Parlando in nome della Chiesa italiana, il cardinale Bagnasco ha usato parole molto chiare, ieri, davanti al Consiglio permanente dei vescovi. Il nome del presidente del Consiglio non viene fatto, ma è di Berlusconi che parla: quando denuncia «i comportamenti licenziosi e le relazioni improprie», quando ricorda il «danno sociale (che essi producono) a prescindere dalla loro notorietà». Quando cita l´articolo 54 della Costituzione e proclama: «Chiunque sceglie la militanza politica, deve essere consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell´onore».
Non è la prima volta che il Presidente della Cei critica l´immoralità insediatasi ai vertici del governo italiano, ma questa volta le parole sono più precise e dure, il tono si fa drammatico perché il Vaticano ormai ne è consapevole: la personalità stessa del premier è elemento della crisi economica che sta catturando l´Italia, e all´estero la sua figura non è più giudicata affidabile. Tra le righe, Bagnasco fa capire che le dimissioni sarebbero la via più opportuna: «Quando le congiunture si rivelano oggettivamente gravi, e sono rese ancor più complicate da dinamiche e rapporti cristallizzati e insolubili, tanto da inibire seriamente il bene generale, allora non ci sono né vincitori né vinti: ognuno è chiamato a comportamenti responsabili e nobili. La storia ne darà atto».
Come in altre occasioni, non manca la critica parallela alla magistratura: critica che Berlusconi ha abilmente sfruttato a proprio favore, per lungo tempo, presentandosi come politico vicino alla Chiesa e da essa appoggiato. Il Cardinale ha dubbi «sull´ingente mole di strumenti di indagine messa in campo, quando altri restano disattesi e indisturbati» e giunge sino a dirsi «colpito dalla dovizia delle cronache a ciò dedicate»: sono dubbi e sbigottimenti non del tutto comprensibili, perché è pur sempre grazie alla magistratura e alla dovizia delle cronache che la Chiesa stessa, infine, ha dovuto constatare i «comportamenti non solo contrari al pubblico decoro ma intrinsecamente tristi e vacui»; «l´improprio sfruttamento della funzione pubblica»; i «comitati d´affari che, non previsti dall´ordinamento, si autoimpongono attraverso il reticolo clientelare, andando a intasare la vita pubblica con remunerazioni, in genere, tutt´altro che popolari»; l´evasione fiscale infine, «questo cancro sociale» non sufficientemente combattuto. Senza le inchieste della stampa indipendente, senza le intercettazioni ordinate dai pubblici ministeri, senza la documentazione sugli innumerevoli reati imputati al premier, la Chiesa non potrebbe fondatamente pronunciare, oggi, il suo «non possumus».
Anche in questo caso tuttavia, Bagnasco cambia tono rispetto agli anni scorsi. Pur esprimendo dubbi su magistrati e giornalisti, si rifiuta di metter sullo stesso piano le condotte degli uni e degli altri: «La responsabilità morale ha una gerarchia interna che si evidenzia da sé, a prescindere dalle strumentalizzazioni che pur non mancano (...) La questione morale, complessivamente intesa, non è un´invenzione mediatica: nella dimensione politica, come in ciascun altro ambito privato o pubblico, essa è un´evenienza grave, che ha in sé un appello urgente».
La questione morale non è un´invenzione mediatica: lo dicono da tempo tanti cattolici, laici e non, e la Chiesa italiana sembra volerli ascoltare, meno riottosamente di ieri. Si capisce che non faccia nomi espliciti, che non usi l´arma ultima che è la richiesta esplicita di dimissioni: sarebbe un´interferenza nella politica italiana, non promettente per il futuro anche se comprensibilmente invocata da molti. La Chiesa già interviene molto sulle scelte delle nostre istituzioni (il testamento biologico è un esempio), e non sarebbe male se in tutti gli ambiti osservasse la prudenza politica che manifesta verso Berlusconi, non nominandolo espressamente. Forse la condanna che oggi pronuncia - che questo giornale ha chiesto con forza - non può che essere spirituale, al momento: il cristiano non compra l´amore, non compra il consenso, non mente, non inganna, non privilegia i ricchi contro i poveri, non presta falsa testimonianza. Su questi e altri peccati ce ne sono, di cose da dire.
La vera questione, a questo punto, concerne i cattolici che sono nella maggioranza, e che dovranno giustificare ora le innumerevoli connivenze, i silenzi così tenaci e vili. Cosa pensano Formigoni, o Giovanardi, delle parole che vengono dal vertice della Conferenza episcopale italiana? Con che faccia il ministro Rotondi parla di Berlusconi come di un «santo puttaniere»? Perché "santo"? Per tutti costoro, più che per la Chiesa, vale oggi il comandamento di Gesù: «Sia invece il vostro parlare «sì sì», «no no», il di più viene dal maligno». Il Cardinale sembra avere in mente questi politici quando constata: «Colpisce la riluttanza a riconoscere l´esatta serietà della situazione al di là di strumentalizzazioni e partigianerie; amareggia il metodo scombinato con cui a tratti si procede, dando l´impressione che il regolamento dei conti personali sia prevalente rispetto ai compiti istituzionali e al portamento richiesto dalla scena pubblica, specialmente in tempi di austerità».
Non è escluso che il Papa abbia avuto il suo peso, nel linguaggio più aguzzo cui la Chiesa italiana ricorre. Da quando si è inasprita la crisi, Benedetto XVI ha usato parole di grande severità contro le ingiustizie e le diseguaglianze che lo sconquasso economico sta dilatando. Va in questa direzione l´omelia pronunciata l´11 settembre a Ancona. E nel viaggio in Germania il Pontefice non ha esitato ad ammettere che la Chiesa per prima è oggi scossa alle fondamenta: che per sopravvivere e rinascere deve "demondanizzare" se stessa, deve farsi scandalosa. Nel discorso al Konzerthaus di Friburgo ha ricordato che uno dei tanti fattori che rendono "poco credibile" la Chiesa è il suo apparato, e sono le sue ricchezze materiali.
Demondanizzarsi, riscoprire l´umiltà e la povertà: è un progetto di vita alto, è l´antica denuncia che Antonio Rosmini fece nelle Cinque Piaghe della Chiesa (inizialmente la Sacra Congregazione dell´Indice condannò il grande libro, nel 1849). «La Chiesa non deve forse cambiare? Non deve forse, nei suoi uffici e nelle sue strutture, adattarsi al tempo presente, per raggiungere le persone di oggi che sono alla ricerca e in dubbio?» lo ha chiesto a Friburgo il Papa, stavolta, e quel che ha chiesto è importante anche per l´Italia, alla cui costruzione e alla cui unità tanti cattolici laici hanno contribuito. Così come è essenziale anche il discorso sulla povertà. È già un passo non irrilevante la disponibilità di Bagnasco a farsi giudicare, sulle sovvenzioni che la Chiesa riceve dallo Stato italiano: «Facciamo notare che per noi, sacerdoti e vescovi, e per la nostra sussistenza, basta in realtà poco. Così come per la gestione degli enti dipendenti dalle diocesi. Se abusi si dovessero accertare, siano perseguiti secondo giustizia, in linea con le norme vigenti».
La Fiom non cambia linea. Chi ha letto nella conclusione unitaria dell'assemblea nazionale dei delegati e nella buona accoglienza riservata a Susanna Camusso un cambiamento di rotta dei metalmeccanici Cgil, un rientro «nei ranghi», ha preso un abbaglio. Parola di Maurizio Landini. Il segretario generale della Fiom ci rilascia questa intervista a conclusione dell'assemblea degli «indignati», in preparazione della giornata europea del 15 ottobre. Segno anche questo che la linea non cambia, e non cambiano le alleanze: con gli studenti, i precari, l'ambientalismo, i movimenti nati sul territorio contro le politiche liberiste e antipopolari. L'obiettivo è «la riunificazione delle lotte che hanno al centro diritti, dignità, un modello di sviluppo alternativo a quello che cancella ogni vincolo sociale e ambientale».
A pochi giorni dalla ratifica della firma di Susanna Camusso con Cisl, Uil e Confindustria, in calce all'accordo del 28 giugno che voi contestate, improvvisamente la Fiom ritrova l'unità e si riapre positivamente il confronto con la Cgil? Chi è andato a Canossa, tu o la Camusso?
Nessuno dei due. Io sono un sindacalista e sto al merito delle questioni: sulle politiche contrattuali, sia l'opposizione agli accordi separati che la rottura con la Fiat di Marchionne non hanno visto forti divisioni tra Fiom e Cgil. Comune è il giudizio negativo sull'articolo 8 della manovra. Noi abbiamo costruito una proposta convincente e condivisa sulla piattaforma contrattuale con un lavoro determinato nel territorio nell'ultimo anno e mezzo segnato da difficoltà e conflitti. Un'esperienza che ha unito l'organizzazione e rafforzato il rapporto con i lavoratori, ma anche posto le condizioni per una ripresa di un confronto più sereno con la nostra confederazione, che ha assunto la piattaforma votata quasi all'unanimità. Ciò non toglie che sull'accordo del 28 giugno e sulla decisione di ratificare la firma della Cgil senza consultare i lavoratori restano due giudizi diversi, esplicitati nella mia relazione, nell'intervento di Camusso e nel dibattito. La dialettica è molto forte, ma è possibile uscirne positivamente.
Veniamo alla piattaforma contrattuale. Quali sono gli aspetti caratterizzanti?
Al primo punto metterei la definizione di un accordo con tutte le controparti sulle regole democratiche, per evitare nuovi accordi separati. Come? Innanzitutto garantendo sempre il voto dei lavoratori. Questa condizione non è garantita dall'accordo del 28 giugno, e tantomento dall'articolo 8 della manovra. Chiediamo a tutti, sindacati e organizzazioni imprenditoriali, un atto di responsabilità per chiudere una stagione orribile, segnata da idee e contratti diversi: c'è chi come noi riconosce quello del 2008 oggi in scandenza e chi invece si rifà a quello separato del 2009. La Fiom vuole riconquistare il contratto unitario, sottoscritto da tutti, questo è l'asse portante della nostra piattaforma assunta dalla Cgil.
Fa discutere la disponibilità della Fiom a raffreddare il conflitto. Non sarà un modo sotterraneo per accettare la sospensione del diritto di sciopero?
Noi difendiamo il contratto nazionale, il suo primato all'interno del sistema contrattuale, la sua non derogabilità. In qualche caso, penso all'informatica o alle istallazioni telefoniche, è possibile che il contratto nazionale che resta uguale per tutti e ovunque, demandi al contratto aziendale la definizione di normative congrue con la specificità dei singoli settori, in materia di orari, trasferte e quant'altro. Vogliamo anche noi qualificare la contrattazione nelle aziende e il ruolo delle Rsu, e a questo scopo chiediamo alle controparti informazioni preventive sulle eventuali modifiche dell'organizzazione del lavoro, sulle ristrutturazioni, sui progetti, sui trasferimenti, per farla finita con l'unilateralità delle imprese. Se si accetta questo principio, se dentro la crisi si riconosce il ruolo del sindacato e si smette di attaccare i diritti dei lavoratori, allora anche noi siamo disponibili ad evitare azioni unilaterali. Oggi non abbiamo né informazioni né confronto sindacale ma solo aggressioni ai diritti sindacali e del lavoro. Senza un accordo chiaro, controfirmato e rispettato è impensabile qualsiasi raffreddamento del conflitto.
Che cosa ha prodotto in piattaforma il rapporto costruito con il mondo giovanile e il precariato?
Ci diciamo disponibili a un maggior utilizzo degli impianti previa contrattazione, ma se ci si chiede di andare oltre la situazione attuale, si pone il problema della riduzione degli orari e l'aumento dell'occupazione. E alle controparti chiediamo di sviluppare un'azione comune nei confronti del governo per favorire la stabilizzazione dei precari. Ribadiamo, a parità di prestazione parità di diritti e condizioni lavorative. Le forme di lavoro temporaneo devono costare di più, proprio per stabilizzare i lavoratori. Infine, accettiamo la trimestralizzazione del contratto e per questo chiediamo un aumento salariale di 208 euro tra il 3° e il 5° livello. Questo aumento dovrebbe essere detassato.
Come pensate di continuare la battaglia contro l'articolo 8 della manovra?
Andremo avanti fino al ripristino del diritto del lavoro, la nostra piattaforma è alternativa all'articolo 8. Qui c'è un punto di unità con la Cgil e con il paese, come testimonia lo straordinario successo dello sciopero del 6 settembre che ha convinto tante persone anche esterne alla Cgil, magari iscritte ad altre organizzazioni. Condividiamo la scelta della confederazione di ricorrere alla Corte costituzionale, ma se ciò non bastasse dovremmo continuare con le lotte, fino a organizzare un referendum popolare abrogativo dell'articolo 8. Non sarà soltanto questa battaglia a caratterizzare l'iniziativa della Fiom. Abbiamo deciso 8 ore di sciopero per proseguire nel territorio la mobilitazione avviata con lo sciopero generale. Poi terremo un'assemblea generale dei delegati Fiat per decidere insieme iniziative, così come avverrà in altri gruppi come la Finmeccanica. L'obiettivo resta la riunificazione delle lotte, a cui non è estraneo l'impegno sociale per la caduta del governo Berlusconi.
La battaglia contro Berlusconi legittima l'alleanza con la Confindustria che chiede più privatizzazioni e liberalizzazioni, mentre pratica l'attacco ai diritti?
Certo che no. Ho letto il manifesto di Confindustria, teso a peggiorare le politiche sociali ed economiche del governo. Noi ci battiamo contro la filosofia che ha prodotto la crisi e contro una risposta che si fonda sulla stessa filosofia e sulle stesse persone.
Hai faticato a spiegare agli indignati che la Fiom non cambia la sua linea in nome di esigenze superiori?
Nessuna fatica, e per altro nessun sospetto all'assemblea sul 15 ottobre. La Fiom è un sindacato, le sue posizioni e le sue battaglie sono note e se queste incontrano la condivisione della Cgil credo che ciò faccia bene alla Fiom, alla Cgil, ai lavoratori e ai movimenti.
Per il Partito democratico, stanco di tenere a bada le sue rissose anime sindacali, più numerose degli operai iscritti al partito, è una gran bella notizia: la Cgil, per mano della sua segretaria generale, ha ratificato l'accordo che sancisce la controriforma del sistema contrattuale, manda in pensione il contratto nazionale con il meccanismo perverso delle deroghe e toglie ai lavoratori il diritto di votare sugli accordi che riguardano la loro vita e il loro lavoro. Hanno vinto la Confindustria di Emma Marcegaglia che voleva cancellare gli ultimi vincoli sociali (e costituzionali) allo strapotere del capitale e il segretario della Cisl Raffaele Bonanni che incassa l'isolamento della Fiom.
La Fiom, l'ultima trincea che resiste all'attacco all'autonomia del lavoro e all'indipendenza del sindacato. Ha vinto anche Maurizio Sacconi, il peggior ministro del lavoro della storia d'Italia, che ha imposto nella manovra l'articolo 8 con cui si fa piazza pulita della contrattazione e si introduce addirittura la retroattività della norma che deroga ai contratti nazionali attraverso l'uso spregiudicato dei contratti aziendali siglati da sindacati di comodo. Un regalo alla Fiat di Marchionne, l'eroe dei due mondi che chiude uno stabilimento dopo l'altro, perde ovunque quote di mercato, viene declassato per i suoi debiti ma continua a volerla fare da padrona, con la conseguenza di vedere il conflitto operaio estendersi dagli stabilimenti del vecchio a quelli del nuovo mondo.
Un vero capolavoro: Cgil, Cisl, Uil e Confindustria di nuovo insieme. A pochi giorni dallo straordinario successo dello sciopero generale indetto dalla Cgil, il sindacato di Susanna Camusso rientra nei ranghi - e per tanti di quelli che il 6 settembre avevano scioperato e riempito le piazze di tutt'Italia sperando nell'inizio di una nuova storia, questa normalizzazione verrà vissuta come una debacle, e al vuoto di una sponda politica per i più colpiti dalla crisi e dalle manovre classiste si aggiunge la caduta di una sponda sociale. Perché la firma definitiva dell'accordo del 28 giugno non argina l'effetto mortifero per la democrazia dell'articolo 8 di Sacconi, ne è anzi la premessa e lo giustifica. La Cgil, con questa firma che non è legittimata da alcuna consultazione tra i lavoratori, rompe con la sua storia democratica e secondo la minoranza interna, ridotta al silenzio con una pratica che scavalca ogni centralismo democratico e rimanda alla stagione delle purghe staliniane degli anni Trenta, persino con il suo statuto. Non solo agli operai è negato il diritto di voto sui contratti e gli accordi, neanche possono più esprimersi sulle scelte del proprio sindacato.
Hai voglia a prendetela con l'antipolitica di chi dice sono tutti uguali, o a mettere l'insufficienza sui compiti di chi riduce tutto al conflitto contra la casta, se anche la parte "sana" del sindacato, quella non arruolata nelle fila dell'avversario di classe, fa prevalere una indecente interpretazione dell'autonomia del politico che cancella quella del sindacato. Forse Berlusconi sta per cadere, allora tutti insieme per la nuova Italia, insieme alla Confindustria che attacca il governo anche se lo fa da un versante iperliberista chiedendo privatizzazioni, attaccando salari diritti e pensioni di chi già oggi non ce la fa più a campare. È una logica suicida, quella del Pd e della maggioranza della Cgil: purché siano contro Berlusconi sono nostri alleati. Persino i burocrati di Standard&Poor's vengono promossi al rango di compagni. Non siamo certo alla fine della storia, ma sicuramente al suo arretramento. La Cgil e la sua segretaria dovranno però fare i conti con la realtà, e forse anche con la loro base sociale. Già a partire da oggi all'assemblea nazionale dei delegati Fiom, dove è attesa proprio Susanna Camusso.
Ieri sera Berlusconi è calato a Roma. Di solito dalla Sardegna, dove trascorre i weekend fino a quando regge il clima, si dirige su Milano per sbrigare certe sue faccende private. Se d’improvviso il Cavaliere ha cambiato programma, dev’esserci per forza una ragione di speciale importanza. Qualcuno dello staff la collega alle due telefonate di ieri, la prima a Cuneo e la seconda a Bisceglie, in cui Berlusconi ha sparso la sensazione di volersi tuffare nelle misure per lo sviluppo e per la crescita che «esamineremo» in settimana, ha detto. Pare abbia già incontrato Gianni Letta, suo braccio destro. E si prepara una mattina di fuoco, riunioni con i fedelissimi prima di tornare ad Arcore, perché c’è da decidere il «chi», il «come», ma soprattutto il «che fare».
Domanda numero uno: che fare con Tremonti? Berlusconi non ha deciso se licenziarlo o invece no. Se dar retta a chi (la lista è lunghissima, ma sicuramente la guidano Galan e Crosetto) gli suggerisce di «cacciare Giulio addebitandogli la colpa delle decisioni sbagliate» e chi (vedi Fitto, ma pure anti-tremontiani come Cicchitto, per non dire di personaggi prudenti tipo Letta e di Bonaiuti) invitano il premier a considerare il momento, sarebbe da pazzi scatenare una guerra col titolare dell’Economia proprio adesso che lo «spread» con i bund tedeschi viaggia intorno ai 400 punti. Tra l’altro il Professore, che ieri è tornato a Pavia direttamente da Washington, non ha la minima intenzione di dimettersi. E casomai vi fosse costretto dalle circostanze, vale l’immagine colorita di un ministro economico: «Sarebbe come avere nel governo un kamikaze con il giubbotto pieno di esplosivo: Giulio salterebbe in aria, ma tutti noi con lui...».
