere completato (la previsione parla del dicembre 2018), il sistema presenta già delle magagne serie: alcune paratoie fanno fatica ad alzarsi.

Beh, ora avete capito il costo della vostra auto e cominciate ad avere la certezza che i problemi saranno parecchi. Buon viaggio.

la Repubblica, 14 settembre 2017. «Per stoppare l’avanzata del cambiamento climatico e del riscaldamento globale è necessario fermare la crescita economica. Questa è la realtà». Intervista ad Amitav Gosh, autore di La grande cecità

Siamo tutti vittime e colpevoli, dice Amitav Ghosh. Pare di riascoltare le parole dell’ultima intervista di Pier Paolo Pasolini. Altra epoca, altro «gioco al massacro ». Ma il finale è lo stesso. Siamo tutti «deboli e vittime» del cambiamento climatico, perché ne subiamo le spietate conseguenze. Ma siamo anche tutti colpevoli perché, dice lo scrittore indiano, «il silenzio e l’indifferenza verso la più grande e imminente catastrofe del presente umano è di tutti. Non solo dei politici, ma anche di scrittori e intellettuali, che si occupano raramente di questo problema, e dei cittadini, che oramai dimenticano le sempre più frequenti catastrofi naturali, da Livorno ai Caraibi, dall’India a Houston».
Benvenuti dunque nell’epoca della “Grande cecità”, dove un cavalluccio marino nuota con un cotton fioc e dove neanche l’occhio di Irma, il più terribile uragano della storia recente degli Stati Uniti, ci illumina la vista, né «smuove le coscienze. O meglio, la nostra incoscienza», racconta affranto Ghosh, autore, tra le altre cose, de Il paese delle maree e della Trilogia dell’Ibis. La Grande Cecità
che ha annebbiato il nostro immaginario e l’istinto ecologico, è anche il nome dell’ultimo saggio di Ghosh, edito da Neri Pozza (pagg. 284, euro 18). Sottotitolo «il cambiamento climatico e l’impensabile». Impensabile, spiega lo scrittore, «è l’autocensura del termine climate change, che compare raramente in libri e media, nonostante la gravità del problema. È una questione di narrativa, di immaginazione».
E perché capita questo, Ghosh?
«Alla base c’è sicuramente una colpa dei politici e della inerme comunità mondiale. È una cosa scandalosa, ma in fondo la capisco. Oggi i politici hanno mandati di 4-5 anni in media ed è impossibile limitare una piaga così ampia e a lungo termine come il cambiamento climatico in tempi così brevi. Gli accordi di Parigi, già rinnegati da Trump, sono stati importanti ma si tratta di un passo minuscolo verso una soluzione del problema».
Come mai?
«Innanzitutto perché ne affrontavano una parte piccolissima, concentrandosi solo sulle emissioni e non su agricoltura, acqua e altri aspetti cruciali. Più in generale, per stoppare l’avanzata del cambiamento climatico e del riscaldamento globale è necessario fermare la crescita economica. Questa è la realtà. I politici lo sanno ma non lo ammetteranno mai, altrimenti si brucerebbero la carriera. Invece continueranno a ripetere “crescita, crescita, crescita”. Così i disastri e il calore cresceranno sempre di più, oramai l’aria condizionata la usano anche a Seattle, saranno necessari energia e fondi sempre maggiori, e continueremo a morderci la coda fino al prossimo disastro».
Cosa bisogna fare secondo lei?
«Limitare l’uso di energia, e ricalibrare quest’ultima sul consumo pulito. Ridefinire il modello economico e la globalizzazione. Così non si può andare avanti. Il Pakistan per sopravvivere deve esportare sempre più cotone, ma per farlo crescere ci vuole tanta acqua, e così prosciuga le sue riserve. Lo stesso accade in India per la canna da zucchero. Ma la crisi idrica è una delle tante conseguenze di questo sistema insostenibile. E nessuno ne parla seriamente ».

Nella “Grande Cecità” lei affronta proprio questo problema. Quali sono le cause?
«La cultura è connessa al mondo della produzione di merci e ne induce i desideri. Inoltre, non c’è istruzione né educazione su ambiente e cambiamento climatico, né da piccoli, né da grandi. Perciò, al cinema o nei romanzi, un tema del genere non viene ancora considerato realistico, ma surreale, o “fantascienza”. Eppure il disastro è qui, imminente, intorno a noi. La cosa più deprimente è la glaciale insensibilità che persino i cittadini, ormai, mostrano senza ritegno».
Ma perché abbiamo smarrito quest’anima ambientalista? Del resto, anche in Europa, per esempio, i partiti verdi ed ecologisti hanno perso moltissimo consenso.
«È vero ed è sconfortante. La nostra assuefazione emotiva nei confronti dei disastri naturali e del cambiamento climatico si è fortificata parecchio negli ultimi decenni. Quasi non ci spaventano più, ma soprattutto non ci fanno più pensare alle loro conseguenze e, quindi, al nostro futuro. L’attuale modello di vita estremamente materiale, individuale e schiacciato su una singola esistenza influisce profondamente su qualsiasi domanda sul nostro destino e sul futuro del mondo. Non che avessero fondamento scientifico, ma almeno in passato, quando le religioni avevano molto più seguito, le catastrofi naturali ci inducevano a riflettere sulle loro cause, sul perché di quella “punizione divina”. Era un ragionamento errato, ma almeno si rifletteva. Oggi abbiamo rinunciato anche a questo. Paradossalmente, nell’era della globalizzazione, non abbiamo più quello spirito globale nell’avversità. Per questo si tratta di un problema soprattutto culturale».

E, conseguentemente, molto spesso non si fa nulla neanche per la prevenzione dei disastri.

«Difatti sono rimasto sconvolto da quello che è successo a Livorno qualche giorno fa. È incredibile che in un paese come l’Italia possano accadere drammi simili senza alcuna protezione pregressa, date anche le condizioni particolarmente ostiche del territorio italiano. Persino le Mauritius hanno un ottimo sistema di allerta anti cicloni, per esempio. Anche la vituperata Cina sta facendo molto rispetto al passato. Ma nemmeno questo oramai mi stupisce più. Le grandi nazioni occidentali, nonostante la facciata, sono paradossalmente quelle che fanno meno per risolvere il problema. Non solo Trump, ma anche uno come il premier canadese Justin Trudeau, icona dei liberal e della sinistra nel mondo, sta facendo poco per l’ambiente. L’influenza della cultura economica, estrattiva e coloniale del mondo anglosassone non si è indebolita nei decenni. Eppure affrontare il cambiamento climatico risolverebbe tanti problemi dell’Occidente, anche quelli migratori. E invece... Con questo assordante silenzio intorno, è impossibile essere ottimisti».

il Post, 12 settembre 2017. Una magistrale passeggiata, con i piedi nella poltiglia artistico-mondana della Serenissima e lo sguardo sui lampi di luce e d'ombra provenienti dalle tragedie in atto nel mondo.

«Filippomaria Pontani racconta il film dell'artista cinese sui migranti, e quello che gli manca»

Diluvi a Venezia. Inondazioni ovunque, nella città del Mose. L’acqua alta di fine estate è quella del fotografo americano David Lachapelle, che in una sontuosa personale alla Fondazione Tre Oci, alla Giudecca, punta il grandangolo per mostrare l’apocalisse della nostra civiltà, non solo con le ardite composizioni michelangiolesche della serie Deluge (2006), ma anche con alcune opere più recenti quali Seismic Shift (2012), vasta panoramica su una sala allagata e in rovina, in cui campeggiano le pericolanti opere milionarie delle star del jetset artistico internazionale, Jeff Koons, Takeshi Murakami, Barbara Kruger, Andy Warhol, Zeng Fanzhi, Damien Hirst: esposta giusto davanti alla Christmas Card della famiglia Kardashian, questa allegoria pop sembra rinviare, sic et simpliciter, al declino di un lusso insostenibile.

Ancora acque negli spazi della Fondation Pinault a Punta della Dogana, dall’altra parte del Canale della Giudecca, giusto dinanzi ai Tre Oci: lì, proprio l’inglese Damien Hirst, il Creso dell’arte di oggi, documenta nell’enorme mostra Treasures from the Wreck of the Unbelievable il sedicente recupero di un gruppo di statue monumentali antiche dalle acque africane: alle pareti, filmati stile History Channel che mostrano sommozzatori e argani marittimi; sui reperti, le incrostazioni di conchiglie e molluschi; all’entrata, pannelli che sciorinano notizie erudite sulla trireme affondata, dal plausibile nome antico di “Àpistos” (“Incredibile”, appunto) e sul suo proprietario, il ricco liberto antiocheno di età antonina Cif Amotan II, trasparente anagramma per “Fantomatic”. Ma tutto è finto, tutto è una messinscena, dalla nave al recupero al liberto, tutto tranne le sculture stesse, che maestose e ammiccanti punteggiano il percorso in marmo nero, marmo rosa, granito, bronzo, oro, quarzo, cristallo, pietre preziose: in esse Hirst raffigura con maestria leggende greche, orientali e moderne (da Aracne a Calì a Mickey Mouse) in un decadente e costosissimo mish-mash mitologico tra l’ironico e il compiaciuto.

