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il manifesto, 5 ottobre 2017. «Napoli. Il progetto di una piattaforma per collegare le lotte per la rigenerazione urbana, il lavoro, il diritto all’abitare, i servizi essenziali».(c.m.c.)

‘Napoli direzione opposta’ non è un partito e neppure un cartello di sigle ma è l’evoluzione di un percorso politico che è cominciato da collettività che hanno riaperto spazi abbandonati della città, che hanno quindi provato a tessere un programma dal basso utilizzando la piattaforma Massa critica e poi hanno sperimentato, attraverso Mutuo soccorso Napoli, una rete che mettesse in comune sportelli sociali, presidi medici solidali, lotte per il lavoro e l’abitare, contrasto alla povertà e sostegno ai migranti.

Il passo successivo è Ndo: a lanciare l’iniziativa sono il Comitato Soccavo, il collettivo Bancarotta 2.0 che anima il Lido Pola, Villa Medusa e il Laboratorio Politico Iskra di Bagnoli, Scacco Matto e Zero81 al centro storico, la proposta è formare un blocco sociale con una piattaforma politica. Il 2 dicembre si terrà un’assemblea per tirare le somme e valutare quanti, nell’area metropolitana e regionale, avranno aderito.

«Vogliamo sviluppare una piattaforma per collegare pratiche e lotte in una confederazione – spiega Michela Antonucci -. Il punto di partenza sono i territori, il lavoro con chi sui territori vive, i bisogni che vengono cancellati attraverso meccanismi come i vincoli di bilancio e il taglio delle risorse ai comuni. Basta utilizzare una di queste leve per cancellare il trasporto pubblico, tagliare gli ospedali o allontanare i ragazzi dalle scuole. Ma non ci sono solo i tagli, ci sono anche le politiche attive che spesso hanno avuto effetti distorsivi: a Bagnoli il governo ha provato a imporre un piano che metteva i suoli e il piano di rigenerazione in mano ai privati e solo la lotta dal basso ha bloccato il progetto; il turismo, incentivato dagli enti pubblici, da un lato riempie le tasche dei commercianti ma dall’altro innesca un meccanismo di gentrificazione che espelle gli abitanti storici, relegandoli nelle periferie».

Si tratta di costruire un percorso comune, articolato con chi abita la città, intorno a quattro punti: la rigenerazione urbana; il lavoro che significa anche contrasto alla povertà, al precariato diffuso e l’utilizzo delle risorse pubbliche in modo trasparente; diritto all’abitare (a Napoli nel 2016 il 90% degli sfratti sono stati per morosità incolpevole); i servizi essenziali. Un percorso che si rivolge a tutti gli attori, inclusi quelli istituzionali, perché «vogliamo che sia un percorso del tutto trasparente – spiega Eduardo Sorge -. Non ci interessano cartelli elettorali, ma sviluppare un programma per spostare l’orizzonte delle politiche nella direzione opposta a quella degli ultimi anni. Sta alle istituzioni decidere quale posizione prendere rispetto alle richieste delle comunità che amministrano, comunità che non vogliono più subire decisioni calate dall’alto».

A Napoli il comune con una delibera ha affidato sette spazi alle comunità che quegli spazi animano, la Corte dei conti ha aperto un’inchiesta perché i beni non sono stati messi a profitto, si tratta allora di stabilire dove sta l’interesse comune: nell’utilizzo collettivo oppure nella vendita o affitto al privato per un ricavo spesso inferiore al valore del bene.

Prima dell’assemblea del 2 dicembre ci saranno una serie di appuntamenti. Sabato e domenica prossimi si terrà a Napoli la prima Conferenza delle giuriste e dei giuristi del Mediterraneo, si ragionerà del loro ruolo nell’area del Mediterraneo, di «autodeterminazione, stato di diritto, tutela dei diritti umani e democrazia». Quindi il 19 e 20 ottobre si terrà ad Ischia il G7 dei ministri dell’Interno e, in contemporanea, ci sarà la mobilitazione «Stop G7 tutti a Ischia» contro, in particolare, le politiche del ministro Marco Minniti. Infine, dal 17 al 19 novembre ci sarà a Napoli Commons and cities: tre giorni dedicati a beni comuni, diritti e dignità aperti alle realtà internazionali.

arcipelagomilano, 4 ottobre 2017 «Tra negazionisti - Maroni e l'ex prefetto Lombardi - e i distratti». ( m.c.g.)

Chissà se questa volta si incrinerà qualcosa nella granitica certezza di chi fa economia a Milano e dintorni, o nella favolosa Brianza che allunga a nord. Dopo che a Seregno un intero sistema di potere è franato sotto l’accusa di mafia, con un sindaco descritto dai magistrati come “lo zerbino” ideale per i voleri della ’ndrangheta. Dopo che il consiglio comunale è stato costretto ad autosciogliersi per evitare l’ignominia del commissariamento per mafia a opera del governo. Oppure dopo che a Cantù è emersa una mafia tutt’altro che silente, ma capace di pestare e minacciare i negozianti sulla pubblica piazza.

Chissà se si farà largo il dubbio che questa continua rimozione, questa idea pervicace che “altre” siano le cose con cui deve confrontarsi la modernità, possa alla fine consegnare paesi e cittadine, e alla fine pezzi della regione Lombardia, alla egemonia (culturale anzitutto) dei clan calabresi.

Già, l’omertà. Ho raccontato nei giorni scorsi la paradigmatica storia della tesi di laurea di un mio studente, Simone. Titolo: La penetrazione della ’ndrangheta in Lombardia: il caso di Seregno. Anno accademico 2011/12. Cinque/sei anni fa un ragazzo di ventitré anni vedeva dunque quel che imprenditori e amministratori non vedevano, fino al punto di volerci fare la propria tesi di laurea. E di scrivere che “solo l’omertà” spiegava perché a Seregno non vi fosse un’idea “nemmeno approssimativa” del peso che la mano mafiosa stava esercitando sulla vita cittadina.

Omertà e rimozione si spalleggiano, procedono insieme, si danno la mano e infine si fondono in un unico grande silenzio fatto di parole trite. Lo dicono le interviste televisive condotte sul posto. Si tratti di Lonate Pozzolo, di Desio, di Seregno, di Pavia, di Corsico, di Sedriano, di Brescello, la Lombardia e l’Emilia non si riconoscono più. Sembra che si siano affidate a un ventriloquo, sempre lo stesso, impegnato a parlare per loro. Perché chi dovrebbe parlare non lo fa, si ripara nei ridotti della coscienza e dell’intelligenza. Illuso che la partita della modernità si giochi in altre, più eteree ed eleganti sfere. Che vi sia sempre un altrove in grado di nobilitare la resa.

Il bello è che basterebbe chiedere e sapersi battere per alcune cose molto pratiche per restringere l’acqua della palude. La prima è quella che la Commissione parlamentare antimafia sta proponendo da un paio d’anni. Introdurre cioè, oltre allo scioglimento dei consigli comunali, una misura meno traumatica ma forse perfino più efficace: quella dell’appaiamento al sindaco ritenuto pauroso o compiacente di un funzionario prefettizio che aiuti a vigilare sul rispetto della regolarità della vita amministrativa.

Una seconda è quella di associare alla firma del questore anche la firma del sindaco per autorizzare l’apertura di nuove sale giochi (singolarmente sono infatti in genere le questure a mostrare più generosità). Una terza è quella di intervenire sul codice degli appalti, in certi punti trasformato in colabrodo per gli interessi mafiosi. Una quarta, almeno in Lombardia, è quella di chiudere i varchi sistematici aperti nella sanità, rivedendo il sistema delle convenzioni. Una quinta è la penalizzazione della querela (ma anche della causa civile) temeraria, passaggio obbligato per restituire libertà di parola in una società omertosa.

Si sa insomma che cosa fare. Ma ogni passaggio appare un’impresa impossibile. Meglio: resa impossibile dal sonno della ragione. Si svegli quindi l’economia, si svegli la politica. O corruzione e mafia sommergeranno una grande storia civile, con le sue glorie culturali e scientifiche. Mentre tutt’intorno divamperanno i fuochi. Quelli della provincia di Pavia, o di Bruzzano, o di Cinisello Balsamo. I fuochi, segno della “loro” arroganza. E segno della nostra insipienza.

la Repubblica, 3 ottobre 2017. Contrordine del Pd: stop al ddl Falanga che rinvia all'infinito le demolizioni delle case fuorilegge. Gli ambientalisti sconfiggono così la proposta voluta da molti parlamentari del Sud». (c.m.c.)

C’è voluto l’intervento discreto ma deciso di due ministri, Graziano Delrio e Dario Franceschini, per indirizzare su un binario morto il ddl Falanga che regola (per alcuni in maniera poco incisiva) le demolizioni degli edifici abusivi.

A un passo dall’approvazione, i due esponenti del governo, titolari di Infrastrutture e Beni culturali, hanno raccolto il grido d’allarme delle associazioni ambientaliste che, da Legambiente al Wwf, segnalano da tempo le storture di un provvedimento che, di fatto, mira a sanare quello che è stato definito “abusivismo di necessità”. Così, nel giro di tre giorni, è cambiata la linea del Pd che finora aveva votato e sostenuto il disegno di legge che porta il nome dell’onorevole Ciro Falanga, deputato ex Forza Italia, passato poi al gruppo Ala di Denis Verdini. Oggi, nella conferenza dei capigruppo convocata a Montecitorio, i Dem proporranno una modifica al calendario dei lavori della Camera, scambiando la discussione del ddl Falanga con quella sull’Agenzia del farmaco o sul ddl sulla cannabis terapeutica (come propone Sinistra Italiana).

Un rinvio sine die che in pratica affossa una legge criticata ancor di più dopo il terremoto di agosto a Ischia e dopo le polemiche estive sull’abusivismo in Sicilia. Alla fine il Pd resta diviso: da una parte il fronte più sensibile alle tematiche ambientaliste, rappresentato da Ermete Realacci, presidente della commissione Ambiente alla Camera, che l’altro ieri ha esplicitato il cambio di passo: «Dubito che il ddl Falanga andrà al voto così com’è». Dall’altro uno schieramento composito, formato per lo più da parlamentari eletti in Sicilia, Calabria e Campania, regioni dove, dati Istat alla mano, i manufatti abusivi superano largamente il 50% del patrimonio edilizio.

A far pendere la bilancia verso i contrari alla norma (attesa dalla quarta lettura alla Camera) l’intervento di Delrio e Franceschini, contrari al ddl che, sostiene il leader dei Verdi Angelo Bonelli, «premia sia chi ha messo su ville abusive sia chi è intenzionato a costruirle adesso, andando in più a imbrigliare il lavoro delle procure». A preoccupare è il comma 6bis del primo articolo secondo il quale, nella lista di priorità delle demolizioni, va data precedenza agli immobili «in corso di costruzione o comunque non ultimati alla data della sentenza di primo grado». Ma, sottolinea ancora Bonelli (che stamattina, in segno di protesta, costruirà una casetta abusiva davanti alla Camera), «conoscendo i tempi dei tribunali per una condanna, è una furbata».

Schierati contro il ddl Falanga ci sono anche i 5 Stelle che lo considerano «una legge dannosa che distrugge il Paese». Di «ecomostro » parla Pippo Civati, segretario di Possibile, con Sinistra Italiana che invece giudica la norma «una sanatoria mascherata». Difficile che prevalga la posizione di chi in queste ore cerca di evidenziare i miglioramenti al testo intervenuti nelle varie letture tra Camera e Senato. Tra loro c’è proprio il deputato che dà il nome alla legge: «In Campania — afferma Falanga — ci sono un milione di persone interessate alla norma. Il Pd dovrebbe ricordare che se c’è un clima di collaborazione, la collaborazione è su tutto. Ricordo che c’è in discussione una legge elettorale che nasce dall’intesa tra Forza Italia e Pd. Lo dicessero a Fi che non approvano la mia legge».

L'Unesco come brand per campagne di marketing e poi menefreghismo, per non scoraggiare gli speculatori immobiliari. Anche Venezia potrebbe perdere questo marchio, ma ci consoleremo con il "certificato cinese".

Qualche mese fa, il centro storico di Vienna, che nel 2001 era stato incluso dall’Unesco tra i siti patrimonio dell’umanità, è stato declassato a sito a rischio, perché deturpato da un nuovo complesso edilizio alto sessanta sei metri. La notizia non ha destato grande scalpore, né le istituzioni locali sembrano molto preoccupate. Come ha detto il rappresentante dell’ente per la promozione del turismo, “ci dispiace, ma siamo tranquilli, perché la decisione non avrà ripercussioni sul numero di turisti in arrivo”.

Ancora più sprezzanti nei confronti delle valutazionidell’Unesco sembrano le autorità di Liverpool, il cui porto mercantile, che erastato dichiarato patrimonio dell’umanità nel 2004, in quanto “supremo esempiodi porto commerciale ai tempi della più grande influenza globale della Gran Bretagna”,è stato retrocesso nel 2012 nella categoria dei siti a rischio, a causa delprogetto di valorizzazione dei suoi sessanta ettari di superficie con una seriedi enormi costruzioni “ispirate alla architetture di Shanghai”.

Il nostro scopo, è di creare una world classdestination, ha detto il presidente di Peel Group, la società di investimento immobiliare che ha acquisito laproprietà dei terreni. Chi viene a visitare la città, ha aggiunto, “non viene a vedere il certificato dell’Unescoappeso alla parete del mio ufficio... viene a vedere una città dinamica evibrante e… comunque non possiamo sospendere i progetti disviluppo, perché significherebbe inviare un messaggio sbagliato agli investitori,perdere posti di lavoro e metterci a rischio di costose vertenze legali con idevelopers”.
Diversamente da Vienna e Liverpool che, dopo avere usato il brand Unesco per le loro campagne di marketing,sono disposte a rinunciarvi per non scoraggiare gli speculatori finanziari e immobiliari, Venezia è riuscita nell’impresa diconservare il marchio di qualità Unesco e di disattenderne tutte leraccomandazioni.

La risoluzione del luglio 2016, con la quale l’Unescosollecitava il governo italiano e il comune di Venezia ad adottare misureconcrete per mitigare i problemi che attanagliano la città e la laguna e preannunciava che, in assenza di sostanziali progressi entro il 1febbraio 2017, avrebbe considerato l’eventualità di porre Venezia nella listadei siti a rischio, suscitò, oltre chel’attenzione della stampa di tutto il mondo, l’immediata reazione del sindaco Brugnaro chedichiarò “ne abbiamo le scatole piene … siamo stufi di critiche aristocratiche”. Poi, però, il sindaco ci ha ripensato, ed hadeciso di trasformare la minaccia daproblema in opportunità. Ad un anno di distanza, dobbiamo riconoscere chel’operazione gli è riuscita perfettamente: si è fatto dare molti soldi dalgoverno, ha portato avanti una serie diprogetti che vanno nella direzione opposta da quella auspicata dall’Unesco edha ridicolizzato l’organizzazione internazionale.

L’Unesco aveva identificato quattro principali fenomeniche stanno distruggendo la città e la Laguna - turismo, grandi navi, grandiopere, moto ondoso - e per ognuno di essi ci chiedeva concreti interventi,cioè l’adozione di un piano per ridurrela sproporzione tra la quantità di turisti e la popolazione residente; la proibizione per le grandi navi passeggeri e commerciali dell’entratain Laguna; la sospensione dei progetti di nuove grandi opereinfrastrutturali, in primis l’ampliamento dell’aeroporto e il porto offshore; l’introduzione,e l’osservanza, di limiti al traffico acqueo, sia in termini di velocità chedi tipo di scafi.

Su tutti i quattro punti l’amministrazione èintervenuta, come dice il sindaco, “confatti e non chiacchiere”. Per quanto riguarda il turismo, il comune,prendendo atto che la domanda è in crescita costante, da un lato si adopera peraumentarla ulteriormente, ad esempio sollecitando e stipulando accordi con i touroperators cinesi, dall’altro continua ad ampliare l’offerta ricettiva con lacostruzione di migliaia di nuovi posti letto, spalmati in tutto il territoriocomunale secondo una zonizzazione che prevede per ogni tipologia di turista lalocalizzazione adeguata alla sua capacità di spesa. Quindi i molto, moltoricchi andranno nelle isole della laguna privatizzate e sottratte ai cittadini normali;i semplicemente ricchi al Lido e nei palazzi lungo il Canal Grande; i mediamentedotati di denaro nella parti della città più discoste da san Marco e dallegrandi attrazioni; i low budget infine, attorno alla stazione di Mestre e sullagronda lagunare.

E siccome l’Unesco non chiedeva misure scoordinate,ma un piano, il comune ha adottato il DMP, “Destination Management Plan delladestinazione turistica Venezia e Laguna”, per il triennio 2016-2018. Si tratta di uno strumento inventato dallaregione Veneto (che ha individuato nel suo territorio tredici destinazioni turistiche)che, di fatto, altera il sistema pianificatorio.

Da un lato, al DPM, che diventa il principale strumento di“gestione strategica del territorio in funzione dello “sviluppo, gestione emarketing del turismo e della sua economia”, viene demandata” l’individuazione delledecisioni strategiche, organizzative e operative attraverso le quali deveessere gestito il processo di definizione, promozione e commercializzazione deiprodotti turistici espressi dal territorio veneziano al fine di generare flussituristici di incoming equilibrati, sostenibili e adeguati alle esigenzeeconomiche degli attori coinvolti”.

Dall’altro il DPM, essendo adottato dagli “attoripubblici e privati che partecipano all’"Organizzazione di gestione della destinazioneturistica", presieduta dal comune di Venezia e della quale fanno parte affittacameree albergatori, commercianti ed esercenti, artigiani ed industriali, esclude daogni decisione relativa al territorio chiunque non eserciti un’attivitàeconomica legata al turismo. Per i cittadini che non beneficiano del businessturismo (e che potremmo chiamare i “senza turismo”) sono previsti solo aumentidi tasse e tagli di servizi.