Meglio evitare. Non per caso a sera Bossi, che nonostante la salute vede più lontano di molti, annotava: «Tremonti non è in pericolo». E dovendolo «sopportare» al Tesoro, meglio ottenere la sua collaborazione per fare in fretta questo decreto sullo sviluppo, di cui ancora nulla è nero su bianco, solo poche idee (avrebbe detto Flaiano) ma confuse. Il libro dei sogni berlusconiano punta a «quota 90», il rapporto tra debito pubblico e Pil che quasi per incanto crolla di 30 punti dall’attuale 120 per cento, riportandoci tra i paesi semi-virtuosi. La bacchetta magica si chiama «dismissioni», in pratica la vendita di asset pubblici, immobiliari e non. Guai però a toccare Eni ed Enel, avverte Osvaldo Napoli, in quanto fruttano soldi freschi all’Erario, venderli sarebbe un autogol. Ci sarebbe l’immenso patrimonio immobiliare. Verdini ha consegnato a Berlusconi un dossier ricco di numeri e di proposte. Lo stesso Tremonti ha convocato per giovedì un incontro sull’argomento, si chiamerà «seminario» in modo che nessuno immagini decisioni rapide, né tantomeno svendite dei gioielli di Stato. Se ne potrebbero ricavare centinaia di miliardi, però il demanio è passato agli enti territoriali, ci va di mezzo il federalismo, il groviglio legislativo è pressoché inestricabile.
Ma il vero pozzo di denari cui tutti pensano, perlomeno nel Pdl, si chiama condono. Fiscale o edilizio, parziale o tombale, non ha importanza, purché vi si attinga senza falsi pudori... L’armistizio con Tremonti dovrebbe consistere, secondo quanto va maturando in queste ore, in una sorta di compromesso: il partito cessa di attaccarlo, mette la sordina a Brunetta e agli altri critici del Professore; in cambio lui finge di dare ascolto ai colleghi di governo, e consente qualche operazione di finanza straordinaria fin qui negata. Per dirla con un personaggio ruvido ma sincero come Cicchitto, «per andare avanti servono grandi decisioni, bisogna prendere di petto il debito pubblico». Altrimenti, tutti a casa.
A Modena, per la costruzione del “secondo più grande parcheggio sotterraneo d’Italia”, con licenza delle sempre sollecite soprintendenze, è stato distrutto l’ottocentesco Ippodromo, dichiarato bene culturale, ed è stata svuotata, dicono che è archeologia preventiva, la sottostante area archeologica. Ora l’assessore propone di vendere un po’ dei troppi reperti che sono affluiti nei depositi comunali.
Prima che su un divieto di legge, l’eccezione opposta alla vendita dei reperti archeologici, che si presumono seriali, raccolti nei depositi dei musei è fondata su ragioni di cultura che crediamo insuperabili. Non tutti gli oggetti custoditi nei musei possono e debbono essere esposti al pubblico. I depositi sono una sezione fisiologica di cui ogni museo non può fare a meno, perché è lì che si esercita quella attività assidua di studio e revisione critica che è la vita della speciale istituzione e l’alimento anche delle sezioni in esposizione. Quel che sta nei depositi non sempre ha interesse neppure per il pubblico colto, mentre presenta un alto valore per gli studiosi specialisti. Sono considerazioni perfino ovvie. I musei civici modenesi si sono assunti fin dalla costituzione il compito di ricevere in deposito ed ordinare gli oggetti di interesse archeologico emersi via via nel tempo anche dagli scavi occasionali nel sottosuolo non soltanto della città. E’ un servizio essenziale che il museo svolge pure nell’interesse dello Stato cui per legge quei reperti appartengono. Ed è un servizio di grande responsabilità e molto oneroso non solo di spesa, perché comporta l’impegno di classificazione e studio.
La vendita non è una soluzione e il ricavato sarebbe acquisito allo Stato proprietario, non alle casse comunali. Certo è che neppure per gli oggetti apparentemente ripetitivi si può parlare di doppioni, per l’ovvia ragione che prima della produzione industriale di serie ogni reperto anche fittile è un unicum e la quantità in archeologia, è stato detto, è un elemento essenziale di qualità. I reperti che costituiscono un insieme contestuale di oggetti della stessa natura non possono essere perciò dispersi con la vendita o la concessione in deposito d’uso ai privati, pur se dei singoli elementi fosse assicurata, come si dice, la tracciabilità, perché ne andrebbe perduto il senso che è dato dalla appartenenza a quell’insieme. Mentre l’offerta al mercato va ad alimentare una generica passione antiquaria per una sempre impropria destinazione ad arredo domestico di prestigio e accredita una concezione patrimoniale dei beni culturali. Su quali mai mercuriali è stato fatto l’apprezzamento economico (una cifra astronomica) di quanto conservano i depositi dei musei civici modenesi? Questa proposta, non nuova in verità neppure nel panorama nazionale (ma fino ad ora sempre respinta), di liberare i depositi dei musei dagli oggetti di ritenuto minore interesse è stata in questi giorni ripresa da un amministratore del Comune (che non ne è –già si è detto- proprietario) di fronte all’imponente afflusso nei musei civici di reperti estratti dal vasto scavo dentro il parco Novi Sad. Italia Nostra, è ben noto, ha espresso una valutazione severamente critica sulla distruzione dell’area archeologica che rimaneva protetta sotto l’ottocentesco Ippodromo.
Lì è stato applicato, lo hanno assicurato, il metodo della archeologia preventiva che in fretta rimuove ogni traccia dei sottostanti millenari insediamenti, del tutto poi indifferente alla destinazione che sarà data al vuoto così sollecitamente creato. Come se si trattasse di un terreno inquinato da bonificare. Si legga il bel servizio di Francesco Erbani su La Repubblica di un numero di fine luglio, che racconta come ha funzionato a Modena l’archeologia preventiva messa alla prova nello scavo del Novi Park. Di quanto lì è stato trovato e rimosso, i depositi del museo sono stati letteralmente inondati, con la preoccupazione che ha indotto a immaginare una campagna di vendite. La distruzione di quell’area, che la soprintendenza non ha voluto come tale vincolare (non c’è vincolo archeologico è stato ripetutamente assicurato), non potrà certo essere risarcita dalla artificiale costruzione del parco archeologico pensile, cioè adagiato sul tetto della pubblica autorimessa, tra griglie di aerazione e rampe che sprofondano. Vi saranno esibiti i più significativi e selezionati oggetti portati su dal profondo, parte incorporati nel sottile strato che copre la soletta di cemento di culmine del parcheggio e sistemati tutti allo stesso livello pressappoco sulla medesima linea verticale, parte raccolti in appositi padiglioncini di mostra. Una approssimativa simulazione che indulge al superficiale fascino dell’antico e se non giova alla promozione della cultura archeologica, forse inconsapevolmente offre una buona ragione a chi vorrebbe, piuttosto, vendere tutto. Se questa è la tutela archeologica.
A Modena, per la costruzione del “secondo più grande parcheggio sotterraneo d’Italia”, con licenza delle sempre sollecite soprintendenze, è stato distrutto l’ottocentesco Ippodromo, dichiarato bene culturale, ed è stata svuotata, dicono che è archeologia preventiva, la sottostante area archeologica. Ora l’assessore propone di vendere un po’ dei troppi reperti che sono affluiti nei depositi comunali. In vendita la Mutina trovata sotto l’Ippodromo?Prima che su un divieto di legge, l’eccezione opposta alla vendita dei reperti archeologici, che si presumono seriali, raccolti nei depositi dei musei è fondata su ragioni di cultura che crediamo insuperabili. Non tutti gli oggetti custoditi nei musei possono e debbono essere esposti al pubblico. I depositi sono una sezione fisiologica di cui ogni museo non può fare a meno, perché è lì che si esercita quella attività assidua di studio e revisione critica che è la vita della speciale istituzione e l’alimento anche delle sezioni in esposizione. Quel che sta nei depositi non sempre ha interesse neppure per il pubblico colto, mentre presenta un alto valore per gli studiosi specialisti. Sono considerazioni perfino ovvie. I musei civici modenesi si sono assunti fin dalla costituzione il compito di ricevere in deposito ed ordinare gli oggetti di interesse archeologico emersi via via nel tempo anche dagli scavi occasionali nel sottosuolo non soltanto della città.
E’ un servizio essenziale che il museo svolge pure nell’interesse dello Stato cui per legge quei reperti appartengono. Ed è un servizio di grande responsabilità e molto oneroso non solo di spesa, perché comporta l’impegno di classificazione e studio. La vendita non è una soluzione e il ricavato sarebbe acquisito allo Stato proprietario, non alle casse comunali. Certo è che neppure per gli oggetti apparentemente ripetitivi si può parlare di doppioni, per l’ovvia ragione che prima della produzione industriale di serie ogni reperto anche fittile è un unicum e la quantità in archeologia, è stato detto, è un elemento essenziale di qualità. I reperti che costituiscono un insieme contestuale di oggetti della stessa natura non possono essere perciò dispersi con la vendita o la concessione in deposito d’uso ai privati, pur se dei singoli elementi fosse assicurata, come si dice, la tracciabilità, perché ne andrebbe perduto il senso che è dato dalla appartenenza a quell’insieme. Mentre l’offerta al mercato va ad alimentare una generica passione antiquaria per una sempre impropria destinazione ad arredo domestico di prestigio e accredita una concezione patrimoniale dei beni culturali. Su quali mai mercuriali è stato fatto l’apprezzamento economico (una cifra astronomica) di quanto conservano i depositi dei musei civici modenesi?
Questa proposta, non nuova in verità neppure nel panorama nazionale (ma fino ad ora sempre respinta), di liberare i depositi dei musei dagli oggetti di ritenuto minore interesse è stata in questi giorni ripresa da un amministratore del Comune (che non ne è –già si è detto- proprietario) di fronte all’imponente afflusso nei musei civici di reperti estratti dal vasto scavo dentro il parco Novi Sad. Italia Nostra, è ben noto, ha espresso una valutazione severamente critica sulla distruzione dell’area archeologica che rimaneva protetta sotto l’ottocentesco Ippodromo. Lì è stato applicato, lo hanno assicurato, il metodo della archeologia preventiva che in fretta rimuove ogni traccia dei sottostanti millenari insediamenti, del tutto poi indifferente alla destinazione che sarà data al vuoto così sollecitamente creato. Come se si trattasse di un terreno inquinato da bonificare. Si legga il bel servizio di Francesco Erbani su La Repubblica di un numero di fine luglio, che racconta come ha funzionato a Modena l’archeologia preventiva messa alla prova nello scavo del Novi Park.
Di quanto lì è stato trovato e rimosso, i depositi del museo sono stati letteralmente inondati, con la preoccupazione che ha indotto a immaginare una campagna di vendite. La distruzione di quell’area, che la soprintendenza non ha voluto come tale vincolare (non c’è vincolo archeologico è stato ripetutamente assicurato), non potrà certo essere risarcita dalla artificiale costruzione del parco archeologico pensile, cioè adagiato sul tetto della pubblica autorimessa, tra griglie di aerazione e rampe che sprofondano. Vi saranno esibiti i più significativi e selezionati oggetti portati su dal profondo, parte incorporati nel sottile strato che copre la soletta di cemento di culmine del parcheggio e sistemati tutti allo stesso livello pressappoco sulla medesima linea verticale, parte raccolti in appositi padiglioncini di mostra. Una approssimativa simulazione che indulge al superficiale fascino dell’antico e se non giova alla promozione della cultura archeologica, forse inconsapevolmente offre una buona ragione a chi vorrebbe, piuttosto, vendere tutto. Se questa è la tutela archeologica.
Il ritratto dovrebbe essere esposto nel principato in un galà dedicato a Firenze. L’arte a noleggio dei privati, proprio come vuole una proposta di legge di Scilipoti.
Il ministero dei Beni culturali ha definito un “evento di portata storica” la spedizione a Cuba di un ‘Caravaggio’ che non è di Caravaggio; un alto prelato italiano sta cercando di spedire la Madonna di san Giorgio di Giotto a Mosca per ‘impreziosire’ le celebrazioni legate all’edizione dei testi di un concilio dell’VIII secolo; la Velata di Raffaello parteciperà al Ballo del Giglio del 2011, in un albergo di Montecarlo; i Baccanali Ludovisi di Tiziano saranno esposti ad Arcore, nella sala del bunga bunga, per evidenti affinità iconografiche.
Una sola di queste notizie è falsa: ed è l’ultima. Ma è falsa solo perché i Baccanali appartengono al Prado, che è un museo serio di un paese serio. Invece il prossimo 14 ottobre l’Hotel de Paris di Montecarlo ospiterà il Ballo del Giglio, che sarebbe la versione dedicata a Firenze del Ballo della Rosa voluto da Grace Kelly. Il programma prevede – tra un incontro di imprenditori, una colazione di lavoro e lo spettacolo dei Bandierai – l’esibizione di “un capolavoro della Galleria degli Uffizi”, che dovrebbe essere scortato dal sindaco Matteo Renzi. Fonti del Mibac rivelano che quel ‘capolavoro qualunque’ sarebbe stato alla fine identificato nella Velata di Palazzo Pitti, per la cui spedizione si sarebbe in attesa dell’autorizzazione ministeriale.
Se quella autorizzazione arriverà, e se vedremo davvero Raffaello al Ballo del Giglio, allora si sarà toccato il punto più basso della storia del patrimonio artistico italiano: un punto dopo il quale si potrà solo usare la Dafne del Bernini come una bambola gonfiabile, approfittando della bocca spalancata.
Le soprintendenze sono ormai infatti state ridotte a uffici tecnici: si chiede loro solo se il supporto materiale dell’opera d’arte che si desidera spostare è in grado di affrontare il viaggio. E se la risposta è che Raffaello non si rompe, ebbene si pensa di poterlo sbattere ovunque, a fare qualunque cosa. Non so se gli organizzatori del ballo verseranno un obolo al Polo museale fiorentino, ma in ogni caso l’operazione è rubricabile sotto la specie del noleggio a ore. E l’idea di noleggiare a privati le opere d’arte che appartengono alla collettività rappresenta eloquentemente il tono morale e il livello culturale dell’Italia del tardo berlusconismo: al punto che l’uomo simbolo di questa mirabile congiuntura, l’onorevole Domenico Scilipoti , ha trasformato questa idea in una proposta di legge per cui “le opere d’arte, inclusi reperti archeologici e similari, possono essere offerti in noleggio per un periodo prefissato di dieci anni tramite asta pubblica da gestire per via telematica”. L’obiettivo sarebbe quello di “valorizzare le opere d’arte che giacciono inutilizzate o sottoutilizzate in depositi museali o in altre sedi, promuovendo, attraverso il loro noleggio per un periodo decennale, l’arte e la cultura italiane nel mondo e, allo stesso tempo, contribuendo a ridurre il debito pubblico”. Non capacitandosi del fatto che Tremonti non sia corso a congratularsi con lui, poche settimane fa il tenace Scilipoti lo ha formalmente interrogato in Parlamento, riproponendogli questa genialata. E non si sa davvero se sia più madornale la bestialità di pensare che le opere d’arte si debbano “utilizzare”; quella di considerare i depositi dei musei non quei magazzini di sapere e di storia che sono, ma cantine polverose e inutili; oppure l’idea che uno partecipi a un’asta telematica e poi si veda consegnare a casa – non so – una Immacolata in marmo del Seicento, un polittico a fondo oro del Trecento o un set di vasi greci. Ma ancora: uno potrebbe noleggiare un fonte battesimale romanico per il battesimo del nipotino, un’alcova barocca per la prima notte di nozze, una scultura del Novecento per un cocktail in giardino (No Arturo Martini, no party). Ma, al di là del folklore , ciò che nella proposta di legge Scilipoti, si legge benissimo è il principio di fondo: privatizzare, selvaggiamente, il patrimonio artistico di questo Paese.
Il primo risultato di una simile legge sarebbe massacrare la dignità dell’arte figurativa. Che in Italia non è mai stata lo svago di alcuni raffinati perditempo, non un ornamento moralmente neutrale con cui ‘impreziosire’ la vita di magnati facoltosi e ignoranti: no, l’arte figurativa è stata per secoli uno dei linguaggi (il più alto forse) in cui rappresentare e condividere la storia, l’identità, l’anima della comunità civile. Trattare le opere somme di questa tradizione come orsi ballerini che si aggirano per i cocktail col piattino delle offerte tra le zampe significa umiliarle fino a privarle di quei poteri di umanizzazione ed educazione intellettuale e morale che le rendono presenze uniche e insostituibili nella nostra vita spirituale.
Il secondo risultato sarebbe infliggere l’ennesimo colpo al patto costituzionale che ci fa civili: per Costituzione, la Velata di Raffaello appartiene a tutti i cittadini italiani, indipendentemente dal reddito e dalla cultura. Mai come in questo momento di crescenti sperequazioni economiche, la natura di bene comune del patrimonio artistico può giocare un importante ruolo perequativo. Ma noleggiando un quadro di quell’altezza vertiginosa a una brigata di ricchi cafoni che si permettono di trattarlo come una musica di sottofondo per il loro galà, lo Stato riesce nel miracolo di trasformare proprio quel patrimonio nell’ennesimo fattore di diseguaglianza, ingiustizia e diseducazione.
Milano ha fatto scuola. E adesso il bike-sharing debutta anche nel Parco del Ticino, a Magenta, con trenta biciclette a disposizione gratuitamente ogni sabato e domenica per chi vorrà esplorare, sulle due ruote, i sentieri dell'area protetta. Il «PuntoBici» è stato allestito nel piazzale della stazione di Magenta e è aperto tutti i finesettimana dalle 10 alle 12.30 e dalle 14 alle 19, fino a fine ottobre. Poi il servizio chiuderà per i mesi invernali e ripartirà da aprile.
Oggi alle 12 il progetto sarà presentato in un incontro pubblico che si terrà proprio davanti della stazione, al termine di una biciclettata organizzata dal comune di Magenta, che è partner del progetto e lo cofinanzia con 9 mila euro. Il servizio di noleggio bici è stato realizzato dal Parco, che ha investito 50 mila euro e dalla Fondazione Cariplo che ne ha assicurati altri 60 mila. Fondi che sono serviti all'acquisto delle biciclette e alla copertura assicurativa. A chi vuole noleggiare la bici si consiglia la prenotazione al numero 335.8429214. Il «PuntoBici» è la prima fase di un piano intitolato «Dalla città al bosco. In bicicletta dalle stazioni ferroviarie al Parco del Ticino», che vede coinvolti anche altri comuni dell'area protetta in cui esistono delle stazioni: Turbigo e Castano Primo nel Milanese e Sesto Calende nel Varesotto.
L'idea è di promuovere l'uso del treno e delle due ruote per il turismo fuori porta. La riserva naturale «La Fagiana», ad esempio, dista 3 chilometri e mezzo dalla stazione: un tratto che non tutti sceglierebbero di percorrere a piedi. La mountain bike permette invece anche di esplorare i sentieri nei boschi: il parco ne possiede quasi 800 chilometri e dal sito www.vieverditicino.it si può scaricarne gratuitamente la cartografia sui gps da polso o da bici. Il più vicino alla stazione di Magenta è appunto «L'anello della Fagiana», lungo circa 14 chilometri. «I nostri sentieri sono sicuri, perché vengono analizzati e aggiornati costantemente dal personale – sottolinea il presidente del Parco Milena Bertani – Trattandosi di sentieri naturali, basta un nubifragio oppure un'esondazione del fiume a modificarli, per questo li controlliamo periodicamente».
Nel programma del Parco c'è anche l'apertura di un punto di noleggio di bici elettriche nella sede di via Isonzo. E a interessarsi al bike-sharing non è solo l'area protetta, ma anche il comune di Magenta. «Abbiamo sostenuto il parco con una partnership, ma abbiamo anche avviato le procedure per creare un vero servizio di bike sharing simile a quello di Milano anche a Magenta» spiega il vicesindaco Marco Maerna. In città arrivano ogni mattina oltre tremila 500 studenti delle scuole superiori. «Sarebbe estremamente significativo permettere a loro e a chi viene qui a lavorare di muoversi in bici, partendo dalla stazione e da altri punti della città — aggiunge Maerna —. Il progetto è già pronto, presto faremo la gara d'appalto».
postilla
All’innocente casalinga brianzola che riporta fedelmente dal giornale l’articolo sulle biciclette “gratuite” qualcosa non torna. Allora: il comune di Magenta ci mette 9.000 euro, il Parco ne ha investiti ben 50.000 e la Fondazione ne ha assicurati altri 60.000. E come si specifica si tratta di “fondi serviti all’acquisto delle biciclette e alla copertura assicurativa ”. CENTODICIANNOVEMILA EURO PER TRENTA BICICLETTE? Tempo fa si parlava di integrare davvero, anche dal punto di vista degli spostamenti per motivi diversi dal tempo libero, le varie forme di mobilità a scala metropolitana. Ma se i maghi dei bilanci ci sfornano ricette del genere forse è meglio restarsene chiusi in casa. Oppure investire quei quasi quattromila euro a bicicletta nella solita benzina per l’auto, come alla fine fanno tutti. Si risparmia, e non si prendono sulla testa quei fastidiosi temporali estivi (f.b.)