La trimurti dell’arte contemporanea mainstream in Laguna si è completata venerdì 1 settembre al Lido, sotto un acquazzone insistito, con un’altra inondazione fine-di-mondo, stavolta vera: la “Marea umana” (Human Flow) del cinese Ai Weiwei, in concorso alla 74ma Mostra del Cinema. Il documentario, poi non premiato dalla giuria nonostante le indiscrezioni della vigilia, svolge bene la funzione di raccontare il fenomeno migratorio a livello globale (straordinario – e davvero costosissimo – lo sforzo che ha portato la troupe dal Kenya al Myanmar, dal Pakistan al Messico, anche se il cuore è tra l’Europa e il Medio Oriente), inducendo inevitabili riflessioni sulle analogie e le costanti profonde che connotano chi abbandona casa propria in cerca di un futuro migliore. L’opera è tuttavia inficiata dall’ingombrante ego del regista e da troppe interviste istituzionali un po’ prevedibili (ministri, principesse, funzionari dell’UNHCR), e per di più delude chi sperava in geniali invenzioni concettuali di colui che sul tema, in qualità di artista, si era già esibito l’anno scorso in una fortunata installazione a Palazzo Strozzi. Le insistite vedute dall’alto dei campi dei rifugiati di mezzo mondo rimangono quasi una maniera, e riescono alla fin fine meno poetiche dei versi del dispatrio di Moniza Alvi (“Molto meglio un tappeto volante / finemente annodato, più ricco / del sangue, largo abbastanza / per tenere insieme la famiglia, / isolata, lontana / da ogni pericolo, / in rapido viaggio / attraverso il cielo senza confini”). Il richiamo al “rispetto”, allegato a un finto e impostato scambio di passaporti tra l’onnipresente regista e un rifugiato siriano nel campo di Idomeni, è parimenti meno fresco e probante della lirica vissuta di Shirin Fazel (“Non siamo entrati nelle vostre città / con arroganza e armati di fucili, / ma con rispetto”). E in tutto il film, praticamente privo di veri personaggi, ancor più degli sgomberi violenti dei campi di Calais e Idomeni possono le immagini di una tigre in gabbia nel caos di Gaza, o di una mucca annerita dai fumi del petrolio presso Mosul, perché – insegna l’Auden di Refugee Blues – quando l’umanità si smarrisce è inevitabile guardare agli animali (accadeva lo stesso con l’agonia dei cavalli a Beirut in una memorabile scena di Valzer con Bashir).

Chi ha calpestato le zolle di Idomeni, prima dello sgombero, e vi ha incontrato Weiwei al lavoro con la sua troupe, riconoscerà nel documentario alcuni volti reali, dal barbiere del campo a uno dei tanti bambini che giocavano a calcio con palle di pezza in mezzo al fango e ai miasmi. Ma non troverà, di quella città improvvisata e senza legge, le ferite, gli abbracci e i sorrisi schietti, quelli che forse la cinepresa inibisce, e che ha invece catturati in un bellissimo album il fotografo Sakis Vavalidis; non troverà l’odore penetrante delle fumarole, i panni stesi sulle tende e sulle staccionate, l’umanità a corrente alternata dei poliziotti (quella scintilla colta da Andrea Segre in L’ordine delle cose, il vero, grande film veneziano sulle migrazioni), i cuochi grassi e i volontari delle ONG (già, anche lì le tanto vituperate ONG) che si voltano un attimo a piangere e poi tornano a distribuire la zuppa. Né troverà quell’artista di 8 anni, Shaharzad, diventata famosa per un quarto d’ora nel 2016 con i suoi disegni a pennarello di Aleppo, dei bombardamenti e della traversata: oggi sarà negletta e imbottigliata in qualche campo di Grecia come tanti suoi fratelli ancor meno fortunati sotto i viadotti della Turchia o nei lager della Libia. Purché non entrino, purché rimangano fuori dal nostro pomerio. Purché la marea, se non può esser finta, almeno passi lontano da noi.

Accanto a noi, il diluvio: è questo il titolo di un libro importante del sociologo tedesco Stephan Lessenich (Hanser 2016), che esamina laicamente le dinamiche e i prezzi della società del benessere, di quella che egli chiama – riconoscendo in questo un puntello essenziale del capitalismo occidentale – “società dell’esternalizzazione”: vi si legge come le guerre, gli inurbamenti, le nuove povertà, le migrazioni, siano in larga parte legate al modello globale per cui una ristretta élite di Paesi sfrutta il resto del mondo, al punto che – restando agli animali – un’immaginaria società dei cani domestici statunitensi avrebbe un tenore di vita superiore a quello del 40% della popolazione umana mondiale. Secondo Lessenich, ci si può anzi meravigliare che – stanti le disuguaglianze sempre crescenti e ormai incalcolabili tra il “Nord” e il “Sud” – le migrazioni non assumano proporzioni ben più cospicue e ingestibili. Ma la questione non è soltanto economica, ed ecologica (i cambiamenti climatici, i conflitti per le risorse, le speculazioni delle multinazionali sulla sabbia dell’Indonesia, la bauxite del Brasile, la soja dell’Argentina, il cotone dell’India), bensì investe la coscienza collettiva di società che non vogliono vedere, che esternalizzano la loro coscienza dimenticando che, al di là di ogni facile terzomondismo, dietro ogni profugo nigeriano o libico sta un barile del nostro petrolio estratto dalla sua terra, dietro ogni Afghano una mole del nostro gas che passa dai suoi monti – risorse preziose sottopagate agli oligarchi locali, che peraltro depositano i loro soldi cifrati nelle banche dell’Occidente.

Nel film di Ai Weiwei, distribuito da Amazon, di tutte queste dinamiche non si intuisce praticamente nulla; ma ora che nel nostro mondo “borderless” si sono alzati muri da ogni parte (financo in mare), ora che – come mostra Segre con straordinaria preveggenza – non arretriamo nemmeno più dinanzi al prezzolare carcerieri turchi e scafisti libici perché siano loro a stornare le ondate e a ricacciare l’orrore nel prediletto “regime dell’invisibile”, potrebbe dunque essere nel giusto Lessenich a sostenere che tutto questo non sia un fenomeno passeggero, che i pannicelli caldi della “green economy” e della “crescita intelligente” siano degli specchietti per le allodole, kicking the can down the street, e che i grandi eventi in corso stiano davvero grattando il limite estremo del modello neocapitalista di sviluppo? “La marea che sale solleva tutte le barche” diceva J.F. Kennedy per motivare il progresso capitalista degli anni ’60. Ma se le dighe ormai scricchiolano (perché, prima o poi, cederanno), e se nel cielo di Venezia sembrano arrivare altri diluvi, quali colombe ancora ascolteremo?

Un libro utile per comprendere, con un'analisi critica a più voci, la decadenza d'una regione una volta all'avanguardia del buongoverno del territorio. Les mieux s'en vont, i migliori se ne vanno... 13 settembre 2017

Ironia della sorte (ma non troppo); l’Emilia Romagna, un tempo regione modello per l’urbanistica italiana, si appresta ad approvare una legge regionale (Disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio, n° 4223), che basandosi sulle parole d’ordine di rigenerazione/riqualificazione nelle città storiche, conclama la definitiva mutazione genetica di questa disciplina. Che da sapere finalizzato a limitare e contenere gli effetti negativi di uno sviluppismo, si trasforma in fiancheggiatrice del più bieco sfruttamento del territorio e delle città storiche. L’elemento cardine dello sviluppo del territorio non spetta infatti più al piano regolatore comunale, ma agli accordi operativi derivanti dalla negoziazione fra l’amministrazione comunale e gli operatori privati che presentano al comune un’apposita proposta da approvare in 60 giorni, tempo proibitivo per i comuni.

