Il futuro di Metanopoli va presentato in busta chiusa e consegnato alla sentenza d'una giuria segreta. È una gara con la storia. Siamo nella città ideale di Enrico Mattei, il quartier generale costruito sull'energia del boom economico, con Agip, Eni e Snam, la San Donato industriale e gigantista romanzata da Bianciardi «che compare in mezzo alla campagna, improvvisa, come dipinta su un fondale da un'urbanistica megalomane». Questo tessuto di calcestruzzo e vetro si rinnova, ancora, a sessant'anni dalla fondazione. L'Eni torna a investire in casa, ha selezionato dieci archistar per costruire il nuovo centro direzionale «Exploration and Production» (E&P), il sesto dell'insediamento originario, un sistema composto da tre torri «ad uso terziario-uffici» e un quarto edificio per funzioni «complementari e accessorie».
I progetti devono essere consegnati entro il 26 agosto. Disegni e plastici anonimi. Cifrati. Trasparenza e merito vengono prima dei nomi. Le parole chiave del concorso: sostenibilità ambientale, flessibilità degli spazi e trasporti ecocompatibili. Gli obiettivi (o aspirazioni): «Fornire un'immagine architettonica che si basa sulla tradizione del XX secolo di Metanopoli e riflettere il "global status" di Eni».
Nascerà una San Donato glocal sulla vecchia via Emilia, a dieci minuti dal Corvetto, Milano Sud. Il distretto E&P sarà inaugurato «entro il 2014» su un'area di 65 mila metri quadrati delimitata da viale De Gasperi, via Ravenna, via Correggio e via Vannucchi e, secondo le linee guida del concorso, dovrà costituire «il segno riconoscibile e rappresentativo di Eni sul territorio». La sfida è affidata a dieci studi internazionali. Dieci big e nel gruppo c'è un solo architetto italiano ammesso alla procedura ristretta: il milanese Mario Bellini (suo il dipartimento dell'arte islamica al Louvre e la sede di Deutsche Bank a Francoforte). Deve confrontarsi, tra gli altri, con il francese Dominique Perrault (il progettista della Biblioteca François Mitterrand a Parigi), il giapponese Arata Isozaki (autore-visionario di una delle tre torri di CityLife, il grattacielo più alto d'Italia) e l'americano Richard Meier (che ha firmato il Getty Museum a Los Angeles e il Museo dell'Ara Pacis a Roma).
L'incarico sarà assegnato entro l'anno. Il gruppo di Paolo Scaroni ha programmato un'operazione complessiva da circa 60-70 milioni di euro, che sarà completata da alcune opere per il Comune (la cessione di un terreno di 150 mila metri quadri in località Monticello per la costruzione di housing sociale e la riqualificazione dello storico e blasonato centro sportivo Snam, che sarà intitolato a Mattei).
Se Adriano Olivetti risollevò Ivrea, Enrico Mattei scelse San Donato Milanese. Erano i primi anni Cinquanta. Metanopoli nacque con la stazione di servizio Agip disegnata dell'architetto Mario Bacciocchi e il complesso industriale Snam ideato da Bacigalupo e Ratti. Mattei decise di riunire in un unico quartiere le attività direzionali e gestionali della Snam, e gli appartamenti degli operai, degli impiegati e dei dirigenti. Casa e bottega. Il primo Palazzo uffici, «il castello di vetro» a forma esagonale — modellato sulla struttura molecolare degli idrocarburi — fu realizzato tra il 1956 e il 1957 in piazza Vanoni. Estetica e metafora a servizio del business. È cresciuta così, San Donato. Sull'Eni. Capitalismo paternalista.
Decenni di sviluppo. Crisi, polemiche e picchetti negli anni Ottanta. Gli edifici più recenti, nel settore Affari progettato da Kenzo Tange, sono stati completati tra il 1996 e il 2000. Ai cinque poli direzionali esistenti, di qui al 2014, si aggiungerà il centro «Exploration and Production».
«È un passaggio storico per la nostra comunità, un'occasione irripetibile», ha sottolineato il sindaco Mario Dompè: «Le scelte aziendali, a partire dal 2000, hanno portato il gruppo energetico sempre più lontano dal territorio. Per questo, appeni arrivati al governo della città, abbiamo lavorato per intrecciare rapporti migliori tra pubblico e privato. L'Eni è un simbolo di San Donato Milanese». Almeno tremila abitanti lavorano per il cane a sei zampe.
L'espansione dell'Eni «garantirà altri 3.600 nuovi posti di lavoro» e «consentirà di recuperare 42 mila parcheggi e riqualificare strade, servizi, aree verdi» (grazie a 12 milioni di euro incassati dal Comune con gli oneri di urbanizzazione) in un'area d'interesse paesistico vincolata dai Beni culturali e «sbloccata» dal Pgt. Il concorso di progettazione chiede agli architetti di «creare un ambiente di lavoro integrato e sostenibile», proporre «un design all'avanguardia in relazione alla sostenibilità energetica» e «ottimizzare le connessioni e la relazione con il contesto urbano esistente». Nello spirito di Mattei, per la Metanopoli che sarà: «A misura d'uomo».
Il programma elettorale di Giuliano Pisapia indicava la necessità di sostanziali modifiche al Piano di governo del territorio adottato dalla precedente amministrazione, anche nel senso di un ridimensionamento delle potenzialità edificatorie. Tale indicazione era e resta opportuna per una serie di ragioni, quali l’inaudito sovradimensionamento delle previsioni insediative, funzionale alla creazione di una pericolosa bolla immobiliare più che al rilancio dell’attività edilizia, la scarsa tutela dei pochi preziosi sistemi verdi, la mancanza di un coordinamento con i progetti e le idee delle centinaia di Comuni dell’hinterland.
Questa tipologia di modifiche non è praticabile, nel nostro sistema giuridico urbanistico, nella fase della discussione delle osservazioni che è quella che, per ora, la nuova amministrazione ha deciso di riaprire. Questo non significa che la decisione di ripartire dalla discussione e poi dal voto sulle migliaia di osservazioni sia sbagliata: tutt’altro. Significa soltanto che essa costituisce solo il primo passo in ordine cronologico per la modificazione del piano, passo opportuno, necessario, ma non sufficiente. Infatti le modifiche annunciate nel programma della nuova amministrazione comportano necessariamente, come si è evidenziato, una riadozione del piano.
Quanto sarà complicato elaborare il piano da riadottare, e quanto tempo ci vorrà per arrivare, alla fine, alla sua approvazione? Bisogna considerare che il Pgt lasciato ai milanesi dalla precedente amministrazione, benché onusto di migliaia di pagine, è tuttavia privo di molti dei pezzi fondamentali di un buon piano: la condivisione delle prospettive di sviluppo, di tutela ambientale e di dotazione infrastrutturale con i Comuni circostanti e con le zone, l’individuazione di efficaci linee di crescita della competitività per il sempre più debole sistema economico milanese, la verifica di coerenza tra previsioni insediative, sistemi di mobilità ed effetti ambientali, la promozione efficace della qualità urbana e di più alti standard di giustizia sociale, la fattibilità finanziaria.
La sinistra, al governo a Milano per la prima volta dopo tanti anni, deve mostrare di saper attingere, essendo libera da interessi particulari, questo superiore livello delle grandi finalità di interesse generale.
Quanto tempo ci vorrà per riempire il piano di questi contenuti essenziali? Difficilmente sarà possibile confezionare e approvare un piano così fatto entro il 31 dicembre 2012, come la legge regionale vorrebbe. È perciò indispensabile adoperarsi per allentare questo nodo troppo stretto, mentre occorre avviare subito il processo partecipato, politico e tecnico, di definizione dei nuovi obbiettivi, in parallelo e non in successione o in subordine all’esame delle osservazioni. La strada da percorrere è lunga: non c’è un minuto da perdere.
Nonostante gli sforzi di Merkel e Sarkozy per apparire due veri statisti, o l'impegno di Obama per apparire un presidente capace di tenere tutto sotto controllo, le opinioni pubbliche occidentali si rendono sempre più conto che in realtà, oggi, nessuno dei propri governanti tiene sotto controllo un bel nulla. E tanto meno riesce a immaginare una qualche via d'uscita da una crisi che ormai sembra avviarsi ad essere di sistema. Proprio nel momento peggiore della sua storia postbellica l'Occidente, insomma, scopre di essere nelle mani di leader privi di temperamento, di coraggio e soprattutto di visione.
Non è un caso. Il deterioramento qualitativo delle classi politiche, infatti, è innanzi tutto un prodotto inevitabile di quella «democrazia della spesa» vigente da tempo nei nostri Paesi, in forza della quale governare significa in pratica solo spendere, e poi ancora spendere, per cercare di soddisfare quanti più elettori possibile (e quindi tassare e indebitarsi: con relative catastrofi finanziarie). Quando le cose stanno così, per governare basta disporre di risorse adeguate, non importa reperite come, o prometterne. L'esercizio del potere si spoglia di qualunque necessità di conoscere, di capire, di progettare, e soprattutto di scegliere e di decidere. Non solo, ma il denaro diviene a tal punto intrinseco alla politica che esso finisce per apparirne il vero e ultimo scopo: a chi l'elargisce come a chi lo chiede o lo riceve. Con la conseguenza, tra l'altro, che dove il denaro è tutto, inevitabilmente la corruzione s'infila dappertutto. La «democrazia della spesa», insomma, è un meccanismo che, oltre a svilire progressivamente la sostanza e l'immagine della politica, contribuisce a selezionare le classi politiche al contrario, non premiando mai i migliori (per esempio quelli che pensano all'interesse generale).
Lo stesso effetto lo ha la personalizzazione mediatica, specie televisiva, ormai centrale per ogni carriera politica in tutta l'area euro-americana. Da che mondo è mondo, la personalità in politica ha sempre contato moltissimo. Giustamente. Ma quando la valutazione di essa è fatta in gran parte attraverso le apparizioni televisive (in Italia per giunta della durata media di 45-90 secondi), allora è ovvio che a contare siano specialmente l'aspetto, la «simpatia», lo scilinguagnolo, l'abilità nello scansare gli argomenti scomodi. Caratteristiche che però, come si capisce, non sono proprio quelle più significative se si vogliono selezionare dei leader capaci di guidare un Paese nei momenti difficili.
Ad aggravare gli effetti di questa personalizzazione mediatica dei capi si aggiunge paradossalmente, quasi a fare da contrappeso apparente, la progressiva spersonalizzazione, invece, delle loro decisioni: specie di quelle davvero cruciali. Cioè la virtuale deresponsabilizzazione degli stessi capi. Dal momento, infatti, che i problemi hanno sempre di più un carattere mondiale o a dir poco regionale, che la globalizzazione impone le sue regole irrevocabili, l'ambito nazionale diventa secondario.
Quelle che davvero contano in modo vincolante sono sempre di più le decisioni prese da qualche vertice o da qualche istituzione internazionale, più o meno lontani e indifferenti rispetto all'arena politica domestica. Decisioni che così finiscono per essere figlie di nessuno e un comodo alibi per tutti. Come possono formarsi in questo modo vere élites politiche? Veri, autorevoli, capi politici?
Per i paesi di medio livello come l'Italia la cosa è clamorosamente evidente. Basti pensare che per ben due volte negli ultimi anni ci siamo trovati addirittura impegnati in operazioni militari di grande rilievo politico — contro la Jugoslavia prima, e adesso contro la Libia — di fatto solo perché altri avevano preso per noi la decisione relativa e noi non potevamo dispiacergli.
Già, la guerra; e dunque la politica estera di cui la guerra un tempo rappresentava l'apice. Non è politicamente corretto ciò che sto per dire, lo so. Ma certo è difficile pensare che la virtuale scomparsa dall'esperienza europea di questi due ambiti decisivi di ciò che fino a qualche decennio fa è stata la politica — i due ambiti cruciali in cui fino a ieri i capi politici potevano essere chiamati a dare prova di sé, ad essere preparati a dare prova di sé — non abbia avuto la sua parte nel rendere sempre più scadente la qualità delle classi politiche del Vecchio continente. È solo un caso, mi chiedo, se i tre principali leader di paesi democratici nell'Europa della post-ricostruzione — De Gaulle, la signora Thatcher e Helmut Kohl — abbiano legato tutti e tre il proprio nome a grandi decisioni di politica estera e/o di tipo bellico (l'Algeria e l'armamento atomico, la guerra delle Falkland, l'unificazione tedesca)? Forse no, direi, non è proprio un caso.
Solo una domanda agli economisti di tutte le scuole di pensiero: come si fa ad uscire dalla economia debitoria (finanziarizzazione dell'economia) senza uscire anche dall'economia della crescita?
Mi spiego. Almeno che non si creda veramente che «la più grande crisi dal '29» - come è stata definita quella che viviamo - sia il capriccio di entità metafisiche che per placarsi pretendono sacrifici umani e senza credere nemmeno che essa sia (solo) il portato di comportamenti criminali di un manipolo di speculatori, le sue cause strutturali, sistemiche sono da individuare in una crescita smisurata del ricorso a vari tipi di indebitamento: finanziario (derivati, obbligazioni, titoli azionari mobilitati per un valore totale otto volte superiore al Pil reale), monetario (il denaro emesso è 12 volte il Pil mondiale), pubblico (sia quello contratto dai vari stati con altri stati, sia quello verso i propri cittadini-risparmiatori), privato (crediti al consumo, carte di credito...). Ma i debiti hanno un difetto: creano i creditori che, presto o tardi, chiedono di essere onorati, rimborsati. Se lo fanno si aprono le crisi di insolvenza ad effetto domino; si inizia con i default di istituti di credito immobiliari, banche, assicurazioni, fondi pensionistici e si finisce col minare la credibilità e la fiducia verso le istituzioni statali garanti dell'ordine sociale, oltre che dei titoli di credito.
Fin qui tutti d'accordo. Ma a cosa sono servite queste montagne di debiti accumulati e perché la governance globale non si azzarda a interromperne il flusso?
Una interpretazione che va per la maggiore a sinistra è che il capitalismo finanziario sia una invenzione di George Soros e dei suoi pari approfittatori e parassiti che hanno affossato il buon vecchio capitalismo produttivo di un tempo (i "Trenta Gloriosi"), manageriale e operaio (del compromesso politico socialdemocratico tra capitale e lavoro). In realtà la speculazione è un sintomo di una malattia che, oltre a costituire un problema morale, è politica e strutturale.