Gateway to London’s Olympic Park
Margine orientale dell’area metropolitana di Londra: a circa 3 miglia, seguendo il corso del Tamigi, troviamo il distretto di Newham, un territorio che porta ancora sulla pelle le tracce del proprio passato, dal quale ora tenta di uscire grazie a un progetto di rigenerazione urbana che si basa su investimenti economici e sociali di diverso tipo, i più importanti dei quali sono legati ai Giochi Olimpici del 2012.
Storicamente il settore trainante dell’economia di Newham è stata l’agricoltura, almeno fino alla metà del 1800, quando la realizzazione del primo porto per navia vapore, collegato direttamente alla ferrovia, rende Newhamil centro di produzione manifatturiera più importantenel sud dell'Inghilterra. Questo filone produttivo si esaurisce però nell’arco di poco più di una generazione, lasciando dietro di sé disoccupazione, calo demografico e abbandono edilizio. Le bombe della Seconda Guerra Mondiale fecero il resto. Solo con la ricostruzione post-bellica è stato possibile attirare nuovamente abitanti (immigrati stranieri che ancora oggi determinano il vivace mix razziale e culturale dell’area), nuovi investimenti e qualche attività economica. Ma la storia sembra ripetersi e, con la crisi dell’industria manifatturiera degli anni ‘80, da oltre un decennio, questo territorio è chiamato a far fronte alla mancanza di lavoro e di conseguenza a fenomeni quali la disoccupazione e la diffusione della povertà.
Newham conta circa 240.00 abitanti, con un’età media tra le più basse dell’area londinese (il 41% della popolazione è under 25) e con tassi di disoccupazione pari a quasi il doppio di quelli della capitale (14% contro l’8% di Londra), dati che contribuiscono a determinare alti livelli di povertà. Il tessuto produttivo è piuttosto debole e la maggior fonte di lavoro per la popolazione locale è rappresentata dal pubblico impiego (scuole, università, sanità) e da alcune catene della grande distribuzione.
Insomma, un territorio che appare sottosviluppato ma con ampie potenzialità per il futuro, purché si sappiano cogliere i giusti investimenti ed elaborare progetti che siano in grado di trasformarlo nella “porta d’accesso orientale alla metropoli”, cercando, al contempo, di “migliorare la competitività dell’economia e la qualità di vita locali”, come si legge nel “Local Economic Assessment 2010 to 2027”, il documento di sviluppo strategico del distretto.
Le istituzioni, per tentare di raggiungere questi obiettivi, hanno aderito al programma The Thames Gateway, una partnership pubblico-privata che coinvolge una ventina di attori locali tra istituzioni e università e che si propone di promuovere operazioni volte al recupero e alla riqualificazione dei territori che si affacciano sul Tamigi. Data la sua posizione strategica, Newham riveste un ruolo centrale nell’ambito di questo progetto, che vuole migliorare l’offerta economica e lavorativa ma anche la qualità dell’abitare di questo territorio.
A fine 2010 è stato approvato il piano strategico per l’area attorno a Stratford, che comprende: la riqualificazione della città esistente, la realizzazione del progetto Stratford City e il riuso, in ottica post-evento, delle strutture olimpiche. L’obiettivo che si intende raggiungere è quello di trasformare l’attuale Stratford nella porta orientale, di scala metropolitana, di Londra, con 46.000nuovi posti di lavoro, 20.000 nuove case, 8 nuove scuole, nuovi negozi, strutture ricreativeeservizi locali, nuove linee di trasporto pubblico. Il progetto trainante dell’operazione di Stratford è quello proposto dal gruppo Westfield, colosso australiano del commercio.
Lo shopping centre più grande d’Europa (English version)
“ Welcome to the next generation” è solo uno degli slogan utilizzati per il lancio di quello che ambisce a diventare lo urban shopping centre più grande d’Europa, il WestfieldStratford City,la cui apertura è prevista per il prossimo 13 settembre 2011: quasi due milioni di metri quadri tra spazi commerciali e ricreativi, nonché oltre un milione di metri quadrati per uffici, tre hotel, 5.000 abitazioni, per un carico insediativo di 11.000 nuovi residenti e 30.000 posti di lavoro.
Il sito su cui sorgerà il nuovo tempio dello shopping è un’area dismessa, di estensione pari a 73 ettari che confina con il Parco dove si svolgeranno i prossimi Giochi Olimpici di Londra 2012.
Sempre sfogliando il “Local Economic Assessment 2010 to 2027”, si comprende che Stratford già rappresenta un nodo infrastrutturale importante, grazie a linee intermodali di trasporto pubblico che consentono collegamenti efficienti con Londra e con il resto dell’Inghilterra, che si intende valorizzare con ulteriori progetti infrastrutturali, tra i quali spicca il potenziamento delle linee ferroviarie, con annesse strutture di interscambio, e il collegamento diretto con il continente tramite l’alta velocità ferroviaria, grazie alla quale sarà possibile, in due ore di viaggio, raggiungere Parigi.
Del resto qui si trova un’importante dotazione di aree da riqualificare, si concentreranno molti degli investimenti previsti per le Olimpiadi di Londra del 2012 le cui strutture, sono già oggetto di studio al fine di renderle convertibili e adattabili ad usi successivi ed infine qui c’è un tessuto sociale giovane e alla ricerca di lavoro. Sembrano esserci tutte le condizioni per poter attuare un piano di sviluppo, così come programmato nei diversi livelli di pianificazione inglese, supportato da studi economici e sociali integrati a progetti spaziali, almeno in teoria.
La ex “California lombarda”
Margine orientale dell’area metropolitana di Milano: lungo il tracciato della linea ferroviaria Milano-Venezia, appena oltrepassata la stazione di Lambrate, ha inizio l’Est Milano, una realtà territoriale piuttosto vaga e disomogenea, denominata Martesana dal nome del Naviglio che l’attraversa, che si estende dai territori confinanti con Milano, che risentono maggiormente del dinamismo urbano, a quelli più esterni, per i quali l’attività agricola è stata per molto tempo l’unica risorsa ereditata da un passato florido, nel corso del quale lo sfruttamento delle numerose risorse idriche presenti ha garantito un sistema colturale di qualità.
Solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, a causa del progressivo congestionamento della metropoli, che ha consentito il trasferimento “fuori città” di molte aziende, ha avuto inizio un rapido processo di industrializzazione, che ha portato Giorgio Bocca, dalle pagine de “Il Giorno” degli anni Sessanta, a definire questo territorio “ la California della Lombardia” in quanto “ da uno stato di indigenza assoluta era passato in poco tempo alla modernità”.
Contestualmente a questi processi di sviluppo, anche grazie ai rafforzamenti infrastrutturali di tipo stradale (autostrada A4, tangenziale est), ferroviario (prolungamento della linea metropolitana e potenziamento della linea Milano-Venezia) e aeroportuale (Linate), i comuni della prima corona suburbana sono stati investiti da una notevole urbanizzazione, tra le più consistenti dell’intera Lombardia, priva però di un governo sovra comunale, e quindi affidata spesso all’iniziativa degli operatori economici locali, che, senza pianificazione, hanno generato squilibri e speculazioni.
Tra questi casi uno tra i più emblematici è certamente il Comune di Segrate che, grazie a una serie di investimenti immobiliari privi di relazione, ha visto triplicare la propria popolazione in poco più di vent’anni. L’esito spaziale è stato un territorio di enclaves spaziali, un patchwork di quartieri ognuno caratterizzato da un assetto spaziale a sé e ognuno con una propria storia e identità: quartieri residenziali di lusso con parchi, giardini e piscine per i residenti, ai limiti delle gated community americane, poli ospedalieri privati, quartieri di edilizia residenziale pubblica poi convertiti in residenze all’ultima moda, poli per il terziario e studi televisivi. Tutte scelte localizzative che, per chi misura lo sviluppo territoriale in termini di ricchezza individuale, hanno dato i frutti sperati: Segrate è il quarto Comune più ricco d’Italia, con un reddito medio pro-capite di 36.000 € all’anno; per quanti invece non ritengono che gli imponibili fiscali siano uno strumento idoneo per valutare la pianificazione comunale è chiaro che questo modello di crescita ha generato un pesante deficit di servizi pubblici e necessita di politiche di riconnessione spaziale per consentire la realizzazione di una rete di servizi efficienti.
Con l’inizio della stagione delle dismissioni industriali la varietà del tessuto produttivo dell’Est Milano ha ritardato alcuni effetti nefasti delle molte crisi di settore, attenuando, o perlomeno ritardando, traumi particolari per le popolazioni locali.
A fronte però dei processi irreversibili di delocalizzazione produttiva, anche qui sono emerse una serie di aree dismesse generate da politiche industriali ed infrastrutturali mutate. Questi vuoti urbani connotano quello che oggi appare un territorio incerto, privato del proprio passato e ancora in cerca di una vocazione per il futuro.
I progetti infrastrutturali in corso, che si susseguono in modo frammentario e disorganico, delineano uno scenario di alta accessibilità per questo ambito metropolitano: autostrada direttissima Milano-Bergamo-Brescia, nuova tangenziale esterna di Milano, potenziamento della linea ferroviaria di alta velocità Milano-Venezia, collegamento metropolitano tra la linea ferroviaria e l’aeroporto di Linate: tutti questi investimenti avverranno senza che il Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Milano (l’unico documento con valenza strategica di carattere sovra locale) abbia elaborato delle linee guida di programmazione territoriale complessive e coerenti.
Come era accaduto per i processi di espansione del Dopoguerra, anche i processi di trasformazione delle ex aree industriali sono privi di un piano organico di sviluppo e riqualificazione che affronti le questioni infrastrutturali e che approfondisca una vocazione unitaria del territorio. Ogni ente locale gestisce le proprie aree di trasformazione, tentando di attirare investimenti immobiliari e finanziari, prestando poca attenzione alle ricadute e agli impatti delle nuove funzioni insediate.
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Dalla Cittadella del tempo libero…
Anche in questo caso Segrate rappresenta un caso emblematico: qui è stato proposto, e approvato, il progetto per una Cittadella del tempo libero da attuarsi su un’area dismessa di proprietà delle Ferrovie Italiane (ex Dogana) tra le più estese dell’Est Milano.
L’area dell’ex dogana era stata pensata, negli anni ’60, per allontanare le funzioni doganali da Milano città, ma il progetto è rimasto sulla carta, archiviato definitivamente nel '92 dalle norme europee sulla libera circolazione delle merci e, di fatto, l’area è diventata teatro di rave party e raduni clandestini.
Nel 2007 l'area viene acquistata dal Gruppo Percassi, famoso per aver costruito il grande centro commerciale di Orio al Serio proprio di fronte all'aeroporto, la cui strategia di vendita presuppone di “attirare i turisti dello shopping che dovrebbero partire in mattinata dalle capitali europee per recarsi a Orio, fare acquisti e poi tornare a casa”.
Il progetto della Cittadella di Segrate prevedeva un investimento di circa 600 milioni di euro per realizzare il centro commerciale più grande d'Europa, un hotel immerso nel verde, "torri" a fini residenziali, un campo da golf, un cinema multisala e addirittura un impianto sciistico al coperto, per complessivi 600.000 metri cubi. Per questo progetto l’amministratore delegato della società dichiarava di voler realizzare “un centro di aggregazione tra casa e lavoro dove trascorrere il tempo libero, socializzare e divertirsi”.
Per sedare la rivolta dei comitati locali nati per opporsi al progetto, di cui criticavano soprattutto gli aspetti legati al traffico automobilistico, il gruppo Percassi ha inoltre presentato un piano per la riqualificazione del sistema viabilistico, che va dall’aeroporto di Linate fino a Segrate, con previsione di svincoli a più livelli, nuovi percorsi ciclopedonali e una viabilità dedicata per l’ingresso al centro, cosicché il nuovo traffico indotto non interferisca con quello urbano.
Grazie a questi accorgimenti, secondo l’Amministrazione di Segrate, la Cittadella “darà una risposta ad una serie oggettiva di problemi esistenti sul territorio con un progetto destinato a dare pregio alla nostra città”.
…allo shopping centre più grande d’Europa (Italian version)
Gli ultimi sviluppi di questo progetto, che langue nei cassetti comunali dal 2009 a causa della crisi immobiliare, hanno portato il gruppo Percassi a stringere un accordo con il colosso Westfield (ebbene si, proprio lo stesso di Stratford) per la realizzazione dello shopping centre più grande d’Europa (ebbene si, proprio lo stesso slogan di Stratford), che si chiamerà Westfield Milan e che, con un’estensione di 170mila metri quadrati, sostituirà la Cittadella del tempo libero. Centinaia di negozi di livello medio-alto, marchi prestigiosi, brand di lusso e la promessa di 5000 posti di lavoro, oltre al rispetto degli impegni assunti per gli interventi sulla viabilità, sembrano aver convinto l’Amministrazione Comunale alla ratifica del nuovo progetto, la cui fine lavori è prevista per il 2015, giusto in tempo per l’Expo. Progetto che l’Amministrazione Comunale si augura possa diventare “quel centro urbano che Segrate non ha mai avuto”.
Assonanze e divergenze (entrambi preoccupanti) a confronto
Interessante comparare le assonanze e le divergenze di queste due esperienze.
Il contesto orientale delle grandi metropoli, lo sviluppo di un sistema economico di qualità nel passato, in particolare legato al settore manifatturiero, la crisi dettata dalla fine dell’epoca fordista e dall’affermazione di un economia globale e ora l’attuazione di politiche per la riqualificazione e il recupero delle aree dismesse appaiono delle caratteristiche comuni, ma i due casi presentano molte differenze alla luce delle quali l’operazione di confronto appare piuttosto delicata e forse azzardata.
In primo luogo nel contesto londinese le politiche urbane appaiono strutturate ed articolate in una serie di piani strategici nei quali le variabili economiche, demografiche, sociali ed occupazionali sono relazionate alla dimensione spaziale, integrando interventi di valorizzazione a politiche insediative e sociali, o perlomeno ci si prova.
Nel contesto milanese le scelte localizzative e le politiche urbane appaiono frammentate, disomogenee e certamente prive della dimensione metropolitana cosicché le scelte strategiche sono quasi esclusivamente di competenza delle amministrazioni comunali, che spesso le gestiscono senza una visione coerente e d’insieme che consentirebbe l’elaborazione di politiche integrative in campo insediativo e sociale.
In secondo luogo l’esperienza londinese indica come l’organizzazione di un grande evento, le Olimpiadi del 2012, possa essere utilizzata per dare forma alle strategie di sviluppo esistenti, come, nello specifico, potenziare il sistema infrastrutturale di Stratford che è stata destinata a diventare il gate dell’area metropolitana.
A Milano le scelte fatte per Expo 2015 non rientrano in alcuna visione strategica per il futuro della città – tantomeno della regione metropolitana – come dimostra la selezione delle aree interessate, che ricadono in un ambito urbano consolidato e saturo, con pochi margini di sviluppo, e per il quale è facile immaginare ricadute negative in termini di congestione. Il grande evento, e le conseguenti risorse economiche, non è interpretato come occasione per poter attuare un progetto di città del futuro, quanto come mezzo per ampliare il consenso a favore delle forze politiche al governo che, mediante la valorizzazione immobiliare dei terreni su cui avrà luogo l’evento, permetteranno lauti guadagni ad alcune lobbies, finanziarie ed immobiliari, vicine alle stanze del potere lombardo.
Tuttavia è interessante notare come in entrambi i casi la funzione chiave, il motore quasi, di interventi che si pongono come ambizioso obiettivo la riqualificazione e il rilancio di un intero ambito metropolitano, sia quella commerciale.
Sia a Londra che a Milano (soprattutto a Londra) si affronta la questione del recupero di territori dalle molte opportunità, generate soprattutto dall’assetto infrastrutturale esistente e in progetto, e l’unica vocazione attrattiva, che si offre di affrontare i venti della crisi, è quella commerciale.
In entrambi i casi, supportato da analisi e da politiche pubbliche integrate a Londra e demandato alle iniziative private a Milano, la funzione del commercio sembra essere l’unica trainante, in grado di attirare investitori internazioni che, quasi magicamente, hanno le soluzioni (e i capitali) per risolvere problemi annosi, quali il lavoro e la viabilità, che le amministrazioni pubbliche, locali e non, faticano a governare.
Ma le scelte per imprimere al territorio un’evoluzione che sappia coniugare sviluppo e salvaguardia dell’identità territoriale non possono essere dettate da convenienze localistiche né tanto meno dalla spontaneità degli eventi o dagli interessi forti.
Il futuro non può essere condizionato unicamente dai fattori economici, serve uno sforzo da parte delle istituzioni pubbliche affinché, oltre che alle difficoltà contingenti del presente, sappiano prevedere e indirizzare un percorso progettuale per il futuro, capace di misurarsi con le esigenze delle attività economiche e produttive ma anche dei cittadini, per dare vita a sinergie che portino a un reale sviluppo.
Infine è interessante rilevare, più nello specifico delle due proposte targate Westfield che si propongono di realizzare lo shopping centre più grande d’Europa in entrambi i casi, come se già questo fosse un valore aggiunto, come entrambe sembrino voler superare la concezione e il significato tradizionale legato agli spazi del commercio, andando oltre le filosofie ispiratrici anche dei più moderni shopping mall.
Oltre le definizioni di non-luogo e di iper-luogo, questi scenari progettuali propongono delle vere e proprie nuove città nelle città, dove gli spazi di vendita sono affiancati da funzioni integrate, ma di secondo piano, (un po’ di terziario, un po’ di residenza) che generano nuovi recinti autoconclusi, ben delimitati e identificabili, nei quali si può immaginare di passare non solo qualche ora di shopping ma anche l’intero weekend, forse l’intera vita, in una sequenza di attività che hanno un unico presupposto comune: il consumo.
Una città dall’apparente libertà, alla quale si può accedere sborsando l’equivalente di uno sfavillante tailleur griffato.
Gli abitanti diventano fruitori oppure utenti, che vagano per paesaggi, che di urbano hanno solo la scenografia di fondo, dove i ritmi sono scanditi dai bisogni materiali, indotti da enormi e accattivanti cartelloni pubblicitari.
Una città che non ha continuità con la città circostante, se non grazie alle vie d’accesso che accolgono a braccia aperte i consumatori, e nella quale è difficile immaginarsi l’espressione di altri valori se non quelli quantificabili economicamente.
Resta solo un grande dubbio: chi sarà la reginetta degli shopping centre d’Europa? Stratford o Segrate?
Non resta che attendere inaugurazioni e tagli di nastri per saperlo, con un’unica certezza: la metamorfosi della città (e del cittadino) passerà, inevitabilmente, anche da qui.
Prove inedite di dialogo tra associazioni come Legambiente, Arci, Acli e Libertà e Giustizia, e costruttori. In un "documento condiviso" affrontano proposte comuni per il nuovo Pgt. Gli imprenditori, che si erano schierati per il documento targato Moratti-Masseroli sarebbero disponibili a un «ridimensionamento» del Piano: dalla cancellazione dei volumi da scambiare nel Parco Sud all’abbassamento degli indici in scali ferroviari e grandi aree. «Servono presto nuove regole, ma la crisi ha cambiato lo scenario», dice De Albertis.
