Quanto è accaduto sabato scorso in novantacinque città del mondo (a prescindere dalle vicende italiane, soltanto italiane, che esigono un discorso specifico ad esse esclusivamente dedicato) parla di qualcosa come cinquanta e più milioni di persone in marcia contro il capitalismo. A negare clamorosamente la vulgata che con insistenza da tempo parla di neoliberismo incontrastato e vincente, dunque di “fine delle sinistre”, ecc. Ciò che peraltro in effetti risponde non solo quantitativamente alla debolezza delle sinistre, ma alla totale mancanza di una politica che possa in qualche misura distinguerle dalle logiche dominanti; prescindendo ovviamente dall’impegno sostenuto soprattutto dai sindacati a favore dei lavoratori, nello specifico di situazioni di volta in volta in questione (salario, orari, mansioni, “difesa del posto di lavoro”, ecc.); una lotta indubbiamente utile, anzi indispensabile, che però non rimette in alcun modo in causa l’organizzazione produttiva nelle sue logiche e nelle sue ricadute, né in alcun modo garantisce un’occupazione sempre più a rischio.
Di fatto “ripresa”, “uscita dalla crisi”, “rilancio della produzione”, ecc. sono gli obiettivi che – non diversamente dall’intero mondo politico – le sinistre auspicano e perseguono, nel segno dell’accumulazione capitalistica. Di recente addirittura è stato recuperato il vecchio slogan “Creare posti di lavoro”: insensato invito alla promozione di attività destinate solo a occupare vite altrimenti ritenute inutili; di fatto capovolgimento e negazione del lavoro nella sua funzione di risposta a bisogni dati.
L’origine di tutto ciò risale d’altronde a fatti lontani, da potersi sostanzialmente situare nel trentennio della grande ripresa postbellica, quando l’organizzazione produttiva che andava via via imponendo al mondo i modi e le logiche dell’ accumulazione capitalistica, e modellandolo di conseguenza, per più versi però parve oggettivamente migliorare le condizioni delle classi lavoratrici; e fu allora che le sinistre (pur senza mai negare quell’anticapitalismo nel cui nome erano nate) in qualche misura andarono rimodellando le proprie politiche, puntando (sovente d’altronde con apprezzabili risultati) sulle riforme piuttosto che sulla “rivoluzione”. La quale da allora, specie dopo la fine dell’Urss, di fatto venne “messa in sonno”.
Ma il “peccato” più grave delle sinistre è l’aver di fatto “regalato” il progresso scientifico e tecnologico al capitalismo. Di fronte alla più grande rivoluzione compiuta dal pensiero umano, che avrebbe potuto consentire quella “liberazione del lavoro e dal lavoro” auspicata da tutti i grandi utopisti, compreso Marx , le sinistre non hanno saputo che difendersi dal rischio della disoccupazione tecnologica, d’altronde con risultati non proprio entusiasmanti. Di fatto operando secondo la forma dell’ accumulazione capitalistica, accettandone logica e conseguenze, e solo di volta in volta, nello specifico delle singole situazioni, combattendo spesso valorosamente in difesa dei lavoratori.
Oggi, “ripresa”, “rilancio”, “crescita”, ecc., proprio come nei palazzi del potere, sono le parole d’ordine delle sinistre. Incuranti (o così parrebbe) della qualità del mondo che a questo modo si trovano a sostenere: un mondo in cui l’1% della popolazione detiene il 50% della ricchezza, 1/6 dell’umanità è sottoalimentato mentre in complesso si distrugge circa il 40% del cibo prodotto, un dirigente d’azienda guadagna fino a 640 volte il salario di un operaio, la produzione di armi rappresenta il 3,7% del Pil (cifra ufficiale secondo gli esperti assai inferiore alla verità, se si considera l’entità del contrabbando attivo nel settore).
Un mondo che continua a considerare la crisi ecologica planetaria come una sorta di variabile marginale, cui dedicare momenti di esclamativa attenzione quando si verificano le catastrofi più gravi, la grande industria (petrolifera, nucleare, che altro) viene pesantemente colpita, i mutamenti climatici distruggono raccolti agricoli di intere stagioni, ecc. Senza mai prestare adeguata attenzione alle voci della comunità scientifica mondiale. La quale parla di sempre più prossima e forse irrecuperabile rottura di equilibri millenari, e continua a ricordare i “limiti” del pianeta Terra: che è “una quantità” data, non dilatabile a richiesta, e pertanto incapace sia di alimentare una produzione in continua crescita, sia di neutralizzare i rifiuti, liquidi solidi gassosi, che ne derivano, e squilibrano l’ecosistema. Mentre imperterrito risuona il richiamo alla “crescita”, invocata come una sorta di dovere sociale, cui le sinistre puntualmente si associano.
Ma dove sono le sinistre? Questa è l’obiezione di regola sollevata appena si accenna a posizioni e iniziative che, nella situazione data, alla sinistra appunto parrebbero appartenere. E tuttavia, i milioni di giovani e meno giovani che sabato scorso hanno manifestato in novecentocinquanta città del mondo, che altro sono se non sinistre? E i popoli della “primavera africana”? E i tantissimi che si battono per la pace, per i “beni comuni”, contro il nucleare, contro opere monumentali quanto inutili, ecc. ecc. che insomma, nei modi più diversi e per i più diversi obiettivi immediati, mettono in discussione le regole portanti del capitale? E le donne che, anch’esse, in folle sempre più vistose, manifestano il loro “sentire altro” dalla vulgata del sistema imperante, e che perfino nei paesi di più dura misoginia storica sempre più di frequente trasgrediscono la regola che le offende? Ecc. ecc.
Certo, non può stupire che le sinistre organizzate - quel poco che ne rimane - fuggano di fronte a una “rivoluzione” come questa, che per qualità e quantità non ha precedenti. E d’altronde, è pensabile che la situazione possa protrarsi così, indefinitamente? Dopotutto teste pensanti, convinte della insopportabilità sociale, culturale e fisica, della situazione attuale, a sinistra non mancano. E non mancano intelligenze capaci di una lettura adeguata della “globalizzazione”: un processo mondiale ormai interamente compiuto nella sua dimensione economico-finanziaria (ivi incluse devastanti conseguenze ecologiche); sempre più largamente e capillarmente impostosi dal punto di vista culturale (con la pubblicità a giocare in ciò un ruolo decisivo quanto stravolgente); ma di fatto tuttora inesistente sul piano politico (essendo la politica ormai di fatto identificata con l’economia, e da essa sostituita).
Teste non solo pensanti, ma volonterose di “pensare contro”, e di avventurarsi sui rischiosi sentieri di una rivoluzione che non ha precedenti né modelli… io sono certa che non manchino. Forse si tratta solo di cominciare…
La qualità della politica e dei politici si misura nelle situazioni difficili. Grave è sicuramente quel che è avvenuto sabato a Roma, e proprio per questo sarebbe stato indispensabile, da parte di tutti, reagire senza emotività, senza cedere alla tentazione di sfruttare la situazione per catturare qualche facile consenso. E senza proporre misure che poi, in concreto, possono rivelarsi pericolose e pure scarsamente efficaci.
Qualche memoria in questo senso dovremmo averla, a cominciare da quella legge Reale così incautamente evocata. E dovremmo aver capito, proprio perché abbiamo attraversato il dramma del terrorismo, che la forza della democrazia sta nella capacità di utilizzare fermamente la legalità ordinaria, senza precipitarsi ad invocare leggi eccezionali appena ci si trova di fronte a qualche difficoltà. La fuga nella legislazione eccezionale è stata troppe volte la via per apprestare alibi, per coprire inefficienze. Ed è stata pagata assai cara, perché le istituzioni hanno presentato una inutile faccia feroce, mentre tardavano nel mettere a punto le adeguate misure organizzative. Scrivere una norma è facile. Ben più arduo, ma indispensabile, è proprio predisporre strutture in grado di fronteggiare tempi mutati e difficili.
Il ministro dell´Interno, Maroni è apparso dimentico di tutto questo, preso da una voglia di fare che lo ha spinto a formulare proposte che, una volta di più, dimostrano quanto sia debole nell´attuale ceto di Governo la cultura della Costituzione. Rivelatrice è quella che vuole introdurre l´obbligo per gli organizzatori dei cortei di fornire una garanzia economica per risarcire gli eventuali danni arrecati da chi scende in piazza. Lasciamo da parte le enormi difficoltà tecniche e pratiche di una garanzia del genere (ma chi diavolo sono i consiglieri dei nostri governanti?). Consideriamo l´incidenza che essa avrebbe su uno dei diritti politici fondamentali, quello di manifestare in pubblico. Certo, questo deve avvenire "pacificamente e senza armi", come vuole l´articolo 17 della Costituzione.
Ma è arbitrario aggiungere a queste parole la formula "e avendo adeguata capacità patrimoniale". Un diritto fondamentale della persona diverrebbe così appannaggio di chi può pagarselo. Stiamo per tornare ai tempi della cittadinanza censitaria? Mai incostituzionalità è apparsa tanto clamorosa.
Vi è poi un bricolage di altre proposte specifiche, saltando dall´arresto in flagranza differita, a nuovi reati associativi, all´estensione ai manifestanti delle misure previste per i violenti nelle manifestazioni sportive (Daspo). Misure che dimostrano casualità e improvvisazione, proprio quando sarebbero stati necessari freddezza e rigore. Mi limito qui a ricordare la fatica con la quale la Corte costituzionale ha salvato il Daspo, e la possibilità di ritrovare nel fin troppo ricco armamentario penalistico indicazioni per qualificare i comportamenti violenti in modo tale da renderli concretamente perseguibili, senza tuttavia entrare nel territorio minato del "tipo d´autore", per cui si rischia di trasformare il fatto di manifestare in comportamento criminoso.
La democrazia, dovremmo saperlo, è un regime difficile, dove la stessa salvezza della Repubblica non può mai essere pagata con il sacrificio di diritti fondamentali. Ma proprio qui sta la sua forza profonda, perché può opporre la sua fiducia nella libertà anche a chi la nega. E così può sfuggire alla trappola nella quale i violenti vorrebbero chiuderla: obbligarla a negare se stessa, per divenire in tal modo più agevolmente attaccabile. Questo è il garantismo dei tempi difficili, votato alla difesa dei principi e non strumentalizzato per la difesa di interessi personali.
Con la finanziaria di mezza estate approvata dal parlamento (legge del decreto legge 112/2008, legge di conversione 133/2008) sotto il titolo “misure per valorizzare il patrimonio residenziale pubblico” (articolo 13), il governo propone un piano di alienazione, o meglio di svendita, di quel patrimonio. Se questa previsione dovesse realizzarsi sparirebbe il patrimonio di edilizia residenziale pubblica necessario per dare una risposta a chi non potrà mai soddisfare la propria domanda di casa rivolgendosi al mercato e produrrebbe incomprensibili iniquità-
La svendita del patrimonio altrui
Le nuove norme affidano ad accordi tra gli i Ministri dei trasporti e infrastrutture e per i rapporti con le regioni, da un lato, e le regioni e gli enti locali, dall’altro, la definizione delle procedure per la vendita degli alloggi pubblici. Gli accordi dovrebbero rispettare questi requisiti: a) i prezzi di vendita dei singoli alloggi devono essere proporzionati ai canoni pagati dai rispettivi assegnatari in locazione; b) agli assegnatari, che non siano già in possesso di un’altra abitazione e morosi nel pagamento del canone, è riconosciuto un diritto di opzione all’acquisto; c) i proventi delle alienazioni devono essere impiegati per finanziare interventi per alleviare il disagio abitativo.
Proprietari degli alloggi sono gli istituti autonomi case popolari, nella gran parte dei casi, e gli enti locali, in qualche regione. Non sono mai le amministrazioni statali. Il governo promuove, quindi, l’alienazione di un patrimonio che non è suo e regolamenta una materia sulla quale la corte costituzionale ha già ritenuto illegittimo l’intervento dello stato. Occorre ricordare, infatti, che l’articolo 13 del D.L. 112/2008 ha la stessa struttura ed anche gli stessi contenuti dei commi 597-598 della legge 266/2005 (legge finanziaria per 2006, approvata dal precedente governo Berlusconi), dichiaratati illegittimi dalla corte costituzionale con la sentenza 94/2007.
E occorre anche ricordare che molte regioni hanno già regolamentato l’eventuale vendita di alloggi pubblici, stabilendo condizioni che sono molto più eque ed efficaci di quelle previste dal governo.
Beneficio chiama beneficio
La finalità dell’alienazione del patrimonio di alloggi pubblici, dovrebbe “favorire il soddisfacimento dei fabbisogni abitativi” (articolo 13, comma 1). Verosimilmente si pensa di perseguire questo obiettivo costruendo nuovi alloggi con i proventi delle alienazioni (il criterio c degli accordi). Ma quella che viene proposta, solo in misura molto contenuta può essere considerata una misura di politica per la casa con cui contribuire a risolvere i problemi dei soggetti in condizione di disagio abitativo di origine economica generato dall’inadeguatezza dei loro redditi a sostenere i prezzi di mercato dei contratti di locazione o vendita.
La proposta ha, però, una indubbia impronta politica, che evoca la parola d’ordine della ownership society, lanciata nella seconda campagna elettorale di Bush, che però non gli portato molta fortuna. Essa va incontro all’aspirazione della gente a diventare proprietari della casa, per ragioni simboliche e materiali.
In questo caso, però, la diffusione della proprietà non aiuta a restringere l’area del fabbisogno abitativo, come, invece avviane, con i programmi di edilizia agevolata che incentivano l’acquisto della prima abitazione in proprietà da parte di famiglie che non hanno ancora potuto soddisfare la loro domanda di servizi abitativi. Il piano di alienazione che il governo intende realizzare si rivolge, infatti, a soggetti ai quali le politiche di welfare nel settore della casa hanno già risolto il problema; nella stragrande maggioranza dei casi in maniera definitiva, poiché sono rari quelli in cui l’inquilino di un alloggio pubblico decade dall’assegnazione. L’attenzione è rivolta agli “inclusi”, che il problema della casa lo hanno già risolto, piuttosto che agli “esclusi”, che da soli non hanno i mezzi per risolverlo.
