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Ecco, era tutta colpa delle Province. Il Consiglio dei ministri, non potendo abolire per decreto una istituzione storica, se non addirittura secolare, vara un disegno di legge costituzionale per passare le competenze delle Province alle Regioni (tutto il contrario di quello che si cercava di fare negli ultimi anni!). Quindi il potere di entrare nel merito di argomenti come la mobilità, i rifiuti, la cementificazione o la tutela del territorio ritornerebbe in alto alle Regioni, le quali non sarebbero più solo soggetto di finanziamento e di legiferazione, ma di vera e propria amministrazione.

Più che una riforma degli enti locali è un linciaggio del soggetto più debole, le Province. E lasciamo invece le Questure e le Prefetture in ogni capoluogo di provincia? Non avevo mai visto, forse non si è mai vista, una riforma istituzionale che parte solo dalla necessità di presunti risparmi. La Grecia - la Grecia! – ha recentemente accorpato alcune regioni e province, e soprattutto comuni. Ma non ha abolito un livello istituzionale intero. Per altro, che io sappia, in quasi tutti i paesi del mondo ci sono sia i comuni, sia le province, sia le regioni. In tutta l’Unione Europea (là dove di livelli locali ce ne sono solo due, come credo di aver capito adesso in Tunisia, le “Regioni-Province” sono più piccole che in Italia, simili a quelle che da noi sono le province più importanti.)

Certo, Roma non è un esempio logico, lì ci vorrebbe la città metropolitana e basta. E visto che i nostri opinionisti e i pochi politici che riescono ad avere un pensiero autonomo stanno a Roma o a Milano (dove appunto non hanno senso nè le Province nè gli attuali Comuni capoluogo, ma ci vorrebbe la città metropolitana) eccoci al linciaggio delle Province. Non è certo in questo modo che si razionalizzano le istituzioni necessarie per una più aggiornata democrazia.

La tutela del patrimonio archeologico di Roma sembra avere il valore di 1 euro, pari ad un biglietto integrato a tempo, che dura, com’è noto, settantacinque minuti. «Chissà se in settantacinque minuti riusciamo a salire e scendere dai mezzi pubblici e ad avventurarci a piedi nelle aree archeologiche del suburbio?» A chiederselo ieri, riunita in assemblea presso Palazzo Massimo, tutta la rappresentanza del personale tecnico, della Soprintendenza speciale ai beni archeologici di Roma, allarmata per l’ennesimo "schiaffo" alla professionalità di chi lavora al servizio della cultura. La bizzarria è che per i vari dirigenti e funzionari archeologi che effettuano sopralluoghi costanti ai cantieri, il rimborso alle spese per l’uso della propria vettura corrisponde all’uso di un autobus.

Una beffa che si va ad aggiungere al mancato riconoscimento dei rimborsi per le spese della benzina della macchina personale con cui i dipendenti della Soprintendenza svolgono i servizi esterni. A far scattare la mobilitazione è stata una circolare interna alla Soprintendenza del 5 settembre che richiama una nota del segretariato generale del 23 giugno scorso che, a sua volta, interpretava in modo restrittivo una sentenza della Corte dei Conti del 5 aprile. «In sostanza, si stabilisce non solo che non potrà essere riconosciuto il rimborso delle spese connesse, che l’uso della macchina viene pagato come un autobus, ma che tale disposizione ha validità retroattiva a partire dal 5 aprile», dichiara Roberto Egidi direttore del Foro Romano e del Palatino.

«Dal 5 aprile gli archeologi si vedono tagliati dagli stipendi, che vanno da 1300 a 1700 euro al mese, circa 200, 300 euro al mese per sostenere autonomamente le spese per garantire la tutela del patrimonio di cui sono responsabili» - incalza la direttrice dell’Appia Antica e di Palazzo Massimo Rita Paris. «Il nostro lavoro è basato sulla tempestività, visto che sul territorio di Roma ci sono in atto almeno un centinaio di cantieri preventivi - sottolinea Egidi - E con la macchina, a proposito di economicità, noi riusciamo a fare più sopralluoghi nella stessa giornata. Che dobbiamo fare, aspettare le coincidenze degli autobus o andare a piedi?». Per questo, l’assemblea ha scritto una lettera per la Soprintendente Anna Maria Moretti in cui si chiede di far presente al Ministero la gravità della situazione in presenza del patrimonio archeologico più importante del mondo e ancora sotto regime di Commissariamento. «Fin da domani - dice Paris - parte del personale, non utilizzerà più il mezzo proprio. Questo significa innescare uno sciopero bianco permanente, un black out dei cantieri. Si andrà verso la paralisi». A rischio, gli stessi cantieri del Commissario Cecchi. Dall’Appia Antica, a Ostia Antica, fino a tutto il Parco di Veio nella parte romana.

Postilla

La situazione denunciata nell’articolo di cronaca romana è purtroppo comune a tutte le Soprintendenze d’Italia, non solo archeologiche.

Al di là della gravità formale di un atto a valenza retroattiva (al Collegio Romano sembra ormai sconosciuto anche l’abc dell’amministrazione), questa restrizione che impedisce de facto il monitoraggio del territorio assesta un colpo micidiale al sistema della tutela in Italia.

Aree vastissime, non servite regolarmente dai mezzi pubblici, sono così abbandonate ad un destino da Far West.

Ciò che manca, da sempre, a questo paese, è un’efficace rete di controlli e monitoraggi. Per quanto riguarda il territorio, questo compito, a difesa del nostro patrimonio culturale e del nostro paesaggio, era svolto, da decenni, dal personale di Soprintendenza, spesso unico, fragile presidio della legalità territoriale.

Privare le Soprintendenze di questo compito, significa snaturarne radicalmente le funzioni e comprometterne l’attività, spesso irreparabilmente: eventualità che poco preoccupa, evidentemente, gli altri vertici del Ministero. (m.p.g.)

7 settembre 2011

QUESTO CAPANNONE S’HA DA FARE:

PIUTTOSTO SPOSTIAMO GLI ETRUSCHI

Comunicato del gruppo cosiliare

di: Laboratorio per un'altra San Casciano -

Rifondazione Comunista

5 settembre, seduta della Commissione consiliare ambiente e territorio per discutere il Regolamento Urbanistico Comunale di San Casciano in val di Pesa: i rappresentanti del gruppo Laboratorio per un’altra San Casciano – Rifondazione Comunista abbandonano la seduta perché ritengono inutile partecipare a una discussione, pur fondamentale perché relativa ad ulteriori incrementi del consumo di suolo, quando sono stati negati trasparenza e coinvolgimento su un intervento assolutamente rilevante per il nostro territorio come l'area archeologica di Ponterotto emersa nel corso dei lavori del cantiere Laika, e chiedono l'immediata discussione dell'intero progetto nella commissione medesima.

Sorprese estive. Nel mese di agosto la Giunta comunale di San Casciano ha approvato una delibera dal titolo “Approvazione accordo per la disciplina dei rapporti per la rimozione, ricollocazione, restauro e valorizzazione delle strutture archeologiche rinvenute in località Ponterotto”. Erano diversi mesi, per lo meno dall'aprile 2010, che era stato chiesto ufficialmente un chiarimento in merito agli scavi in atto nel sito del cantiere Laika. Fu risposto, dall’Amministrazione comunale e anche dalla Soprintendenza, che la situazione era sotto controllo, che si procedeva tranquillamente al rilievo dei reperti e che, una volta chiusa l'indagine archeologica, sarebbe stata resa nota la relazione finale con la quale avremmo potuto conoscere la natura e l'entità dei ritrovamenti.

Anche nel successivo mese di settembre, in occasione dell'approvazione della delibera per lo stanziamento di fondi per un non ben identificabile “Museo Laika” denunciammo la mancanza di trasparenza non essendo assolutamente chiaro il tipo di intervento che si andava delineando sul sito archeologico. Adesso con la delibera del primo agosto scopriamo che già nel giugno 2010 il gruppo Hymer (proprietario di Laika) aveva avanzato la proposta di una “rimozione” del complesso dei reperti archeologici (etruschi e romani, ossia dell'intero insediamento edificato) e successiva “ricollocazione” in altra sede, e che questa proposta era stata accolta favorevolmente sia dal Comune che dalla Soprintendenza. Per più di un anno, quindi, si sono svolti tutti i contatti che hanno portato a questa delibera, presentata come una originale “valorizzazione” di un sito archeologico, ma l'Amministrazione in tutto questo periodo non ha ritenuto opportuno discuterne in modo esauriente in consiglio comunale e neanche in commissione urbanistica.

Di norma in situazioni di questo genere i casi sono due: o i reperti non hanno gran valore, e allora se ne fa il rilievo e se ne pubblicano i risultati scientifici, per poi ricoprire il sito, oppure lo scavo si rivela importante e allora saranno i progetti di nuove opere che si dovranno adeguare. E’ quanto è successo a Gonfienti, nel caso del centro intermodale di Prato, ma anche sulla Grosseto-Siena, dove il tracciato è stato “rialzato” per lasciare la possibilità di studiare reperti etruschi importanti, vicino a Roselle. Qui al Ponterotto, invece, Hymer dichiara che la presenza degli scavi è incompatibile con quella del capannone progettato: e allora? Allora si spostano quelle quattro pietre che (in fondo) non interessano a nessuno, nella prevista “Area archeologica di Ponterotto” collocata in adiacenza alla zona de La Botte in prossimità della percorso pedo- ciclabile. Meglio ancora, così ci si va anche in bicicletta a visitare la (falsa) area archeologica.

Non è nostro compito mettere in discussione l’avallo che la Soprintendenza e il Ministero dei Beni Culturali hanno dato all’operazione, certamente ci proponiamo di approfondire le scelte fatte con la collaborazione di esperti qualificati. Intanto ci sembra inevitabile rilevare la mancanza di trasparenza da parte della Giunta comunale in tutta questa vicenda, nonostante le assicurazioni date. E perché nessuno viene a spiegare ai più diretti interessati, cioè ai dipendenti Laika, come mai si sono persi dieci anni senza che nessuno dei responsabili, pubblici e privati, si accorgesse che qualche centimetro sotto terra c’ erano tracce di insediamenti di più di duemila anni? Non avevano mai sentito parlare di archeologia preventiva?

Ma l’errore risale proprio a quella scelta di dieci anni fa, quando fu individuata un'area agricola che doveva essere per forza proprio quella, senza nessuna possibile alternativa, un'area ad alto valore ambientale e paesaggistico, evidentemente inadatta ad ospitare un insediamento industriale. Se davvero c’era l’urgenza che allora ci dicevano, non era meglio cercare soluzioni diverse? La “ricollocazione” del sito archeologico del Ponterotto non è che l’ultima forzatura per coprire le responsabilità di chi ha voluto a tutti i costi un’operazione immobiliare che nulla ha a che vedere con l’interesse dei lavoratori.

8 settembre 2011

QUANTO VALE UNA STORIA DI 2000 ANNI

di Archeopatacca

Per consentire a LAIKA la realizzazione di un capannone si progetta lo spostamento in altra sede degli insediamenti etruschi e romani trovati negli scavi: una vera e propria “archeopatacca”!

Da più di 10 anni il Comune di San Casciano persevera nella scelta di una localizzazione sbagliata e ad alto impatto ambientale e paesistico per il capannone richiesto dalla multinazionale Hymer, proprietaria di LAIKA caravan. Usando il ricatto occupazionale l’azienda ha ottenuto una variante ad hoc, su terreni agricoli acquisiti in un sito lontano dal distretto della camperistica, al di fuori di ogni pianificazione e neanche indagato con i necessari rilievi di archeologia preventiva.

Dopo 7 anni dalla adozione della variante non un mattone della fabbrica è stato posato, a dimostrazione di come si sarebbe potuto tranquillamente scegliere una localizzazione più adatta e di come la “urgenza” imprenditoriale nascondesse solo un lucroso investimento immobiliare.

Ad accrescere la miopia della scelta, durante gli scavi per il capannone emergono nell’anno 2010 importanti resti di un fabbricato etrusco e della pars rustica di una villa romana. Invece di valorizzare tali testimonianze storiche, imponendo al privato di adeguare l’intervento al mantenimento della stratificazione emersa durante gli scavi, l’amministrazione comunale interviene CON PROPRIE RISORSE per rendere possibile la demolizione di muri e fondazioni, e la loro ricostruzione a guisa di “finte rovine” lontano dal perimetro previsto del fabbricato industriale: una vera e propria “archeopatacca”!.

Le alternative c’erano, si poteva ipotizzare uno spostamento dei volumi o una loro riduzione, stante la banalità architettonica del manufatto (un parallelepipedo di metri 300X100X11). Inoltre: LAIKA è una azienda in crisi, che dopo un periodo di crescita (nelle sedi della Sambuca) dal 2006 al 2010 ha perso mercato riducendo la produzione e soprattutto la forza lavoro impiegata. Il nuovo capannone non si giustifica quindi in nessun modo, visto che le stesse previsioni aziendali parlano di limiti alla produzione dovuti alla crisi mondiale. Ma evidentemente l’interesse privato a realizzare tutta la volumetria concessionata vale più di duemila anni di storia.

La traslazione di muri e fondazioni in mattoni e ciottoli non potrà che essere distruttiva, e la demolizione dello scavo sicuramente toglierà alla ricerca scientifica la possibilità in futuro di analizzare un insediamento rurale importante per capire gli ordinamenti della campagna in epoca etrusco-romana. Non si tratta di edifici, che possono eventualmente essere smontati e rimontati, ma di tracce e resti di manufatti che hanno senso solo se rimangono nel proprio sito.

Che tutto questo si faccia non per realizzare un’opera di pubblico interesse ma semplicemente per venire incontro alle richieste di un investitore privato suscita perplessità e sconcerto.

Da più di un anno, in segretezza, l’amministrazione comunale e la Hymer hanno percorso l’iter autorizzativo evitando ogni confronto pubblico e addirittura negando ogni visibilità e informativa sul caso (era dal giugno 2010 che andava avanti il progetto che definiamo “archeopatacca”).

Facciamo perciò appello alla Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici del Ministero per i beni culturali, alla Soprintendenza per i beni archeologici della Toscana, alla Direzione regionale (settore musei ed ecomusei) della Regione Toscana, perché non sia ratificato l’accordo per la rimozione delle strutture archeologiche. In particolare, facciamo appello agli assessorati regionali competenti perché sia possibile aprire un confronto tra gli esperti del settore in vista di un approfondimento scientifico sul sito archeologico, sospendendo temporaneamente ogni decisione.

Legambiente circolo “Il Passignano”, AMAT Montespertoli, MDT Montespertoli, Rete dei Comitati per la difesa del territorio, Italia Nostra Firenze, WWF sezione di Firenze, Legambiente toscana

Vi è una lunga tradizione di potere che ricatta, ovvero che esercita, oltre all´imperio pubblico della legge, anche quella subdola e vile violenza che è la minaccia alle persone. Un potere che usa come armi i dossier riservati, che fa un sotterraneo uso politico delle debolezze, dei vizi, delle colpe, o anche semplicemente degli affetti privati. Senza parlare dei totalitarismi veri e propri, che si sono serviti apertamente della violenza, oltre che del ricatto, in una logica di terrore di Stato, le violenze psicologiche sui testimoni a opera della commissione McCarthy, i fascicoli del Sid di De Lorenzo, si fondavano proprio su questo rapporto fra sapere (riservato) e potere (nascosto) di condizionamento: avevano l´obiettivo di coartare la libertà dell´agire politico. Se il ricatto è, giuridicamente, un´estorsione, ciò che era estorto, più che il denaro, era la libertà.

Più innovativa è la circostanza che il potere stesso sia ricattato – di cui facciamo esperienza oggi, in Italia (almeno a sentire la magistratura che in questa direzione indaga, e arresta gli indiziati) –. Perché ciò si realizzi è necessario un costume politico da basso impero, un meccanismo di corruzione generalizzato, in cui tutti ricattano tutti: il che dà luogo, certamente, a una solidarietà di fondo – a un comune istinto di far muro contro la magistratura e la libera stampa –, ma anche a una fitta rete di relazioni di potere fondate sul sapere – sulla comune e scambievole consapevolezza delle proprie e altrui marachelle (o reati) –. In questa parodia del mercato tanto caro ai liberisti, quello che ci si scambia gli uni con gli altri, come fossero merci o prestazioni, sono minacce, che hanno il loro fondamento nella comune corruzione, nella universale correità.