Fino a pochi mesi fa si guardavano da barricate opposte. Da una parte associazioni come Legambiente e Libertà e Giustizia che criticavano nel merito e nel metodo (la battaglia delle osservazioni) il Pgt targato Moratti-Masseroli. Dall’altra il mondo economico e, in particolare, i costruttori di Assimpredil Ance che, alla vigilia delle elezioni, si erano schierati con forza a favore della rivoluzione urbanistica tuonando: «Il Pgt entri in vigore immediatamente e non subisca modificazioni che ne alterino i presupposti e gli obiettivi». Ma adesso che a Palazzo Marino ci si prepara a riscrivere le nuove regole, mondi che sembravano agli antipodi tentano di parlarsi. Prove tecniche di dialogo, che hanno portato a scoprire inediti punti di incontro. Dall’accordo a cancellare gli indici volumetrici del Parco Sud da far atterrare poi in altre parti della città, fino alla possibilità di abbassare le quantità di nuovi edifici nelle grandi aree come Stephenson o lo scalo Farini. Una "cura dimagrante" che, molto probabilmente, diventerebbe comunque legge.
Il «documento unitario» sarà presentato martedì prossimo. Ed è il frutto di un primo giro di tavolo e di una prima mediazione raggiunta. A presentarlo all’amministrazione saranno i protagonisti di questo esperimento: le Acli, l’Arci, Assimpredil Ance, le cooperative bianche e rosse (Federabitazione Lombardia-Confcooperative, Legacoop), Legambiente e Libertà e Giustizia. Società civile, ambientalisti e costruttori insieme. Un miracolo? Non proprio perché ognuno, naturalmente, parla dalle rispettive posizioni. Nonostante siano stati trovati argomenti condivisi da offrire al Comune: dalla rinuncia alla "perequazione" del Parco Sud all’attenzione per l’housing sociale; dall’importanza dei servizi alla necessità di collegare i nuovi quartieri alle infrastrutture, fino al rinnovo in chiave energetica degli edifici esistenti. Tutti punti che la nuova giunta non potrà non toccare in quelle linee di indirizzo politico che accompagneranno la rilettura delle osservazioni e che verranno presentate a ottobre in consiglio comunale. L’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris apprezza l’esperimento: «È sempre positivo che nella città si apra un confronto tra diversi soggetti tanto più se questo, pur mantenendo le proprie differenze, consente di definire obiettivi comuni».
È il presidente di Legambiente Damiano Di Simine a spiegare la filosofia di questo «esperimento»: «La città è troppo importante perché non si tenti un dialogo: per tutti è importante che ci sia un nuovo Piano. In passato ci siamo divisi e su molti punti continueremo a farlo, ma stiamo tentando un discorso a più voci. Spetterà poi all’amministrazione tenerle insieme». I costruttori, naturalmente, non si sono convertiti all’ambientalismo. Ma a scompaginare le carte sembra essere stata la crisi. È un mercato del mattone in stallo, sostengono, ad aver «cambiato lo scenario». Come dire: inutile moltiplicare indici volumetrici e case se tanto, poi, nessuno le compra. Ecco il presidente di Assimpredil Claudio De Albertis, che punta sull’aspetto più importante per gli imprenditori: avere quanto prima un nuovo Pgt. «Una condivisione - dice - serve anche ad accelerare il processo di approvazione delle nuove regole: è quello che chiediamo. La crisi poi ha cambiato tutto e ha imposto alcune riflessioni su un ridimensionamento del Piano». Anche il presidente di Confcooperative Alessandro Maggioni dice: «In passato, pur individuando alcune criticità, abbiamo appoggiato il Pgt. Ma questa crisi profonda impone di essere ancora più laici. Noi terremo la barra dritta sulla necessità di housing sociale, ma il mercato ha già imposto che nei prossimi anni si costruirà meno, a minor prezzo, e meglio».
Così nacque la madre di un modello turistico fondato sul cemento
di Sandro Roggio
Costa Smeralda compie mezzo secolo: quest'anno, se diamo valore al patto firmato il 29 settembre 1961 da Aga Khan, Duncan Miller della Banca Mondiale, Guiness, Podbielski, Mentasti e Fumagalli. Con il documento manoscritto si impegnano a urbanizzare i terreni già acquistati “tra Olbia e Punta Battistoni” dividendo i costi in proporzione e decidendo le modalità per procedere.
L'estate appena trascorsa è l'ultima per la Sardegna senza Costa Smeralda che quell'impegno rende possibile.
Nel 1962 si formalizzano gli atti e si completa un lotto di lavori a Baia Sardinia, ma è ancora difficile farsi un'idea della trasformazione che subirà il litorale granitico di Arzachena (2.468 abitanti in paese, più di mille nelle campagne). Gli obiettivi dell'impresa – un esperimento di globalizzazione anzitempo – si capiranno nel giro di un paio di anni quando cadranno i pregiudizi sulla abitabilità delle rive dell'isola: compresi quelli del competente TCI che, una decina di anni addietro, in un servizio sull'isola nella sua rivista, concedeva un rapido accenno al mare “che batte minaccioso sulle coste inospitali”.
Il Consorzio vuole eccellere nell'accoglienza: servono alberghi come Cala di Volpe e Pitrizza aperti al pubblico tra il 1963 e il 1964 quando si inaugura con una rutilante regata la banchina di Porto Cervo. Si conta sull'alto rango degli ospiti: esponenti delle grandi casate nobiliari d'Europa, da Margaret d'Inghilterra e consorte, ai coniugi di Liegi, ad Alessandra di Kent e quelli del jet-set internazionale che costringono i paparazzi romani a lasciare gli appostamenti nei ritrovi della “Dolce vita”.
La pubblicità ha accelerato la scoperta della Sardegna e sollecitato l'attenzione degli speculatori. Comprare in Sardegna è conveniente, come sanno Karim e tanti altri, e come racconta tempestivamente Giuseppe Grazzini su «Epoca». Nonostante la domanda alta e se ben guidati "è tuttora possibile acquistare convenientemente terreni sulla costa sarda. A Sud, presso Cagliari, la zona di Santa Margherita offre possibilità di acquisto dalle 2000 alle 3000 lire al metro quadrato. A Quartu si trova ancora qualche appezzamento a 1500 lire e a Capo Teulada a 1000. A Bosa da 1500 e 2000. Ad Alghero e Porto Conte, con difficoltà, da 4000 a 5000. Da Sassari a Castelsardo tra 1200 e 1500. Poi c'è la Gallura meno nota. Da Olbia verso Sud la costa è dirupata: le comunicazioni sono difficili, ma qualche tratto di spiaggia c'è, e bellissimo: da 500 a 1000 lire...". E' il 1962 e quest'articolo ridimensiona il racconto sul principe che incontra la Sardegna per caso “e se ne innamora”. Il mercato delle vacanze è una opportunità ben nota agli investitori ai quali fa piacere passare per benefattori, un po' per vanità ma anche per convenienza.
La classe politica locale si limita ad agevolare il processo di trasformazione dei litorali rendendoli accessibili anche con risorse pubbliche. Si sa come batte il cuore dei sardi quando i continentali gli dicono che la loro terra è bellissima; e non sorprende che il benefattore Karim sia accolto, per il suo amore per le coste galluresi, dal presidente della Regione Corrias con tutti gli onori.
La condizione in cui versa la Sardegna di quegli anni offre il pretesto per accogliere qualunque progetto che possa alleviarne lo stato di povertà. Un atteggiamento che si diffonde e che nei decenni successivi si riproporrà continuamente, con più intensità ad ogni crisi, assumendo i connotati tipici della subalternità o della complicità con gli affari. Poco riguardo, invece, per i piccoli albergatori e ristoratori, che faticano a entrare nel mercato. Si punta sui poli di sviluppo turistico ( e per l'industria chimica), con il vantaggio di un ritorno occupazionale nell'edilizia molto fruttuoso per la politica con la vista corta.
Negli anni Settanta le parti più pregiate del territorio – il paesaggio sardo non ha rivali – sono già nel circuito delle cose da vendere e il loro valore dipende dalla accessibilità, dalla quantità di volume realizzabile e dalla distanza dal mare. Un facile calcolo che sarà il motivo conduttore di ogni investimento in ogni lido. L'impresa turistica è marginale: ogni intervento di trasformazione è basato essenzialmente sugli utili delle case da vendere, e infatti le attrezzature destinate alla ricettività sono ben poca cosa, se va bene attorno al venti per cento del volume complessivo previsto.
Costa Smeralda svolge negli anni la funzione di apripista di questo disegno. Acquisire titoli per volumetrie da realizzare nel tempo è il programma, già deciso dall'Aga Khan fino da quando ha prestato il suo progettista al Comune di Arzachena per redigere un piano urbanistico, che inaugura la dipendenza dei comuni dall'impresa. Un'anomalia che si trascina nel tempo, come sappiamo.
Sul prestigio di Aga Khan si fa affidamento in ogni fase del confronto sulle politiche urbanistiche della Regione, sia quando è a capo dell'azienda, sia quando si defila e resta nello sfondo – dopo l' avvento di Itt Sherathon e Starwoood e più di recente di Colony di Tom Barrack. Costa Smeralda occupa la scena negli anni della approvazione della legge urbanistica regionale e dei primi piani paesistici (1989-1993) per via delle speciali deroghe promesse dalla Regione in quella fase che si conclude con il loro clamoroso annullamento. L'insuccesso della proposta di “master plan” della Costa Smeralda, rilanciata con vari adattamenti e ridimensionamenti fino al 2003 – da molti milioni di metricubi a tre-quattrocentomila – è dato dalla irragionevolezza e dalla sconvenienza di quel programma edilizio garantito da Karim, messo in dubbio da un buon numero di oppositori specie su queste pagine.
La vicenda di Costa Smeralda – luogo, evento, modello – è strettamente intrecciata alla storia del turismo nell'isola ed è indispensabile per spiegare la Sardegna di questo mezzo secolo: non solo per esaminare le politiche di governo del territorio, tra luci e ombre, ma pure per rileggere i nostri comportamenti, in qualche modo influenzati da una vicenda così vicina e così lontana. D'altra parte Costa Smeralda si ritaglia una parte nella potente iconografia anni Sessanta, tra fatti, volti, cose prima del '68: matrimoni regali, Kennedy, Marilyn, auto, minigonne, elettrodomestici, Beatles, Vietnam, eccetera. L' estate al mare è un'esigenza e il mercato avverte la convenienza di renderla alla portata di tutti e di allungarla (a cominciare dalle canzoni balneari che durano fino a Natale). E' il nuovo corso della mitologia della vacanza, già in tanta letteratura tra Otto e Novecento: Carducci che lancia località alpine, le atmosfere gozzaniane, drammi e commedie da Maupassant a Proust e le autobiografie adolescenziali che hanno come scenario la villeggiatura.
Il modello inventato da Karim è in grado di convincere e percepito dalla politica come replicabile. Un'idea che si realizza al di fuori di ogni strategia, in modo pervasivo e influenzando il mondo dei sardi in modo imprevedibile anche sul piano estetico. Ne deriva un florilegio di facsimili dappertutto: grandi o piccole filiazioni che dalla originaria miscela semantica (si è parlato sbrigativamente di “stile sardo”) hanno attinto liberamente. Costa Smeralda, icona pop, è stata fonte di ispirazione: per i vacanzieri continentali e per i sardi residenti anche a distanza dalle rive e propensi a sentirsi turisti tutto l'anno. Il travestimento, con questa matrice, è oggi un tratto distintivo del paesaggio sardo urbanizzato, che deborda nei vecchi centri dove pure qualche antico palazzetto indossa l'abito delle ferie che ci piace vederci addosso, mescolando con enfasi finto rustico e finto antico. Sale sulle ferite aperte dalla quantità di volume diffuso dove ha deciso l'impresa edilizia.
Costa Smeralda esibisce di continuo la fedeltà al “credo stilistico” delle sue origini inventato per gioco e per il business, e mena vanto per questo: ma non nega e anzi auspica la sua crescita volumetrica pure in ambiti di pregio e a partire dai suoi archetipi.
Ma attenzione: continuiamo a dire Costa Smeralda, come se esprimesse ancora una linea condivisa. Oggi, invece, il famoso condominio vive le tensioni che il mercato degli immobili suscita, accentuate dalle leggi del corso berlusconiano come il piano-casa: guastando i rapporti di vicinato, e quando le trasformazioni tolgono la vista del mare non mancano le istanza ai tribunali.
E capita che Barrack e il Comune manifestino in piazza, con il sostegno dei potenziali occupati nei cantieri edili, ma con modi un po' scomposti contro una ordinanza che disarma il piano-casa. L'impressione che Costa Smeralda abbia perso l'aristocratica eleganza è forte (c'è chi coglie sempre l'occasione per rimpiangere i bei tempi andati confrontando gli stili: lo Yachting Club del principe con il Billionaire di Briatore-Santanchè, la terrazza di Marta Marzotto con i raduni di Lele Mora e Tarantini; ma questa è un'altra storia).
Oggi come ieri ex Costa Smeralda propone con determinazione i suoi progetti provocando ancora divisioni nel Comune che l'accoglie. Un piccolo Comune che ha accumulato un'esperienza di tutto rispetto e si potrebbe ormai consentire di governare il territorio con un piano e un contegno liberi da soggezioni culturali e oltre le agiografie. Perché le buone idee per il turismo in Sardegna sono da cercare oltre l'Aga Khan e i suoi successori. Peccato che le proposte del nuovo governo regionale portino indietro il dibattito di qualche decina di anni e incoraggiando le amministrazioni locali a promuovere la liquidazione dei nostri beni più preziosi. Come negli anni Settanta.
Isola brutta e perduta
di Giorgio Todde
La Costa Smeralda è la metafora perfetta di un drammatico cambiamento e di una decadenza che non finisce più. Noi siamo lo spazio che occupiamo e il nostro corpo, spirito compreso, soffre oppure è contento secondo quello che lo circonda. Per questo un viaggio attraverso la Sardegna imbruttita e volgare di oggi, costituisce un dolore. Il brutto e il finto hanno ottenuto la loro vittoria e spesso si intersecano sino a essere indistinguibili.
Alle volte il finto è più brutto del brutto e noi rimpiangiamo il come sarebbe potuto essere.
Non si tratta della diatriba eterna tra passatisti e modernisti. Che tutto muti, infatti, non è in discussione, ma sono i modi del cambiamento che inquietano. Basta guardarsi intorno per ammettere, semplicemente, che la Sardegna è diventata, sotto i nostri occhi colpevoli, brutta e finta. Ma per un cattivo sillogismo si dice che è «bella» perché è sempre stata «bella» e dunque sarà «sempre bella».
Qualcuno racconta la frottola che, in fin dei conti, l'idea di bello è soggettiva. Ma, al contrario, il brutto e il bello attengono all'assoluto, sono universalmente riconosciuti, non sono categorie soggettivamente elette e ogni epoca stabilisce una propria idea di bello universale.
Le società culturalmente solide e avvedute si ammodernano, modellano il nuovo su se stesse e non si limitano a
modellarsi al “nuovo”, attente a non spaesarsi e a non svegliarsi in un mondo che non
riconoscono più.
Più di mezzo secolo fa ci hanno «rivelato» che conducevamo una vita da poveri, dura e impossibile. Che «serviva modernità». Così da allora ogni cosa ha iniziato a mutare con una velocità che non avevamo conosciuto. Il «mondo moderno» era di colpo arrivato sin qua e ci abbracciava.
Certi modernizzatori erano «gufi dal gozzo pieno», per. Ci parevano semidei. E, sbigottiti perché l'universo si interessava a noi, ci siamo addirittura sentiti astuti quando abbiamo svenduto in un tragico saldo la nostra terra iniziando dai confini acquatici, permettendo perfino che venissero dati nuovi nomi a cale e promontori, avvisaglia, questa arrendevole toponomastica, dello sconvolgimento che ne è seguito.
Abbiamo ascoltato promesse di ricchezza, sprovveduti e sottomessi, incapaci di credere che il tesoro avuto sotto il naso per tanto tempo valesse qualcosa, sbalorditi e intimamente grati che qualcuno ci prestasse attenzione. Ma, soprattutto, ci siamo vergognati di come eravamo, sino alla triste negazione di noi stessi.
Le città, le campagne, la galassia di quasi quattrocento paesi che avevano concorso a determinare un'interessante varietà di costumi, conservando però un carattere«nazionale», tutto questo confluisce oggi in un amalgama dove tutti e tutto sono uguali a tutti e tutto. Dei caratteri originari dei luoghi e di chi li abitava resta una caricatura grottesca, un rimasuglio che imbellettiamo e esibiamo sino al ridicolo.
Dicono che siamo più ricchi. Però la misura del benessere è un'operazione sfuggente. Difficile convincersi che oggi siamo una comunità davvero più ricca di mezzo secolo fa e che il mondo intorno non sia che un'illusione di ricchezza.
C'erano un tempo famiglie che costruivano case, quelle necessarie, allevavano molti figli e li facevano studiare, mentre oggi la nostra «ricca modernità», spesso tutto ciò non lo permette. I pochi giovani che ora sono al mondo
da queste parti abbandonano la scuola precocemente, vivono nell'oblio del passato, messi di fronte a un futuro fasullo. E i veri poveri si moltiplicano.
Possediamo però ancora molto territorio nobile e non violato. Abbiamo conservato, in parte, modi di vita fisiologici
e caratteri a nostra misura. Abbiamo assunto e integrato qualche segmento di «buona modernità». Così capita, in
certe nostre campagne di vedere immensi orizzonti liberi, di provare il senso dell'infinito e di ricavarne gioia e salute. Ma capita sempre meno e il paesaggio viene trangugiato con una velocità travolgente. Eppure avremmo potuto fare tesoro di essere arrivati per ultimi alla «modernità». Avremmo dovuto «tornare all'antico e sarebbe
stato un progresso». Invece siamo voluti Rinascere.
La Rinascita.
Meglio dire «le» Rinascite, visto che ne abbiamo avuto più d'una. Grandi quantità di denaro pubblico, benefiche
e tossiche, si rovesciarono, ma ancora accade, nelle nostre casse e nella nostra cultura impreparata a reggerne l'urto, per nutrire sogni fallimentari. Così anziché «rinascere» abbiano iniziato a dissolverci dentro una vita che non era la nostra. Le fabbriche e l'ossessivo sogno turistico. Poi l'edilizia ancora più angosciante. La tragedia
della perdita dell'agricoltura e oggi, per logica conseguenza, il declino del mondo pastorale.
Tutto in una manciata di decenni.
Sono apparsi, al solo suono della parola Rinascita, plotoni di politici di cartapesta e managerini locali con emblematici nodi della cravatta sempre più gonfi, passati dal velluto al gabardine con una velocità azzardata. Allarmanti quantità di denaro sono piovute sull'isola e sono refluite chissà dove. Anche noi avevamo i morti in fabbrica e nei cantieri, i morti per avvelenamento industriale, i morti nelle strade. Li abbiamo cinicamente considerati una «tassa della modernità». Andavamo «veloci» al mare dopo averlo ignorato per millenni, distruggevamo anche noi le coste intatte, avevamo in casa, finalmente, docce, vasche da bagno e bidet. E lasciavamo tra i ricordi il pozzo nero del cortile.
Non abbiamo nostalgia del pozzo nero. No. “E’ che per costruire il cesso in casa abbiamo distrutto la casa”, diceva nei primi anni Sessanta il capomastro di un paesino, mentre demoliva una bella abitazione di paglia e fango.
Oggi i giornali, le televisioni, le brochure turistiche, gli stand patinati e falsi delle innumerevoli fiere del turismo, e perfino certa letteratura enfatica, «spugnata» come i dozzinali intonaci «smeraldini» che incrostano paesi e città, descrivono un'isola e un paesaggio che non esistono più.
Soltanto i luoghi dimenticati sono salvi e la dimenticanza è l'unica forma di tutela di cui siamo capaci.
Eppure la bellezza è, oltretutto, un inesauribile valore economico inestinguibile. Però noi sardi vediamo senza comprenderlo il valore sostanziale del nostro mondo, delle nostre cose, del nostro paesaggio, del mare e perfino
del vento e del cielo. E sospettiamo di possedere una ricchezza solo se ci viene indicata da altri. Allora ci avventiamo su quel «valore», lo sbraniamo, convinti che sia nostro e non un bene comune e lo consumiamo sino a che non ne resta che qualche traccia, oppure nulla.