I debiti nelle economie industriali mature, a partire dagli Stati Uniti (il più grande debitore al mondo) hanno cominciato a crescere già a cavallo tra i '70 e gli '80. L'immissione di crediti si è resa necessaria perché si erano inceppati i normali meccanismi di profitto-accumulazione-investimenti-riproduzione fino ad allora garantiti dai tradizionali cicli economici produttivi industriali. In altre parole, i debiti sono serviti a mantenere artificialmente elevata la redditività dei capitali investiti. O, se si preferisce, per compensare la scarsa profittabilità del capitale industriale. I debiti, infatti, vengono giustificano per stimolare gli investimenti, favorire gli acquisti e i consumi, dare un punto di appoggio (la famosa leva) alla crescita economica, far circolare denaro. Un po' di doping a fin di bene, poiché al fondo vi è la necessità costitutiva del capitalismo di promuovere in continuazione enormi investimenti tecnologici, organizzativi, di concentrazione e di scala... per mantenere alta la competitività sui mercati globalizzati: la produttività per unità di lavoro è infatti schizzata alle stelle, ma il Pil non ha seguito il trend e l'occupazione (in Occidente) è arrancata. La megamacchina termo-industriale ha drenato tutto ciò che poteva: lavoro sempre più a basso costo (delocalizzazioni, precariato, femminilizzazione al ribasso del mercato del lavoro, ecc.), risorse naturali saccheggiate, beni comuni espropriati e privatizzati (dal genoma umano al Partenone). Tutto è stato messo al lavoro e a valore, fagocitato e incorporato nei rapporti sociali mercantili, ma nemmeno queste enormi immissioni di "opportunità produttive" sono bastate a soddisfare la domanda di denaro necessario per realizzare nuovi investimenti, creare nuovi mercati, vendere e comprare nuove merci. L'idrovora dell'espansione, dello sviluppo, della crescita è insaziabile. Pretende più denaro di quanto non riesca a realizzarne e a distribuirne. Si crea così uno scompenso che la finanza, con i suoi infiniti ritrovati, si è incaricata di coprire. L'imperativo di dover vendere sempre di più e a più buon mercato, in una competizione selvaggia e globale, costringe i manager ad uno sforzo espansivo costante, ad investire sempre di più non solo in macchinari, ma in marketing, quindi a ricorrere massicciamente al mercato finanziario per garantirsi i necessari flussi di denaro.
Ammettiamo ora che per uscire dalla spirale perversa del debito e delle ricorrenti crisi di riassestamento bastino le ricette auspicate dai più seri osservatori economici: diminuire i tassi di rendimento (Return on Equity) attesi dai possessori di titoli di credito sui capitali investiti dal 20% e oltre, oggi garantiti dalle speculazioni finanziarie, ad un 4% normalmente giudicato più che equo per dei profitti industriali (si pensi che la media dei profitti realizzati dalle imprese Usa negli ultimi 25 anni è stata appena del 2%); regolazione e tassazione delle transazioni finanziarie a breve per dilazionare nel tempo le rendite; riconoscimento dei costi monetari delle "esternalità negative" ambientali e sociali (standard di sostenibilità e clausole sul rispetto dei diritti umani).
Già questi provvedimenti comporterebbero un rallentamento dei ritmi produttivi e le quantità delle merci e quindi del "lavoro necessario" alla riproduzione dei cicli economici.
In definitiva l'auspicata de-finanziarizzazione dell'economia si può ottenere solo imboccando scientemente la via della decrescita - se si preferisce, si può dire anche: rendere la crescita non necessaria al benessere - che non è solo la inevitabile diminuzione dei flussi di materia e di energia impegnati nei cicli produttivi e di consumo (nelle varie forme di green e blue economy) a fronte della progressiva rarefazione delle materie prime, ma anche la riduzione e ridistribuzione del lavoro necessario alla produzione del reddito e minor ricorso al denaro rendendo usufruibili beni comuni e relazionali.
Esattamente il contrario di quanto fanno le manovre economiche messe in atto dai vari governi, ispirate dalle istituzioni finanziarie. Insomma, diminuendo il peso e la sfera di influenza dell'economia di mercato sulla vita della gente. L'intensificarsi delle crisi (non solo finanziarie) rende sempre più stringente il dilemma: continuare ad inseguire il benessere attraverso la crescita dei beni e dei servizi immessi sul mercato, sapendo che i costi ambientali e sociali per la gran parte delle popolazioni della terra superano di gran lunga i benefici, oppure cambiare rotta usando strumenti di riferimento diversi dal Pil e piloti diversi dalla Bce.
A leggere i giornali più vicini a Confindustria e alle banche si nota una crescente insofferenza per «la politica». In quanto tale, senza personalizzazioni particolari. Da Obama in giù, passando per i Sarkozy e le Merkel, fino ai Bossi et similia.Una breve serie di citazioni può aiutare a cogliere il clima culturale che viene veicolato e a tematizzare il nocciolo duro – l'ideologia, diciamo pure – che supporta un ordine discorsivo influente, se non altro perché espressione diretta del «mondo dell'impresa».
Scrive Riccardo Sorrentino su Il Sole 24 Ore: «Non c'è nulla che possa spaventare di più gli investitori – e non solo... – che vedere le proprie sorti affidate a politici maldestri: quelli occidentali, ma anche quelli dei Paesi emergenti, ’responsabili’ dell'80% della crescita globale». Insomma, par di capire, a livello globale mancano del tutto i politici ben-destri, quelli capaci di realizzare la lunga liste di «riforme strutturali» che lo stesso Sorrentino riassume in «occorrerebbe intervenire sui mercati dei prodotti e dei servizi, sui brevetti (che creano monopoli prolungati e frenano l'innovazione), istituire politiche che favoriscano, e non solo permettano, la concorrenza». Per onestà, bisogna notare che dice anche «molta enfasi è data alla liberalizzazione del mercato del lavoro che, se lasciata sola, non è solo insufficiente ma – l'esperienza italiana è emblematica – può creare effetti negativi». Se il suo giornale non benedicesse da anni ogni pensata di Maurizio Sacconi forse (noi lavoratori italiani) ci saremmo evitati almeno una parte degli «effetti negativi» e dell'impoverimento. Ma a suo merito va aggiunto che per lui sarebbe necessario anche «ristrutturare davvero i sistemi finanziari», ammettendo che «ma questo gli investitori non lo chiedono», senza approfondire oltre.
E invece proprio qui si annida il dettaglio del diavolo: si chiede «alla politica» di rinunciare di fatto al «condizionamento dell'elettorato» (al principio fondante della democrazia, attenzione), ma si ritiene impossibile chiedere «agli investitori » (banche, fondi di ogni genere, assicurazioni, ecc) di accettare un'autentica «ristrutturazione » o regolamentazione del sistema finanziario. Gli interessi dei «banali elettori» e quelli dei «beati investitori» sarebbero dunque non solo in conflitto,ma anche di qualità diversa; in fondo i primi sono sacrificabili alla bisogna, i secondi no. Per Sorrentino, insomma, «dietro l'attuale incomunicabilità tra politica ed economia c'è anche un ormai antico scontro tra due culture diverse, che basterebbe a creare una crisi di fiducia e credibilità». E non c'è bisogno di chiedere quale delle due culture dovrebbe avere il predominio assoluto...
Il discorso è esplicito in Alessandro Plateroti – sempre sul Sole – «Ormai è chiaro a tutti che ci muoviamo in uno scenario in cui la globalizzazione impedisce misure unilaterali, ma interessi divergenti condannano alla paralisi». Servirebbe una utopica «unità politica» a livello mondiale, purtroppo impossibile perché condizionata da interessi nazionali divergenti e dalle preoccupazioni elettorali dei diversi leader. E infatti «Ciò che fa paura è la distanza che cresce tra ciò che chiedono i mercati e ciò che la politica è in grado di dargli. La 'pretesa' dei mercati, in ultima analisi, è che le vecchie e le nuove potenze industriali e finanziarie si assumano la responsabilità di definire una nuova leadership mondiale, ma in un mondo multipolare». Problemino non da poco, se si può dire. Specie se si ha memoria storica: ogni passaggio di leadership globale è avvenuto attraverso processi non proprio pacifici, anche prima del «terribile» Novecento.
Ma non è una sua personale convinzione. Anche per Carlo Bastasin – stesso giornale – dev'esserci una «linea», «l'incertezza delle leadership è infatti un fenomeno che condividono Usa ed Europa. Forse non è una pura coincidenza che sia Washington, sia Berlino, sia Parigi siano a un anno dalle prossime elezioni». Se non si votasse, certo, quante cose «impopolari ma utili» si potrebbero fare...
Riassumendo, la questione è: con quali meccanismi si può «decidere» la soluzione dei problemi posti dalla crisi se quelli della democrazia – confronto, costruzione di un interesse medio prevalente accettabile per la maggioranza, condivisione, ecc – non risultano più «efficaci» e, quindi, desiderabili?
Immaginiamoci: siete un ministro responsabile per l’edilizia e le trasformazioni territoriali di uno stato pieno di problemi urbani, primo fra tutti quello dello slum terrificante che tutto ingoia, quello africano tremendo, che popola gli incubi di chiunque se ne sia occupato anche solo per un istante. E che fate, dalla vostra poltrona ministeriale? Un grande piano, naturalmente, come si addice al ruolo.
Eccolo qui, il grande piano per “risolvere il problema dello slum”: basta non parlarne più, e occuparsi d’altro. In certi paesi dominati dalla telecrazia rincoglionita, la tecnica consiste nello sventolare chiappe o terrificanti delitti nazionalpopolari, invece di parlare di cose normali, tipo problemi, anche cose positive, perché no?
In Africa a quanto pare funziona ancora il metodo magico, di evocazione degli spiriti ancestrali, gli animali della savana. Ognuno ha le veline che si merita insomma.
Il nostro ministro, che per la cronaca si chiama Daniel Wani (così se lo incontrate per strada vi complimentate per il paradossale senso dell’umorismo), sta seduto sulla sua poltrona in Sudan, e ha inventato l’urbanistica magico-bestiale, commissionando a qualche gran burlone come lui il grande piano di risanamento virtuale dello slum. Sotto forma, evidentemente classicissima per i pataccari che si rispettano, di new town.
Nove città nove, sparse in tutta la fascia meridionale del paese, ciascuna a breve distanza dal sopracitato slum (forse per vedere meglio la differenza), e ciascuna, secondo i calcoli degli economisti, con un costo che assomma a cinque o sei volte l’intero bilancio nazionale.
Bestiale! E bestiale soprattutto per la forma che questa bella pensata assume, appunto a evocare magicamente gli spiriti sacri della savana in forma di lottizzazione, destinazioni d’uso, eleganti viali che seguono le linee di qualche ciclopico guizzante selvaggio muscolo pronto a spingere la nazione tutta verso un luminoso futuro.
Basta guardare le tavole, con tanto di “piano regionale” e studio di maggiore dettaglio, o addirittura di Area Protetta (leggere per credere) in mezzo alle gambe della giraffa. Sarà perché la guardano anche i bambini?
Anti-manovra/
SBILANCIAMOCI: 60 miliardi molto bilanciati
30 per la riduzione del debito, 30 per il rilancio dell'economia al lavoro
di Giulio Marcon
Perché investire nella green economy, nelle piccole opere pubbliche, nella ricerca e innovazione
La manovra varata dal governo Berlusconi è disperata, iniqua e senza futuro. Questo provvedimento, come i precedenti, non affronta in modo strutturale il problema del debito e non mette in campo misure significative per il rilancio dell'economia. Il problema principale è proprio questo: si affronta la crisi solo sul fronte dei tagli della spesa pubblica (prevalentemente la spesa sociale), mentre non vi è una misura credibile capace di rilanciare l'economia. Anzi, questa manovra, come la precedente, ha un impatto depressivo e recessivo: comprime la domanda interna, i consumi, i salari e con essi la produzione.
A questi due elementi negativi - l'estemporaneità dei tagli e l'assenza di misure per il rilancio dell'economia - si aggiunge il forte carattere iniquo della manovra a danno dei lavoratori (in particolare i dipendenti pubblici) i pensionati ed in generale i cittadini: il taglio, pesantissimo, ai trasferimenti agli enti locali e alle regioni si tradurrà in minori servizi ed in maggiori tributi. Ancora una volta non vi sono significative misure contro l'evasione fiscale e i grandi patrimoni. Il «contributo di solidarietà» sui redditi Irpef più alti è solo una misura estemporanea e parziale e che evita da una parte una vera riforma in senso progressivo dell'Irpef (anche a favore delle aliquote più basse) e dall'altra fornisce l'alibi per non introdurre la tassazione dei grandi patrimoni.
Lo stesso innalzamento dal 12,5% al 20% dell'imposizione fiscale sulle rendite è ancora insufficiente (sarebbe stato più equa un'imposizione al 23%) e non comprende i possessori (tra cui in gran parte le banche) dei titoli di stato.
Fino ad oggi il governo ha sbagliato praticamente tutto, diffondendo inutile ottimismo, negando la crisi, limitandosi ad interventi di facciata, aspettando inerzialmente la ripresa internazionale, non colpendo i grandi patrimoni e la finanza, salvando gli evasori fiscali, non mettendo in campo interventi strutturali per rilanciare l'economia, colpendo la dignità del lavoro ed il ruolo del sindacato, tagliando le spese sociali.
Contro il provvedimento del governo Sbilanciamoci propone una manovra di 60 miliardi, di cui 30 da destinare alla riduzione del debito e 30 da destinare al rilancio dell'economia al lavoro, alla difesa del welfare (testo integrale su www.sbilanciamoci.org).
Da una parte - sul fronte delle entrate- è necessario colpire i grandi patrimoni con una imposta ad hoc, tassare ulteriormente i capitali rientrati dall'estero grazie allo scudo fiscale, ridurre le spese militari, cancellare le grandi opere. Una tassazione dei patrimoni del 5/1000 - con una limitata franchigia per i patrimoni più bassi - porterebbe un'entrata in due anni di 21miliardi euro; una tassazione aggiuntiva del 15% sui capitali rientrati grazie allo scudo, ben 15 miliardi; ed il combinato di riduzione del 20% delle spese militari, della cancellazione del programma dei caccia F35, della fine della missione in Afghanistan e della cancellazione delle grandi opere, darebbe oltre 10 miliardi di euro.