“Via le grandi navi dal bacino di San Marco”,mentre la richiesta dell’Unesco era “via le grandi navi dalla laguna”, è poil’astuto slogan al cui riparo il comune continua a promuovere progetti pernuovi scavi e nuovi terminal in laguna e a slogan e annunci pubblicitari, comel’operazione “onda zero”, si riducono anche le misure per contenere il motoondoso.

Su tutti questi fronti, e soprattutto su quellodelle grandi opere infrastrutturali, il sindaco ha anche abilmente negoziatocon il governo Renzi, con il quale ha firmato, il 26 novembre 2016, il cosiddettopatto per Venezia che destina circa quattrocento cinquanta sette milioni dieuro per “il rilancio della città”. Un successo che Brugnaro ha commentato cosi: “ilprogetto per questa città lo abbiamo delineato chiaramente e parla dellosviluppo delle sue infrastrutture: porto, aeroporto, ferrovie, connettività efibra ottica, perché se riparte Venezia possiamo dare il segnale che puòripartire l'Italia. Venezia si è rimessa in moto, adesso ha bisogno di personelungimiranti che vogliano investire”.
Dopo di che il sindaco ha messo tutto in undossier, è andato a Parigi per “dettagliare i progressi per la rivitalizzazionedella città” e l’Unesco, riconoscendo “i progressi ed i risultati raggiunti”,ha rinviato ogni decisione.

Al ritorno dalla vittoriosa spedizione e giustamentefiero del risultato, il sindaco ha annunciato che nel gennaio 2018 Veneziaospiterà in palazzo Ducale un grande evento, per inaugurare l’anno del “turismocinese in Europa”, al quale interverrannole maggiori autorità politiche cinesi ed europee, oltre a delegazioni di touroperator. L’iniziativa ha avuto l’immediatoplauso del presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, che è venuto a Veneziaper congratularsi e, abbracciando Brugnaro, ha detto: vorrei vedere meno acciaio e più turisti cinesi.

Non sappiano se l’Unesco figura tra gli invitatialla cerimonia in palazzo Ducale. Sappiamo però che l’assessore al turismo si è recata in missione promozionale in Cinae che stiamo lavorando per ottenere la cosiddetta “welcome chinesecertification”, cioè il riconoscimento di destinazione chinesetourist friendly. Per i cittadini è una consolazione sapere che semai dovessimo perdere il marchio Unesco ci rimarrebbe il certificato cinese, masiamo fiduciosi che il nostro sindaco smart riuscirà a cumularli.

la Repubblica online, 2 ottobre 2017. E' incredibile che personaggi che hanno fondato associazioni ambientaliste e altri che hanno scelto di lavorare nella Commissione ambiente siano così tiepidi nei confronti del decreto "premiabusivisti".

Roma - Il ddl Falanga che regola le demolizioni degli edifici abusivi approda oggi in aula alla Camera per essere varato in via definitiva in settimana. Ma la sua approvazione non è così scontata: «Vediamo, ci rifletteremo», taglia corto il capogruppo del Pd alla Camera, Ettore Rosato, instillando il dubbio. E a conferma dell'esistenza di qualche crepa fra i democratici ci sono anche le parole del presidente della commissione Ambiente, Ermete Realacci: «Non credo che si siano le condizioni per andare al voto così com'è».

In ballo dal 2014 e al suo quarto e ultimo passaggio parlamentare, dopo una lunga navetta tra Montecitorio e Palazzo Madama, il ddl Falanga - dal nome di Ciro Falanga, senatore proponente prima in Forza Italia e poi passato con Denis Verdini in Ala - è stato modificato e per certi versi anche migliorato, come ammette Realacci: «Sono state disinnescate quelle parti che lo rendevano rischioso. Al momento della sua presentazione la proposta di legge si configurava come un segnale di tolleranza verso l'abusivismo edilizio. Tuttavia l'impegno delle commissioni Giustizia e Ambiente della Camera ha consentito di invertire la direzione, tanto da provocare l'ira di Falanga che in aula al Senato è arrivato al punto di minacciarmi violenza fisica».

Ma il testo, sebbene depotenziato, non convince gli ambientalisti né le opposizioni come il M5s, che ribadisce la sua contrarietà: «È più pericoloso di un condono - dice Massimo De Rosa, deputato pentastellato della commissione Ambiente - si rischia che questa legge blocchi la demolizione degli edifici individuati, causando al tempo stesso ricorsi e lungaggini burocratiche». Certo è che sul piano politico con l'ok al provvedimento il Pd corre il rischio di dare un segnale negativo e contrario rispetto alla linea del governo, che ha recentemente impugnato una legge in Campania che di fatto salva tutte le prime abitazioni abusive. Ma è pur vero che, se il Pd decidesse di presentare nuove modifiche al testo, ne sancirebbe l'affossamento. Lo stesso avverrebbe nel caso di un rinvio in commissione.

«Nella sua prima versione la legge era una vera e propria sanatoria degli abusi - spiega Stefano Ciafani, direttore generale di Legambiente - ma l'impianto, sebbene depotenziato, ha conservato un punto debole: fissa infatti un ordine di priorità degli abbattimenti in cui le case abusive abitate sono messe all'ultimo posto, dando precedenza a quelle in corso di costruzione e non abitate. Un modo per lasciare in piedi, con la scusante dell'abusivismo di necessità, edifici spesso pericolosi, come si è visto recentemente nel caso del terremoto di Ischia. Per noi il ddl Falanga è un disastro e va fermato».

Insomma i criteri di necessità potrebbero trasformarsi nelle mani degli avvocati in un grimaldello per bloccare le azioni di demolizione. Per l'associazione ambientalista l'unico modo per combattere veramente l'abusivismo edilizio è quello di togliere ai Comuni le competenze sugli abbattimenti: «Vanno centralizzate, affidandole alle prefetture, per toglierle dal ricatto elettorale», aggiunge Ciafani. Ma oltre a semplificare l'iter delle demolizioni, l'altra strada su cui «la maggioranza dovrebbe battere è quella di fermare il consumo di suolo», conclude il direttore di Legambiente. La legge sul consumo di suolo, però, approvata lo scorso anno alla Camera, si è arenata al Senato e molto difficilmente riuscirà a vedere la luce entro questa legislatura.

il Fatto Quotidiano, 2 ottobre 2017. «dopo 6 anni il cantiere è ancora militarizzato: già scavati sette km di galleria esplorativa. il no-tav qui è ancora molto forte, anche se in italia se ne parla assai meno» (p.d.)

Per raggiungere il cantiere più difeso del mondo in tempo di pace bisogna salire da Torino fino a Bussoleno e da qui fino a Chiomonte, per una strada statale impavesata di bandiere bianche con la scritta No Tav e percorsa da camionette di carabinieri, polizia, esercito. Poi ci si inerpica ancora fino alla galleria che inghiotte l’autostrada del Frejus, per risputarla verso Bardonecchia e Modane, in Francia.

Sopra Chiomonte, il primo posto di blocco. Cancelli, alte barriere difese con rotoli di filo spinato. Da un prefabbricato escono i carabinieri del check-point che chiedono i documenti, fanno i controlli, parlottano alla radio, si segnano il numero di targa dell’auto, chiedono perché vuoi passare. Ricevuto il via libera, si prosegue su una strada dove sono parcheggiati i pullman azzurri della polizia, attrezzati con alte grate di metallo che proteggono parabrezza e finestrini. Su uno, restano i segni di una vecchia battaglia: la vernice rossa che macchia fiancata e parabrezza. Oltre, ci sono solo le vigne di avanà, che tra qualche giorno sarà vendemmiato e darà un vino rosso che si trova solo qui, in Val di Susa. Solo qui, del resto, succedono tante altre cose. L’auto prosegue lentamente fino al museo della Maddalena, che un tempo era visitabile e che mostrava monete, frammenti di stoviglie e di tombe, dal Neolitico alla Seconda età del Ferro. Non si può proseguire oltre. Il passo è sbarrato da due alte recinzioni, sormontate dal filo spinato. Al cancello “Museo 5” chiedo di entrare per visitare la necropoli del 4000 a.C. Al di là delle grate, un gruppo di alpini in tuta mimetica. Un ufficiale mi chiede di nuovo il documento, si allontana, chiede ordini alla ricetrasmittente. Dopo qualche minuto d’attesa, torna al cancello e mi dice che no, non è possibile passare.
Il buco nella roccia scavato dopo vent’anni di progetti, dibattiti, polemiche, battaglie non si vede, da qui, e non si può vedere, come la vicina necropoli del Neolitico. Eppure è a poche centinaia di metri. È l’accesso al tunnel geognostico che è stato finalmente scavato: 7 km per saggiare la roccia, in vista dello scavo del tunnel più contestato d’Europa, quello per farci passare i treni ad alta velocità e ad alta capacità della Torino-Lione. Lo scontro Tav-NoTav, che ha a lungo occupato le prime pagine dei giornali e ha infiammato e diviso politici e cittadini, oggi è dimenticato. Fuori dalla Val di Susa, nessuno parla più della Torino-Lione e nessuno ricorda più l’esistenza di un movimento NoTav. Che fine hanno fatto i proclami di guerra lanciati dalle due parti? C’è ancora la volontà politica di realizzare la Torino-Lione? E c’è ancora il movimento NoTav? Per rispondere a entrambe le domande bisogna salire fin quassù, tra le barriere di filo spinato e le vigne di avanà della Valsusa.
Gli elefanti di Annibale
Prima notizia. Il progetto Tav c’è ancora. Dopo vent’anni di progetti, lotte, modifiche, cambiamenti e incertezze, il tanto contestato grande buco nella montagna lo vogliono ancora fare. Sembrava tutto rallentato, anzi sospeso. In due decenni, non è stato ancora scavato neppure un metro del tunnel di base e i 7 chilometri del tunnel geognostico realizzati finora sembrano più un risultato da sventolare come una bandiera, per non darla vinta ai NoTav. “Il Tav ha un alto valore simbolico, che è quasi superiore a quello effettivo”, ha dichiarato a luglio 2017 il presidente della Regione Piemonte Sergio Chiamparino. La Francia, d’altra parte, aveva annunciato nella primavera scorsa una “pausa di riflessione” e il nuovo presidente Emmanuel Macron non perde occasione per ripetere che deve mettere a posto i conti dello Stato.
Ma due incontri, la settimana scorsa, hanno rilanciato il progetto. Martedì 26 settembre, Roma: la Conferenza nazionale dei servizi, con i rappresentanti di governo, Regione, Comuni valsusini e della società italofrancese Telt che dovrà fare i lavori, ha discusso l’ultima variante del progetto. Mercoledì 27 settembre, Lione: il vertice tra il presidente del Consiglio italiano Paolo Gentiloni e il presidente francese Macron ha confermato il progetto. “Siamo entrambi impegnati affinchè il troncone transfrontaliero della Torino-Lione sia portato a buon fine. Il tunnel di base deve essere concluso”, ha dichiarato Macron. In realtà qualche problema resta ancora aperto e sarà affrontato da un gruppo di lavoro misto italo-francese. Macron vuole passare dall’attuale finanziamento annuale a quello pluriennale e soprattutto vuole alleggerire i conti dell’opera, facendola pagare almeno per il 50% non allo Stato francese, ma ai camionisti che passano sulle strade della Francia, attraverso l’Eurovignette. Quanto costa il grande tunnel? Già spesi 1,8 miliardi per la progettazione. Per la costruzione, ne servono altri 8,3 che dovranno essere pagati al 25% dalla Francia (2 miliardi), al 35% dall’Italia (3 miliardi) e al 40% dall’Europa (3,3 miliardi). Ai francesi costa 200 milioni l’anno per dieci anni, 300 l’anno all’Italia. “Assurdo che noi italiani dobbiamo pagare di più, per un tunnel che è in gran parte in territorio francese”, protestano i NoTav. “Dei 57 chilometri della galleria, 45 sono in Francia e solo 12 in Italia”, spiega Claudio Giorno, storico esponente del movimento. “Ma noi pagheremo di fatto il 58% dei lavori: ogni chilometro ci costerà 245 milioni, mentre i francesi pagheranno solo 48 milioni a chilometro”. Gli risponde a distanza Mario Virano, direttore generale di Telt: “È una normale compensazione, poi la linea francese, dal tunnel a Lione, è tripla di quella italiana, dal tunnel a Torino”. Avanti tutta, dunque. Con una sola variante di rilievo, quella discussa dalla Conferenza dei servizi del 26 settembre: il cantiere non si fa più a Susa, per cominciare a scavare la galleria su verso la Francia, ma resterà qui a Chiomonte e scaverà giù verso Susa. Per motivi di “sicurezza”, dicono. “Ma nel senso di security, non safety”, ribatte Giorno. “Non è la sicurezza dei lavoratori che faranno gli scavi, né dei cittadini che li subiranno, bensì la difendibilità militare del cantiere, più facile quassù e quasi impossibile a Susa”.
Il governo: “Farà bene all’economia”
La Torino-Lione, sostiene il ministro Graziano Delrio, “farà bene all’economia, alla logistica, alle persone, insomma all’Italia. La direttrice Ovest ha bisogno di una cura del ferro per spostare su rotaia le merci che viaggiano ancora soprattutto su gomma”. Gli fa eco Gentiloni: “Questa linea è di importanza strategica”. Il movimento NoTav risponde ripetendo le cifre diffuse dagli economisti e dagli studiosi dei trasporti: i passeggeri e le merci in viaggio tra Italia e Francia sono in continuo calo da oltre vent’anni. “Per i passeggeri, l’alta velocità fra Torino (o Milano, o Roma) e Parigi c’è già e si chiama voli low cost”, dice con una battuta Marco Ponti, professore del Politecnico di Milano. Quanto alle merci, la linea ferroviaria esistente è già più che sufficiente a coprire il fabbisogno: può trasportare fino a 20 milioni di tonnellate l’anno. Nel 1994 ne ha portate 10, poi è cominciata una diminuzione ininterrotta fino alle 3 tonnellate di oggi. Verso ovest è in calo, del resto, anche il trasporto su gomma. “È chiaro che la Torino-Lione è un’opera inutile”, scandisce Sandro Plano, storico sindaco di Susa, oggi presidente della Comunità montana, esponente del Pd ma da sempre schierato con i NoTav. “È un progetto figlio degli anni Ottanta, oggi i numeri ci dicono che basta e avanza la linea che c’è già. La nostra protesta è cominciata negli anni Novanta, quando il sentire comune degli amministratori locali e dei cittadini era di non far devastare la nostra valle da un’opera inutile. Qui ci hanno già fatto passare la ferrovia, la statale, l’autostrada, l’elettrodotto. Ci fanno passare di tutto, fin dai tempi di Annibale che ci ha portato anche gli elefanti. Immaginatevi di vivere in un appartamento con il corridoio sempre occupato da gente che passa. La Val di Susa è così”.
Gemma Amprino, sindaco di Susa per un mandato, aveva come slogan: “Susa di nuovo grande”. Aveva anticipato Donald Trump? No, aveva creduto alle sirene Tav che promettono di creare a Susa una “stazione internazionale”: “Ma chi mai arrivando da Lione o da Parigi vorrebbe fermarsi a Susa prima di raggiungere Torino?”. Resta invece ottimista Virano, secondo cui l’offerta creerà la domanda: “Io a casa ho una vecchia, bellissima Valentine, la macchina per scrivere rossa disegnata da Ettore Sottsass. Funziona benissimo, potrebbe scrivere migliaia di pagine, non è ‘satura’, ma non la uso, perché per scrivere adopero il computer. Così la vecchia linea ferroviaria: non è ‘satura’ ma va fuori mercato, ci vogliono tre locomotori per portare i treni merce su fino a 1.300 metri. In Italia ci sono sette valichi alpini: tutti hanno un tunnel di base. Lo avrà anche il passaggio a ovest, altrimenti i trasporti verso la Francia (e la Spagna) passeranno dalla Germania e l’Italia sarà tagliata fuori”.
Il Cappellaio Matto progettista
Le seconda notizia che si scopre venendo quassù, nelle nebbioline che annunciano l’arrivo pieno dell’autunno, è che il movimento NoTav c’è ancora. Nel resto d’Italia contano solo gli scontri, le battaglie, gli attacchi violenti al cantiere, i processi, gli antagonisti, gli anarchici. Qui c’è una comunità che da anni costruisce iniziative, discussioni, ma soprattutto stili di vita, luoghi d’incontro, reti di conoscenze e di affetti. Giovani cresciuti a pane e NoTav o vecchi che hanno identificato la loro vita con la difesa della valle hanno un’esperienza in comune: non sono persone che fanno la loro vita e poi impegnano qualche ora del loro tempo nelle attività di un movimento; no, per loro vita e movimento sono una cosa sola. Così oltre il check-point della Maddalena trovo Gianni, che cura il pezzo di terra comprato insieme ad altri mille per poter entrare nell’area di cantiere, cura gli alveari e raccoglie il miele. Tutti i mercoledì, aperipranzo alla Colombera. Tutti i venerdì, apericena fuori dal check-point. Domenica 24 settembre c’è stata una festa dopo che per tutta la settimana erano stati dipinti in valle i murales di Blu e di Scift. A luglio a Venaus c’è stato il “Festival dell’Alta felicità” con musicisti e artisti, Elio Germano e Stefano Benni, Luca Mercalli e Lo stato sociale, Africa Unite e Bandabardò. “Siamo un movimento che mette insieme madamine ben educate e ragazzi con i capelli rasta”, dice il guardaparco Luca Giunti. Al presidio NoTav di Borgone trovo un gruppo di pacifici cittadini che chiacchierano amabilmente. Una madamina sorride: “Il progetto del Tav sembra disegnato dal Cappellaio Matto. A una manifestazione mi sono guardata attorno e ho pensato: chissà che cosa avrebbe detto la mia mamma se mi avesse visto oggi, attorniata da tutte queste bandiere anarchiche. Ma noi difendiamo la nostra valle dall’ennesimo Annibale che ci tratta come un corridoio dove passare; e difendiamo il nostro Paese, l’Italia, da un’opera inutile”.

la Repubblica, 1 ottobre 2017. «Le trasformazioni indotte dal turismo incideranno sull’immaginario collettivo molto più di quanto si possa pensare; per esempio contribuendo a imprimere nella mentalità occidentale che tutto, anche i luoghi più intimi e personali, può o deve diventare oggetto di profitto».