Ho letto con piacere l'intervento di Giulia Maria Mozzoni Crespi, pubblicato sul Corriere di ieri («Pgt, perché serve un esame») a sostegno della decisione presa da questa amministrazione con riferimento al Pgt e, in particolare, della scelta di esaminare le osservazioni.
La Presidente del Fai si pone tuttavia la domanda in merito a quali siano i principi urbanistici che questa amministrazione intende perseguire. Condivido pienamente questa riflessione e infatti porteremo in Consiglio comunale, unitamente alla proposta di delibera che revoca l'approvazione del Piano, un documento d'indirizzo politico che non solo ci guiderà nel lavoro di valutazione delle osservazioni ma conterrà anche le indicazioni del percorso che l'amministrazione Pisapia intende perseguire. Il documento terrà conto del dibattito avvenuto prima e dopo la campagna elettorale, nonché di tutti i contributi di riflessione elaborati da diverse realtà della città, comprese le associazioni ambientaliste.
Questo documento avrà anche lo scopo di costituire la base per l'avvio di un confronto sul futuro della pianificazione della città, che sicuramente non potrà e non dovrà concludersi con il superamento delle maggiori criticità del Pgt a salvaguardia del territorio milanese. A cominciare, per esempio, dal Parco Agricolo Sud dove è necessaria un'attenta revisione degli indici connessi al sistema perequativo.
Stiamo operando, dunque, un intervento costretto da tempi imposti dalla normativa e dalla necessità di tenere in considerazione anche le esigenze degli operatori, in questo momento di congiuntura economica così delicata.
Cemento in riva al mare residence e campi da golf il sacco della Sardegna
di Antonio Cianciullo
ROMA - Legge salva coste abolita, vecchi piani di lottizzazione tirati fuori dai cassetti, 25 campi da golf per succhiare un’acqua che con il caos climatico diventerà sempre più preziosa. E, a chiudere in bellezza, un’altra colata di cemento che la giunta regionale si appresta ad approvare. È la cura del Pdl per una Sardegna che ha resistito all’epoca d’oro dell’urbanizzazione selvaggia e rischia di cadere ora, proprio in vista del traguardo di uno sviluppo economico dolce, capace di far leva sulla bellezza del paesaggio per creare un’onda lunga di occupazione e benessere.
L’allarme viene dalle associazione ambientaliste insorte di fronte a un sistema di deroghe che aumenta la possibilità di costruire nuova cubatura sulla fascia costiera. «L’attacco è cominciato con il piano casa del 2009, il biglietto da visita della giunta Cappellacci dopo una campagna elettorale che era stata direttamente sponsorizzata dal presidente del Consiglio», spiega Gaetano Benedetto, direttore delle politiche ambientali del Wwf. «Questo piano casa prevede ampliamenti con aumenti di volume dal 10 al 45 per cento ed elimina una serie di controlli: potrebbe portare all’apertura di circa 40 mila cantieri per opere anche entro la fascia dei 300 metri dal mare. È incredibile che una Regione dalle risorse infinite come la Sardegna immagini una crescita attraverso la strada predatoria del mattone anziché attraverso uno sviluppo armonico del suo territorio e della sua identità».
Il Pdl replica parlando di semplificazione delle procedure. In effetti le nuove procedure sono così semplici che, nel disegnare il progetto di riforma, è saltato anche il dialogo con i diretti interessati, gli amministratori locali. Invece di consultarli, la maggioranza di centrodestra ha deciso di affidarsi alla pubblicità, sostenuta dai fondi pubblici. Sui quotidiani sardi sono comparse due pagine a pagamento per sostenere la tesi che il Piano paesaggistico regionale voluto dalla vecchia giunta Soru contiene troppi vincoli, troppi divieti, mentre per rilanciare l’economia bisogna ricorrere al mattone.
«È un segno di irresponsabilità politica: dei soldi utilizzati in questo modo in un momento in cui la gente è affamata e disperata dovranno rendere conto», protesta Gian Valerio Sanna (Pd), padre del Piano paesaggistico regionale della giunta Soru. E sulle 90 pagine del nuovo Piano di deregulation si scatena la protesta dell’opposizione e degli ambientalisti, preoccupati che il complesso intrico di deroghe in discussione dia il via libera all’assalto delle campagne e faccia saltare i vincoli anche entro i 300 metri dalla costa.
«È particolarmente grave il progetto dei campi da golf», sottolinea Ermete Realacci, responsabile Pd per la green economy. «Non tanto per l’intervento, pur pesante, in termini di acqua e pesticidi, ma perché costituiscono la testa di ponte per una cementificazione selvaggia». Il meccanismo – spiega Vincenzo Tiana, presidente di Legambiente Sardegna – è semplicissimo: si crea un campo da golf sostenendo che è solo un prato verde, perché opporsi? e poi si costruisce un annesso villaggio turistico perché da qualche parte chi gioca a golf deve pure dormire.
«Con il pretesto di favorire l’occupazione si stravolgono le norme di tutela della Sardegna senza comprendere che, così facendo, si raggiunge un risultato opposto a quello dichiarato», ricorda Giulia Maria Mozzoni Crespi, presidente onorario del Fai. «Solo difendendo l’incalcolabile patrimonio dell’isola in termini di paesaggio, e della cultura che ha contribuito a disegnare nel corso dei secoli questo paesaggio, si potrà mettere a punto un’economia duratura e di ampio respiro, in grado di funzionare al di là della breve stagione turistica attuale».
L’ultimo assalto a colpi di spot
di Giovanni Valentini
CEMENTO libero, edilizia selvaggia. Non sarebbe certamente uno slogan di successo per una campagna promozionale o pubblicitaria sul turismo in Sardegna. E in realtà il nuovo Piano paesaggistico regionale minaccia di danneggiare, oltre all’ambiente, anche lo sviluppo e l’economia dell’isola. Bastano 90 pagine e 76 articoli per provocare un tale disastro?
Sì, purtroppo possono bastare. Non solo per le deroghe predisposte dalla giunta Cappellacci che di fatto smantellano i vincoli introdotti dal predecessore, Renato Soru, autorizzando così un assalto al territorio e in particolare alle coste. Ma ancor più per il metodo centralistico e autoritario con cui la Regione ha impostato il suo Piano, eliminando la procedura delle "intese" e quindi il confronto con le amministrazioni locali nella fase progettuale per sostituirlo con un bombardamento mediatico a colpi di pagine a pagamento sui giornali.
Più che eccessivi, i limiti fissati a suo tempo da Soru potevano risultare arbitrari e addirittura inefficaci: il divieto di costruire entro due chilometri dal litorale, nonostante le migliori intenzioni, rischiava di risultare - come qui abbiamo già scritto allora - troppo o anche troppo poco, a seconda dei casi, della conformazione della costa e delle sue caratteristiche. Ma adesso la possibilità di deroga addirittura all’interno della fascia finora superprotetta di trecento metri dalla battigia, a favore delle strutture ricettive esistenti, è senz’altro insufficiente per salvaguardare l’integrità del paesaggio, tanto più nei tratti di particolare pregio.
Non c’è dubbio che, per alimentare l’industria del turismo, occorre realizzare nuovi edifici e nuovi impianti, magari riqualificando prima il patrimonio recuperabile. E in questa prospettiva, gli alberghi, i porti e i campi da golf - contemplati nel Piano paesaggistico regionale - possono contribuire allo sviluppo locale, a condizione ovviamente che i rispettino la natura e l’ambiente. Altrimenti, con gli eco-mostri o con gli scempi edilizi, i turisti non arrivano o se ne scappano presto.
In una terra meravigliosa come la Sardegna, e in tutte le altre regioni meridionali privilegiate dal sole e dal clima, si può e si deve alimentare un turismo sostenibile, cioè compatibile con la tutela dell’eco-sistema, cercando di allungare la stagione al di là dei due o tre mesi estivi in modo da favorire l’occupazione nel settore alberghiero e in tutto l’indotto. E perciò servono gli alberghi, i porti e a maggior ragione possono servire gli impianti golfistici, in grado di richiamare anche in pieno inverno visitatori italiani e stranieri che diversamente vanno in Spagna, in Portogallo, in Marocco, in Tunisia o da qualche altra parte. Si tratta, però, di stabilire dove e come costruire questi alberghi, questi porti o questi campi, per ridurre al minimo e magari azzerare il loro impatto ambientale.
Quello che occorre, in Sardegna o altrove, è dunque un sano riformismo verde che rifugga dagli "opposti estremismi", tutto o niente, due chilometri o trecento metri e anche meno, per conciliare le esigenze dello sviluppo con le ragioni del territorio. A volte è proprio l’eco-radicalismo a provocare reazioni uguali e contrarie, offrendo involontariamente un alibi alle truppe delle ruspe e del cemento, agli speculatori, ai saccheggiatori del paesaggio. O perfino a chi impugna la bandiera ambientalista per difendere solo i propri interessi, le proprie tenute o residenze al mare o in campagna. È una specie di "effetto Nimby" alla rovescia, dove l’acronimo "not in my back yard" (non nel mio giardino o nel mio cortile) - coniato per descrivere l’atteggiamento comune contro le centrali nucleari - si può estendere e applicare al contrario a certi "signori dell’ambiente" che spesso predicano bene e razzolano male.
Sulla strategia, mediatica e non, del clone sardo di Berlusconi, si vedano su eddyburg anche gli articoli di Antonietta Mazzette e, completo di spot pubblicitario allegato, di Sandro Roggio. La sortita di Cappellaci non è quindi una novità per i nostri lettori. Lo è invece la persistenza nell'errore di Valentini.
Giovanni Valentini, stimabile per i suoi interventi su altri argomenti, persiste infatti nel affermare falsità quando parla della Sardegna, e in particolare dal suo ex presidente Renato Soru e del piano paesaggistico regionale. Persiste a dire che è un errore grave il vincolo su 2000 metri di costa. Egli sostiene che «il divieto di costruire entro due chilometri dal litorale, nonostante le migliori intenzioni, rischiava di risultare - come qui abbiamo già scritto allora - troppo o anche troppo poco, a seconda dei casi, della conformazione della costa e delle sue caratteristiche». Dimentica, o finge di dimenticare, che il vincolo dei 2km era solo l'estensione temporanea del vincolo di 300 metri già imposto, provvidenzialmente, su tutte le coste italiane dalla legge Galasso. Un vincolo temporaneo, di 18 mesi, in attesa del piano paesaggistico. Il quale effettivamente e puntualmente arrivò, e dispose appunto un vincolo differenziato a seconda delle diverse caratteristiche dei diversi tratti della costa. La speranza è che Valentini faccia affermazioni non vere solo quando si parla della Sardegna di Soru, e non quando tratta gli altri argomenti. Ma sarebbe meglio se non lo facesse mai
Accusare i tories al governo di essere degli ipocriti in fondo è una specie di complimento, almeno per chi pare convinto di essere infinitamente più brillante, intelligente e dalla parte giusta rispetto al popolino credulone da cui ha ricevuto mandato e fiducia incondizionata. Ma, appunto, in questi giorni la stampa accusa alcuni politici di ipocrisia, di predicare bene e razzolare male in una materia delicata come quella delle trasformazioni urbanistiche, di cui si sta discutendo una radicale riforma attesa come la manna dai soliti costruttori graniticamente convinti (lo sono in tutto il mondo da diversi secoli) che se non ci fossero tutte queste inutili limitazioni alla loro attività diventeremmo ricchi e felici nell’arco di un paio di mesi al massimo.
Perché i politici della maggioranza britannica sarebbero degli ipocriti? Ma perché da un lato stanno facendo circolare un Planning Policy Framework dove si afferma solennemente che “la risposta alle proposte di trasformazione è SI”, dall’altro come riferisce documentatamente Damian Carrington sul Guardian del 10 settembre si scopre che uno degli sport preferiti di questi campioni del fare, almeno quando sono a casa loro nel cuore del collegio elettorale, è l’opposizione ai progetti. Proprio così, a partire dal mastino responsabile per le aree urbane Eric Pickles, che solo cinque o sei anni fa le sparava grosse (udite udite) contro lo sprawl metropolitano che si mangia preziose fette di territorio agricolo degradando ambiente e paesaggio. Peccato che lo facesse solo ed esclusivamente contro la realizzazione di case popolari, secondo lui imposte dall’alto da una pianificazione centralizzata di stampo sovietico (Gordon Brown: figuriamoci).
A quella del massimo responsabile ministeriale per la riforma urbanistica si aggiungono poi le ipocrisie del suo sottosegretario alla casa, che le case fortissimamente non le ha proprio volute, quando erano popolari e avrebbero sconciato con le loro proletarie forme il sacro suolo del suo collegio elettorale e idilliaco luogo di residenza a Welwyn (zona un tempo famosa per la città giardino equa e solidale). E ce ne sono tante altre, di queste apparenti variazioni sul tema predicare bene ma razzolare male, promuovere la cosiddetta crescita di mercato sulla testa degli altri, ma starsene rigorosamente su terreni protetti dall’alluvione prodotta dalle proprie decisioni. Però viene da chiedersi: è davvero ipocrisia, questo comportamento della ineffabile casta politica, o si tratta a guardare meglio della più coerente interpretazione dei nuovi tempi? Cosa stanno proteggendo, con le unghie e coi denti, questi influenti personaggi, se non la propria, sacrosanta e intoccabile così come ribadito in infiniti discorsi, privata proprietà? Naturalmente allargata a quel po’ di sfondo urbano/rurale che, come ci insegnano gli agenti, è indispensabile a contestualizzare e valutare l’immobile.
Fra i passaggi più innovativi del nuovo Planning Policy Framework (si scarica anche direttamente da questo sito, allegato all’articolo di John Vidal sulla riforma) c’è l’introduzione dei Piani di Zona o di Quartiere, pensati coerentemente all’idea di società e spazio locale del governo di coalizione, per “ conferire alle comunità poteri diretti per decidere sulle proprie aree. … sviluppare un’idea di quartiere condivisa, fissare norme per le trasformazioni e l’organizzazione spaziale, rilasciare concessioni tramite ordinanza”.
Chi vuole riformare così il sistema urbanistico ritiene che si tratti di un modo per far sì che gli abitanti autodeterminino il proprio spazio, anche se certo coerentemente a un’idea più vasta, e quindi a partire dalle specifiche indicazioni del piano comunale, che può essere ad esempio anche incrementato nelle previsioni insediative.
Più costruzioni di quante non ne preveda il piano comunale? E chi mai le accetterebbe? Qui casca l’asino: le accetta chi è costretto ad accettarle, chi si vede promessi i classici posti di lavoro in cambio di metri cubi, e di quei posti di lavoro (o posti letto) ne ha un disperato bisogno, perché i ragazzi stanno tutto il giorno per le strade, magari pronti a una replica delle rivolte dell’estate 2011. Ci si può permettere di fare gli schizzinosi nimbies, via via sempre un po’ più refrattari alle trasformazioni, man mano cresce il potere della specifica community che quella zona occupa: potere economico di solito, meglio ancora se puntellato dall’influenza politica del ministro, sottosegretario, presidente di ente pubblico, che abitano al civico tal dei tali. In fondo, i cosiddetti tories “ipocriti” non lo erano affatto, limitandosi semplicemente ad anticipare nei fatti la loro riforma, che sancisce il privilegio come prassi comune.
Pochi anni fa, la studiosa Anna Minton nel suo Ground Control (Penguin 2009) aveva indicato la pericolosa direzione in cui si stavano incamminando i programmi di riqualificazione urbana pubblico-privati, sempre più tesi a una privatizzazione dello spazio pubblico, a realizzare sacche di esclusione sempre più ricche e impenetrabili, dequalificandone parallelamente altre inesorabilmente e specularmente povere. Non era affatto una distorsione, ma solo un piccolo sintomo di qualcosa di più profondo, che prova a quanto pare a riprodurre nel nostro sistema metropolitano occidentale certi squilibri, certe differenze di potenziale, che già il mitico mercato ci mostra normalmente ad esempio con le delocalizzazioni produttive. Che meraviglia, poter vendere a carissimo prezzo, a chi se lo può permettere, un bel quartiere fortificato, guardato giorno e notte, circondato da un ambiente reso ancora più minaccioso proprio dalla privazione/privatizzazione che quel quartiere ha determinato!
Adesso l’urbanistica del privilegio diventa legge: le grandi trasformazioni, le opere strategiche, saldamente in mano agli organismi decisionali centrali. Il localismo nelle mani di organi frammentati, strutturalmente egoisti, con potere contrattuale differenziato a seconda del reddito medio. È un enorme salto indietro, che con la scusa ideologica dell’individuo sovrano, del cittadino proprietario, declina una sorta di ciclopico Padroni a Casa Nostra!.
Peccato che, per soprannumero, oltre ad essere falso lo slogan suoni anche incompleto. Prima di diventare Padroni a Casa Propria, come vi spiegheranno ancora quelli dell’agenzia immobiliare, tocca finire di pagare le rate. Altrimenti siete (siamo) fuori dai giochi. Nessuna ipocrisia, a saperlo leggere.
L'Associazione Costruttori è tornata a protestare per la mancata conclusione della procedura del Pgt, sostenendo che — se il nuovo strumento urbanistico non diverrà presto operativo — «la città si ferma», mentre il settore delle costruzioni è già in crisi profonda. Per dare credibilità a tali affermazioni, sono state indicate le percentuali di decrescita degli investimenti dal 2010. Di tutte le motivazioni sulle origini della crisi mondiale e del suo pericoloso andamento (con i riflessi sulla realtà milanese), la tesi che essa potrebbe essere risolta costruendo più metri cubi è forse la più eccentrica. La prima obiezione è che — andando in giro per Milano — non c'è proprio l'aria di una città dove l'edilizia appaia in ristagno o abbandonata.
Basta guardare la zona Garibaldi–Repubblica o l'ex sede storica di Fiera Milano per vedere alcuni cantieri di dimensioni tali da meravigliare anche chi viene nella nostra città da altri paesi d'Europa; e ciò mentre ancora non è stato messo un mattone che riguardi Expo e tutto il suo estesissimo indotto. Si tratta fra l'altro, di iniziative approvate sulla base del Prg vigente o delle sue moltissime varianti; per cui ci si chiede perché mai Milano avrebbe bisogno di nuovi più permissivi strumenti urbanistici.
È del tutto evidente, del resto, che la prosperità del settore edilizio dipende dalla domanda e non da più estese deroghe alle regole di pianificazione, come si è visto dai modestissimi effetti dei vari «piani casa», e come avverrà in modo identico se verrà varato il piano che la Regione va preparando. Già in occasione del Pgt in itinere, l'Associazione della proprietà urbana aveva fra l'altro segnalato l'esistenza di un'enorme quantità di immobili offerti in affitto e in vendita senza trovare acquirenti (e i cartelli «vendesi» si stanno moltiplicando anche in questi giorni); per cui l'esistenza di questo amplissimo stock di immobili esistenti e privi di utilizzo dovrebbe ulteriormente far riflettere.
Di fronte alle accuse dei costruttori, il sindaco Pisapia e l'assessore all'Urbanistica hanno ricordato la necessità di un esame di tutte le osservazioni. Si tratta di un esame e non di un riesame, per cancellare la frettolosa liquidazione complessiva di tutti i contributi dei milanesi che — ricordiamo — ha mortificato la partecipazione dei cittadini alla costruzione del loro futuro, come se si trattasse di un noioso adempimento burocratico da ridurre ai minimi termini. L'esame analitico delle osservazioni è dunque un adempimento indispensabile per dare dignità a qualsiasi Pgt. Tuttavia sorge spontanea la domanda: come si possono esaminare le 4.700 osservazioni senza avere chiari i principi urbanistici che si intendono sostenere?