Dall'altra - sul fronte degli interventi: almeno 30 miliardi - è necessario investire nella green economy (energie pulite, mobilità sostenibile, ecc), nelle piccole opere pubbliche (messa in sicurezza delle scuole, ferrovie locali, ecc), nella ricerca e nell'innovazione. Nello stesso tempo è necessario difendere i redditi più bassi (con detrazioni ed altri interventi fiscali, aumentando le pensioni minime), allargare lo spettro degli ammortizzatori sociali ai lavoratori parasubordinati (introducendo per i monocomittenti, misure analoghe a quelle previste per i lavoratori a tempo indeterminato), rafforzare la rete dei servizi sociali (asili nido, introduzione dei livelli essenziali di assistenza, fondo di non autosufficienza, ecc).
E' questo il cambio di rotta di cui il paese avrebbe bisogno: una politica economica diversa, un modello di sviluppo alternativo a quello delle scelte neoliberiste di questi anni capace di ridare speranza e futuro ad un paese piegato in questi anni dalla logica dei privilegi e degli interessi dei più forti. Le proposte ci sono.
Opposizione/
PD: «Noi contro l'evasione» Stangata virtuale di Bersani
Tassa una tantum sui «capitali scudati»
di Clementina Colombo
Che la manovra economica del governo fosse iniqua e depressiva, il Pd lo dice da giorni. E che il primo punto della sua contromanovra fosse la lotta all'evasione fiscale pure lo dicono da giorni Pierluigi Bersani e Rosy Bindi. A parlar male del Partito democratico ci si fa l'abitudine ma questa volta la proposta avanzata dai «triumviri» (c'è anche Stefano Fassina, responsabile economico del partito) tanto male non suona. Anzi, se venisse approvata, sgraverebbe l'Italia di un terzo della manovra.
Propone infatti il Pd di introdurre un contributo straordinario del 15% sui 105 miliardi di capitali condonati da Berlusconi, Bossi e Tremonti nel 2009 contro l'1 o il 2 per cento che il governo forse timidamente si limita a chiedere nella manovra che lunedì verrà discussa al Senato. Gli evasori sono quelli che dello scudo fiscale hanno già beneficiato e i cui nomi e cognomi le banche - chiamate a collaborare non certo per beneficenza - sarebbero tenute a dare. Tutte personcine per bene che per riportare un centinaio di miliardi in Italia, hanno pensato valesse in fondo la pena sacrificare un 5% delle loro entrate. Ma stiamo sempre al 2009 e al 2009 resta Bersani, pronto a colpire la «vecchia evasione» ma di nuovo stremato quando si tratta di attaccare la nuova evasione, quella di cui nemmeno le banche conoscono i nomi e cognomi.
Tutta da buttare la contromanovra del segreterio del Pd? No, perché tra i nomi della vecchia evasione di certo figurano anche personaggi di spicco di mafia, 'ndrangheta e camorra. Colpisce piuttosto la disparità delle due proposte. Quella del Pdl che si ferma al 2% e quella del Pd che spara al 15. Difficile pensare alla possibilità di una mediazione nonostante il governo non escluda l'ipotesi di tassare i capitali rientrati in Italia grazie allo scudo fiscale, così come proposto dal Pd. Con una percentuale di prelievo decisamente inferiore a quella avanzata dal partito di Pier Luigi Bersani.
Manfrine sulle quali Tremonti non interviene mentre scettico si dichiara il leghista sottosegretario all'Economia Alberto Giorgetti. Tassare i capitali «scudati» è tecnicamente difficile perché è difficile reperire i dati e ricostruire il percorso dei capitali in quanto - dice Giorgetti - «c'è l'anonimato». Scettico pure Tonino Di Pietro: «Tra il dire e il fare c'è di mezzo il governo Berlusconi e i tanti suoi amici "scudati". Solo quando lo faranno veramente ci crederò». Ma di percentuali Di Pietro non parla mentre il resto dell'opposizione è rapita dal sogno mai realizzato della Tobin Tax e ora cavalcato dai due governi più reazionari d'Europa. Quanto al Pd forse avrebbe potuto rinunciare ai grandi proclami e limitarsi a un programma di minima forse più praticabile. Riduzione a 1000 euro della tracciabilità dei pagamenti, descrizione dei patrimoni in dichiarazione dei redditi, saldo dei conti correnti bancari, imposta ordinaria sui valori immobiliari più elevati e stralcio degli interventi sul lavoro per rimetterli nelle mani delle parti sociali.
La crisi non trova il capitale unito. Lo dimostra la discussione di questi giorni aperta dalla provocazione del miliardario Warren Buffet sui ricchi che dovrebbero pagare più tasse. Sulla stessa posizione in Italia si è collocato Rossi di Montelera, mentre sul versante opposto c'è Murdoch e, in Italia, Berlusconi che non vuol sentir parlare di patrimoniale o tassa sulla ricchezza, ma accetta unicamente il "contributo di solidarietà". Nello spirito di Berlusconi la parola solidarietà evoca l'elemosina che i ricchi devolvono ai poveri; qualcosa di volontario e revocabile.
C'è uno scontro, all'interno, del capitalismo, non solo ideologico: tutti sono convinti della sua superiorità, ma la vivono in maniera differente e le diversità sono anche parzialmente influenzate dai settori nei quali operano i contendenti. Per Berlusconi e Murdoch il sistema produttivo è la comunicazione dove, tra l'altro, non esistono grossi problemi retributivi, ma cervelli all'ammasso. Diverso il caso per chi si confronta con il mercato, con merci che incorporano un prodotto sociale che si tende a sottrarre al lavoro. Chi riesce a farlo meglio e di più è un ottimo capitalista, ma quando tutti i capitalisti tendono a espropriare il lavoro è inevitabile che esploda la crisi per la sproporzione tra eccesso di capacità produttiva e scarsa capacità di consumo.
E' accaduto nel 2008, anche se il detonatore fu la bolla finanziaria; sta accadendo oggi perché tutte o quasi le risorse degli Stati sono state dirottate al salvataggio della finanza stessa. Ovvero alla conservazione dei rapporti di classe e non al sostegno del lavoro e dei redditi di chi è stato estromesso dal sistema produttivo. La cifra dei senza lavoro, negli Usa come in Italia, è superiore alla disoccupazione ufficiale.
In questo contesto, pur di salvare il capitalismo, c'è chi è disposto è ogni compromesso, come la Tobin Tax. L'ideologia non c'entra nulla, quel che conta è l'essere pragmatici. Ecco la patrimoniale e la Tobin Tax che da 40 anni la sinistra cerca inutilmente di riproporre e che, ora, forse, trionferà sull'asse Parigi-Berlino. Attenzione, però: dietro l'angolo di questa riscoperta "riformista" di esaltazione della produzione e di assoluta condanna della speculazione finanziaria, rischia di nascondersi una conseguenza letale per il lavoro: un capitalismo progressista che lotta contro la speculazione, che chiede ai ricchi di pagare più tasse, ma poi sottomette il lavoro che non deve discutere le scelte di investimento, ma accettare maggiore produttività e flessibilità in un sistema salariale subordinato. Un ritorno al capitalismo duro e puro non sconvolto dalla finanza.
Federico Caffè scrisse della «solitudine del riformista», del suo essere irriso perché preferiva i piccoli passi. Il riformismo e i piccoli passi nel breve periodo possono andare bene, ma a una condizione: non disturbare il manovratore.
Strano come tutti abbiano dimenticato la differenza tra due termini radicalmente diversi: “riformista” e “riformatore”. Con il primo si indicavano le piccole, e non sostanziali, modifiche del sistema (capitalistico-borghese) che ne consentivano la sopravvivenza indefinita nell’ambito del suo complesso di principi; con il termine “riformatore” si indicavano modifiche al sistema che ne preparassero la completa trasformazione in un sistema basato su principi radicalmente diversi, soprattutto mediante uno spostamento del potere, cioè il primato della politica. Entrambi i capitalismi raccontati da Galapagos restano nell’amnbito del classico “roformismo”, quindi sono incapaci di risolvere la crisi del lavoro, quella dell’ambiente, quello della democrazia e quello della sostanziale equità tra tutti i ceti, classi, popoli, etnie, generi, generazioni attuali e future.
Rigore, equità e crescita sono le tre esigenze che devono essere soddisfatte per uscire dai guai nei quali il nostro Paese ristagna da tempo. Ricordando un famoso saggio di Ralf Dahrendorf, mi sono posto questa domanda: non si tratta forse di un problema di «quadratura del cerchio», per definizione impossibile da risolvere? Un problema per cui, se due esigenze vengono soddisfatte, la terza non può esserlo? Chi pone così il problema si sbaglia. Ognuna delle tre esigenze è difficile da soddisfare, ma esse non sono contraddittorie. Anzi, la soluzione di una favorisce la soluzione delle altre.
Prima variazione: si possono avere insieme rigore ed equità, ma in questo caso non si può avere crescita. Falso. Se si dà al termine rigore il significato elementare di tenere i conti pubblici in ordine e raggiungere anno dopo anno un avanzo primario con il quale ridurre il debito, non è vero che ci sia un contrasto tra rigore e crescita. C'è contrasto solo se si concepisce l'equità come la soddisfazione di interessi consolidati e difesi da poderose corporazioni, la cui minaccia provocherebbe tensioni e proteste: in questo caso riforme strutturali profonde non si potrebbero fare e la crescita sarebbe impossibile. Ma conservare l'attuale, perverso equilibrio degli interessi — ciò che i governi hanno fatto sinora — non coincide con l'equità: non è equo mantenere diviso in due il mercato del lavoro, o difendere «diritti acquisiti» che sono in realtà posizioni di rendita, o tollerare una scandalosa evasione fiscale. Equa è una politica che consente a tutti — ricchi e poveri, giovani e vecchi, uomini e donne — una vita decente e pari opportunità. Ma questo non contrasta, anzi va insieme con la crescita.
Seconda variazione: si possono avere insieme crescita e rigore, ma non equità. Falso. È vero che il rigore e la progressiva restituzione del debito richiedono avanzi di bilancio e dunque o maggiori imposte o una minore spesa pubblica o entrambi. E di conseguenza un minor reddito reale per i cittadini. Ma non è detto che questa maggior penuria debba essere distribuita in modo iniquo o che vada a ledere gli incentivi che stimolano le imprese a produrre e a investire. Un Paese che cresce e tiene i conti in ordine non è necessariamente un Paese iniquo: la Germania e i mitici Paesi nordici, da tutti gli indicatori disponibili, sono costituiti da società più eque e da economie più dinamiche dell'Italia.
Terza variazione: crescita ed equità possono stare insieme, ma non così il rigore. Falso: non è vero che solo il lassismo fiscale e monetario consentirebbe di accomodare crescita ed equità, come pensano coloro che rimpiangono l'inflazione e le svalutazioni della Prima Repubblica.
Costoro ritengono sia stato un errore infilarci nell'euro e suggeriscono di conseguenza — seppure siano ancora pochi a sostenerlo apertamente — che dovremmo uscirne il più rapidamente possibile. Dalla loro hanno l'evidenza che l'entrata nella moneta unica ha coinciso con l'inasprimento di un regime di politica economica internazionale in cui i redditi da lavoro si sono ridotti rispetto agli altri e le condizioni lavorative notevolmente peggiorate. Ma questo peggioramento ha riguardato tutti i Paesi avanzati, sia quelli della zona euro, sia quelli con moneta propria: anzi, è stato massimo per gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, Paesi che possono adottare una politica monetaria autonoma. Qualora seguissimo i suggerimenti dei lassisti nelle attuali condizioni internazionali non raggiungeremmo certo condizioni di maggiore equità, ma solo aggiungeremmo un ingestibile problema di inflazione e svalutazione a quelli che già dobbiamo affrontare ora.
Conclusione. Rigore, equità e crescita sono tre obiettivi che possono e debbono essere perseguiti insieme. La manovra appena varata soddisfa in buona misura l'esigenza di rigore ma non altrettanto quelle di equità e di crescita. La ragione non risiede in una presunta incompatibilità di questi obiettivi, ma nel colpevole ritardo e nell'affanno con il quale il governo ha affrontato una situazione di difficoltà che era nota da tempo senza aver preparato le condizioni nelle quali quegli obiettivi sarebbero stati compatibili e anzi di mutuo aiuto.
A chi capitasse di entrare a Pessina Cremonese, nella grande pianura una decina di chilometri a est del capoluogo, non può certo sfuggire il vistoso cartello che recita Comune libero da pregiudizi razziali, premio per la Pace 2010. E per fortuna, si potrebbe anche dire, visto che cose del genere anche nell’Italia del terzo millennio dovrebbero essere banali come l’acqua fresca, garantite dalla Costituzione e compagnia bella. Ma in epoca di verdastri figuri che ne sparano di tutti i colori in nome di improbabili identità territoriali, diritto di sangue ecc., ben venga anche un territorio che ha messo nero su bianco sul cartello da qui in là siamo ufficialmente liberi da pregiudizi razziali. La cosa poi fa il paio con la notizia che a cavallo tra fine luglio e primi di agosto è rimbalzata su vari giornali nazionali e locali: a Pessina Cremonese fra un paio di settimane si inaugura il più grande Tempio Sikh d’Europa. Bello, no?
| foto f. bottini |
Una volta nella pianura grassa dei fossi da irrigazione e delle vacche da latte li chiamavano bergamini, gli addetti alle stalle. Perché venivano dalla più povera alta pianura bergamasca a cercare lavoro dove scorre la crema, anzi addirittura la cremona da tanta che ce n’è. Poi nei territori asciutti bergamaschi hanno trovato una coltura che pare rendere meglio, quella dei capannoni, e i bergamini nella grande pianura irrigua hanno cominciato a importarli da più lontano, addirittura dal subcontinente indiano. Magari pensando, a torto o a ragione, che chi viene da un posto dove alcuni considerano sacra la vacca, chissà come le coccola, quelle preziose bestie, che produrranno sempre più crema. E basta imboccare una qualunque delle traverse che incrociano la Padana Inferiore 10, per iniziare lunghi percorsi a serpentina fra lontani orizzonti di silos, edifici bassi, e l’onnipresente più o meno sottile odore di stalla, per vedere che da queste parti la popolazione dotata di turbante, lunga barba, eleganti abiti etnici per le signore, e incarnato diciamo poco padano, sta perfettamente inserita nel territorio.