In un sistema politico fondato sul ricatto reciproco, è ricattabile anche il potere supremo, il Presidente del Consiglio come persona. Sia chiaro: per essere ricattabili non necessariamente si deve avere qualcosa da nascondere, un segreto inconfessabile da tutelare; è sufficiente essere minacciati in un prezioso bene privato quale può essere la vita, propria o dei propri familiari; Moro, sequestrato, fu ricattato in questo senso. Ma non di questi o di simili casi tragici si parla, oggi: Berlusconi, stando agli inquirenti, è stato ricattato (e ha pagato) per storie di escort; ha fronteggiato Tarantini, non le Br. I tempi cambiano; in meglio per molti versi (almeno, non scorre il sangue), ma in peggio per altri: il ricatto si fonda su vizi privati che non diventano per nulla pubbliche virtù, ma, al contrario, pubbliche debolezze.

C´è infatti una profondissima differenza fra un potere ricattato e un potere minacciato: la minaccia – non necessariamente violenta – fa parte strutturale del panorama della politica, intesa come insieme di rapporti di forza, tanto nella politica internazionale quanto nelle relazioni sociali. Ma si tratta di una sfida pubblica, a viso aperto: una concorrenza fra Grandi Potenze, una trattativa sindacale, si situano su questo terreno, fanno parte di questa sintassi. Questo tipo di minacce è fisiologico, e rafforza il potere, temprandolo nel conflitto.

Il ricatto, invece, è patologico, e lo indebolisce. Non solo perché viola l´aspetto giuridico del potere, cioè il principio di legalità che al potere moderno è coessenziale – e lo viola due volte: il ricattatore commette certamente un reato, ma qualcosa di poco chiaro c´è anche da parte del ricattato, il quale altrimenti non si lascerebbe ricattare –; ma anche perché il ricatto è un vulnus alla dimensione pubblica del potere, dato che si fonda su un fattore privato che deve rimanere segreto, e che come segreto è usato dal ricattatore per condizionare l´agire dell´uomo politico. E c´è quindi la forte probabilità che insieme al denaro (l´aspetto privato del ricatto) sia estorta anche la libertà d´azione: e ciò rende quel ricatto non un affare privato, ma una questione politica.

Il ricatto, insomma, rimette in gioco, aggiornandoli, quegli arcana imperii – i tenebrosi segreti del potere (che oggi consistono però nei segreti personali degli uomini di potere) –, contro i quali ha lottato la politica moderna, in nome della legalità e della trasparenza dell´esercizio della politica. Se il potere è sotto schiaffo, anche la legalità democratica, il controllo consapevole dell´opinione pubblica sugli affari politici, è a rischio; non solo è condizionabile il potere, ma siamo più ciechi, più ignoranti, più eterodiretti noi cittadini. Il ricatto subito dal potere, quindi, ci sottrae la politica: la privatizza. Anzi, si può dire che questo ricatto è una forma perversa e rovesciata di quella privatizzazione del potere che è il tratto più tipico dell´avventura berlusconiana: se il potere si personalizza, si espone a tutte le vicende della persona, anche le più private e arrischiate.

Il rimedio per sottrarre il potere al ricatto e per restituirgli la sua dimensione pubblica, affrancata dalle debolezze del privato, non sta necessariamente nel rigore giacobino che vuole il politico incorruttibile (come Robespierre), e gli vieta di avere altre passioni se non quella per la virtù e per la patria. Sarebbe sufficiente l´impegno collettivo di restituire alla politica la sua serietà di dimensione pubblica, ed esigere, da chi la pratica, una vita privata decente. Ma, appunto, il recupero della decenza, pubblica e privata, è, nel nostro Paese, qualcosa di simile a un'utopia rivoluzionaria.

Il pareggio di bilancio in Costituzione? «È una dichiarazione d'impotenza della politica. Uno slittamento di poteri e di responsabilità dagli organi politici a quelli giurisdizionali». Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale e docente alla Statale di Milano, attende con interesse di sapere le modalità con le quali questa mattina il Consiglio dei ministri avvierà l'iter di introduzione nella Carta della cosiddetta «regola d'oro» sul pareggio di bilancio. Di dubbi però ne ha più d'uno: «Sembra un po' come Ulisse che sa di non doversi buttare, ma non fidandosi della propria volontà si fa legare per resistere al canto delle sirene».

Bocciatura assoluta?

Di per sé introdurre un vincolo sul pareggio di bilancio che non sia in termini assoluti, rigidi, ma con tutte le eccezioni necessarie - non necessariamente tutti gli anni, per tenere conto dei cicli, e con deroghe in caso di emergenza - è ragionevole. Il dubbio è che sembra quasi un vincolo costituzionale alla buona amministrazione, quella che la politica dovrebbe essere in grado di assicurare sempre ma soprattutto in tempi come questi in cui tutti sembrano condividerne la necessità. È una dichiarazione d'impotenza della politica.

L'articolo 81 della Carta già impone che le leggi abbiano una copertura finanziaria, perché non basta?

Può succedere che una legge introduca meccanismi di spesa che poi nel tempo sfuggono al legislatore, oppure nel cambio di congiuntura economica non si riesce più a mantenere le coperture. Ecco allora che se non si è tenuto conto di possibili evenienze esterne, come la diminuzione di entrate o i meccanismi inflattivi, nel tempo gli equilibri si alterano e quindi occorrono manovre di rientro che sono politicamente dolorose.

Vuol dire, insomma, che un dettato costituzionale, come sappiamo, può diventare carta straccia?

Scrivere l'obbligo del pareggio in Costituzione è solo una dichiarazione solenne della volontà di provvedere a fare ciò che in passato non si è fatto.

Quale strumento in più, allora, si otterrebbe con la clausola?

La legge di stabilità potrebbe essere contestata costituzionalmente e fermata dallo stesso Capo dello Stato se non rispettosa di questi vincoli. Però è proprio questo il problema: alla fine sarebbe un giudice costituzionale e non il governo o il parlamento a pronunciarsi sulla correttezza di una manovra finanziaria. Ancora una volta su questo tipo di equilibri si rimetterebbe il giudizio finale all'esterno della politica.

Perché paesi come gli Stati uniti, la Spagna o la Germania hanno o stanno introducendo vincoli simili sul bilancio dello stato?

Negli Usa non c'è un vincolo di pareggio ma è il Congresso che autorizza l'aumento del debito. In Spagna invece il vincolo costituzionale è posto - secondo il progetto in via di approvazione - in termini molto generici e poi rimesso, per quanto riguarda le modalità concrete di attuazione, a leggi organiche approvate con procedure particolari e che sono più forti delle leggi ordinarie. Infatti mi sembra che anche da noi si vorrebbe richiedere una maggioranza qualificata per le leggi che introducano deroghe. Analogamente, in Germania il vincolo costituzionale prevede elasticità e eccezioni.

Eppure anche in Germania l'intervento finanziario «di salvataggio» della Grecia è finito davanti alla Corte costituzionale.

Questa è una cosa diversa, non c'entra col vincolo di bilancio. Ma, ecco, introducendolo avremmo proprio un effetto di questo genere: l'aumento dei poteri dei giudici. In più, siccome da noi adire la Corte costituzionale è molto più complicato che in Germania, si prevede che sia la Corte dei conti a poter impugnare la legge.

L'intenzione sarebbe quella di aggiungere controlli ex post oltre che ex ante, è così?

Beh, per forza. Perché da noi è oggi difficilmente praticabile la strada del giudizio di costituzionalità da parte dell'Alta corte su una manovra di bilancio. Quindi occorre un ulteriore meccanismo di controllo sulla legge. Così si accentua questo spostamento di attenzione e di poteri dagli organi politici all'organo giudiziario.

Ma allora, questa modifica dell'articolo 81 è solo un contentino per rassicurare la Bce e i partner europei?

Sì, in un certo senso è questo. Si tratta di dare un segnale positivo proprio perché la politica italiana ha perso credibilità. Un vincolo del genere sarebbe rassicurante all'esterno ma non è detto che saremmo in grado di tenervi fede. Non escludo un qualche significato positivo, ma l'utilità mi sembra dubbia.

Viceversa, non potrebbe essere controproducente, diventare un'arma per impedire interventi sul welfare, per esempio, o addirittura per paralizzare un governo?

Forse, ma il punto è un altro: siccome il vincolo non può essere assoluto e rigido, alla fine chi può giudicare se quella manovra è rispettosa o meno della Costituzione, tenendo conto di tutte le circostanze e delle possibili deroghe? Come si fa a valutare per esempio se si rispetta adeguatamente il ciclo strutturale? Sono valutazioni tecniche non facili, tipicamente di politica finanziaria, che vengono così spostate sugli organi giurisdizionali.

La data fatale è il 2014. Forse il 2015. Con una coda al 2020. Entro il decennio, comunque, il ministero per i Beni culturali potrebbe restare senza personale. O quasi. Bastano alcuni dati: l´età media dei funzionari è di 58 anni, sei dirigenti su dieci sono nati negli anni Quaranta e Cinquanta, le assunzioni sono poche e ancora meno lo saranno in futuro. Molto prima di quella data, chi dice gennaio prossimo, chi marzo, una ventina di soprintendenze, in particolare storico-artistiche, potrebbero sparire accorpate a quelle architettoniche. Ed è anche andata bene: l´eliminazione era prevista per Ferragosto, con un blitz, poi scongiurato, di Salvatore Nastasi, onnipotente capo di gabinetto con il ministro Sandro Bondi e ora con Giancarlo Galan molto in ombra.

Sono tanti i nuvoloni neri che si addensano sul nostro patrimonio e su chi svolge la tutela. Domani e dopodomani si incontreranno nella Certosa di Padula, in provincia di Salerno, una sessantina di neo-soprintendenti oltre a dirigenti di altri istituti del ministero, di archivi e biblioteche. È la prima volta che si riunisce un´assemblea così ampia. Verrà fuori il malessere di cui soffrono la protezione del paesaggio, dei siti archeologici, dei musei, di biblioteche e archivi. Un malessere dovuto a tagli che impediscono missioni e sopralluoghi, a un carico burocratico ossessivo che impedisce la conoscenza e la cura dei territori da tutelare. E che chiama in causa politici e governi di tutti gli schieramenti. Ma nelle intenzioni di alcuni dei partecipanti c´è anche di evitare autofustigazioni e geremiadi e di rilanciare il profilo culturale di un mestiere che negli ultimi anni, andata in pensione la generazione degli Adriano La Regina e dei Pier Giovanni Guzzo, si è sbiadito.

I soprintendenti che saranno a Padula hanno frequentato un corso di formazione, seguito da uno scambio fitto di mail. Poi l´idea di un convegno molto low profile, organizzato senza che nelle stesse soprintendenze se ne sapesse nulla e che pian piano è cresciuto nelle dimensioni fino a cambiare forma. Saranno infatti presenti anche il segretario generale del ministero Roberto Cecchi, e i direttori generali Antonia Pasqua Recchia e Luigi Malnati.

Come sopravvivere in una condizione di assoluto disagio e come esercitare al meglio gli obblighi che la legge, a cominciare dalla Costituzione, impone loro? Racconta Luca Caburlotto, soprintendente storico-artistico del Friuli e con due incarichi ad interim che coprono tutto il Veneto tranne Venezia (di fatto regge l´intero nord-est): «A luglio hanno tagliato al mio ufficio il 35 per cento dei fondi. Mi domando: o erano inutili prima oppure ci stanno tagliando il minimo indispensabile». Negli ultimi tempi sono diventati impellenti i rendiconti di spesa e delle attività svolte. «Fra un monitoraggio e l´altro cerchiamo di fare tutela», insiste Caburlotto. «Sono misurazioni puramente quantitative. E inoltre vale di più la rapidità con la quale rispondiamo a una richiesta di verifica di interesse avanzata da un privato che, poniamo, vuol vendere un bene, anziché quanti vincoli mettiamo». «Sulla base di questi dati veniamo valutati», dice Marta Ragozzino, soprintendente a Matera. E se sono insufficienti si può essere rimossi o trasferiti.

Una struttura come i Beni culturali ha bisogno di ricambi periodici, anagrafici e culturali. Che da anni sono impossibili, visto che almeno due generazioni di architetti, storici o archivisti sono rimaste fuori dalle strutture pubbliche di tutela. «Ricordo quant´era importante, per me giovane funzionaria, seguire il collega più anziano nei sopralluoghi», insiste Ragozzino. «Un sapere fresco di studi si intrecciava con l´esperienza, la conoscenza di luoghi e persone. Noi siamo le sentinelle di un territorio. Da quando sono a Matera ho imparato quant´è importante fare le cose insieme. Insieme nell´ufficio e insieme agli enti locali e alle fondazioni. E quanto è decisivo portare per mano un privato e farlo diventare agente diretto della tutela di un bene». Ma anche a Matera si è abbattuta la scure: 55 per cento in meno i fondi, pochissimi custodi e il Museo nazionale che, senza custodi, potrebbe chiudere nel fatidico 2014.

Da più parti si sente il bisogno anche di rivedere il proprio ruolo. La carenza di soldi e l´impressione di essere su una nave alla deriva, rende però difficile riflettere sulle ragioni per le quali è indispensabile incrementare la protezione di un patrimonio che a sua volta è in continuo incremento. «I beni crescono, ma noi diminuiamo», dice Maura Picciau, soprintendente ad Avellino e Salerno, fra le organizzatrici dell´incontro, che ogni lunedì è a Cagliari perché non ci sono altri storici dell´arte in Sardegna che possano firmare i vincoli. Gli scavi archeologici sono il segnale di un patrimonio che sfugge a ogni controllo e a ogni conoscenza: se ne compiono tantissimi, a causa dei lavori per un elettrodotto o per un parcheggio, ma quanto del materiale rinvenuto viene schedato, restaurato e reso pubblico? I magazzini delle Soprintendenze sono pieni di pezzi impolverati. «Ci si muove solo per emergenze», interviene Micaela Procaccia, soprintendente archivistico di Piemonte e Val d´Aosta, «e solo quando si deve fronteggiare il pericolo che corre un bene immediatamente percepibile». E per questo gli archivi sono la cenerentola di un settore che è cenerentola a sua volta. «Noi siamo meno visibili, meno spendibili in termini di mercato. L´anno scorso il mio ufficio aveva 38 mila euro per finanziare interventi in archivi non statali. Quest´anno sono 26 mila. Nel 2004 avevamo 19 dipendenti, 5 dei quali archivisti, oggi ne abbiamo 10 e 4 sono archivisti. Ognuno di loro cura 300 comuni. E solo un paio sono quarantenni».

Espletata dalla Commissione di Garanzia del Pd la pratica disciplinare, dolorosa ma inevitabile, della sospensione di Penati, ora tocca a Bersani la parte più difficile. Che è una interpretazione non reticente - politica e non giudiziaria - della vicenda che vede protagonista il dirigente che egli aveva prescelto come capo della segreteria nazionale del partito. Tanto più che Penati era pervenuto a quell´incarico dopo lunghi anni in cui si era fatto riconoscere come il più fedele interprete nel Nord Italia del sodalizio politico - la "ditta", come scherza lui - di cui Bersani stesso rappresenta l´evoluzione.

A subire il colpo è un´antica e rispettabile tradizione, la cui memoria storica resta impersonata soprattutto da Massimo D´Alema, contraddistinta da una forte solidarietà interna. Nessuno ha osato dare del "traditore" a Penati. La costernazione con cui taluni membri di quella comunità politica vivono l´indagine di cui è oggetto, quasi si trattasse di un incidente sul lavoro, richiama il tempo in cui il partito si considerava "altro" rispetto al sistema circostante. Dunque il caduto sul lavoro meritava comprensione quand´anche non se ne potessero giustificare in pubblico i comportamenti, resi necessari dalla durezza dello scontro politico; ma non dichiarabili.

L´ambiente in cui i reati sarebbero stati perpetrati, la cosiddetta "rete" dei funzionari che fiancheggiavano Penati nell´esercizio della sua attività, ha origini troppo familiari, militanti, per sopportare l´idea che sui giornali venga descritta come criminosa.

Tale riflesso istintivo "di corrente" per fortuna ha oggi sempre meno cittadinanza nel Pd, anche perché i suoi epigoni sono incorsi in una sequenza inesorabile di sconfitte, a cominciare dallo stesso Penati. L´impetuoso movimento partecipativo con cui Milano, per prima, si è liberata dal berlusconismo, già aveva reso obsoleta la realpolitik con cui Penati, ma anche i suoi interlocutori romani, s´illudevano di trovare spazio nella società del Nord, assumendone peraltro una falsa immagine deformata dall´ideologia. Anche la presunzione di rafforzare il proprio potere contrattuale instaurando relazioni spregiudicate fra politica e affari, appartiene alla medesima visione perdente della politica: il riformismo sacrificato alla sopravvivenza.