È evidente infatti che questo dibattito sulle scelte, sui caratteri e limiti dello sviluppo di Milano deve precedere il vaglio dei singoli contributi; in caso contrario non può essere di grande utilità e si limiterebbe a rettificare alcuni dettagli. Su questo aspetto, nessuna indicazione è ancora venuta dalla attuale Amministrazione, e ci auguriamo che sia invece colta al più presto la necessità di un ampio e prezioso dibattito sul futuro di Milano e del suo assetto territoriale.
*Presidente onorario FAI Fondo Ambiente Italiano
Nota: per chi se lo fosse perso, un breve riassunto delle puntate precedenti del Pgt di Milano, in questa nota di F. Bottini e MC. Gibelli, scritta prima della vittoria della maggioranza Pisapia e dei primi progetti di revisione (f.b.)
Nervosetti, vero? È bastato un minuto di considerazioni contro la grande opera voluta da Dio, il collegamento Tav Torino-Lione, che i sacerdoti del Pd e del Pdl sono esplosi nella loro condanna inquisitoria. Io sarei un istigatore dell’illegalità, parlo di un argomento del quale non è permesso parlare, userei i lauti guadagni che mi corrisponderebbe la televisione pubblica per fare propaganda No Tav. I feroci comunicati emessi da questi personaggi, che non vale la pena di nominare, sovrastano di svariati ordini di grandezza il mio minuto di “propaganda”. Ma io ho esordito che mi esprimevo come cittadino e giornalista. Quindi non c’è propaganda allorché si porta a conoscenza della collettività il fondato dubbio che questa grande opera sia inutile per la gestione dei trasporti, dannosa per l’ambiente alpino e temibile per le pubbliche disastrate finanze. Non è propaganda, bensì è l’essenza stessa del giornalismo e della democrazia.
Mi si addebita il fatto che non vi era contraddittorio (bè vediamo cosa sanno dire loro in un minuto... strategica, fondamentale per lo sviluppo, sì sì, sono vent’anni che lo sentiamo ripetere), ma quante volte sulla televisione pubblica si è parlato delle ragioni del no? E quanto tempo invece di quelle (inesistenti) del sì? Chiedo una commissione che conti i minuti di televisione pubblica Sì Tav degli ultimi dieci anni, poi vedremo quanto conta il mio minuto! Avrei difeso due donne incarcerate per porto abusivo di mascherina “anti-gas” (da ferramenta, non da guerra nucleare-batteriologica-chimica): non ho detto che la magistratura ha fatto male a procedere contro di esse (è attesa per la decisione del Tribunale del riesame), io non c’ero e ci saranno stati dei motivi, ho solo affermato che mi sembra sproporzionata l’incarcerazione di due incensurate che protestavano e che non hanno spappolato il fegato di alcun poliziotto, in confronto ai blandi provvedimenti riservati a delinquenti mafiosi, truffatori, corruttori, e politici che violano le più elementari norme dello Stato. Da qui a “esaltare l’illegalità e difendere comportamenti violenti diretti contro lo Stato”, mi sembra ci sia una bella differenza. Quanto al fatto che io abbia usato questo minuto della Tv pubblica “lautamente pagato con i soldi dei contribuenti”, sono pronto a dimostrare, fatture alla mano e davanti a un giudice, che quanto percepisco in un anno corrisponde sì e no a una mensilità di uno solo di questi “onorevoli” pagati interamente dal denaro pubblico per sprecare il loro tempo in comunicati stampa lesivi della libertà di opinione. Ma tutto questo fiume di accuse si limita a mezzo minuto del mio commento, e ignora completamente l’altro mezzo minuto, nel quale ho suggerito che per uscire da questo assurdo teatrino giocato sullo scontro esasperato tra cittadini No Tav e forze dell’ordine, sarebbe sufficiente spostare il dibattito sulle ragioni dell’opera.
Ovvero analizzare le richieste dei cittadini contrari, verificare se siano corrette o meno, illustrare a tutti gli italiani che pagherebbero di tasca loro, i dati trasparenti e credibili che giustificano questa scelta voluta da Dio, e infine assumere una decisione condivisa se aprire i cantieri o rinunciare. Facile no? In ogni paese civile si farebbe così, tant’è che il 26 luglio scorso, 135 ricercatori e docenti universitari hanno inviato una petizione al presidente Napolitano (alla quale non è per ora pervenuta risposta) chiedendo di rispettare sulla questione Tav il metodo scientifico, basato sull’esame rigoroso e obiettivo dei fatti. Non basta dire che è un’opera strategica, bisogna anche spiegare perché. Non basta nascondersi dietro “le forze dell’ordine e la magistratura” che “difendono le decisioni prese da istituzioni democratiche. Istituzioni che si chiamano Unione Europea, Parlamento italiano, Regione Piemonte, Provincia di Torino”. Vogliamo indagare come queste istituzioni, per nulla infallibili, abbiano portato avanti il percorso progettuale, in atto da vent’anni? Il prof. Angelo Tartaglia del Politecnico di Torino, componente dell’Osservatorio ministeriale in rappresentanza della Comunità Montana Bassa Val di Susa (istituzione “No Tav”, ignorata, come decine di sindaci), sostiene che pur a fronte di tutti i dati palesemente contrari alla realizzazione dell’opera alla fine è stata assunta una decisione univoca: si deve fare, perché se i dati oggi sono sfavorevoli, diventeranno sicuramente favorevoli tra vent’anni. Facile no? Ora potete utilizzare anche voi lo stesso metodo con il vostro coniuge, con il datore di lavoro, con la banca.
Diversi giorni fa ho assistito mio malgrado (sono interista) all’inaugurazione del nuovo stadio della Juventus, a Torino. A parte la colata di retorica per me ovviamente indigesta, ho trovato interessanti i commenti sul tipo di stadio, la novità che esso rappresenta in Italia. Si tratta del primo stadio, in Italia, di proprietà di una società di calcio e interamente finanziato da privati (la Fiat o suoi dintorni). Lo stadio precedente, a Torino, si chiamava Olimpico ed era stato costruito per i campionati mondiali di calcio del 1990, quelli che, sotto la direzione di Luca Cordero di Montezemolo, contribuirono potentemente a quel debito pubblico per abbassare il quale ora Montezemolo invoca tagli alla spesa sociale. Nel ’90 si costruirono stadi giganteschi, come quello torinese, o quello di Bari, 80 mila posti più le poltrone della famiglia Matarrese.
Il nuovo stadio della Juventus contiene invece 42 mila persone, perché l’idea è di offrire comodità e intrattenimento, calcistico e non solo. Di più, questo tipo di stadi sono l’occasione per praticare lo sport più remunerativo di tutti: la speculazione immobiliare. Sia la Roma che la Lazio, le squadre di Roma, hanno più volte tentato, negli anni, di costruirsi un proprio stadio, abbandonando l’Olimpico romano (a sua volta ristrutturato nel ’90 con enormi spese): si è parlato di uno stadio della Roma alla Magliana, poi alla Pisana, di quello della Lazio (lo “Stadio delle aquile”) sulla Tiberina. In tutti questi progetti, a un impianto più piccolo si affiancavano costruzioni di carattere commerciale e, ovviamente, residenziale. È assai probabile che gli americani nuovi proprietari della Roma abbiano fatto questo investimento, d’accordo con Unicredit, la banca che in pratica possedeva la società, proprio con questo scopo.
In sostanza, il modello è Disneyland, ma anche i grandi centri commerciali: si va allo stadio a vedere la partita, ma si va anche al cinema, a fare shopping. E intorno, uffici e abitazioni in abbondanza, che, anche con un mercato assai depresso dalla crisi, rappresentano pur sempre attivi di bilancio e possibilità di nuovo credito da parte delle banche. Insomma, la finanziarizzazione dell’edilizia applicata allo sport, anzi al business sportivo. Del resto, il modello si è già affermato da tempo in altri paesi, come l’Inghilterra, dove gli stadi sono in generale di proprietà delle società calcistiche. Quello, storico, dell’Arsenal, squadra londinese, fu raso al suolo e ricostruito con il nome di “Emirates”, la linea aerea degli Emirati arabi proprietaria della società.
La spinta è talmente forte che i proprietari della Fiorentina, i Della Valle (il cui “senior” è appena entrato nella cabina di comando di Mediobanca, per dire), si sono più volte “disaffezionati” alla “Viola” proprio perché non sono riusciti a ottenere di costruire un loro stadio, e la famosa frase, in una intercettazione dell’allora sindaco Domenici, «del parco non mi frega una sega» (all’incirca, cito a memoria), alludeva proprio al progetto di nuovo stadio nella famigerata area di Castello. Gli stadi come grimaldelli nell’urbanistica delle città: il calcio è una cosa seria, a parte qualche allenatore dell’Inter.
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Tra un mese, su quel triangolo irregolare di sterpaglie aggrappato alla Fiera, entreranno le ruspe. Dovranno iniziare a sradicare tralicci elettrici, spianare strade, deviare torrenti: il viaggio verso il 2015 comincerà. Ma il milione di metri quadrati su cui sorgeranno i padiglioni di Expo è soltanto un pezzo. Un tassello, fondamentale, di un mosaico più vasto che comprende in tutto 31.500 ettari di territorio: è la corona disseminata su 16 comuni a nord ovest di Milano, già urbanizzata per il 60 per cento. È lì che bisogna andare a ricomporre un puzzle composto da 125 frammenti di terra simili a quelli dell´Esposizione: spazi ancora aperti, agricoli. Isole verdi che in tutto misurano ancora 11.600 ettari e che sono disperse in un mare di capannoni, case, strade, metropolitane, ponti e binari. Di più: rischiano di scomparire, proprio in nome del grande evento, accelerando un processo che negli ultimi anni ha già cancellato troppi spazi. È questa l´analisi e, insieme, l´allarme che lancia uno studio promosso dalla Fondazione Cariplo e condotto dal dipartimento di Architettura e pianificazione del Politecnico. Un messaggio chiaro: «Non toccate queste campagne, sono tutto ciò che ci resta».
È un viaggio attraverso il territorio che circonda il sito Expo, quello fatto dal Politecnico. Uno studio sul consumo di suolo, realizzato anche attraverso un lunghissimo reportage fotografico (diventerà una mostra aperta da domani fino al 9 ottobre alla Triennale, e un volume di Electa) per capire cosa sia successo attorno al futuro sito 2015. Ogni giorno in Lombardia si perdono quindici ettari di spazi agricoli aperti: in nove anni (dal ´99 al 2008) la superficie urbanizzata è cresciuta del 17 per cento, 48.942 ettari in più. Anche nella "corona nord-ovest" vicina ai terreni di Rho-Pero, secondo i ricercatori, in otto anni (dal 1999 al 2007) sono stati urbanizzati più di 1.000 ettari di spazi aperti. Ne rimangono, appunto, solo 12.700 ancora liberi. «E ci auguriamo - spiega Paolo Pileri, docente di Ingegneria del territorio del Politecnico che ha coordinato i lavori - che nel 2015 siano ancora tali». Il senso è chiaro: «Abbiamo già perso molte aree rurali attorno alla città. Dobbiamo essere consapevoli e fermarci in tempo» dice il presidente di Fondazione Cariplo, Giuseppe Guzzetti.
Pileri parte da una considerazione: «Gli spazi aperti sono un bene comune. Perché, proprio in nome di Expo, non pensiamo a un destino agricolo e verde per le aree limitrofe? Attorno ai grandi eventi si sprigionano grandi appetiti o grandi occasioni per correggere rotte che non hanno più senso, se non quello di ipotecare quote di futuro». La «paura» è quella. Anche Elena Jachia, direttore dell´area Ambiente della Fondazione Cariplo, la esplicita: «C´è il timore che Expo possa creare un effetto domino che metterebbe in gioco una grande quota di suolo. Rischiamo di veder nascere parcheggi, strutture ricettive, altri capannoni. E, invece, la riflessione che proponiamo agli amministratori è un´altra: guardiamo a quei frammenti come a una zona unitaria da valorizzare in altro modo, pensiamo a un´Expo diffusa».
Sui destini del post 2015 la ricerca non entra. Anche se Pileri si augura che anche il milione di metri quadrati rimanga il più possibile libero. In generale, secondo il professore, bisognerebbe «rivedere le politiche urbanistiche, perché i Comuni pensano solo ai loro confini perdendo la visione d´insieme»: un´urbanistica «miope e legata alle esigenze di bilancio». È attorno all´area di Expo che 12 ricercatori, impegnati per due anni, hanno fotografato e mappato l´esistente: sono quei 125 frammenti verdi, alcuni con orti o fontanili. Rarità, guardando i numeri. Perché il consumo di suolo, in questa zona, è stato forte. Mille ettari di verde perso che, in termini ambientali, si calcola corrispondano a 316.800 tonnellate di anidride carbonica in più. Tra i Comuni in cui questo processo è stato più forte c´è Rho, dove la superficie urbanizzata è cresciuta del 27 per cento in otto anni. L´altra faccia della medaglia, naturalmente, è quella dei suoli adatti all´agricoltura che se ne sono andati. In tutta la Regione (dal ‘99 al 2008) sono 39mila ettari; 905 (dal ´99 al 2007) nella "corona nord-ovest" presa in esame. Di questi, 83 erano «molto adatti alle coltivazioni». Le proposte in chiave 2015 ci sono: pensare a progetti per coltivare gli spazi liberi attorno a Expo, e a una mobilità "lenta" con percorsi che colleghino l´area di Rho-Pero a cascine, corsi d´acqua e Parco Sud.
La città sale di un piano ogni quindici giorni. In media. E presto l'atteso pennone che svetterà dal palazzone progettato da Cesar Pelli ci regalerà il grattacielo più alto d'Italia. Ma Manfredi Catella, ad di Hines (in testa al gruppo di investitori che nella riqualificazione di Porta Nuova ha scommesso due miliardi) scuote la testa: «Va bene il pennone, ma vogliamo parlare dei 130 appartamenti venduti dall'inizio del collocamento sul mercato?».
Perché il destino di Porta Nuova (almeno nelle intenzioni degli artefici della nuovissima «città che sale», il più grande intervento di riqualificazione mai realizzato nel centro di Milano) è segnato: entro il 2015, anno dell'Expo, sarà un quartiere perfettamente integrato, vissuto dalla città. Con i palazzi, il grande parco, le piste ciclabili e la piazza. Il pennone sul Cesar Pelli verrà apposto a fine ottobre (con una complessa operazione), mentre l'avveniristica piazza, grande come quella della Scala e con un'opera acustico-visiva dell'artista Alberto Garutti, sarà pronta nel 2012. I lavori dell'intero progetto termineranno nel 2013.
Ma, stando ai dati diffusi da Catella, i milanesi hanno già promosso il progetto residenziale: «Centotrenta appartamenti venduti ad oggi su un collocamento di centoquaranta, mentre nei test fatti a Corso Como la metà è stata assegnata in trenta giorni». Il collocamento ha riguardato il palazzone di Solaria e presto verrà immesso sul mercato un lotto misto, con Corso Como, Bosco Verticale e altre aree. Curiosità: gli appartamenti vengono scelti soprattutto da famiglie, che chiedono ampi spazi per bambini e ragazzi. E del verde, pensando al progetto del Bosco di Stefano Boeri.
Altro dato che sorprende: la maggior parte degli acquirenti si prepara a lasciare il centro storico. Per motivi di risparmio, certo, ma anche perché Porta Nuova sarà al centro di una fitta rete di infrastrutture e trasporti, non ultima la nuova linea della metropolitana. E poi c'è l'ambiziosissimo progetto del parco botanico, che andrà a dare un volto verde nuovo a quella che fino a due anni fa era un'area trascurata in città. Ma qui bocche cucite, perché la cosa riguarda il Comune, che ha già tanto a cui pensare.
I prezzi delle case? Vanno dai 7mila al metro quadro dell'Isola fino ai 10-15mila del Solaria. Ma molti stanno comprando casa lì quale investimento sicuro: «Nel secondo semestre del 2010 – conclude Catella – il valore delle case nella zona Brera-Garibaldi è aumentato del 5,9 per cento».
«L'economia mondiale sta diventando sempre più ingiusta e insostenibile: uccide più delle bombe». «Quest'ingiustizia affonda le radici in un neoliberismo che non sa rispondere ai veri bisogni delle persone» e cresce in un'economia che privilegia «le rendite finanziarie e i guadagni speculativi anziché la produzione, la crescita quantitativa anzichè la qualità, lo sfruttamento della natura e dell'ambiente anziché la loro protezione». Dopo la crisi finanziaria di questi mesi non è difficile essere d'accordo con questa critica.
Ma queste parole erano scritte 14 anni fa nell'appello della Marcia Perugia-Assisi "Per un'economia di giustizia" del 12 ottobre 1997. La Tavola della Pace, nata in quell'occasione, portò centomila persone a chiedere - con indubbia capacità di anticipazione - un'economia meno ingiusta. La pace si costruisce con la giustizia, e l'ingiustizia dell'economia che si globalizza è la fonte principale dei conflitti, «uccide più delle bombe». La soluzione è in un ordine internazionale che faccia a meno delle armi e che riduca sottosviluppo e disuguaglianze. Per farlo, il potere dei mercati, della finanza e delle grandi imprese multinazionali deve cedere il passo agli strumenti della politica e ai diritti delle persone. Questo il filo del discorso di allora.
L'analisi era precisa: le disuguaglianze aumentano ovunque, i problemi di sopravvivenza della parte più povera dell'umanità sono irrisolti, il sottosviluppo genera disastri ambientali, lotta per le risorse, conflitti senza fine. L'ingiustizia viene dal neoliberismo e da una logica di profitto che impedisce il benessere di tutti; il mercato calpesta le persone e i benefici di tutto questo vanno ad «alcuni paesi più forti e alcune élite economiche e sociali, aumentando la marginalizzazione di milioni di persone».
Qualcosa è cambiato da allora, non molto nella sostanza. Allora non si immaginava che l'Italia sarebbe stata messa fuori così presto dal gruppo dei paesi forti, che da allora a oggi il Pil italiano in termini reali non sarebbe praticamente aumentato. Cina, India, altri paesi asiatici, alcuni paesi dell'America latina hanno avuto un rapido sviluppo, i redditi medi sono aumentati, ma così pure le disuguaglianze interne a quei paesi. L'ingiustizia non è diminuita. L'insostenibilità del modello neoliberista ha portato al grande crollo del 2008 e alla recessione attuale, ma il potere politico ed economico resta aggrappato all'intoccabilità della finanza e al mito dell'efficienza dei mercati. Così l'insostenibilità si aggrava. È cambiato - denunciato solo dai pacifisti - il ricorso alla forza militare, tornato all'ordine del giorno. Dalla guerra nei Balcani del 1999 ai bombardamenti in Libia di oggi - passando per le guerre del Golfo e in Afghanistan - l'Occidente e il nostro paese si sono rimessi a fare la guerra per imporre un ordine neocoloniale, occasionalmente travestito con la tutela dei diritti umani. Le vittime - e le conseguenze - si moltiplicano.
Che cosa si chiedeva, 14 anni fa, ai potenti dell'economia? Partire dalle persone, battersi contro povertà e disuguaglianze, dare lavoro a tutti e dare dignità al lavoro, mettere cooperazione, democrazia e sostenibilità dentro l'economia. Mentre la globalizzazione neoliberista costruiva i suoi pilastri - il "consenso di Washington" e l'Organizzazione mondiale per il commercio (Wto) - i pacifisti chiedevano ai governi un'autorità politica sovranazionale che bilanciasse il potere dell'economia globale e la perdita di sovranità degli stati. La scommessa era di democratizzare e riformare il sistema delle Nazioni Unite, dare spazio all'agenda illuminata delle grandi conferenze Onu degli anni '90 - sull'ambiente, le donne, lo sviluppo sociale, il razzismo, etc. - e alle convenzioni sul lavoro dell'Organizzazione internazionale del lavoro dell'Onu - creando una possibile difesa contro una globalizzazione pagata dai lavoratori.