Le condizioni di acquisto previste sono talmente vantaggiose per gli inquilini che di fatto essi beneficiano di una di prestazione agevolata che si aggiunge a quella consistente nel pagamento fino a quel momento di canoni molto al di sotto di quelli di mercati.
È scritto valorizzazione si legge svendita
La previsione di determinare il prezzo di vendita di ogni alloggio in “proporzionale al canone” pagato dal suo inquilino, rischia di rendere i risultati del piano economicamente risibili. Questo meccanismo di determinazione è tra i più iniqui ed anche il meno efficace, ai fini della valorizzazione economica del patrimonio e del soddisfacimento del fabbisogno abitativo.
I canoni degli alloggi sono determinati, sulla base delle normative delle singole regioni, considerando anche il reddito di ogni singolo assegnatario. Se non è proprio proporzionale al reddito, il canone è comunque da esso influenzato. Ad alloggi aventi le stesse caratteristiche possono essere, pertanto, applicati canoni diversi. Di conseguenza due alloggi aventi esattamente le stesse caratteristiche potranno avere prezzi di vendita anche molto differenti l’uno dall’altro e due soggetti con lo stesso reddito possono diventare proprietari dei rispettivi alloggi aventi valori di mercato diversi l’uno dall’altro.
I canoni sono in genere molto bassi, a livello nazionale in media intorno ai 1.000 euro all’anno. Il decreto non lo specifica, ma, verosimilmente, il prezzo di vendita dovrà essere un multiplo del canone. Per valutare gli effetti del meccanismo, ipotizziamo che sia un multiplo molto alto, per esempio 40 . Chi paga un canone annuo di 1.000 euro potrà acquistare l’appartamento per 40 mila euro. Detto diversamente si può ipotizzare che il prezzo di vendita dell’alloggio sia pari all’importo corrispondente a 40 anni di canoni. Questo numero di anni è già molto elevato: per chi paga canoni tanto bassi, più si eleva il numero di anni e meno conveniente, sul versante finanziario, diviene acquistare l’alloggio.
Se questo prezzo fosse “ammortizzato” pagando mensilmente il canone attuale, la “valorizzazione” sarebbe nulla o molto ridotta, poiché si otterrebbero dei ricavi di ammontare e con profili temporali simili a quelli dei canoni. In questo caso, se si vendessero proprio tutti gli alloggi, si potrebbe, in via ipotetica, ottenere un risparmio pari alle spese di gestione degli alloggi stessi (e quindi alle spese di funzionamento degli Iacp o delle strutture che ora svolgono questa funzione, e che in seguito non avrebbero più ragione di esistere). Questo in via teorica: di fatto non sarebbe così, a meno di non licenziare il personale addetto a tale compito.
Se l’intero prezzo fosse pagato in un’unica soluzione, al momento del trasferimento della proprietà dell’alloggio, per ottenere le risorse necessarie alla costruzione di un nuovo appartamento occorrerebbe venderne almeno 4 o 5 dei vecchi.
Questo risultato, sebbene contenuto, non è, tuttavia, assicurato. Va infatti osservato che qualora fosse attribuito ai singoli assegnatari la facoltà di acquistare o meno gli alloggi abitati (e, d’altra parte, a nessuno di essi può essere imposto di acquistare), una parte degli alloggi posti in vendita potrebbe non essere acquistata. Si creerebbero così “condomini misti”: una parte degli alloggi continuerebbe ad essere di proprietà pubblica ed una parte sarebbe di singoli privati (come insegna l’esperienza dei precedenti piani di alienazione ex legge 560/93). Nei casi in cui questi ultimi detengono la maggioranza delle quote condominiali, potrebbero procedere a ristrutturazioni delle parti comuni degli immobili, alle spese per quali il proprietario pubblico non può sottrarsi. È allora molto probabile che una parte rilevante dei proventi delle vendite debba essere investita non per la realizzazione di nuovi alloggi, ma per ristrutturare quelli di cui il settore pubblico ha conservato il possesso. Con la conseguenza che potrebbero anche evaporare del tutto le risorse per nuovi appartamenti.
Come conciliare le ragioni della tutela di paesaggio e beni culturali e le ragioni della crescita industriale? La questione continua a proporsi in un paese come l'Italia ricco di un patrimonio inestimabile, sul quale gravano incuria e indifferenza. Talvolta le due ragioni riescono a convivere, ma molto spesso l'elemento che prevale è il conflitto. Nascono lunghi e faticosi contenziosi che producono solo paralisi. Tanto più insopportabili in un periodo di crisi.
Questa inchiesta si muove fra la Toscana e il Molise. L'ha realizzata Francesco Erbani insieme a Mario Neri per il video della parte toscana. A San Casciano vengono rinvenuti i reperti di due edifici, uno etrusco, l'altro romano, nel cantiere dove si costruisce un capannone industriale di 300 mila metri cubi. Il Comune e l'azienda decidono di smontare i reperti e di rimontarli su una collinetta artificiale. È un'archeopatacca, insorgono le associazioni ambientaliste, che già avevano contestato la localizzazione della fabbrica. Il braccio di ferro è durissimo. I nervi tesi, come dimostra il fatto che la Soprintendenza di Firenze, favorevole alla ricollocazione, ha fatto chiamare i carabinieri per impedire ai nostri giornalisti di filmare o fotografare il sito archeologico.
Nel Molise, invece, potrebbe sorgere un impianto eolico lungo il crinale di una collina che sovrasta il sito archeologico di Saepinum, città prima sannitica e poi romana. Inoltre le pale, alte centotrenta metri, verrebbero impiantate lungo un antico tratturo. La strada, dove è visibile la pavimentazione romana, è stata ricoperta di pietrisco e usata come strada di cantiere. La Procura indaga e il Gip ha sequestrato il sito.
Qui l’inchiesta con video e documenti
Insieme alla violenza che ha sfigurato il grande, pacifico corteo del 15 Ottobre, è scattato il timer del "partito della paura", ha ripreso quota la voglia di leggi speciali (il ministro Maroni), è resuscitata la legge Reale (Antonio Di Pietro). Fino al divieto opposto alla Fiom di svolgere, il 21 di ottobre, il suo corteo. E' il day-after dell'incendio romano, l'annuncio del più classico deja-vu: la spirale violenza-repressione.
Sui gravi incidenti di Roma pesa ora l'arretramento del confronto politico. Non si sa fino a che punto saranno colpiti i responsabili della rovinosa guerriglia urbana, ma si vede già quel che rischia di rovesciarsi contro un'opposizione, reticolare e popolare, faticosamente costruita negli ultimi anni con il precipitare della crisi economica. Negare il corteo alla Fiom è un pessimo segnale. La parte più combattiva del sindacato metalmeccanico, capace di svelare il gioco di Marchionne, interessata a connettersi con esperienze sociali molto diverse non ha il permesso di sfilare per le strade della capitale. Impensabile fino a ieri.
L'attenzione generale si è concentrata, come un fulmine, sull'ipotesi di nuove leggi di ordine pubblico e nessuno più cita le ragioni che hanno portato in piazza centinaia di migliaia di persone, certamente più rappresentative (anche elettoralmente) delle urgenze e delle speranze del paese di quanto ormai non lo siano i nostri rappresentanti in parlamento. Né il governo, né l'opposizione si sono dimostrate in grado di dare risposte (nel caso del centrodestra), o di interpretare le domande (sul versante del centrosinistra) di un disagio crescente. E la caccia al black-bloc suona come un insperato, insuperabile strumento di distrazione di massa.
I dati testimoniati ieri dalla ricerca della Caritas (più di 8 milioni di poveri e un aumento del 20 per cento tra i giovani sotto i 35 anni), o le ragioni della manifestazione annunciata per oggi dagli agenti di polizia (una colletta per i soldi della benzina) sono le due facce dello sfascio italiano, parlano del filo sottile sul quale sta ancora in equilibrio la convivenza civile. L'aggravamento della crisi, le misure della prossima manovra finanziaria, la probabile campagna elettorale accentuano e autorizzano la preoccupazione di una tenuta democratica.
Del resto il crescente distacco tra il protagonismo della società e la sorda tracotanza della classe dirigente (governativa e imprenditoriale) può accelerare il prosciugamento anche del residuo patrimonio di impegno e di speranza nel cambiamento del nostro disastrato paese. Che ancora civilmente sopporta di essere rappresentato da un simile presidente del consiglio. L'ultima immagine ce lo mostra mentre spiega, parlando con il faccendiere Lavitola, come andrebbe raddrizzata la situazione politica: portare milioni di persone in piazza, far fuori il palazzo di giustizia di Milano, assediare il giornale nemico. Il programma del black-bloc di palazzo Chigi chiarisce bene perché l'anomalia italiana può anche degenerare nello sfascismo generale.
Dire che le Ferrovie non vanno d’accordo con le stazioni sembrerebbe un nonsenso. Sarebbe come sostenere che un chirurgo non fa le operazioni perché non riesce a trovare il bisturi giusto. Eppure è così. Da più di un decennio è variabile, spesso tendente a burrasca con episodiche schiarite, il rapporto tra le Ferrovie dello Stato e Grandi Stazioni, la società mista pubblico-privato che ha come missione la ristrutturazione e la gestione dei 13 maggiori scali nazionali. Con l’arrivo di Mauro Moretti alla guida delle Fs cinque anni fa, questa altalenante relazione si era addirittura complicata e ulteriormente guastata. Come se non bastasse, di recente ci sono stati annuvolamenti perfino tra Fs e Centostazioni, l’altra società mista pubblico-privati che ha il compito di curare gli scali meno grandi e delle città di provincia. L’origine delle frizioni in questo caso è la stazione romana di Ostiense, quella scelta da Ntv di Luca Cordero di Montezemolo come quartier generale della propria compagnia ferroviaria che farà concorrenza alle Fs sulle tratte dell’Alta velocità.
Nella testa di Moretti ora sarebbe arrivato il momento di vendere le stazioni maggiori, cioè sarebbe opportuno che le Ferrovie dello Stato cedessero il loro 60 per cento della società ai privati che hanno il 39 per cento, diviso in tre parti uguali tra Benetton, Pirelli e Caltagirone, mentre il residuo 1 per cento è in mano a Sncf-Société nationale des chemins de fer, le ferrovie francesi a loro volta azioniste dell’azienda di Montezemolo con circa il 20 per cento.
In un’intervista al Corriere della Sera l’amministratore delle Ferrovie italiane ha annunciato che passerebbe volentieri il pacchetto di maggioranza Fs ai privati, ma non a Sncf, spiegando la scelta con la considerazione che Grandi stazioni è una gallina dalle uova d’oro.
Una motivazione sorprendente. Per due motivi. Il primo è che se Grandi stazioni è diventata un affarone come sostiene Moretti non si vede perché le Ferrovie pubbliche dovrebbero privarsene proprio ora. Il secondo elemento di sorpresa è che con questa decisione Moretti ribalterebbe di 360 gradi le scelte assunte non molto tempo fa, quando volle impegnarsi in prima persona come presidente di Grandi stazioni dopo aver ingaggiato un lungo braccio di ferro con i privati che avevano nominato l’amministratore Fabio Battaggia. Moretti allora si lamentò molto dei privati accusandoli, sostanzialmente, di comportarsi come azionisti inconcludenti.
I fatti in quel caso davano ragione all’amministratore Fs. Nata addirittura nel 1996 per rilanciare i maggiori scali nazionali, Grandi Stazioni per quasi un quindicennio era riuscita a stento a ristrutturare Roma Termini per il Giubileo del 2000 accontentandosi poi di lucrare sulla gestione degli spazi commerciali ricavati. Gli altri interventi erano tutti al palo, e cioè Torino, Milano, Napoli, i due scali di Genova, Venezia Santa Lucia, Mestre, Verona, Bologna, Firenze, Bari e Palermo. Negli ultimi tempi la situazione è un po’ migliorata con l’ultimazione dei lavori a Torino, Milano e Napoli. La vera novità ora è l’entrata in esercizio di Tiburtina a Roma la cui inaugurazione resta ufficialmente fissata per la fine dell’anno nonostante il disastroso incendio di alcuni mesi fa. A Tiburtina in futuro si attesteranno i treni veloci delle Fs e quindi dal punto di vista commerciale e del business è questa la vera gallina dalle uova d’oro dei binari che farà inevitabilmente decadere Termini verso una funzione subordinata e secondaria. Non è ancora chiaro chi riuscirà a mettere le mani su Tiburtina. La gara per l’affidamento della struttura è stata bandita e le Ferrovie hanno fatto sapere che Grandi stazioni non può vantare un diritto di prelazione.
Nel frattempo si sta complicando la faccenda di Ostiense per due motivi. Il primo è che a pochi mesi dalla partenza dei treni veloci di Montezemolo, gli adiacenti parcheggi dell’ex Air Terminal sono occupati dalle tende di centinaia di profughi afghani e le Fs sembrano non preoccuparsene. Le stesse Fs che a Termini e in altre stazioni hanno opportunamente istituito help center per gli emarginati insieme alla Caritas e lanciato il progetto “Un cuore di stazione” insieme all’Enel. L’altro elemento di complicazione sono i lavori di ristrutturazione che da tre anni Centostazioni (60 per cento Fs e 40 diviso tra Save, Manutencoop e Banco Popolare) vorrebbe effettuare, ma che sono rimasti al palo perché mancava l’assenso proprio delle Ferrovie. In questo momento il colonnato e la storica facciata di lastre di marmo sono ingabbiati dalle impalcature e resteranno così per anni.
Ancora non è stata neppure lanciata la gara per l’aggiudicazione dei lavori, poi sarà necessario avviare concretamente gli interventi e se tutto andrà bene ci vorranno mesi se non addirittura anni, appunto, per finire l’opera. É quindi molto probabile che Ntv sia costretta a partire con l’handicap della sua stazione principale fasciata dai ponteggi.