Da Venezia alla Toscana, i luoghi d’arte e i piccoli borghi rischiano di trasformarsi in posti dove tutto ruota attorno al consumo turistico. Come si possono far convivere le esigenze di migliaia di visitatori con il rispetto delle città e dei loro abitanti?

Gli articoli su Venezia e la sua striminzita popolazione residente. Venezia e le “orde” di turisti che si abbattono come cavallette mortifere su una “città delicata”. Le grandi navi che permettono a migliaia di persone di solcare la laguna e guardare San Marco dall’alto… Da anni siamo sommersi da segnali d’allarme. Va sottolineato che Venezia, grazie alla sua bellezza e unicità, è un simbolo schiacciante e supremo. Le voci di dolore di editorialisti e intellettuali che annunciano la catastrofe sono talvolta forti e giuste, l’angoscia sincera. E alla fine si alza di solito l’invocazione al governo italiano. Come se, di colpo, per azione dello spirito santo, il nostro governo fosse in grado di recuperare un potere che non ha, e non ha in fondo mai voluto, per trovare soluzioni a un’attività chiamata turismo e tentare di regolamentarla… Un’attività che sembra l’innocuo prolungamento dell’ozio, ma che sconquassa alle radici la nostra civiltà. Un’attività che sta profondamente cambiando da qualche decennio i paesaggi mondiali. Un’attività sociologicamente rivoluzionaria di cui per molti anni nessuno aveva previsto l’influenza profonda sulla vita occidentale.
Pare che quest’anno saranno un miliardo e duecento milioni gli esseri umani a lasciare per pochi giorni il loro habitat e andare a visitare un altro paese. Erano sessanta milioni alla fine nel 1968. Dopo le feste natalizie, trenta milioni di questi avranno messo piede a Venezia, che ha una popolazione di appena cinquantamila abitanti. Queste transumanze, che non possono che crescere di anno in anno, sono un fenomeno recente. Per secoli ci si spostava per due sole ragioni: la guerra e la conquista di territorio. Per altri secoli, il pellegrinaggio religioso costituiva l’unica esperienza di vita di un uomo al di fuori del luogo natale. Nell’Ottocento iniziarono, in Europa, i tour educativi dei rampolli di buona famiglia e quelli degli artisti. Solo dopo il boom economico degli anni Sessanta si sono sviluppati il turismo famigliare e tutti gli altri turismi - artistico, sportivo, sessuale, esotico, estremo - dall’Artide alla Terra del Fuoco, dal Messico all’Isola di Pasqua. Le prime parole che vengono in mente sono mondializzazione e democratizzazione.
Non appena intere popolazioni escono dalla miseria e dalle costrizioni contingenti, acquistano coscienza che il mondo, i suoi tesori e le sue bellezze, sono di tutti e dunque appartengono anche a loro. Tutto appartiene a tutti. Il turista è l’altro. Siamo dunque sempre il turista di qualcuno. E la povera signora veneziana, travolta e semicalpestata mentre usciva da un vaporetto, quella che, mentre la aiutavo, disse, tra disperazione e stupore “… ma questa è la MIA città… “, è probabilmente nonna di un giovane che si dà alla pazza gioia alle quattro di notte a Barcellona e impedisce ai residenti di dormire.
Bisogna “regolamentare i flussi”, “spalmare” il turismo su zone più ampie dicono i politici — e naturalmente creare commissioni per agire con efficacia. Come si regolamenta l’arrivo dei turisti a Venezia? Si diminuisce il numero dei treni? Niente più pullman? Arriveranno solo quelli che atterrano all’aeroporto? Numero chiuso per censo (chi paga il biglietto d’ingresso)? Il biglietto del vaporetto (già a un prezzo stravagante: 7 euro e cinquanta) aumenterà? Il Ponte di Rialto verrà transennato a ore fisse? E come si “spalmano” i turisti?
Qualcuno spiegherà ai gruppi organizzati che è meglio non visitare la Basilica e fare invece un giro in laguna di notte? Nessuno ha idea di quel che bisognerebbe fare ma il brusio dei saccenti si fa assordante. Non possiamo permetterci di sghignazzare troppo sulla caricatura del viaggio culturale praticato da masse piene di buona volontà, invasori pacifici e ammiratori virtuali. Sappiamo che un discorso elitista a nulla serve ed è intellettualmente ingiusto. Chi siamo per giudicare le emozioni che suscitano un primo, e forse unico, ingresso nella basilica di San Marco? Chi siamo proprio noi che stiamo diventando una nazione di affittacamere e cantinieri? Alle scempiaggini sentite dai turisti (cito un dotto capofamiglia francese sulla Riva degli Schiavoni: “ …da qui partivano le navi cariche di schiavi per l’America”), corrispondono le scempiaggini di alcuni telegiornali che fanno a gara di cifre trionfali, dalla frequentazione dei musei al numero di sagre della patata. E le trasformazioni indotte dal turismo, quelle collaterali come Airbnb, incideranno sull’immaginario collettivo molto più di quanto si possa pensare; per esempio contribuendo a imprimere nella mentalità occidentale che tutto, anche i luoghi più intimi e personali, può o deve diventare oggetto di profitto.
Uno dei motori del turismo, fra i più nobili, è l’immaginazione. Partire da un luogo noto per andare a vedere paesaggi e opere d’arte che la letteratura e la storia ci hanno descritto. Verificare se quello che immaginavamo corrisponde alla realtà, o le è inferiore, o superiore producendo quei brividi che solo la bellezza o la stranezza sanno provocare: ecco la parte bella a cui aspira il viaggiatore. Ma perché questa magia avvenga, bisogna che il luogo visitato abbia preservato non solo i resti di una bellezza riconosciuta dalle guide, ma per quanto possibile le caratteristiche che hanno formato la sua identità. Per questo suscita sgomento la reazione del sindaco Brugnaro e il suo entusiasmo all’idea dei futuri sbarchi di grandi navi, cinesi stavolta, a Marghera. Le Monde del 15 agosto riporta il suo giubilo: “Venezia sarà la Dubai dell’Occidente!”.
Il sociologo Rachid Amirou, che ha dedicato la sua vita di ricercatore alla nascita e all’esplosione dei turismi nel mondo, racconta un aneddoto stupefacente: in una cittadina della Costa Azzurra, l’amministrazione comunale dava ai pensionati un modesto contributo perché uscissero di casa, giocassero a bocce e bevessero il loro solito aperitivo sotto i platani… perché conducessero in pratica la loro vita normale, soprattutto nelle giornate estive e sotto gli occhi dei turisti. Perché insomma la loro identità, non ancora in pericolo, si rafforzasse e desse lustro al fascino del loro luogo natale. Attori di sé stessi, in un quadro che, insensibilmente ma sempre di più, diventa la scena di un teatro. Quante volte abbiamo avuto l’impressione di un allestimento organizzato per uso turistico in paesini di incomparabile leggiadria — in Toscana o a Malta o in Andalusia?
Ha ragione Galli della Loggia — e hanno ragione Jean Clair o Salvatore Settis, preoccupati da questi sintomi di identità per lo meno perturbata — a invocare un potere organizzativo superiore, che pensi il futuro e non permetta agli eletti locali azioni potenzialmente devastanti, non pensate e non analizzate. Ma non mi risulta che nessuno abbia risposto alle loro suppliche. E non mi stupisce. Siamo di fronte a un movimento inarrestabile e difficilmente organizzabile, che ha letture diverse, da quelle più moderate e fataliste a quelle più pessimiste. Questo movimento ci trascina verso una divisione del mondo in nazioni “invitanti” (dedite ai servizi di accoglienza per vacanzieri, all’artigianato più o meno fasullo, allo sfruttamento intenso delle bellezze artistiche e paesaggistiche) e nazioni forti che concentreranno sul loro territorio industrie e strumenti di potere. Questa la visione pessimista. Inutile insistere sulla tristezza orwelliana di cui è portatrice.
Nella piuttosto patetica confusione terminologica sulle parole della città, si è da tempo infiltrata tra le altre cose la surreale equazione Piste Ciclabili = Gentrification (segue)

Nella piuttosto patetica confusione terminologica sulle parole della città, si è da tempo infiltrata tra le altre cose la surreale equazione piste ciclabili = gentrification. Che si unisce del resto ad altre stravaganze, tutte tese a scambiare qualche curioso sintomo collaterale per la malattia, vuoi male informati da una stampa superficiale (che da anni sul tema specifico confonde le acque in modo a dir poco sospetto), vuoi spaventatissimi da qualunque cambiamento anche in cose come il consumo di yogurt o cibi biologici, diventato in alcuni casi segnale certo che bisogna iniziare a scendere in piazza per scongiurare deportazioni di massa dai quartieri ex popolari. Ma la pista ciclabile probabilmente unisce diversi spunti, sia simbolici che tangibili, di quello che a torto o a ragione è considerato un attacco diretto alla propria esistenza, in quanto individui e comunità che condivide certi «valori». Esagerato? Parrebbe proprio di no, se guardiamo ai fatti.

Lo raccontano ormai infinite cronache locali, di vere e proprie barricate contro la realizzazione di percorsi dedicati o rastrelliere del bike-sharing a postazione fissa, anche e soprattutto da parte di quelli che potrebbero (dovrebbero) apparentemente essere i primi ad avvantaggiarsi, di una mobilità locale più comoda, capillare, economica, sana, addirittura esteticamente meno invasiva rispetto al tradizionale automobilismo tritatutto. E invece sono proprio i poveracci delle case popolari, gli esercenti delle botteghe che tirano avanti alla giornata, i padroncini di qualche bar o chiosco coi tavolini di formica e le sedie di plastica, i più feroci oppositori di tutto quanto evoca il pedalare. Perché? Escluso che qualcuno manovri in qualche modo tutte queste comunità (qui la pur assai in voga ipotesi di complotto mondiale, e neppure cittadino, suona particolarmente ridicola) indipendenti, prende corpo l'idea che in un modo o nell'altro l'universo pervasivo automobilistico sia sul serio percepito, e in modo universalmente condiviso, come «valore». Un valore addirittura identitario, qualcosa di quasi indiscutibile, che si è disposti a difendere con le unghie e coi denti. Nel caso delle comunità residenti nei classici complessi popolari novecenteschi, stiamo parlando di quartieri nati e conformati quando l'auto era il simbolo del progresso sociale ed economico, la tappa ineludibile del passaggio dall'adolescenza alla vita adulta, e in senso più allargato il nucleo centrale della vita urbana, attorno a cui tutto si piegava.

Se nel quartiere popolare per esempio addirittura appare vistosa, la differenza qualitativa tra gli spazi accessibili in auto e quelli che non lo sono (meglio tenuti i primi, mediamente, dei secondi), anche più in generale nella città pare diffusissima questa idea che accedere, fruire di uno spazio, di un servizio, conferire qualità attraverso la presenza umana, coincida con la circolazione e sosta automobilistica. Lo testimonia la stessa esistenza delle norme sugli standard a parcheggio minimi, e lo confermano se necessario gli infiniti casi in cui si sacrifica anche l'ultima briciola di buon senso su quell'altare della «fruizione della città», vuoi per tutti, vuoi in una accezione limitata per i privati proprietari. Un luogo non è tale a pieno titolo se non con la sua appendice automobilistica: si vedano quei giganteschi box singoli o doppi ricavati – in modo perfettamente legale «a regola d'arte» - in posizioni assurde, dentro il cuore profondo di spazi verdi naturali o angusti budelli monumentali, per il solo motivo di non separare fisicamente neppure di un solo metro in più il veicolo dal suo proprietario seduto in soggiorno o sdraiato in un letto. E naturalmente c'è tutto il resto dell'esistenza a far da contorno: benessere, vita, relazioni, pratiche sessuali, consumi, tutto là dentro e nelle immediate vicinanze. Pare quasi scontato, che mettere in discussione un caposaldo esistenziale del genere possa risultare sconvolgente, ben oltre le intenzioni di chi non l'aveva ben colto.

E arrivano così, tra capo e collo, quelle gioiose e un po' fessacchiotte (perché spessissimo lo sono, così concepite) pensate di benintenzionati amministratori per i loro microsventramenti virtuali dei quartieri, popolari o borghesi che siano, a colpi di vernice rossa, qualche decina di metri di a volte evitabile orrido cordolo, catarifrangenti, lampioncini finto liberty o design postmoderno, arredi urbani di contorno e raccordo. Che

Milano Gratosoglio - foto F. Bottini

sarebbero davvero carini, o per meglio dire «sostenibili», come recita il termine in voga tra gli svagati proponenti e le volenterose associazioni di settore, se qualcuno si prendesse la briga di contestualizzarli sul serio, ovvero rendere edotte le vittime (perché di vittime si tratta) dei vantaggi immediati e futuri di questa autotomia, praticata con le dovute cautele, e nel quadro di un luminoso verificabile futuro.

Perché pedalare sarà anche bellissimo, ma quando lo si impone, lo si scaraventa in testa agli interessati «invece» del confortante bozzolo della città automobilistica, è un dente cavato a tradimento senza anestesia. Strappare un pezzo del «suo» affaccio al bottegaio che da una manciata di generazioni per usucapione pienamente accettata da tutti, ci allestisce un pezzo del suo esercizio, e farlo in modo seriale come se si trattasse di politica repressiva di classe «dettata da esigenze tecniche», viene quasi spontaneamente recepito come sadismo piuttosto idiota. Che genera rifiuto generalizzato e reazioni spontanee di massa, come quelle figure sociali prima inesistenti e oggi frequentissime, del Predicatore di Strada del Codice, cioè quei tizi che bloccano di continuo ciclisti intenti semplicemente a salvarsi la vita (su un breve tratto di marciapiede, pedalando sulle strisce, superando di un paio di metri la linea d'arresto del semaforo …), per arringarli con toni diciamo così bruschi, sulle «civili regole di convivenza» infrante dall'eversivo pedalatore.

E figuriamoci quando, sempre di punto in bianco e senza pensare ad altro se non alla «applicazione tecnica del progetto», a qualcuno viene in mente di fare cose contronatura, che neanche i matrimoni tra gente dello stesso sesso in un villaggio contadino ottocentesco: il Senso Unico Eccetto Bici, inaudito, eresia! L'uomo della strada, predicatore di Codice o no, si sente davvero sottoposto ad apartheid da questi sventratori virtuali della sua città ideale tanto faticosamente costruita nei decenni del progresso. E bisogna dargli retta, perché non ha mica tutti i torti, a ben vedere: lo si sta emarginando sul serio impedendogli di fruire della città, di esercitare quello che a ragione o a torto percepisce come diritto umano e civile. Se gli leviamo qualcosa, dobbiamo prima sostituirlo con qualcos'altro, e la bicicletta feticcio dei fresconi Haussmann a propria insaputa è a mille miglia dal possedere (e per puri motivi storico-culturali) la medesima pervasività esistenziale dell'auto. Chi inizia a pensare a queste «politiche urbane», in definitiva, dovrebbe sempre ricordarsi appunto che sta facendo «politiche», è un amministratore eletto, non un gestore di risorse economiche da suddividere equamente tra questa e quella lobby di interessi, a seconda di chi gli sta più simpatica. O almeno provarci, e raccontarci pazientemente quale dovrebbe essere lo scenario finale. È chiedere troppo?

La Città Conquistatrice

il manifesto, 30 settembre 2017 «Torino è il simbolo materiale di una sconfitta del lavoro che viene da lontano». (c.m.c.)

C’è una buona dose d’ironia, o di faccia tosta, nella scelta dei cosiddetti potenti della terra di tenere a Torino il loro «G7 del lavoro». Un appuntamento, potremmo dire, nel centro del cratere. Nella città che fu, un tempo, un punto alto, e densissimo, nella vicenda novecentesca del lavoro: capitale industriale e capitale operaia.

Dove produzione di massa e conflitto di massa s’intrecciarono e alimentarono a vicenda, e che oggi porta tutti i segni della spoliazione, dello svuotamento di potere e di vita, nelle sue statistiche negative, di company town dismessa, nei vuoti industriali che disseminano le sue periferie, nella rarefazione delle aree ristrutturate povere di storia e di socialità.

Non vedranno tutto questo i «Grandi» (o i loro vice in visita aziendale): siederanno nelle splendide sale della dimora sabauda di Venaria Reale, il luogo del loisir dei Grandi di ieri, della caccia e del corteggiamento ruffiano, simbolo di ogni Ancien Régime eternamente ritornante.

Parleranno di Scienza, certo. Anche d’Industria (meglio: di affari). Visiteranno qualche punto d’eccellenza nella frazione di città-vetrina che gli sarà offerta, ma se avessero il coraggio di sconfinare dagli itinerari ufficiali, e gettare l’occhio sul paesaggio urbano «vero», anche solo sull’ex quartiere-dormitorio delle Vallette, a pochi passi dalla Reggia di Venaria, o sul fantasma di quella che fu la Grandi Motori, nel cuore della Barriera di Milano, oggi terra di nessuno, potrebbero specchiarsi direttamente nel vuoto che essi stessi, con le loro politiche dissennate, i loro dogmi fallimentari, i loro luoghi comuni frusti hanno prodotto nel corpo un tempo coeso del lavoro.