La tattica che si mangia gli ideali. Se pure non vi fossero dei reati, c´è la degenerazione del rapporto fra ruolo pubblico e interessi privati. Il clan prende il sopravvento sull´organismo democratico. Perfino il richiamo ai sentimenti popolari assume piuttosto stereotipi conservatori che non una sensibilità di sinistra.

Bersani ricorda bene come l´opzione "moderata" che Penati impersonava a Milano - da lui sostenuta con convinzione - fu sovvertita dagli elettori di centrosinistra nelle primarie del novembre 2010. Si verificò allora un passaggio delicato, che necessita un chiarimento. Furono respinte le dimissioni dei dirigenti locali del partito; Penati si accollò la responsabilità della sconfitta e fece ritorno a Milano, dove la sua leadership si era nel frattempo ridimensionata. E´ l´inizio di una svolta. Il Pd accetta il responso delle primarie, sostiene la candidatura di Pisapia, e consegue un importante successo elettorale, diventando la forza politica maggioritaria a Palazzo Marino.

Oggi è grazie a quella scelta felice che Bersani è in grado, pur nell´avversità dello scandalo, di cogliere un´occasione preziosa: ricominciare da Milano, la capitale del possibile cambiamento italiano, facendone anche il laboratorio di un autentico rinnovamento del partito.

E´ questo il classico caso in cui oportet ut scandala eveniant. La crisi dei vecchi poteri ambrosiani precipita, ma un´alternativa è già emersa. La sinistra del Nord sprigionatasi come antidoto al berlusconismo, e pervenuta al governo di Milano, ha fornito un modello di democrazia partecipativa e ora sperimenta la trasparenza nella pubblica amministrazione. Certo, deve ancora dimostrare di essere all´altezza, ma non sarebbe immaginabile orizzonte più favorevole nel quale lo stesso Pd ferito ritrovi la sua ragione di essere. A condizione però di fare i conti con le verità scomode rivelate dalla vicenda politica di Penati. Quali che siano le sue responsabilità giudiziarie, Penati merita infatti di venire riconosciuto per quello che è: l´espressione coerente di una politica che ha fatto il suo tempo. Il Pd non poteva fare altro che sospenderlo. Ma Bersani sa meglio di chiunque altro che non è una mela marcia.

Quello di Raffaele Bonanni è un modo ben curioso per accogliere l'appello del presidente Napolitano alla «coesione»: lo sciopero della Cgil, dice il segretario della Cisl, «dà un ulteriore segnale negativo alle Borse». Neanche al ministro Sacconi è venuta in mente una trovata di questo livello, e forse neanche all'associazione degli operatori di Borsa. Se c'è una coesione che dovrebbe interessare un sindacato è quella sociale, tanto più dentro una crisi come questa e a fronte delle politiche liberiste prigioniere della finanza e dei mercati che ripropongono le stesse modalità della crisi che hanno generato. E che ora tentano di scatenare una guerra tra poveri trasformando il conflitto tra capitale e lavoro in una lotta tra gli ultimi della scala sociale. Chi vive di lavoro o di pensione, chi il lavoro non ce l'ha o l'ha perduto, dovrebbe pagare il conto per tutti. La coesione necessaria a questo paese come agli altri paesi europei è fuori da Piazzaffari e dai palazzi della politica, è tra la gente tartassata, che non potrebbe evadere il fisco anche se volesse. Quelli che ieri hanno risposto alle provocazioni con rabbia e dignità. Uno striscione sostenuto dalle militanti Fiom interpretava bene questi sentimenti: «Ci volete schiave, ci avrete ribelli».

Bonanni si preoccupa per le Borse: ma la Cisl, un'organizzazione che ha una storia nobile e un radicamento di massa, è ancora un sindacato? Chiedetelo agli operai metalmeccanici della Fim della Lombardia, del Veneto, delle Marche, della Toscana, dei cantieri di Palermo che ieri hanno scioperato insieme alla Cgil. O a quell'anziano militante con il volto tirato che a Roma alzava un cartello con la scritta: «Dopo 35 anni mi vergogno di essere un tesserato Cisl».

La Cgil non è sola. Per un giorno è stata capace di intercettare la rabbia e la protesta delle persone perbene, sindacalizzate e non, occupate e non, precarizzate, impoverite, commercializzate, buttate su un mercato chiuso senza prospettive come capita agli studenti. In piazza sono scesi in tantissimi in tutte le città italiane, con gli operai e gli impiegati, maestre d'asilo e operatori delle cooperative sociali, infermieri, artisti, registi, medici, sfrattati, handicappati privati del sussidio, pensionandi in speranzosa attesa, ministeriali, insegnanti, giovani dei centri sociali. Anche la decisione di alcuni sindacati di base di proclamare il loro sciopero nello stesso giorno scelto dalla Cgil rappresenta un segnale positivo.

I politici di centrosinistra si sono fatti vedere nei cortei, anticipando via mail l'ora e il luogo del loro ingresso per non lasciare delusa l'informazione politica. Meglio che fossero lì, ma avranno imparato qualcosa prima di andare in Senato a fare «coesione»?

C'è un popolo capace di indignarsi, qui come nel resto del Vecchio Continente, nelle forme più diverse. Un popolo privo di rappresentanza, capace di lanciare alla politica segnali forti: con le proteste sociali a partire da Pomigliano, con i referendum in difesa dei beni pubblici, persino con le elezioni amministrative. Può avere in futuro almeno una sponda sociale? Può la Cgil, dopo aver intercettato i sentimenti della maggioranza della popolazione, rappresentare questa sponda, impedendo il riflusso e il ripiegamento dei movimenti, offrendo un'alternativa alla guerra tra poveri? E' alla Cgil che va rivolta questa domanda, che noi formuliamo così: lo sciopero straordinario di ieri che ha svuotato i posti di lavoro e riempito le città è un una tantum, oppure rappresenta l'inizio di un conflitto capace di durare nel tempo, di imporre innanzitutto il ritiro dell'odioso articolo 8 della manovra che toglie il diritto di parola e di sciopero a chi lavora, dando ai padroni la libertà di licenziare, cancellare le leggi, lo Statuto, la Costituzione, i contratti nazionali e i sindacati non complici? Con questo governo (e con questa languida e prigioniera opposizione) non c'è alternativa possibile. Berlusconi dev'essere rimandato a casa. E ancora: indignarsi è il primo passo, ma poi bisogna costruire un'alternativa sociale, politica, culturale. Di sistema. E' una strada lunga e sconnessa, passa attraverso la rifondazione della politica che non può essere delegata a nessuno.

La Cgil potrebbe essere un buon compagno di viaggio, prendendo atto che non c'è futuro nell'inseguimento di un'unità di vertice impossibile con la Cisl che si preoccupa della Borsa, la Uil che si preoccupa della Uil e i padroni che si preoccupano solo dei loro affari. Ieri lo sciopero ha fermato le linee di montaggio di tutti i simboli nazionali: i Baci Perugina, la nazionale di basket bloccata a Riga, il Colosseo e i Fori imperiali. Piccoli segnali importanti, che dovrebbero dare coraggio al gruppo dirigente della Cgil e a tutti gli uomini e le donne che ieri non sono andati al lavoro ma in piazza, prenotandosi per il prossimo appuntamento.

Noi italiani, anche nei momenti di crisi nera, mentre la Borsa crolla e sale la sfiducia dei partner europei, non ci facciamo mancare nulla. L'ultima trovata è il Giro della Padania, la più immaginaria delle corse ciclistiche, visto che la Padania non si trova su nessun Baedeker, è solo un miraggio secessionistico di una geografia immaginaria.

Eppure la corsa ha ricevuto la benedizione dal Coni, dalla Federciclismo, dal ct della Nazionale Paolo Bettini e vede in gara i big della bicicletta, a cominciare dal varesino Ivan Basso e da Giovanni Visconti, campione tricolore e siciliano di nascita. Partita da Paesana (Cuneo), il paese simbolo della Lega Nord, dove ogni anno a metà settembre si tiene il comizio che apre la «Festa dei Popoli», dopo il rito del prelievo dell'acqua con l'ampolla alle sorgenti del Po, la corsa ha avuto il suo primo intoppo a Mondovì, dove un gruppo di manifestanti capeggiati da Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione Comunista, ha tentato di fermare il passaggio della carovana: una scena quasi comica.

Dicono che il Giro della Padania sia un'idea di Umberto Bossi, dunque sacra e inviolabile per il popolo del Carroccio. Noi italiani siamo fatti così: se il capo dello Stato parla di segnali allarmanti noi rispondiamo inventandoci una corsa. Altro che un punto in più d'Iva o la supertassa o la patrimoniale. La crisi si supera con la fantasia. Pier Luigi Bersani, segretario del Partito democratico, ha in mente un torneo di calcetto fra ricchi e poveri, reddito dichiarato alla mano. Se vincono i ricchi, i poveri non andranno più in pensione. Se vincono i poveri potranno fare un giro su Ikarus, la barca a vela di Massimo D'Alema prima della vendita. Antonio Di Pietro, presidente dell'Italia dei Valori, pensa invece a una gara di tiro alla fune da svolgersi nelle campagne di Montenero di Bisaccia: in palio ci sono prosciutti, quote sugli acquedotti comunali e un set di canottiere d'antan. Anche Lorenzo Cesa non è da meno: si è fatto prestare tutti gli oratori d'Italia per una mega torneo di palla prigioniera. I vincitori andranno con la Destra, i perdenti con la Sinistra, pur restando un gruppo unico.

Silvio Berlusconi ha in testa un solo sport, chiamiamolo così: è uno sport di resistenza, di contatto fisico, di volteggio. Avrebbe potuto coinvolgere anche dissidenti alla Italo Bocchino. Angelino Alfano, dopo aver consultato un sondaggio, ha preferito però suggerire un più tranquillo torneo di golf: «C'è buca e buca, gli italiani devono capirlo». Angelo Bonelli, della Federazione dei Verdi, ha indetto una gara di curling, giocato però con ghiaccio naturale, ad alta quota.

Tuttavia, per onestà, va detto che l'idea del Giro della Padania resta la più fantasiosa. Dietro a Bossi, devono esserci finissimi intellettuali, viaggiatori d'ingegno, eruditi ideatori di mappe. Com'è noto, la Padania (o Padanìa) non esiste, e mai esisterà, è un luogo invisibile come quelli creati da Italo Calvino, appartiene all'inventario delle contrade create da scrittori di tutti i tempi e di tutte le letterature.

La Società Ciclistica Alfredo Binda sta già preparando il Giro di Andorra, piccola repubblica dell'Europa meridionale, da non confondersi con lo staterello pirenaico omonimo. È un paese di strette vallate e campi pietrosi su scoscesi pendii. L'ha inventato Max Frisch e piace molto ai Comunisti Italiani di Oliviero Diliberto. Bruno e Roberto Reverberi, padre e figlio, residenti a Ghiardo di Bibbiano, team manager e direttore sportivo della Colnago Cfs Inox, pensano invece al Giro di Bengodi, contrada situata in Berlinzone, terra dei Baschi. Vi sorge una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale abita gente che non fa altro che impastare maccheroni e ravioli. L'idea è di Boccaccio ma piace molto al Movimento per l'Autonomia di Raffaele Lombardo. C'è già lo sponsor: il signor Rana.

Il Coni, per non essere da meno, suggerisce il Giro della Terra di Mezzo, quella del Signore degli Anelli. La Terra di Mezzo trova il consenso di tutti partiti politici, proprio perché è di mezzo ed è utile alla mediazione e alla mediocrità. Del resto, alzare la media, come suggeriva Luciano Bianciardi, è la nostra unica possibilità di superare la crisi: l'età media, la statura media, la terza media, l'intelligenza media, l'onda media, la birra media, la produttività media e la media oraria del Giro della Padania.

La Cgil riempie le sue 100 piazze per uno sciopero che è un successo politico e sindacale. Susanna Camusso dal palco al Colosseo attacca il governo, soprattutto Sacconi, e promette: cambieremo la manovra.

«Non ci rassegnamo, abbiamo già salvato le nostre feste, ora cambieremo questa manovra». Il secondo sciopero generale indetto da Susanna Camusso, il primo con manifestazione a Roma, vicino a quel Circo Massimo che ha fatto la storia recente della Cgil, è un successo. Un successo di partecipazione nelle 100 piazze disseminate per la penisola, un successo politico per la presenza di tanti partiti e tanti leader. Da Torino a Palermo le piazze stracolme hanno smentito chi descriveva una Cgil nell'angolo, mentre le presenze di primissimo livello politico hanno smentito chi parlava di «solitudine politica» di «chi sciopera da solo». Un successo anche personale: «Susanna, Susanna» è il coro che si sente da sotto il palco collocato vicino all'arco di Tito e sotto il Colosseo. Dal concentramento davanti alla Stazione Termini, passando per il percorso usuale dei cortei, il lunghissimo serpentone rosso avanza orgoglioso. Susanna Camusso con camicia bianca, gonna blu e sciarpa rossa, saluta tutti: politici e lavoratori. Poi sul palco, preceduta dall'intervento del segretario di Roma e Lazio Claudio Di Berardino, scalda i cuori delle migliaia di persone che la ascoltano sotto il sole. «Noi un paese così non ce lo meritiamo», esordisce. «Un paese senza credibilità per colpa di un governo che per 3 anni diceva che tutto andava bene, che a luglio ha detto che la prima manovra bastava fino al 2014. È durata 9 giorni, poi ha iniziato a scavare con manovre sempre più depressive». Non cita mai direttamente il ministro Sacconi, ma è lui il bersaglio più colpito. «Poi è arrivata la lettera della Bce, ma non ce la fanno vedere forse perché c'è un giudizio negativo su di loro, non sui lavoratori. Un ministro a caso dovrebbe decidersi: o ci fa vedere la lettera o mente e sa di mentire».

Il segretario generale della Cgil poi festeggia «la vittoria della nostra mobilitazione» sulle feste civili («A quale mente perversa era venuto in mente di cancellare la nostra memoria, le nostre radici?») e spiega quindi che la Cgil è contro «una manovra che sa di vendetta, iniqua, ingiusta, incivile sulla norma che riunisce tutti i lavoratori disabili in reparti ghetto, che si accanisce sui più deboli e sui dipendenti pubblici». Sul contributo di solidarietà la Cgil rivendica di averlo chiesto «per prima, ma di volerlo equo facendolo pagare anche agli autonomi e a chi ha rendite finanziarie». Lo slogan della manifestazione è infatti chiarissimo: «Paghi di più chi ha pagato poco e paghi chi non ha mai pagato», «senza proclami sull'evasione per poi arrivare ai condoni». Al presidente Napolitano che «giustamente chiede di fare in fretta», Camusso risponde che «in fretta e con equità si possono tassare rendite e immobili». A chi sostiene sia «irresponsabile scioperare in questo momento», Camusso rispedisce «al mittente l'accusa» e la gira «a chi in questa situazione ha voluto introdurre un articolo per rendere più facili i licenziamenti, facendo strame dei diritti dei lavoratori grazie al principio che ogni contratto è derogabile».

Il segretario generale chiede invece al governo di «ridare alle parti sociali la loro autonomia» e a Confindustria «di avere coerenza: o c'è l'accordo con i sindacati o c'è la legge». Camusso riparte quindi dallo slogan: «Se non ora quando», «quello di una importantissima piazza» per tornare a dialogare con le parti sociali e «l'occasione si chiama legge sulla rappresentanza». Appena nomina Cisl e Uil arrivano i fischi, ma Camusso li ferma subito: «Non fischiate, noi siamo rispettosi delle posizioni altrui, non ledimo la loro autonomia». La polemica con Bonanni e Angeletti è sul tema dello sciopero: «La domanda a loro è: quando si può scioperare? Perché se non c'è mai un momento giusto, viene il dubbio che non si sia capito la gravità della situazione. E quindi con nervi saldi diciamo che politica e sindacato devono avere a cuore l'autonomia e stare con i piedi per terra e la nostra terra è quella dei lavoratori».