Esemplare il caso della stazione ferroviaria di Venezia S. Lucia e dell’impero Benetton. Vedi in proposito i due documentati saggi della collana “Occhi aperti su Venezia”, Corte del Fòntego editore, Il ponte di debole costituzione di Nelly Vanzan Marchini e Benettown di Paola Somma
Siringone o Formigone? Dopo mesi di polemiche terra-terra su polveri sottili, traffico e super-vitalizi, il dibattito politico a Milano è tornato d’improvviso a volare in quota. Per la precisione a 230 metri dal suolo, dove da un paio di giorni si combatte una battaglia decisiva per il futuro della città: quella per il titolo di grattacielo più alto d’Italia. Roberto Formigoni era convinto di avere il trofeo in tasca grazie ai 161,3 metri del Pirellone-bis, monumento proporzionato alla gloria dei suoi 16 anni da governatore della Lombardia.
Peccato non avesse fatto i conti con "The Spire", l’antenna piazzata a tradimento sabato mattina sul tetto di Torre Garibaldi di Cesar Pelli. In meno di sette minuti, grazie a un’operazione in stile commando di un elicottero Superpuma, il tetto di Milano (e del Paese) è stato alzato di 68,7 metri. A quei 230 metri, appunto, della guglia d’acciaio che ha trasformato il capolavoro del maestro argentino in una copia - scala 4.600 a uno - di una siringa Pic indolor.Il governatore non l’ha mandata giù. E ha puntato i piedi: «L’antenna non vale!». Il Guinness dei primati - sostiene - misura i record dal punto calpestabile più alto di un edificio. E i 161,3 metri del Formigone (come gli intimi chiamano la sede della Regione) svettano di ben 9,3 metri sopra i 152 del dirimpettaio.
La città, dilaniata dalla polemica, ha messo in pista le sue menti migliori. L’Ordine degli architetti, nel timore di offendere uno dei suoi associati, ha preso una posizione netta: «Hanno ragione tutti e due». Stefano Boeri, collega prestato alla politica, la butta in ironia: «Nemmeno a Kuala Lumpur (dove le Petronas di Pelli si perdono tra le nubi a quota 452 metri, ndr) fanno a gara sulle altezze dei grattacieli». Sarà. L’importante è che la guerra del pennone finisca presto. Ne va dell’umore del governatore. Lui sta provando a farsene una ragione: «Un’antenna di mille metri sul Rosa non cambia la geografia: il Bianco resta la montagna più alta d’Europa», ha buttato lì senza convincere nemmeno se stesso.
Il problema resta: ogni mattina, quando entra nel suo ufficio al 36esimo piano del Pirellone-bis e alza la tapparella, si ritrova sotto il naso (anzi, sopra il naso) la punta beffarda di Torre Garibaldi. La Madonnina, dal basso dei suoi 108 metri, assiste silenziosa. Lei – malgrado frequentazioni con il regno dei cieli più solide di Formigoni – non ha fatto polemiche quando è stata superata dal Pirellone. Il resto della città abbozza. Tra pochi giorni, passato l’effetto-favonio, il solito cappotto di Pm10 tornerà a coprire Milano. Lo Spire e la cima del Formigone spariranno nel grigio del cielo metropolitano e il dibattito meneghino, dopo quest’escursione a 230 metri di quota, tornerà con i piedi per terra. Di problemi da risolvere, in fondo, ce ne sono più che a sufficienza anche ad altezza d’uomo.
Nota: avevo già tentato di esprimere, con meno autorevolezza di commentatore of course, i medesimi concetti . qualche giorno fa su Mall (f.b.)
MILANO — Crescono perfino gli alberi, sulla torre del castello di Ludovico il Moro a Cusago. Ma da Milano, la «capitale morale d'Italia» che sta a un tiro di schioppo, non lo vedono, il degrado che sta sgretolando l'antica e maestosa residenza. Niente «danèe», niente restauro. Ha tenuto duro mezzo millennio, tenga duro ancora finché non arriverà (auguri) la ripresa...
C'è chi dirà che è tutta «colpa» dell'abbondanza di opere d'arte, di monumenti, di borghi medievali di cui il nostro Paese può menare vanto.
Certo, tanti Paesi se lo sognano, un castello come quello, edificato da Bernabò Visconti tra il 1360 e il 1369, sui resti di una fortificazione longobarda, a una dozzina di chilometri in linea d'aria da piazza Duomo. E se lo avessero lo curerebbero con amore. Ma come possiamo, noi italiani, badare a tutte le nostre ricchezze? Lo diceva già, diversi anni fa, Alberto Ronchey ricordando, nel libro-intervista «Fattore R» con Pierluigi Battista, che da altre parti è più facile gestire tre o quattro grandi musei e una decina di città d'arte. Solo da noi si possono «trovare tante opere d'arte, una sedimentazione stratificata per ventotto secoli. Dall'VIII secolo a. C. ai tempi nostri, non si ricorda un'era che non abbia lasciato la propria eredità in Italia: Etruschi, Greci, Romani, Bizantini, Arabi, Normanno-Svevi, Medioevo comunale, Rinascimento, Barocco, Neoclassicismo fino al Modernismo». È un patrimonio straordinario, ma anche un problema.
Ma non è uno dei tanti, quel castello. Come ricorda nel libro (in via di pubblicazione) Castelli fratelli Simona Borgatti, che da anni si batte con un comitato di volontari per salvarlo, l'edificio è un pezzo della storia milanese. Fin da quando fu costruito perché i Visconti e poi gli Sforza potessero godere di quella splendida «riserva di caccia distesa su un territorio che andava da Milano a Vigevano tra boschi, risorgive e fontanili». Un paradiso terrestre per raggiungere il quale Filippo Maria, diventato troppo grasso per andare a cavallo a causa degli eccessi a tavola, «si fece scavare un ampio canale, il "Naviglietto", derivandolo dal Naviglio Grande all'altezza di Gaggiano. Su questo canale la corte poteva agevolmente arrivare a Cusago dalle altre sedi ducali, come Abbiategrasso». In barca.
Scelto come rifugio durante la peste del 1398 e poi adibito a lazzaretto, il castello «tornò a nuovo splendore nel 1480 con Ludovico Sforza detto il Moro, che diede a Cusaghino l'aspetto di "una villa di delizie", una residenza dove potersi "mettere in libertà" e dimenticare per un momento gli affanni legati al governo del Ducato per dedicarsi alle feste, alla caccia, alla pesca e alle amanti».
Donato da Ludovico alla moglie Beatrice d'Este e passato successivamente a Lucia Marliani, una delle favorite del Moro, il castello finì più tardi nelle mani del conte Massimiliano Stampa. E giù giù, di eredità in eredità, nel patrimonio dei Casati-Stampa. Per essere acquistato infine nel 1973, insieme con la villa di Arcore, dall'astro nascente dell'edilizia milanese, Silvio Berlusconi.
Di secolo in secolo, ormai, era diventato una cascina abitata da una trentina di famiglie: «L'imponente portale di legno, ormai in decadenza, immetteva in un ingresso nel quale razzolavano le galline. Cumuli di fieno venivano accatastati sotto le volte a crociera del portico un tempo affrescato e il fattore, stanco, si tergeva il sudore appoggiandosi a una colonna di marmo. Dai locali del piano terra adibiti a trattoria e recanti i simboli dei duchi di Milano, usciva un profumino di pesce fritto».
«Gli attrezzi agricoli riposavano dove una volta trovavano ricovero i cavalli di Ludovico (...) Le donne rimestavano la polenta nel paiolo posto sulle braci dei camini decorati con l'impresa dei "tizzoni e delle secchie" e lo stemma visconteo: gli stessi dove cinquecento anni prima solerti ancelle alimentavano il fuoco per asciugare abiti di broccati e damaschi bagnati dalla pioggia di un improvviso temporale...».
Il Cavaliere, più che al castello, era interessato ai terreni. E al «marchio». Prova ne sia il nome del quartiere tirato su dalla Edilnord su alcuni ettari della tenuta: «Milano Visconti». Qualche anno di attesa per capire bene cosa si poteva fare del nobile ma ingombrante e malridotto maniero, poi la società berlusconiana si decise. E nel 2003 vendette tutto a «Il Castello di Cusago s.r.l.», una cordata di imprenditori.
Sulle prime, racconta Simona Borgatti, «la società si presentò con molta coscienza ed entusiasmo alla conferenza tenutasi al Museo del Duomo dall'Istituto Italiano dei Castelli». Tanto più che, quasi ignoto a tanti milanesi, la residenza fortificata è tra i «Luoghi del cuore» del Fai, il Fondo ambiente italiano.
L'ipotesi era quella di fare del castello una scuola di floro-vivaismo legata al Parco Sud. Ma poi, di mese in mese, di anno in anno, ogni progetto finì per rivelarsi complicato, costoso, impossibile. Finché la «Castello di Cusago s.r.l.» decise di arrendersi. E di mettere tutto in vendita. È il 2008.
Ecco l'acquirente: l'immobiliare «Kreiamo s.r.l» di Cesano Boscone. Annunci a effetto: «Emozioneremo Cusago con il nostro progetto di recupero». L'idea: destinare l'immobile a un uso misto, pubblico e privato. Investimento: quattro e due milioni di euro. Ma prima ancora che la Soprintendenza possa dire la sua, salta tutto: gli amministratori della società vengono arrestati nel quadro dell'inchiesta «Parco Sud» sulle infiltrazioni nel sud-ovest milanese della 'ndrangheta.
«Noi non possiamo fare niente — dice il sindaco Daniela Pallazzoli —. Le casse del Comune non sono assolutamente in grado di farsi carico dell'acquisto e del restauro. E di questi tempi di magra mi pare difficile che se ne occupino lo Stato o la Regione. L'unica speranza è che possa passare l'idea di coinvolgere i privati e far rivivere il castello facendone ad esempio una Università del gusto. Un centro congressi. Una foresteria di eccellenza a tre chilometri dall'Expo 2015». Il guaio è, spiega, che «non si possono affrontare questi problemi sulla base di un Regio Decreto del 1912. Per capirci, ogni ipotesi alberghiera è legata all'obbligo di mettere gli impianti a norma, fare i bagni, aprire nuove finestre... Noi ci teniamo al pieno rispetto del castello, però...».
Anche alla Soprintendenza lo sanno. Cosa fare? Lasciare che il castello in mano ai privati e oggi impossibile da comprare con i soldi pubblici venga divorato dal degrado? O consentire che, come male minore, sia parzialmente modificato da interventi che consentano ai proprietari di rientrare dagli investimenti? L'architetto Alberto Artioli, soprintendente per i Beni architettonici e paesaggistici, sospira: «È un problema col quale abbiamo a che fare tutti i giorni. Ma non è vero che siamo barricati nella trincea del "non si tocca niente". Se c'è la buona volontà di trovare una soluzione saggia, noi siamo qua. Basta fare le cose con buon senso...».
Presto, però. Occorre fare presto. Un nuovo inverno si avvicina. La vegetazione, dopo avere sbranato le impalcature tirate su anni fa per la messa in sicurezza, sta attaccando i muri. Tra le capriate dei tetti si sono aperti squarci che, con le piogge e la neve, sono destinati a spalancarsi e crollare. Le bellissime finestre sono ogni giorno più sgangherate. Le erbacce hanno ormai attaccato non solo il cortile ma la pavimentazione interna. E gli alberi sulla torretta continuano a crescere, crescere, crescere...
postilla
Chi ha partecipato alla Scuola Estiva di Pianificazione di Eddyburg forse si ricorda la bella relazione di Serena Righini su Milano alla conquista della Cintura Nera, dedicata agli sviluppi del sistema delle Tangenziali e a come queste sottendano un modello di crescita metropolitana disperso e privo di attenzione agli equilibri territoriali. Quello dell’area di Cusago è forse uno dei casi più evidenti di come cresce nel tempo (una generazione, circa) il processo: territorio agricolo fra l’attuale tracciato della Tangenziale Ovest e il margine meridionale del Parco Sud ai confini del Parco Ticino, si è visto via via assimilare quasi senza soluzione di continuità alla città compatta milanese, in una specie di partita a scacchi intricata. Se ne leggono però chiaramente i segni percorrendo una qualunque delle strada in uscita da Milano, che sia la provinciale per Abbiategrasso, l’ex poderale di Assiano (raccontata da Biondillo e Monina nel loro Tangenziali), o quel capolavoro di trascuratezza che è l’area industriale di Settimo, culminante nell’office park suburbano Italtel. Il degrado del castello è solo la punta di un iceberg, segno di crollo dell’abitabilità e logica, in un territorio che continua a buttare va la sua vera ricchezza: speriamo che l’Expo 2015, nel nuovo percorso che pare oggi imboccato, riesca almeno a fermare il peggio, valorizzando appunto le aree agricole di cintura per quello che sono, e ponendo quindi anche le premesse ovvie per far crescere alberi nel posto giusto, e non sul tetto del Castello (f.b.)
Titolo originale: In Protest, the Power of Place – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Il movimento Occupy Wall Street in costante crescita, coi suoi campi di tende a Manhattan, e oggi anche a Washington, Londra e altre città, dimostra fra le altre cose quanto nonostante i nuovi mezzi di comunicazione siano diventati indispensabili per diffondere la protesta, nulla possa sostituire la presenza fisica nelle strade.
Ce lo siamo ricordato settimana scorsa quando la proprietà di Zuccotti Park, dove si svolgono le manifestazioni di New York City, ha prima richiesto e poi rinunciato alla presenza della polizia per ripulire il parco. Così, almeno per ora, ha evitato di mostrasi davanti a tutti nel mondo in quello che sembrava proprio un pretesto per liberarsi dei dimostranti.
Avevamo a lungo sottovalutato il valore politico degli spazi pubblici. Poi è arrivata piazza Tahrir. E poi Zuccotti Park, sino a un mese fa un’oscura piazza delle dimensioni di un solo isolato , con qualche albero e delle panchine di cemento, poco distante da ground zero e a due isolati a nord da Wall Street su Broadway. Grazie a qualche centinaio di persone in poncho e sacco a pelo abbiamo imparato che esiste.