Altro contenuto inaccettabile della nuova legge urbanistica riguarda il contenimento del consumo del suolo. Ogni comune può prevedere un consumo di suolo pari al 3% del territorio urbanizzato. Quest’espansione - ingiustificata e fin troppo generosa - è destinata a opere d’interesse pubblico e a insediamenti strategici “volti ad aumentare l’attrattività e la competitività del territorio”. Ed a conti fatti, tra eccezioni, deroghe e salvataggio di diritti acquisiti, è lecito supporre che il consumo di suolo consentito sarà di gran lunga superiore, fino al doppio o al triplo, del previsto 3% della superficie urbanizzata.

Di questo, della fine dell’urbanistica, ci parla un libricino collettivo uscito da poco, a cura di Ilaria Agostini, (Edizioni Pendragon, Bologna, pp.110, euro 8) dal titolo: Consumo di luogo. Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia Romagna, che raccoglie gli scritti di: Montanari, Salzano, Marson, Agostini, Losavio, Bonora, Cervellati, Berdini, Foschi, Bevilacqua, Rocchi, Righi, Dignatici, Alleva, Quintavalla, Caserta.
Perché la proposta di legge nei fatti prevede un doppio regime urbanistico. Da una parte le iniziative immobiliari di imprese e privati godrebbero di un canale privilegiato; dall’altro le esigenze di famiglie ed attività economiche restano affidate ai vecchi dispositivi. Una proposta di legge più che inutile, dannosa, che consegnerebbe il territorio agli interessi della speculazione fondiaria e toglierebbe la sovranità ai cittadini, gli unici attori indispensabili della democrazia. C’erano già dei precedenti nei DdL del ministro Lupi, nel 2014, ministro alle infrastrutture del governo Renzi; ora quei tentativi (falliti) di smantellare l’intero impianto urbanistico, che aveva come perno il Piano, e con esso, l’autonomia dei comuni, diventano i contenuti di una proposta di legge di una regione che, nel passato, era un modello di riferimento non solo per l’Italia. Il libro è intitolato, non a caso, Consumo di luogo, perché il DdL oltre a consentire un incremento di consumo di territorio, favorisce i processi in atto che avvelenano le nostre città storiche, dove: turisti, boutique di lusso, pizzerie e kebaberie, paninerie, mini market, invadono portici, strade e piazze; luoghi privilegiati dove si svolge la vita urbana e che rischiano di diventare spettrali simulacri di città.
In sintesi tre sono i pilastri che costituiscono la più micidiale innovazione urbanistica mai pensata: 1) accordi operativi con i privati in variante ai piani urbanistici vigenti; 2) incentivi ai diritti edificatori (mai messi in discussione) definiti dai piani; 3) eliminazione degli standard urbanistici tramite l’invenzione degli standard differenziati. Tre pilastri dell’urbanistica neoliberista fondativi della subordinazione del pubblico agli interessi privati. Diceva il sindaco La Pira, nel 1955, al Convegno di tutti i Sindaci del mondo (intitolato: Per la salvezza delle città di tutto il mondo): se le città non sono cumuli di pietra, ma affascinanti quanto misteriose abitazioni di uomini…… Ora queste città non sono nemmeno più cumuli di pietra, ma solo praterie dove è consentito la più sfrenata scorreria degli interessi privati. Come si dice in premessa al libro, il messaggio è questo: non portate il cavallo di legno di questa legge dentro le mura della città. O la città sarà messa a ferro e fuoco.

la Repubblica, 13 settembre 2017. «Un partito di governo che proponga di mutilare i monumenti (per quanto nobile sia l’obiettivo finale) trasmette un messaggio di impotenza». (c.m.c.)


Il potere dei monumenti appare oggi inversamente proporzionale al potere della politica. Lo suggeriscono le dichiarazioni con cui vari esponenti del Partito democratico propongono di cancellare le iscrizioni dei monumenti fascisti. Ieri il deputato Emanuele Fiano ha espresso il suo consenso (poi derubricato a una meno impegnativa neutralità) rispetto alla proposta di Luciano Violante di abradere la scritta «Mussolini Dux» dall’obelisco del Foro Italico.

Il parallelo con quanto accade negli Stati Uniti non regge. Lì a chiedere, o ad attuare, l’abbattimento delle statue dei generali sudisti e dei politici schiavisti è una agguerrita opposizione civica che contesta un presidente che, in modo inaudito, simpatizza con quella terribile storia. È Trump, insomma, ad aver ridato forza e vita a quelle statue: e chi le abbatte cerca di abbattere Trump, almeno in effigie. Un fenomeno comprensibile, anche se pieno di contraddizioni e di pericoli, come ha ben spiegato Ian Buruma.
Ma da noi è, paradossalmente, il contrario: sono uomini del partito di governo a dichiarare di voler mettere le mani sui monumenti.

Ora, l’architetto Fiano e i suoi colleghi dovrebbero sapere che si tratta di monumenti tutelati dalla legge e dalla Costituzione repubblicana, e che dunque chi li manomettesse commetterebbe un reato. E, soprattutto, un partito di governo che proponga di mutilare i monumenti (per quanto nobile sia l’obiettivo finale) trasmette un messaggio di impotenza: di una politica ridotta a propaganda. Perché i governi democratici, a differenza di quelli autoritari, non praticano l’iconoclastia: essi hanno il dovere di utilizzare strumenti ben più potenti e appropriati.

Per esempio, si vorrebbe vedere rivolta contro i troppi gruppi dichiaratamente neofascisti o neonazisti anche solo una piccola parte della forza di polizia usata negli ultimi mesi contro i poveri, i marginali, i migranti. Prima ancora: il governo dispone di strumenti di intelligence, e credo che sarebbe ora di veder chiaro nelle sorprendenti ramificazioni e negli intrecci che legano non i monumenti di pietra, ma i neofascisti in carne ed ossa, ad ambienti insospettabili. Mi riferisco, per esempio, al pentolone scoperchiato dalla documentatissima inchiesta del collettivo di scrittori WuMing provocatoriamente (ma non gratuitamente) intitolata CasaP( oun)D. Rapporti con l’estrema destra nel ventre del partito renziano. Ed è ben noto che da inquinamenti di questo tipo non è esente il Movimento 5 stelle.

Dal governo di una Repubblica fondata anche sullo «sviluppo della cultura» e sulla «ricerca » ci si aspetta non la cancellazione delle scritte sui monumenti di ottant’anni fa, ma la costruzione di strumenti per leggere storicamente e moralmente quelle scritte. Il disinvestimento nella cultura e nella scuola, il sottofinanziamento dell’università e il loro orientamento sempre più professionalizzante rappresentano uno smantellamento della formazione alla cittadinanza, e dunque una distruzione dei veri anticorpi antifascisti.

Per rispondere al terribile fascismo fiorentino degli anni venti, Nello Rosselli progettava di fondare biblioteche per ragazzi in ogni quartiere della città, e mentre era chiuso in carcere Antonio Gramsci rifletteva sull’urgenza di dotare l’Italia di «servizi pubblici intellettuali: oltre la scuola, nei suoi vari gradi », quelli che « non possono essere lasciati all’iniziativa privata, ma che in una società moderna, devono essere assicurati dallo Stato e dagli enti locali (comuni e province): il teatro, le biblioteche, i musei di vario genere, le pinacoteche, i giardini zoologici, gli orti botanici». E non si pensa senza vergogna alla nostra attuale incapacità di costruire a Milano un vero Museo della Resistenza, cioè un grande centro di ricerca, capace di redistribuire conoscenza critica attraverso i canali più moderni.

Da un partito di governo dell’Italia democratica del 2017 non ci si aspetta, insomma, una propaganda iconoclasta, ma un progetto culturale che costruisca l’antifascismo attraverso la cultura: non la cancellazione delle contraddizioni storiche, ma la capacità di mettere tutti in grado di interpretarle. Non la finzione che il fascismo non sia stato: ma la forza culturale e morale per meditare «che questo è stato» (Primo Levi).

Italia nostra, 9 settembre 2017. Le ragioni per cui, come abbiamo scritto, l’attuale presidente della regione Sardegna è ancora peggiore (almeno per la tutela del paesaggio) del suo predecessore berlusconiano. A proposito di usi civici e paesaggio

Italia Nostra manifesta pieno sostegno all’on. Ilaria Borletti Buitoni, Sottosegretario ai Beni, Attività Culturali e Turismo, oggetto di un duro attacco da parte del Presidente della Giunta regionale della Sardegna, Francesco Pigliaru e il nostro appoggio incondizionato anche al Soprintendente all’Archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Cagliari e per le province di Oristano e Sud Sardegna, Fausto Martino, il quale ha coraggiosamente espresso le sue preoccupazioni mostrando di essere fino in fondo funzionario statale fedele al suo ruolo.