Quest'offensiva "cosmopolitica" ha avuto pochi risultati, l'Onu si è ripiegata su se stessa, soprattutto negli anni bui delle presidenze Bush, le conferenze Onu a dieci anni di distanza hanno tutte registrato un arretramento degli obiettivi di cambiamento. Ma anche la globalizzazione è finita, prima ancora della crisi del 2008; la spinta propulsiva del libero commercio e del Wto si è esaurita, si è affermata una dinamica regionale - in Asia e America latina come in Europa - che diversifica le traiettorie di sviluppo. Agli organismi sovranazionali - Fmi e Banca mondiale - si chiedeva di cambiare politica e «la cancellazione del debito estero dei paesi impoveriti, che ha raggiunto la cifra record di circa 2000 miliardi di dollari». Ora il debito del terzo mondo non è più cosi pesante, e l'Italia da sola supera quella cifra, con un debito che in dollari vale 2700 miliardi. Perfino il Fondo monetario ha moderato la sua ortodossia liberista; in compenso, la sua vittima più recente è diventata la Grecia. Alle politiche dei governi si chiedeva di «redistribuire le ricchezze, di offrire nuova occupazione anche riducendo gli orari di lavoro», di tutelare i diritti dei lavoratori, di dare spazio alle donne e all'economia solidale. Su questo fronte nulla è stato fatto, continuiamo ad arretrare rispetto a 14 anni fa, le richieste di oggi sono le stesse. Il sistema politico degli stati sembra più immobile di quello mondiale.
Per i pacifisti, poi, c'era la «responsabilità di agire». Non solo marce e proteste. Si è lavorato a costruire reti transnazionali di società civile capaci di proporre alternative, che avessero ascolto nelle istituzioni globali. Per questo 14 anni fa a Perugia si tenne - prima della marcia - la prima Assemblea dell'Onu dei popoli con un centinaio di rappresentanti di movimenti, associazioni, comunità locali di altrettanti paesi diversi. E due anni dopo, nel 1999, la successiva Assemblea dell'Onu dei popoli si intitolava "Un altro mondo è possibile": tre mesi dopo ci fu la rivolta di Seattle contro l'Omc e un anno e mezzo dopo il primo Forum sociale mondiale di Porto Alegre scelse lo stesso titolo. Incontri di massa di questo tipo tra i movimenti di tutto il mondo sono diventati appuntamenti regolari, e la società civile - con le sue reti, campagne, eventi - è diventata un soggetto visibile e influente sulla scena globale.
Agire ha voluto dire fare dell'economia di giustizia un tema condiviso da centinaia di associazioni ed enti locali, capace di mettere in moto migliaia e migliaia di persone, aprendo la via alle proteste di massa degli anni successivi contro la globalizzazione liberista, fino al G8 di Genova del 2001. Agire ha voluto dire incalzare la politica ad affrontare le ingiustizie, proporre alternative. Nel 2005 all'Assemblea dell'Onu dei Popoli ci fu un confronto con Romano Prodi, candidato del centrosinistra alle elezioni (vittoriose) dell'anno successivo. Fece qualche apertura sul ritiro italiano dalla guerra in Iraq, ma la sua difesa della globalizzazione come forza positiva fu inflessibile, lo stesso per l'integrazione europea guidata da mercati e moneta. Inevitabile la delusione per i risultati della sua politica. Un'esperienza che meriterebbe un nuovo confronto, a Perugia quest'anno. Chissà se il centrosinistra sa imparare dagli errori che il crollo del 2008 e la crisi dell'euro hanno ora messo sotto gli occhi di tutti?
Oggi come 14 anni fa i nodi irrisolti restano il potere dei mercati, della finanza e delle imprese, e l'assenza di una politica capace di affrontare le ingiustizie, nazionali e globali. Qui si misura il fallimento di un'Europa che ha costruito la sua integrazione sul liberismo e la finanza, e ora si trova sotto l'attacco della speculazione, divisa e indebolita. Troppe cose non sono state fatte allora. L'agenda per cambiare non è cambiata. Per limitare il potere della finanza si chiedeva già allora la Tobin Tax sugli scambi di valute. Impensabile e irrealizzabile, ci rispondevano. Ora la fattibilità della tassa sulle transazioni finanziarie è sostenuta da Fmi e Ue (Merkel compresa), però manca ancora la volontà politica di introdurla. Più aiuti allo sviluppo si chiedevano allora; i governi dei paesi ricchi si sono reimpegnati all'Onu nel 2000 a destinare lo 0,7% del loro Pil agli aiuti allo sviluppo, ma hanno subito mancato le promesse; con la crisi attuale gli aiuti sono i primi tagli effettuati. Più occupazione e diritti per tutti i lavoratori, si chiedeva. Ora l'Unione europea ha 23 milioni di disoccupati e in più 15 milioni con lavori temporanei, a tempo pieno o parziale: una precarizzazione generale che 14 anni fa non avremmo sospettato.
Le alternative ci sono, oggi come allora. Le forze del cambiamento anche, unite da un filo che attraversa le mobilitazioni di decenni. Pacifisti e movimenti saranno ancora sulla strada da Perugia ad Assisi, l'appuntamento è per la mattina presto, domenica 25 settembre 2011.
Il sostegno che i vertici della Chiesa continuano a dare a Berlusconi è non solo uno scandalo, ma sta sfiorando l´incomprensibile. Che altro deve fare il capo di governo, perché i custodi del cattolicesimo dicano la nuda parola: «Ora basta»? Qualcosa succede nel loro animo quando leggono le telefonate di un Premier che traffica favori, nomine, affari, con canaglie e strozzini? Non sono sufficienti le accuse di aver prostituito minorenni, di svilire la carica dimenticando la disciplina e l´onore cui la Costituzione obbliga gli uomini di Stato? Non basta il plauso a Dell´Utri, quando questi chiamò eroe un mafioso, Vittorio Mangano? Cosa occorre ancora alla Chiesa, perché si erga e proclami che questa persona, proprio perché imperterrita si millanta cristiana, è pietra di scandalo e arreca danno immenso ai fedeli, e allo Stato democratico unitario che tanti laici cattolici hanno contribuito a costruire?
Un tempo si usava la scomunica: neanche molto tempo fa, nel ´49, fu scomunicato il comunismo (il fascismo no, eppure gli italiani soffrirono il secondo, non il primo). Se Berlusconi non è uomo di buona volontà, e tutto fa supporre che non lo sia, la Chiesa usi il verbo. Ha a suo fianco la lettera di Paolo ai Corinzi: «Vi ho scritto di non mescolarvi con chi si dice fratello, ed è immorale o avaro o idolatra o maldicente o ubriacone o ladro; con questi tali non dovete neanche mangiare insieme. Spetta forse a me giudicare quelli di fuori? Non sono quelli di dentro che voi giudicate? Quelli di fuori li giudicherà Dio. Togliete il malvagio di mezzo a voi!».
Anche l´omissione è complicità. Sta accadendo l´intollerabile dal punto di vista morale, in politica, e i vertici della Chiesa tacciono: dunque consentono. Si può scegliere l´afonia, certo, o il grido inarticolato di disgusto: sono moti umani, ma che bisogno c´è allora di essere papa o vescovo? (avete visto, in Vaticano, Habemus Papam?). Dicono che parole inequivocabili son state dette: «desertificazione valoriale», «società dei forti e dei furbi», «cultura della seduzione». Ma sono analisi: manca la sintesi, e le analisi stesse son fiacche. D´un sol fiato vengono condannati gli eccessi dei magistrati, pareggiando ignominiosamente le condanne. Da troppo tempo questo è, per tanti laici cattolici scandalizzati ma non uditi, incomprensibile. Quasi che il ritardo nella presa di coscienza fosse ormai connaturato nella Chiesa. Quasi che l´espiazione (penso ai mea culpa di Giovanni Paolo II, nobili ma pur sempre tardivi) fosse più pura e santa che semplicemente non fare il male: qui, nell´ora che ci si spalanca davanti.
Un gesto simile a quello di Cristo nel tempio, un no inconfondibile, allontanerebbe Berlusconi dal potere in un attimo. Alcuni veramente prezzolati resterebbero nel clan. Ma la maggior parte non potrebbero mangiare insieme a lui, senza doversi ogni minuto giustificare. Non è necessario che l´espulsione sia resa subito pubblica, anche se lo sapete, uomini di Chiesa: c´è un contagio, del male e del malaffare. Forse basterebbe che un alto prelato vada da Berlusconi, minacci l´arma ultima, la renda nota a tutti. Questa è l´ora della parresia, del parlar chiaro: la raccomanda il Vangelo, nelle ore cruciali.
Sarebbe un´interferenza non promettente per il futuro, lo so. Ma l´interferenza è una prassi non disdegnata in Vaticano, e poi non dimentichiamolo: già l´Italia è governata da podestà stranieri in questa crisi (Mario Monti l´ha scritto sul Corriere: «Le decisioni principali sono prese da un «governo tecnico sopranazionale»), e Berlusconi d´altronde vuole che sia così per non assumersi responsabilità.
Resta che gli alleati europei possono poco. E una maggioranza che destituisca Berlusconi ancora non c´è in Parlamento. Lo stesso Napolitano può poco, ma la sua calma è d´aiuto, nel mezzo del fragore di chi teme chissà quali marasmi quando il Premier cadrà. Il marasma postberlusconiano è fantasia cupa e furba, piace a chi Berlusconi ce l´ha ormai nelle vene. Il marasma, quello vero, è Berlusconi che non governa la crisi ma si occupa di come evitare i propri processi: tanti processi, sì, perché di tanti reati è sospettato. L´Italia è un battello ebbro, il capitano è un simulacro. Non ci sono congiure di magistrati, per indebolire la carica. Il trono è già vuoto. Il pubblico ministero, organo dello Stato che rappresenta l´interesse pubblico, deve per legge esercitare l´azione penale, ogni qualvolta abbia notizia di un reato, e in molte indagini Berlusconi è centrale: come corruttore o vittima-complice di ricatti. Gli italiani non possono permettersi un timoniere così. Se sono economicamente declassati, la colpa è essenzialmente sua.
Berlusconi non farà passi indietro, gli oppositori si ridicolizzano implorandolo senza mai cambiare copione. Oppure vuole qualcosa in cambio, e anche questo sarebbe vituperio dell´Italia. Il salvacondotto proposto da Buttiglione oltraggia la Costituzione. Casini lo ha smentito: «Sarebbe tecnicamente e giuridicamente impossibile perché siamo in uno Stato di diritto».
Perché la Chiesa non dice basta? Si dice «impressionata» dalle cifre dell´evasione fiscale, ma la vecchia domanda di Prodi resta intatta: «Perché, quando vado a messa, questo tema non è mai toccato nelle omelie? Eppure ha una forte carica etica» (Famiglia cristiana, 5-8-07). E come si spiega tanta indulgenza verso Berlusconi, mentre Prodi fu accusato di voler essere cristiano adulto? Pare che sia la paura, ad attanagliare i vertici ecclesiastici: paura di perdere esenzioni fiscali, sovvenzioni. Berlusconi garantisce tutto questo ma da mercante, e mercanti sono quelli che con lui mercanteggiano, di quelli che Cristo cacciò dal tempio rovesciandone i banchi. E siete proprio sicuri di perdere privilegi? Tra gli oppositori vi sono persone a sufficienza, purtroppo, che non ve li toglieranno. Paura di un cristianesimo che in Italia sarebbe saldamente ancorato a destra? Non è vero. Non posso credere che lo spauracchio agitato da Berlusconi (un regime ateo-comunista)abbia ancora presa. Oppure sì? Penso che la Chiesa sia alle prese con la terza e più grande tentazione. Alcuni la chiamano satanica, perché di essa narra il Vangelo, quando enumera le prove cui Cristo fu sottoposto: la prova della ricchezza, del regno sui mondi: «Tutte queste cose ti darò, se prostrandoti mi adorerai». La Chiesa sa la replica di Gesù.
Il Papa ha detto cose importanti sulla crisi. Che agli uomini vengon date pietre al posto del pane (Ancona, 11 settembre). La soluzione spetta a politici che arginino i mercati con la loro autorevolezza. Non saranno mai autorevoli, se ignorano la quintessenza della decenza umana che è il Decalogo. Ma neanche la Chiesa lo sarà. Diceva Ilario di Poitiers all´imperatore Costanzo, nel IV secolo dC: «Noi non abbiamo più un imperatore anticristiano che ci perseguita, ma dobbiamo lottare contro un persecutore ancora più insidioso, un nemico che lusinga; non ci flagella la schiena ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni (dandoci così la vita), ma ci arricchisce per darci la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci colpisce il corpo, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l´anima con il denaro».
Il cemento avanza. In tutta la regione. E non di poco, non con lentezza: cresce del dieci per cento. Il confronto va fatto con la Lombardia del '54 (sei milioni e mezzo di persone, tre in meno rispetto a oggi): l'anno del primo «elaboratore elettronico» al Politecnico. Allora i terreni agricoli erano il 56% del totale e siamo scesi al 44%. È soprattutto tra il 1980 e il '99 che la Lombardia ha visto le aree antropizzate salire da 194 mila a 301 mila ettari, mentre le aree agricole sono scese da un milione 260 mila ettari a un milione e 43 mila.
Come eravamo e come siamo. Con la domanda conseguente: come saremo? Da una parte la Lombardia del 1954: sei milioni e mezzo di persone, tre in meno rispetto ad oggi. E' l'anno del primo «elaboratore elettronico» installato al Politecnico; a Milano gli abitanti sono 1,3 milioni (dopo il picco del 1971, siamo ritornati a quella quota) e c'è il sindaco Virgilio Ferrari, socialdemocratico, mentre Brescia (150 mila abitanti contro i 195 mila di oggi) è guidata (e lo sarà fino al 1975) da uno dei padri della Dc, Bruno Boni.
A gennaio dalla sede Rai lombarda la neonata televisione ha trasmesso il suo primo telegiornale; in agosto muore il cardinale Schuster e, alla guida della diocesi milanese, gli succede il bresciano Giovani Battista Montini. E' una Lombardia che già corre verso il boom, con le grandi industrie (è proprio questo l'anno in cui Sesto San Giovanni viene insignita del titolo di città) e i nuovi quartieri popolari, ma che ancora ha tanta parte di sé in migliaia di cascine della grande pianura come nei campi, nelle vigne e negli alpeggi della sua parte nord, quella montuosa. Dall'altra parte la Lombardia di questi anni: l'unico numero che non cambia è la superficie complessiva, 2 milioni e 400 mila ettari.
Allora i terreni agricoli erano il 56% del totale; siamo scesi al 44% nel 2007, data degli ultimi rilievi disponibili dell'Ersaf, l'ente regionale per lo sviluppo dell'agricoltura e delle foreste che da una decina d'anni «fotografa» il territorio e i suoi cambiamenti anche attraverso rilievi satellitari. Per contro, il territorio antropizzato è passato dal 4 al 14% del totale: un dato, quest'ultimo, che mette la Lombardia (eppure rimane la prima regione agricola del paese) bel al di sopra della media nazionale, che ferma al 7,1 la percentuale di territorio occupato da case, strade, ferrovie, altre infrastrutture. Avanzano i boschi, e anche questa — con l'agricoltura di montagna ridotta al lumicino e i pascoli in quota abbandonati — non è una novità: erano il 37% del territorio, sono arrivati al 39.
«L'uso del suolo in Lombardia negli ultimi 50 anni» è il volume che Regione Lombardia ed Ersaf presenteranno con un convegno in programma per il prossimo giovedì 29 settembre nell'auditorium Giorgio Gaber di Milano. Una giornata — con l'Expo 2015 sullo sfondo — dedicata all'analisi e al commento di dati (e delle immagini che da questi numeri è possibile elaborare) che raccontano la storia del territorio ma anche della gente che lo abita. «Dodici ettari al giorno è attualmente il consumo di territorio: dobbiamo pensare a conservare e tutelare, ad uno sviluppo che sia produttivo ma consumi meno» dice Alessandro Colucci, assessore ai Sistemi Verdi, in prima linea su questo tema come i colleghi Daniele Belotti (Territorio e Urbanistica) e Giulio De Capitani (Agricoltura).
Difende, Colucci, la «sua» legge sui parchi (700 mila ettari) passata fine luglio dopo tante polemiche: «Abbiamo coinvolto anche l'ente parco nell'eventuale modifica dei confini rinviando ad un nuovo progetto di legge una definizione migliore della materia». E' soprattutto nei due decenni tra il 1980 e il 1999 che la Lombardia ha visto crescere il cemento, con le aree antropizzate salite da 194 mila a 301 mila ettari, mentre le aree agricole scendevano da 1 milione 260 mila ettari a 1 milione e 86 mila. In media, nei 25 anni dal '55 all'80 sono stati «antropizzati» 3.759 ettari ogni 12 mesi: ma nei due decenni successivi si è passati a 5.663.
PostillaI dati sono allarmanti. Ma nell'articolo si fa la consueta confusione tra due fenomeni molto diversi sebbene ugualmente preoccupanti. Altro è la riduzione della superficie agricola censita come tale sulla base delle statistiche delle aziende agricole, altro è il consumo di suolo dovuto alla sua laterizzazione (grattacieli ville villette e casermoni, cemento, ghiaia, piazzali, strade ecc. ecc.). Della riduzione del suolo agricolo fanno parte la rinaturalizzazione (nuovi boschi, liberazione di aree fuviali, terreni incolti ecc.). Su eddyburg abbiamo ripetuto più volte questa precisazione, che ci sembra diverosa, ma non tutti ci ascoltano.
Cento chilometri di nuove piste ciclabili. Progetto impegnativo, rischio che resti solo una speranza. Realizzabile?
«Una città che vuole una svolta per la mobilità sulle bici non può misurarsi solo sui chilometri di piste ciclabili».
E a cosa dovrebbe puntare, assessore?
«Alla visione complessiva e alla capacità di rendere la città nel complesso più vivibile».
È un intento lodevole, ma un po' generico...
«Significa lavorare per rendere più sicure le corsie più usati; aumentare i percorsi nelle zone più delicate, come intorno alle scuole; unire pezzi e tronconi di piste che oggi sono isolati. Questi obiettivi non sono affatto generici. Dobbiamo consentire alla bici di muoversi nel complesso con più sicurezza».
Pierfrancesco Maran è l'assessore all'Ambiente e alla Mobilità. Dai suoi uffici passa buona parte della credibilità che la giunta Pisapia riuscirà a guadagnare: nuovo Ecopass, politiche per i mezzi pubblici, riduzione di traffico e smog, realizzazione dei progetti votati con i referendum sull'ambiente. Scadenze ravvicinate e necessità di dare una risposta. Anche (e soprattutto) ai milanesi più «eco», quelli che si spostano in bicicletta.
Quali sono i primi passi concreti?
«Accanto alla visione d'insieme, bisogna muoversi per risolvere anche problemi più semplici: nella manutenzione delle strade, ad esempio, stiamo dando indicazione per accelerare la rimozione di molti ostacoli vicini ai percorsi per le bici, come pali e segnaletica inutile».
Cosa chiedono i ciclisti milanesi?
«Abbiamo ad esempio aperto il bando per l'acquisto delle nuove rastrelliere, quelle a cui si può legare anche il telaio per contrastare i furti».
Rimuovere i pali inutili e installare le rastrelliere, d'accordo. Ma basteranno ad aumentare gli spostamenti su pedali in città?
«Questi interventi servono se collegati a un impegno più ampio. Stiamo scrivendo una lettera al ministero dei Trasporti, perché il codice della strada è molto rigido sulla ciclabilità e invece per dare una svolta Milano ha bisogno di elasticità e sperimentazione».
Cosa chiedete?
«Per prima cosa la "fermata anticipata" (è una norma applicata in Francia, dove le macchine si fermano a distanza di 3 metri dal semaforo assicurando alle bici di attraversare gli incroci senza rischi, ndr), un meccanismo fondamentale per la sicurezza. Altrimenti le nostre piste avranno sempre problemi agli incroci. Stesso discorso per le corsie per le bici a doppio senso e per la possibilità di colorare l'asfalto sulle carreggiate stradali».
Per i cento nuovi chilometri di piste serviranno 30 milioni di euro. Sarà uno dei capitoli di spesa per gli incassi del nuovo Ecopass?