Sull'articolo 8 quindi il messaggio al Parlamento è diretto: «Se non verrà stralciato useremo tutte le armi per cancellarlo, come per tutte le norme che contestiamo, dalla Corte Costituzionale, alle cause civili, alla Corte di giustizia europea, non ci fermeremo». Mentre per Sacconi il messaggio è più duro: «Se non lo stralcerà diventerà il peggior ministro della storia della Repubblica, quello che come professione ha la divisione del sindacato». Sul capitolo dei tagli alla politica la posizione è ferma: «Noi siamo contro i privilegi della politica, i vitalizi dei parlamentari, le nomine politiche nella sanità, ma quando si tagliano gli enti locali come le Province non si sta tagliando la politica, si stanno tagliano i servizi ai cittadini. E si fa demagogia».

In serata poi arriva la reazione agli ennesimi cambiamenti alla manovra: «Risultato detta Camusso di un governo in stato confusionale, sordo di fronte al paese e sempre più condizionato dagli umori dei mercati», con «novità che rafforzano l’iniquità di una manovra sbagliata».

Forse, se vogliamo capire un poco quel che accade in Italia, bisogna pensare alle guerre, ai tabù che esse infrangono. Clausewitz, ad esempio, diceva che le guerre napoleoniche avevano «abbattuto le barriere del possibile, prima giacenti solo nell´inconscio», e che risollevarle era «estremamente difficile». Non dissimile è quel che ci sta succedendo. Un capo di governo ci s´accampa davanti, e passa il tempo a distribuire soldi perché cali il silenzio su verità che lo riguardano. Non qualche soldo, ma tanti e sfacciati. Sfacciati perché la stessa persona dice che verseremo «lacrime e sangue», per riparare una crisi che per anni ha occultato, non sentendosene responsabile. Mentre noi faticosamente contiamo quello che pagheremo, lui sta lì, in un narcisistico altrove, e dice che i soldi li elargisce a persone bisognose, disperate, a lui care: i coniugi Tarantini, Lele Mora, Marcello dell´Utri, e parecchi altri.

Abbondano i diminutivi, i vezzeggiativi, nelle intercettazioni sempre più nauseabonde che leggiamo: si parla di regalini, noccioline, problemini. I diminutivi sono spesso sospetti, nella lingua italiana: nascondono infamie. Nel caso specifico nascondono la cosa più infame, che è il ricatto: sto zitto e ti sono amico, ma a condizione che paghi. Amico? Piuttosto «complice in crudeltà», come diceva La Boétie nella Servitù Volontaria. Dice la moglie di Tarantini, sul mensile di 20.000 euro che il premier elargì per anni ai coniugi che spedivano escort a Palazzo Grazioli: «Ci servivano tutti quei soldi perché abbiamo un tenore di vita alto». Dovevano andare a Cortina, precisa. Chissà perché: dovevano. Questa è la disperazione che Berlusconi incrocia passeggiando. Uno sciopero, immagino non gli dica nulla su chi dispera.

Ricattare un uomo è peggio di sfruttarlo. È conoscerne i misfatti e racimolando prove guadagnarci. Le conversazioni fra Tarantini e il faccendiere Lavitola sono istruttive: il premier va «tenuto sulla corda»; messo «con le spalle al muro»; «in ginocchio». È insultare il bisogno chiamarli bisognosi. La giustizia accerterà, ma già sappiamo parecchio: il premier è ricattabile, non padrone di sé. È una marionetta, manovrata da burattinai nell´ombra. Si è avuta quest´impressione, netta, quando Dell´Utri commentò, il 29-6-2010, la sentenza che lo condannò in appello per concorso esterno in associazione mafiosa. Ancora una volta glorificò Mangano, il tutore-stalliere distaccato a Arcore dalla mafia che mai nominò Berlusconi. Poi aggiunse, singolare postilla: «Io non l´avrei fatto. Forse non avrei resistito a quello cui ha resistito lui». La frase non era buttata lì; pareva un pizzino: «Stai in guardia, posso parlare, io non sono un eroe».

Uno che accetta d´esser ricattabile pensa di dominare ma è dominato; sproloquia di un Paese che ama ma lo considera «di merda». La guerra distorce gli animi a tal punto. Come può governare, se è ostaggio di uomini e donne che lo spremono? Come, se la sua vulnerabilità al ricatto diventa un male banale, un´ordinaria abitudine omertosa, e questo nell´ora in cui dagli italiani si esige una ripresa, morale oltre che economica, e una solidarietà con i poveri, i giovani derubati di pensione e futuro, i precari che la Banca d´Italia chiede di tutelare (comunicazione al Parlamento del vicedirettore Ignazio Visco, 30-8-11) e che la manovra ignora? Non è solo Berlusconi, il sequestrato. La cultura estorsiva secerne i suoi habitués, per contaminazione. Fra essi potrebbe esserci Tremonti, il così imprudente, così stupidamente spavaldo uomo-chiave della crisi.

Gli stava vicino un ometto tracotante e avido, Marco Milanese: ma proditoriamente. Accusato di associazione a delinquere, corruzione, rivelazione di segreto, si spera che il Parlamento ne autorizzi l´arresto. Milanese aveva anche dato al ministro un appartamento al centro di Roma che Tremonti pagava in parte e senza fattura. Il perché resta oscuro. Il ministro ha detto che la Guardia di finanza lo spiava: cosa strana per chi della Gdf è capo. Più la faccenda s´annebbia, più cresce il sospetto che anch´egli sia ricattato da un «complice in crudeltà».

Ma c´è di più: la debolezza di Berlusconi accresce negli italiani il disprezzo, l´odio della politica. Proprio lui, che entrò in scena vituperando i politici di professione ed esaltando meriti e competenze, incarna ora la politica quando si fa putrescente. La sua è una profezia che si autoavvera: aveva dipinto la separatezza teatrale del politico, e l´immagine s´è fatta iper-realtà. Al posto dei partiti le cerchie, le cosche: più che mai i cittadini sono tenuti all´oscuro. Per questo è così vitale raccogliere le firme per abolire tramite referendum la legge elettorale che ha potenziato le cosche. Disse ancora Dell´Utri, nel 2010, che mai avrebbe voluto fare il ministro: «Voglio scegliere i ministri». Ecco lo scopo delle cosche: scegliere, ma dietro le quinte. Berlusconi accusa tutti, di debilitare il premier: costituzione, Parlamento, oppositori, giornali. Non accusato è solo chi amichevolmente lo irretisce in permanenti ricatti.

Non si creda che basti toglierlo di scena perché tutto torni a posto. Che basti sostituirlo con altri spregiatori della politica, magari invischiati come lui in conflitti d´interesse. Se tante barriere sono cadute, abbassando la soglia del fattibile, è perché da 17 anni la sinistra ingoia i conflitti d´interessi, e si irrita quando qualche stravagante parla di questione morale. Perché anch´essa custodisce sue cerchie. Altrimenti avrebbe capito un po´ prima che a Milano e Napoli montava una rivolta della decenza che infine ha incensato, ma di cui non fu l´iniziatrice. Altrimenti si getterebbe ora nella raccolta di firme sulla legge elettorale. Altrimenti elogerebbe ogni giorno l´opera di Visco e Prodi contro l´evasione fiscale. Il male di Berlusconi contagia: è «dentro di noi», come scrisse Max Picard di Hitler nel ‘46. Come spiegare in altro modo l´incuria, l´impreparazione, davanti ai tanti scandali che assillano il Pd: da Tedesco a Pronzato e Penati?

Certo la sinistra non è Berlusconi: rispetta la giustizia, e non è poco. Ma una cosa rischia di accomunarli: il virus viene riconosciuto solo quando i magistrati lo scoperchiano, non è debellato in anticipo da anticorpi presenti nei partiti. Le condotte di Penati non erano ignote. Fin dal 2005 fu sospettato d´aver acquistato a caro prezzo azioni dell´autostrada Serravalle, quand´era Presidente della provincia a Milano, nonostante la società fosse già pubblica: per ottenere forse dall´imprenditore Gavio, cui comprò le azioni, contributi alla scalata di Bnl. Poi vennero le tangenti per l´ex Area Falck di Sesto San Giovanni. Nel 2007 il giornalista Gianni Barbacetto scrisse su questo un libro (I compagni che sbagliano). Prudenza avrebbe consigliato l´allontanamento da Penati. Invece niente. Passano soli due anni, e nel 2009 Bersani nomina proprio Penati capo della sua segreteria. Era «l´uomo del Nord», scrive Nando Dalla Chiesa sul Fatto, e il Nord s´espugna con i figli del berlusconismo.

Si racconta che un giorno i discepoli di Confucio gli chiesero: «Quale sarà la prima mossa, come imperatore della Cina?». Rispose: «Comincerei col fissare il senso delle parole». È quello di cui abbiamo bisogno anche noi, è la via aurea che s´imbocca quando - finite le guerre - urge rialzare le barriere del fattibile. Rimettere ordine nelle parole è anche smettere gli smorti totem che ci assillano: parole come riformismo, o centrismo. Ormai sappiamo che riformista è chi si accredita conservando lo status quo, facendo favori a gruppi d´interesse, Chiesa compresa. Liberare l´Italia da mafie e ricatti non è considerato riformista. Sbarazzarsi di Berlusconi servirà a poco, in queste condizioni. Gli elettori sono disgustati dalla politica come nel ´93-´94. Cercheranno un nuovo Berlusconi.

PIEVE DI CORIANO (Mantova) - Un euro al giorno toglie il ladro di notte? Il sindaco Andrea Bassoli, assicuratore e ciclista, due furti in due anni, si è fatto una domanda e si è dato una risposta. «Sissignori. Al costo di un caffè faccio vivere tranquilla la mia gente».

Avviso ai topi di appartamento: se avete in mente di (continuare a) fare shopping nelle case di Pieve di Coriano - dove finora avete agito in scioltezza - lasciate perdere. La festa è finita e Fort Knox adesso si è trasferito qui, terra di tartufi e biciclette sull’argine del Po, a metà strada tra il lago di Garda e il mare Adriatico, dove puoi non vedere una macchina per chilometri ma i ladri, loro, ci vedono benissimo. Soprattutto al buio. Assalti in villa, buchi per entrare negli uffici, razzie o anche colpi stupidissimi, da ladri di galline, tipo tre succhi di frutta prelevati dal frigorifero però, ed è ancora più odioso, sempre quando la gente è in casa e sta dormendo.

Va così dal 2006, l’ultima ondata predatoria a maggio. Il Comune adesso ha detto basta e, primo caso in Italia, ha varato un impianto d’allarme unico per l’intero paese. Al costo, appunto, di un euro al giorno per ogni famiglia. Come funziona? Non pensate a una sirena centralizzata, nessun grande cervellone. Molto più semplice: l’amministrazione comunale, grazie a una convenzione siglata con l’Istituto provinciale di vigilanza di Mantova, offre il sistema di sicurezza a tariffe agevolate. Le famiglie - 450 per un totale di 1069 abitanti - possono o acquistarlo o noleggiarlo al costo di 30 euro al mese. Il contratto dura cinque anni. Dopodiché l’impianto di allarme può essere riscattato con un centinaio di euro, oppure si può rinnovare l’abbonamento. Completa il ventaglio delle offerte un rinforzo della vigilanza notturna: in pratica, pagando 3,5 euro l’anno, ogni famiglia può incrementare le ronde dei vigilantes, già attive, fino a tre giri del paese. Dall’attracco fluviale alla zona artigianale.

«Non c’è nessuna psicosi - dice il sindaco Bassoli, al secondo mandato, giunta di centrosinistra - ma la richiesta di maggiore sicurezza viene proprio dai cittadini. È chiaro che più contratti riusciremo a sottoscrivere e più controlli avremo». Vista così sembra che Pieve sia una succursale di Caracas o un avamposto libico. In realtà il primo cittadino sostiene che «come furti siamo più o meno nella media degli altri paesi». Ma si capisce che danza sui cristalli: se da una parte vuole sensibilizzare la comunità ad abbonarsi alla sicurezza privata, dall’altra non può alimentare ulteriori paure.

Da notare: in paese ci sono già sette telecamere. Le hanno messe tre anni fa, 36 mila euro di spesa. Sono collegate via wireless a una centrale operativa del municipio e la stazione dei carabinieri di Revere, il paese vicino. «A proposito, funzionano queste telecamere?», chiede Bruno Pelin al bar Acli, in piazza Gramsci. È inutile negare che un po’ di scetticismo c’è. Anche sul costo. «È vero che un euro al giorno è un caffè, ma fanno 365 euro all’anno per 450 famiglie». Lino Mazzola fa due conti e, sotto la facciata romanica di Santa Maria Assunta, allarga le braccia. A giugno nella prima assemblea pubblica organizzata dal sindaco, la risposta è stata positiva. «Da lì ho capito che la cosa può funzionare», sostiene Bassoli. A fine settembre ci sarà un altro incontro. L’operazione allarme cooperativo sarà già avviata. «In paese ci sono già un centinaio di case dotate di allarmi privati. Se riusciamo a sottoscrivere almeno un altro centinaio di contratti è un ottimo risultato. A quel punto i ladri dovranno sceglierle con il lanternino le case da svaligiare». Luca Morandi fa l’imbianchino. Per ora ha solo dei sensori sulla porta di ingresso. Sta valutando se accettare la proposta del Comune. «Un euro non è tanto, ma l’importante è che questi allarmi siano davvero efficaci».

Chissà cosa ne pensano le bande di rapinatori che calano dal Veneto. Non professionisti. Piuttosto, spiegano in municipio, ladri improvvisati. «Quelli che hanno preso i carabinieri erano romeni, minorenni». A maggio si sono dati da fare. Oltre all’ufficio dell’agenzia di assicurazioni Unipol gestita dal sindaco, hanno preso di mira le abitazioni del carrozziere, di un paio di pensionati e di una famiglia appena arrivata in paese. Sembrava di essere tornati all’anno orribile 2006, quella dei colpi a ripetizione. C’è da dire che nonostante le visite dei ladri, Pieve - in controtendenza rispetto alla media dei paesini - continua a popolarsi. Sette anni fa gli abitanti erano 800. Oggi mille e sessanta. Molti lavorano all’ospedale, una sede distaccata del Carlo Poma di Mantova che impiega 400 persone. «Siamo un paese giovane e pieno di bambini. E senza disoccupazione. Qui c’è un certo benessere. Forse - conclude Bassoli - i ladri ci hanno preso di mira per questo»

postilla

Quando leggiamo i messianici rapporti degli organismi internazionali sull’urbanizzazione del pianeta, di sicuro non andiamo mai e poi mai a pensare a certi villaggi di Heidi nelle valli prealpine, o ai piccoli borghi aggrappati agli argini del grande fiume in mezzo alla pianura. E invece dovremmo proprio farlo, perché la notizia nel caso specifico è l’accettazione della normalità dei furti, e l’interessante offerta dell’amministrazione comunale di un nuovo servizio ai cittadini: cosa c’è di più urbano? La parola “paesini” usata dal giornalista forse ha senso se leggiamo le necessariamente distorte statistiche basate sulle circoscrizioni comunali, ma basta chiedersi per un istante: da dove viene tutto il benessere bramato dai topi d’appartamento? Dai mille abitanti che zappano chini nei campi manco fossimo in una pantomima dell’Angelus di Millet? Certo che no! E Allora si capisce che in un modo o nell’altro quel comune è l’ennesimo quartiere suburbano, con tutti i problemi connessi, e continuare a pensarlo in termini di autonomia classica, immaginario semirurale, forse conviene agli amministratori locali, vagamente convinti di operare al meglio, ma fa male a tutto il resto del mondo, almeno al famoso 50% urbano degli organismi internazionali … Ho anche provato ad allargare un po' il ragionamento (f.b.)

Il dibattito sui trasporti si fonda su un numero ridotto di concetti, molto semplificati e superficiali. E incentrati a favorire un aumento della dotazione di infrastrutture. Per rispondere a precisi interessi di lobby che si sono formati in tutta Europa fin dagli anni Ottanta. Per questo oggi la costruzione di una strada o di una ferrovia comporta in genere una sottostima dei costi e una sovrastima della domanda. Basterebbe una corretta informazione per smontare i luoghi comuni. Ma non è semplice perché si toccano corde irrazionali nella popolazione e interessi costituiti.

“Il gap che ci separa dai maggiori paesi continuerà ad aumentare e l’Italia rimarrà eterna inseguitrice”, “ho paura che ci scippino il corridoio per l’Europa”, “non possiamo perdere l’ultimo treno dello sviluppo”, “occorre sbloccare i fondi privati per la costruzione delle infrastrutture”, “il rischio è quello di perdere i finanziamenti europei”, “l’Italia è al centro dei flussi globali”, “le infrastrutture aprono la strada verso la ripresa”. Frasi simili sono ormai entrate profondamente nelle nostre convinzioni e i trasporti sono diventati argomento di discussione quotidiana. Ci si dovrebbe però chiedere il perché di tanto interesse e, soprattutto, capire quale è il suo influsso sui processi decisionali associati alle politiche di trasporto.