Oppure, per una immagine meno bucolica, si può fare una spedizione comparata fra i centri commerciali che spuntano dai campi di granturco più o meno tra la fascia della Padana Inferiore 10 e quella (svariati chilometri più a nord) della 235 bresciana-cremasca, o della Padana Superiore 11 già sull’orizzonte alpino. Qui soprattutto il sabato la popolazione dei neo-bergamini in prevalenza sikh salta davvero all’occhio, con le numerose e corpose famiglie in spedizione automobilistica shopping-relax ai confini del consumismo, versione postmoderna del vecchio detto tutti casa e bottega ma anche no. Eravamo però partiti da Pessina Cremonese col suo Tempio, e adesso ci torniamo subito, ma dopo aver ripassato un paio di cose. Dove si vedono (dove presumibilmente stanno soprattutto) gli amici sikh? Fra stalle e agresti decentratissimi dintorni, poi al sabato nelle decentratissime cattedrali della religione consumista. Ma finalmente adesso li vedremo e incontreremo in pompa magna a Pessina, nel loro Tempio più Grande d’Europa, di fianco a quel cartello che proclama giustamente e orgogliosamente Comune libero da pregiudizi razziali. Sbagliato!
Sbagliato, sbagliatissimo, perché dietro a quel cartello c’è il villaggio o nucleo comunale che dir si voglia di Pessina Cremonese, con qualche grosso impianto di stalle ai margini, il campanile, il campo sportivo dell’oratorio eccetera. E invece il Tempio Sikh più grande d’Europa, per trovarlo, bisogna andare proprio da tutt’altra parte, e a piedi non è certo una passeggiata, neanche in bici a ben vedere. Tocca uscire dal paese, passare di fianco al cartello anti-discriminazione, scendere fino alla linea della Padana Inferiore, seguire il tracciato della statale verso est, e poi giù per il curvone verso Piadena oltre la casa cantoniera in disuso e la vecchia cascina dove molti anni fa qualcuno aveva aperto decisamente on the road l’innovativo Bar dell’Autista. Ancora oltre, passato un più prosaico distributore, si imbocca a destra la strada per Torre de’ Picenardi (per i letterati è l’ex feudo del manzoniano Fra’ Cristoforo, personaggio realmente esistito) e finalmente appare la modesta capannonata. Perché di questo si tratta: il Tempio Sikh più grande d’Europa, è un capannone fra capannoni, indistinguibile salvo un rivestimento vagamente più curato da quelli che ci stanno accanto, magari (senza nessuna offesa naturalmente) anche da quello che un paio di chilometri più avanti sulla statale inalbera l’insegna Biberon Lapdance.
Se si scorrono gli articoli di giornale che in questi giorni stanno raccontando brevemente la storia della singolare struttura, naturalmente c’è anche la perfetta spiegazione tecnica, contestuale, amministrativa, finanche culturale. Per quanto riguarda la comunità Sikh quello pare sia l’unico terreno trovato con dimensioni adeguate da comprare e edificare: circa 25.000 metri quadrati di spazi sociali, di culto, incontro divisi in vari ambienti su due livelli. Per quanto riguarda il consorzio di comuni più amministrazione provinciale che si sono fatti carico di coordinare l’iniziativa è una posizione più o meno baricentrica, adatta, con destinazione d’uso sostanzialmente compatibile. L’architetto progettista da par suo inizia a ragionare a fil di parete, racconta di funzioni interne, di scelta dei materiali, di adeguamento di cose locali a esigenze diverse (si era anche parlato di importare da chissà dove cupole dorate). Ma resta qualcosa che non va, proprio non va: capannone, centro commerciale, deposito, lottizzazione industriale, strada a cul-de-sac. Tutto converge a evocare la parolina magica che da mezzo secolo perseguita i sonni di urbanisti, sociologi, ambientalisti: sprawl, ovvero segregazione urbanistica che si traduce in segregazione sociale, piaccia o meno a chi la subisce o magari se la cerca.
Quel baccello cementizio a fondo chiuso sulla diramazione della Padana 10, a un paio di chilometri abbondanti da Pessina vera e propria, e almeno altrettanti dal resto del mondo civile in tutte le direzioni, forse non a caso alla fine ha messo d’accordo tutti, emarginando anche le solite opposizioni del legaioli duri puri e coglioni. Quelli che non capiscono, come sottolineano ovviamente gli altri, che l’economia locale - su cui campano pure terra sangue e diritto - senza la comunità sikh andrebbe in malora in una settimana. Bisognerebbe fargli il monumento, oltre al Tempio! Ma anche quelli che capiscono, che parlano di integrazione, magari non di multiculturalismo perché gli echi europei meglio lasciarli dentro la televisione, pare non vedano l’evidenza: perché la chiesa di Pessina sta al centro del paese e il tempio sikh a tre chilometri di distanza da tutto? E tanto per dirla chiara, perché un centro che si rivolge a un territorio immenso non sta nel posto più ovvio, ovvero direttamente a Cremona, il capoluogo? Di aree industriali dismesse a cui dare una nuova e nobile funzione ce ne sono a bizzeffe, a ridosso del centro: una cupola dorata ad affiancare il Torrazzo non ci starebbe magnificamente?
| foto f. bottini |
E invece no: è la sottile pervasività della religione ecumenica dello sprawl a mettere d’accordo tutti. La comunità sikh che trova un terreno edificabile economico. Gli amministratori locali che si fanno belli con le dichiarazioni di principio e i cartelloni con stampato su un bello slogan assessorile. E sotto sotto i biliosi legaioli irriducibili che accettano questa forma di perfetta integrazione segregata, che a suo modo declina localmente il globale “aiutiamoli a casa loro”. Lontano dagli occhi lontano dal cuore. Oppure, letto da sinistra, oggi la fabbrica-territorio può svolgere il medesimo ruolo di integrazione del grande impianto centralizzato di una volta. Peccato che manchi una cosuccia: la città attorno all’impianto, e che un processo di integrazione schizofrenico come quello del costante pendolarismo da sprawl non sia da augurare neanche ai peggiori nemici. Insomma tanti auguri alla comunità sikh che il 21 agosto inaugura il più grande Tempio d’Europa, ma anche a noi perché la prossima volta proviamo a fare meno cazzate. Non basta, ma di sicuro aiuta.
| foto f. bottini |
Dal 28 settembre a metà dicembre sarò a Nairobi, Kenia. Da qui mi propongo di inviare agli amici degli appunti di viaggi. Penso che sia utile innanzitutto spiegare perchè sono qui, e a questo dedicherò i miei primi appunti.
Sono qui per affrontare da vicino il caso studio della mia ricerca di dottorato, che ha un titolo lungo e “potente”: Hegemonic imaginaries of the cities of the South. Semiotic and material practices of the discourse of multilateral aid organizations (Tesi di dottorato in Progettazione urbanistica, Facoltà di architettura, Università di Firenze).
Cerco di sentitizzarne gli obiettivi. In ultima analisi vorrei cercare di capire quali interessi, economici, politici e sociali sono sottesi all’idea di città auspicata dalle più influenti agenzie multilaterali di sviluppo. Lo farò attraverso l’analisi e la comparazione dei discorsi sulla città prodotti dalla Banca Mondiale e dalle Nazioni Unite. Le domande che mi pongo sono sostanzialmente quattro:
1. Come si costituisce il “discorso” sulla città e quali sono i discorsi nodali che emergono?
2. Quale immaginario emerge e diventa oggi dominante?
3. In che modo, e attraverso quali attori, istituzioni, e circostanze, la produzione di egemonia si realizza?
4. Quale relazione esiste tra la realtà e gli immaginari?
Parto dalla considerazione che attraverso appellativi diversi (sustainable, livable, ecc.) e diversamente elaborati da ciascuna agenzia, la città diventa il contenitore di particolari strategie, che sanciscono o proibiscono determinate espressioni e modi individuali e collettivi. E lo fanno soprattutto attraverso la produzione di “sapere” che viene veicolato attraverso il discorso, e tramite il meccanismo dell’aiuto allo sviluppo, che è un complesso sistema di principi, regole, pratiche, procedure che si è sviluppato a partire dalla fine della seconda guerra mondiale.
Il titolo vorrebbe riassumere in poche parole questi concetti:
- l’egemonia (una forma di potere che si realizza senza la forza ma attraverso il consenso, usando lo strumento potente dell’ideologia) si manifesta anche attraverso la produzione di spazio, che sia esso materiale o semiotico;
- la dimensione semiotica dello spazio - cioè il modo in cui esso è rappresentato, problematizzato, normato, progettato, ecc. - ha un ruolo determinante nel legittimare un particolare modo di concepire lo spazio e la società attuale e quella futura, diventando la fonte e la base di riferimento non solo dei discorsi successivi, ma anche delle politiche e degli interventi delle organizzazioni governative e non, delle agenzie e delle imprese private internazionali operanti nel settore urbano dei paesi del sud del mondo;
- l’ideologia è connessa all’organizzazione delle istituzioni dominanti, al potere e alla realtà sociale che esse descrivono, rappresentano e modificano.
Ho trascorso i primi 3 anni del dottorato ad analizzare i documenti e le pubblicazioni riguardanti la città o settori di essa (l’housing in particolare) che queste due agenzie hanno emanato dagli anni ’70 del secolo scorso ad oggi, e soprattutto a comprendere il contesto storico nel quale questa produzione discorsiva si origina e si sviluppa.
Se non fosse altro, da questa tesi certamente ricavo una migliore comprensione del mondo in cui vivo, soprattutto a livello di sistema globale: i libri di storia e di economia politica hanno dovuto diventare il mio pane quotidiano, insieme a quelli sulle relazioni internazionali, e non ultimi quelli di urbanistica.
L’altro grosso sforzo che ho dovuto fare è stato quello di dotarmi di strumenti concettuali (come l’analisi critica del discorso e la sociologia della conoscenza) necessari per comprendere quello che andavo studiando e quello che avrei analizzato durante il caso studio. Questo è stato certamente il percorso più difficile, ma anche più soddisfacente e ricco. Oggi, a distanza di tre anni, mi sento intellettualmente più aperta, più profonda, più attenta alle sfumature, e più dubbiosa. Ritornerò su alcuni elementi di questo apparato concettuale strada facendo.
Forse l’unico aspetto su cui mi sento di avere meno dubbi è quello del dove posizionarmi nel fare ricerca, perchè sento di avere più consapevolezza non solo del where I stand (“dove sto”) , ma soprattutto del what I stand for (“per cosa”).
Oggi più di ieri sono consapevole che:
"There is no area of our lives including the very boundaries of our imagination which is not affected by the way that society is organised, by the whole operation and machinery of power: how and by whom that power has been achieved; which class controls and maintain it; and the ends to which the power is put" (Thiongo’o wa Ngugi – uno scrittore keniota marxista di cui sto leggendo un bellissimo romanzo Petals of blood).
Sempre più credo che la mia ricerca debba essere rivolta a sostenere e “liberare” nel modo che a me è più congeniale, cioè con l’analisi, coloro che sono oppressi da una delle tante e variegate forme che l’oppressione può avere. Il contributo che vorrei dare è quello di individuare altre possibili letture per comprendere la realtà che ci circonda e quindi incominciare a cambiarla, nell’obiettivo di una società migliore per tutti e soprattutto più giusta.
Credo che questo spieghi il perchè di una tesi così poco “urbanistica” e molto “politica”, e del perchè le questioni del potere mi interessino particolarmente.
La ragione per cui sono a Nairobi sarà forse più chiara dopo qualche racconto sulla città, del suo funzionamento, del modo in cui la si vive, dei meccanismi che determinano le trasformazioni e di chi in questo “game” ci guadagna e chi ci perde.
Il fatto che a Nairobi ho degli amici, e che è una città nella quale ho già vissuto, sia pure brevemente, è un’altra ragione dell’essere qui. Mi sarebbe stato impossibile studiare in un paio di mesi Nairobi se non ne avessi già almeno intuito le problematiche, e se non avessi già allacciato contatti e stabilito rapporti.
Ho pianificato questo viaggio a Nairobi da tempo… le amiche che mi conoscono bene direbbero che non avevano dubbi al riguardo!
Per me pianificare un viaggio non significa solo “mettere le mani avanti”, organizzare spostamenti, soggiorni, vaccinazioni, contatti, e pensare a questo e a quello. Significa soprattutto cominciare a “viaggiare con la testa” con largo anticipo rispetto al viaggio materiale, assaporando le emozioni e paure della partenza, vivendo la frenesia, e le curiosità prima nella mente che nella realtà. E’ un modo di allungare il viaggio. Ho sempre desiderato viaggiare, ma non per tempi brevi. E raramente i tempi di permanenza fisica in un luogo mi risultano sufficienti. In questo modo il mio viaggio a Nairobi lo faccio durare un anno!
Il problema di questo approccio è che nella mia mente si sono configurati spazi e tempi “immaginari”, situazioni, aspettative che non sono legate alla realtà, ma sono dettate piuttosto dai ricordi (ero stata a Nairobi altre due volte), dalle letture e dai racconti di altri (articoli, saggi, film, fotografie) e dal mio percorso individuale.
Devo dire, che sono partita molto entusiasta, ma anche timorosa, non solo nei confronti della tesi, ma anche dell’ambiente nel quale avrei vissuto. L’esperienza del 2007, in occasione del World Social Forum era stata molto positiva, ma breve e molto condivisa.
L’esperienza in Nairobi del 2004, pur lunga (4 mesi) è stata frammentata perché facevo la spola tra Nairobi e Lamu, l’allora oggetto della mia ricerca, ma segnata da un episodio violento capitato alle mie compagne di viaggio e da tutta una serie di piccole difficoltà con le quali dovevamo confrontarci quotidianamente.