Torino è il simbolo materiale di una sconfitta del lavoro che viene da lontano. Una sconfitta storica, visibile nei suoi numeri. Qui, ancora alla fine degli anni ’70, lavoravano 250.000 operai manifatturieri, in prevalenza metalmeccanici, con salari non opulenti ma decorosi, con solidi contratti di lavoro collettivo, nella stragrande maggioranza a tempo indeterminato, oppressi, certo, da un potere padronale avaro e duro ma tutelati da una rete di diritti conquistati con lunghe lotte.

Nella sola Fiat erano occupati in 130.000 (tutti dipendenti diretti). Oggi non superano i 10.000, spesso in cassa integrazione. Per gli altri un lavoro sempre meno «regolato», quasi mai contrattualizzato né tutelato da diritti erosi in forza del motto «arrendersi o perire».

Negli ultimi anni le nuove assunzioni a tempo determinato rispetto a quelle a tempo indeterminato sono state nell’ordine delle otto su dieci. Ed è, grosso modo la stessa media registrabile a livello nazionale: nel secondo trimestre del 2017, ci dice l’Istat, «tre quarti delle nuove assunzioni» sono state a termine, dunque in senso proprio precarie.

E l’Europa non è molto differente, neppure la tetragona Germania, dove i minijob sfiorano ormai dimensioni dell’ordine dei milioni (forse cinque, forse sette, a seconda dei criteri di calcolo), e riguardano donne e uomini, giovani in prevalenza ma non solo, che devono vivere con un salario massimo di 450 euro per 15 ore settimanali a un costo orario oscillante tra i 5 e i 7 euro.

Chissà se i ministri del lavoro europeo hanno letto le statistiche del lavoro che Eurostat fornisce: apprenderebbero allora che le persone “in-work” ma “at risk of poverty”, nel loro continente di competenza – donne e uomini che sono a rischio di povertà nonostante abbiano un lavoro full time – si avvicina pericolosamente al 10% della popolazione. Sintomo di un abbassamento brutale del potere contrattuale del lavoro nei confronti di una controparte padronale in pieno delirio di onnipotenza.

E chissà se quegli stessi ministri hanno dato una sbirciata alle statistiche sulla ripartizione del reddito tra salari e profitti (un indicatore che dovrebbe essere propedeutico a qualsiasi discussione sul destino del lavoro): apprenderebbero che in un quarto di secolo o giù di lì, nei paesi Ocse, quella ripartizione si è spostata a favore dei profitti e a danno dei salari di qualcosa come una decina di punti percentuali di Pil (l’equivalente di centinaia di miliardi di dollari all’anno), a significare che la bilancia sociale è precipitata da una sola parte. E ha eroso le basi di qualunque ragionevole patto.

Di questo dovrebbe ragionare un «vertice sul lavoro»: di come riportare in equilibrio quella bilancia. Di come risarcire il lavoro di quanto gli è stato sottratto negli anni del delirio neo-liberista. Senza questa premessa etico-politica nessuna «innovazione» potrà rivelarsi socialmente positiva, anzi, rischierà di peggiorare il «bilancio sociale». Né ci sarà legittimità, quali che siano le conclusioni che usciranno dalla Reggia.

il manifesto, 30 settembre 2017. Il dramma umano degli sfratti visto dalla parte di chi dovrebbe sfrattare. «A Roma sono 10 mila gli abusivi nei 74 mila alloggi popolari: 50 anni per sgomberarli tutti». E le case vuote delle immobiliari rimangono vuote: toccarle non si può, sono private

L’episodio del Trullo, l’ultimo di una serie, riporta in auge il tema casa che sembra legato a doppia maglia a quello della legalità. Ma se qualche mese fa abbiamo assistito all’ efficientissimo sgombero di Piazza Indipendenza, che il Prefetto ha definito operazione di «cleaning», ieri al Trullo lo Stato ha dovuto inesorabilmente retrocedere di fronte ad un gruppo di facinorosi. E a una ragazza madre che da poco occupava un appartamento rimasto vuoto dopo lo sgombero, un anno fa, dei precedenti abusivi.

A volte si ha l'impressione di un’applicazione selettiva o parziale e distratta della legalità, cosa che i dati confermano. All’interno dei 74.000 alloggi popolari i nuclei abusivi sono circa 10.000. Il fenomeno è talmente complesso che nei report degli enti gestori, Ater e Patrimonio di Roma Capitale, gli “abusivi” vengono classificati in 9 categorie: occupante con sentenza definitiva, sanatoria senza requisiti, utente abusivo, utente con domanda di voltura non accolta, utente con domanda di sanatoria incompleta, utente revocato e utente con domanda di sanatoria non accolta. Un fenomeno assai complesso che richiede per il suo contrasto una strategia articolata.

Organizzare uno sgombero di per sé è cosa complicata e costosa, servono almeno due pattuglie della Polizia Locale, un fabbro autorizzato, una ditta di traslochi, un medico e a volte l’ausilio della Polizia di Stato. Con le attuali capacità si possono organizzare circa 200 sgomberi all’anno, pertanto se decidessimo di sgomberare tutti i 10.000 in preda ad un fervore di legalità impiegheremmo circa 50 anni senza contare che dovremmo spostare una popolazione di 30.000 persone, come tre medi quartieri della Capitale. Inoltre l’affare si complica se teniamo conto che questi sono solo gli abusivi storici, infatti a Roma circa 1.000 alloggi popolari vengono occupati ogni anno.

Ergo, qualora anche implementassimo a 365 gli sgomberi all’anno avremmo un risultato finale deludente: per ogni alloggio sgomberato ne avremmo almeno tre occupati lo stesso giorno. Sembra qui riprodursi il paradosso di Zenone, quello in cui Achille non riesce mai a raggiungere la tartaruga. Quindi che fare? È del tutto evidente che se non si blocca l’emorragia di alloggi è inutile eseguire vecchi sgomberi che assumono solo una valenza simbolica, certamente giusti, ma non risolutivi.

Con la Giunta Marino si era tentato di dare un riassetto organico alla materia attraverso una azione articolata. Per fare questo si è costituito, attraverso la delibera 368/13, un gruppo di Polizia Locale altamente specializzato, Gruppo di Supporto delle Politiche Abitative, che concentra la maggior parte degli sforzi investigativi nell’impedire le occupazioni e a debellare i racket. Inoltre attraverso un Protocollo di Intesa con la Guardia di Finanza, ancora attivo ma siglato nel 2014, si procedeva a verifiche patrimoniali molto più accurate rispetto a quelle che vengono svolte attraverso l’interrogazione della Agenzia delle Entrate. In ultimo, anche questo ancora attivo, si è istituito un numero di emergenza, Casa Sicura 06671073551, a cui ci si può rivolgere in caso di occupazione coatta. L’ultimo punto, che avrebbe rappresentato la quadratura del cerchio, era l’istituzione di un data base comune su cui fare le verifiche.

È importante spiegare che per svolgere le verifiche sulle case popolari, cosa di competenza del Dipartimento Politiche Abitative del Comune, si interrogano diversi database. Qualora l’immobile sia del Comune, che detiene circa 28.000 alloggi, bisogna rivolgersi al Dipartimento del Patrimonio che a sua volta ha delegato la gestione a una società esterna, se invece l’immobile appartiene all’Ater, che ne ha circa 45.000, bisogna rivolgersi a quest’ente. Poi bisogna consultare l’Anagrafico del Comune, per capire chi vi risiede, l’Agenzia delle Entrate per determinare i redditi, e l’Agenzia del Territorio per capire se si hanno altre proprietà immobiliari. Insomma un meccanismo alquanto farraginoso.

Ora considerando che tutti questi enti sono Pubblici basterebbe un semplice protocollo di intesa e un programma che, consultando in automatico i dati, segnali qualsiasi anomalia, eccesso di reddito, un nuovo inquilino, l’acquisto di un immobile, in modo da far partire le verifiche mirate con notevole risparmio di tempo e di risorse. La potenza di calcolo di un simile computer? Oggi lo può fare un qualsiasi smartphone che abbiamo in tasca.

Purtroppo mentre si stava lavorando a questo progetto l’esperienza della Giunta Marino è tragicamente finita. Un progetto che spero qualcuno voglia riprendere e implementare poiché da solo consentirebbe di triplicare le assegnazioni di alloggi popolari, che passerebbero da 500 a 1500 all’anno e forse anche la ragazza che ha occupato l’alloggio del Trullo si convincerebbe che partecipare al Bando per l’assegnazione di case popolari ha un senso.

il Fatto Quotidiano, 30 settembre 2017. «A un mese dal sisma (e dai crolli) di Ischia le norme che ostacolano le demolizioni arrivano in aula alla Camera per essere approvate entro venerdì: le Procure in rivolta», con postilla

Il calendario dei lavori dell’aula di Montecitorio per la prossima settimana, deciso dalla riunione dei capigruppo di martedì, rivela una di quelle spiacevoli sorprese tipiche di fine legislatura: il cosiddetto “ddl Falanga”, dal nome del senatore verdiniano che lo ha proposto, viene scongelato e arriva all’esame dell’Assemblea lunedì per essere approvato entro venerdì (anche in notturna, se del caso, specifica l’ordine del giorno sul sito della Camera). E cosa prevede il ddl Falanga? Una serie di norme che mirano, sia detto brutalmente, a condonare gli abusi edilizi in essere finendo per incentivare anche quelli a venire. Questa, dunque, è la risposta che il Parlamento fornisce al Paese passato un mese dal terremoto, dai crolli e dai morti di Casamicciola, a Ischia, con relative polemiche attorno all’ “isola abusiva”.

Sarà contento il senatore campano Ciro Falanga, che minacciava le dimissioni in caso di mancata approvazione del ddl. E sarà contento l’uomo che lo ha accolto nel suo gruppo: Denis Verdini. Siamo ai saldi di fine stagione parlamentare, in cui si ammicca ai molti consensi che la vicenda attira nel Sud (Campania e Sicilia soprattutto) e anche a quello dei migranti politici raccolti dall’uomo che incarna il Patto del Nazareno nel gruppo Ala. Questa settimana, infatti, Camera e Senato dovranno votare pure la nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, che ha bisogno – visto che modifica i saldi di finanza pubblica – di un sì a maggioranza assoluta: in Senato, però, i bersaniani di Mdp hanno già votato contro il Def in commissione Lavoro e minacciano defezioni pure in aula; il voto dei 14 verdiniani, dunque, potrebbe risultare fondamentale per arrivare ai 161 sì di cui hanno bisogno Gentiloni e Padoan.

E qui si torna al ddl Falanga, già approvato due volte in Senato e una alla Camera: per diventare legge basta un piccolo voto sulla parte modificata da Palazzo Madama in seconda lettura, una normetta finanziaria che i nemici del testo speravano potesse bloccarlo per sempre a Montecitorio. Non è stato così e ora la leggina pro-abusivi corre veloce verso l’approvazione definitiva.

Nel merito, gran parte del ddl, spacciato per una grande riforma da alcuni dei suoi imbarazzati sostenitori del Pd, è una presa in giro: ad esempio istituisce un fondo nazionale per le demolizione dei manufatti abusivi da 10 milioni l’anno, sufficienti – dicono serie storiche ed esperti – a finanziare al massimo 140 interventi in un Paese che ha 70 mila abusi nella sola Campania.

La ratio ideologica del provvedimento è un’altra: usare la vaga formula “abusivismo di necessità” per bloccare le ruspe dei giudici quando i Comuni sono inadempienti (cioè quasi sempre). L’ex magistrato, ex ministro della Giustizia e oggi senatore di Forza Italia Nitto Palma, promotore di una sorta di condono nella scorsa legislatura, la declina così: “Il disegno di legge è volto a salvare dagli abbattimenti le abitazioni delle persone che vivono in Campania con un reddito assai modesto e non già i grandi gruppi alberghieri o i faccendieri della Costiera sorrentina”. Più o meno i toni che usano Vincenzo De Luca, governatore della regione, e altri pasdaran dei “poveri cristi” con casa abusiva.

In realtà all’interno del testo c’è un punto che va assai al di là dell’ideologia ed è una sorta di incentivo all’abuso edilizio persino nelle zone sotto tutela: l’articolo 1 del ddl, al comma 6 bis, dispone infatti che in caso di edifici abusivi costruiti in aree sottoposte a vincolo, si proceda a demolire prima quelli non ultimati alla data delle sentenza di primo grado. Calcolando i 12-16 mesi per arrivare a una sentenza di primo grado, una sorta di invito a darsi da fare per finire il manufatto illegale.

Non che gli “abusivisti” aspettino quello: già oggi la cementificazione illegale avanza a colpi di 20 mila immobili l’anno. Per il coordinatore dei Verdi, Angelo Bonelli, “così si legalizza l’abusivismo in modo surrettizio e, non essendoci un limite di tempo nell’applicazione delle norme, una volta trasformato in legge ci sarà la corsa a costruire abusivamente perché l’impunità sarà garantita. Uno schiaffo agli italiani che hanno rispettato la legge, pagano l’affitto o un mutuo e saranno costretti a pagare con le loro tasse le opere di urbanizzazione di chi ha edificato abusivamente”

postilla

Del resto, un Parlamento istituzionalmente abusivo come quello in carica non può non riconoscersi complice degli abusivisti sul territorio. Sull'ignobile testo del senatore verdiniano Falanga, che con il gioco delle tre carte finge di colpire l'abusivismo e invece sana i vecchi abusivi e rilancia l'abusivismo garantendogli l'impunità vedi gli articoli e le dichiarazioni riportate qui su eddyburg.

il Fatto quotidiano, 29 settembre 2017 Qualche volta anche i pesci grossi finiscono nella rete. Enel, Ilva e Cementir (Caltagirone, il padrone di Roma) ci rovinano due volte: coprono la terra con le colate di cemento, e per di più il loro cemento inquina.

«Inquinamento - Enel e Ilva vendevano materiale contaminato alla Cementir (allora di Caltagirone) che poi finiva nell’edilizia civile e industriale. 34 indagati»

Rifiuti pericolosi rivenduti per produrre cemento in alcuni casi scadente e soprattutto per risparmiare milioni e milioni di euro evitando gli ingenti costi di smaltimento. Una “triangolazione illecita” che ha coinvolto “tre compagini societarie di primo piano nel panorama industriale ed economico nazionale” come Enel Produzione spa, Ilva spa e Cementir Italia. Quest’ultima acquistava a prezzi irrisori la loppa dell’Ilva (lo scarto della produzione dell’acciaio) e le ceneri recuperate dai filtri dello stabilimento della centrale elettrica Enel di Brindisi. Sulla carta, tutto regolare. Nella realtà loppa e ceneri non potevano essere utilizzate per quello scopo perché contenevano residui che li rendevano praticamente rifiuti e non “sottoprodotti”. Eppure Cementir che secondo l’accusa era pienamente consapevole della natura del materiale che acquistava, li usava per produrre cemento finito nell’edilizia civile e industriale che secondo gli esperti in alcuni casi presenta caratteristi di minore resistenza meccanica. Un sistema estremamente redditizio, soprattutto per chi vendeva gli scarti: solo per Enel, ad esempio, la vendita delle ceneri ha consentito un guadagno di oltre 523 milioni dal 2011 a oggi. Per l’Ilva, invece, la somma non è ancora stata calcolata.

Ma c’è tanto altro negli atti dell’indagine denominata “araba fenice” messa a segno ieri mattina dai finanzieri della sezione Tutela dell’economia della Guardia di finanza di Taranto guidati dal tenente colonnello Marco Antonucci e dal colonnello Gianfranco Lucignano e coordinati dai pubblici ministeri Alessio Coccioli della Direzione investigativa antimafia di Lecce e Lanfranco Marazia della Procura ionica, che ieri mattina hanno notificato un decreto di sequestro che ha riguardato le 3 società e ben 31 persone.

Tra queste figurano i tre commissari straordinari dell’Ilva Pietro Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carruba, l‘ex commissario Enrico Bondi, l’ex patron Nicola Riva, l’ex prefetto di Milano Bruno Ferrante, i vertici dell’impianto di Cerano e dello stabilimento tarantino della Cementir che, proprio pochi giorni fa, il Gruppo Caltagirone ha ceduto insieme a tutte le attività italiane al gruppo Heidelbergcement per 315 milioni di euro. Un’indagine che ha da subito fatto paura, soprattutto ai dirigenti della centrale brindisina, spaventati dalla preparazione dei finanzieri. In un’intercettazione telefonica captata dagli investigatori mostrano lo stupore e la paura di due dirigenti dell’Enel i cui nomi non sono specificati, ma indicati con le lettere “D” e “B”:

D: Questi qua sono cinque… sono nel loro nucleo di ambiente eh! Non è tributario che non fanno un cazzo che non capiscono un cazzo.
B: No, no (…) ci capiscono si…
D: Sono cinque esperti…
B: Questi ci capiscono abbastanza.
D: Hum …
B: A modo loro ma ci capiscono. Vabbè dai e… tanto lo sapevamo e…
D: Poi mi hanno parlato di principio di precauzione, quindi anche concerti complessi insomma…
B: Sì, sì.
D: No, perché questa roba qua voi anche se poco perché… sai… bisogna adottare il principio di precauzione…
B: Vabbè, oh! E… Fabio che… da come era partita avevamo capito che… è cosi.. II problema vero è capire adesso che ne vogliono fare del pregresso. Perché…
D: Hum!
B: …dice ‘ma hai contaminato tutte le ceneri. Mo aspetta hai contaminato tutte le ceneri” boh! Vediamo. Solo che già mi immagino i titoli sui giornali’.