UN ELENCO DI LUOGHI COMUNI

A ben vedere il dibattito sui trasporti è assai limitato e costruito su un ridotto numero di concetti, molto semplificati e superficiali, cioè dei luoghi comuni. Ci limiteremo qui a un elenco, affatto esaustivo e rigorosamente bipartisan:

Il gap infrastrutturale e in generale il confronto con gli standard europei: l’Italia avrebbe reti meno estese degli altri paesi europei e, per questo, risulterebbe meno competitiva.

La confusione tra domanda e offerta e la convinzione che l’offerta generi sempre e comunque la domanda.

La necessità di puntare sui corridoi infrastrutturali a meno di non voler “perdere il treno per l’Europa”.

La pretesa che vi siano ingenti finanziamenti europei e privati, che risultano però bloccati dai veti incrociati e da italica lentezza.

La rigida associazione tra infrastrutture e sviluppo e occupazione: se costruiamo più infrastrutture, avremo più sviluppo.

Il tema dell’interesse del paese, minacciato dalla “anti-italianità” e da gruppi di “professionisti del no”.

Il mito “verde” secondo cui con adeguati investimenti in ferrovie e trasporto pubblico si potrebbe ottenere un significativo cambio modale.

Tutti questi argomenti vanno nella direzione dell’aumento della dotazione infrastrutturale. Non è qui possibile discutere ciascuno di essi per evidenziarne le incoerenze. A puro titolo di esempio, basti citare la scarsa propensione del settore privato a investire capitale di rischio nelle grandi infrastrutture, in particolare le estensioni della rete autostradale, le ferrovie e il Tpl.

La Tav italiana ha avuto un finanziamento privato pari allo 0 per cento. La capacità di autofinanziamento delle linee in progetto (Frejus, Brennero, Napoli-Bari, Terzo Valico) è sicuramente inferiore al 10 per cento, pur con ampie garanzie di rientro (i cosiddetti “canoni di disponibilità”) e pedaggi così alti da compromettere il realismo delle previsioni di traffico (1).


Anche i contributi europei sono inferiori a quanto viene dichiarato. Il valico del Frejus, l’opera per cui vi è il contributo atteso più alto, riceverà al massimo 3,3 miliardi di euro, pari a solo il 22 per cento, senza contare i costi relativi alla linea di accesso per cui non vi è nessun contributo (2). Nella maggior parte dei casi, poi, lo sforzo europeo si riduce a pochi punti percentuali, lasciando quindi allo Stato quasi tutto il costo.

Fonte: nostre elaborazioni da Turrò (1999); European Commission (3).

LE LOBBY DIETRO GLI SLOGAN

I luoghi comuni non costituirebbero un problema se rimanessero entro la dialettica interpersonale, esattamente come i commenti dei tifosi a fine partita. Purtroppo, non è così: i luoghi comuni plasmano pesantemente le politiche di trasporto. Solo per citare un numero, ben il 95 per cento in valore delle opere della “Legge obiettivo”, nata e presentata come lo strumento per velocizzare le infrastrutture fondamentali per il paese (e di cui lavoce.info ha documentato il fallimento, riguarda i trasporti (4). Non vi sono investimenti analoghi in telecomunicazioni, energia, reti idriche, sistemazione territoriale: praticamente solo mega-infrastrutture di trasporto.


Leggendo le dichiarazioni di giornalisti e politici, sempre più radicali ma sempre più superficiali, si può riconoscere una sorta di processo “ipnotico” con cui sono stati narcotizzati negli anni l’opinione pubblica e gli stessi operatori economici: idee superficiali legate alle esperienze quotidiane (“i treni sono sempre in ritardo”), vengono riprese e amplificate. Una volta rivestite di pseudo-scientificità da studi veri o presunti (“una ricerca dell’università tale o talaltra”), assurgono a dimostrazione di se stesse. Uscendo dai documenti ufficiali, diventano slogan, creduti e diffusi da larga parte della popolazione. Come parole magiche, ritornano poi nei piani e nelle decisioni governative, dove la necessità delle infrastrutture è data spesso per via assiomatica, diventando quindi realtà e arrivando a plasmare e costruire il mondo reale (5).


La domanda quindi è un’altra: questi concetti pseudo-tecnici, in grado di convincere l’opinione pubblica della necessità di massimizzare gli investimenti pubblici nei trasporti, si sono formati spontaneamente o sono stati, per così dire, alimentati? La lettura di importanti studiosi del settore dà una risposta forte, ma convincente: i luoghi comuni sono parte di oliati strumenti comunicativi supportati da precisi interessi lobbistici, formatisi fin dagli anni Ottanta in tutta Europa (6)

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Il beneficio per le lobby di costruttori, monopolisti, sindacati, industria, amministratori, è almeno triplice (limitandosi ai soli aspetti leciti): attirare ingenti investimenti nel settore delle costruzioni civili, cioè ad alto capitale e rischio relativamente basso; mantenere lo status quo, guardando alle sole infrastrutture invece che a un ben bilanciato mix di investimenti puntuali, liberalizzazioni, razionalizzazioni e trasparenza; sussidiare indirettamente l’industria, cioè i cosiddetti “campioni nazionali”, non essendo più possibile farlo direttamente.
Queste lobby non beneficiano dell’infrastruttura in sé, se non in minima parte (in forma di minori costi di trasporto), ma del processo di infrastrutturazione. L’interesse è quindi che l'opera non sia completa e che i problemi rimangano, in una tensione mai veramente risolta, basti pensare all’ossessivo confronto con l’estero, quale meta irraggiungibile. Tensione che si traduce in un opaco e continuo flusso di denaro pubblico verso gli interessi industriali, del settore delle costruzioni e, almeno in parte, anche della criminalità (7).


La soluzione del problema è semplice a parole e ardua nei fatti. L’opinione pubblica e alcuni decisori politici sono veramente e intimamente convinti che le infrastrutture in quanto tali siano la ricetta per il paese, che i problemi che vivono ogni giorno possano essere risolti da un ponte, che la vitalità della loro città sia compromessa dalla mancanza della Tav. Sono anche persuasi che, dato che la soluzione è ovvia ma non viene realizzata, ci sia “qualcuno” che rema contro.

Occorrerebbe quindi lentamente smontare, scardinare questo corpus di convinzioni e di argomentazioni retoriche soprattutto attraverso il puro uso dei numeri.
Un esercizio in questo senso è stato fatto da uno studio del 2003 che ha analizzato la coerenza della domanda e dei costi reali con quelli previsti per un ampio campione di progetti (8). Gli autori hanno dimostrato che vi è una sistematica e volontaria sottostima dei costi: l’88 per cento delle strade costa di più del previsto, il 30 per cento delle ferrovie costa dal 40 al 60 per cento in più. E al contempo una sovrastima della domanda: l’85 per cento delle ferrovie ha meno domanda del previsto, con un picco tra il 40 e il 60 per cento di errore. Tuttavia, la strada della corretta informazione dell’opinione pubblica e della decostruzione dei luoghi comuni risulta difficilissima perché deve toccare corde irrazionali, oltre che potenti interessi costituiti.

NOTE

(1) ResPublica, Strumenti innovativi per il finanziamento delle infrastrutture di trasporto, 2010, Milano.


(2) Il dato è precedente al recentissimo, opportuno, ridimensionamento, che però non cambierà le percentuali.


(3) European Commission (2004), Report from the Commission to the European Parliament, the Council, the European. Economic and Social Committee, and the Committee of the Regions on the implementation of the guidelines for the period 1998-2001, Commission staff working paper Sec (04) 220. European Commission (2007), Trans-European transport network. Report on the implementation of the guidelines 2002-2003 pursuant to article 18 of Decision 1692/96/EC, Commission staff working paper Sec (07) 313.


(4) Legambiente, Dieci anni di Legge obiettivo, 2011, Roma.


(5) Non si intende naturalmente sostenere che le infrastrutture di trasporto, grandi e piccole, siano in sé inutili. Ve ne sono di estremamente utili, di completamente inutili e di migliorabili. Il tema è, piuttosto, quali sono più utili e, soprattutto, quali ci possiamo permettere.


(6) Si vedano, tra gli altri: Turró M. (1999), Going trans-European. Planning and financing transport networks for Europe, Pergamon - Elsevier, Amsterdam; Peters D. (2003), Old Myths & New Realities of Transport Corridor Assessment: Implications for EU interventions in Central Europe in Perman A., Mackie P., Nellthorp J. (2003), Transport Projects, Programmes and Policies, Ashgate Publishing; ed Eddington R. (2006), The Eddington transport study, HM Treasury, London (UK).


(7) Relazione del ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione investigativa antimafia. Gennaio–giugno 2010, ministero dell’Interno, Roma.


(8) Flyvbjerg B. et al

Titolo originale:This wrecking ball is Osborne's version of sustainable developmentScelto e tradotto da Fabrizio Bottini



Impassibili di fronte alla realtà, impenetrabili alle critiche: il ministro per le aree urbane, Eric Pickles e quello alle finanze George Osborne a quanto pare non hanno imparato proprio nulla dalla crisi economica. Sostengono che un meccanismo di autorizzazione urbanistica più semplice ed elastico sia “la chiave della ripresa economica”. Ma sono proprio i paesi dell’Europa più colpiti dalla crisi – Grecia, Italia, Spagna, Irlanda – ad avere meccanismi più deboli e subire dispersione insediativa. I paesi che si sono dimostrati più reattivi sono invece quelli con sistemi strutturati e insediamenti compatti.

Un sistema urbanistico solido rappresenta certo solo uno dei vari fattori in campo, ma è sintomatico di una cultura politica in grado di porre gli interessi nazionali sopra quelli egoistici di pochi, e la prospettiva di lungo periodo invece del denaro facile. Pickles e Osborne cercano di fare a pezzi il sistema urbanistico britannico con la stessa motivazione per cui vogliono abolire le norme sulle banche: libertà d’azione per le imprese, nepotismo, plutocrazia, esattamente le forze che ci hanno cacciato nel pasticcio attuale.

Meno pianificazione significa esasperare i problemi economici, perché si spostano capitali da funzioni produttive a speculative; le città si degradano svuotandosi; un localizzazione mal concepita delle attività economiche, insediamenti sparsi e lunghi tempi di spostamento frenano l’efficienza economica. Solo domenica il New York Times riferiva come al raddoppio delle densità urbane la produttività aumenti fra il 6% e il 28%.

Obiettivo di un sistema di pianificazione urbanistica non deve essere la crescita economica. Ma far sì che si risponda alle necessità umane tutelando al tempo stesso l’ambiente. Però, se abbiamo l’obiettivo di crescere, comunque un’urbanistica forte serve meglio allo scopo rispetto a una debole. L’attacco governativo alla pianificazione probabilmente potrebbe produrre gli effetti peggiori su entrambi i fronti: devastare l’ambiente e devastare l’economia.

Insieme al servizio sanitario nazionale e al resto del welfare state, le nostre leggi urbanistiche derivano dalla grande esperienza politica del dopoguerra, nella quale tanti cittadini di tutte le classi avevano perso la vita per il paese. L’idea di fondo era che la Gran Bretagna, salvata dal sacrificio collettivo, mai più sarebbe stata governata ad esclusivo vantaggio di ricchi e potenti. Una promessa rimangiata da partiti politici controllati da una ristretta elite.

Settimana scorsa sul Daily Telegraph Geoffrey Lean sosteneva che l’assalto al sistema di pianificazione sia spinto soprattutto dai compunti giovani metropolitani della coalizione governativa, che si sarebbero sostituiti ai “vecchi gentiluomini cacciatori di campagna”. Mentre in realtà sono proprio i vecchi cacciatori ad aver guidato l’attacco al’urbanistica, attraverso la loro Country Land and Business Association. Posti di fronte alla scelta tra abbastanza indefiniti “valori rurali” e un po’ di soldi facili, paiono non aver alcun dubbio sulla direzione in cui puntare il fucile. É il ritorno del vecchio potere, contro la democrazia.

Secondo il documento guida governativo sull’urbanistica in via di discussione, sarà quasi impossibile non autorizzare le trasformazioni, per quanto distruttive o dannose siano. Salvo nelle aree ufficiali di green belt, parchi nazionali, zone di riconosciuto alto valore paesaggistico, tutto è consentito purché non esistano enormi motivazioni contrarie, e anche su questo punto ci si è già mossi in anticipo. Recita il documento che le amministrazioni locali devono “approvare ovunque possibile tutte le proposte

Fine della politica di riuso delle aree dismesse (e di tutto ciò che è già in qualche modo urbanizzato) prima di pensare ad espandersi su spazi aperti. Greg Clark, il sottosegretario responsabile, ha ripetutamente reso poco chiare le cose su questo aspetto. Il nuovo documento parla chiaro: a pagina 51 dice che “ viene eliminata a livello nazionale la priorità nel riuso delle superfici già urbanizzate”. Fine dell’impegno a ridurre al minimo con la localizzazione degli insediamenti i tempi di pendolarismo e la congestione stradale, salvo nei casi in cui gli impatti siano “ gravi”, ma poi nel documento non si capisce cosa significhi esattamente questo “ gravi”. E fine dell’idea che la campagna, al di là di alcune aree specificamente tutelate, debba comunque essere difesa.

Sono le ruspe avanzanti, la vera idea governativa di sviluppo sostenibile. “ Edilizia vuol dire crescita”, recita il documento, e “ senza crescita non ci sarà alcun futuro sostenibile”. Quindi così diventa sostenibile qualunque trasformazione, da approvarsi senz’altro. “ Siamo preventivamente favorevoli allo sviluppo sostenibile”, ribadisce il documento, e questa deve essere “ la base di partenza per qualunque progetto, decisione … la risposta alle proposte di trasformazione è SI”.

C’è un elenco dei tipi di sviluppo sostenibile che le amministrazioni ora dovrebbero approvare. Stazioni di servizio sull’autostrada, grandi arterie verso un aeroporto, grandi cartelloni pubblicitari. E se non sono sostenibili loro, cosa lo sarà mai?

Per valutare le intenzioni reali del governo c’è un ottimo metodo. Se esiste un atteggiamento preventivamente favorevole alle trasformazioni sostenibili, dovrebbe anche essercene uno contrario a quelle insostenibili. Ma frugate tutto il documento e troverete al massimo in un caso una decisa diffidenza per le miniere di carbone. Il che va benissimo, ma non c’è altro. Qualunque altra trasformazione diventa, automaticamente, sostenibile.

C’è di peggio. Il documento afferma che le amministrazioni devono dare comunque l’autorizzazione nel caso in cui i loro “ strumenti di pianificazione non siano aggiornati”. Come osserva l’esperto di urbanistica Andrew Lainton nel suo utilissimo blog, è il 95% delle amministrazioni locali, che al momento dell’approvazione finale del documento non sarà dotata di strumenti aggiornati. A gennaio John Howells, segretario parlamentare di Greg Clark, spiegava alla Federazione Immobiliare Britannica che in questi casi si può costruire “ quello che si vuole, dove si vuole e quando si vuole”. Lainton sottolinea anche che quando un piano non è aggiornato, secondo il documento, non esistono salvaguardie per respingere progetti contrastanti. Così non significa solo indebolire il sistema urbanistico, ma accantonarlo totalmente.

L’arma che il governo usa per tutelare gli interessi degli speculatori è una minaccia emotiva: se non accettate il nostro piano diventeremo un paese di senzatetto. Molto interessante, notare in che modo gente che non ha mai e poi mai manifestato alcun interesse per i più poveri, improvvisamente sembri prendere le loro parti, quando c’è da far guadagnare i più avidi tra i ricchi.

Nessuna persona ragionevole può contestare il fatto che nel paese ci sia un grandissimo bisogno di case, specie di case economiche. E nessuno discute il fatto che le si debba adeguatamente autorizzare. Ma non è certo il sistema urbanistico ad aver impedito che negli ultimi anni di costruissero delle case, approvando l’80% dei progetti, sono i soldi. Nella revisione di bilancio dell’anno scorso il governo – senza dubbio motivato dalla sua ritrovata solidarietà verso i bisognosi – tagliava del 60% le disponibilità per le abitazioni economiche. Il sistema del credito si è prosciugato, la domanda solvibile ristretta, i costruttori falliscono. E non è certo indebolendo la pianificazione urbanistica che si risolvono questi problemi.