Nel momento in cui si usciva di casa occorreva dotarsi di tutta una serie di precauzioni che in qualche modo mi dimpedivano di vivere la città come luogo di vita pieno, seppur temporaneo. Faccio un esempio: non tirare mai fuori la piantina della città se no venivi subito individuato come turista e quindi circondato da venditori di Safari e pseudo guide turistiche. Il che mi ha aiutato tantissimo peraltro a disegnarmi mentalmente una mappa della città e a sviluppare un orientamento alternativo rispetto a quello configurato dai segni e simboli a due dimensioni tipici della mappa bidimensionale.
Non usare il cellulare in strada, perché può esserti portato via in un batter d’occhio. Non girovagare dopo le 5.30 del pomeriggio, cioè l’orario di punta in cui tutti tornano a casa, a meno che sei in un “recinto”. Avere monetine in tasca in modo da non tirare fuori il portafoglio. Non guardare negli occhi le persone, perché questo è il mio “segnale” di incoraggiamento per attacar bottone, chiedere l’elemosina, etc. Essere circospetti con le persone che cominciano a raccontarti storie… la maggior parte delle volte si concludono con una richiesta di soldi. E via così…
Sono atterrata all’aeroporto Jomo Kenyatta al mattino molto presto, stava albeggiando… ero seduta verso il corridoio (la fobia dell’aereo è stata superiore al desiderio di vedere Nairobi dall’alto… poi mi sono pentita della scelta!) e così non ho visto niente. Ero davvero eccitata quando sono salita in macchina con l’autista inviato dai miei amici che mi è venuto a prendere.
La prima impressione che si è sovrapposta a meraviglia con i ricordi, è quella che tante persone in Kenya si spostano a piedi. Ma non tanto e solo in zone pedonali, ma ovunque, anche luogo le highway. Eppure nonostate la maggior parte delle persone cammina, non ci sono marciapiedi, che possono essere considerati tali. Ma solo carraie ai margini della strada o tra una carreggiata e l’altra che si sono formate con il tempo al continuo passaggio dei pedoni. A questo è associato un traffico esasperante, inquinamento visibile - i tubi di scappamento delle auto emanano fumi neri e puzzolenti, come da noi decenni orsono) – e polvere rossa, bellissima, ma fastidiosa.
Dopo anche solo un paio di giorni mi sono resa conto che la città è meno pericolosa e meno aggressiva del previsto, almeno in centro città. Il cosiddetto CBD (Central Business District) corrisponde alla cuore amministrativo, politico e finanziario della città. E’ l’unica parte della città davvero pianificata, con una griglia ortogonale molto rigida, dove si trovano gli edifici storici (del regime coloniale) e quelli moderni costruiti all’indomani dell’indipendenza (1963) e via via aggiunti nei decenni seguenti. E’ un centro come tanti altri nel mondo.
Non c’è più problema a usare il cellulare, ad aprire la cartina della città (che non faccio, sfidando la mia memoria e il mio orientamento), a camminare a piedi anche fin verso le 7-8 di sera. E sorprendentemente non vedo hawkers (venditori ambulanti senza licenza, che vendono cose da poco e specializzatissimi: solo banane, o solo piselli sgusciati, acqua, noccioline, giornali, etc.), beggars e i safaristi sono davvero pochi…
La città è anche più pulita, anzi è davvero linda! Ci sono panchine, aiuole fiorite, lampioni, persone ben vestite, tanti bar e ristorantini. Ururu hayway il limite sud del centro città e Ururu Park sono veramente attraenti. Insomma, lo spazio pubblico è davvero accogliente, posso tranquillamente sedermi da qualche parte a leggere il giornale non solo nel centro storico, ma anche in questo parco cittadino, senza problemi di essere importunata o assalita. Certo, nel parco è meglio stare nelle areee più affollate e lungo i sentieri dove ci sono anche i rivenditori autorizzati di bibite. Do comunque nell’occhio; di bianchi in giro non ce ne sono molti e certamente non si siedono all’aperto (e non credo sia solo una questione di sole). Ma volendo si può fare, ed è piacevole vedere le persone passare, sostare di qua e di là.
Non nascondo una certo apprezzamento di questo cambiamento, ma ricordando alcune letture ( in particolare reclaming the streets di Coleman, 2004) e del progetto di “beautification” lanciato dal City Council di Nairobi un paio di anni fa, cerco di informarmi meglio e di scoprire come hanno fatto. Molto semplice! Il major ha emanato una serie di ordinanze che vietano agli hawkers di vendere, agli accattoni di chiedere l'elemosina, agli intermediari di attirare turisti nei negozi di souvenir o nelle agenzie dei safari, ai bambini di strada di accamparsi o gironzolare nel centro. Attraverso un gesto autoritario hanno rigenerato la città, giustificando la scelta attraverso una retorica tutta neoliberista che promuove la “città sicura”, una città innanzitutto sicura per gli affari. Attraverso questo discorso “securitario” si impone divieto a tutto ciò che è “nuisance” che può infastidire il “frequentatore privilegiato” del centro, che è l’uomo d’affari, colui che fa shopping, e che lavoro in uno di questi smart office. C’è anche il discorso di fare di Nairobi una “world class city” e quindi, tutte queste attività informali non fanno parte della buona immagine della città che si vuol dare. Ma tornerò su questo “immaginario” nei prossimi appunti.
Ma chissà che fine hanno fatto i bambini. Mi dicono che sono stati messi in un orfanatrofio, dove stanno bene, sono sfamati, istruiti… alcuni scappano, ma la maggior parte rimane… immagino sia con le buone che con le cattive…
Gli ambulanti si accalcano nelle strade laterali, nella down town o si avventurano lanciandosi tra le macchine sulle strade. Al di fuori del recinto della business city, è sostanzialmente tutto immutato, anzi forse la povertà è aumentata alla faccia del comune che ambisce a trasformare Nairobi in "una world class city".
Nel dibattito circa questa rigenerazione del centro, la controversia è tutta dedicata all’aspetto “ambientale” e non a quello sociale. Cioè si contesta la validità di dotare Nairobi di così tante aree verdi e di limitare allo stesso tempo la cura all’Ururu Park.
Ecco un paio di video su You Tube:
(traduzione di Fabrizio Bottini)
Una simulazione di città, grande come tutto il centro di San Diego, è stata costruita in un angolo solitario del deserto nella California meridionale, per allenare le forze armate al combattimento in ambiente urbano. Questo centro allenamenti del costo di 170 milioni di dollari è stato presentato ufficialmente martedì alla base militare di Twentynine Palms, circa 150 km a nord-est di San Diego. Complessivamente gli edifici sono 1.560, e consentiranno alle truppe di apprendere e perfezionare tecniche utili in molte parti del mondo, secondo i responsabili del Corpo dei Marines. Nel paese sono già stati costruiti finti villaggi afgani per preparare le truppe prima delle missioni. Il nuovo complesso è fra i più grandi e completi fra quelli realizzati. Ci possono operare in contemporanea oltre 15.000 uomini fra marines e marinai.
Nota: qui in una ventina di diapositive le travolgenti passeggiate urbane dei nostri eroi (f.b.)
Una città dove sarà possibile condurre uno stile di vita moderno nel contesto della tradizione. È questo slogan che ti accompagna quando ti avvicini ai cantieri di Rawabi, in arabo «le colline», la new town palestinese da 6mila appartamenti che, grazie un finanziamento da 800 milioni di dollari (in parte di provenienza qatariota), sta sorgendo tra Ramallah e Nablus e situata a metà strada tra Tel Aviv e Amman. Sino ad oggi hanno chiesto di viverci oltre 8 mila palestinesi, che si sono prenotati online.
Commercianti, impiegati pubblici, professionisti, ossia la piccola borghesia attirata dai centri commerciali, i boulevard e i caffè, dalla vicinanza all'università di Bir Zeit, dal verde, dai campi sportivi, dalle scuole pubbliche e private, dal cinema ma anche dalle moschee e dalla chiesa che promette la «Massar», l'impresa edile di Bashar Masri, parente di Munib Masri, l'uomo d'affari palestinese più ricco e influente. «Questo progetto è parte della costruzione nazionale - dice Masri - che non è solo politica ma vuol dire significa anche offrire una miglior qualità di vita alle persone e rilanciare l'economia creando migliaia di posti di lavoro».
All'inizio verranno venduti appartamenti per 25 mila palestinesi, in seguito per altri 15mila, grazie a prezzi abbordabili e a mutui che le banche offriranno a basso interesse oltre a quello finanziato dall'Overseas Private Investment Corporation che permetterà di acquistare un appartamento per 700 dollari al mese. Un debito mensile che Masri definisce «sopportabile» e che invece la maggior parte dei palestinesi non può permettersi.
Osservandola da lontano la new town, «fiore all'occhiello» per l'Anp e per il suo premier Salam Fayyad, assomiglia parecchio alle colonie israeliane che si incontrano nei paraggi. Stesso stile, stessi materiali, stessa luce accecante della pietra bianca e (troppi) tetti rossi. Insomma, è una sorta di colonia palestinese contrapposta a quelle ebraiche. Non sorprende perciò che il progetto sia stato accolto freddamente da quella parte di architetti e pianificatori palestinesi indipendenti che avrebbe preferito che la nuova città avesse un look più arabo, più vicina alle belle ed antiche costruzioni palestinesi. Senza dimenticare le critiche degli ambientalisti che sollevano dubbi sulla scelta di costruire Rawabi in una delle poche aree naturali che resistono agli assalti della colonizzazione israeliana della Cisgiordania. Altri hanno criticato il massiccio coinvolgimento d'Israele nel giro di affari ma le principali obiezioni sono venute dai quei contadini che si sono opposti alla cessione dei propri terreni: circa 1/5 di Rawabi viene costruito su terreni requisiti sbrigativamente dall'Anp.
A battersi con più accanimento contro Rawabi sono però i coloni e i loro sostenitori nel governo Netanyahu e alla Knesset. Insieme conducono una battaglia senza sosta contro la nuova città palestinese che, dicono, provoca danni all'ambiente e mette a rischio gli insediamenti israeliani. Accuse paradossali se si considera che i coloni sono i principali devastatori della natura in Cisgiordania dove vivono illegalmente in violazione delle risoluzioni internazionali. Lo scorso autunno Ghilad Erdan, il ministro israeliano dell'ambiente, ha chiesto una approfondita verifica delle ripercussioni della costruzione di Rawabi, in particolar modo per quanto riguarda la discarica dei rifiuti.
Erdan ha mai mostrato tanto rigore e interesse nei confronti delle colonie ebraiche edificate sulle colline palestinesi? Forse, non si sa. È certo invece che Rawabi si trova in buona parte in «area B», la zona della Cisgiordania sotto controllo civile dell'Anp e dove Israele ha il controllo di sicurezza. Le sue strade di accesso perciò si trovano sotto totale controllo dell'esercito di occupazione e dei coloni. La campagna anti-Rawabi si è intensificata da quando si è appreso che una dozzina di aziende israeliane avevano accettato di firmare contratti di forniture con la «Massar», sottoscrivendo, a quanto pare, una clausola che le impegna a non lavorare contemporaneamente negli insediamenti colonici.
Lo scorso anno l'Anp ha lanciato una campagna per il boicottaggio delle colonie e dei loro prodotti che, almeno nella sua fase iniziale, ha conseguito risultati significativi e mandato su tutte le furie i settler israeliani e il governo Netanyahu. Ora, a distanza di mesi, l'offensiva anti-colonie è scemata, sotto l'urto delle pressioni americane.
È stato lo stesso Bashar Masri a rivelare qualche settimana fa che oltre alle 12 società israeliane avevano firmato il contratto proposto dalla «Massar». Non solo. La sua impresa è stata contattata da un'altra ottantina di imprese israeliane che vogliono vendere i loro prodotti e materiali e si dicono disposte a rispettare la clausola sugli insediamenti. Rivelazioni che hanno scatenato un putiferio in Israele. Alcune decine di deputati di diversi partiti si sono prontamente attivati per lanciare una campagna di boicottaggio delle società che si rifiuteranno di avere rapporti commerciali con gli insediamenti colonici. Le imprese impegnate a Rawabi, a cominciare dalla Itung Blocks, per evitare guai, hanno dovuto recitare il mea culpa e la professione di fede agli ideali del sionismo e alla colonizzazione. «Siamo un'azienda israeliana al 100% e partecipiamo alle costruzioni in Eretz Israel (la biblica Terra di Israele)», ha comunicato l'amministratore delegato della Itung, Sasson Har-Sinai. Ma le sue assicurazioni non bastano ai coloni che vogliono mettere alla gogna tutte le imprese «traditrici».
Nota: il fatto che la città nuova sia una fotocopia del sogno americano non è sfuggito a suo tempo alla stampa internazionale, come spiega bene questo articolo dell'australiano The Age tradotto per Mall (f.b.)
La signora dell’architettura è già al lavoro sulla nuova Banca Centrale. E dal governo iracheno arrivano altre offerte
Hadid sogna di riprogettare la capitale del suo Paese
Il suo sogno sarebbe «ricostruire il piano urbanistico di Bagdad dall’inizio, pianificarlo dalle fondamenta». Ma per ora si limita a puntare tutto sulla progettazione dell’edificio della Banca Centrale nel cuore della capitale. In agosto ha vinto la gara aperta a tutti i più grandi studi di architettura mondiali. «È un primo passo. Ci sono altre offerte da parte del governo iracheno. Devo ancora valutarle con attenzione», spiega Zaha Hadid da Londra. Sarebbe la controrivoluzione architettonica nell’era della democrazia contro quella della dittatura. Come Saddam Hussein tra gli anni Settanta e Ottanta fece radere al suolo i quartieri storici della capitale per imporre la sua visione dell’impero in stile assiro-babilonese, così l’architetta cresciuta nella diaspora occidentale, proiettata allo zenit dei nuovi design più avveniristici, pensa di ridare alla città la sua antica dimensione umana.
Un nome che è garanzia d’eccellenza. Nata a Bagdad nel 1950 ed emigrata sin da bambina con la famiglia all’estero, Zaha Hadid ha studiato matematica a Beirut, prima di laurearsi a pieni voti alla Scuola di Architettura di Londra e quindi insegnare a lungo nelle migliori università americane. Lavoro, impegno e grandi successi internazionali sono poi arrivati a cascata. Da quando nel 2004 ricevette il «Pritzker Architecture Prize», il premio Nobel nel suo campo, viene definita la «donna architetto più famosa al mondo». Tra le realizzazioni più note: il trampolino da sci di Innsbruck, il ponte a farfalla di Saragozza, gli uffici centrali della Bmw a Lipsia, il centro acquatico per le Olimpiadi di Londra nel 2012. In Italia ha all’attivo almeno sei progetti maggiori, tra cui il Museo delle Arti Contemporanee di Roma inaugurato l’anno scorso e il complesso City Life a Milano.