A conferma della correttezza della proposta impugnazione, con particolare riferimento agli articoli 37, 38 e 39, Italia Nostra osserva che il semplice richiamo alle norme sulla copianificazione non corrisponde a un reale rispetto delle stesse, in quanto le modalità e i termini rigidi posti dalla Regione all’operato della Soprintendenza per decidere la sclassificazione degli usi civici - l’accordo che riconosce l’assenza di valori paesaggistici deve essere siglato entro il termine di 90 giorni dalla delibera del Consiglio comunale -, rendono impossibile una corretta valutazione dei valori protetti.

Le aree interessate, infatti, comprendono oltre 400 mila ettari, il 20% circa dell’intero territorio dell’isola, mentre i funzionari ministeriali che dovrebbero valutare l’assenza dei requisiti per confermarne la sclassificazione, anche a seguito della contestata riforma del Mibact, sono un numero assolutamente esiguo.

La valutazione di tutte le componenti relative a tali beni paesaggistici, inoltre, comporta un’analisi estremamente complessa dal momento che secondo la costante giurisprudenza della Corte costituzionale “i caratteri morfologici, le peculiari tipologie d’utilizzo dei beni d’uso civico ed il relativo regime giuridico sono meritevoli di tutela per la realizzazione di interessi generali, ulteriori e diversi rispetto a quelli che avevano favorito la conservazione integra e incontaminata di questi patrimoni collettivi”, Corte costituzionale, sentenza del 11 maggio 2017, n. 103.

La perdita della destinazione agraria, insomma, non comporta di per sé perdita di rilevanza ambientale, in quanto la qualità paesaggistica di un luogo non è immediatamente collegata allo specifico uso civico gravante sullo stesso.

A questo proposito non bisogna neanche dimenticare che, in applicazione dei consolidati principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale, civile e amministrativa, i beni compromessi necessitano di una tutela ancora più ampia.

Ebbene, il corretto svolgimento di queste valutazioni viene impedito dalle disposizioni citate, escludendo, di fatto, la realizzazione del “meccanismo concertativo” richiesto a pena di illegittimità dalla stessa Corte costituzionale, in aperta violazione dei principi e delle norme che impongono la tutela dell’ambiente e regolano le competenze stato-regione in tale materia.

L’attività in oggetto, infine - originata da esigenze opposte alle finalità di tutela del territorio - rischia di assorbire totalmente le esigue risorse delle soprintendenze, sottraendole agli ordinari compiti istituzionali.

E’ anche importante sottolineare che l’articolo 39, comma 3, della legge impugnata crea una sorta di condono mascherato, consentendo le sdemanializzazioni in tutte le ipotesi in cui l’utilizzo illecito dei beni gravati da uso civico abbia riguardato “finalità di pubblico interesse connesse alla realizzazione di opere pubbliche, all’attuazione di piani territoriali o comunali di sviluppo industriale e produttivo del territorio o all’attuazione di piani di edilizia economica e popolare”.

A questo proposito si segnala anche l’illegittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 17° ter, del c.d. decreto per il Sud, evidentemente sfuggita al vaglio della commissione competente. Secondo la norma citata, infatti “gli atti di disposizione [...] sui terreni gravati da uso civico, adottati in violazione delle disposizioni in materia di alienazione [...] sono da considerarsi validi ed efficaci ove siano stati destinati al perseguimento dell’interesse generale di sviluppo economico della Sardegna, con inclusione nei piani territoriali di sviluppo industriale approvati in attuazione del testo unico delle leggi sul Mezzogiorno [...]. Gli stessi terreni”, si conclude “sono sottratti dal regime dei terreni ad uso civico”. Tale emendamento - introdotto dal senatore Silvio Lai in sede di convalida del decreto legge successivamente alla sua approvazione - mostra l’evidente intento di eliminare gli usi civici dalle aree destinate all’ampliamento dello stabilimento dell’Eurallumina di Portovesme, violando i consolidati principi costituzionali sopra richiamati.

Per quanto riguarda le questioni più generali rimproverate dal Presidente regionale alla Sottosegretaria, la nostra associazione conferma anche la continuità tra le politiche in materia urbanistica della passata Giunta di centrodestra e la attuale.

Per averne una dimostrazione basta dare uno sguardo alle norme sul c.d. piano casa, che ha sostanzialmente recepito il precedente - in deroga al Piano paesaggistico regionale - rendendolo permanente e per certi aspetti addirittura più lesivo dei valori ambientali e paesaggistici, come nel caso dell’aumento dal 10% al 25% degli incrementi volumetrici consentiti all’interno dei 300 metri dalla linea di battigia. Disposizioni recepite anche dalla legge urbanistica di prossima approvazione, che presenta numerosi contrasti con il Piano paesaggistico regionale e palesi vizi di illegittimità costituzionale e della quale si chiede fin d’ora l’impugnazione da parte del governo nel caso venisse approvata.

Maria Paola Morittu, Vice Presidente di Italia Nostra

Il patrimonio arboreo storico della città, afflitto dai danni provocati dalla sua malagestione, viene sacrificato in nome della sicurezza e di cantieri. il Fatto Quotidiano online, 11 settembre 2017 (p.d.)

Nardella tenta di riscattarsi dopo il putiferio estivo seguito all’abbatimento di centinaia di alberi in città. Ammaliato dal messaggio green di Stefano Boeri, autore del grattacielo “verde” o “bosco verticale” a Milano, il sindaco ha bandito un concorso per decorare con vegetazione arbustiva e magari con alberi i dispositivi di protezione antiterroristica del centro fiorentino. La “Chiamata alle arti” (ahi, così si intitola il bando) contribuirà a definire un arredo urbano di tutto decoro, e pure un po’ ecologico, che risolverebbe l’urgente questione di sicurezza globale. Put flowers in your gun è il messaggio di un Nardella versione “figlio dei fiori”.

Celare con elementi vegetali e rivestire con la magia del design la recinzione delle enclaves turistiche può solo lenire la crudezza della “città dei recinti”, della segregazione, della zonizzazione tra ricchi e poveri, tra consumatori del lusso e marginalità sociali. È la versione freak di un sindaco che plaudiva al decreto Minniti sulla sicurezza urbana perché finalmente il Daspo urbano gli offriva armi più efficaci per garantire borghese decoro e sicurezza proprietaria. Il concorso per le verdi, “gotiche barriere” (avrebbe scritto Carlo Cattaneo) è bandito in una città il cui patrimonio arboreo è stato pesantemente impoverito. Nel solo mese di agosto: 59 ippocastani abbattuti in viale Corsica. 107 pini neri in viale Guidoni. 45 pini domestici in viale Belfiore. Platani secolari intorno alla Fortezza da Basso. 5 olmi in piazza san Marco. 20 pini in piazza Stazione. 282 piante in totale, molte delle quali non classificate come “pericolose o malate” nella Visual tree assessment (Vta) comunale.

Stessa sorte è prevista per altre centinaia di esemplari del centro storico oltrarno (piazza Tasso, viale Michelangelo, Bobolino etc.) e poi alle Cascine e a Novoli. I cantieri del tram e della nuova stazione Tav (e del relativo tunnel) che immobilizzano il traffico cittadino da mesi, già avevano reso necessario il sacrificio dei lecci secolari di via dello Statuto, dei platani della Fortezza-viale Milton, degli alberi ai Macelli, di viale Morgani e di molte altre piante lungo i tracciati infrastrutturali. In viale Corsica, il taglio degli ippocastani (e il futuro reimpianto di peri cinesi, alberelli non disdicevoli che tuttavia non compenseranno l’assenza di alberi d’alto fusto) ha innescato l’ira dei cittadini, che si vedono depauperati di qualità urbane e ambientali. L’alberatura accresce infatti il benessere da tutti i punti di vista: olfattivo, auditivo, visivo, estetico, simbolico e persino affettivo. La massa vegetale svolge poi una non trascurabile funzione depurativa dell’aria, ha effetti mitiganti sulle temperature, ed è indispensabile perciò nell’attenuare le condizioni favorevoli al manifestarsi di eventi meteorologici estremi, verificatisi anche a Firenze negli anni scorsi. La tromba d’aria del settembre 2014 e l’uragano (downburst) del 1 agosto 2015 hanno travolto, trasformandole in “pericolo” per la cittadinanza, proprio le alberature trascurate, non potate e non adatte a costituire filari stradali.