La plutocrazia ha i suoi eterni cicli. Spinge contro qualunque ostacolo alla propria distruttiva avidità. Ci riesce, e provoca un crollo. Viene salvata a costi enormi, dalle stesse forze che aveva avversato: regole, urbanistica, fisco, intervento pubblico. Si riprende, si scrolla la polvere di dosso, e subito si rivolta contro coloro che l’hanno salvata. L’assalto all’urbanistica fa parte del ciclo. Ma i danni dei plutocrati non saranno di sicuro reversibili.

Il miglior atto di responsabilità verso il Paese che la Cgil potesse assumere lo ha fatto proclamando lo sciopero generale e chiamando tutti alla mobilitazione.

Questa manovra del governo dev'essere profondamente cambiata, a partire dal ritiro dell'articolo 8 che cancella il diritto del lavoro, il contratto nazionale e lo Statuto dei Lavoratori. Non è sufficiente: un governo che con le sue leggi classiste sta attentando alla nostra Costituzione formale e materiale dev'essere mandato a casa. Di conseguenza, lo sciopero generale non può restare un momento a sé, per quanto fondamentale, ma deve segnare l'inizio di una mobilitazione straordinaria capace di durare il tempo necessario ad ottenere tutti questi risultati che non si esaurirebbero neanche con un cambiamento radicale della manovra. La Confindustria sta sostenendo apertamente le scelte del governo. Scelte che, con l'art. 8, promuovono l'odioso metodo della Fiat a Pomigliano e Mirafiori a legge dello stato, in violazione di altre leggi fondamentali.

Siamo di fronte ad un atto di una gravità senza precedenti che viola le più elementari regole di una democrazia costituzionale e che fa carta straccia persino dell'accordo interconfederale del 28 giugno, firmato dalla Confindustria insieme a Cgil, Cisl e Uil. Inoltre, la manovra non interviene sulle ragioni che hanno determinato la crisi, anzi fa pagare ancora una volta i lavoratori dipendenti, i pensionati ed i giovani, riproponendo gli stessi identici meccanismi e le stesse ricette che hanno gettato il mondo intero in questo marasma. Le risorse per uscire attraverso un'altra strada dalla crisi ci sono: vanno ricercate non tagliando lo stato sociale, i diritti e la dignità dei lavoratori e dei cittadini, ma introducendo una vera patrimoniale, tassando le transazioni finanziarie, colpendo l'evasione e la corruzione, riformando profondamente il sistema politico.

Il fatto ancor più grave è che questo tsunami che ci viene scatenato contro si sviluppa in assenza di una politica industriale pubblica capace di avviare un nuovo modello di sviluppo, socialmente ed ambientalmente sostenibile e rispettoso del pronunciamento popolare realizzato attraverso i referendum dello scorso giugno.

È in gioco la democrazia di questo paese, nei posti di lavoro come nella società. Anziché l'art. 8 del governo, è necessaria una legge sulla rappresentanza che sancisca il diritto dei lavoratori a votare sempre in modo libero sui contratti che li riguardano. L'unità del lavoro è un valore irrinunciabile, ma si costruisce con la democrazia, permettendo dunque, sempre, ai lavoratori di votare. C'è bisogno di unire intorno alle battaglie per il lavoro i giovani, gli studenti, i precari e tutti coloro che hanno subito e pagato la crisi. Solo attraverso questa unità è possibile determinare un reale cambiamento sociale, morale e politico.

L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, tale deve restare.

L'autore è Segretario generale della Fiom

Il polverone sollevato dall´impressionante disastro finanziario islandese - che ha comportato il fallimento delle tre banche più grandi e quindi il crollo della sua economia nell´autunno del 2008 - si stava appena diradando e già il Paese si è messo alla ricerca di qualcuno sul quale addossare le responsabilità dell´accaduto. Di sicuro le banche, certo. Un procuratore speciale nominato dal governo ha fatto i nomi di oltre 200 funzionari sospetti in un caso che, come pare inevitabile, sfocerà in un´imputazione. E poi i politici, naturalmente: gli elettori hanno espresso il loro sdegno nei confronti dell´Independence Party al governo da tempo allontanandolo dal potere nelle elezioni del 2009. Ma il desiderio di fare giustizia - e forse anche quello di vendicarsi - è forte e complesso e l´Islanda ha preso provvedimenti insoliti negli strani annali della crisi finanziaria mondiale: ha deciso di perseguire penalmente un personaggio politico, l´ex primo ministro Geir Haarde, perché il suo governo non è riuscito a scongiurare la catastrofe.

L´accusa formale contro Haarde, decisa da un parlamento quanto mai lacerato al proprio interno, parla di «sue violazioni commesse dal febbraio all´ottobre 2008, di proposito o per omissione o per banale disinteresse, essenzialmente contro le leggi della responsabilità ministeriale». Secondo l´accusa Haarde avrebbe dato prova di «gravi mancanze nei suoi doveri di primo ministro di fronte a un pericolo enorme che incombeva sulle istituzioni finanziarie islandesi e sulle casse dello stato». Il suo grande peccato, sintetizza Atli Gislason, dei Verdi di sinistra al parlamento e leader della commissione che ha istituito la causa contro Haarde, è essenzialmente proprio l´omissione: «Il suo errore è stato non fare niente». Se sarà giudicato colpevole da un collegio speciale di giudici, Haarde - una personalità di riferimento per il conservatore Independence Party e che ha servito come primo ministro dal giugno 2006 al febbraio 2009 - potrebbe essere condannato a due anni massimo di reclusione.

Per certi aspetti, il caso in questione è servito all´Islanda da espediente per costringere le autorità a rispondere del loro operato e voltare pagina. Se non altro, però, anche se l´economia islandese sta iniziando a dare qualche segnale di ripresa, l´accusa a Haarde ha reso la già cinica popolazione ancora più sospettosa. Da recenti sondaggi è emerso che la fiducia nel Parlamento ha toccato i minimi storici. «È in corso un cambiamento», dice Kristrun Heimisdottir, consulente del ministero degli Affari economici. «Finora prevalevano rabbia e sete di vendetta, ma adesso la gente non sa se la colpa sia davvero tutta di Geir». Il problema, a detta di Robert R. Spano, professore e rettore della facoltà di giurisprudenza dell´Università di Islanda, è che legge e politica sono ormai aggrovigliate tra loro. In un´intervista ha infatti detto: «Quando si vive una situazione di forte rabbia, le decisioni che dovrebbero essere prese oggettivamente e con grande attenzione tendono a essere contaminate dalla politica e dalle emozioni».

Lunedì, nel corso di un´udienza, gli avvocati di Haarde hanno sostenuto che il caso dovrebbe essere cancellato per vari vizi procedurali, e che l´imputazione stessa è troppo vaga per rispondere ai parametri legali. Se la loro mozione non sarà accolta, e se Haarde darà fondo a tutti i ricorsi che ha a sua disposizione prima che inizi il processo, la sua causa sarà discussa all´inizio del prossimo anno da un tribunale, mai convocato prima, incaricato di occuparsi di casi che hanno a che fare con gli atti illeciti del governo.

Haarde, 60 anni, ha detto di non aver commesso reato alcuno, che gli eventi che hanno portato al crack finanziario erano troppo complessi per essere distillati in un´aggressiva azione politico-legale contro una sola persona, e ha concluso dicendosi sicuro che potrà dimostrare la propria buonafede. «A posteriori, è davvero difficile affermare che non avremmo potuto agire in modo diverso» ha detto nell´intervista. «Ma questo è un processo politico mascherato da causa penale. I miei avversari politici stanno cercando di prendersela con me, e di castigare me e il mio partito».

Perfino alcuni parlamentari che hanno espresso parere favorevole per accusare Haarde affermano di essere perplessi da come si stanno trasformando le cose. Nell´autunno scorso, una commissione parlamentare speciale che doveva svolgere indagini sul crack ha rispolverato una vecchia legge con la quale ha potuto individuare quattro persone - Haarde e tre dei suoi ministri - che potevano essere ritenuti penalmente perseguibili. Ma dopo una serie di manovre politiche che hanno scatenato una furiosa lite in Parlamento, con un voto di 33 a 30 il Parlamento ha deciso di accusare soltanto Haarde.

Jon Danielsson, esperto di Islanda presso la London School of Economics, ha detto: «È il Parlamento ad aver deciso che condanneremo una sola persona, e si dà il caso che questo unico imputato sia l´ex capo dei conservatori. Siamo davanti a un processo politico. O li accusiamo tutti o nessuno». Molti islandesi approvano questo ragionamento: «Haarder è stato uno degli artefici del crack dell´Islanda, su questo non c´è dubbio», dice Arnar Thorisson, un cineasta di 42 anni che l´altro giorno passeggiava in centro a Reykjavik. «Ma non mi basta veder accusato soltanto lui».

Se c´è un politico più colpevole di altri, secondo molti è David Oddsson, vecchio amico e mentore di Haarde, primo ministro dal 1991 al 2004. Durante il suo mandato l´Islanda privatizzò le banche, liberalizzò i regolamenti bancari, aprendo la strada a un breve periodo di prosperità, ma anche a un comportamento azzardato e in definitiva auto-distruttivo da parte delle banche. Quanto Oddsson lasciò la politica, divenne presidente della Banca centrale. Fu estromesso dalla sua carica nel 2009, ed è attualmente direttore di Morgunbladid, importante giornale islandese e sostenitore dell´Independence Party. «Lui è il re, e noi in un certo senso stiamo impiccando il principe» ha esemplificato Eirikur Bergmann, direttore del Centro per gli Studi europei all´Università Bifrost.

A prescindere da come andrà a finire, un processo non servirà granché a placare la collera degli islandesi. «Siamo lontani dal giudicare gli eventi in modo equilibrato», spiega Gunnar Helgi Kristinsson, docente di scienze politiche all´Università dell´Islanda. «Se Haarde sarà giudicato non colpevole, l´opinione pubblica lo considererà un verdetto di un sistema nel quale nessuno è tenuto a rispondere del proprio operato. Se sarà giudicato colpevole, si ritroverà a essere l´unico responsabile di una situazione che tutti sanno che non è giusto addossare soltanto a lui».

(Copyright New York Times - la Repubblica/ Traduzione di Anna Bissanti)

Postilla

La grande stampa e la televisione si accorgono della risposta dell’Islanda alla crisi del finanzcapitasmo quando accade uno scandalo giudiziario. Non hanno informato quando in quel paese è successo lo “scandalo” di una risposta controcorrente al disastro provocato dai finanzieri: quando per uscire dalla crisi non hanno ammazzato il welfare e aumentato le tasse, ma colpito le banche. Vi rinviamo a un pezzo che a suo tempo abbiamo ripreso dal Fatto quotidiano, che a sua volta aveva preso l’informazione da facebook.

Se diventano legge, le modifiche all´art. 8 del decreto sulla manovra economica avranno effetti ancor più devastanti per le condizioni di lavoro e le relazioni industriali di quanto non promettesse la prima versione. I ritocchi al comma 1 rendono più evidente la possibilità che sindacati costituiti su base territoriale - si suppone regionale o provinciale, e perché no, comunale - possano realizzare con le aziende intese che, in forza del successivo comma 2, riguardano la totalità delle materie inerenti all´organizzazione del lavoro e della produzione. Da un lato si apre la strada a una tale frammentazione dei contratti di lavoro e delle associazioni sindacali da rendere in pratica insignificante la presenza a livello nazionale dei sindacati confederali; un esito che la maggioranza di governo punta da anni a realizzare.

Dall´altro lato la combinazione dei commi 1 e 2 darebbe origine a veri mostri giuridici. Il comma 2 stabilisce infatti che le intese sottoscritte da associazioni dei lavoratori più rappresentative anche sul piano territoriale valgono per la trasformazione dei contratti di lavoro e per le conseguenze del recesso del rapporto di lavoro. Come dire che se il sindacato locale accetta che uno possa venir licenziato con tre mesi di salario come indennità e basta, tutti i lavoratori di quel territorio dovranno sottostare a tale clausola. C´è dell´altro. Le eventuali intese tra sindacati e aziende riguardano anche le modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese - si noti bene - le collaborazioni coordinate o a progetto e le partite Iva. Il che significa che il sindacato potrebbe sottoscrivere dei contratti che prevedono l´impiego di lavoratori autonomi, quali sono formalmente i collaboratori e le partite Iva, come lavoratori dipendenti. Finora, se qualcuno cercava di realizzare simile aberrazione, finiva dritto in tribunale. L´art. 8 del decreto trasforma l´aberrazione in legge.

Quanto al nuovo comma 2-bis, esso abolisce di fatto non solo l´art. 18, bensì l´intero Statuto dei lavoratori. E con esso un numero imprecisato di disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2, visto che nell´insieme essi abbracciano ogni aspetto immaginabile dei rapporti di lavoro. Ciò è reso possibile dalla esplicita indicazione che le intese di cui al primo comma operano anche in deroga alle suddette disposizioni ed alle regole contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro. A ben vedere, il legislatore poteva condensare l´intero articolo 8 in una sola riga che dicesse "i contratti collettivi nazionali sono aboliti e con essi tutte le norme concernenti il diritto del lavoro".

Per quanto attiene alla tutela della parte più debole del contratto di lavoro, sarebbe quindi un eufemismo definire scandaloso il complesso del nuovo articolo 8 del decreto. Ma è giocoforza aggiungere che esso è anche penosamente miope per quanto riguarda il contributo che una riforma delle condizioni di lavoro potrebbe dare ad una ipotetica ripresa dell´economia. Il nostro Paese avrebbe bisogno, per menzionare un solo problema, di cospicui interventi nel settore della formazione continua delle sue forze di lavoro, di ogni fascia di età. È un settore in cui siamo indietro rispetto ai maggiori paesiUe. Questo decreto che punta in modo così smaccato a dividere le forze di lavoro per governarle meglio li rende impossibili. Naturalmente, c´è di peggio: esso rende anche impossibile un significativo recupero mediante la contrattazione collettiva della quota salari sul Pil, la cui caduta - almento 10 punti in vent´anni - è una delle maggiori cause della crisi.

Lo Stato non ha più un soldo e la Livorno-Civitavecchia la pagano le banche. Con la regia dell'esperto Bargone

Per l’ennesima volta l’autostrada Livorno-Civitavecchia è ai blocchi di partenza. I protagonisti giurano che questa è la volta buona. Le annose polemiche sul tracciato sembrano pronte a esaurirsi. E attorno a un progetto da due miliardi di euro si è saldata un’alleanza trasversale degli affari. I Benetton, con Autostrade per l’Italia, hanno dato le carte. Sono entrate le principali cooperative “rosse” di costruzione (Cmb, Cmc, Ccc e altre), Francesco Gaetano Caltagirone con la sua Vianini, e il Monte dei Paschi di Siena, banca “rossa” per un verso, ma che ha come vicepresidente il suddetto Caltagirone. A far da regista c’è uno dei massimi esperti di quel mondo dove il cemento e la politica si intrecciano. Si chiama Antonio Bargone. Avvocato di Brindisi, è stato negli anni ’90 il plenipotenziario di Massimo D’Alema nello scacchiere strategico del Salento. Nel 1996, primo governo Prodi, fu piazzato come sottosegretario ai Lavori pubblici, con il compito di marcare strettamente l’effervescenza del titolare del ministero, l’allora neofita Antonio Di Pietro. Nel 2001 Bargone ha abbandonato la politica attiva e si è dedicato agli affari con un certo profitto.

Oggi è un personaggio quasi mitologico, corpo di manager e testa di Stato. Non solo infatti è da alcuni anni presidente della Sat, la concessionaria per l’autostrada tirrenica, ma è anche commissario straordinario, nominato dal governo, per la realizzazione dell’opera. Alcuni parlamentari (Ermete Realacci del Pd, Elio Lannutti e Fabio Evangelisti dell’Idv) hanno fatto notare che ci sarebbe un certo conflitto d’interessi tra il presidente della società realizzatrice e il commissario del governo per l’opera. Ma Bargone non ha fatto una piega. Già due anni fa, al momento della nomina, fu disarmante: “Concessionaria e commissario non hanno interessi in conflitto, ma convergenti, cioè realizzare l’opera”. Adesso, di fronte alle nuove polemiche, precisa il concetto: “Il decreto di nomina parla chiaro: io non ho alcuna funzione di controllo sulla concessionaria, ma solo quello di accelerare le procedure e di rimuovere gli ostacoli di ordine burocratico per garantire il rispetto dei tempi”. Questa logica ferrea gli consente di aggiungere allo stipendio di presidente della Sat quello non trascurabile di commissario: 214 mila euro l’anno che lo Stato paga a Bargone per fare in modo che lo Stato non intralci troppo gli affari della società di cui è presidente.