Pure, non è strano che la figlia per eccellenza dei circoli più cosmopoliti dell’intellighenzia contemporanea guardi adesso alla «sua» Bagdad come a una grande sfida. «Non ci sono mai tornata dalla mia partenza da bambina. Spero di visitarla, presto. Ma ancora non ho fissato una data», confida. Un anno fa sembrava tutto più facile. Le grandi operazioni militari americane d e l 2007-8 avevano fatto diminuire sangue e massacri ai minimi storici dalla guerra del 2003. Si sperava che le elezioni parlamentari dello scorso marzo avrebbero dato una qualche stabilità. Non è stato così. Il prolungarsi del braccio di ferro tra sciiti, sunniti e curdi per la formazione del nuovo governo è terminato solo una settimana fa e con esiti ancora molto incerti. Nel frattempo gli attentati, specie contro cristiani e sciiti, hanno riacceso le vecchie paure. La Hadid cerca di non parlare di politica. Ma non nasconde che il Paese è ancora immerso sino al collo in un «sacco di gravissimi problemi». Memore dei disastri degli ultimi trent’anni e dello sfascio urbanistico, l’architetto parla da professionista: occorre pianificare tutto da capo. «La prova del nove sta nella volontà del governo centrale di lanciare una nuova pianificazione urbana. L’Iraq necessita di un onnicomprensivo progetto di opere pubbliche che ripensi il Paese dalle macerie in cui è affondato».
La sfida è aperta. Nel 1991 lo scrittore e architetto Kanan Makiya appena fuggito a Londra dall’Iraq pubblicò un v olume, « I l Monumento», con lo pseudonimo di Samir al-Khalil in cui illustrava la grandiosità aggressiva e militaresca dell’architettura imposta da Saddam. Era una durissima critica contro gli Albert Speer iracheni. Vi si riprendeva il tema sempre attuale della strumentalizzazione del paesaggio urbano al servizio della dittatura. Oggi la Hadid vorrebbe davvero cambiare le coordinate di quel periodo. L’Iraq è in ginocchio. Ma non è un Paese del terzo mondo. Le scuole di artisti e scultori hanno riaperto. Le università funzionano. L’embargo internazionale è terminato. Si può volare a Bagdad direttamente da Parigi, Istanbul, Amman, il Kuwait e altri scali sono in apertura. Ecco la speranza: «Il governo vorrà ricostruire musei, teatri e biblioteche. Noi potremo esserci».
Maledetti architetti. Sarà anche vero che i prosperosi abitanti di Abu Dhabi, sprofondati per decenni nelle poltrone di petrodollari, stanno scalando la classifica dell'obesità. Ma bisogna essere cattivi dentro per costringerli a inforcare le scale cancellando ogni traccia di ascensore. Dice: l'avete voluta la prima città completamente ecosostenibile? E in effetti l'argomentazione di Norman Foster, il maestro che ha progettato da zero la città futurista di Masdar, lì nel deserto, non fa una piega.
Però il particolare, che tecnicamente potrà pure essere piccolo, illustra alla grande la filosofia inevitabilmente dirigistica che si nasconde dietro alle planned city, le città su cui dovremmo modellare il nostro futuro ma che nella realtà si rivelano sempre più quello che Masdar riassume già nella sua collocazione geografica. Cattedrali nel deserto, appunto. Città concepite con le migliori intenzioni ma irrimediabilmente disconnesse dal tessuto sociale circostante. Città fantasma.
Prendete proprio Masdar. Maestro Foster, l'architetto inglese che ha ridisegnato Londra piantandoci nella skyline quel pisellone della Millennium Tower, aveva annunciato tre anni fa la commessa miliardaria degli sceicchi con dichiarazioni roboanti. «Le ambizioni ambientali, zero carbone e niente sprechi, sono uniche al mondo - aveva detto Foster - siamo di fronte a una sfida che mette in discussione dalle fondamenta la sapienza urbanistica tradizionale».
L'opera, ci mancherebbe, è da record. La prima delle otto sezioni in cui è articolato il progetto è stata appena completata e Masdar ha subito svelato le sue meraviglie. Il 90 per cento dell'energia arriva dagli impianti solari, le auto elettriche sono attivate da un computer di bordo e tutto il traffico scorre sotto terra - costringendo appunto gli abitanti a riemergere dal sottosuolo a piedi. L'impianto fotovoltaico, l'inceneritore, le riserve acquifere: tutto è finito fuori città. Disegnando una città ideale che il suo creatore non teme di paragonare a un parco giochi: bella e finta come Disneyland.
Peccato che la città ideale di Foster, dice Nicolai Ouroussoff, il critico d'architettura del New York Times che l'ha visitata, «rifletta anche la mentalità da comunità-rinchiusa che si è andata espandendo come un cancro in tutto il globo per decenni». Cioè? «La sua purezza utopica è ancorata nella convinzione che l'unico modo per creare una comunità davvero armoniosa, verde o di qualsiasi altro tipo, è di tagliare ogni legame con il resto del mondo». Una gabbia? Dice Saskia Sassen, che dalla cattedra di sociologia della Columbia di New York ha studiato La città globale, come recita il titolo di un suo famoso libro, che quella gabbia in realtà all'inizio era un giardino: «L'obiettivo era proprio quello di umanizzare l'ambiente. La città giardino nasce così. Ma diventa subito città-cancello».
Città giardino, purezza utopica. Tommaso Moro ci aveva avvisati cinque secoli fa. Foster, per esempio, ha voluto la sua Masdar su un altopiano - per sfruttare la tradizione araba delle gallerie del vento e favorire così una ventilazione naturale - e rigorosamente quadrata: simbolo di perfezione. Beh: ricordate la descrizione della città di Utopia? «Essa giace su un lato di una collina, anzi precisamente su un altopiano. Il suo aspetto è quasi quadrato. E ogni casa ha una porta sulla strada e una sul giardino...». Il problema è che utopia, si sa, non fa rima con democrazia.
Guardate Astana, la città nel bel mezzo di quel particolare deserto che è la steppa del Kazakistan - in un'area che per una tragica ironia della storia ospitava Akmolinskii, uno dei più temibili gulag di Stalin. Anche qui, come a Masdar, sono i soldi del petrolio ad aver richiamato le grandi firme dell'architettura. Ma da Kisho Kurokawa in giù, le sue opere finiscono per cantare le lodi del presidente Nursultan Nazarbayev. Perché poi più che alla vivibilità della gente comune è all'esibizione del potere che le città ideali sembrano improntate.
Per carità, il concetto è vecchio come il mondo. «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome», recita Genesi 11, 1-9. È il mito della Torre di Babele, e non si può proprio dire che il concetto di città sia stato benedetto dal Signore Iddio, «che li disperse di là sulla terra, ed essi cessarono di costruire le città». Per poco.
La storia della civiltà negli ultimi cinquemila anni, diceva Lewis Mumford, è la storia della lotta «tra Necropolis e Utopia»: inseguendo il sogno di «un nuovo tipo di città, che ci arricchisca e ci spinga verso lo sviluppo dell'umanità».
Il grande storico scriveva così all'alba degli anni '60. Proprio quando Louis Kahn concepisce il più grande complesso legislativo nel mondo, Jatyo Sanshad Bhabn. Che se tecnicamente non è una vera planned city - è costruita in un sobborgo di Dhaka, nel cuore del Bangladesh - è inevitabilmente una città nella città, e naturalmente la parte più sicura di quella metropoli-mostro da 15 milioni di persone. E sicura appunto perché completamente isolata dal resto.
Insomma gli esperimenti sono andati troppo lontano dalla città ideale che nel quindicesimo secolo sognava Enea Silvio Piccolomini, l'umanista che diventato Papa Pio II - la legge è sempre quella: arte e potere - fondò in Toscana Pienza, il «prototipo» della planned city, la vivibilissima città umanista che ha alimentato per secoli le ambizioni degli architetti: giù giù fino al mitico Le Corbusier.
L'esponente più noto di «quel nuovo fenomeno senza precedenti: l'architetto che è già famoso senza aver costruito niente», secondo la velenosa definizione di Tom Wolfe, è anche quello che più di tutti ha creduto all'utopia delle cattedrali nel deserto. Ma in Maledetti architetti Wolfe è troppo severo. In fondo Chandigarh, la prima planned city indiana, disegnata proprio dal maestro svizzero, è un esperimento che funziona ancora oggi. L'unica città del subcontinente in cui il traffico non va in tilt di default, grazie ai boulevard con cui "Corbù" aveva schiacciato la tradizione indiana delle labirintiche cittadelle indiane. La città fantasma può popolarsi di umanità? «La città è un sistema complesso, che dà origine a reazioni inaspettate che nessun pianificatore può prevedere», dice ancora Sassen. Tra vent'anni, più di 5 miliardi di persone vivranno in agglomerati che assomiglieranno sempre più alle megacities spaventose come Lagos o Karaki - aggiunge il critico di Time, Bryan Walsh - piuttosto che nelle metropoli come le conosciamo: New York, Londra, la stessa Pechino.
Ma l'alternativa sognata non si vede. E chissà per quanto tempo ancora le cattedrali nel deserto continueranno ad assomigliare agli incubi di J. G. Ballard, il romanziere che nei ghetti di lusso stile Masdar ha immaginato così tanti orrori da farci accucciare per sempre nelle nostre casette, in queste nostre città eco-insostenibili e qualunque.
Titolo originale: The Geometry of Sprawl – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Nel suo romanzo L’incanto del lotto 49 (The Crying of Lot 49) Thomas Pynchon descrive un suburbio: “più che una città chiaramente identificabile era un agglomerato di concetti – padiglioni censimento, distretti cedole obbligazioni speciali straordinarie, centri commerciali, tutti attraversati da una rete di strade di accesso all’arteria principale”. La protagonista, Oedipa Maas, “guardò dall’alto di un pendio aggrottando gli occhi per il troppo sole, alla vasta distesa di fabbricati spuntati tutti insieme come un campo ben tenuto, dalla terra marrone e opaca” scrive Pynchon, “e pensò a quella volta che aveva aperto una radio a transistor per cambiare una pila e s’era incontrata col suo primo circuito stampato. L’ordinato vortice di strade e case, viste da quell’altezza, le saltava agli occhi con la stessa insospettata e stupefacente chiarezza del circuito stampato”. Questo sistema architettonico che le si dispiega davanti comunica, secondo Pynchon, un “senso e un geroglifico di significati riposti”.
Christoph Gielen, fotografo di origine tedesca, documenta geroglifici del genere da un elicottero — come le carceri o i suburbi — da cinque anni. Gli spazi che sceglie si distinguono per la chiarezza: scatole, nodi, labirinti, semicerchi, sottolineature della nuda topografia che li circonda.
Gli scatti fotografici di una prigione si devono fare in fretta, sottolinea Gielen, presi al volo durante l’equivalente aereo di un solo passaggio in auto: se no, la sigla di identificazione di un elicottero che sta fermo un po’ troppo potrebbe essere notata dalle guardie, e inevitabilmente susciterebbe domande. Così le sue visite sono calibrate un po’ come attacchi di guerriglia, anche se si tratta di cose formalmente legali, e sarebbero comunque facilmente disponibili al grande pubblico le vedute dal satellite dei medesimi luoghi.
Attraverso l’obiettivo di Gielen, il cortile dell’ora d’aria diventa solo un’altra gabbia, claustrofobica protesi dietro la prigione vera e propria; qualunque libertà o occasione fisica possa offrire, appare adeguatamente assurda da questa altezza.
Nelle spedizioni suburbane di Gielen, il metodo è di iniziare dalla ricerca via satellite, studiando il paesaggio dettagliatamente fin quando si individua una geometria adeguatamente e visivamente provocatoria. Poi ci si avvicina agli ambienti scelti con qualche sopraluogo in auto, fingendosi un potenziale acquirente di casa e facendo un giro insieme a un agente immobiliare, per capire le aspirazioni profonde dell’area: il suo modo di considerarsi, o quantomeno l’immagine che emerge dagli opuscoli promozionali e dagli annunci di vendita. Lungi dall’umanizzare un po’ l’argomento, tutto questo aggiunge un altro livello di astrazione, in cui l’estetica del paesaggio – o meglio la sua assenza - si fa calcolo economico. Infine la scelta di Gielen di mantenere anonimi i suoi spazi ne aumenta ancora di più ’s l’estraneità.
I suburbi dell’area Sun Belt (Arizona, Nevada ecc. n.d.t.) proposti da questi scatti sono “assolutamente compiuti” come spiega Gielen; in parecchi casi “non si trasformano più”. Statici, cristallini, inorganici. In realtà, le loro vie scorrono fra case di pensionati: luoghi in cui ci si trasferisce dopo essere stati ciò che si voleva essere. In senso proprio, non si tratta neppure di sprawl. Ma di luoghi a sé: terminali spaziali di un viaggio del destino.
Osservando il lavoro di Gielen, viene la tentazione di proporre una nuova branca delle scienze umane: la sociologia geometrica, studio di null’altro se non le forme degli spazi che non abitiamo. Il suo programma di ricerca sarebbe di chiedersi perché mai queste forme, angoli, geometrie, si ripropongano tanto coerentemente dagli insediamenti preistorici sino al suburbio estremo. Sono forse, spazi come questi, la ricerca di una estetica, una probabilità statistica, una consapevole manipolazione di confini di proprietà da parte della pianificazione urbanistica locale, o il risultato di un po’ di tutte queste componenti? Oppure ancora, si tratta dell’espressione di qualcosa di più profondo nella cultura e nell’inconscio umano, qualcosa che si riesce a vedere solo da grandi altezze?
QUI (sito del New York Times) le suggestive diapositive del lavoro di Gielen (f.b.)
Se vuoi capirci qualcosa c’è sempre un metodo infallibile: segui i soldi. Lo consigliava ai giornalisti d’inchiesta in Tutti gli Uomini del Presidente l’infiltrato anonimo Gola Profonda, ed è ovviamente lo strumento principale per iniziare a leggere le intenzioni di qualunque decisore, oltre le chiacchiere sui grandi principi ispiratori e le dichiarazioni sugli obiettivi strategici.