Dunque, per attenuare gli effetti dei cambiamenti climatici, abbattere le alberature d’alto fusto, sane, e sostituirle con piante di piccola taglia, è la prima cosa da evitare. Eppure. Eppure la paura fa novanta. Nel giugno 2014, un ramo di un albero malcurato uccide una bambina e una donna alle Cascine. Per di più, su anni di malagestione e sui relativi danni erariali indaga oggi la Procura: falso in atto pubblico e deturpamento di bellezze naturali (cfr. “la Repubblica”, 11 agosto 2017). Per decenni infatti a Firenze si sono trascurate le basilari regole di sostituzione graduale: gli esperti indicano nel 2-3% del patrimonio arboreo cittadino la quota di alberi da sostituire annualmente (quota che si è ampiamente superata nei tagli dell’agosto scorso). Si è trascurato il valore culturale del paesaggio vegetale che risale in buona parte al disegno urbano postunitario di Firenze capitale. I magistrati rilevano la mancata regolarità nella programmazione della manutenzione che ha provocato il decadimento delle condizioni di molti esemplari arborei, per i quali si è dovuto procedere all’abbattimento; ciò è avvenuto anche nelle zone della città sottoposte a vincolo paesaggistico.

In nome della santa sicurezza, l’amministrazione prevede nel bilancio del 2017 ben dieci milioni di euro (con un incremento del 3.600% rispetto al bilancio 2014, parola dell’assessore all’ambiente Alessia Bettini, intervistata da Radio radicale) dedicati al verde urbano, per abbattimenti, sostituzioni e reimpianti. In mancanza di una seria programmazione e progettazione del verde, i tagli sono avviati d’urgenza nei mesi estivi, poco indicati anche per via delle nidificazioni dell’avifauna selvatica, e procedono di gran carriera; con cantieri improvvisati, gli abbattimenti avvengono a tappeto nell’agosto più caldo degli ultimi cento anni. Le procedure democratiche saltano. Il consiglio comunale non è avvertito dell’operazione che investe la città. I lavori sono avviati con determine del sindaco. Alla commissione Ambiente in cui il grande taglio è presentato ai consiglieri, l’assessore non si palesa. Ai cittadini, tenuti all’oscuro, non resta che constatare il fatto compiuto.

Ma comitati e associazioni ambientaliste promettono battaglia.

Un editoriale pessimista sul negazionismo del governo Trump in merito al cambiamento climatico. Neanche i recenti disastri in Texas e in Florida fermano la macchina da guerra, dei conservatori. The new York Times, 11 settembre 2017, con postilla (m.c.g.)

Dopo la devastazione provocata da Harvey a Houston - una devastazione perfettamente in linea con le previsioni dei meteorologi – ci si sarebbe aspettati una maggiore attenzione quando gli stessi esperti mettevano in guardia contro i rischi rappresentati dall’uragano Irma. Ma vi sareste sbagliati. Martedì scorso Rush Limbaugh (un noto conduttore radiofonico) ha accusato gli scienziati del clima di inventarsi i pericoli di Irma per motivi politici e finanziari: “Si vuole mettere in agenda il cambiamento climatico, e gli uragani rappresentano l’occasione migliore per farlo” ha dichiarato, aggiungendo che “la paura e il panico” aiutano a vendere batterie, bottiglie d’acqua e pubblicità televisiva. Subito dopo è stato costretto ad abbandonare la sua villa a Palm Beach.

In un certo senso, dovremmo essere grati a Limbaugh per aver quanto meno sollevato il tema del cambiamento climatico e della sua relazione con gli uragani, se non altro perché si tratta di un tema che l’amministrazione Trump sta disperatamente cercando di evitare. Ad esempio, Scott Pruit, il capo dell’Agenzia della Protezione dell’Ambiente federale, un amico dell’inquinamento e degli inquinatori, ha dichiarato che non è questo il momento di sollevare il problema – che questo comportamento mostra una insensibilità nei confronti del popolo della Florida. Inutile sottolinearlo, per persone come Pruitt non vi sarà mai un momento giusto per discutere sul clima.

Cosa possiamo imparare dallo sfogo di Limbaugh? Certamente, che è una persona terribile – ma già lo sapevamo. Il punto importante è che non è uno che evita di esporsi. Di sicuro, non ci sono stati altri personaggi influenti che si sono espressi così negativamente in merito agli avvertimenti su Irma, anche se negare i risultati scientifici attaccando a un tempo gli scienziati in quanto politicamente motivati e venali è una procedura standard della destra americana.

Quando Donald Trump ha definito il cambiamento climatico una truffa, stava semplicemente comportandosi come un normale Repubblicano. E grazie alla vittoria elettorale di Trump, sono dei conservatori ignoranti e contrari alla scienza che oggi governano negli Stati Uniti.

Quando si leggono analisi recenti affermare che la gestione del potere nei confronti dei Democratici in qualche misura ha trasformato Trump in pochi mesi in un moderato indipendente, ricordatevi che non si tratta solo di Pruitt. Tutti i politici di lungo corso dell’amministrazione Trump che hanno a che fare con l’ambiente o l’energia sono Repubblicani e tutti concordano nel negare il cambiamento climatico e l’evidenza scientifica. E la maggior parte di costoro sono d’accordo con la teoria della cospirazione alla Limbaugh.

In realtà, vi è un consenso scientifico travolgente sul fatto che le attività umane stanno riscaldando il pianeta. Quando i politici conservatori e i loro esperti contestano questo consenso, non lo fanno sulla base di una attenta considerazione delle evidenze – dai, non scherziamo – ma impugnando le motivazioni di migliaia di scienziati in tutto il mondo. Tutti questi scienziati sarebbero motivati da pressioni politiche e remunerazioni finanziarie, falsificando dati e nascondendo le opinioni contrarie.

Sembrano chiacchiere folli. Ma sono profondamente radicate nella destra moderna, nei suoi esperti e nei suoi politici. Perché i conservatori americani sono così determinati nel delegittimare la scienza e nel dar credito alla teoria della cospirazione degli scienziati? Parte della risposta sta nel fatto che sono impegnati a difendere il loro potere. Così funzionano le cose nel loro mondo.

Qualche repubblicano disilluso ama parlare di un’età dell’oro del pensiero conservatore, in qualche luogo nel passato. Ma questa età dell’oro non è mai esistita, anche se, in altri tempi, qualche intellettuale conservatore ha espresso delle idee interessanti e indipendenti. Ma molto tempo fa. Oggi l’universo intero degli intellettuali di destra è dominato da propagandisti piuttosto che da studiosi.

E i politici di destra molestano e perseguitano i ricercatori le cui conclusioni non sono gradite – un comportamento che è stato ampiamente legittimato ora che Trump è al potere. L’amministrazione Trump è disorganizzata su vari fronti, ma sta sistematicamente epurando le scienze sul clima e gli scienziati del clima ovunque le sia possibile.

Così, la gente a cui piace ascoltare le trasmissioni di Limbaugh immagina che i liberal siano impegnati in una cospirazione per promuovere idee false sul clima e sopprimere la verità. E questo ha per loro un senso, poiché i conservatori sono sempre più ostili alla scienza in generale. I sondaggi mostrano infatti un considerevole declino della fiducia nella scienza dagli anni ’70 in poi, determinato da un’evidente motivazione politica – non certo dal fatto che la scienza ha smesso di produrre conoscenza.

È vero che gli scienziati hanno restituito il favore, perdendo fiducia nei conservatori: più dell’80% propende per il partito Democratico. Ma come potremmo immaginare che gli scienziati supportino un partito i cui candidati alla presidenza non possono neppure accettare la teoria dell’evoluzione?

La questione di fondo è che oggi siamo governati da gente completamente lontana non solo dalla comunità scientifica, ma dall’idea di scienza – dalla nozione che la valutazione oggettiva dell’evidenza è l’unico modo per conoscere il mondo. E questa ignoranza caparbia è terribilmente spaventosa. Infatti, può finire per distruggere la civiltà.

postilla

Mentre dopo l’inondazione in Texas provocata da Harvey, anche la Florida si prepara a valutare i danni, ambientali e umani, dell’uragano Irma - l’evento che ha provocato la più grande evacuazione di popolazione dalle città dopo quella di Londra durante la seconda guerra mondiale - Scott Pruit, il neodirettore dell’EPA, l’agenzia federale per la protezione dell’ambiente, ha immediatamente dichiarato che discutere di cambiamento climatico nel bel mezzo di una tempesta mortale era una stupidaggine. Ma il personaggio, voluto da Trump a quella carica, considera il riscaldamento globale come una “truffa” (in piena sintonia con il suo Presidente): le emissioni di CO2 da fonti mobili e stazionarie non costituiscono un problema per l’ambiente. Il fronte dei Repubblicani a livello locale sembra un po' meno compatto. Mentre il governatore della Florida Rick Scott, in piena tempesta distruttiva, ribadisce le tesi dei negazionisti, il sindaco di Miami, Tomas Regalado, anch’egli Repubblicano, ha rilasciato un’intervista nella quale ha dichiarato:“If this isn’t climate change, I don’t know what is”. Ma si tratta di un caso isolato. Il pessimismo, quando si tratta di questa leadership, dei suoi giornalisti accreditati, dei suoi esperti e dei suoi amministratori non è mai eccessivo, come sottolinea Paul Krugman nell’editoriale desolato pubblicato sul New York Times che eddyburg ha tradotto per i suoi lettori (m.c.g.).