La Kent State University [ quella degli studenti uccisi nel 1970 durante una manifestazione contro la Guerra in Vietnam, raccontata dalla canzone Ohio . n.d.t.], piazza Tienanmen, il muro di Berlino: è evidente il ruolo che assumono spazi, edifici, architetture nel serbare la nostra memoria e forza politica. La politica tocca le coscienze. Ma sono i luoghi che poi colgono la nostra immaginazione.
Certo ci ritroviamo su Facebook e Twitter, ma andiamo in pellegrinaggio a Antietam, Auschwitz o anche all’Acropoli, ad ammirare quello che resta del’epoca di Pericle e Aristotele.
Fra tutte le cose, pensavo proprio ad Aristotele guardando i dimostranti di Zuccotti Park tenere una delle loro “assemblee generali” qualche giorno fa. Nella sua Politica, Aristotele sostiene che le dimensioni della polis ideale sono quelle della distanza a cui si sente il grido di un araldo. Era convinto che la voce umana avesse un rapporto diretto con il buon ordine civile. Una sana convivenza in una città ben organizzata richiede dialogo diretto.
Ed è accaduto che proprio all’inizio delle proteste, quando la polizia ha proibito l’uso dei megafoni a Zuccotti Park, i dimostranti sono stati obbligati ad escogitare un’alternativa. Così il metodo per comunicare le varie decisioni è diventato quello delle “ prove audio”, ovvero ripetere frase per frase a chi si a attorno ciò che dice un oratore, in pratica parlare tutti insieme. Un po’ come nel vecchio gioco del telefono senza fili, e terribilmente lento.
“Ma è la democrazia” come mi spiega l’attore disoccupato quarantaseienne e falegname Jay Gaussoin. “Siamo così disorientati di questi tempi, ci si è scordati come fare il punto. Però con la “ prova audio” siamo obbligati ad ascoltare gli altri, non solo le opinioni, ma proprio parola per parola, esattamente, perché dobbiamo poi ripeterlo.
“É un’architettura di consapevolezza” per usare l’azzeccata definizione di Gaussoin.
Magari può anche sembrare una specie di campo profughi ad una prima occhiata la mattina presto, quando i contestatori sbucano dai loro sacchi a pelo, ma Zuccotti Park in realtà è diventato una polis in miniatura, una piccola città che cresce. Ma il parco è anche di proprietà private, e si tratta di uno degli aspetti collaterali più interesassanti della vicenda. Un tempo si chiamava Liberty Park, ma nel 2006 gli è stato dato un altro nome, da John E. Zuccotti, presidente della Brookfield Office Properties, che possiede l’area. Una norma urbanistica impone però che la Brookfield tenga aperto il parco giorno e notte, anche se non è uno spazio di proprietà pubblica.
Quest particolarità della norma di zoning getta luce inattesa sulle contraddizioni di quanto qui in America da un paio di generazioni chiamiamo spazio pubblico. Che invece in gran parte è solo gentile concessione di proprietà privata in cambio possibilità di costruire edifici più grossi e più alti. Basta pensare all’atrio dell’edificio a torre I.B.M. su Madison Avenue e a un’infinità di spazi simili: spazi “pubblici” che non sono affatto pubblici, ma semi-pubblici, controllati dalla proprietà. Lo Zuccotti in linea di principio dipende dalle regole fissate dalla Brookfield, che proibiscono teli, sacchi a pelo, e il deposito di effetti personali sul luogo. L’intera situazione spiega piuttosto bene quanto ci si sia allontanati dall’idea tradizionale di spazio pubblico, da luogo di espressione collettiva e assemblea (diciamo lo Speakers’ Corner di Hyde Park) a banalissimo luogo commerciale (come l’ingresso del Time Warner Center).
Avendo vissuto in Europa negli ultimi anni, ho spesso visitato piazze e parchi, a Barcellona e Madrid, Atene e Milano, Parigi e Roma, occupati dai campeggi delle proteste. Queste proteste e riunioni fanno parte della norma sociale d’Europa. Forse la differenza in America si deve a tutta la nostra mania delle automobili, dell’autosufficienza, di preferire l’isolamento, ci piace più guardare che partecipare.
In Europa, si protesta per il lavoro, contro i tagli del governo e per la questione del debito. Il fatto che ciò che emerge da Zuccotti Park sia un po’ fumoso non è la questione. Il punto centrale è proprio che esiste quel campo.
“Così riusciamo a sentirci parte di una comunità più ampia” racconta Brian Pickett, trentatreenne professore aggiunto di recitazione e dizione alla City University di New York. L’ho trovato settimana scorsa, seduto fra i teli e le file ordinate di sacchi a pelo in un angolo del parco. “È importante vedere queste cose, nella condizione alienata di oggi. Su Facebook siamo da soli. Ma qui no”.
E chi dimostra si rivela anche agli altri. L’hanno ben dimostrato gli egiziani a piazza Tahrir. E a loro modo anche quelli del Tea Party. Non ci si limita a mostrare al mondo il proprio numero. Ci si scopre anche vicendevolmente: persone con atteggiamenti non identici, ma simili. Come mi diceva un rappresentante della protesta, pensiamo a Zuccotti Park come se fosse in diagramma degli insiemi, che rappresenta varie delusioni politiche ed economiche. Lo spazio del parco è il luogo in cui esse riescono a sovrapporsi. Ed è anche uno spazio comune, letteralmente.
E mi pare evidente guardando quella folla compatta giorno dopo giorno che si tratta di coesione con un portato urbanistico, vale a dire che i dimostranti, dopo aver individuato una propria forma di organizzazione senza leader ma presidiando il luogo, trovano unità nello spazio. La loro forma prescelta di organizzazione è la base del loro messaggio.
Si costruiscono così i tratti fondamentali di una città, come ho già detto. Si è istituita una cucina per mangiare, un angolo legale e un settore sanitario, una biblioteca di libri regalati, un’area per l’assemblea generale, un ambulatorio, un media center dove si possono ricaricare i portatili usando un generatore, addirittura un emporio, si chiama comfort center, stipato di vestiti regalati, lenzuola, dentifricio e deodorante: come con le cose da mangiare, ci si può servire liberamente.
Qui trovo Sophie Theriault una mattina, che fruga tra pantaloni e camicie appena arrivati. Tranquilla ventunenne che fa la coltivatrice biologica in Vermont, è qui da parecchio e lavora come volontaria. “Forse non siamo venuti qui pensando proprio le stesse cose, ma condividere il parco un giorno dopo l’altro, una notte dopo l’altra, è anche un’occasione per scoprire interessi comuni”.
C’è un ragazzino in jeans leggeri e canottiera che curiosa dentro a cumuli di giacche. “Cerco qualcosa per stare al caldo” borbotta.
“Questo mi pare ottimo” dice la Theriault indicandone una invernale di sintetico col cappuccio di pelo finto che gli sta davanti.
“Beh, non così caldo” risponde, indicando un paio di calze, che la Theriault gli passa mentre riprende: “Ci incontriamo ogni sera a discutere come tener pulito e in ordine il posto, mantenerlo un ambiente sicuro, dal punto di vista materiale ed emotivo, per tutti. Il consenso di opinioni costruisce comunità”.
Patrick Metzger, ventitreenne compositore e ingegnere del suono, fa eco al medesimo pensiero: “Dai post sulla rete non si riescono certo ad avere informazioni vere sulla gente, classe, razza, età. Fox News parla magari di folle minacciose o spacciatori. E invece c’è una gran complicazione e mescolanza: studenti, anziani, intere famiglie, i muratori in pausa pranzo, dirigenti di Wall Street disoccupati”.
Si, si magari anche qualche tizio poco raccomandabile ci sarà, ci sono sempre nelle occasioni politiche. Ma l’ha detta giusta Metzger. É proprio la diversificazione dei contestatori, almeno di giorno, ad aggiungere resilienza alla protesta. É dall’11 settembre che non c’era tanta gente a chiedere “Ci sei stato?” “Hai visto?” a proposito di un posto di Manhattan. Occupare anche il mondo virtuale insieme a Zuccotti Park spinge il movimento Occupy Wall Street, l’uno aiuta l’altro e
Ma detto questo, è nello spazio fisico che si sta costruendo un’architettura della consapevolezza.
Nota: anche noi come forse qualcuno si ricorda abbiamo provato a ragionare un po' sul tema dello Spazio Pubblico; e alle prime avvisaglie della "primavera araba" sempre sulle colonne del New York Times l'economista urbano e un po' tuttologo Edward Glaeser aveva fatto un collegamento simile, anche se più rigido, fra spazio urbano e manifestazione di democrazia. Il testo tradotto è disponibile su Mall (f.b.)
Nelle ultime settimane, a partire dalla tribuna dell’assemblea regionale di Confindustria, e successivamente dalle pagine di molti giornali toscani, è stato più volte utilizzato lo slogan dell’”ambientalismo in cachemire che blocca lo sviluppo”. Lo slogan è curioso, e farebbe quasi sorridere, oggi che il cachemire si vende anche all’Ipercoop e nel mercato dell’usato: dunque la cittadinanza attiva sulle questioni ambientali, che è piuttosto ampia e trasversale rispetto alle classi di reddito, veste comunque in cachemire.
In realtà non si può affatto sorriderne, perché esso sembra sottendere da parte di chi lo usa, oltre all’offesa o alla ridicolizzazione pubblica quale strumento per evitare di entrare nel merito delle questioni poste, l’equazione fra ambientalisti e percettori di rendite. Fra questi ultimi vi sarebbero anche i professori universitari, il cui stipendio in realtà dagli anni ’50 a oggi si è ridotto in termini reali svariate volte, scivolando ai minimi della dirigenza pubblica (per tacere di quella privata). Soggetti dunque cui negare il diritto di parola rispetto a progetti che promettono (nelle dichiarazioni di chi li propone) di produrre reddito.
L’esperienza maturata in questi anni evidenzia invece come siano proprio gli attori sociali, spesso fortemente compositi, che si attivano in prima persona per difendere la qualità dei luoghi in cui vivono, a mettere in questione le diverse rendite, troppo spesso rese possibili da accordi pubblico-privato e sinistra-destra che non mettono nel conto i costi collettivi di medio e lungo periodo, ma solo i ritorni elettorali e di altro genere (come molte indagini giudiziarie evidenziano), socializzando le perdite e privatizzando i profitti. Sono gli ambientalisti a bloccare lo sviluppo, o queste rendite da vero “cachemire di lusso”?
E’ comprensibile che gli imprenditori privati presentino le loro proposte, anche quelle speculative, come le migliori possibili. Inquieta invece che rappresentanti di istituzioni pubbliche, e di partiti cosiddetti progressisti, le accolgano entusiasticamente, rilanciandole con il refrain crescita eguale occupazione, evocando in modo sinistro la non così lontana – nel tempo e nello spazio - rinuncia all’ambiente e alla salute in cambio di un salario. Occupazione peraltro sempre più precaria e sottopagata, che rischia di essere un alibi per non entrare nel merito delle politiche pubbliche in questione, sempre più subordinate alle ragioni dell’economia finanziaria che ci ha portato all’attuale crisi.
In questa fase di crisi di sistema, caratterizzata da scenari molto incerti per quanto riguarda il nostro futuro, il territorio rappresenta nelle sue diverse prestazioni un bene collettivo assolutamente fondamentale. Chi toglie legittimità a quanti chiedono di comprendere chiaramente il saldo tra guadagni privati e interesse collettivo nelle operazioni di trasformazione del territorio, e di rinnovare così la politica nell’accezione autentica di cura del bene comune, apre la strada a una poco oculata svendita sia del territorio che della politica.
L’Autrice è assessore all’Urbanistica, territorio e paesaggio della Regione Toscana
Il lettore rilegge il titolo, tre volte, incredulo, fino a dovere riconoscere che quanto legge non è illusione. La cover story dell’ultimo numero di Agricoltura, il mensile dell’Assessorato regionale dell’agricoltura titola, esattamente, Il consumo del suolo è una minaccia inarrestabile. I dati con cui il solerte redattore dimostra la drammaticità del fenomeno sono obiettivamente inquietanti: conquistando un ambito primato nazionale, la regione Emilia Romagna avrebbe coperto di cemento, nell’arco temporale compreso tra il 2003 e il 2008, dieci ettari di suoli agricoli ogni giorno. E’ sufficiente una semplice moltiplicazione per verificare che il dato corrisponde alla sottrazione, alla sola agricoltura emiliana e romagnola, ogni quattro anni, della potenzialità produttiva di un milione di quintali di frumento. Siccome il pane quotidiano degli italiani corrisponde al fabbisogno di 70 milioni di quintali annui, e la sottrazione del suolo agricolo ha privato l’agricoltura nazionale, negli ultimi venti anni, della superficie equivalente a 60 milioni di quintali (che, per non rinunciare a colture diverse, l’Italia sarà per sempre costretta a importare), il contributo emiliano romagnolo alla distruzione della risorsa necessaria alla prima esigenza di qualunque società umana è palese e inquietante. Se consideriamo la travolgente rivoluzione imposta ai mercati mondiali delle derrate dalla nuova domanda asiatica, e dalla decisione americana di convertire in carburante un quarto della propria produzione cerealicola, dobbiamo riconoscere di essere di fronte a un autentico delitto contro le generazioni future.