Dopo gli incendi di Tottenham, seguiti da disordini assai più gravi in altri quartieri e città britanniche, politici e stampa hanno fatto a gara per chi arriva prima a capire e spiegare in tutto o in parte ciò che sta accadendo. Il pensiero progressista (o sedicente tale, chissà) a sottolineare le radici tutte sociali ed economiche della rivolta, da cercare nell’emarginazione dei giovani cittadini e nell’assenza di prospettive future. Quello conservatore a ribadire ostinato: a) non esiste alcuna giustificazione economica e/o sociale a comportamenti illegali, perché b) i cittadini hanno già gli strumenti adeguati per esprimere le proprie domande e trovare adeguata risposta pubblica. Saltiamo a piè pari, qui, la terza posizione di quelli che in pratica si limitano a usare strumentalmente il fatto contingente delle rivolte britanniche in discutibili per quanto legittime proiezioni globali, vuoi sul tema dello slum, che della crescita economica diseguale, che della crisi o attualità del multiculturalismo.
Follow the Money! Si diceva. Fra i principali bracci armati del progetto di Big Society che ha portato David Cameron alla carica di primo ministro dopo lustri di predominio laburista, spicca sicuramente Eric Pickles, titolare del ministero delle Aree Urbane responsabile per le amministrazioni locali, il decentramento, la pianificazione territoriale e urbanistica, la rigenerazione e tante altre cose. Fra i suoi primissimi gesti di governo se ne possono ricordare uno grosso e uno piccolo, entrambi assai significativi: l’abolizione degli enti regionali, l’introduzione degli spazi urbani condivisi. Il primo per affermare una specie di leghismo al contrario (insomma l’odio ideologico per tutto quanto evochi specificità non strettamente locale) ha messo in grossa difficoltà programmi territoriali come quello della realizzazione di case. Il secondo per affermare il principio della cosiddetta strada completa, ovvero la non segregazione del traffico e delle funzioni urbane, ha creato e crea guai a automobilisti, pedoni, e soprattutto fasce deboli, dai portatori di disabilità a bambini, anziani ecc. È Pickles con suo Localism Bill e la “semplificazione” in corso della Planning Policy a dare senso concreto al cosiddetto conferimento diretto di poteri al cittadino alla base della cameroniana Big Society.
È Pickles ad aver approvato urgentemente il pacchetto di interventi sui quartieri colpiti dai comportamenti di “criminalità comune” delle rivolte di questi giorni. Follow the Money!
Una nota ministeriale dell’11 agosto 2011 descrive gli stanziamenti: oltre 11 milioni di euro per sostenere i costi delle amministrazioni locali nel ripulire, ripristinare, rendere accessibili e sicuri quartieri e strutture varie; circa 23 milioni di euro per un “programma mirato alle arterie commerciali” per ricostruzioni promozione e rilancio degli esercizi; ulteriori stanziamenti per sostegno a eventuali esenzioni fiscali locali, imprese in difficoltà, famiglie provvisoriamente prive di alloggio come conseguenza dei danni delle rivolte. Tutto condivisibile, no? Parrebbe proprio un adeguato pacchetto di interventi di emergenza per riparare ai danni, ma manca qualcosa. Mancano le dichiarazioni con cui il Ministero accompagna il decreto, ad esempio quelle del sottosegretario alla casa Grant Shapps: “ Chi in questi ultimi giorni ha partecipato alle rivolte e ai saccheggi deve sapere che le sue azioni avranno delle conseguenze. E ascoltare con attenzione quello che dico: se abitate in una casa popolare e si scopre che avete partecipato alle rivolte, la vostra follia di un momento può avere effetti devastanti per il resto della vita. Le case popolari rappresentano una risorsa preziosa, i lavoratori contribuenti che contribuiscono a sostenerle si stanno giustamente chiedendo se chi ha partecipato a saccheggi e distruzioni debba poterne godere”.
Hai sgarrato amico, e hai chiuso. A parte il linguaggio da film, più o meno il messaggio si potrebbe proprio tradurre così, e chiarisce molto meglio le intenzioni di Cameron, o le letture dei commentatori di centrodestra: bisogna estirpare dai quartieri la feccia di lazzaroni disadattati per mestiere, e lasciarci solo i cittadini meritevoli. Ancora tutto Ok se si trattasse appunto di una operazione di polizia, ma questa è una politica urbana, una specie di intervento straordinario per la riqualificazione integrata, lo si potrebbe pure definire. A colpi di minacce e arresti di massa? Pare di si. E poi a colpi di investimenti per il rilancio delle attività economiche, nonché delle famiglie che le gestiscono. Sparito il cittadino, a quanto pare, resta il contribuente. L’esatto complemento, non a caso, del consumatore coatto ben definito nel contesto specifico da Zygmunt Bauman.
È questa la decantata Big Society in cui pian piano in una specie di radiosa anarchia postmoderna il governo e la politica organizzata si ritirano dalla vita quotidiana lasciando spazio agli individui, portatori attivi di bisogni e diritti? Parrebbe proprio di sì, ad esempio se si accosta questo specifico caso a tanti altri piccoli segnali che gli ultimi tempi confermano, a partire per esempio dalle tragicomiche ma significative ordinanze dei sindaci italiani di qualche estate fa. Ed è davvero in buona parte un’idea di società squisitamente reazionaria, specie se paragonata al concetto da cui con poco rispetto ha preso a prestito il nome, la post-rooseveltiana Great Society delineata da Lyndon Johnson negli anni ’60 del secolo scorso, giusto quando i genitori di David Cameron devono aver deciso di mettere al mondo il futuro grande leader.
Great Society significava integrazione nel cosiddetto percorso del sogno americano anche di chi ne era tradizionalmente escluso, ovvero le minoranze razziali urbane dei ghetti, che la sola liberazione dalla schiavitù e inserimento nel mercato del lavoro dopo alcune generazioni evidenziava un sostanziale fallimento in tale senso. Da qui programmi specifici come il programma Model Cities, significativamente varato nel 1966: l’anno successivo alla rivolta metropolitana di Los Angeles/Watts, e guarda un po’ l’anno di nascita di David Cameron. Model Cities come ci si può facilmente immaginare non era niente di comunista o rivoluzionario, solo mirava (in un modo simile a quanto succede ora con i programmi per le città sostenibili ad esempio) al coordinamento degli interventi territoriali delle varie agenzie, per far sì che ad esempio la riqualificazione urbana pur nel segno della classica demolizione e ricostruzione di solito nelle forme razionaliste poi diventate simbolo di fallimento (vedi la famosa demolizione anni ’70 delle case Pruit-Igoe di St. Louis) si accompagnasse da una lato a interventi sociali di animazione e formazione, dall’altro ad attivare processi democratici partecipativi. Soprattutto, il programma si rivolgeva a un universo di cittadini, aveva come obiettivo la comunità, la sua costruzione e mantenimento. Non pensava al mondo come a un luogo dove si lavora, si produce reddito, si consuma, e basta. Dove al massimo c’è qualche casta di predestinati, cooptati, miracolati, che chissà perché svettano au dessus de la mêlée.
Come sostiene Jane Jacobs in una delle sue opere meno conosciute in Europa, Dark Age Ahead (Random House 2004), uno dei fattori che conducono fatalmente al crollo di una civiltà, alla cancellazione totale delle sue conoscenze traguardi e consapevolezze, e a secoli oscuri da cui non si sa chi e come potrà uscire, è appunto il crollo della comunità. Fatta di integrazione e cooperazione quotidiana fra individui, nuclei familiari, conoscenze diffuse, sulla base di beni comuni, spirito di condivisione, istituzioni democratiche, e anche infrastrutture fisiche che sono base e prodotto di questo complesso di relazioni. Dove, soprattutto, ammucchiare grandi e piccole entità di quattrini e potere è al massimo uno strumento, non un fine in sé e per sé. E dove qualsiasi politico che in un quartiere vede solo file di negozi, al massimo con sopra la casa del proprietario e di fianco quella dei clienti, si auto classifica come imbecille. Follow The Money! Guardate dove investono, i grandi decisori, e capirete cos’hanno davvero in mente: loro, o chi li manovra.
La parolina magica non manca mai, nella efficace pubblicistica sempliciona e ahimè spesso vincente dei grandi studi di architettura. Stavolta si chiama Earthscraper, letteralmente gratta-terra, un grattacielo che come il proverbiale calzino sporco viene miracolosamente rivoltato e transustanziato. Sparisce nel sottosuolo, invisibile sullo skyline (ma piuttosto vistoso nello earthline, verrebbe da dire, no?), acquattato come una gigantesca patata nei meandri sotterranei della metropoli.
La proposta è dello studio BNKR Arquitectura per il centro storico di Città del Messico, e si presenta come versione tecnologicamente avanzata e a impatto zero, nientepopodimeno, di un classico locale come la piramide azteca (facile immaginarsi altri che alla piramide azteca sostituiscono, a piacere, la cattedrale gotica, la pagoda buddista ecc.). Come sempre succede in questi casi le immagini sono abbastanza carine, con le cascate di verde che spariscono giù verso il centro della terra anziché inerpicarsi verso il cielo, delicati riflessi di vetro e acciaio, le solite piccole sagome umane a ricordarci che là dentro poi ci dovrà pur stare qualcuno a far qualcosa.
Ma poi, con un piccolo sforzo, proviamo a staccarci da quell’immagine e a evocarne altre, in una qualunque delle nostre città e centri storici. Ad esempio gli autosilo proliferati dopo la legge nazionale sui parcheggi, che quasi ovunque hanno trasformato ex piazze o giardini in caricature semidesertiche, magari con qualche vecchietto nostalgico e inconsapevole che ancora si aggira lì attorno spazialmente smarrito, alla ricerca del tempo perduto panchina inclusa. Tanto per fare un esempio famoso, pensiamo al parcheggio sotterraneo di Sant’Ambrogio a Milano, eredità del centrodestra morattiano lasciata come patata a orologeria tra le mani della giunta Pisapia: dove sono finiti i luccichii dello Earthscraper, dalle parti della pusterla e della basilica romanica? Probabilmente lì luccicano solo i conti correnti degli speculatori. Altrove, spesso, pure.
Allora lasciamo che le sognanti prospettive dello studio BNKR Arquitectura facciano il loro mestiere di cartellone pubblicitario degli interessi immobiliari, cercando di rispondere nel modo più equilibrato e propositivo: posto che davvero sia tecnicamente possibile realizzare giganteschi lavori (80.000 mq di uffici!!) rispettando gli spazi storici, e farlo anche con cantieri gestiti ragionevolmente, poi che ne sarà dei flussi di traffico generati dalla patata-edificio? Gli evocativi renderings al solito evocano un mondo simile a quello delle casalinghe pubblicitarie quando ripuliscono luride stanze enormi con pochi gesti, senza dismettere il sorriso e i tacchi a spillo. Oppure quelle famigliole che si abbuffano di grassi e carboidrati fast-food sugli schermi televisivi, mantenendo chissà come un invidiabile peso forma. Il nostro mestiere dovrebbe essere invece quello di provare a digerirla, la patatona, ponendo domande adeguate ai promotori nascosti dietro gli studi archistar.
QUI una rassegna di immagini dello Earthscraper messicano
| Circuito di Buronzo (Vc) |
Su queste pagine abbiamo già proposto, tempo fa, una serie di immagini aeree dello sprawl di Christoph Gielen, e quindi non vale la pena di riprodurre la traduzione italiana dell’articolo con cui stavolta Mattew Knight della CNN descrive le intenzioni dell’artista, le sue prospettive critiche, le specifiche tecniche di ripresa.
Vale solo tornare, ancora sulla potenza delle immagini, che ci fanno apparire per quello che siamo, o perlomeno per quello che siamo da punto di vista di chi ci ha ficcati dentro a quella gabbia: cavie da laboratorio, in cui lo scopo dell’esperimento non è scientifico, ma di spietata mungitura: dei nostri soldi, del nostro cervello, e en passant anche delle risorse del pianeta.
Qui il LINK alla presentazione completa allegata all’articolo sul sito della CNN (f.b.)
GoogleEarth è un inaspettato strumento di conoscenza, consente di andare a sbirciare un po’ ovunque e farsi delle idee. E chissà se ai nostri eroi della modernizzazione stile anni ’60 (da Gassmann che sorpassa e compagnia bella) piacerebbero queste immagini, di autentico “sviluppo del territorio” inteso come nucleo centrale di qualunque produzione di ricchezza, più gru si vedono più c’è da stare felici.
L’idea di sbirciare in un angolino del suo paese alla ricerca di qualcosa di particolare è venuta al giornalista del Boston Globe Alan Taylor, dopo aver letto l’ennesimo articolo sulla recessione, i pignoramenti, i proprietari costretti a restituire la casa alla banca e lasciare i quartieri vuoti.
A volte, quei quartieri non sono neppure terminati, solo linee strampalate tracciate sulla nuda terra, un po’ di asfalto su rotatorie dove nessuno farà mai inversione, e poco altro.
Il posto è la Florida, da sempre paradiso dei costruttori e immobiliaristi, un po’ come una versione vitaminizzata di certe coste del Mediterraneo. E adesso? Niente paura, ci sarà sempre qualcuno pronto a mostrare, tabelline alla mano, che va tutto bene, madama la marchesa.
Per adesso, però, si può guardare e provare a farsi un’idea diversa. Fatelo, quelle che abbiamo inserito qui sono pallide sembianze di ciò che GoogleEarth rivela.
Poi, solo poi, rileggersi le lodi dello sprawl come modello ideale di sviluppo per tutta la famiglia, ad esempio nella lunghissima serie di articoli del suo paladino Joel Kotkin.
Rubiamo il bel titolo di un libro di Vezio De Lucia per presentare queste inquietanti immagini di Singapore. Sono immagini raccolte dalla rete e montate in un power point da Stefano Fatarella.
Ci sembra che rappresentino con efficacia un pezzo di quella “infrastruttura globale” descritta da Saskia Sassen: l’insieme delle reti tecnologiche, dei luoghi eccellenti, delle attrezzature di livello mondiale che garantiscono la vita e le attività dei gruppi sociali che detengono il potere.