Il clima sta cambiando, i suoi effetti sono evidenti e le responsabilità delle attività umane sono innegabili. Internazionale online, 11 settembre 2017 (p.d.)

A Fiorenzuola d’Arda, un piccolo comune a sudest di Piacenza, Franco Varani si china per vedere come stanno le piante di pomodoro che occupano la maggior parte degli 80 ettari dell’azienda agricola di famiglia. Dopo aver staccato un frutto, me lo mostra indicandomi la parte inferiore, annerita e secca. “Succede quando la pianta non riceve acqua a sufficienza”, mi spiega. È una mattinata afosa di metà luglio, ci sono già più di 30 gradi e l’aria è appiccicosa. Una strada taglia in due i campi di Varani. Le piante di pomodori formano lunghe file simmetriche e non sembrano passarsela bene: nonostante manchino ancora due settimane alla raccolta, molte stanno già appassendo e gran parte del raccolto andrà perduto. Le terre di Varani confinano con quelle di altri coltivatori. E anche nelle loro, sotto il sole cocente, molte piante stanno morendo. La causa è una delle peggiori siccità degli ultimi decenni, che nei mesi scorsi ha investito l’Italia e che secondo Coldiretti ha fatto perdere più di due miliardi al settore agricolo nazionale.

Anche se ha riguardato l’intero paese, costringendo sindaci e governatori a dichiarare lo stato d’emergenza, alcune zone ne hanno risentito di più. La pianura padana, dove si concentra il 35 per cento della produzione agricola nazionale e dove si produce circa il 40 per cento del pil italiano, è una di queste: la sua principale riserva d’acqua, il bacino idrico del Po, si è ridotta drasticamente proprio nei mesi in cui c’era più bisogno di irrigare i campi. “L’acqua da queste parti non è mai stata un problema, ora invece dobbiamo scegliere quali coltivazioni innaffiare e quali lasciare al loro destino,” dice Varani. Come molte altre aziende della zona tra Piacenza e Parma, anche la sua ha dovuto fare i conti con disponibilità di acqua inferiori rispetto al passato. “Su circa 60 ettari coltivati a pomodoro, siamo riusciti a irrigarne 13. Poi l’acqua è finita”, dice.

La struttura che fornisce a Varani l’acqua per i suoi campi, ovvero la diga di Mignano – una piccola chiusa costruita su un affluente del Po – a giugno è stata chiusa, mettendo in difficoltà molti agricoltori. È la prima volta che accade in ottant’anni. “Non avevo mai visto niente di simile in tutta la mia vita e nemmeno credevo fosse possibile”, aggiunge Varani. “Abbiamo vissuto momenti di crisi anche in passato, ma siamo sempre riusciti a cavarcela. Questa volta però è diverso, non so proprio come faremo ad andare avanti”, conclude.

Campane a morto

Il Po è il più lungo dei fiumi italiani, a volerlo seguire per intero si percorrerebbero 652 chilometri. Alimentato da 141 affluenti, il suo bacino idrico attraversa sette regioni, tocca più di 3.200 comuni e copre un’area di circa 71mila chilometri quadrati. Le sue acque sono un elemento centrale della pianura padana e hanno dato vita a storie e leggende in cui non a caso viene chiamato Grande fiume. Osservarlo da vicino, vedere l’acqua fluire normalmente in alcuni punti e abbassarsi in altri, quasi a diventare un ricordo di giorni più fortunati, aiuta a capire gli effetti della siccità su un pezzo consistente del nostro paese.

Per ragioni geografiche e climatiche, i periodi di secca sono ricorrenti nell’area. Negli ultimi vent’anni, episodi di siccità ci sono stati nel 2003, nel 2007 e nel 2012. Ma l’estate del 2017 sarà ricordata come una delle più calde e meno piovose della storia recente in Italia. Me lo conferma il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), secondo cui durante i mesi estivi sono state registrate temperature al di sopra della media rispetto al trentennio di riferimento 1970-2000.

I periodi di siccità sono diventati sempre più numerosi, così come le piogge torrenziali che colpiscono il nostro paese. “Il clima sta già cambiando e aumentano i fenomeni meteorologici estremi”, denuncia Legambiente. “Dal 2013 al 2016 ben 18 regioni sono state colpite da 102 eventi estremi che hanno provocato alluvioni o fenomeni franosi”, si legge nel rapporto Le città alla sfida del clima. Per quanto possano sembrare distanti, per quanto possa sembrare che si neghino a vicenda, questi eventi sono collegati all’irruzione sulla scena di un unico fattore, e cioè il cambiamento climatico. Tuttavia, ogni volta che si pronunciano queste due parole, si alzano i sopraccigli degli scettici. A molte persone sembra di muoversi in un terreno sconosciuto, lontano, quasi fantascientifico. Ma per vederne gli effetti, basta spostarsi da Fiorenzuola d’Arda a Volpedo, in provincia di Alessandria.

Nel cuore della val Curone, a circa 200 chilometri dalla sorgente del Po, alberi da frutto si inerpicano sulle colline che circondano il paese. Gianpiero Chiapparoli, responsabile della cooperativa Volpedo, mi spiega che qui questo tipo di coltivazioni si è diffuso tra le due guerre mondiali proprio grazie al fatto che fosse un territorio ricco d’acqua. Molte famiglie vivono ancora di questo, ma tante cose sono cambiate rispetto al passato e la situazione per alcuni è drammatica. Gran parte delle mele, delle ciliegie, delle albicocche e delle susine hanno subìto danni ingenti, così come il 70 per cento delle pesche di Volpedo, uno dei frutti più pregiati della zona. L’emergenza ha spinto l’amministrazione comunale ad annullare la festa tradizionale di fine luglio e a far suonare le campane a morto in segno di protesta. “Per quel che riguarda le pesche, parliamo di 800mila euro di fatturato in meno rispetto all’anno scorso”, dice Chiapparoli. “Nel complesso, il fatturato della cooperativa Volpedo passa da tre milioni di euro nel 2016 a 1,3 nel 2017”.

E la situazione non è migliore nella zona del delta del Po. Nell’area del Polesine i raccolti di mais e soia si sono dimezzati, impedendo anche la produzione di foraggio per il bestiame. Mentre nella provincia di Venezia il basso livello delle falde ha favorito l’infiltrazione dell’Adriatico lungo le foci dei fiumi in secca. Il fenomeno prende il nome di cuneo salino ed è uno dei problemi che fa più paura agli studiosi. “Nel delta del Po si verificava già negli anni cinquanta, ma la risalita non andava oltre tre chilometri dalla foce”, spiega Alessio Picarelli, dirigente dell’autorità di bacino del fiume Po. “Mentre oggi è stata rilevata a più di 20 chilometri dal mare. I motivi sono tanti, dall’abbassamento del canale di scorrimento del fiume per il continuo prelievo di sabbia e pietrisco agli stati di magra del Po, un fenomeno in netto aumento a causa del cambiamento climatico”, aggiunge Picarelli. Nelle campagne del litorale veneto il cuneo salino ha reso inutilizzabile l’acqua per irrigare e ha così causato danni ingenti agli agricoltori, facendo registrare quasi il 30 per cento di raccolto in meno rispetto al 2016.

L’influenza umana

I numeri delle aziende e i racconti degli agricoltori fanno pensare che il cambiamento climatico ci riguardi molto più di quanto crediamo e che la situazione sia più grave di quanto si immagini. L’aumento della temperatura media globale nel 2012 è stato di 0,85 gradi rispetto al livello preindustriale, spiega un rapporto delle Nazione Unite. L’Italia non fa eccezione, anzi. Nel 2015 la temperatura è aumentata di 1,58 gradi rispetto alla media annuale. “Il valore più elevato dal 1961”, si legge nello studio dell’Istituto superiore per la protezione ambientale (Ispra).