Il decreto del giudice Antonia Martalò ha sequestrato con facoltà d’uso l’intera centrale di Brindisi, il cementificio di Taranto e una parte dell’Ilva: le società avranno 60 giorni di tempo per mettersi in regola ed evitare il fermo degli impianti. Il giudice inoltre ha disposto il sequestro dei conti e delle quote societarie per Enel fino all’ammontare di 523 milioni di euro, considerato l’ingiusto profitto ottenuto in questi anni. Intanto dalle carte emerge che le violazioni di legge potrebbero aver intaccato anche la qualità del prodotto. Nel caso delle ceneri dell’Enel, infatti, i consulenti dell’accusa hanno rinvenuto “elevate concentrazioni di sostanze alcaline come l’azoto ammoniacale” che porterebbe conseguenze “sulla qualità e sulla composizione del prodotto finale”: in sostanza, per l’accusa, il calcestruzzo prodotto da quel cemento può essere decalcificato e gli effetti si tradurrebbero “con aumento di porosità e soprattutto con una perdita di resistenza meccanica”.

Le tre aziende, intanto si dicono pronte a dimostrare la regolarità del loro operato e fiduciose nell’azione dei giudici. Per i magistrati invece gli indagati delle tre aziende erano perfettamente consapevoli di ciò che facevano e in alcuni casi hanno persino tentato di ostacolare le indagini offrendo agli investigatori dati differenti da quelli reali.<

la Nuova Venezia, 28 settembre 2017. Un'eccezione positiva allo stillicidio di isole della laguna di Venezia messe in vendita per farne resort di lusso. E attraverso un'azienda partecipata, la gestione è pubblica. (m.p.r.)

Venezia.Nella laguna c'è un'isola dove ormai si parla inglese, gli abitanti sono tutti giovani e le porte degli archivi storici sono sempre aperte al pubblico. Qui passato, presente e futuro convivono senza attriti mettendosi al servizio della cultura. Non stiamo parlando di un felice pianeta lontano, ma di un'isola veneziana e dei veneziani. È l'Isola di San Servolo, a soli otto minuti da Piazza San Marco e a una sola fermata di battello da riva degli Schiavoni (vaporetto numero 20). Grande cinque ettari, quasi quattro ricoperti da un parco rigoglioso sempre accessibile, l'isola è interamente gestita dalla società in house della Città Metropolitana San Servolo Servizi.

Presente. A differenza di molte altre sorelle dimenticate, l'isola di San Servolo non ha mai conosciuto un periodo di lungo abbandono. Nota per essere stata la sede del Manicomio di Venezia, l'isola oggi è sede della Venice International University con studenti provenienti da tutto il mondo, del Collegio Internazionale dell'Università Ca' Foscari di Venezia con i 50 migliori studenti residenti nell'isola, della sezione a indirizzo digitale dell'Accademia delle Belle Arti di Venezia, della Fondazione Franco e Franca Basaglia e del Museo della Follia. Durante le esposizioni della Biennale ospita mostre di padiglioni o eventi collaterali, ma in realtà le esposizioni sono presenti tutto l'anno. Alla costante presenza di opere d'arte, si affianca l'esperienza della residenza "Waterlines" che vede la collaborazione di uno scrittore o di una scrittrice di fama internazionale con un artista locale.

Restauro. Dopo la chiusura dell'ospedale psichiatrico avvenuta nel 1978, il presidente della provincia Luigino Busatto ne intuisce le potenzialità. Investe 40 milioni della Legge speciale per restaurare la dozzina di edifici che attualmente sono tutti agibili e utilizzati. Nel giardino ci sono campi da tennis e sportivi, un barbecue che si può affittare per grandi gruppi, una terrazza per cene e un ampio spazio per matrimoni o grandi eventi, oltre a diverse sale per conferenze. In media l'isola ospita 170 congressi all'anno, tanto che tra personalità del mondo culturale e scientifico e studenti internazionale, la lingua ufficiale è l'inglese.
«Vorremmo che i veneziani sapessero che l'isola è loro», racconta Fulvio Landillo, direttore della San Servolo Servizi. «A volte si ha l'idea che una società partecipata possa essere un peso per la collettività, invece noi siamo 13 dipendenti, non abbiamo mai chiuso un bilancio in deficit, fatturiamo una media di 2,7 milioni all'anno. Siamo piccoli, ma non utilizziamo i soldi della comunità, li generiamo noi dalle nostre attività».
Cultura. Qui si respira la cultura in ogni angolo. I cinquanta migliori cervelli di Ca' Foscari abitano nell'edificio principale, dove un tempo abitava il personale medico. La Venice international University è composta da 17 università che ogni anno portano una media di 150 studenti di oltre 20 nazionalità. «L'attività principale è quella congressuale», prosegue Landillo, «abbiamo circa 170 congressi all'anno su temi scientifici, ambientali e in generale culturali. Il fatto che l'isola sia molto vicina alla città, ma che nello stesso tempo permetta agli ospiti un luogo appartato, la rende meta di tanti incontri e a noi permette di avere come ospiti delle personalità di rilievo».
Durante l'inverno c'è un'attenzione particolare ai bambini con laboratori e mostre a tema, ma anche le scolaresche sono in aumento anche per quanto riguarda la raccolta delle olive: «Abbiamo molti ulivi e grazie a Slow Food e all'associazione Laguna nel Bicchiere», spiega Landillo, «facciamo l'olio con le scuole e poi lo diamo in beneficenza. Arriviamo anche a farne 100 litri».
Giardino. Il parco, uno dei più grandi di Venezia, ospita delle specie molto particolari. Dalla palma delle Canarie che accoglie il visitatore che sbarca nell'isola, alle grandi piante di agave americana, dal tiglio europeo al bagolaro detto spaccasassi, dal platano ibrido alla safora dorata, dai grandi pini d'Aleppo, al secolare ulivo e agli alberi di ailanto, alternati a grandi arbusti di pittosporo. Impossibile non notare il grande ulivo secolare che si dice essere il più antico della laguna. Con il suo tronco intrecciato, domina il giardino guardando oltre il muro di pietra, Venezia e le altre isole.

la Repubblica, 29 settembre 2017definiscono patrioti, ma sono soltanto fascisti. Gli stessi che vivevano relegati ai margini della cronaca. Ora hanno fiutato il vento vincente dei populismi e si impossessano del malessere delle nostre periferie».
PERIFERIE da troppo tempo abbandonate a se stesse, dove tutti si sentono traditi dalle istituzioni. Ovunque, ma soprattutto nella Capitale. «In almeno cinque o sei quartieri di Roma, Forza Nuova è egemone. Famiglie e cittadini scendono in piazza ad appoggiare le nostre iniziative, facendo emergere una vera questione sociale», proclama Roberto Fiore, il leader più politico del neofascismo. A guidare ieri la resistenza contro lo sgombero di un alloggio popolare occupato abusivamente e destinato a una coppia italo-etiope c’era un suo vecchio sodale, Giuliano Castellino, più abituato a usare le mani che non le parole: una figura per decenni relegata nelle curve peggiori degli stadi e negli angoli oscuri degli intrecci malavitosi, che adesso si erge a “patriota”. Castellino e i suoi hanno lanciato pietre contro la polizia, ferendo tre agenti, ma sono riusciti nel loro scopo: imporsi come i Robin Hood della maggioranza rabbiosa di queste borgate.

Da mesi la fascia di palazzi desolati che circonda la Capitale si è trasformata nel laboratorio di un populismo apertamente neofascista. Squadracce che si impadroniscono con la violenza della piazza, che sfruttano ogni problema per sbandierare il manifesto della loro ideologia, semplificata in un unico slogan che legittima qualunque abuso: “Prima gli italiani”. Un manifesto di rapida presa in quartieri dominati dalla paura verso lo straniero, dove persino chi saccheggia abitualmente i supermercati — come è accaduto un mese fa al Tiburtino III — si muta in eroe della rivolta contro gli immigrati. Un copione che ormai si ripete dal 2014, dall’assedio nero al centro per profughi minorenni di Tor Sapienza.
Non importa chi abbia torto o ragione, ogni singolo episodio diventa un focolaio di intolleranza. Tre giorni fa l’aggressione di un malese, subito arrestato, contro due fidanzati che si baciavano nei pressi del centro islamico di via San Vito, a pochi metri da Santa Maria Maggiore, ha innescato la mobilitazione di tutte le destre, da Giorgia Meloni a Casa-Pound. Tutte pronte a invocare la chiusura dell’unico luogo di preghiera della comunità del Bangladesh che vive e lavora nella zona di Piazza Vittorio, senza mai avere creato problemi. E lunedì notte c’è stata la guerriglia di Guidonia, con la caccia all’uomo lanciata da cento persone dopo che un rom alla guida di un furgone aveva scatenato il panico facendo gimkane sui marciapiedi. «Noi qui già siamo considerati scarti, se qui ci mandano gli scarti di Roma ( ndr riferito ai nomadi) finisce che tra poveri, lasciati soli, vince er più prepotente. È normale, è la legge della strada», ha dichiarato uno degli “insorti” a Federica Angeli. Può uno Stato arrendersi alla legge della strada?
L’epicentro di questo malessere che issa sul podio i nuovi fascisti è la periferia romana, dove ogni concetto di convivenza si sta sgretolando nel crollo dei servizi elementari, come la pulizia urbana e i trasporti pubblici. Le stesse borgate che quindici mesi fa decisero il trionfo di Virginia Raggi adesso si mostrano deluse dai Cinquestelle, come da tutti gli altri partiti tradizionali. Ma l’abisso sociale in cui sprofondano questi territori è questione antica, che nessuno ha voluto affrontare. A ogni elezione si ripetono promesse che non vengono mantenute, si elaborano piani d’intervento mai attuati, c’è persino una commissione parlamentare d’inchiesta che da oltre un anno accumula audizioni e studi sul tema.
Il tempo per i discorsi è finito, a Roma e in tutta Italia. Non possiamo permetterci di ignorare oltre la situazione di questi quartieri dove l’insicurezza genera intolleranza e amplifica i messaggi del nuovo fascismo: in gioco c’è l’essenza della nostra democrazia, con il rischio di vedere rapidamente crescere il peso elettorale di formazioni contrarie ai valori della Costituzione. Serve fermezza nel reprimere chiunque faccia bandiera della violenza e della xenofobia. Ma servono soprattutto provvedimenti urgenti e concreti per testimoniare la presenza delle istituzioni. Non esistono più un noi e un loro: quello che accade lì, condizionerà anche il futuro politico del Paese.

Comune Info, 25 settembre 2017. «Fra l’estinzione e la fuga vedo una terza possibilità: rimanere, curare, difendere la nostra casa. Rimanere a casa, proteggere e rigenerare i sistemi viventi e i processi vitali della Terra, è un dovere etico ed ecologico». (m.p.r.)

Per riparare il ciclo del carbonio che abbiamo spezzato dobbiamo smettere di estrarre carbonfossile, che va lasciato sotto terra, e rigenerare piante e suoli Disastri climatici, resilienza climatica. Fra l’estinzione e la fuga su altri pianeti abbiamo una terza via: sopravvivere prendendoci cura di Madre Terra. Negli Stati indiani di Assam, Bihar e Uttar Pradesh le inondazioni hanno provocato 41 milioni di sfollati e ucciso circa cinquecento persone; a Houston e Mumbai hanno paralizzato ogni attività. È sempre più evidente che non stiamo vivendo all’interno dei limiti ecologici del nostro pianeta, e che per le nostre continue violazioni delle leggi della Terra, essere vivente, subiamo pesanti conseguenze.

Quest’anno si susseguono immagini di inondazioni estreme; l’anno scorso è stata la siccità a essere estrema ed estesa. Quando distruggiamo i sistemi climatici della Terra, che si autoregolano, arriviamo al caos, all’incertezza climatica, a cambiamenti imprevedibili ai quali pensiamo di sfuggire con la geo-ingegneria e l’ingegneria genetica.

I sistemi viventi evolvono, si adattano, si rigenerano. Non sono ingegnerizzati. Il dominio del paradigma ingegneristico inizia con l’era dei combustibili fossili, l’era dell’industrialismo e del meccanicismo. E la dottrina secondo la quale ogni fenomeno naturale, compresi la vita e il pensiero, possono essere spiegati sulla base di processi meccanici e chimici.Negli ultimi duecento anni una piccola parte dell’umanità ha inquinato il pianeta, a causa di un’economia alimentata da carbone, petrolio e gas, e di un sistema di conoscenza fondato su un paradigma meccanicistico, riduzionista e materialistico.

L’inquinamento dell’atmosfera ha sconvolto i sistemi e l’equilibrio climatico. La distruzione degli habitat e la diffusione delle monocolture hanno contribuito a quello che gli scienziati chiamano la Sesta estinzione, la sparizione della biodiversità a un ritmo che è mille volte quello naturale. Mangiamo, beviamo, respiriamo petrolio. L’estrazione di combustibili fossili (carbonio morto) dal suolo, la loro combustione e le emissioni incontrollabili in atmosfera portano alla rottura del ciclo del carbonio e in questo modo alla destabilizzazione dei sistemi climatici.

Come sottolineano Steve McKevitt e Tony Ryan (in Project Sunshine), tutto il carbone, il petrolio e il gas naturale che estraiamo e bruciamo si sono formati oltre seicento milioni di anni fa. Bruciamo ogni anno venti milioni di anni di natura. Il ciclo del carbonio è spezzato. Noi lo abbiamo spezzato. La dipendenza dal carbonio fossile, morto, induce anche scarsità di carbonio vivo, con la conseguente diminuzione della disponibilità di cibo per gli umani e per gli organismi del suolo. Una scarsità che si traduce in malnutrizione e fame da una parte e desertificazione del suolo dall’altra. L’agricoltura chimica intensifica gli input di sintesi e il capitale, riducendo la biodiversità, la biomassa e il nutrimento che i semi, il suolo e il sole possono produrre.

Per fissare più carbonio vitale, abbiamo bisogno di intensificare biologicamente le nostre fattorie e le nostre foreste, in termini di biodiversità e biomassa. La biodiversità e la densità di biomassa producono più nutrimento e più cibo per ettaro (come abbiamo mostrato nel rapporto di Navdanya intitolato Health per Acre – Salute per ettaro), affrontando così il problema della fame e della malnutrizione. Ma aumentano anche (e non solo) il carbonio vitale nel suolo, e tutti gli altri nutrienti, insieme alla densità degli organismi benefici.

Più facciamo crescere la diversità e la biomassa, più le piante fissano il carbonio e l’azoto atmosferici, e riducono sia le emissioni che la quantità di sostanze inquinanti in atmosfera. Il carbonio viene restituito al suolo attraverso le piante. Ecco perché è davvero stretto il legame fra biodiversità e cambiamenti climatici. Più si intensificano la biodiversità e la biomassa delle foreste e delle fattorie, più materia organica è in grado di ritornare al suolo, invertendo il trend verso la desertificazione che è la prima causa degli spostamenti di popolazione e dello sradicamento delle persone, con la creazione di ondate di rifugiati (si veda il manifesto di Navdanya Terra viva: Our Soils, Our Commons, Our Future).

Per riparare il ciclo del carbonio che abbiamo spezzato dobbiamo tornare ai semi, al suolo, al sole, aumentare il carbonio vivo nelle piante e nei suoli. Dobbiamo ricordare che il carbonio vivo dà vita, mentre il carbonio morto distrugge i processi della vita. Così, con le nostre cure e la nostra consapevolezza, possiamo accrescere il carbonio vivo sul pianeta e il benessere di tutti. Invece, più sfruttiamo e usiamo carbonio morto, più inquinamento produciamo e meno avremo per il futuro. Il carbonio morto deve essere lasciato sottoterra. È un obbligo etico e un imperativo ecologico. Ecco perché il termine «decarbonizzazione» – senza distinzione fra il carbonio vivo e quello morto – è scientificamente ed ecologicamente inappropriato. Se decarbonizziamo l’economia, non avremo piante, che sono carbonio vivo, non avremo vita sulla Terra. Vita che crea carbonio vivo e ne è alimentata. Un pianeta decarbonizzato sarebbe un pianeta morto.

Dobbiamo ricarbonizzare il mondo con carbonio vivo. Dobbiamo decarbonizzare il mondo relativamente al carbonio morto. Quando creiamo più carbonio vivo attraverso l’agroecologia e l’agricoltura organica, abbiamo più suoli fertili che producono più cibo e trattengono più acqua, aumentando dunque la resilienza di fronte a siccità e inondazioni. L’agricoltura biologica ad alta intensità di biodiversità produce più cibo e più nutrienti per ettaro.Garantendo servizi ecologici e il controllo degli agenti infestanti, permette di fare a meno degli input di sintesi, dei veleni, evitando anche i debiti contratti per acquistarli, la principale causa di suicidio fra gli agricoltori. I redditi agricoli possono aumentare di dieci volte se si abbandona la dipendenza da input chimici costosi e dalla coltivazione di derrate i cui prezzi continuano a scendere.

Far crescere cibo vero a zero costi è la strada verso il secondo degli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile (Sdg) dell’Onu: fame zero. I combustibili fossili, la strada verso la conquista, ci hanno portati alla crisi che l’umanità è ora costretta ad affrontare. Crediamo di essere al di fuori e al di sopra della Terra, crediamo di controllarla, di esserne i padroni. Lo crediamo. I combustibili fossili ci hanno consentito l’illusione di non dover vivere entro i limiti, le frontiere e i processi ecologici del nostro pianeta. Ma ecco che i cambiamenti climatici, gli eventi estremi, i disastri ci ricordano con sempre maggiore frequenza che siamo parte della Terra. Ogni atto di violenza che distrugge i sistemi ecologici minaccia anche le nostre vite.