Una delle due componenti essenziali della ”città globale”, la cui seconda componente è rappresentata dai flussi dei popoli e dei gruppi sociali che la miseria ha “liberato” dalla possibilità di risiedere nei luoghi della loro origine, proseguendovi le attività tradizionali, e ha ridotto così a mera forza lavoro disponibile, e perciò sono idonei a essere utilizzati nei luoghi dove è più opportuno sfruttarne il basso costo.
E nemmeno a Singapore è tutto oro ciò che luccica ...
Fiero di essere italiano? Cittadino di un Paese dall'economia immobile, afflitto da un'evasione fiscale sterminata (oltre 100 miliardi di euro l'anno secondo Il Sole 24 Ore), intento a tagliare le spese in ricerca, cultura, istruzione e tutela? Dove la principale stampella della maggioranza di Governo è un partito che minaccia la secessione? Dove crescono la disoccupazione giovanile e l'emigrazione dei ricercatori, e il governatore Draghi parla di "macelleria sociale" in atto? Sarebbe più facile, per questo "tema svolto", inventariare dubbi e imbarazzi, e non dichiarare fierezze. Eppure...
Eppure mi capita di sentirmi fiero di essere italiano. Due piccole storie recenti. Prima scena in Scozia, dove tutti parlano del tesoro perduto di William Blake. Ecco, in due parole, la storia: nel 2001 un libraio compra per 1.000 sterline da un antiquario di Glasgow diciannove disegni acquarellati di Blake, una serie che il grande artista visionario aveva composto nel 1805 per illustrare il poema The Grave di Robert Blair.
L'incisore fu l'italiano Luigi Schiavonetti, ma almeno sette di quei disegni non furono mai incisi. La Tate Gallery offre subito 4,2 milioni di sterline, ma il proprietario non si accontenta, chiede otto milioni. La Tate non li ha, e dunque (nel rispetto delle leggi del Regno Unito) i disegni vengono messi all'asta uno per uno, e acquistati da diciannove collezionisti diversi, il cui nome non viene rivelato. Risultato: un gruppo di disegni concepito come un tutto unico è stato irrimediabilmente disgregato, nessuno potrà mai rimetterlo insieme, nemmeno per una mostra.
Ecco quel che accade quando la legge antepone le ragioni del mercato e del profitto a quelle della cultura e del pubblico interesse. Commento del Times Literary Supplement (17 giugno): «L'avidità privata e l'inerzia del legislatore sono disperanti. È ora di aprire un dibattito sulla proprietà dei beni culturali, e chiedersi se l'interesse privato debba sempre prevalere sul bene comune». Ebbene: in Italia questo dibattito vi è stato per secoli, ha condotto già negli Stati preunitari a una normativa che antepone il pubblico bene all'interesse privato. Nell'Italia unita è così almeno dalla legge Rava-Rosadi del 1909, e fino al Codice Urbani oggi in vigore. Se anziché a Glasgow i disegni di Blake fossero riemersi a Venezia o a Palermo, sarebbero ora di un museo o di un privato, ma certamente ancora tutti insieme, come vogliono le nostre leggi. Possiamo sentirci fieri di essere italiani.
Seconda scena, Stati Uniti. Si parla di come si va evolvendo la cultura ambientalista per reagire ai pericoli crescenti di un mondo globalizzato, dove le ciniche ragioni del profitto devastano l'aria, le acque e i luoghi colpendo alla cieca i cittadini, corpo e anima. Si parla di possibili rimedi, di trattati internazionali, di norme di autoregolazione, di come diffondere un'etica dell'ambiente. Si conviene che è urgente costruire nuove nozioni giuridiche, che possano installarsi al centro di ogni sistema legale, a livello internazionale ma anche nelle singole nazioni. Dominano il discorso due nozioni giuridiche nuove e "in crescita" nella riflessione (anche filosofica ed etica) di questi anni: i diritti delle generazioni future e la nozione di comunità di vita.
In America, la discussione sui diritti delle generazioni future si richiama spesso a un testo fondativo del presidente Theodore Roosevelt (1909): «Conservare vuol dire perseguire il maggior vantaggio per il maggior numero possibile di cittadini, per quanto più tempo possibile. Il criterio del "maggior numero possibile" deve applicarsi all'intero svolgersi del tempo: e in esso noi, che viviamo oggi, non siamo che una frazione insignificante. Abbiamo il dovere di rispettare l'insieme degli uomini, specialmente le generazioni non ancora nate: dobbiamo dunque impedire che una minoranza priva di principii distrugga un patrimonio che appartiene alle generazioni che verranno. Il movimento per la conservazione dell'ambiente e delle risorse naturali è essenzialmente democratico per spirito, finalità e metodo». Il tema, giuridico ed etico, dei diritti delle generazioni future è sempre più discusso anche in Italia (specialmente da Stefano Rodotà, o nel libro di Raffaele Bifulco, Diritto e generazioni future. Problemi giuridici della responsabilità intergenerazionale). È, in questi termini e nei nostri orizzonti, un tema nuovo. Ma in esso risuona fortissima la voce antica del pubblico interesse come sovraordinato al profitto privato: e che cos'altro era la nozione giuridica di publica utilitas o di bonum commune, se non il richiamo alla responsabilità di ciascuna generazione nei confronti di quelle che seguiranno?
La supremazia del pubblico interesse ricorre quasi ossessivamente nei cento Statuti dell'Italia comunale, nelle norme dei re di Napoli e dei pontefici, viene fortemente riaffermata nella legge di tutela del patrimonio culturale del 1909 (citata sopra), nella legge Croce sul paesaggio (1920-22), nelle leggi Bottai (1939), nel Codice Urbani oggi in vigore, ma soprattutto nella nostra Costituzione repubblicana, la prima al mondo in cui la tutela del patrimonio storico e artistico e del paesaggio fu scolpita fra i principi fondamentali dello Stato (articolo 9). Con un proprio linguaggio (che si richiamava al diritto romano), lo sguardo lungimirante dei nostri padri, fino ai Costituenti, già individuava nei "diritti delle generazioni future" il nucleo generativo della tutela.
C’è stato un uso molto improprio, della lettera che la Banca centrale europea ha inviato al governo italiano, la mattina del 5 agosto, per arginare la formidabile inconsistenza del discorso tenuto da Berlusconi il giorno prima in Parlamento. Qualcuno ha deciso di far trapelare notizie sulla missiva, e volutamente ha corso il rischio di trasformare l’Italia in un paese sotto tutela, che da solo non sa e non vuole prendere decisioni impopolari.
Questo qualcuno è Palazzo Chigi, la fuga di notizie parte da qui, e anche la leggenda dell’Italia commissariata ha avuto evidentemente il suo avallo. Non tiene neanche un minuto la scusa del governo, secondo cui non spetta al destinatario ma al mittente pubblicare le lettere. Qui non si tratta di un’epistola privata, ma di un messaggio agli italiani tutti.
Non è stato dunque Trichet ma Berlusconi a trasformare il carteggio in qualcosa di torbido. Faceva parte dei suoi calcoli la natura non trasparente, dunque non discutibile, che esso ha assunto. Solo così poteva nascere la leggenda del commissariamento: dall’alto dell’Olimpo di Francoforte era sceso - perentorio, inoppugnabile, violento perché inaspettato - il responso cui toccava assoggettarsi anche se il cuore «grondava sangue». Siamo vassalli (servi, in latino), ma esser vassalli ha i suoi vantaggi: consente di scaricare ogni responsabilità sull’imperatore lontano, senza compromettersi. L’imperatore è una potenza arcana, non meno oscura dei mercati: oggi gli ubbidiamo ma domani chissà, l’arbitrio non può durare indefinitamente.
Tanto oscuro e lontano è il responso che il pronunciamento s’apparenta a mania folle, come accade agli oracoli divini. Per questo è conveniente che si sappia della lettera ma che nessuno la legga, anche se essa contiene passaggi dettagliati che riguardano ciascuno di noi. Per esempio, pare che i firmatari (Trichet e Draghi, per la Banca d’Italia) raccomandino misure che il governo per ora respinge, come l’aumento dell’Iva o la revisione profonda delle pensioni di invalidità. E che la crescita non sia affatto trascurata (sblocco consigliato di 15 miliardi di investimenti per le infrastrutture dei concessionari di opere pubbliche).
Certo, le cose potevano andare in altro modo e non è detto che la trasparenza sia utile sempre, specie nel mezzo di una crisi finanziaria. La Banca centrale scrive spesso lettere analoghe, a doppia firma di Trichet e del Governatore della Banca centrale del paese destinatario: alla Grecia, all’Irlanda, al Portogallo, a Cipro, alla Spagna, oltre che all’Italia. Le missive sono confidenziali, per non eccitare i mercati e rispettare i governi. Ben altro è successo da noi, ed è la fisionomia ibrida del carteggio (riservato e non) che rende il suo uso improprio e anche scandaloso. Una lettera di tal genere, che incide così profondamente sulla vita degli italiani, o è segreta dall’inizio o va diramata e letta, pena l’umiliazione. Una volta che c’è stata fuga di notizie, il suo carattere muta. Diventa una lettera indirizzata a ciascuno di noi: governo e opposizione; industriali, sindacati, giornalisti e lettori.
Si chiedono sacrifici rilevanti, che toccano le presenti e future generazioni. Si formulano suggerimenti sul da fare. Se i governanti hanno in poche ore cambiato rotta, tramutandosi nei burattini e zombi eterodiretti descritti da Scalfari nell’editoriale del 7 agosto, questo non significa che tutti dobbiamo essere zombi imbambolati. Pubblicare la lettera non è questione di forma ma di dignità: la nostra.
La trasparenza, dopo la fuga di notizie, è obbligo democratico. È dovuta a noi e alla Banca centrale, che sta agendo in supplenza di un governo europeo purtroppo inesistente (così come il Quirinale agisce colmando l’assenza di governo a Roma). Dobbiamo capire che il vuoto di potere politico non è un bene, in Europa, e alla lunga minaccia l’indipendenza stessa della Banca centrale. Dobbiamo anche poter contestare le linee di Francoforte, perché chi ha detto che Trichet abbia ragione su tutto? Se il continente è malato di populismo è perché la democrazia rappresentativa è guasta: sempre più decisioni sono prese non da rappresentanti eletti ma da tecnici che non rispondono a un governo sovranazionale. A Berlusconi farà comodo; all’Italia e all’Europa no.
Visto che l’Euro è un’unione non solo monetaria ma già politica, dev’essere chiaro che delle iniziative comunitarie si deve poter discutere, tra cittadini e politici. Quando nascerà, altrimenti, l’agorà europea, la pubblica piazza dove i popoli di Eurolandia si parlano e si esaminano l’un altro?
L’ingerenza della Banca centrale è benvenuta. Non è equiparabile al parere di Stati che in passato rifiutarono per se stessi l’intromissione (Germania e Francia, nel 2003). Gli occhi italiani si son dovuti aprire a forza, perché Trichet e Draghi sono stati ultimativi: non vi aiuteremo se non vi correggete subito, senza più rinvii. Quel che ha detto Tremonti l’11 agosto davanti alle Commissioni di Affari costituzionali e Bilancio della Camera e del Senato («La crisi ha preso un corso diverso, non ancora finito e non ancora prevedibile») è falso. La verità l’aveva a disposizione, se avesse voluto.
Contrariamente a quel che si crede, il commissariamento non è una perdita di sovranità. È un’autodisciplina che esercitiamo attraverso la Banca centrale, non imposta da fuori. Un’autodisciplina resa possibile da Stati forti, democrazie solide, non da istituzioni invertebrate. Per questo grazie all’Europa gli Stati recuperano la sovranità perduta. L’Italia ha una missione grande, davanti a sé. Spetta a noi (governi, cittadini più o meno influenti) vedere che c’è un nesso fra democrazia plurale, economia, stabilità sociale. Che c’è un nesso tra opinione bene informata e disponibilità ai sacrifici. Che restaurare la legalità è compito prioritario, in un paese dove il Sud è paralizzato economicamente dalle mafie. Il fatto che la manovra abolisca uno strumento che controlla il tragitto dei rifiuti dai cassonetti ai centri di smaltimento (il Sistri, Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti ) è assai sospetto: speriamo che il ministro Prestigiacomo abolisca questo regalo alle mafie.
C’è una frase che non si può più dire ed è: «Non c’è alternativa». La pronunciò Margaret Thatcher, e anni dopo si rivelò un inganno. Usare la lettera come oggetto anfibio (pubblico e non pubblico) è una colpa, perché permette ai governi e alle opposizioni di dire: «È l’Europa che dispone, io mi piego ma il mio cuore gronda sangue». Non è vero che altre strade sono precluse. È l’assenza di alternative, di libera discussione, che suscita sommosse popolari e risposte populiste
Uno studio condotto a Londra dal Centro di ricerca sulla politica economica (Cepr) sul rapporto austerità e tumulti-proteste popolari, mostra che il popolo si rivolta contro i tagli indiscriminati di servizi pubblici, ma non rigetta l’aumento di tasse. Lo studio, citato su questo giornale da Tito Boeri, copre gli anni 1919-2009. Non solo: il buon funzionamento di democrazia e stampa facilita la stabilità sociale, quando la spesa pubblica scende troppo. Gli esecutivi «non sottoposti a controlli severi» (il sogno di Berlusconi) accrescono l’instabilità. Una forte penetrazione dei media è di aiuto: più informata, la gente discute; non rompe vetrine come in Inghilterra.
Altre cose i governi possono fare, per riconquistare margini di manovra. Possono favorire crescita, equità. La Germania, ad esempio, ha fatto scelte fondamentali sulle energie alternative sin dal 2000. In pieno rigore, non ha ridotto gli investimenti nella ricerca ma li ha spettacolarmente aumentati (per il 2012 del 10 per cento, toccando la cifra record di 12, 8 miliardi di euro). Non è vero che si può solo tagliare alla maniera di Tremonti, proteggendo ricchi ed evasori. Dovremo crescere meno in Occidente, ma potremo farlo diversamente se capiremo che si cresce non solo consumando, ma esportando verso le economie emergenti. È la via che Berlino segue da anni. Non ha cominciato perché spinta dall’isteria dei mercati, e per questo oggi riesce nell’impossibile: ridurre la crescita, ma salvando occupazione e stato sociale.