Non è l’unico aspetto curioso della futura autostrada da 206 chilometri. Tutta da capire e raccontare sarà la storia del cosiddetto “project-finance” con cui l’opera si pagherà senza esborso alcuno da parte dello Stato. Funziona così: siccome lo Stato non ha più un soldo, le nuove infrastrutture vengono costruite da privati che se le ripagano con i proventi del traffico. Vent’anni fa la formula fu inaugurata per l’alta velocità ferroviaria. Furono aperti i faraonici cantieri dichiarando che lo Stato non avrebbe speso una lira, perché era tutto a carico dei privati. Era ovviamente un imbroglio: la linea veloce Napoli-Milano-Torino è costata ai contribuenti almeno 60 miliardi di euro, mentre i mitici privati non ci hanno messo un soldo, ma se ne sono presi tanti. Adesso la speranza di farsi dare fondi pubblici è tenue. E sull’autostrada tirrenica vedremo il project finance alla prova. Qualche giorno fa il Financial Times ha pubblicato uno studio secondo cui in Gran Bretagna il sistema del finanziamento privato ha comportato un costo imprevisto per i cittadini di circa 30 miliardi di euro su 60 miliardi di opere realizzate. Autostrade per l’Italia aspetta l’approvazione delle autorità per la cessione delle quote della concessionaria a coop, Caltagirone e Montepaschi. I due soggetti costruttori hanno preso un 25 per cento ciascuno, Autostrade si è tenuta un 25 per cento, il Monte dei Paschi ha comprato il 15 per cento. Il valore della società è stato stimato in circa 100 milioni, quindi il 25 per cento è costato 25 milioni. Per le società di costruzione il business è presto detto: con le norme sulle opere cosiddette “in house” la concessionaria può evitare di mettere in gara i lotti dell’autostrada e farli fare a società collegate, anche sue azioniste; teoricamente fino al 60 per cento del totale, ma il modo di aggirare questo tetto si trova sempre.

Le coop e la Vianini potranno così spartirsi un portafoglio di lavori tra un miliardo e un miliardo e mezzo di euro, secondo le stime. Il Monte dei Paschi si è messo in pole position per gestire il flusso di finanziamenti dell’operazione, che gli garantirà commissioni per diversi milioni. L’opera sarà finanziata per un 30 per cento dalla concessionaria (cioè dai suoi azionisti) e per il 70 per cento dalle banche. Ma non è escluso che le banche finanzino anche l’apporto di capitale delle società azioniste. Per vedere se le cose funzioneranno bisognerà aspettare una ventina d’anni. Se per caso la nuova autostrada non avesse abbastanza traffico di ripagare i debiti fatti, il cerino acceso rimarrà alle banche finanziatrici, esattamente come una volta rimaneva in mano allo Stato. Ma qui c’è l’analogia con la storia della Tav: tra vent’anni nessuno degli artefici dell’operazione sarà più lì a risponderne, così come oggi non sappiamo a chi chiedere conto della voragine finanziaria dell’Alta velocità. Speriamo che vada tutto bene.

Nei momenti difficili si mostra il carattere. Questa massima di saggezza popolare può valere per gli individui singoli e per le società. L´Italia naviga da mesi ormai in un mare di emergenza economica e finanziaria. Questo stato di difficoltà ha confermato lo stato di incredibile inadeguatezza della sua classe politica. Prima e soprattutto di quella di governo, la cui leadership è al fondo radicalmente antinazionale.

La coalizione di governo è dilaniata da mesi da conflitti intestini che vertono essenzialmente su questo: come riuscire a non far pagare il prezzo della manovra al proprio bacino elettorale, ai propri gruppi sociali o territoriali di riferimento. Che cosa questo comporti per il futuro del Paese non importa. Non importa alla Lega che per bocca del suo leader storico confessa al mondo che l´Italia comunque sarà spazzata via da questa crisi mondiale e che è quindi meglio pensare a salvare la parte sua, le regioni del nord padano nelle quali stanno gli elettori del Carroccio. Il destino del Paese non importa al presidente del Consiglio, il quale ha comparato senza giri di parole questo Paese, il Paese che governa, a un fetido escremento. L´inadeguatezza paurosa del premier è confermata dalla squallida vicenda Tarantini la quale, ha osservato Massimo Giannini nei giorni scorsi, mette in luce "l´enorme gravità politica" dei suoi comportamenti anche se non c´è agli atti nessun risvolto penale a suo carico. Dimostra quel che da anni si va ripetendo: che Berlusconi è un leader sotto ricatto, e pertanto inaffidabile; un leader che, in piena discussione sulla manovra economica, perde una quantità esorbitante del suo tempo per discutere dei suoi putridi "affari".

Ma i problemi della debolezza della leadership politica italiana si estendono oltre la maggioranza. La gravissima vicenda giudiziaria che vede coinvolto Filippo Penati è un macigno che pesa enormemente sull´autorità e l´efficacia politica del più grande partito di opposizione. Indipendentemente dai risvolti giudiziari, questa vicenda è di una gravità enorme e mette a nudo la debolezza politica del Pd. La vicenda dell´ex-presidente della Provincia di Milano mostra la persistenza di un modello di partito e di politica che apparteneva a un tempo nel quale i partiti erano i soli depositari del giudizio politico. Un tempo nel quale la fedeltà al partito era la prima e più fondamentale risorsa, il fine o il bene che giustificava l´uso di ogni mezzo e metodo. Su un campo di battaglia picchettato dalla logica della Guerra fredda le "mani sporche in politica" erano quasi una forma di eroismo: per parafrasare Machiavelli, i politici erano disposti a perdere l´anima pur di fare il bene del partito. Quando Penati chiede al suo partito di essere "garantista" con lui che è stato un leale sostenitore e non ha agito per arricchire se stesso, dimostra di ragionare secondo quella vecchia etica partitica. La "questione morale" è dunque una questione di "mores", di valori e principi politici dai quali derivano norme di comportamento. Nell´Italia di oggi non c´è più posto per questo modello di partito né quindi per una visione del bene del partito che giustifichi mezzi obliqui e irrispettosi della legge. In questo senso la vicenda di Penati mette in luce una debolezza non ancora risolta della leadership della sinistra.

La crisi della leadership politica nazionale è ovviamente complessa. Sarebbe a dir poco assurdo rubricare nello stesso capitolo maggioranza e opposizione. Il detto "tutti sono uguali" è una evasione della ragione, una scappatoia oziosa di chi non vuole ammettere la specificità del berlusconismo: un fenomeno di malgoverno, affarismo e negazione dell´interesse generale che è sistematico e sistemico. Non un caso di corruzione né il segno di una lealtà politica partitica, ma un modo di essere e fare politica che è scientemente fondato sulla violazione della legge o la sua riscrittura per renderla meglio disposta a permettere la distruzione del bene pubblico e la soddisfazione di beni privati, interessi di gruppi e di territori. Il berlusconismo è una forma di politica antinazionale, contro ciò che è nell´interesse della nazione. Questa politica dà il segno dell´inadeguatezza della leadership di governo in questo momento di emergenza nazionale.

La cosa preoccupante è che in questo momento di emergenza l´opposizione sembra aver smarrito la forza, il coraggio e la credibilità necessari per rovesciare questo corso rovinoso. Le elezioni di maggio e i referendum di giugno sono stati con troppa facilità messi in archivio, forse perché non si è compreso il loro significato, cioè la carica di disobbedienza al modello berlusconiano, un´indicazione preziosa di come ridare alla politica dignità e rigore, condizione essenziale per ricostruire una nuova leadership. La vicenda Penati rivela questa incomprensione; è il segno che la politica dell´opposizione è ancora intrappolata nella vecchia logica della politica partitica. Chiudere subito e con coraggio con quel modello di partito e di politica può agevolare l´emergere di una leadership che sappia cogliere appieno il messaggio che i cittadini hanno lanciato in maggio e giugno, che non dissipi un patrimonio etico e politico che a fatica, e con una ammirevole tenacia, gli italiani hanno saputo difendere in questi anni di egemonia berlusconiana.

Ventimila metri cubi di negozi, alberghi, uffici ma anche spazi riservati «ad attività museali e culturali, ludico-ricreative e sportive» con annessi alberghi e ristoranti. E due torri, una delle quali da 105 metri, parcheggi per accogliere un milione di nuovi visitatori all'anno, su un totale di 46 mila metri quadrati.

E' il nuovo Minitalia, così come lo delinea il progetto presentato due anni fa dalla Thorus spa, società che dal 2007 (e fino al 2010 con i vicentini Zamperla) gestisce il parco dei divertimenti: rinnovato e rilanciato, in questi ultimi anni ha ripreso quota fino ad affacciarsi al 2011, suo quarantesimo anno, con 409.500 presenze nell'arco degli ultimi 12 mesi, che fanno segnare un incremento del 25%. Ma Leolandia — l'altro nome di questa Disneyland bergamasca — vuole crescere ancora. Nonostante i molti dubbi, le opposizioni, le osservazioni. La pagina più recente della vicenda porta la data dello scorso 27 luglio e viene dalla Direzione generale Territorio ed Urbanistica della Regione Lombardia. Promuove il progetto, ma ponendo anzitutto quattro «prescrizioni» ed una mezza dozzina di «indicazioni» cui fanno seguito le «misure di compensazione».

Prima prescrizione: che la torre più alta «scenda» a 90-95 metri perchè si possa «ridurne sostanzialmente la visibilità dal sito del Villaggio Crespi». Seconda, che uno «studio di incidenza» garantisca «il mantenimento della funzionalità globale di Rete Natura 2000»; terza, che un altro studio dimostri «la sostenibilità della trasformazione per quanto riguarda gli impatti attesi a regime sulla sistema trasportistico e infrastrutturale»: in quest'area già congestionata (parlando solo di autostrada, la Milano-Brescia è la più trafficata d'Italia) arriveranno entro il 2015 anche Brebemi e Pedemontana. Quarta: le reti idriche e i sistemi di trattamento delle acque «dovranno essere verificate e analizzate nel dettaglio».

Seguono le indicazioni, sulle alternative ai parcheggi così come sono progettati, sulle aree agricole vicine da salvaguardare, sulla gestione dei rifiuti. «E' un parere positivo, un tassello importante anche se parziale ma, per chi sa leggere, una sostanziale bocciatura del progetto» dicono Mara Leoni e Luciano Gelfi dai circoli Legambiente di Trezzo sull'Adda e Cerca Brembo. Da due anni alla testa del fronte del «no» alla nuova Minitalia, gli ambientalisti sperano che quelle prescrizioni e indicazioni diventino ostacoli insormontabili.

E poi ci sono le misure compensative: prima fra tutte quelle «finalizzate alla valorizzazione e al miglioramento della fruizione del sito Unesco di Crespi d'Adda». Ce ne sarebbe davvero bisogno. Nello storico villaggio industriale costruito a fine Ottocento il corso Gaetano Donizetti è chiuso «al traffico veicolare e pedonale per motivi di sicurezza pubblica»: la grande ciminiera del cotonificio (abbandonato, il tetto a pezzi, tante delle decorazioni in cotto sbreccate) è pericolante. «Io compio ottant'anni e sono nato nel palazzone all'inizio del paese. Il nome non ve lo voglio dire, ma se aggiustassero questa invece di fare torri nuove sarebbe meglio per tutti».

Continuare come se nulla fosse successo nel frattempo, come se il crollo di fiducia nella politica della destra non ci sia stato, come se la sconfitta di Milano, che prima del 15 maggio sembrava impensabile al premier, sia stata un fatto assolutamente irrilevante. Come se la grande disobbedienza del 12 e 13 giugno sia capitata in un altro paese. Tutto ciò che prima sembrava determinante, una volta avvenuto è stato rubricato in fretta nel capitolo della cronaca antica. Siccome i cittadini non hanno votato a elezioni politiche, essi non hanno espresso alcun giudizio su questa maggioranza di governo quando hanno votato a favore di coalizioni di centrosinistra e quando hanno detto NO all´insistente suggerimento di Berlusconi di non andare a votare ai referendum.

A leggere i giornali di questi giorni sembra che niente di nuovo ci sia sotto il sole italiano: il clientelismo con i quale si è cementata questa alleanza di governo mostra un altro spezzone del suo carattere sistemico, perpetrato con studiata intelligenza per distribuire incarichi proporzionalmente al nord come al sud, nelle posizioni di rilievo politiche, amministrative e aziendali. Come a riconfermare il carattere endogeno che lo contraddistingue dal primo giorno del suo insediamento, il governo ha deciso di tener conto solo delle opinioni che gli sono favorevoli, di dar segno di rispondenza solo a quella parte della società e della cittadinanza che è in sintonia con il suo fare. Gli altri, le opinioni degli altri, non esistono, non hanno peso, non contano. Indifferente all´opinione autorevole che i cittadini hanno voluto far giungere chiara e forte a Roma, il governo della Repubblica, che nella costituzione e nei manuali di dottrine della politica è definito come un potere dipendente e in questo senso servente rispetto a quello sovrano rappresentato in Parlamento e prima ancora nelle urne, persiste nella sua opera di nascondimento e indifferenza.

La P4 rispecchia l´identità proteica dell´ideologia berlusconiana, poiché nonostante gli sforzi che facciamo per connotare onorevolmente le ideologie, interpretazioni di parte ma pur sempre politiche dei fini indicati nella costituzione, questa che ci governa da anni è un´ideologia. I cui caratteri principali e facilmente riconoscibili sono: il di rispetto per le regole poiché, si fa credere, limitano la libertà e l´intraprendenza di chi governa e al cui giudizio carismatico solo è bastante rifarsi se si vogliono conoscere le regole di ciò che conviene o non conviene; la giustificazione della necessità dell´emergenza quando l´ordinamento resiste alla volontà di potenza; la propaganda di ciò che si vuole il popolo creda e pensi; l´instancabile demolizione della dignità dell´opposizione, un intralcio al potere della maggioranza invece che un necessario controllo; la privatizzazione del bene pubblico, nel quale vanno messe prima di tutto le regole del gioco che non sono proprietà di chi le usa, oltre che le risorse dello Stato, tra le quali la legge è certamente quella più importante; il fare delle istituzioni luoghi per portare a compimento prima di tutto ciò che è nell´interesse privatissimo di chi governa, anche a costo di "mettere un velo" sulla legge (ovvero sulla libertà), per parafrasare il "divino Montesquieu"; infine e a compimento di tutto questo, la certosina e diremmo quasi perfezionistica attenzione a praticare l´arte del nascondimento.

La contraddizione tra questa pratica sistemica e le regole del gioco democratico costituzionale è stridente, insanabile. Sappiamo che la nostra democrazia è forte, perché vitalità e ragionevolezza della cittadinanza si sono mostrate con sobria e pubblica chiarezza, senza infingimenti, propagande e parole roboanti. Le due parti del dramma sulla scena politica italiana sono ben definite e fingere che una delle due non esista o sia apparsa e scomparsa come una cometa nell´attimo della conta dei voti è oltre che sbagliato, improvvido per chi finge. Come ha scritto Ezio Mauro, la memoria dei post-it è ancora fresca e riprendere la lotta contro i tentativi di oscurare la verità, di impedirci di sapere quel che succede nelle stanze dei palazzi non sarà né irrealistico né difficile. La discrepanza tra il dentro e il fuori delle istituzioni è ormai marcata. Sentire fastidio per ciò che è stato detto con il voto, fingere che non sia successo nulla, continuare a razzolare come prima e anche più caparbiamente di prima può essere improvvido. Certo é un segno di timore di perdere il potere, di debolezza quindi, non di forza.

Dilettanti al potere. Un governo e una maggioranza non solo incapaci di gestire i conti pubblici e di prospettare una coerente manovra di risanamento economico-finanziario, ma anche del tutto privi della necessaria cultura costituzionale di governo. Tutti i punti qualificanti la manovra d'agosto sollevano infatti delicate questioni di compatibilità con la nostra Costituzione. A iniziare dalla goffa proposta di cancellare il riscatto degli anni di studio e di quello dedicato al servizio militare, senza porre mente al fatto che una tale misura si prospettava in evidente conflitto con alcuni principi di fondo del sistema giuridico: dal principio generale del «giusto affidamento» del cittadino alla violazione di diritti acquisiti. Per non dire della discriminazione tra i sessi che, forse per la prima volta nella storia della repubblica, avrebbe penalizzato gli uomini anziché le donne.