Misurata l’entità della minaccia incombente sugli italiani di domani, il lettore del foglio regionale torna al titolo e l’incredulità si converte in un sentimento diverso. Il periodico ufficiale dell’Assessorato all’agricoltura della Regione proclama che la conversione dei campi sarebbe una minaccia inarrestabile, che significa tale che nessuno potrebbe arrestarla. Rilegge il titolo, verifica, in prima pagina chi diriga la pubblicazione, constata che è lo stesso autorevole assessore all’agricoltura. L’incredulità si converte in sconcerto, lo sconcerto assume le connotazioni dello sgomento. L’assessore, erede di una lunga successione di “ministri” che da un trentennio assicurano gli elettori che il “modello di sviluppo” cui conformano la politica regionale dell’ambiente sarebbe “sostenibile”, sottoscrive l’allarme per un processo che condannerebbe alla fame gli italiani di domani, definendolo inarrestabile, cioè fuori da ogni possibilità di controllo da parte di chi governa la società e l’economia regionale. Ma allora ci si domanda: lo sviluppo regionale è processo di cui è possibile il controllo, ed è legittimo che vi sia chi proclama di indirizzarlo secondo i criteri della “sostenibilità”? O invece è fenomeno che si sottrae ad ogni umano potere, soggetto alle influenze di astri malevoli? Si dica però agli elettori che non esiste assessorato regionale in grado di controllare il divenire dell’ambiente, e si riconosca, per coerenza, che chi si proclama tutore dello sviluppo “sostenibile” gioca sul soddisfacimento dei bisogni essenziali delle generazioni future.
Ma è mai possibile che l’assessore di oggi, e, prima di lui, i predecessori nella pratica dello “sviluppo sostenibile”, non abbiano percepito che l’entità della progressiva sottrazione dei suoli agricoli in Emilia Romagna costituisce un autentico delitto verso la sicurezza delle generazioni future? Che la minaccia inarrestabile fosse ignota non sembra credibile. Nel 2003 il presidente dell’Associazione regionale delle bonifiche spiegava alla stampa che negli ultimi tredici anni nella nostra regione erano stati sottratti all’agricoltura 157.000 ettari, l’equivalente dell’intera provincia di Ravenna (la più piccola della Regione, ma è una consolazione?). Poteva forse essere forse ignorato il dato proclamato urbi et orbi da uno degli organismi più autorevoli che condividono con la Regione la gestione del territorio dell’Emilia Romagna? Pubblicato questo dato, chi governa l’agricoltura regionale ha il dovere di farsi promotore della revisione di tutti i piani comunali di sviluppo edilizio. Potrà allora a buon diritto proclamarsi paladino della “sostenibilità”!
Una postilla è d’obbligo sulla tessera della agricoltura regionale costituita dalla provincia di Modena, la cui Giunta ha proclamato, in circostanze diverse, la propria ferma determinazione a arrestare la conversione in cemento dei suoli agrari, pubblicando che quella conversione si misura, sul territorio provinciale, in 350 ettari all’anno (2005), entità enorme per un territorio in parte rilevante montagnoso, nel quale i suoli di reale valore agrario costituiscono peculio tanto minore, e tanto più prezioso. Se sono lodevoli i proclami, attraversare le campagne modenesi su una qualsiasi delle strade che le solcano impone la domanda sulla coerenza di chi li emana. Percorriamo la Fondovalle Panaro: un piccolo borgo quale Marano ha sepolto, con una sola operazione edilizia, i meravigliosi terreni su cui fiorivano orti e frutteti e così ha raddoppiato il proprio insediamento urbano. Come è stata possibile una simile impresa dopo il solenne impegno degli amministratori provinciali a frenare la distruzione del territorio agricolo? O coloro che governano quel paese sul Panaro hanno violato regole che lo vincolavano, o chi, a Modena, ha proclamato l’arresto dell’urbanizzazione selvaggia non diceva sul serio.
È necessario un processo costituente per immaginare la società dei beni comuni e sovvertire l'ordine costituito fondato sulla crescita capitalistica. E per scalzare sia la proprietà privata che la sovranità statuale
Un linguaggio nuovo è ciò che riduce ad unità le battaglie politiche di dimensione globale per i beni comuni che oggi si ritrovano in piazza. In Italia di queste battaglie e della produzione di questo linguaggio il manifesto è stato in questi anni protagonista, fino ad essere riconosciuto esso stesso come un bene comune. Queste battaglie, dall'acqua all'Università, dal Valle di Roma al no Tav della Val Susa, dall'opposizione ai Cie ai Gruppi azione risveglio di Catania, sono declinate in modo diverso nei diversi contesti, ma fanno parte di uno stesso decisivo processo costituente. Muta la tattica ed il suo rapporto con la legalità costituita. Resta costante la strategia costituente che immagina la società dei beni comuni. Ovunque si confrontano paradigmi che travolgono la stessa distinzione fra destra e sinistra, consentendo vittorie clamorose come quella referendaria su acqua e nucleare. Il paradigma costituito fondato su un'idea darwinista del mondo che fa della crescita e della concorrenza fra individui o comunità gerarchiche (corporation o Stati) l'essenza del reale. La visione opposta, fondata su un'idea ecologica, comunitaria solidaristica e qualitativa dello sviluppo, può trasformarsi in diritto soltanto con un nuovo processo costituente, capace di liberarsi del positivismo scientifico, politico e giuridico che caratterizza l'ordine costituito da cinque secoli a sostegno del capitalismo che ancora colonizza le menti e i linguaggi. Il modello costituito è sostenuto dalla retorica sullo sviluppo e sui modi di uscita dalla crisi, che i media capitalistici continuano a produrre, nonostante la catastrofica situazione ecologica del nostro pianeta. L'insistenza mediatica è continua e spudorata ma progressivamente meno seducente e le forze costituenti costruiscono nella prassi quotidiana un mondo nuovo e più bello.
L'ordine giuridico costituito è radicato nell'individualismo proprietario, nella sovranità dello Stato sul territorio, e nella stessa visione antropocentrica della modernità (e dell'economia politica) fondata sull'homo oeconomicus e sul survival of the fittest. L'ordine costituente vuole riportare le leggi umane in sintonia con quelle ecologiche, secondo una visione della vita come comunità di comunità, legate fra loro in una grande rete, un network di relazioni simbiotiche e mutualistiche, in cui ciascun individuo (umano o meno che sia) non può che esistere nel quadro di rapporti e di relazioni diffuse secondo modelli di reciprocità complessa.
La visione meccanicistica e positivistica, che configura l'ordine costituito come il solo reale è denunciata nelle piazze oggi perché è responsabile di aver portato il mondo sull'orlo del baratro. Ad essa opponiamo una costituente ecologica, collocando al centro la solidarietà, la bellezza, l'immaginazione e la liberazione dal lavoro alienato. L'individuo solitario, la competizione, la meritocrazia e l'uso della tecnica a fini di sfruttamento sono smascherate oggi come l'ideologia letale che legittima la diseguaglianza e l'accumulo senza fine. Se infatti l'individuo solo in natura soccombe, la sua costruzione teorica e la sua spettacolarizzazione sono funzionali alle esigenze di breve periodo dello sfruttamento. L'individuo, reso solo, narcisistico e desideroso di consumare, trova nelle merci e nel rapporto contrattuale il proprio principale orizzonte relazionale. Una condizione umana miserabile che ancora vive della distruzione dei beni comuni e che oggi con gioia e rabbia insieme rifiutiamo.
L'emersione del linguaggio dei beni comuni e la loro riconquista va quindi compresa nell'ambito di uno scontro politico epistemologico e anche psicologico profondo fra due visioni del mondo. Uno scontro che va tradotto in una prassi politica costituente capace di far trionfare a livello globale in tempi estremamente ridotti la sola concezione scientifica compatibile con il mantenimento e l'adattamento di lungo periodo della vita sul nostro pianeta. Si tratta perciò di predisporre un'alternativa, politica e culturale, che sappia scalzare tanto la proprietà privata quanto la sovranità statuale dal ruolo di pietre angolari dell'organizzazione politica costituita. Ciò è possibile solamente mettendo al centro il comune, ossia riconoscendo la primazia della distribuzione sulla creazione di ricchezza, della qualità delle relazioni sulla quantità del capitale, della bellezza sull'osceno. Poiché gli attuali rapporti di forza fra proprietà privata (corporation) e Stato rendono quest'ultimo succube della prima, la battaglia non può limitarsi a strategie costituite. Esse possono soltanto essere tattica, ancorché talvolta vincente come ha dimostrato la battaglia referendaria condotta ex art. 75 Costituzione.
Ridefinire i confini costituzionali dello Stato e allo stesso tempo quelli del profitto e della rendita, secondo un'idea di "meno Stato, meno proprietà privata, più comune" è prassi costituente necessaria che rifiuta oggi le condizioni di realtà create dal dominio e dalla concentrazione del potere. Stiamo costruendo oggi una società ecologicamente sostenibile, coerente con le nostre attuali conoscenze sulla fenomenologia del reale.
In questo quadro teorico lottare per un'entità (acqua, università, culturale, rendita fondiaria, lavoro, informazione) come bene comune al fine del suo governo politico-ecologico è una prima radicale inversione di rotta rispetto al trend della privatizzazione e del saccheggio. Ciò tuttavia non può essere circoscritto dalle condizioni costituite che comporterebbero un ritorno del potere nelle mani di un settore pubblico burocratico, autoritario o colluso. La tattica è dunque istituzionalizzare un governo partecipato dei beni comuni capace di restituirli alle «comunità di utenti e di lavoratori» secondo il fraseggio della nostra Costituzione (art. 43), ma la strategia non può che essere costituente, per immaginare cominciando a viverlo da subito, un mondo più bello in cui i beni comuni sono goduti secondo criteri di accesso, di rispetto, di uguaglianza sostanziale, di necessità e di condivisione.
Eugenio Scalfari, la Repubblica
Francesco Piccolo, l’Unità
Mario Monti, Corriere della Sera
Valentino Parlato, il manifesto
la Repubblica
Lo Stato sconfitto da un pugno di teppisti
di Eugenio Scalfari
La notizia principale di oggi è la mobilitazione degli "indignati" in tutte le piazze dell´Occidente, da Manhattan a Londra a Bruxelles, a Berlino, a Parigi, a Madrid. Ma a noi preoccupa soprattutto ciò che è avvenuto a Roma. Mentre centinaia di migliaia di giovani tentavano di sfilare pacificamente nelle via della capitale poche centinaia di "black bloc" in tenuta da guerriglia hanno compiuto violenze e provocato la polizia tentando di forzarne i cordoni. Gli scontri hanno coinvolto la massa dei pacifici dimostranti, come è avvenuto in molte altre occasioni. Mentre scriviamo gli incidenti sono ancora in corso, molti manifestanti hanno tentato di isolare i facinorosi che hanno reagito picchiandoli a colpi di spranghe. È deplorevole che ancora una volta la polizia e i servizi di sicurezza non siano stati in grado di neutralizzare preventivamente i teppisti e i provocatori che dovrebbero esser noti e rintracciabili. Speriamo che le violenze non continuino in serata. Le nostre cronache ne daranno ampia informazione.
Quali che ne siano gli esiti il fatto certo è comunque l´esistenza ormai evidente di un movimento internazionale. La sua antivigilia è stata la "primavera araba" come furono definiti i moti di piazza qualche mese fa al Cairo e poi a Tunisi e a Bengasi, senza scordare le sommosse del 2008 e del 2010 nelle "banlieue" parigine.
Quali che ne siano gli esiti il fatto certo è comunque l´esistenza ormai evidente di un movimento internazionale. La sua antivigilia è stata la "primavera araba" come furono definiti i moti di piazza qualche mese fa al Cairo e poi a Tunisi e a Bengasi, senza scordare le sommosse del 2008 e del 2010 nelle "banlieue" parigine.ùLa vigilia è avvenuta alcuni mesi fa a Madrid, poi la fiaccola è sbarcata a New York al grido di "Occupy Wall Street". Adesso le dimensioni del movimento sono globali. D´altronde, è contro i danni provocati dalla globalizzazione che il movimento è nato, si è diffuso e si rafforza col passare del tempo.
Effimero? Non credo. Esprime la rabbia d´una generazione senza futuro e senza più fiducia nelle istituzioni tradizionali, quelle politiche ma soprattutto quelle finanziarie, ritenute responsabili della crisi e anche profittatrici dei danni arrecati al bene comune.
Gli "indignati" non sono né di sinistra né di destra, almeno nel significato tradizionale di queste parole. Ma certo non sono conservatori. Hanno obiettivi concreti anche se talmente generali da diventare generici: vogliono che i beni comuni siano di tutti; non dei privati, ma neppure dello Stato o di altre pubbliche autorità poiché non hanno alcuna fiducia nella proprietà privata e neppure in quella pubblica amministrata da caste politiche e burocratiche.
I beni pubblici debbono esser messi a disposizione dei loro naturali fruitori, cioè delle persone che vivono e abitano in quei luoghi e che decideranno sul posto le regole del valore d´uso nelle "agorà", nelle piazze di quel luogo. L´acqua è un bene d´uso comune, l´aria, le foreste, le reti di comunicazione, le case, le fabbriche, i trasporti, gli ospedali. Le banche? Non servono le banche, tutt´al più servono a render facili i pagamenti che avvengono sulla base del valore d´uso e non del valore di scambio.
C´è una dose massiccia di utopia in questo modo di pensare; c´è un´evidente reminiscenza di comunismo utopico; c´è anche una tonalità "francescana". E c´è - l´ho già scritto domenica scorsa e qui lo ripeto - un rischio estremamente grave: un contagio di populismo.
Esiste storicamente il populismo dei demagoghi, costruito per accalappiare i gonzi, e il populismo degli utopisti che predicono la Città del Sole. Ma non esistono Città del Sole, almeno in questa terra. Chi crede che ce ne sia una ultraterrena fa bene a vagheggiarla ma qui, tra questi solchi, neppure il Redentore la portò perché - fu lui il primo a dirlo - il suo regno non era di questo mondo.
Certo le foreste non vanno abbattute. Certo l´aria non va inquinata. Certo le banche non debbono truffare i clienti e ingrassare sulla truffa. Certo i cittadini debbono partecipare alla gestione della cosa pubblica e non limitarsi a votare con pessime leggi elettorali una volta ogni cinque anni. E così via. Bisogna dunque fare buone leggi e farle amministrare da buona e brava gente e bisogna infine che vi siano efficaci e imparziali controlli su quelle gestioni.
Gli "indignati" sono indignati perché tutto ciò manca e il futuro gli è stato rubato. Sono d´accordo con loro anche perché a me e a quelli della mia generazione è stato rubato il presente e la memoria del passato e vi assicuro che non si tratta d´un furto da poco. Ma so che non è con l´utopia che si risolve il problema.