Ormai la minaccia alla stessa sopravvivenza umana è riconosciuta, ma continua a non essere messa in relazione con la violenza contro la Terra, e non giunge alla conclusione che dobbiamo trasformarci da specie predatrice e incurante a specie che si prende cura, che lavora in co-creazione e co-evoluzione con la Terra.

Stephen Hawking ha lanciato l’allarme: entro cento anni, per sopravvivere dovremo lasciare la Terra e trovare altri pianeti. Non ci sarebbero che due opzioni: l’estinzione o la fuga. Questo escapismo è al tempo stesso una dichiarazione di irresponsabilità (rispetto al prendersi cura della Terra) e di tracotanza tecnologica. È un’arroganza cieca rispetto al fatto che alcuni umani hanno spezzato i fragili processi ecologici che mantengono e riproducono la vita sulla Terra. È il rifiuto di riconoscere il dovere ecologico di chiedere scusa alla nostra Madre, smettere di danneggiarla, dedicare il nostro amore e la nostra intelligenza a lenirne le ferite, un seme alla volta, un giardino alla volta. Se abbandoniamo l’arroganza tecnologica antropocentrica, di Padroni e Conquistatori, riconoscendo con umiltà che siamo membri della famiglia della Terra, possiamo, con i semi, il suolo, il sole, rigenerare il pianeta e il nostro futuro.

A differenza di Hawking, fra l’estinzione e la fuga vedo una terza possibilità: rimanere, curare, difendere la nostra casa. Rimanere a casa, proteggere e rigenerare i sistemi viventi e i processi vitali della Terra, è un dovere etico ed ecologico.

Nei giorni scorsi due grossi calibri del Pd, il presidente della commissione Ambiente della Camera, Ermete Realacci, e l’ex ministro Walter Veltroni hanno affermato severamente che il loro partito ha “dimenticato l’ecologia”. In realtà il Pd guidato da Matteo Renzi ha dimenticato la tutela dei beni culturali e del paesaggio, la buona urbanistica, l’ambiente (vedi legge sui Parchi) divenendo anzi il nemico dichiarato di una tradizione democratica che riteneva prioritari questi temi e la lotta all’abusivismo. Lo dimostrano la legge Galasso sui piani paesaggistici, la legge Cutrera e altri sulla difesa del suolo, la legge Cederna-Ceruti sui Parchi, il Codice per il Paesaggio Rutelli/Settis del 2007 e altro.

Un vanto della cultura progressista erano certamente i piani paesaggistici che con coraggio la giunta di centrosinistra di Renato Soru aveva varato nel 2004. Operazione esemplare coordinata da Edoardo Salzano, che andava completata con l’interno dell’isola. Il centrodestra ha invano tentato di smontarla, perdendo anche un referendum popolare. Ma la giunta attuale del presidente Francesco Pigliaru ha ripreso l’offensiva con rinnovata forza. Di fronte all’opposizione argomentata di un tecnico di valore, il soprintendente Fausto Martino e a una critica severa di Ilaria Borletti Buitoni sottosegretaria ai Beni culturali, l’intero Pd sardo ha votato in Regione un ordine del giorno di inusitata durezza. “In entrambe le occasioni si è registrata una inopportuna espressione di opinioni lesive delle prerogative costituzionali conferite in capo all’organo legislativo e a quello esecutivo della Regione Sarda”.
Il reato? Per Borletti Buitoni essere “intervenuta nel merito di scelte operate dalla giunta e dal Consiglio regionale nel pieno esercizio delle funzioni attribuite loro dallo Statuto speciale della Sardegna”. Per l’architetto Martino aver “espresso pareri di merito su scelte politiche (…) che esorbitavano la sfera di sua competenza”. Essi “sono andati oltre ogni limite di competenza” con “posizioni censorie sul disegno di legge urbanistica”, ecc. ecc. Il presidente Pigliaru rappresenti dunque a Paolo Gentiloni “lo sdegno per l’inaccettabile atteggiamento assunto dagli uffici regionali del Mibact” con inevitabili conseguenze anche sui finanziamenti per la “protezione del patrimonio culturale, ambientale e paesaggistico dell’isola” (che le nuove norme del Pd in realtà devitalizzano).

Il piano paesaggistico regionale della Sardegna – denuncia il Pd – non procede per l’indisponibilità degli uffici ministeriali a… collaborare. Silenzio sui piani approvati dalla Regione ai tempi di Soru. Il raccolto decennale dei piani paesaggistici è ben magro, appena 3: Toscana, con l’assessore competente, l’urbanista Anna Marson, non riconfermata; Puglia; Piemonte (ne ha discusso il Consiglio in agosto). Molti piani in alto mare. In piena burrasca quello sardo.

Il Codice è la seconda legge nazionale che sollecita le Regioni a fare il loro dovere in materia di paesaggio. Nel 1985, fu approvata, quasi alla unanimità, la legge n.394 detta Galasso. Essa imponeva alle Regioni una dettagliata pianificazione ed era stata preceduta da una serie di decreti, chiamati “galassini”, coi quali si vincolavano territori decisamente preziosi. Marche, Veneto, Liguria, Emilia-Romagna approvarono i loro piani entro il 1986. Altre in ritardo. Altre ancora mai, le più devastate da speculazione e abusivismo. Campania e Sicilia su tutte. Per la Campania ci fu un tentativo di piano redatto dalle Soprintendenze. Bocciato: lo Stato non può sostituirsi alle Regioni, neppure se inadempienti in modo conclamato. Come la Regione Sicilia – la più “abusata”, non a caso, d’Italia – la quale ha invocato e invoca la sua specialissima autonomia. Anche ora – come ha documentato Silvia Mazza per Emergenza Cultura – con un emendamento-grimaldello l’Assemblea regionale ha votato deroghe ai Piani paesaggistici “per le opere di pubblica utilità” (pubbliche, private, in concessione). Norma “retrospettiva” che salva opere già bocciate come la Catania-Siracusa. Bocciata, beninteso, da Soprintendenze nominate dalla Regione…

E nella Campania Infelix della marea di abusi e della “impermeabilizzazione” con cemento e asfalto di tanti suoli liberi? Per il Piano paesaggistico siamo ancora al lavoro delle commissioni, racconta il rappresentante dei 5 Stelle, Tommaso Malerba. Eppure Napoli è fra i grandi Comuni il più “impermeabilizzato” d’Italia con 64% del territorio, seguito da Milano col 54%. In provincia spicca Casavatore che, con l’89,3% di cemento+asfalto detiene il primato nazionale ed europeo in materia, seguito da vicino da Arzano e da Melito di Napoli. Qualche raro albero e un po’ di fili d’erba. Dove non sono passati gli incendiari. Ma sì, i piani possono attendere.

la Nuova Venezia, 25 settembre 2017. Clamorosa vittoria dei numerosi movimenti popolari, finalmente associati con grande creatività, per contrastare le Grandi navi e le connesse opere progettate per distruggere la Laguna. Per una notte, ma non è che un inizio

CROCIERE FERME PER UN GIORNO
POI SCATTA L'ASSALTO ALLA MSC

di Enrico Tantucci

La nave è partita alle 21, inseguita dai barchini dei manifestanti che hanno lanciato una trentina
di razzi. Partenza ritardata anche per altre navi. Un migliaio di partecipanti nonostante il maltempo

Le Grandi Navi fuggono dalla manifestazione anticrociere nella speranza di evitare l'ormai tradizionale, pacifico assalto delle associazioni ambientaliste con le loro barche in acqua al passaggio delle navi da crociera in Bacino di San Marco all'altezza delle Zattere. Per evitare la contestazione, le compagnie hanno fatto slittare le partenze, quando la prima nave da crociera, la Msc Musica, avrebbe dovuto passare verso le 16.30. Quindi, a seguire, la Norwegian Star alle 18 e la Crystal Esprit alle 19. Le partenze dovevano slittare a stamattina, ma a sorpresa al calare della notte, alle 21, quando i 99 Posse avevano da poco iniziato a suonare, la grande nave Msc ha avviato i motori per passare nel Canale della Giudecca. A quel punto gli attivisti sono partiti con i barchini lanciandole contro una trentina di razzi: «Pensavano forse che ce ne saremmo andati», racconta Tommaso Cacciari, «ma era ancora pieno di gente e non appena si è vista spuntare dalla Marittima l'abbiamo accolta».

Le altre navi sono partite poi verso le 22. La manifestazione organizzata alle Zattere vedeva per la prima volta anche la partecipazione di movimenti ambientalisti spagnoli, portoghesi, tedeschi e francesi che nei loro Paesi si battono contro le grandi opere. «È un grande successo per noi», ha gridato Tommaso Cacciari, uno dei portavoce dei No Grandi Navi, dal palco galleggiante allestito di fronte alle Zattere, «perché li abbiamo costretti a ritardare la partenza, lasciando libero il Bacino di San Marco».Blitz alla Marittima in serata. Gli ambientalisti in serata avevano comunque tentato un primo blitz, prima della partenza a sorpresa della grande nave Msc. Avevano raggiunto con una decina di imbarcazioni la Marittima per portare la loro protesta là dove erano i crocieristi. «Un cordone di imbarcazioni delle forze dell'ordine», spiega Tommaso Cacciari, «ci ha impedito di arrivare sotto le navi, ma abbiamo comunque acceso i nostri fumogeni e mostrate le nostre bandiere perché anche i crocieristi sapessero della nostra protesta».
Buona affluenza. Il maltempo e la pioggia caduta ha complicato i piani degli organizzatori, ma si è comunque registrata una buona affluenza, con i giovani dei movimenti, ma anche molti veneziani che hanno affollato gli stand dove si vendevano anche gadget e magliette contro le Grandi Navi e hanno ascoltato i discorsi e la musica dal vivo dal palco offerta da gruppi come 99 Posse, Cisco dei Modena City Ramblers, Pharmakos, Bim Bum Balaton. Gli organizzatori hanno stimato le presenze in un migliaio di persone, con un'affluenza che ha iniziato a crescere nel pomeriggio. Presenti, tra gli altri, il presidente della Municipalità di Venezia, Giovanni Andrea Martini, quello della sezione veneziana di Italia Nostra, Lidia Fersuoch, gli esponenti del Gruppo XXV Aprile con il portavoce Marco Gasparinetti, l'urbanista Stefano Boato, il coordinamento studenti medi di Venezia. Assenti politici e consiglieri comunali.Martini: «Vogliamo entrare nel Comitatone».
Netta la presa di posizione del presidente della Municipalità veneziana Giovanni Andrea Martini. «La Municipalità», ha detto, «ha aderito ufficialmente alla manifestazione dei No Grandi Navi, perché ne condivide lo spirito. Vogliamo le grandi navi da crociera fuori dalla laguna e per questo abbiamo chiesto ufficialmente alla Presidenza del Consiglio di essere ammessi al Comitatone per rappresentare la posizione della città storica di Venezia che non coincide con quella del Comune».
Gli ambientalisti: «Vogliono lasciare tutto com'è». Dal palco gli interventi dei rappresentati dei vari Comitati - tra cui No Mose, No Grandi Navi e Italia Nostra, con l'architetto Cristiano Gasparetto - hanno presentato una linea univoca. «Tutti i progetti alternativi di cui si parla, dallo scavo del canale Vittorio Emanuele al nuovo terminal a Marghera», è stato detto, «provocherebbero effetti devastanti sulla laguna e l'allargamento del canale dei Petroli. Sembra il gioco dei tre bussolotti, perché ogni tanto cambiano progetto. Ma la verità è che si vuole lasciare tutto com'è, favorendo le compagnie di crociera e la Venezia Terminal Passeggeri, la società che gestisce lo scalo passeggeri e che non a caso ora è controllata dalle stesse compagnie crocieristiche. Evocato anche il parallelismo con il Mose, nel campo di grandi opere che manomettono la laguna, ricordando anche la recente notizia dei costi di manutenzione dell'opera stimati in 95 milioni annui dallo stesso provveditore alle opere pubbliche del Veneto Roberto Linetti.


«SIAMO SEMPRE DI PIÙ
LA GENTE SI STA SVEGLIANO»

di Vera Mantengoli
Il rispetto dell'ambiente e il clima al centro del dibattito dei manifestanti
La solidarietà è arrivata da tutta Europa, sta crescendo un movimento unitario

Bagnati, ma soddisfatti di aver ritardato il passaggio dei giganti del mare. Sono i manifestanti che hanno partecipato alla giornata No Grandi Navi, resistendo ore e ore sotto la pioggia, a una temperatura da giornata autunnale. Una ventina di duri e puri non hanno rinunciato a manifestare in barca per ribadire che la laguna non è adatta a navi di grandi dimensioni.In fila sulla riva delle Zattere con gli ombrelli aperti, famiglie di veneziani, studenti e movimenti provenienti dall'Italia e dall'Europa, come i No Tav e i tedeschi Ende Gelände, hanno sventolato la bandiera con il simbolo del movimento, sulle note musicali di gruppi dei 99 Posse e dei Modena City Ramblers, senza contare l'immancabile Coro delle Lamentele, amatissimo dai veneziani.«Siamo solidali con la richiesta di spostare le navi fuori della laguna», hanno detto le veneziane Claudia Ferrari e Roberta Bartoloni, «siamo venute a ogni manifestazione e ci sembra assurdo che si continui a parlare di scavare la laguna. Per fortuna le persone si stanno svegliando come dimostrano le iniziative di molte associazioni e il fatto che sempre più persone abbiano voglia di partecipare».

La pioggia ha posticipato l'inizio della manifestazione di mezz'ora, ma il brutto tempo ha limitato la presenza di molte persone. La festa comunque è riuscita, nonostante sia piovuto quasi sempre. Gli stand hanno riparato dal freddo molti presenti che hanno colto l'occasione di comprare qualche gadget e parlare con i portavoce dei movimenti, come il Collettivo Resistenze Ambientali per la campagna #NoPfas e altri. Appesi ai lampioni o ai palazzi sventolavano anche bandiere e materiale informativo proveniente dagli altri movimenti europei: dalla Spagna l'Assemblea de Barris per un Turisme Sostenibile; dalla Germania, oltre al citato Ende Gelände contro la miniera a cielo aperto, i No Stuttgart e i Geheimagentur, tutte accomunate dalla richiesta di una giustizia climatica.Grande successo per lo stand dei pirati, con attività dedicate ai bambini, e quello per cibo e bevande con salami di cioccolato à gogo che hanno reso il freddo più sopportabile.
A metà pomeriggio, quando si è saputo che non sarebbero partite le crociere, il movimento No Grandi Navi ha esultato per aver raggiunto l'obiettivo ed è partito il coro «Fuori le navi dalla laguna». Alla manifestazione c'erano anche diversi studenti del Coordinamento Studenti Medi: «Siamo qui perché abbiamo 18 anni e tutto quello che riguarda la giustizia climatica riguarda anche il nostro futuro» hanno detto le studentesse del Liceo Artistico di Venezia Angelica Strozzi e Sabrina Furlan, «per le navi vorremmo che andassero fuori dalla laguna per un futuro con un'aria che sia la più pulita possibile». Verso le 19.30 i fumogeni di una barca di attivisti arrivato in Marittima hanno illuminato il buio, per poi tornare e concludere la serata con i 99 Posse.

la Nuova Venezia, 24 settembre 2017. Ripristinata la legalità con un processo che non ha coinvolto i veri responsabili del malaffare, la gigantesca opera verrà comunque completata. E a pagare i conti saranno cittadini che subiranno la mancata realizzazione di scuole, ospedali, residenza pubblica... (m.p.r.)

«La cifra indicata dal provveditore alle Opere Pubbliche Roberto Linetti nella sua lettera al Governo sui costi della manutenzione del Mose, è indubbiamente molto importante. Ma il fatto positivo è che per la prima volta da parte di un'autorità qualificata come il Provveditorato alle opere pubbliche abbiamo finalmente una cifra certa sui costi per il mantenimento del sistema di dighe mobili. Si tratta ora di capire come garantirla, tenendo conto del fatto che non è in discussione che il Mose vada terminato e vada poi messo in condizione di funzionare». È la prima risposta di un esponente del governo, il sottosegretario al ministero dell'Economia Pier Paolo Baretta alla lettera che l'ingegner Linetti ha inviato nei giorni scorsi al Ministero delle Infrastrutture in cui mette nero su bianco le necessità economiche per la conclusione del Mose e per la sua futura manutenzione chiedendo finanziamenti urgenti da stanziare già con la prossima Legge di Stabilità.«Oltre ai 221 milioni di euro mancanti per il completamento del Mose», scrive Linetti, «sono indispensabili altri fondi in conto capitale per l'avviamento dell'attività di gestione del Mose». E li quantifica, appunto.