«La priorità per gli investimenti sono i mezzi pubblici. Di certo le nostre azioni saranno anche a misura di bicicletta».
In un articolo di fondo pubblicato recentemente dal New York Times, il premio Nobel Paul Krugman dà elegantemente dell’imbecille a uno, anzi due, dei candidati Repubblicani di punta alle prossime elezioni presidenziali. E con ottime ragioni, visto che sia l’ex governatore del Texas Rick Perry, sia quello del Massachusetts Mitt Romney, paiono sostenere posizioni a dir poco oscurantiste nei confronti della scienza, in particolare per quanto riguarda cambiamento climatico e evoluzione. I temi sono quelli classici della destra (non solo americana, ricordiamoci che anche da noi pullulano decerebrati del genere, pure in posizioni di potere). Ovvero l’uomo mica discende dalla scimmia che è brutta e pelosa, ma l’ha creato Dio con l’argilla. E poi il riscaldamento del pianeta non c’entra niente col bruciare petrolio, ma è solo un complotto mondiale degli scienziati. Unica differenza tra i due, è che il rude texano Perry alle sciocchezze pare crederci sul serio, mentre l’ex furbo imprenditore Romney lo fa per ingraziarsi un elettorato che dà già per scontato di essere pura creazione divina (al 75%) e che chi studia e fa ricerca sia per sua natura un comunista da eliminare (all’89%).
Rischiano, entrambi, di diventare Presidente degli Stati Uniti d’America. E poi di invitare un altro scrittore di fantascienza – come faceva Bush – a discutere il global warming nella prospettiva del complotto, o magari accogliere Borghezio che parla al popolo della superiorità ariana, per via dell’argilla più pura usata da Dio nell’atto creativo. C’è poco da ridere, di fronte a questa ottusa pervicacia nel negare l’evidenza, perché in fondo si tratta solo della punta dell’iceberg di un atteggiamento molto, ma molto, più diffuso, che rallenta oltre ogni misura la nostra capacità collettiva di adattarci a un mondo che cambia. E per forza, ci risponderebbero gli antievoluzionisti: l’evoluzione non esiste, a cosa volete adeguarvi? Prendiamo le città.
Verso la metà del XX secolo (quando senza saperlo già stavamo scaldando il pianeta con gli scarichi delle auto) raggiungeva il massimo impulso l’idea, cullata da Henry Ford prima, restituita in affascinanti immagini poi da Frank Lloyd Wright e altri, dell’estinzione dell’uomo urbano così come era esistito sino a quel momento. Giù giù sino al nostro Domenico Modugno che non molto tempo dopo dal palco di San Remo dava il suo Calcio alla Città, aggiungendosi alle falangi di chi considerava ormai l’ambiente urbano alla stregua di una specie di obbligatoria valle di lacrime, da attraversare part-time giusto per guadagnarsi il sacrosanti diritto alla villetta immersa nel verde, alla privacy del giardino di proprietà eccetera. In fondo era lo sbocco logico del concetto di città macchina intuitivamente criticato dalla Metropolis di Lang ai Tempi Moderni di Chaplin: un puro apparato di potere economico finalizzato alla produzione di ricchezza, che nulla concedeva se non la pura sopravvivenza di chi la rendeva possibile. La vita era altrove.
Contemporaneamente stava prendendo piede un percorso opposto di riflessione, ben riassunto dagli studi empirici di Jane Jacobs, e soprattutto dall’approccio comprensivo e sistematico del suo primo mentore, William H. Whyte. La differenza sostanziale fra queste riflessioni e quelle tradizionali antiurbane che le avevano precedute, non sta tanto nel merito, ma nel metodo. Certo la critica della città industriale, dagli utopisti alla città giardino cooperativa di Howard alle ipotesi urbanistiche del primo ‘900 deriva da analisti statistiche, sanitarie, sociologiche, ma nell’epoca in cui nascono gli studi sulla città moderna ormai impera il luogo comune della spinta conformista verso la divaricazione fra città luogo della produzione, e gli spazi dispersi come nuovo habitat umano privilegiato. Il che fa comodo a un complesso intreccio di interessi. Si capisce così, forse, l’incredibile successo interdisciplinare e giornalistico della cosiddetta teoria Behavioral Sink dell’etologo John B. Calhoun. Il fatto è che, impostazione scientifica a parte, dava ancora una bella spintarella alla villettopoli universale.
In breve, Calhoun aveva costruito una colonia chiusa di topi, dove al crescere della densità per aumento di popolazione in uno spazio definito si raggiungeva un picco corrispondente a un crollo senza rimedio di tutta la struttura sociale. Niente più riproduzione, niente più famiglie, solo conflitti senza sbocco, solitudine, attesa della morte per vecchiaia. Un boccone troppo ghiotto per chi sognava di vendere a ogni cittadino una fettina individuale di ogni cosa, prodotto, servizio, identità, anziché contare in tutto o in parte sulla costruzione metropolitana collettiva. Non a caso vennero abbastanza messi in sordina (basta relegarli nelle cosiddette polverose riviste di settore) gli studi successivi che spiegavano come i ratti sono ratti e gli umani sono umani, o che confondere una grossa tana chiusa con una metropoli moderna non tiene conto di cose enormi, a partire dalla possibilità di spostarsi tanto per dire la prima che viene in mente. Macché, come con Bush, anche qui spuntò l’utile innocente scrittore di fantascienza, si chiamava John Brunner e il romanzo Tutti a Zanzibar! L’ho visto ancora negli anni ’80, questo romanzo di fantascienza sulla sovrappopolazione, il controllo delle nascite ecc., in una bibliografia di corso appesa a un bacheca del Politecnico di Milano, presumibilmente per parlare di densità urbane, di forma del quartiere eccetera.
William H. Whyte nel suo City (1988) ricorda quanta fatica gli ci volle negli anni ’60 per trovare finanziatori al progetto di ricerca sui comportamenti sociali negli spazi urbani, in un mondo scientifico evidentemente egemonizzato dalla comoda teoria antiurbana del Behavioral Sink. Che era da un lato sicuramente scientifica nei metodi, e assai poco invece nell’estensione a un ambito diverso, esattamente come l’ingegneria applicata massicciamente e acriticamente agli organismi urbani dal XIX secolo. Ma per fortuna arrivò la National Geographical Society, col medesimo fondo che di solito finanzia quelle spedizioni di entusiasti dottorandi nella jungla nera alla ricerca di popolazioni sperdute e comportamenti ancestrali. E Whyte riuscì a iniziare quel progetto ancora in corso di evoluzione oggi, sostanzialmente dedicato alla promozione dell’ambito pubblico, che vede fra i suoi più noti esegeti e specialisti l’architetto danese Jan Gehl. Cosa c’è, alla base di queste ricerche sulla qualità urbana in rapporto all’uso concreto quotidiano da parte di abitanti e utenti? L’osservazione sistematica, e poi l’uso di categorie generali per trasformare tale osservazione in ipotesi interpretative.
Non è sicuramente un caso se oggi, in una città dove pare impossibile immaginare gli scenari dipinti solo trent’anni fa nel film di John Carpenter Fuga da New York, le osservazioni di Whyte si traducono in realtà nei progetti del Planning Department diretto dalla sua allieva Amanda Burden, o in quelli della responsabile ai Trasporti Janette Sadik-Kahn che vedono al centro la consulenza di Jan Gehl, gli spazi pedonali, la permeabilità, la possibilità di esprimere comportamenti sociali, l’esatto contrario della diffidenza contadina che domina sia il suburbio delle gated communities (Repubblicane creazioniste) che la densità coatta dei ghetti topaia socio-urbanistici residui dell’era modernista. E non è sicuramente un caso se la città densa, compatta, ricca di relazioni ed occasioni di socialità, interazione, conflitti ricomposti, si è rivelata anche l’ambiente più reattivo alla calamità naturale, a uno degli eventi climatici estremi che, ci ripete la scienza, diventeranno sempre meno eccezionali negli anni a venire.
Perché, se osserviamo con una minima attenzione quanto accaduto con l’uragano Irene, si dimostra inequivocabilmente la superiorità del contesto insediativo urbano moderno rispetto agli altri. La grande metropoli ha naturalmente saputo esprimere, come abbastanza ovvio, il classico ruolo delle strutture tecnologiche pensate anche per proteggere l’uomo dai rigori della natura, con tutti i limiti emersi non molto tempo fa per esempio a New Orleans di fronte a Katrina. Ma c’è qualcosa di meglio e di più, che ha funzionato egregiamente: la capacità di convivenza consapevole e organizzata, ben dimostrata dalla gestione dell’emergenza: altro che Behavioral Sink da eccesso di densità, e soprattutto altro che superiorità implicita del pioniere-capofamiglia, che nella sua casetta suburbana fa da baluardo alle tenebre che avanzano! Emergenza dichiarata, piano di evacuazione e cautela in atto, sinergia fra sistema edificato, impianti tecnologici, comportamenti collettivi. Pare casuale, ma dove ci sono stati i danni più gravi? Nelle zone suburbane a bassa densità, Staten Island per esempio.
E per forza i Repubblicani adesso si sbracciano in sgangherate critiche sull’eccesso di allarmismo, sulla sopravvalutazione del pericolo e compagnia bella. Basta guardare i risultati di un evento che poteva essere una catastrofe. Il programma strategico PLANYC2030 per la sostenibilità urbana promosso dal sindaco Bloomberg (Repubblicano anomalo che alla scienza ci crede quanto ai soldi) vorrebbe spingere ancor di più in questa direzione, ovvero far dipendere sempre meno il funzionamento tecnologico, economico e sociale della città dai grandi impianti e interventi hard di emergenza, e sempre più da una fitta rete di prevenzione e adattamento, fatta insieme di natura, attività diffuse, comportamenti, spazi integrati, ambiti pubblici. Dove si attenui sempre più la separazione netta fra spazio/tempo del lavoro e altre attività, dove non esista più la specializzazione segregata indotta dallo zoning un secolo fa. Ma, vorremmo dire noi, dove tutte queste cose comprendano anche chi non è milionario: in fondo sta qui la distinzione fra destra e sinistra. O ameno dovrebbe stare.
Gli italiani, ricchissimi e disperati. Ebbene sì, siamo ricchissimi, più dei francesi e dei tedeschi, più degli inglesi, degli americani e dei giapponesi. Lo dicono i numeri: la ricchezza lorda delle famiglie italiane alla fine del 2010 ammonta a 9 mila 732 miliardi di euro, i debiti (sempre delle famiglie) a circa mille miliardi, la ricchezza netta è quindi pari a 8 mila 700 miliardi. È una cifra enorme, quasi sei volte il pil, quattro volte e mezzo il debito pubblico, 7,8 volte il reddito disponibile, contro il 7,7 del Regno Unito, il 7,5 della Francia, il 7 del Giappone, il 6,3 della Germania e il 4,8 degli Stati Uniti. Siamo più ricchi di loro ma stiamo peggio. Perché?
Per spiegarlo dobbiamo partire dall’inizio, ovvero da come abbiamo fatto ad accumulare tanto. I motivi principali sono che siamo un popolo di risparmiatori (virtù in erosione) e un popolo di evasori fiscali (difetto che non si erode affatto). Un elevato risparmio consente di accumulare e non pagando le tasse si risparmia e si accumula molto di più. Nel 2009 per esempio la ricchezza complessiva è cresciuta di 93 miliardi, 70 dei quali rappresentati dal risparmio e il resto dall’aumento del valore. Non è un’eccezione, tra il 1995 e il 2009 l’aumento della ricchezza è dovuto per il 60 per cento al risparmio e per il 40 all’aumento del valore.
Il passo successivo per avvicinarci a capire perché stiamo peggio è nella struttura economica dell’Italia, la cui sintetica fotografia è questa: debito pubblico enorme e debito privato relativamente contenuto, ricchezza privata immensa che però non produce crescita.
Il presidente del consiglio e il ministro dell’economia, oltre a dirci fino a giugno scorso che l’Italia stava benissimo, ci hanno venduto quel contenuto debito privato e la gigantesca ricchezza delle famiglie con elementi di forza, garanzie della tenuta del nostro debito pubblico. Alla prova dell’estate purtroppo non si sono rivelate tali, per la semplice ragione che più che elementi di forza sono segni di squilibrio. Per quello che comportano e per quello che rivelano.
Quello che comportano è sotto i nostri occhi: il debito pubblico elevato sbilancia l’intero paese e rende più costoso anche quello privato. Se la ripartizione fosse diversa, con un 2030 per cento in più di debito privato e altrettanto in meno di debito pubblico le agenzie di rating e i mercati ci guarderebbero con occhi assai diversi.
Quanto alla ricchezza privata, se è certo che è meglio averla che non averla, è però assai poco utile se non produce crescita. Vuol dire che è immobile e mal gestita. E’ come quelle famiglie aristocratiche che hanno immensi palazzi che non producono neanche il reddito necessario a mantenerli. Il loro destino è segnato, cominceranno a venderne dei pezzi fino a ritrovarsi nella casa del guardiano.
Se questo è quello che la struttura economica dell’Italia comporta, ancora più illuminante è quello che rivela. Debito pubblico e ricchezza privata sono due facce della stessa medaglia, uno stato senza credibilità e autorevolezza e un privato opportunista e spesso saccheggiatore.
A questo punto però, per capire perché questa immensa ricchezza privata non produce crescita, dobbiamo guardarci dentro. Quello che troviamo già dice quasi tutto. Di quei 9 mila 732 miliardi di patrimonio lordo il 57,8 per cento è rappresentato da immobili, il 4,9 per cento da beni di valore e da impianti, macchinari, scorte, attrezzature, brevetti, avviamenti (le cosiddette attività reali) e il 37,3 per cento da attività finanziarie.
Cominciamo da quei 5 mila e 600 miliardi di immobili. Solo il 6 per cento, 330 miliardi o giù di lì, sono negozi, uffici o capannoni; il 4,3 per cento (240 miliardi) sono terreni e il resto, ovvero 4 mila 900 miliardi, sono abitazioni. Di queste (in totale sono 29 milioni 642 mila) l’80 per cento sono abitazioni principali e il restante, 5,7 milioni, sono seconde case (poco utilizzate) o case sfitte. Quelle vuote, inutilizzate, sono ben 1 milione e 200 mila.
Passiamo ora alla seconda voce per importanza, le attività finanziarie. Non sono poca cosa, si tratta di oltre 3 mila e 600 miliardi, metà dei quali sono detenuti in contanti, depositi bancari e postali, titoli pubblici e obbligazioni, altri mille miliardi in azioni e fondi comuni e circa 630 sono riserve tecniche delle assicurazioni. Nel complesso la quota rappresentata dal capitale di rischio è più vicina a un quarto che a un terzo del totale.
Infine la cenerentola di questo elenco, le attività reali, 476 miliardi di euro investiti per un quarto circa in beni di valore (quadri, gioielli, mobili di antiquariato) e solo 380 miliardi in beni produttivi. Pochissimo, per un paese che si dice manifatturiero, per un popolo che si ritiene abbia l’imprenditoria nel sangue. Guardandosi intorno, osservando le decine di migliaia di imprese che affollano tutto il Nord, una parte del centro e qualche pezzetto fortunato del sud, e anche escludendo le società quotate, le cui azioni vanno nel capitolo della ricchezza finanziaria, sembrerebbe che il valore dei macchinari, degli avviamenti e delle scorte di tutte quelle imprese sia ben superiore a quei sparuti 380 miliardi. La spiegazione c’è. Se calcoliamo che secondo il Rapporto Corporate EFIGE 2011, la percentuale dell’attivo di bilancio delle imprese italiane finanziata con il capitale proprio è pari al 12 per cento (in Francia il 30 e in Germania il 34) e l’88 per cento è coperto dal debito, i conti tornano. Il valore complessivo di tutte quelle attività è vicino a 4 mila miliardi, il problema è che i proprietari di tasca loro ci mettono poco, pochissimo, e infatti uno dei vincoli alla crescita di quelle imprese è che sono poco capitalizzate e molto indebitate. I loro proprietari preferiscono mettere i soldi in appartamenti e nella finanza piuttosto che nelle aziende, e infatti loro sono ricchi e le aziende povere.
A questo punto possiamo tornare alla domanda iniziale: perché con un patrimonio così ricco la crescita del nostro paese è così bassa? La risposta, che è già nel modo in cui quel patrimonio è investito, la dà Giacomo Neri, partner di PricewaterhouseCoopers e curatore insieme a Gino Gandolfi dell’Università di Parma di un osservatorio sul risparmio degli italiani (Orfeo): «La struttura di questo patrimonio è difensiva e la sua gestione non è ottimale». Questo patrimonio non serve a costruire il futuro ma a difendersi, per una serie di ragioni di ieri e di oggi, che poi sono le stesse che stanno dietro i capitali all’estero. Alla base c’è la sfiducia nello stato, nel suo arbitrio, nelle sue incertezze e instabilità, in passato c’era anche l’inflazione, che aggiungeva sfiducia nella moneta (e quindi gli immobili). A questa si aggiunge la sfiducia nei mercati finanziari, quelli del parco buoi, quelli nei quali le azioni si pesano e non si contano, nei quali gli azionisti di controllo anche se con un pugno di titoli in mano usano l’impresa come casa propria.
C’è anche, dice Roberto Nicastro, direttore Generale di Unicredit «una ragione culturale: l’immobile piace e rassicura, conserva il valore o lo accresce nel tempo. E l’imprenditore che rischia con la sua attività con il suo risparmio preferisce non rischiare».
Ma la ragione chiave è il fisco. Le tasse servono a pagare i servizi comuni, le strade, l’illuminazione, la giustizia, la difesa, per coprire investimenti comuni come l’istruzione e per difenderci da rischi che abbiamo deciso di mettere in comune, come la salute e la vecchiaia. Ma il modo come le si raccoglie non è indifferente, disegna il modo di essere di un paese e della sua economia. Il fisco italiano da decenni ha deciso di caricare tutto il suo peso sull’impresa e sul lavoro, ovvero su quello che crea la ricchezza, e di privilegiare gli immobili e le rendite finanziarie (il cui prelievo solo con l’ultima manovra è passato dal 12,5 al 20 per cento). C’è una tabella di Banca d’Italia chiara e terribile: nel 2010 le imposte dirette sono state pari al 14,6 per cento del pil, quelle indirette al 14 per cento e quelle in conto capitale, ovvero sul patrimonio, pari ad un misero 0,2 per cento. Il denaro fugge dove viene meno colpito, e in Italia è meno colpito se si ferma, si immobilizza, esce dalla famigerata denuncia dei redditi.
«Lo stock di ricchezza è un vantaggio competitivo nazionale dice Neri ma bisogna valorizzarlo, gestirlo bene, renderlo produttivo e dinamico. Ci vuole una politica orientata a questo, in un paese con tanto risparmio a valorizzare il risparmio gestito favorendo la nascita di grandi imprese del settore, in un paese con un ricco patrimonio immobiliare favorendo la crescita di gestori più grandi e più professionali. In un paese ricco ma fermo riorientando il prelievo fiscale tassando i patrimoni e i beni improduttivi e alleggerendo il carico su lavoro e impresa». Ci stiamo occupando molto, e giustamente, della produttività del lavoro, forse dovremmo cominciare a occuparci anche della produttività del capitale.
Roberto Nicastro aggiunge un segnale di allarme: «Negli ultimi mesi si sta inaridendo il flusso di fondi esteri disponibili a investire in Italia, e se non si recupera rapidamente credibilità e fiducia potrebbe diventare un problema. Questo pone una sfida al risparmio italiano: se continuiamo a mettere i soldi negli immobili come faremo a finanziare la crescita?» Nicastro dà anche la risposta, che riguarda anch’essa le tasse: «Bisogna pensare a un nuovo equilibrio nel trattamento fiscale relativo tra le varie forme di risparmio».
La conclusione è che dobbiamo decidere che paese vogliamo, se puntiamo sull’impresa e sul lavoro oppure sulla rendita. Ma dobbiamo sapere che la rendita non sarà eterna: se le cose non cambiano quel patrimonio cominceremo presto a mangiarcelo.