L´utopia è una fuga in avanti alla quale subentra ben presto l´indifferenza.
Il vostro entusiasmo è sacrosanto come la vostra pacifica ribellione, ma dovete utilizzarlo per la progettazione concreta del futuro, altrimenti da indignati finirete in rottamatori e quando tutto sarà stato rottamato - il malfatto insieme al benfatto - sarete diventati "vecchi e tardi" come i compagni di Ulisse quando varcarono le Colonne d´Ercole e subito dopo naufragarono.
* * *
Domani comincia a Todi un incontro promosso da una serie numerosa di associazioni, comunità, sindacati, di ispirazione cattolica sulla scia dell´allocuzione pronunciata un paio di settimane fa dal presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova. L´allocuzione era quella che propugnava un rilancio dell´etica pubblica capace di rinnovare "l´aria putrida" che aveva devastato le istituzioni e esortava i cattolici all´impegno civile e politico.
A Todi, secondo gli intendimenti dei promotori, dovrebbe prender vita un "soggetto pre-politico" che interloquisca con la politica, sia punto di riferimento dei cattolici impegnati ed anche centro di preparazione civile e sociale di una nuova classe dirigente d´ispirazione cristiana.
«Non è un partito» hanno ripetuto all´unisono i promotori dell´iniziativa «perché non è compito della Chiesa fondare e dirigere partiti».
I laici non cattolici (tra i quali mi ascrivo) prendono nota con interesse di questa iniziativa anche se alcune domande sorgono spontanee.
Prima domanda: la Chiesa non ha mai fondato un partito. Il partito è, per definizione, una parte e non un tutto, mentre la Chiesa cattolica è ecumenica per definizione. Quindi l´affermazione che non fonderà nessun partito è talmente ovvia da apparire alquanto sospetta. Del resto, un sacerdote con tanto di veste talare un partito lo fondò. Era il 1919, il partito si chiamò "Popolare", in Italia ha cessato di esistere una decina d´anni fa, nel Parlamento europeo esiste ancora, il fondatore si chiamava don Luigi Sturzo.
Seconda domanda: la Chiesa dispone dello spazio pubblico come ogni altra associazione, religiosa o no, sulla base della nostra Costituzione. Nessuno si è mai opposto all´uso di quello spazio del quale infatti la Chiesa, il Vaticano, le comunità cattoliche, i sacerdoti d´ogni genere e grado, si sono largamente serviti. Se il "soggetto" immaginato a Todi nascesse per usare lo spazio pubblico, sarà un´ennesima voce cattolica a farsi sentire e ben venga. Il rischio semmai è che sia un doppione della Cei. Niente di male, ma inutile. Oppure non sarà un doppione? Dirà cose diverse dalla Cei, dal Vaticano, dalla Gerarchia? Sarebbe molto interessante, potrebbe essere una forza di rinnovamento. In senso modernista oppure un richiamo all´ordine e alla tradizione? Comunque, in ciascuna di queste ipotesi, sarebbe rivolta alla comunità dei fedeli e non certo ai laici.
Terza domanda: se vuole essere invece un centro di preparazione della nuova classe dirigente cattolica, questa sì sarebbe un´ottima cosa. I cattolici impegnati in politica finora, salvo rare e importanti eccezioni, hanno avuto Cristo sulle labbra e Mammona nel cuore. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Se è questo l´obiettivo di Todi, sarà benvenuto.
Quarta ed ultima domanda: oppure il nuovo soggetto sarà il Quartier generale di tutte le forze cattoliche variamente impegnate nei partiti, in Parlamento, nelle Regioni, nei Comuni, nelle istituzioni? Questo sarebbe alquanto preoccupante. In realtà questo Quartier generale c´è già ed è la Segreteria di Stato vaticana. Questo sarebbe un Quartier generale in sembianze laiche. Non mi sembra una grande idea e non credo che i veri cattolici socialmente impegnati la gradiranno. Per quanto so, la regola è questa: la Chiesa diffonde la sua etica, le sue richieste, i suoi valori; i cattolici politicamente impegnati cercano di sostenere quella dottrina tenendo tuttavia presente che le leggi riguardano tutti, cattolici e non cattolici, e che tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge in uno Stato laico e non teocratico.
Non c´è bisogno di molti Quartier generali dunque, uno basta e avanza.
* * *
Concludo queste mie note con quanto è accaduto durante e dopo le votazioni di venerdì scorso alla Camera dei deputati sulla fiducia al governo. Le cronache ne hanno parlato diffusamente sicché mi soffermerò soltanto su alcune questioni non risolte.
1. Dopo la bocciatura di martedì scorso del Rendiconto generale dello Stato, tre questioni dovevano aver soluzione. Una era quella di risolvere quel problema estremamente complesso. Un´altra era verificare che il governo godesse ancora della fiducia del Parlamento. Un´altra ancora di constatare se la maggioranza avesse la credibilità e la compattezza necessaria ad affrontare i prossimi difficili appuntamenti politici ed economici. Tutti e tre questi obiettivi furono esplicitamente indicati dal capo dello Stato con pubbliche e chiarissime esternazioni.
2. La fiducia alla Camera è stata ottenuta e questa questione è quindi risolta.
3. La credibilità e la compattezza della maggioranza restano aperte e se ne avranno prove nei prossimi giorni e settimane soprattutto (ma non soltanto) su questioni economiche. Se i risultati richiesti dal Quirinale ci saranno il governo potrà andare avanti fino alla scadenza naturale della legislatura. Se non ci saranno il governo resterà egualmente in carica perché il Quirinale non ha gli strumenti necessari per farlo sloggiare senza un esplicito voto di sfiducia che finora non c´è stato anche a causa della compravendita di deputati e senatori che è avvenuta ed avviene sotto gli occhi schifati di tutto il Paese.
4. L´incidente (che non è affatto un incidente ma una questione di prima grandezza) del voto contrario dato dalla Camera sul Rendiconto generale non è stato ancora risolto. Il presidente della Repubblica, rispondendo l´altro ieri ad una lettera dei capigruppo di maggioranza, ha suggerito di ripresentare il Rendiconto al Senato dopo un ulteriore controllo della corte dei Conti. Così probabilmente avverrà sebbene esista una prassi secondo la quale quando una legge viene bocciata da una delle Assemblee, non viene ripresentata all´altra. Ma la prassi - quando è necessario - si può superare se non è esplicitamente vietata e questa non lo è.
5. Il Senato approverà certamente il Rendiconto e poi lo trasmetterà alla Camera affinché faccia altrettanto ma qui sorgerà un problema. Il regolamento della Camera prevede che una legge bocciata non possa essere ripresentata se non dopo sei mesi. Quindi, a rigor di logica, la Camera non dovrebbe mettere all´ordine del giorno il Rendiconto se non nel prossimo aprile con la conseguenza che il ministro del Tesoro sarebbe fino ad aprile sfiduciato su come ha gestito la pubblica finanza nell´esercizio 2010 e con lui l´intero governo di cui fa parte.
Debbo immaginare che gli uffici competenti del Quirinale conoscano questo problema e penso quindi di essere io in errore. Me lo auguro e mi farebbe piacere saperlo. Secondo me il solo modo per risolvere il problema erano le dimissioni del governo come insegnano i precedenti, anche perché la bocciatura del Rendiconto, cioè del consuntivo nell´esercizio 2010, è un voto estremamente politico. Significa che la Camera disapprova il modo con cui è stata amministrata l´economia in quell´esercizio. Più politico di così non ce n´è un altro.
Si obietterà che si tratta di questione procedurale. Obietto a mia volta che la procedura non è una formalità ma è la sostanza della politica, contiene le regole alle quali la politica deve conformarsi e affida alle autorità "terze" il compito di rispettarle e farle rispettare.
Vedremo come tutto questo finirà. Intanto abbiamo due viceministri e un sottosegretario in più ma non ho sentito che, a parte l´opposizione, questo vergognoso mercato sia stato censurato come si sarebbe meritato.
l’Unità
QUELLA VOGLIA DI FUTURO
di Francesco Piccolo
Uno dei compiti del giorno dopo, oltre alla cronaca dei fatti e della loro gravità, consiste nel continuare testardamente a tenere a fuoco tutti quei ragazzi che erano lì e che non c’entrano con gli scontri, che sono dovuti scappare e che hanno visto trasformare la loro giornata di rabbia composta, in uno sconforto. Quelli che non sono “gli altri”, ma la stragrande maggioranza, il cuore della manifestazione e la sua parte non soltanto sana, ma portatrice di idee. Quindi, bisogna tenerli a fuoco non solo per l’impegno nell’occuparsi dei problemi del mondo attraverso il loro disagio; ma soprattutto perché così spariscono - nella nebbia dei fatti orribili di ieri - i motivi della protesta, le idee, le proposte, gli slogan e i gesti simbolici. Sparisce non tanto il senso della protesta di ieri, ma sparisce addirittura il disagio concreto, e la reazione civile a questo disagio.
E invece quel senso non si può perdere. Sia perché i giovani italiani sono accomunati ad altri di tanti Paesi, sia perché le loro richieste specifiche alla politica di casa hanno una sensatezza impossibile da sottovalutare.
Fanno politica, coloro che si definiscono indignati? Certamente, ma soprattutto chiedono alla politica. Come accade sempre, in gruppi di persone che decidono in modo istintivo e netto di prendere posizione, di incontrarsi, di manifestare, stanno insieme la parte razionale e quella irrazionale. Né l’una né l’altra hanno come compito, come finalità, quello di fare politica attiva, ma di generare un allarme, un’attenzione viva che porti poi la politica a prendere provvedimenti. Nella sostanza, coloro che si definiscono indignati fanno delle richieste che, sfrondate degli estremismi e delle rigidità tipiche della protesta di piazza, sono le basi su cui si dovrebbe costruirsi un principio di governo di sinistra: cioè cambiare le priorità di politica economica che sta attuando l’Italia in questo momento, e l’Europa intera. La semplicità della proposta consiste nel fatto che non si chiede un’alternativa al capitalismo, ma un capitalismo alternativo. Non si chiede quello che spesso si chiede in piazza, e cioè un cambiamento di tutto, astratto e per questo facile da chiedere e difficile da ottenere. Ma ciò che questi giovani chiedono - o intendevano chiedere ieri, pacificamente - è una direzione politica concreta all’interno delle regole del mondo in cui siamo. Chiedono di scegliere quale tipo di sistema capitalistico si vuole vivere nella pratica quotidiana. Chiedono insomma che non si identifichi più - perché è un errore, è un falso - il capitalismo con le banche, i tassi, il sistema finanziario, le salite e le discese in Borsa.
L’altro aspetto molto interessante è che si tratta già di una protesta che riguarda la vita futura. Non solo dei giovani, e delle loro aspettative così ristrette - non solo cioè, di un futuro lontano; ma anche del futuro prossimo. Infatti, si ha la netta percezione di una richiesta di politica post-berlusconiana. Ci si immagina già un mondo senza di lui, che non viene considerato più di tanto. In qualche modo questi giovani che sono scesi in piazza in sincronia con quelli di altri Paesi, si pongono dei problemi di politica sociale che scavalcano ciò che sta occupando la scena in questo Paese da venti anni, che lo ha tenuto bloccato, e che ha avuto dei risultanti deludenti (non per gli antiberlusconiani, ma per i berlusconiani). Si pongono dei problemi che scavalcano le prime dieci pagine dei nostri quotidiani. Che non ritengono di dover nominare nemmeno uno dei politici che vediamo ogni sera in televisione.
Il lungo tramonto dell’era Berlusconi, sembra essere stato già digerito. Si guarda avanti. Si chiede una politica solidale attiva. La politica dovrebbe trasformare queste richieste in progetto. La sinistra ha il compito di farlo. Ma invece di ascoltarli per poi mettere in pratica, preferisce inseguirli, fino al piano dell’irrazionalità e dell’emotività. E invece la questione è più elementare: se i ragazzi sono in piazza, se sono arrabbiati o, come si autodefiniscono, indignati, è perché chi li dovrebbe rappresentare, chi li potrebbe rappresentare, non li rappresenta.
È il momento di farlo.
Corriere della sera
L’ITALIA, I MERCATI E L’EUROPA
False illusioni, sgradevoli realtà
di Mario Monti
Silvio Berlusconi ha spesso sostenuto che, grazie alla personale autorevolezza riconosciutagli dagli altri capi di governo, l’Italia ha acquisito un peso maggiore, a volte determinante, nelle decisioni europee e internazionali.
In questi giorni, ciò rischia di essere vero. Ma è una verità amara. Nelle riunioni dell’Unione europea e del G20 che cercano di arginare la crisi dell’eurozona e di invertire le aspettative, l’Italia avrà il ruolo cruciale. Cruciale come fonte di problemi, purtroppo; non certo come influenza sulle decisioni da prendere, tanto più che siamo già oggetto di «protettorato » (tedesco-francese e della Banca centrale europea).
È ormai convinzione comune — in Europa, in America e in Asia — che non sarà la Grecia a far saltare l’eurozona, con le possibili conseguenze: disintegrazione dell’Unione europea, crisi finanziaria globale, grave depressione, crisi sociale drammatica. Potrebbero esserlo, per la loro dimensione, la Spagna o a maggior ragione l’Italia. La Spagna è più avanti nel processo di ripartenza politica ed economica volto a padroneggiare la crisi. L’Italia è più indietro. Lo mostrano anche i tassi di interesse sul debito pubblico: più alti per l’Italia che per la Spagna. (E ora, più alti per l’Italia che per la Polonia, benché questa, non facendo ancora parte dell’euro, presenti un esplicito rischio di cambio).