«A regime», scrive ancora, «serviranno almeno 80 milioni di euro, più i 15 per il mantenimento. Che fa 95 milioni di euro, appunto, una cifra enorme, che nell'arco di un decennio comporterebbe l'esborso di quasi un miliardo di euro per il solo mantenimento in funzione dell'opera. «Per quanto riguarda l'inserimento dei fondi nella prossima Legge di Stabilità non è possibile dare una risposta in questo momento», spiega ancora Baretta, «ma ci confronteremo in merito con il Ministero delle Infrastrutture. Il provveditore Linetti fa bene a sottolinearne l'urgenza, perché tutti vogliamo che il Mose non si blocchi, ma sia messo in condizione di funzionare. Aggiungo che, a mio avviso, la quantificazione esatta dei costi di gestione del Mose dovrebbe accelerare la fine della gestione commissariale del Consorzio Venezia Nuova e la scelta della società di gestione che prenderà poi in carico la manutenzione dell'opera».
No comment sull'iniziativa di Linetti nei confronti del governo sui finanziamenti per il Mose da parte dei due commissari del Consorzio Venezia Nuova Giuseppe Fiengo e Francesco Ossola, in un momento comunque non facile per l'organismo che ha in mano l'impegno di concludere e far funzionare il complesso sistema di dighe mobili alle bocche di porto.L'iniziativa ufficiale del provveditore alle Opere pubbliche nei confronti del governo sul Mose rende ancora più urgente la convocazione del Comitatone, attesa da tempo e slittata continuamente. «Non c'è dubbio che il Comitatone debba essere convocato in tempi brevi, per i molti temi su Venezia e la sua salvaguardia da affrontare», conferma il sottosegretario Baretta, «e se n'è già parlato con il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, a cui spetta l'incarico della convocazione. Non è ancora possibile indicare una data, ma non ci sarà molto da aspettare».Ma il problema Mose resta là ad aspettare in tutta la sua gravità. Perché ora a preoccupare non ci sono solo i problemi tecnici - come le muffe nelle gallerie sottomarine e la corrosione dei materiali - ma anche appunto i costi esorbitanti dell'opera anche per quello che riguarderà il suo futuro mantenimento e la gestione

il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2017. «Quanto vale un bosco, un ruscello, l’aria pulita? “Il nostro benessere: lo insegna la contabilità ambientale”». (p.d.)

“Quanto conta, anzi quanto vale un bosco? E un costone di montagna, un prato, un ruscello d’acqua pulita, una spiaggia senza schifezze, una veduta? Il capitale naturale è l’unico tesoro che possediamo e al quale però togliamo il suo giusto prezzo, neghiamo il valore che possiede, evitiamo di pensare al suo costo economico se lo mandiamo in fumo”. Davide Marino insegna all’Università del Molise Contabilità ambientale ed Estimo rurale. Da più tempo degli altri, con più caparbietà degli altri (e passione, e vigore) tiene il registro del capitale naturale. “Non è una sommatoria di risorse ma un combinato di fattori. Sono fattori di produzione e di benessere, indicatori di vitalità economica e civiltà, ma l’approccio collettivo è deludente, anzi disarmante”.

Un bosco quanto vale?
Vale naturalmente la sua legna. Ma nel capitale naturale gli addendi sono diversi: alla legna aggiunga il beneficio che ne trae l’aria, il valore anche economico della regolazione bioclimatica. Aggiunga il servizio essenziale di filtraggio dell’acqua piovana, e poi le ricadute sull’economia del turismo. E infine: quanto vale l’ispirazione che quella risorsa dà all’arte, alla filosofia, alle religioni. Ricorda il bosco di San Francesco? Ecco: un bosco è una ricchezza complessa e dal valore piuttosto alto.
Vale tanto, eppure per noi non conta nulla.
Il prezzo è il segnale della qualità di risorsa. Se è limitata esso sale.
Dovrebbe costare una fortuna allora.
Invece zero. Lei paga per passeggiare in montagna? Di certo però compra il biglietto per andare al cinema e vedere un film.
Non la stimiamo come indispensabile quella montagna e forse nemmeno quella passeggiata.
Facciamo di peggio. Se un bosco va a fuoco, e se vanno a fuoco decine di boschi, di costoni di montagne, lo Stato impiegherà mezzi e persone per spegnerli. L’attività antincendio ha sicuramente un costo e quel costo finisce alla voce attiva, è spesa pubblica. Aumentando gli incendi aumenta la spesa pubblica e dunque aumenta il Pil. E il Pil (prodotto interno lordo) è un indicatore di ricchezza.
Benvenuti nel mondo alla rovescia.
Più incendi, più allagamenti, più ricostruzioni, più emergenze fanno salire il Pil. Dunque inducono noi a ritenerci non solo più ricchi, ma anche più fortunati.
Com’è possibile che siamo giunti a questa primitiva condizione di obsolescenza mentale, questa forma di inettitudine logica?
Perché rispetto a trent’anni fa l’ambiente, il valore delle risorse naturali, ha perso centralità nelle coscienze individuali e nel dibattito pubblico. Trent’anni fa si costruì sotto la spinta di una pressione di massa una rete enorme di parchi e aree protette. Oggi quella consapevolezza diffusa si è rarefatta, è divenuta patrimonio di pochi.
Nei talk show la politica è declinata secondo le formule di rito.
Un filino di attenzione appena il disastro si compie. Poi il nulla, o forse l’attesa del successivo. Parola d’ordine emergenza non prevenzione.
Altro che passi in avanti, stiamo felicemente tornando indietro.
Bisogna dire che si sono elaborati schemi di contabilità omogenei che definiscono meglio questa ricchezza naturale. Ora si tratta di obbligare gli Stati a utilizzare quel tipo di conto economico.
Ce la faremo a fare entrare un bosco o un fiume nel quadrante della ricchezza o della povertà di un popolo?
Non lo so. Sono aumentate le forme di egoismo, abbiamo una cura di noi stessi a volte parossistica, ma non riusciamo a cogliere l’opportunità che il capitale naturale mette a nostra disposizione. Noi italiani – che ne possediamo tanto – dovremmo essere felicissimi di rivalutarlo. E invece lo facciamo scorrere e defluire nell’enorme voragine della nostra disattenzione. Non solo non ci applichiamo ma troviamo il modo per arretrare.
Per esempio?
La mia università ha dovuto chiudere il corso di studi in Scienze ambientali. Gli iscritti si sono ridotti fino a scomparire. Come se della natura non debba fregare più niente a nessuno.
È la rete che ci rende liberi e felici, no?
Sconforto.

la Nuova Venezia, 23 settembre 2017. Il mostro inutile e dannoso, che non servirà a proteggere Venezia dalle acque alte eccezionali e che ha devastato l'assetto dell'ecosistema lagunare costerà ogni anno per la sola manutenzione più della costruzione di un ospedale. con postilla

Ottanta milioni di euro l'anno. Più 15 per laguna. Dopo trent'anni, si sa ora con esattezza quanto costerà la manutenzione del Mose. Per la prima volta i conti sono messi nero su bianco sulla richiesta di finanziamento urgente, da inserire nella prossima Finanziaria, inviata in questi giorni al governo e firmata dal Provveditore alle Opere pubbliche Roberto Linetti. «Oltre ai 221 milioni mancanti per il completamento dei lavori del Mose», scrive il dirigente dello Stato al suo ministero, «sono indispensabili altri fondi in conto capitale per l'avviamento dell'attività di gestione del Mose».Nel caso non arrivassero, scrive con una certa preoccupazione il presidente Linetti, «questo porterebbe alla sospensione delle attività, oltre a provocare un danno di immagine anche a livello internazionale. Si dovrebbero anche accantonare altri milioni per poter procedere alla messa in sicurezza di quanto già realizzato, pena il decadimento delle opere, realizzate in ambiente marino e condizioni sfavorevoli, con oneri pesantissimi. E infine con «la possibilità di altri contenziosi milionari con le ditte esecutrici», già in causa con il Consorzio che a sua volta ha chiesto di ripianare i danni.Vengono citati gli ultimi inconvenienti segnalati qualche settimana fa. Come le muffe nelle gallerie sottomarine, dove l'aerazione è possibile solo con l'avvio di mezzi meccanici - e quindi degli impianti elettrici, non ancora realizzati - e la corrosione dei materiali.

La richiesta avanzata al governo è dunque di avere subito altri 300 milioni di euro. Di cui due terzi (193,5)per il Mose e la sua gestione, 102 per la laguna («manutenzione delle bricole e dei marginamenti, vigilanza contro il moto ondoso, ripristino dell'efficienza idraulica e della vivificazione delle aree lagunari soggette a minor ricambio di marea»). 115 sono i milioni richiesti (cui 70 per il Mose e 45 per la laguna) nel primo anno, il 2017, 53 più 35 nel 2019, 70 più 22 nel 2020.Qui comincerà l'avvio della gestione. Che sarà affidata secondo la legge con gara. Allora la necessità, secondo il Provveditorato, aumenterà ancora. «A regime», scrive Linetti, «serviranno almeno 80 milioni di euro, più i 15 per il mantenimento». Cifre enormi, a cui lo Stato dovrà far fronte per sempre, trattandosi di una manutenzione che non può essere mai sospesa. Uno dei primi problemi sollevati dagli oppositori del Mose, peraltro mai ascoltati in sede tecnica e politica, che mettevano in guardia per gli alti costi della manutenzione. Nei primi documenti ufficiali del Consorzio Venezia Nuova di Mazzacurati i costi per la manutenzione venivano stimati intorno ai 20 milioni l'anno, un quarto di quelli reali.

A cosa serviranno quei soldi? Gli ingegneri del Provveditorato e del Consorzio hanno fatto due conti, allegando una relazione alla lettera del Provveditore. È necessario avviare fin da subito le «attrezzature necessarie alla gestione funzionale del sistema Mose». Compresa la sala controllo e i nuovi edifici all'Arsenale per la manutenzione delle paratoie, che gli ambientalisti contestano. Poi l'attività di «gestione operativa per la movimentazione delle paratoie alle bocche di porto»; infine, le attività di «mantenimento in efficienza di quanto già installato». Un pozzo senza fondo. Perché, come si è visto negli ultimi mesi, la mancata manutenzione di una parte del sistema (cerniere, cassoni, elementi metallici e impianti del sistema) provoca guai a catena. Lo scandalo Mose non è finito
postilla
È molto o è poco spendere 80 milioni di euro all'anno per mantenere quel mostro? Abbiamo cercato qualche dato significativo per fare un confronto. Eccone uno: i quattro ospedali di Prato, Pistoia, Lucca e Massa Carrara sono costati complessivamente 290 milioni di euro. Con i soldi spesi ogni anno per mantenere quel mostro inutile e dannoso si potrebbe costruire un ospedale all'anno. Il primo potrebbe utilmente essere destinato a ospitare, vita residua restante, quanti hanno promosso, sostenuto, agevolato e concorso a realizzare l'ignobile progetto

il Fatto Quotidiano e la Nuova Venezia, 23-24 settembre. «A Venezia in assemblea comitati di Barcellona, Maiorca e Amburgo. «Serve un cambio di politica, è in gioco l'umanità». (m.p.r.)

il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2017
VENEZIA DUE GIORNI DI RIBELLIONE CONTRO LE GRANDI NAVI

BARCHE E BARCHINI OCCUPERANNO IL BACINO DI SAN MARCO
di Giuseppe Pietrobelli

Dopo il referendum di giugno, con 18mila voti contro l'ingresso dei bestioni del mare nella Laguna di Venezia, il Comitato No Grandi Navi ha chiamato a raccolta ambientalisti, movimenti di protesta, cittadini che vogliono la difesa del territorio. Per due giorni la città ospita una kermesse di protesta, che simbolicamente cercherà di fermare le navi da crociera

Dopo il referendum di giugno, con 18mila voti contro l’ingresso dei bestioni del mare nella Laguna di Venezia, il Comitato No Grandi Navi ha chiamato a raccolta ambientalisti, movimenti di protesta, cittadini che vogliono la difesa del territorio. Per due giorni la città ospita una kermesse di protesta, che simbolicamente cercherà di fermare le navi da crociera.

Nella giornata di sabato 23 settembre, è prevista l’assemblea plenaria alle 15 ai Magazzini del Sale, a Dorsoduro. In serata cena sociale in fondamenta. Domenica 24 il clou alle 15 con “Action Day!”. Si tratta di una manifestazione in acqua e sulle rive all’insegna dello slogan: “Blocchiamo le grandi navi! Giustizia ambientale per tutti i territori d’Europa!”. Gli attivisti a bordo di barche, barchini, canoe e natanti di tutti i tipi, occuperanno le acque antistanti il Bacino di San Marco con l’intenzione di bloccare qualcuna delle dieci grandi navi che hanno attraccato o devono attraccare a Venezia per il week end.

I Comitati lanciano da Venezia un appello che travalica i confini italiani e ribadiscono che i danni causati dalle navi all’ecosistema sono gravissimi. Non solo per la flora e la fauna ittica, ma anche per l’aria. I fumi e gli scarichi diesel dei motori delle navi da crociera sono, infatti, causa di forte inquinamento in una città che, a causa della mancanza di auto, dovrebbe invece esserne esente. “Il traffico crocieristico – spiegano – a Venezia è andato crescendo in maniera esponenziale, così come le dimensioni delle navi impiegate. Queste, per attraccare in Marittima – ossia in città – entrando ed uscendo dalla bocca di porto del Lido passano per ben due volte nel Bacino di San Marco e nel Canale della Giudecca, il cuore storico di Venezia a 150 metri dal Palazzo Ducale”. Sono lunghe più di 300 metri, larghe 50 e alte 60 metri. di larghezza, 60 d’altezza.

“C’è pericolo per la salute pubblica. – aggiungono – Il traffico croceristico è a Venezia la maggior fonte di inquinamento atmosferico (dati Arpav), il tenore di zolfo del carburanteusato in navigazione, ad esempio, è dell’ 1,5% (quello del diesel delle nostre auto è 1500 volte inferiore) durante la navigazione e, solo da poco, dello 0,1% all’ormeggio. Il Parlamento Europeo, valutando che almeno 50mila persone all’anno muoiono in Europa per l’inquinamento delle navi, ha votato una direttiva che imporrà dal 2020 a tutte le navi il limite dello 0,5%, mentre nel Mar Baltico e nel Mare del Nord tale limite è già oggi dello 0,1%”.

È stato anche preparato un manifesto a difesa di Venezia e di tutti i territori. “Venezia è città simbolo dell’equilibrio tra uomo e natura. Questo fragile equilibrio è seriamente minacciato dalla macchina del turismo di massa e dalle grandi navi, simboli galleggianti dell’arroganza delle multinazionali e della corruzione di una classe politica piegata alla difesa dei profitti privati a scapito del bene comune”. E ancora: “Venezia è viva, contrariamente a ciò che vorrebbero le compagnie crocieristiche, il ministro dei trasporti Del Rio, l’autorità portuale e il sindaco Brugnaro. Da molti anni la città combatte contro il passaggio nella Laguna di questi mostri e contro l’ipotesi di scavo in questa di nuovi canali (immaginate la costruzione di un’autostrada in una riserva naturale)”.

E infine anche la critica tecnica: “Il caos istituzionale è totale! In questi ultimi anni sono stati presentati diversi progetti che il Comitato ha contrastato in tutti i modi e che sono stati bocciati dalla commissione VIA (Valutazione Impatto Ambientale). Nonostante questo il ministro dei Trasporti, l’autorità portuale e il sindaco insistono nella presentazione di due progetti, ipotesi assurde e devastanti volte a mantenere le grandi navi da crociera dentro la Laguna: il progetto del Canale Vittorio Emanuele che prevede di scavare fino a raddoppiare larghezza e profondità di un vecchio canale del 1925 – abbandonato da più di 30 anni- per far arrivare le navi da crociera all’interno della città, ed il progetto di nuovi approdi per le grandi navi da crociera nell’area industriale diPorto Marghera”. Ma realizzare questi progetti, “comporterebbe lo scavo di oltre sei milioni di metri cubi di fanghi inquinati ed inquinanti, il rischio di incidenti chimici con il passaggio delle navi da crociera in zone (l’area industriale di Porto Marghera) sottoposte ai piani di Protezione Civile e alle Direttive Seveso”.

Almeno una sessantina di movimenti, italiani ed europei, hanno aderito al manifesto che conclude: “Non mancano certo le opere inutili e dannose, ma non mancano nemmeno meravigliosi esempi di resistenza: ci si batte contro linee ferroviarie ad alta velocità, la costruzione di aeroporti, le trivellazioni e le industrie del petrolio, contro l’inquinamento del suolo, dell’aria, dell’acqua, contro la cementificazione del territorio, l’uso speculativo di terremoti e altre catastrofi, l’estrazione del carbone e l’industria mineraria e molto altro ancora”. In conclusione, “ci si batte anche per un modello di sviluppo che tenga conto della giustizia climatica e per un’idea diversa di società, basata sul rispetto della volontà di chi abita i territori e non sul soddisfacimento degli appetiti di chi li vuole sfruttare a costo di distruggerli per profitto o calcolo politico”.

“È la prima grande assemblea di movimenti e comitati italiani ed europei – spiega Tommaso Cacciari, uno dei promotori – nella speranza di parlare lo stesso linguaggio comune, un’unica lingua che riguardi il modello di sviluppo, l’utilizzo dell’energia, il turismo di massa, il rapporto con le città, la difesa dei territori“.

la Nuova Venezia, 24 settembre 2017
AMBIENTE
NASCE UN MOVIMENTO EUROPEO
di Vera Mantengoli

Un nuovo movimento che non conosce confini europei e reclama giustizia ambientale è nato ieri ai Magazzini del Sale. L'occasione è stata l'assemblea tenutasi prima della manifestazione di oggi contro il passaggio delle grandi navi in laguna, in programma dalle 15 in poi alle Zattere.«Per la prima volta tante associazioni che hanno in comune il tema della crisi ambientale si sono parlate e conosciute», ha spiegato il portavoce del movimento No Grandi Navi Tommaso Cacciari. «Siamo davanti a un movimento di persone che viene da tutta Europa, della stessa portata di quello che nacque con i No Global, ma che oggi si riunisce perché pretende che ci sia un cambio di politica nei confronti dell'ambiente. Oggi è in gioco la vita stessa di parte dell'umanità».