Nel caso della pianura padana, l’analisi dell’agenzia regionale per la protezione ambientale dell’Emilia-Romagna (Arpae) conferma i dati delle Nazioni Unite e dell’Ispra: “Dal 1960 a oggi sul bacino del Po si osserva un aumento delle temperature medie annue di circa due gradi, che potrebbero arrivare a tre o quattro alla fine del secolo”. Al tempo stesso, rispetto a trent’anni fa le precipitazioni medie annue sono diminuite del 20 per cento. Secondo uno studio del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici(Cmcc), il cambiamento climatico ha giocato un ruolo determinante nel ridurre le riserve idriche del bacino. La situazione è evidente grazie ai dati raccolti dalla stazione di Pontelagoscuro, in provincia di Ferrara.

“I numeri ci dicono che più ci si avvicina al presente, più le temperature aumentano e più le precipitazioni diminuiscono”, dice Paola Mercogliano, una delle autrici dello studio del Cmcc. “La combinazione tra questi due fattori influisce sulla disponibilità idrica in diversi modi. Il ciclo idrologico alterato provoca uno scioglimento anticipato dei nevai e le stagioni di coltivazione diventano più lunghe, facendo così crescere la domanda d’acqua e i prelievi: è un circolo vizioso”, spiega Mercogliano.

A Pontelagoscuro i rilevamenti sono effettuati in corrispondenza di un ponte ferroviario dei primi del novecento, una struttura che collega le due sponde del fiume lungo la linea Bologna-Ferrara. Nella banchina sono ormeggiate alcune chiatte per la ghiaia e un rimorchiatore. Lungo il bacino del Po c’è una rete navigabile di oltre 900 chilometri, che serve una manciata di porti commerciali e alcuni attracchi industriali privati. Ogni giorno gli operatori ricevono un’email dall’agenzia interregionale per il fiume Po (Aipo) con gli aggiornamenti sui livelli del fiume. “Lo scorso marzo, qui il livello segnava -4,9 metri, lo stesso che di norma si registra ad agosto e due metri in meno rispetto allo stesso periodo del 2016”, mi dice Dario Barborini, che da più di vent’anni lavora come manovratore sulle chiatte. “Io qui ci sono nato e non ricordo nulla del genere”. Secondo lo studio del Cmcc, la situazione è destinata ad aggravarsi. “Abbiamo simulato lo scenario nel periodo tra il 2021 e il 2050. Nella valle del Po le temperature continueranno ad aumentare e le piogge saranno sempre meno, la portata del fiume si ridurrà in estate e gli eventi di magra saranno più frequenti e severi”, dice Mercogliano.

Verso nord

Carlo Cacciamani, responsabile del servizio idrometeorologico dell’Arpae, mi spiega a cosa ci dovremmo abituare nei prossimi anni: “È probabile che l’aumento delle temperature comprometterà i raccolti sia in termini di quantità sia di qualità, mentre la richiesta d’acqua sarà sempre maggiore. Inoltre, il clima dell’Europa meridionale diventerà sempre più tropicale, e animali e coltivazioni saranno costretti a spostarsi verso nord e verso altitudini più elevate. Quelle di ulivo sono arrivate a ridosso delle Alpi, per dire”.

Il cambiamento riguarderà anche i cicli stagionali, che saranno meno definiti di un tempo. “Le coltivazioni potranno essere esposte a rischi che prima non correvano, come quello di gelate tardive”, conclude Cacciamani. Gli esperti temono inoltre che non sarà possibile garantire le stesse quantità d’acqua usate oggi per irrigare i campi. Ogni anno vengono estratti dal bacino del Po circa 20,5 miliardi di metri cubi d’acqua. Gran parte – 16,5 miliardi di metri cubi – è destinata al settore agricolo. “Il cambiamento climatico ridurrà la disponibilità di acque superficiali, la ricarica delle falde sarà inferiore rispetto a oggi e i livelli si abbasseranno, causando una riduzione delle risorse idriche”, dice Alessio Picarelli dell’autorità di bacino del fiume Po.

Adattamento e pianificazione

Viene da chiedersi cosa si possa fare di fronte a queste previsioni. Quali provvedimenti si debbano prendere per salvare il paesaggio stupefacente che rapisce chi si addentra nell’area del delta. Qui, sotto il sole impietoso di questa estate caldissima, le ramificazioni del fiume sembrano infinite, qua e là si intravedono golene secche e polverose, mentre sullo sfondo antichi casolari si fanno spazio tra dune fossili e pioppi bianchi. Navigando tra il verde e il blu delle lagune non è raro imbattersi in gabbiani reali e aironi rossi, così come negli operai delle aziende specializzate nell’acquacoltura, anch’esse in difficoltà. Cosa ne sarà di tutto questo?

Le strade per affrontare la situazione sono due: quella della mitigazione e quella dell’adattamento. La prima riguarda l’adozione di politiche per ridurre le emissioni di gas serra ed è fondamentale nel caso della pianura padana, visto che nella valle del Po si respira l’aria peggiore di tutta l’Europa occidentale, dice l’Organizzazione mondiale della sanità. “Intanto, si potrebbe applicare una rotazione delle colture, così da aumentare o almeno mantenere la fertilità dei terreni”, dice Silvano Pecora, responsabile del servizio idrologia dell’Arpa dell´Emilia-Romagna e vicepresidente dell’Organizzazione mondiale per la meteorologia. Per quanto riguarda l’adattamento alle mutazioni del clima, Pecora è convinto che “bisognerà produrre alimenti in modo più efficiente, adottare nuovi combustibili biologici, usare tecniche di irrigazione che consentano un maggiore risparmio idrico, scegliere materiale genetico più adatto alle nuove condizioni climatiche e colture che abbiano bisogno di meno acqua”.

I costi per tradurre tutto questo in realtà sono trascurabili rispetto a quelli da sostenere se non si fa niente, ma gli ostacoli per farlo sono molti. Il primo è di ordine burocratico. Il Po è stretto tra un’intricata rete di norme e un numero indefinito di consorzi, agenzie, autorità e commissioni. Un sistema così complesso che “diventa quasi impossibile applicare certe misure di adattamento”, dice Pecora.

Un problema di comunicazione

Il secondo ostacolo riguarda la comunicazione. “Comunicare i cambiamenti climatici non è facile. Sono argomenti complessi, basati su dati scientifici non sempre di immediata comprensione, descritti il più delle volte con grafici e tabelle”, mi dice Luca Mercalli, presidente della società di meteorologia italiana. “Non c’è preoccupazione o negazionismo, c’è piuttosto un clima di indifferenza”, spiega. “L’informazione non manca. Quello che manca è invece una discussione costante che aiuti a comprendere quali saranno le conseguenze nel breve e nel lungo periodo”. I problemi, secondo Mercalli, sono due. “Da una parte, gli intellettuali che hanno deciso di spendersi per la causa sono pochi; dall’altra, manca una visione politica autorevole in grado di trasformare iniziative singole in azioni collettive”. La conclusione è amara: “Allo stato attuale, diventa difficile far passare il concetto che l’impatto del cambiamento climatico è una questione ineludibile”.

Il romanziere Guido Conti ha scritto che il fiume che “passa per Torino e accarezza il parco del Valentino è diverso da quello dell’Oltrepò pavese e da quello che comincia a Piacenza, e non è lo stesso che solca la pianura fino a Mantova; da Ferrara al delta, il fiume cambia di nuovo aprendosi come un fiore di canali verso il mare”. Ha ragione a dire che il Po ha mille facce, mille colori, mille forme. Purtroppo, ad accomunarle oggi è l’ombra del cambiamento climatico sulle sue acque, la minaccia che venga recisa una delle arterie principali di questo paese.

Da sapere

L’accordo di Parigi. Il testo è stato approvato il 12 dicembre 2015. Alla conferenza che si era tenuta a Copenaghen nel 2009, l’obiettivo era di limitare l’aumento della temperatura globale rispetto ai valori dell’era preindustriale. L’accordo di Parigi stabilisce che questo rialzo va contenuto “ben al di sotto dei 2 gradi”, sforzandosi di fermarsi a 1,5 gradi.
Ecosistemi a rischio. Uno studio pubblicato su Nature ha analizzato gli effetti della siccità e i tempi di recupero degli ecosistemi. Nelle aree più vulnerabili la vegetazione può impiegare anni per riprendersi e diventa più esposta a malattie e incendi. L’aumento della frequenza dei periodi secchi previsto per i prossimi anni potrebbe portare molti ecosistemi al collasso.
Le ricadute sulla salute. Secondo un rapporto del Medical society consortium bambini, anziani, persone con malattie croniche, quelle con un reddito basso e le donne in gravidanza risentiranno del cambiamento climatico più di altre.