L’Italia è più indietro perché non c’è stato neppure il minimo riconoscimento di responsabilità da parte del governo. In Spagna, invece, il governo ha addirittura lasciato il campo e indetto nuove elezioni e, intanto, ha chiesto e ottenuto una collaborazione con l’opposizione per alcune misure essenziali. In Italia il governo e la maggioranza, pur avendo mancato di visione strategica sulla politica economica e avere indulto a lungo a un ottimismo illusionistico, preferiscono scaricare su altri le responsabilità. L’opposizione avrebbe «impedito al governo di lavorare» (accusa che peraltro accredita le opposizioni di un’identità politica e di un’efficacia di cui si stenta a vedere traccia). I magistrati avrebbero «costretto» il capo del governo a occuparsi soprattutto di loro, piuttosto che dell’economia o dei giovani senza futuro. La «sinistra », così evanescente come forza di opposizione, eserciterebbe però un’influenza assoluta sui corrispondenti a Roma della stampa estera; sarebbe per questo, solo per questo, che vengono scritti nel mondo tanti commenti critici sul presidente del Consiglio e sul governo.
Devo riconoscere che, spesso richiesto all’estero di giudizi sul presidente Berlusconi e sul suo governo, non ho mai assecondato le colorite espressioni usate dai miei interlocutori nel formulare la domanda e ho sempre sottolineato che, se c’è un «problema Berlusconi», deve essere un problema di noi italiani, che l’abbiamo democraticamente eletto tre volte. La prima volta, posso aggiungere, nella speranza di molti che emergesse anche in Italia una forza liberale.
Oggi, mi pare però importante che il presidente del Consiglio — al quale forse fanno velo un’ovattata percezione della realtà e una cerchia di fedelissime e fedelissimi che, a giudicare dalle apparizioni televisive, toccano livelli inauditi di servilismo — si renda personalmente conto di alcune sgradevoli realtà. In Europa e negli Stati Uniti (mi sembra anche in Asia, dove però non ho fonti dirette altrettanto esaurienti):
1) pur riconoscendo all’economia italiana punti di forza e un notevole potenziale, si nutre grande preoccupazione per un’Italia che, in mancanza di crescita economica e di riforme vere nel settore pubblico e nei mercati, potrebbe essere vittima (non innocente) di forti attacchi nei mercati finanziari;
2) si identifica proprio nell’Italia il possibile fattore scatenante di una crisi nell’eurozona di dimensioni non ancora sperimentate e forse non fronteggiabili. Il mondo, non solo l’Europa, potrebbe subirne gravi conseguenze;
3) le principali responsabilità di questa situazione vengono attribuite al governo italiano in carica da tre anni e mezzo;
4) la permanenza in carica dell’attuale presidente del Consiglio viene vista da molti come una circostanza ormai incompatibile con un’attività di governo adeguata, per intensità e credibilità, a sventare il rischio di crisi finanziaria e a creare una prospettiva di crescita;
5) queste valutazioni, comprese quelle riportate ai punti 3 e 4, vengono formulate anche —e con particolare disappunto e imbarazzo—da personalità politiche europee, inclusi alcuni capi di governo, appartenenti alla stessa famiglia politica (il Partito popolare europeo) del presidente Berlusconi e del suo partito.
A questo quadro di preoccupazione internazionale sull’Italia e di sfiducia nel governo in carica fa riscontro la recente riconfermata fiducia da parte del Parlamento. Solo quest’ultima, ovviamente, è rilevante per la legittimità del governo. Ma in un’Europa e in un mondo sempre più interdipendenti, sarebbe opportuno che quanti hanno dato il loro sostegno al governo Berlusconi (e riesce davvero difficile immaginarne uno diverso, nel quadro attuale) prendessero maggiore consapevolezza della realtà internazionale che rischia di travolgerci, di trasformare l’Italia da Stato fondatore in Stato affondatore dell’Unione europea, di rendere ancora più precario il futuro e la stessa dignità dei giovani italiani. Hanno salvato il presidente del Consiglio. In cambio, lo incalzino perché risparmi all’Italia, se non il ludibrio, almeno il biasimo per aver causato un disastro.
il manifesto
UNA NUOVA EPOCA
di Valentino Parlato
Quella di ieri a Roma è stata una manifestazione storica, il segno di un possibile cambiamento d'epoca. Una manifestazione enorme, rappresentativa di tutto il paese (camminando nel corteo e in piazza si sentivano gli accenti di tutte le regioni italiane). E ancora, una manifestazione che si realizzava in contemporanea con tante altre nel mondo, in Europa e anche negli Usa, tutte concentrate sul cambiamento del modello di sviluppo, a sancire la crisi del liberalcapitalismo. Per dire che così non si può andare avanti, che la politica di oggi è arrivata a un punto morto e che ci vuole un'inversione di rotta, anche dei partiti politici, oggi ridotti alla sopravvivenza di sé stessi.
A Roma ci sono stati anche scontri con la polizia e manifestazioni di violenza. Meglio se non ci fossero state, ma nell'attuale contesto, con gli indici di disoccupazione giovanile ai vertici storici, era inevitabile che ci fossero. Aggiungerei: è bene, istruttivo che ci siano stati. Sono segni dell'urgenza di uscire da un presente che è la continuazione di un passato non ripetibile.
La manifestazione e le pressioni che essa esprime chiedono un rinnovamento della politica. È una sfida positiva agli attuali partiti di sinistra a uscire dal passato e prendere atto di quel che nel mondo è cambiato. La crisi attuale - più pesante, dicono in molti, di quella del 1929 - non può essere superata con i soliti strumenti. Negli Usa fu affrontata con il New Deal e in Italia e Germania, dove lo sbocco fu a destra, non con le privatizzazioni, ma con le nazionalizzazioni di banche e industrie. Ci ricordiamo dell'Iri, fondamentale nell'economia anche dopo la caduta del fascismo?
Quello che è accaduto ieri deve aprirci gli occhi e la mente. Non si può continuare a fare politica con le vecchie ricette. Ci dovranno essere cambiamenti anche nelle lotte sul lavoro e nel sindacato, e nella politica economica. Per concludere, vorrei ricordare che dopo il discorso di Sarteano anche un banchiere come Mario Draghi ha detto di capire le ragioni degli indignati. Forse siamo all'inizio di una nuova epoca.
Per non sprecare il 15 ottobre, bisogna definire un orizzonte politico alternativo. La crisi devasta le esistenze delle persone e quando chiedono cosa proponiamo per risolvere i loro problemi non possiamo più rispondere «non so».
Zone rosse attorno ai palazzi, allarme violenza, qualche manganellata di troppo, come a Bologna, e alcuni arresti inquietanti, come a Brindisi. Insomma, neanche questa volta l'autorità costituita ha voluto deviare dall'ormai consueto e consunto rito. Prendiamone atto e passiamo oltre.
Ebbene sì, perché la giornata globale contro l'austerity del 15 ottobre, la sua riuscita, il suo significato e la sua incidenza, saranno valutati con ben altri parametri, qui e in Europa. Cioè, con la capacità o meno di segnare la presenza e la rilevanza di un altro punto di vista sulla crisi, alternativo a quello della Bce, del Fmi e della Bm, di Marchionne e di Draghi, degli hedge funds, dei banchieri, delle agenzie di rating eccetera.
In altre parole, il punto è se il 15 ottobre quelli e quelle che stanno fuori dal recinto, per usare la metafora bertinottiana, cioè noi, nella nostra pluralità e nelle nostre diversità, riusciremo ad andare oltre all'esplicitazione dell'indignazione, per evocare ed innescare la nostra costituzione in forza, movimento e discorso, capace di incidere sull'agenda sociale e politica e di produrre cambiamento percettibile.
E attenzione, non è un problema marginale e tanto meno astratto o politicista. Anzi, è questione centrale, urgente e concreta. È centrale perché è illusorio pensare che per il solo fatto che la crisi sia di sistema e non congiunturale, essa porti dunque spontaneamente all'emersione di un'alternativa di sistema. Non è affatto così e la realtà di tutti i giorni si incarica di ricordarcelo: in assenza di alternative politiche dotate di forza sociale autonoma, prevale la risposta alla crisi di coloro i quali la crisi l'avevano provocata.
E la loro ricetta è micidiale, perché radicalizza ed estremizza il sistema in crisi, ridisegnando un'epoca e evocando un Ottocento in salsa global e multimedia. Dunque, niente più compromessi sociali, welfare, contratti nazionali, diritti dei lavoratori e partecipazione democratica. E quello che è peggio, nel vuoto la loro risposta conquista adepti a 360 gradi: Enrico Letta plaude alla lettera della Bce, Veltroni invoca governi tecnici per fare quello che pensa Draghi, Renzi parla come Brunetta, insulta i dipendenti comunali ed acclama Marchionne, la Cgil segue Bonanni sulla via del 28 giugno e così via.
Ma definire un orizzonte politico alternativo è anche un'urgenza, perché il dopo incombe. Non solo c'è la crisi e le politiche anticrisi che picchiano sempre più duro, ma c'è anche la fine del ciclo politico berlusconiano. Non importa sapere se finirà domani, tra un mese o tra un anno, importa sapere che sta finendo e che già oggi tutte le forze e gli attori in campo si scontrano, si muovono e si posizionano in funzione del dopo.
Difficile, davvero, sostenere che tutto questo non riguardi il 15 ottobre e i suoi protagonisti. Sarebbe come dichiararsi indifferenti rispetto alla possibilità di trovarci dopo Berlusconi con un governo della Bce o con un centrosinistra che fa la fine del Pasok greco.
Infine, si tratta anche di un problema concreto, anzi concretissimo. La crisi devasta le esistenze e le aspettative delle persone in carne ed ossa. Che sia una giovane precaria che non sa se il mese prossimo avrà ancora una fonte di reddito oppure uno di quei tantissimi operai della Jabil di Cassina de'Pecchi, della Fincantieri di Sestri-Ponente o dell'Irisbus di Valle Uftia che rischiano il posto di lavoro a causa della crisi, di un certo banditismo imprenditoriale e dell'immobilismo istituzionale, a tutte queste persone non si può rispondere «non so» quando ti chiedono cosa proponi per risolvere il loro problema.
Insomma, piaccia o non piaccia, sabato dobbiamo fare i conti con questa dimensione e questo significa che abbiamo, tutti e tutte, un certa responsabilità. Il 15 ottobre si preannuncia partecipato, ma se sarà soltanto una parentesi, una giornata magari un po' più rumorosa delle altre, allora avremo sprecato un'occasione. Se, invece, accettiamo la sfida e ne uscirà il messaggio che in Italia un altro punto di vista c'è e che si avviano dei nuovi processi politici, allora il domani potrebbe anche riconsegnarci qualche sorriso.
MILANO — Il titolo del provvedimento non potrebbe essere più chiaro: «Condono in materia di impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili». Il testo circola in maniera un po' sotterranea (pare arrivi dal ministero delle Politiche agricole di Saverio Romano) e l'intenzione sarebbe quella di inserirlo nel decreto sviluppo al quale lavora il ministro Paolo Romani. Sedici paragrafi per sancire un nuovo «condono tombale» — non solo amministrativo ma anche penale — a favore di chiunque «abbia interesse» in un impianto di energie rinovabili costruito senza autorizzazione, o la cui autorizzazione (o denuncia di inizio attività, la cosiddetta «dia») stia per essere annullata, in sede giudiziaria o amministrativa. Chi sarebbe beneficiato da una simile misura? E quali abusi sarebbero sanati?
I sospetti sono tanti, ma in prima fila si possono collocare quelli di costruttori di impianti fotovoltaici a terra di piccola e media taglia, che per loro natura si possono edificare in tempi assai brevi, a differenza di quelli eolici o a biomasse che non possono essere trasferiti con facilità e senza aggravio di costi come nel caso dei pannelli solari. Illegalità o manovre allegre rese proficue dalla possibilità di intascare gli incentivi statali concessi alle energie rinnovabili, che malgrado le riduzioni stabilite lo scorso maggio dovrebbero garantire all'incirca 170 miliardi di euro nei prossimi venti anni a chi se li aggiudicherà. Una caccia che, tanto per dare un'idea della dimensione del fenomeno, si sintetizza nelle richieste di allacciamento alla rete elettrica: secondo i numeri dell'Autorità per l'energia «ballano» ad oggi circa 22 mila preventivi che non hanno ancora ricevuto un'autorizzazione.
Richieste che sono pari a 150 mila megawatt (soprattutto nelle Regioni del Sud), un'esagerazione assoluta se si pensa che il record di domanda elettrica di tutta l'Italia non ha mai superato 56 mila megawatt. Con l'emendamento che Romano cercherebbe di fare inserire nel decreto sviluppo si arriverebbe a una maxi sanatoria a fronte di un'«oblazione» di dieci euro per ogni chilowatt installato (a una famiglia media ne servono 3). Ma c'è molto di più, perché oltre ai procedimenti penali o amministrativi, con il condono non verrebbero più perseguiti neppure i reati edilizi, o quelli paesaggistici e ambientali.
Un «liberi tutti» esteso alle sanzioni accessorie come la confisca, e alle vere e proprie truffe camuffate da irregolarità e illegittimità di varia natura commesse ai danni del Gse, Gestore dei servizi energetici, l'ente statale che eroga materialmente gli incentivi alle energie rinnovabili. Il tutto, secondo la succinta relazione tecnica che accompagna la misura, sarebbe però giustificato da nobili ragioni economiche e ambientali: tra di esse la riduzione di gas serra, l'avvicinamento dell'Italia ai requisiti di Kyoto e il contributo all'autonomia energetica nazionale. Oltre il danno, insomma, anche la beffa.
Come tutti gli anni, il 16 ottobre, la Fao ci chiama a riflettere con la Giornata Mondiale dell´Alimentazione. Ciclicamente, purtroppo solo per un attimo, torniamo a prendere atto che fame a malnutrizione non spariscono dalla faccia della Terra neanche per sbaglio. Tra i tanti, è questo il vero, più serio e potente motivo per sentirsi indignati oggi.