Più di duecento persone hanno partecipato all'assemblea (oltre agli spettatori in streaming nel sito del movimento) dove hanno parlato i portavoce di altrettanti movimenti di città che soffrono dello stesso problema veneziano, come gli abitanti delle Isole Baleari, quelli di Barcellona e di Amburgo e molti altri, ognuno con il proprio caso, ma ognuno accomunato da una parola emersa nell'intervento del portavoce di Napoli: «biocidio», ovvero distruzione dell'ambiente e quindi anche di chi ci abita. Alla fine si sono gettate le basi di un movimento più grande che oggi farà la sua prima uscita sul palco della manifestazione.
«È come non avere le chiavi della nostra porta di casa», ha spiegato Manel Domenech di Maiorca dove proprio ieri si è manifestato contro la pressione turistica. «Abbiamo sette grandi navi al giorno, 25 mila turisti, 600 mila stanze turistiche legali e un buon 40% illegali e 120 mila auto solo a uso turistico, non c'è spazio. Quando piove i turisti vengono tutti in città e le strade diventano impossibili, non si cammina». Stessa insofferenza a Barcellona dove l'Assemblea de Barris per un Turisme Sostenible (Abts) tiene quotidianamente informati i cittadini con un Tweet (@AssBarrisTS) su quante navi arrivano e quanti turisti sbarcano, come spiega il portavoce Diego Martin. A seconda del colore del cinguettio, dal giallo al nero, si capisce la portata dello sbarco, come ieri: Tweet arancione, tre crociere e 11 mila turisti. «Adesso la MSC ha annunciato che vorrebbe costruire un'altra banchina», spiega Martin, «dovevamo fare una manifestazione a giorni, ma dopo l'attentato ci sono state delle limitazioni e abbiamo dovuto posticipare».
La sindaca Colau ha dato un taglio definitivo alla nascita di nuovi alberghi, ma le grandi navi non rientrano nelle sue competenze: «Non se ne parla da molto» prosegue, «ma il problema è che il Porto è autonomo, prende le decisioni senza parlare con la città. Noi chiediamo che ci sia un limite. Ora poi ci sono anche tre grandi navi con la polizia, per questo abbiamo mandato un Tweet nero (per il Referendum sull'Indipendenza della Catalogna, ndr)». Ieri per tutto il giorno e oggi fino alle 14.30 l'associazione We are here Venice ha ospitato un workshop a Palazzo Persico Giustinian riunendo tutte le città italiane che hanno il problema delle grandi navi: «La grande partecipazione all'assemblea», ha detto Luciano Mazzolin di Ambiente Venezia, «è la premessa a una grande manifestazione». «Bisogna ascoltare la laguna», ha detto Lidia Fersuoch di Italia Nostra, «noi saremo alla manifestazione per questo».

Due giornate per incontrarci, confrontarci, e costruire una strategia comune contro il passaggio nella Laguna delle grandi navi. Organizzato dal Comitato No Grandi Navi. Qui il programma delle giornate.



Due giorni di festa per ribadire che la tutela della laguna e dei suoi abitanti è più importante dei ricavi delle multinazionali crocieristiche

“Grandi Navi e Mose non sono altro che due facce della stessa medaglia”. L’ambientalista Cristiano Gasparetto apre l’incontro di presentazione della Due Giorni contro le Grandi Opere, in programma sabato 23 e domenica 24 settembre, prendendo spunto dalla sentenza del processo per lo scandalo del Mose. “Dopo la condanna al ministro Altiero Matteoli, ci chiediamo perché si è arrivati ad un sistema di corruzione così diffuso. La risposta è semplice: perché senza un diffuso sistema di corruzione il Mose non sarebbe mai stato approvato. Le Grandi Navi, e tutte le Grandi Opere in generale, funzionano con lo stesso principio. Senza la corrutela, non avrebbero ragione di esistere”.

Gasparetto ricorda che una nave all’ormeggio produce inquinamento pari di un cementificio e le conclusioni di Paolo Costa, al tempo provveditore al porto sono state: “non è il porto ad essere nella posizione sbagliata ma le abitazioni”. Come dire: prima vengono i “schei” e dopo la salute e il benessere dei cittadini.

Sotto una pioggia battente, nella sede dei No Navi, ai piedi del ponte sul Ghetto Novo, si è svolta questa mattina alle 11 l’incontro con la stampa per presentare le giornate europee dei movimenti per la difesa dei territori, la giustizia ambientale e la democrazia.

Tommaso Cacciari, portavoce del Laboratorio Morion, ha fatto il punto delle adesioni all’iniziativa. A Venezia confluiranno nutrite rappresentanze dei No Tav dalla Valdisusa, No Muos siciliani, Stop Biocidio campani e No Tap dal salento. Inoltre, parteciperanno i tedeschi del movimento contro Stuttgard 21, Ciutat per a qui l’habita Palma delle isole Baleari, i portoghesi di Academia Cidadã e il Comitè francese contre la construction de l’aereporte de Notre Dame des Landes. A questo link potete leggere la lista in continuo aggiornamento delle adesioni.

Punto focale del programma sarà la manifestazione alle Zattere, domenica 24 pomeriggio, dove sul palco galleggiante si esibiranno musicisti come i 99 Posse, Cisco dei Modena City Ramblers e altri.

Riferimenti

Si legga qui l'articolo "Resistenza attiva contro la morte di Venezia e la sua Laguna" di Tantucci e l'appello europeo ai movimenti per la difesa dei territori, la giustizia ambientale e la democrazia che il Comitato No Grandi Navi ha lanciato a sostegno della lotta.

Corriere della sera online 23 settembre2017. Avevamo sostenuto che il rpesidente Pigliaru ptromuove scempi delle coste della sardegna che neppure il suo redecessore berlusconiano si sarebbe permesso di proporre. Chissè se la denuncia che proviene dalla grande stampa riuscirà a far ritornare Pigliaru sui suoi sciagurati passi?
Di chi è la Sardegna? «Nostra!», risponderanno i sardi. Giusto. Ma è «solo» dei sardi? Peggio ancora dei politici sardi di volta in volta al governo? Dura da sostenere. Eppure sul tema divampa una polemica rovente. Di qua la Regione che nega al soprintendente il diritto di metter becco nelle scelte urbanistiche della giunta, di là il funzionario che sventola l’art. 9 della Costituzione: la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Coste sarde comprese.

La proposta

Al centro di tutto c’è la proposta del governo regionale di Francesco Pigliaru sul futuro del magnifico paesaggio isolano e dei suoi 1.849 chilometri di coste «ingessati», sbuffano i costruttori, gran parte degli operatori turistici, ma soprattutto il Qatar, dai limiti al cemento imposti dal piano paesaggistico di Renato Soru. I qatarioti, dopo aver comprato la Costa Smeralda, la Meridiana, l’immenso ospedale San Raffaele di Olbia in costruzione da millenni e altro ancora, sono impazienti: gli affari? Mario Ferraro, a capo della Smeralda Holding, l’ha detto chiaro e tondo: «Non credo che qui si possa far crescere il turismo senza alcun intervento nella fascia dei 300 metri dal mare». Figuratevi gli ambientalisti.

Scontro frontale. Giura il governatore che no, per carità, ci mancherebbe, «non ci saranno colate di cemento». Vorrebbe solo che «le strutture ricettive già esistenti e mai riqualificate potessero adeguarsi agli standard internazionali, aiutandoci ad allungare una troppo breve stagione turistica». Come potrebbe aprire alla betoniere lui? «Appena insediati annullammo le modifiche al Piano paesaggistico regionale di chi ci ha preceduto e approvammo una legge che revocava la possibilità di lottizzazioni e ampliamenti di seconde case nei 300 metri dal mare», ha scritto al Corriere per rispondere alle critiche di Andrea Carandini. Lui e i suoi cercano solo «un equilibrio tra sviluppo e sostenibilità» per far fronte ai problemi di una regione in sofferenza.

Gli ambientalisti

Problemi veri. Reali. Innegabili. Ma la via d’uscita può essere, contestano gli ambientalisti, la legge che ha in mente di fare la Regione nella scia di quella “apripista” già impugnata dal governo Gentiloni? Stefano Deliperi, il leader del Gruppo d’Intervento Giuridico che da anni con le carte bollate si mette di traverso al cemento, recita poche righe del disegno di legge presto in discussione: «Possono usufruire degli incrementi volumetrici (...) anche le strutture turistico-ricettive che abbiano già usufruito degli incrementi previsti dall’articolo 10 bis della legge regionale 22 dicembre 1989, n. 45» e quelle «che abbiano già usufruito degli incrementi previsti dal capo I e dall’articolo 13, comma 1, lettera e) della legge regionale 23 ottobre 2009».

Risultato? Una struttura in origine di 30 mila metri cubi che era stata già ampliata grazie alla legge regionale del 1989 a 37.500 (+ 25%) potrebbe ora salire, grazie a un nuovo allargamento del 25% fino a 46.875. Per non dire delle deroghe alla norma ribadita dal Consiglio di Stato quattro anni fa sulla «inedificabilità dei territori costieri compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia». O della «trasformazione delle residenze per le vacanze e il tempo libero, esistenti o da realizzare, in strutture ricettive alberghiere». Fermi tutti: che vuol dire «esistenti o da realizzare»? Una deroga proiettata nel futuro?

Sulle dune

cantiere sulle dune a Baia Badesi

Difficile non essere diffidenti. Tanto più in una regione dove, a dispetto delle regole (evidentemente non troppo rigide) si è insistito a costruire perfino sulle dune (le dune!) come a Badesi, dove una sfrontata pubblicità offriva «una casa davvero sulla spiaggia!» con villini a 116mila euro. Più a buon mercato, va detto, che a Djerba o ad Hammamet...
Fatto sta che, davanti alla scelta del governo di impugnare venti giorni fa la legge omnibus «di manutenzione» che avrebbe dovuto spalancar la strada alla nuova legge urbanistica, a molti democratici sono saltati i nervi. Al punto di presentare una mozione contro Ilaria Borletti Buitoni e, come dicevamo, contro il soprintendente per la Sardegna centromeridionale Fausto Martino chiedendo che il governatore rappresentasse a Roma «lo sdegno per l’inaccettabile atteggiamento» dei due verso «le prerogative della Regione autonoma».

L'autogol

Un autogol. Perché certo, la sottosegretaria ai Beni Culturali, «rea» d’avere accomunato i progetti urbanistici della giunta attuale a quelli della destra e difesa dopo le accuse da una corale alzata di scudi, potrebbe anche mettere in conto, nel suo ruolo, qualche (insensata) scazzottata politica. Ma il soprintendente? Che c’entra il soprintendente che già si era segnalato per aver fermato l’abbattimento (per fare pellets!) dell’inestimabile foresta di Marganai ed essersi opposto al raddoppio dello spropositato deposito di fanghi rossi a Portovesme del quale fu accanito nemico (prima di essere eletto) anche l’attuale governatore? Doveva rendere ossequio all’autonomia regionale? Risponde l’art. 98 della Costituzione: «I pubblici impiegati sono a servizio esclusivo della Nazione».
Non per altro sono saltati su il Fai con Andrea Carandini («L’attacco di una parte del Pd avvilisce qualunque cittadino italiano: non sono questi temi che possono esser di esclusiva competenza delle regioni») e la fondatrice Giulia Maria Crespi («Sono interdetta») e il presidente di Italia Nostra Oreste Rutigliano e un po’ tutte le associazioni ambientaliste. E uno dei padri della «legge Soru», Gianvalerio Sanna: « Lo sconcerto e la rabbia davanti alla folle decisione del Governo regionale sardo di portare comunque avanti una legge urbanistica insensata...».

Il Soprintendente
Torna in mente Indro Montanelli, che a differenza di Matteo Renzi («Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia») non disprezzava affatto quei funzionari. Anzi. Li vedeva, nel ‘66, come «pochi eroi sopraffatti dal lavoro e senza mezzi per svolgerlo. Un Soprintendente è tenuto a compiere sopralluoghi, controllare perizie, dirigere i lavori, pubblicare studi, redigere piani paesistici, ma soprattutto a resistere ai privati che vorrebbero distruggere tutto per rifarlo in vetrocemento, quasi sempre con l’assenso e l’appoggio delle autorità».

Non vale, ovvio, per tutte le autorità e men che meno tutti i soprintendenti. In Calabria, per dire, ce n’è uno come Mario Pagano che aveva fatto passare tutto, dal raddoppio dello stadio in area archeologica alle demolizioni nel cuore di Cosenza Vecchia o l’assalto a Punta Scifo, devastata dal cemento, finché non è intervenuta finalmente la magistratura. Che ha bloccato il cantiere e chiesto anche il suo rinvio a giudizio. Di lui, i cementieri, non si sono lagnati mai. Anzi, visto che nessuno lo ha ancora rimosso, ha lanciato lui una fatwa per non far più lavorare l’archeologa Margherita Corrado che ha salvato Capo Colonna e Punta Scifo. Il Tar, ai padroni di quel cantiere indecente, ha dato torto anche ieri... Ma che gli importa?

Internazionale, 22-29 settembre 2017. Le immagini futuristiche del fotografo Richard Allenby-Pratt non sembrano così impossibili se si pensa alle catastrofi ambientali, allo sfruttamento incauto delle risorse e alle trasformazioni folli che imponiamo ai nostri territori. (i.b.)

Se dovessimo credere alle previsioni del fotografo britannico Richard Allenby-Pratt, la fine del mondo è alle porte. Allenby-Pratt presenta le sue foto datandole “dopo il 2017”, un futuro prossimo in cui a Dubai i lavori di costruzione si sono fermati e gli animali sopravvissuti si aggirano tra le rovine di un paese devastato. Sono animali domestici, ma anche quelli di vari zoo della regione che i custodi, prima di fuggire, hanno liberato e abbandonato nella città diventata grigia. Cos’è successo? Un ciclone? Un terremoto? Una guerra, una bomba atomica? La prima cosa a cui pensiamo è la rappresentazione esasperata di un universo distrutto, colpito dai cambiamenti climatici.

Eppure, nel caso delle foto di AllenbyPratt l’antefatto, immaginario ma non irrealistico, è un altro: la multinazionale General Electric ha annunciato l’adozione di un nuovo sistema di produzione di energia attraverso l’estrazione di idrogeno dall’acqua del mare. Questa novità, insieme all’inevitabile riduzione delle riserve di petrolio, ha fatto precipitare le quotazioni dell’oro nero e gli Emirati Arabi Uniti, primo tra tutti Dubai, sono finiti sul lastrico. I ricchi sono fuggiti nelle loro case di villeggiatura in altri paesi e decine di migliaia di lavoratori asiatici sono morti cercando di trovare un mezzo per abbandonare una terra diventata ancora più inospitale. Gli scavi effettuati durante la fase di espansione edilizia hanno rotto la falda freatica poco profonda e provocato la comparsa di nuove oasi dove gli uccelli migratori hanno introdotto una lora non indigena nella regione. Lo sconvolgimento tecnologico nel campo dell’energia ha causato un disastro ecologico.

Ne è nato un nuovo ecosistema, che Allenby-Pratt illustra con una dose di umorismo venato di surrealismo. Visualizzare il futuro, anche se si tratta di una messa in scena seria e angosciante, è una sfida per la fotografia, la cui tradizione è fondata sulla documentazione, sul rapporto “realistico” o “verista” con il mondo. Il fotomontaggio è uno strumento importante nella storia dell’immagine issa, ma l’arrivo del digitale l’ha reso più accessibile offrendogli nuove possibilità. La ricerca di Allenby-Pratt, che si è formato in una scuola di pubblicità e comunicazione, ne è un buon esempio. Il perfetto controllo della tecnica rende la sua serie riconoscibile e uniforme. L’uso di colori terrosi basati su scale di grigi e blu leggeri, caratterizza i paesaggi urbani in cui gli animali sembrano quasi fondersi all’ambiente. La discrezione nello stile e la violenza solo suggerita danno forza a queste scene inverosimili, che compongono un racconto moderno, un’affabulazione prospettica. Le immagini, basate sulla tensione tra il realismo della rappresentazione fotografica – in cui possiamo riconoscere gli animali, le piante e gli edifici – e l’artificio, ci mettono di fronte alla necessità, militante, di riflettere sul futuro del pianeta.

Il fotografo, che vive tra Dubai e Londra, sceglie un modello estremo, una regione del mondo di cui si conoscono gli eccessi più vari, legati alla ricchezza generata dal petrolio che un tempo sembrava essere illimitata. Le sue immagini, senza voler spaventare, dicono che è il momento di abbandonare l’illusione dello sviluppo illimitato, e che è indispensabile cambiare modello energetico e fare altre scelte.

Prima di intraprendere questa serie, Allenby-Pratt si è documentato sulla storia della regione e delle sue prospettive di crescita economica. “Fino a poco tempo fa il paesaggio degli Emirati Arabi Uniti era quasi completamente selvaggio. In passato era stato modificato solo da fenomeni naturali e i suoi abitanti avevano capito che, per sopravvivere, avrebbero dovuto lottare contro la durezza della natura”, ha spiegato il fotografo. “Ma nel corso degli ultimi cinquant’anni, e in particolare dopo il 2000, lo sviluppo accelerato e la crescita esponenziale della popolazione, dovuta soprattutto alle migrazioni economiche, hanno lasciato pochi luoghi intatti. M’interessano le zone ai margini dell’attività umana, gli spazi né naturali né sviluppati, che un tempo godevano di una bellezza particolare mentre oggi sono degradati”. In una città del Medio Oriente sembra normale vedere per le strade cani o gazzelle anche se non ci sono persone, e molti edifici somigliano a carcasse abbandonate perché i lavori di costruzione sono stati interrotti. È più strano trovare un leone che sorveglia la città dal tetto di un ediicio abbandonato, una zebra che attraversa una strada a più corsie o un coccodrillo in agguato nel fondo di una grande pozza d’acqua. “Anche se è esagerata e inverosimile, è una visione apocalittica di quello a cui potrebbe somigliare il mondo senza un equilibrio tra l’uomo e la natura”, sostiene il fotografo.

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