Ma anche quel che è rimasto della manovra mostra una generalizzata ed evidente insensibilità ai limiti che la nostra Costituzione impone alla politica e all'economia. Così, il contributo di solidarietà, che è restato solo per i dipendenti pubblici, appare misura eticamente riprovevole in un paese che ha il più alto tasso di evasione ed elusione fiscale, finendo per penalizzare unicamente chi già fornisce una piena e leale contribuzione in base al proprio reddito. La violazione del principio d'eguaglianza è palese, discriminando tra lavoratori pubblici e privati. E poi basta leggerla la costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». Se solo alcuni, a parità di reddito, sono tenuti a contribuire è evidente che si passa da un sistema progressivo di tassazione a un sistema che discrimina in base alla categoria di appartenenza, violando gli articoli 3 e 53 della Carta.

Anche l'eliminazione dei vantaggi fiscali per le cooperative non sembra tener conto di quanto espressamente scrive il nostro testo costituzionale. L'articolo 45 riconosce la funzione sociale della cooperazione e rinvia alla legge la «promozione» per assicurarne i caratteri e le finalità specifici. È perciò che non possono porsi sullo stesso piano le coop e le società di capitali, le quali peraltro hanno meno vincoli e possono liberamente operare sul mercato. Sebbene sia evidente che il carattere di mutualità e l'assenza di fini di speculazione privata del sistema cooperativo è un orizzonte che fuoriesce dalla «cultura» mercantilistica dell'attuale maggioranza, il punto è però che in questo caso un'equiparazione, almeno per i profili fiscali, tra soggetti diversi (spa e coop) non appare conforme a costituzione.

Non solo le misure definite a Arcore appaiono costituzionalmente improponibili. E' l'intero decreto legge originariamente proposto a mostrare una collezione di criticità costituzionali. Così l'articolo 4 stabilisce norme per la privatizzazione del servizi pubblici locali, riproponendo disposizioni analoghe, se non identiche, a quelle abrogate per via referendaria (il primo dei quesiti su cui siamo stati chiamati a votare), con evidente elusione della volontà popolare e in spregio a quanto stabilito dalla Costituzione in materia referendaria (art. 75).

Anche per quanto riguarda i tagli agli enti locali si pone una delicata questione. Questi tagli, secondo la denuncia di tutti i rappresentanti delle istituzioni regionali e comunali, finirebbero per compromettere i primari servizi sociali, quei «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». In proposito, la Costituzione stabilisce una regola aurea. Quando vengono messi in discussione tali «livelli essenziali» spetta, in via esclusiva, allo Stato centrale provvedere. Invece l'unico problema del governo pare sia quello di ridurre il deficit e sottrarre i finanziamenti agli enti locali, disinteressandosi del fatto che in tal modo si finiscono per compromettere i diritti dei cittadini, in evidente conflitto con il carattere «sociale» della nostra democrazia costituzionale.

Infine, il governo, con allegra disinvoltura, ha voluto approfittare del decreto rivolto al risanamento della finanza pubblica per introdurre una disciplina che ha tutt'altro scopo. All'articolo 8 viene regolata la contrattazione collettiva di lavoro, estendendo quella aziendale a scapito di quella nazionale. La questione è assolutamente controversa politicamente, mi limito in quest'occasione a rilevare l'improprietà costituzionale della misura prevista. Sia per ragioni di metodo sia per ragioni di merito. Per quanto riguarda il metodo sono note le reiterate sollecitazioni del Capo dello Stato ai governi di evitare di adottare decreti legge «eterogenei», contenenti cioè norme non collegate direttamente all'oggetto specifico del decreto. Le giuste critiche presidenziali sono mosse dalla convinzione che non si possano introdurre discipline normative abusando della Costituzione, approfittando cioè dei tempi rapidi e della scarsa possibilità di discussione che il parlamento ha in sede di conversione dei decreti, in assenza peraltro dei requisiti della straordinaria necessità e urgenza. In questi casi deve essere seguita la via ordinaria del disegno di legge autonomo. Eppure a questo governo deve essere apparso più comodo introdurre una norma che ha per oggetto le relazioni sociali e non invece il risanamento del debito pubblico e che non ha alcun presupposto d'urgenza; con buona pace della corretta applicazione della Costituzione e delle sollecitazioni del Quirinale. Ma è anche nel merito che la normativa appare costituzionalmente discutibile. L'ambito di contrattazione aziendale, s'è detto, viene esteso, potendosi spingere a regolare praticamente l'intera organizzazione del lavoro, nonché le modalità di assunzione e di recesso dal rapporto di lavoro. Ciò impone due parallele riflessioni: da un lato c'è da dubitare che la contrattazione possa sostituire un'adeguata disciplina normativa (l'ha rilevato anche la Banca d'Italia), lasciando alle parti la disponibilità dei diritti dei lavoratori; dall'altro bisogna domandarsi se non c'è il rischio che in tal modo finiscano per venir compromessi i diritti costituzionali indisponibili. I precedenti (i contratti aziendali Fiat) lasciano prevedere il peggio: l'ammissibilità delle cosiddette clausole di responsabilità e la possibilità di definire le «conseguenze» del recesso aprono la porta alla negoziazione anche dei diritti del lavoro che la Costituzione tutela direttamente e che non possono essere «contrattualizzati».

Insomma, l'intera manovra appare lontana da ogni preoccupazione d'ordine costituzionale. Sarebbe auspicabile che le forze di opposizione si richiamassero alla cultura costituzionale che deve improntare ogni atto dei poteri pubblici in uno stato democratico e pluralista. Molte delle incongruenze e l'iniquità complessiva della manovra si spiegano anche in tal modo. Il rispetto dello spirito della Carta avrebbe imposto una manovra non meno incisiva, ma almeno improntata ai criteri della progressività (art. 53) e della redistribuzione delle risorse (art. 3, secondo comma).

Entro la primavera del 2013 l’Appia Antica avrà il suo centro d’accoglienza turistica. Sorgerà al V Miglio, dove lo storico Livio riconosceva le leggendarie "Fosse Cluiliae", il confine arcaico dell’Ager Romanus, da cui partono i tre ettari e mezzo della tenuta di Santa Maria Nova di cui la Villa dei Quintili è parte integrante. È qui che si concentra l’ultima tranche di risorse del commissario Roberto Cecchi in programma per la Regina Viarum, pari a 2 milioni di euro con cui da ieri è partito il complesso intervento di restauro e valorizzazione col duplice obiettivo di svelare un patrimonio archeologico inedito e di aprire il nuovo ingresso dall´Appia alla confinante Villa dei Quintili.

Un traguardo importante per un’area acquisita dalla Soprintendenza nel 2006 dalla famiglia americana Kimble che l’aveva più volte usata come location per il cinema, tra cui due perle di Totò come "Sua eccellenza viene a cena" e "Che fine ha fatto Totò baby?". A caratterizzare l’area, che prende il nome dai monaci Olivetani di Santa Maria Nova presenti qui dal 1300, è il monumentale casale a torre in laterizi articolato su due piani, la cui imponenza suggestionò molto il Piranesi che nel ‘700 lo ritrasse più volte. L’edificio risale al XII secolo e si imposta su una struttura di età imperiale, forse una cisterna a due livelli. La fisionomia a torre rimanda ad una tipica funzione di difesa: «Probabilmente una delle torri del sistema difensivo di Roma anche a custodia della Via Appia come il Castrum Caetani», spiega la direttrice Rita Paris.

Il programma dei lavori si concentra su tre progetti. Il restauro della porzione al piano terra del casale che diventerà museo della storia del territorio, da residenza imperiale a latifondo della Chiesa. Dove non mancano curiosità, come quando i monaci scoprirono nel 1485 il corpo di una fanciulla perfettamente conservato, identificata con Tullia figlia di Cicerone, ma che, quando venne esposta in Campidoglio a palazzo dei Conservatori, a contatto con l’aria si dissolse. Strategica sarà la riqualificazione del cosiddetto casalino, edificio dell’800 costruito su muri romani: «Questo sarà il vero punto d’accoglienza, con bookshop, biglietteria, assistenza didattica e tutti i servizi, compresa la caffetteria - racconta Paris - Vorremmo ripristinare l’antica serra adiacente al casalino per allestire un’area ristoro panoramica». Infine, lo scavo e restauro dell’impianto termale riemerso nelle recenti campagne di indagini: «Un settore che ha svelato splendidi mosaici con scene gladiatorie e circensi», dice Paris. Un’ipotesi è che si tratti di un presidio della guardia militare nella fase imperiale, quando la villa venne confiscata da Commodo con l’uccisione dei fratelli. «Il centro è un piccolo miracolo per l’Appia, ora bisogna arrivarci - incalza Paris - È urgente mettere a sistema questo patrimonio con una rete di collegamenti. E il Comune deve fare la sua parte».

Sta accadendo qualcosa di irreparabile, un finimondo che spazza via esistenze, culture, diritti, classi sociali. Cambia la storia e la geografia. Eppure fatichiamo a trovare le parole adeguate per dirlo, per spiegarlo, per contrastarne l'apparente oggettività, per denunciarne le cause. Siamo invischiati in una trama ideologica che non riusciamo a spezzare. Cos'è la crisi? La crisi è la crisi, così come una rosa è una rosa. Come una crepa nell'ordine naturale delle cose: che poi quell'ordine non sia affatto naturale, che si chiami liberismo e che abbia egemonizzato per circa un trentennio tutto il nostro West, questo nessuno (o quasi) lo dice.

La crisi è figlia di una "rivoluzione conservatrice" che ha ridotto la democrazia a un sistema di marketing elettorale mentre i poteri reali venivano sempre più delocalizzati e concentrati nei circoli finanziari sovranazionali. La crisi è il liberismo, la cui crisi evolve in crisi del mondo.

Le ricette con cui si cerca di affrontarla contengono tutti gli ingredienti che hanno fatto saltare il banco. Invece di mettere in mora il liberismo, si mette in mora il welfare. (Nel mesto balbettio delle forze democratiche, a Washington come a Roma). Invece di dettare regole ai mercati e ai mercanti, si stracciano le regole che danno dignità e forza di contrattazione al lavoro. Invece di investire sul futuro, sulla formazione, sulla ricerca, sull'innovazione, su un nuovo modello di sviluppo, si strozza la cassa delle pubbliche amministrazioni col cappio del "patto di stabilità".

Il debito pubblico è il buco da colmare, costi quel che costi, sia pure con la timida premonizione confindustriale che senza crescita e senza nuova occupazione quello sarà un pozzo senza fondo. Il contenimento del debito è il mantra che riunisce le peggiori classi dirigenti che l'Europa abbia mai avuto. Fino al punto di teorizzare la "costituzionalizzazione del pareggio di bilancio": un atto di demenza senile invocato per salvare quell'Europa che, in verità, si sta rompendo come un giocattolo.

Pur di educare ai principi e al lessico mercantile (chi di noi vuol essere complice di uno spread?), si decide (chi decide?) di fuoriuscire da un intero assetto di civiltà. Chi ha stressato l'ambiente e il lavoro per trarne il massimo profitto, chi ha trasferito la ricchezza dal mondo della produzione a quello della rendita, chi ha incoraggiato la messa all'incanto dei beni comuni, chi ha impoverito le nostre comunità, ora è servito: potrà continuare a farlo, anzi sarà incoraggiato a intensificare il proprio vitalismo predatorio. Forse è questa la "follia del Capitale" annunciata da Marx. Siccome il lavoro è stato spogliato di tutele e reddito, ora è tempo di dargli un colpo alla nuca: in Italia ci sono sindacalisti molto più attenti ai rutti della borsa che non ai sospiri dei lavoratori.

Non è l'universo dei paradossi: è il nostro mondo attuale, in cui la destra devasta e rilancia, la sinistra si rammarica, e il silenzio degli innocenti viene interrotto solo dalle urla degli indignati. Che non sono contro la politica. Sono contro quel "pensiero unico" che omologa la politica al rango di maggiordomo della vera casta (i detentori della ricchezza finanziaria). Insisto: sta per finire un'epoca segnata da una diffusa attesa di benessere e ne comincia una in cui è facile preconizzare un malessere generalizzato: e dunque? Davvero la crisi è figlia del fatto che "abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità"? Anche a sinistra ci si avvita in quella retorica per la quale, al netto di Tremonti, il "tremontismo" è ineluttabile? E dunque l'operazione è trovare i soldi, quadrare i saldi, e domani è un altro giorno. Ma non è tutta qui la "questione morale"?

In questo degrado del pensiero politico, che registra la propria impotenza e la veste di cinismo e malaffare, che anche qui da noi, anche nei salotti radicali, ha considerato impronunciabile la parola "patrimoniale", che ha abolito l'alternativa pur di godere dei benefici di una mediocre alternanza? Si ruba perché "così fan tutti", perché se tutto è sottoposto al primato metafisico del mercato allora vuol dire che anche la politica è una mera funzione mercantile, è valore di scambio, è negoziazione tra frammenti (lobbies, corporazioni, territori).

Questa politica debole, pomposamente esperta di sondaggi ma incapace di sondare, si affida alla sapienza opaca delle tecnocrazie, ai pallottolieri ingannevoli dei ragionieri, si eccita per ogni Marchionne che appare sulla scena, ha il complesso della modernità e così ne confeziona una leggera e di facili costumi. La sinistra è stata mangiata dalla "politica debole", cioè dal deficit di alternatività culturale ed etica. Non si tratta di evocare una risibile diversità antropologica, si tratta di riconnettere la politica alla vita vera, ai sogni e alle attese dei vecchi e dei giovani, alla domanda sempre più attuale di giustizia sociale e di libertà individuale. Riconnettere politica e speranza.

Qui in Italia la destra sta liquidando le funzione fondamentali dello Stato e della pubblica amministrazione. Invece dei servizi sociali avremo la carità delle opere pie, basta il 5 per mille. Invece dell'universalismo del diritto alla salute, all'istruzione e alla previdenza, avremo la "sussidiarietà" di un privato che si regolerà guardando il portafoglio delle famiglie. La società in fondo non esiste, come diceva efficacemente la lady di ferro inglese, esistono gli individui: più che cittadini, vanno pesati in qualità di "clienti". Lo Stato residuo è solo Stato etico: quello che definisce la soglia della vita nel suo farsi e nel suo disfarsi, quello che proibisce e punisce le marginalità, quello che detta legge per conto delle gerarchie ecclesiastiche su cosa sia lecito fare nelle questioni relazionali, sessuali, di costume.

Ecco il passaggio d'epoca che dobbiamo fronteggiare mettendo in campo una alternativa credibile ai "governi della miseria" e alla "miseria dei governi" che stanno devastando il destino delle generazioni più giovani e stanno producendo un cataclisma sociale che ha la forza devastante (ma anche fondativa) di una guerra. Non credo sia un caso che le sconfitte più serie e più nitide Berlusconi le abbia subite non dentro al Palazzo, ma fuori, attraverso un lunga e variegata sequela di movimenti, di lotte, di socializzazione di saperi critici: che del berlusconismo hanno disvelato l'anima reazionaria e maschilista, decostruito la macchina del consenso, radiografato l'antropologia. Così è nata la rivoluzione delle primarie e dei ballottaggi, così è cresciuto il popolo dei referendum.

Lo dico con semplicità: la destra, a questo salto d'epoca, si presenta con il suo programma fondamentale: privatizzare i diritti, la società, la vita, la giustizia. Sradicare dal senso comune qualunque idea di interesse collettivo, chiudere i conti con tutte le luci del Novecento senza fare i conti con tutte le ombre del Novecento. Noi non possiamo che inventare la buona politica che rimette al centro l'inviolabilità delle persone, la ricchezza dei "valori d'uso", la centralità dei beni comuni.

Per questo mi ha emozionato la lettera che mi è stata indirizzata dalle colonne de il manifesto (31/8) da Alberto Lucarelli e Ugo Mattei. Accolgo senza indugio l'invito che mi viene rivolto. Noi ricorreremo a qualunque sede di giustizia contro le infamie sociali e le abnormità costituzionali della manovra finanziaria, la terza in pochi mesi che la destra infligge al Paese. Lo faremo anche con l'ausilio della passione scientifica e civile di chi ci mette a disposizione il proprio gratuito patrocinio. Lo faremo perché la bellezza, la memoria, la cultura, la dignità non sono valori negoziabili: e non c'è futuro possibile né vita vera se non costruiremo su queste parole il senso, la forza e la moralità della politica.

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