«La Regione non avrà più poteri sulle demolizioni: tutti a favore, dal Pd al M5S». il Fatto Quotidiano, 12 settembre 2017 (p.d.)

Come per i “saldi di fine stagione”, il governo Crocetta chiude la legislatura con un regalo non solo ai proprietari di immobili abusivi, ma anche a chi è chiamato a demolire, segnatamente le burocrazie regionali e comunali, ora sollevate da qualunque responsabilità da una norma di poche parole che ha l’effetto di un salvacondotto totale per i funzionari pubblici siciliani: “Limitatamente agli interventi sostitutivi disposti dall’assessorato Territorio e ambiente… nei confronti delle amministrazioni comunali inadempienti, devono intendersi riferiti esclusivamente agli organi di governo dell’ente locale”.

Un apparente controsenso perché sindaco, Giunta e consiglio comunale non hanno alcuna competenza formale nel dare il via libera alle demolizioni, compito che tocca appunto alla burocrazia, adesso del tutto de-responsabilizzata da quelle poche righe su un tema che infiamma la campagna elettorale nell’isola con lo scontro tra Pd e 5 Stelle sul cosiddetto “abusivismo di necessità”: protetto dai grillini e consacrato nel regolamento del sindaco di Bagheria, Patrizio Cinque, indicato come modello dal candidato governatore Giancarlo Cancelleri.

Nell’isola degli abusivi, in cui l’80 per cento dei Comuni è inadempiente, con migliaia di ordinanze di demolizione ineseguite, a “salvare” i funzionari regionali e comunali dall’onere dei controlli (e delle responsabilità) ci ha pensato l’assessore regionale al Territorio e ambiente Maurizio Croce, che il 27 giugno scorso ha presentato (e illustrato) l’emendamento 73 R ai sette deputati della IV commissione Territorio e Ambiente dell’Ars che lo hanno votato all’unanimità: sono la presidente Mariella Maggio (Ex Pd, ora Mdp) Giuseppe Laccoto e Valeria Sudano (Pd) Pietro Alongi (Alternativa Popolare di Alfano), Totò Lentini (Gruppo Misto) e i due 5 Stelle, Gianina Ciancio e Stefano Zito.

Stranamente, o forse no, la norma non è poi finita nel fascicolo degli emendamenti ma è stata presentata “sotto traccia” direttamente nell’aula dell’Assemblea regionale siciliana e votata in un paio di minuti durante una maratona da 48 ore di votazioni continue col resto del “Collegato” alla Finanziaria regionale lo scorso 9 agosto, peraltro con una bizzarra tecnica di voto (detta per “alzata”, ci torneremo). E così il segnale agostano arrivato dall’Ars, nascosto tra le righe di un emendamento sconosciuto persino ai deputati più attenti, è stato quello di una “via di fuga” dalle responsabilità di vigilanza sulle demolizioni scaricate così sulle spalle delle Procure.

Dal 25 agosto, data della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Regione Siciliana dell’articolo 49 del provvedimento, se entro 90 giorni il proprietario di un immobile abusivo non obbedisce, demolendo, all’ordine della Procura, la palla passa al Comune e poi torna all’ufficio del Pm: zero competenze per la burocrazia regionale, prima obbligata a mandare i “commissari ad acta”. “È una disposizione che indebolisce i poteri di vigilanza – dice Giuseppe La Greca, magistrato del Tar ed esperto di normativa edilizia – Non mi sembra che la Sicilia ne avesse bisogno”.

Una mossa disperata, per la deputata regionale Claudia Mannino, grillina ora nel Gruppo Misto, dopo essere inciampata nell’inchiesta sulle “firme false”: “È una chiara risposta alla legge nazionale sulle demolizioni, che sta per essere approvata definitivamente dalla Camera dopo il passaggio in Senato del luglio scorso. La norma fa in modo che la Regione si lavi le mani, l’Ars non si può permettere di fare lo scarica barile sulle Procure, producendosi in un nuovo ‘aiutino’ per gli abusivi’’. Infine la stoccata agli ex compagni del Movimento: “Oltre all’attività pro-abusivi della maggioranza a sorprendere è anche la totale assenza di vigilanza da parte dell’opposizione, che col suo silenzio rinuncia a fare il suo mestiere”.

Questa leggina, peraltro, è come spesso capita senza padre: le uniche firme sono quelle del relatore Vincenzo Vinciullo (Ap), di Crocetta e dell’assessore al Bilancio Baccei in calce al testo pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Si sa, lo dicono i resoconti, che l’emendamento arriva “dalla commissione Ambiente”, ma non si sa chi l’abbia votato. Il presidente Ardizzone l’ha messo in votazione in aula con questo metodo: “Chi è favorevole resti seduto; chi è contrario si alzi”. Risultato: “È approvato”.

La Repubblica, 11 settembre 2017
«La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione». Dalla Costituente fino all’eterna battaglia esegetica intorno al dettato dell’articolo 9 della nostra Costituzione, il dibattito si è soprattutto concentrato sulla parola «Repubblica »: è lo Stato-persona (cioè lo Stato apparato centrale, in opposizione alle autonomie territoriali), o è invece lo Stato-ordinamento (cioè tutto il sistema istituzionale, ivi comprese le autonomie locali di ogni grado)?

In questi settant’anni (tra sentenze della Corte costituzionale, riforme del titolo V, statuti delle regioni) le risposte sono state diverse, e spesso contraddittorie. Si sarebbe potuto, dovuto, determinare un assetto giuridico che spingesse lo Stato e gli enti locali ad esercitare armonicamente il comune compito della tutela: costruendo insieme una maggiore, e non già una minore, tutela. Nei fatti è accaduto esattamente l’opposto, perché l’assedio giuridico e politico alla «Repubblica» dell’articolo 9 non è stato condotto in nome del diritto dei cittadini a una maggiore partecipazione nella difesa di questi loro beni comuni, ma, al contrario, in nome del consumo di quei beni da parte di amministratori infedeli: insomma, si è colpita la parola «Repubblica» per affondare la parola «tutela».
Ma l’elevazione costituzionale della tutela e della sua attribuzione a tutta la Repubblica ha anche un significato più profondo, quanto trascurato. Nel senso di vigilanza e impegno civile, dopo il primo gennaio 1948 essa spetta ad ogni articolazione della Repubblica: e cioè a ogni cittadino, alle istituzioni (come la scuola, o l’università), alle amministrazioni pubbliche di ogni grado o genere. E dobbiamo essere capaci di leggere in questa chiave i tanti conflitti che si innescano intorno al governo del territorio. È il caso dell’esemplare soprintendente della Sardegna meridionale Fausto Martino, che resiste al potere politico regionale fino ad essere accusato (senza alcun fondamento) di esorbitare dal proprio ruolo. Ed è il caso della archeologa precaria Margherita Corrado, che richiamando al proprio dovere una soprintendenza invece inadeguata esercita con coraggio la tutela nella difficile terra di Calabria, dove sono i clan malavitosi a guidare la devastazione di paesaggio e patrimonio. È il caso dei mille comitati italiani costituiti per salvare un pezzo del Paese a loro prossimo, e caro: a Rimini si presentano esposti in procura per difendere il Ponte di Tiberio, insidiato da assurdi lavori promossi dai poteri pubblici; in Veneto seicento cittadini sfilano in una fiaccolata per difendere il Castello del Catajo e il celebrato paesaggio dei Colli Euganei dalla colata di cemento dell’ennesimo ipermercato; a Cosenza un gruppo di intellettuali tenta disperatamente di far conoscere all’Italia il disfacimento infinito della superba città vecchia, culminato quest’estate in un incendio terribile per uomini e storia.
Si tratta di battaglie difficili, sia che si combattano contro forti interessi speculativi sia che abbiano il loro avversario nella inerzia delle amministrazioni. La loro sola possibilità di successo è incontrare l’interesse della stampa e dunque riuscire a colpire l’opinione pubblica. La politica dei professionisti ha sempre guardato con sufficienza a questo mondo, liquidato anche di recente con battute sprezzanti sui «comitatini » locali. È un grave errore, perché è anche — e ormai forse soprattutto — attraverso questa rete di cittadini che possiamo sperare di salvare la forma (naturale, artistica, culturale) dell’Italia. È attraverso questa spontanea e diffusa magistratura del territorio che la Repubblica, nonostante tutto, tutela.
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