Anche se grazie alla ricorrenza si spendono fiumi di parole, purtroppo soltanto quelli, si spendono. Gli Stati e gli organismi internazionali non mantengono le promesse che fanno in tema di aiuti allo sviluppo e quasi sempre, quando ci provano davvero, finiscono con il far "costare più la salsa che il pesce". Nel 2000, con la Dichiarazione del Millennio dell´Onu, ogni Stato ricco promise di aumentare gli aiuti pubblici allo sviluppo per lo 0,7% del proprio Pil entro il 2015. Pochissimi Stati hanno già superato la soglia, la maggioranza no: la media oggi è poco più alta dello 0,3%. L´Italia, per non farsi mancare niente, si distingue tra quelli in fondo alla classifica: siamo allo 0,1% e negli ultimi anni abbiamo continuato a tagliare in maniera importante questi aiuti, nel nome della crisi. Leggere il nuovo rapporto di Action Aid Italia uscito a settembre, dovrebbe farci vergognare per come siamo indietro su tutti i fronti. Intanto, nonostante la crisi, non smettiamo di costruire caccia bombardieri e partecipare a missioni di guerra costosissime: quei soldi basterebbero e avanzerebbero di molto per fare la nostra parte negli aiuti promessi.
Le notizie che quest´anno sono arrivate dal Corno d´Africa (con una carestia che ha coinvolto 13 milioni di persone soprattutto in Somalia, Kenya, Etiopia, delle quali decine di migliaia sono già morte e 750.000 a rischio di morte nei prossimi mesi) non sono di nuovo state sufficienti a smuovere le coscienze in maniera generalizzata. La cosa sconvolgente è che il problema del miliardo circa di persone che soffrono di malnutrizione e fame è, tra tutti i problemi che ha oggi la comunità mondiale, uno di quelli di più facile soluzione: sarebbe sufficiente averne la volontà. Al limite, basterebbe anche soltanto qualche rinuncia, meno avidità, meno colonialismo economico e culturale. Invece, per citare Ghandi a pochi giorni dall´anniversario della sua nascita, «nel mondo c´è abbastanza per i bisogni dell´uomo, ma non per la sua avidità».
Forse l´unica soluzione è cominciare a fare propria questa battaglia a livello personale, ognuno di noi. Ma come possiamo fare, pur carichi di sana e giusta indignazione? Intanto, iniziamo dallo spreco. Secondo i dati di Last Minute Market sprechiamo 20 milioni di tonnellate di cibo ogni anno, soltanto nel nostro Paese. Sarebbero sufficienti a sfamare 40 milioni di persone: siamo distratti, non siamo sensibili, è un po´ colpa nostra ma in un certo senso siamo vittime di un sistema che per così com´è strutturato non diventerà mai virtuoso, nemmeno sotto i colpi della crisi. È un sistema economico iniquo, che fa dei rifiuti la sua stessa ragione di esistenza. Quei 20 milioni di tonnellate di cibo buttate via ogni anno in Italia lo alimentano: un consumismo spietato dove tutto si brucia e va sostituito al più presto, anche il nutrimento. Allora dobbiamo cominciare a rivoluzionare in casa nostra, se vogliamo coltivare la speranza che anche in Africa le cose si rivoluzionino.
Cambiare qui per cambiare l´Africa: ecco uno slogan, se ce n´era bisogno. Mai nella storia dell´uomo abbiamo avuto così tanta quantità di cibo a disposizione per l´umanità e mai nella storia abbiamo sprecato così tanto. Oltretutto, come spiega una recente ricerca storiografica che sta per essere pubblicata in Usa, nonostante le guerre in corso il mondo non è mai stato in pace come in questa epoca. Lo spreco di fronte alla fame è la vera anomalia dei nostri tempi.
Il sistema avido in cui siamo immersi ha trasformato il cibo in una merce, l´ha spogliato dei suoi valori mentre l´unico valore che resta è il prezzo. Siamo tutti obbligati a comprare, a consumare, a un determinato prezzo. Non coltiviamo più, abbandoniamo l´agricoltura e intanto chi non ha soldi non può mangiare perché non può acquistare cibo: è il sistema che sta condannando milioni di africani. È ciò che va scardinato con le nostre azioni quotidiane: non sprecando e rieducandoci al cibo e ai suoi valori, anche quelli dell´agricoltura. È ciò che più immediatamente possiamo fare, formando nuove generazioni che non vogliano più stare a questo gioco al massacro.
Lasciatemi dire che con Slow Food stiamo raccogliendo fondi da dare alle comunità per realizzare mille orti in Africa nel corso del prossimo anno. È una goccia nel mare, perché ce ne vorrebbero un milione, ma è pur qualcosa. Un orto per una comunità è un ritorno alla terra, alla dignità del coltivare il proprio cibo, una garanzia di autosostentamento, attraverso le tecniche e le sementi locali: da parte nostra c´è solo aiuto a distanza, in risorse e in semplici migliorie tecniche non invasive. Per fortuna non siamo gli unici.
L´auspicio è che la politica ponga tutti questi problemi tra le sue priorità, ma se non si rinuncia a quel sistema economico-finanziario che in realtà la foraggia e che lei sostiene; se non si guarda a nuove vie e nuovi paradigmi per il futuro, a una vera rinascita dell´agricoltura (ovunque), allora sarà molto più dura. Noi iniziamo con la reciprocità, a donare e a far girare i doni in quest´economia malata, partendo anche dal sostegno ai nostri stessi contadini, con acquisti diretti di cibo locale, perché pure loro iniziano a subire gli effetti disastrosi di un sistema incompatibile con la natura, che li sta schiacciando. I contadini, insieme alle associazioni della società civile, uniti nel Cisa (Comitato Italiano per Sicurezza Alimentare), in questi giorni stanno facendo sentire la loro voce a Roma, proprio davanti alla Fao: ascoltiamoli, appoggiamoli. Io credo veramente che non sprecando, aiutando le economie agricole locali in ogni angolo della terra, regalando qualcosa per far rinascere le singole comunità africane nel nome della loro produzione alimentare, potremo dare il via a un nostro cambiamento profondo, che infine cambierà anche l´Africa. Ma sempre e solo grazie agli africani: bisognerà pur dargliene la possibilità, smettendola di far pagare soprattutto a loro le nostre condotte scellerate e ormai decisamente impazzite.
Il suolo non serve solo per costruire. Dal suo uso dipende anche la fame nel mondo: oggi nel Terzo, domani forse anche nel Primo. Non sono soltanto lo sprawl e l’urbanizzazione immotivata le cause del consumo di suolo destinato all’alimentazione: anche la riduzione del terreno utilizzato dall’agricoltura e – nell’ambito di quello che rimane coltivato – la sostituzione di colture industriali a quelle desinate all’alimentazione delle popolazioni che nel territorio abitano. C’è una catena causale che lega i diversi mondi nella corsa comune verso la distruzione. Lo sprawl e il "land grabbing" sono parti del medesimo meccanismo economico. Il primo, battezzato nei paesi della civiltà nordatlantica, esprime il primato della rendita sul lavoro e sul profitto, il secondo è la forma neocolonialista dello sfruttamento dei paesi appartenenti alle altre civiltà: sottrarre terreno alle comunità locali, sostituire l'agricoltura di sostentamento con le grandi colture industriale, esporre alle crisi sistemiche della globalizzazione dei mercati le economie locali e distruggerle.
L’articolo di Carlo Petrini induce a ricordare le parole di Enrico Berlinguer sull’austerità come leva dello sviluppo. Parole dense di verità; oggi più attuali che mai, ove si sappiano scorgere in esse significati dversi da quelli che hanno assunto sia l’una (“austerità”) che l’altra (“sviluppo”) nel linguaggio e nell’ideologia divenuti egemonici.
L'ondata di rivolte popolari e di violenza che ha investito in questi mesi il Mediterraneo meridionale non sembra abbandonare i paesi del Maghreb e del Mashrek. C'è chi sostiene che si tratta dell'inizio di una lunga battaglia: la democrazia, si sostiene, è ormai un obiettivo irrinunciabile. Lo è per l'intero mondo islamico e non solo per i giovani e le giovani che hanno manifestato a migliaia contro i regimi dispotici che per decenni hanno oppresso i loro paesi. Ma c'è chi ritiene invece che si tratta del miraggio di giovani temerari, illusi che il mondo islamico riuscirà a liberarsi rapidamente dal dispotismo e dall'oscurantismo di una tradizione millenaria. E c'è chi sostiene che eventi come la fuga improvvisa del presidente Ben Ali e le dimissioni del presidente Hosni Mubarak non potranno cambiare il destino della Tunisia e dell'Egitto. La prepotenza e la violenza del potere è tuttora diffusa in entrambi questi paesi.
In Tunisia la «Rivolta dei Gelsomini» sembra finita nel nulla: una volta decaduta la costituzione e sciolte le camere si è garantito che anche il partito unico sarebbe stato dissolto e sarebbe stata subito introdotta la democrazia. Ma in realtà, in modo sempre più insistente, la borghesia si è schierata per il ripristino dell'ordine e contro le nuove elezioni. E molto spesso la polizia è ricorsa all'uso sanguinario della violenza.
In Egitto il governo di Essam Sharaf ha fatto strage di decine di cristiani copti durante una loro pacifica manifestazione. E le Forze Armate sono tuttora pronte a cancellare nel sangue la speranza di chi ha combattuto per la nascita di un nuovo Egitto, libero e moderno. E altrettanto incerto resta il futuro della Libia, nonostante la volontà delle potenze occidentali di impadronirsi delle infinite ricchezze del deserto libico. Il sangue di civili innocenti continua e continuerà a lungo ad essere versato dai bombardamenti della Nato, voluti dagli Stati Uniti, e dalla disperata e grottesca resistenza di Muammar Gheddafi e dei suoi lealisti.
Non sembra dunque probabile che i paesi islamici del Mediterraneo riescano a raggiungere rapidamente l'obiettivo della democrazia, alla quale i movimenti giovanili continuano ad aspirare intensamente. Ed è anche difficile capire che cosa significa per loro «democrazia» e «Stato democratico» e quali sono le loro concrete aspettative politiche e sociali.
Si tratterebbe anzitutto di domandarsi se sarà possibile convertire le strutture politiche dei paesi arabo-islamici in strutture democratiche compatibili con le loro tradizioni. Se per «democrazia» si intende una partecipazione libera ed eguale di tutti i cittadini ai processi decisionali è inevitabile riconoscere che la nozione di democrazia non appartiene al lessico musulmano e ai valori tramandati dalla tradizione coranica. Basterebbe un semplice riferimento alla Shari'a e al fiqh per esserne convinti, nonostante le tesi di autori come Rashid Ghannushi, Hasan al-Turabi e Samir Amin. Essi sostengono che la diffusione dell'associazionismo nei paesi islamici tende ad affermarsi sempre di più e a profilarsi come una «via islamica alla democrazia».
Non ci dovrebbe essere comunque alcun dubbio che «democrazia» resta un concetto estraneo alla cultura islamica: il mondo musulmano non può servirsene se non come espressione di una realtà politica che si è affermata in Occidente, e solo in Occidente, con lo sviluppo della modernità. E si tratta di una realtà politica investita dal processo di globalizzazione e che tende quindi a trasformarsi in un regime subordinato allo strapotere dei padroni dell'economia di mercato, oggi diffusa nel mondo intero. E i padroni sono in larga parte anche i signori del Mediterraneo.
Un minimo realismo ci suggerisce che è notevole il rischio che prevalgano gli interessi di quella che Luciano Gallino ha chiamato la «nuova classe capitalistica transnazionale». Dall'alto delle torri di cristallo delle più ricche metropoli del mondo questa «nuova classe» cercherà di dominare i processi dell'economia globale, quella occidentale inclusa. In sostanza, «democrazia» finirà per essere definita la somma degli interessi delle grandi imprese produttive e degli enti finanziari, come le banche d'affari, gli investitori istituzionali, le compagnie di assicurazione e così via.
La Repubblica
In arrivo la rivoluzione del Pgt indici più bassi per le costruzioni
di Alessia Gallione
C’è il Parco Sud, che non genererà più volumetrie da far atterrare in altre parti della città. E ci sono le grandi aree di trasformazione, dagli scali ferroviari alle caserme, dove si costruirà di meno, così come saranno limitati - a seconda del contesto - gli indici anche nella città già "consolidata". Ma nel nuovo Pgt targato Pisapia, Palazzo Marino promette anche di riprendere in mano la regia degli interventi: rivedendo il piano dei servizi (per l’ex giunta i privati avevano vasti margini di scelta) per essere in grado di decidere sui bisogni dei diversi quartieri (dalle biblioteche agli asili), aumentando il verde e gli spazi pubblici. Si punterà anche sui trasporti e sull’housing sociale, con «correttivi che rendano effettive previsioni che ad oggi non potrebbero avere riscontri». Sono le linee guida politiche che l’assessore Ada Lucia De Cesaris porterà oggi in giunta: saranno la via maestra da seguire per riscrivere il Piano di governo del territorio attraverso la rilettura delle quasi 5mila osservazioni di cittadini e associazioni. Solo l’inizio, però, di una rivoluzione dell’urbanistica. Nel segno del cambiamento, è la promessa.
Si parte dal Pgt e dalle regole da modificare. Il documento non è stato cancellato, ma l’impianto immaginato dall’ex assessore Carlo Masseroli con queste linee guida subisce un cambiamento notevole. A cominciare dalla perequazione del Parco Sud che scompare, fino alla possibilità che alcuni di quei vasti ambiti di trasformazione, quelli «che comportano un ingiustificato consumo di suolo», vengano addirittura eliminati. «L’obiettivo - è il senso - è superare le previsioni attuali di fatto inattuabili»: troppe costruzioni. Anche nei quartieri già esistenti tornerà, a seconda del contesto, un indice massimo. Ma l’assessore all’urbanistica De Cesaris con questi indirizzi traccia anche una filosofia più vasta, da applicare non solo agli interventi futuri, ma anche - dove sarà possibile - a quelli in corso.
Si parte dalla realtà, da una città che si sta già trasformando, ma che sta vivendo anche una crisi del mercato immobiliare dalle possibili «gravi conseguenze: rischi di sovrapproduzione, rallentamento o blocco di grandi progetti». Anche per questo si pensa a un «tavolo con gli operatori» e, soprattutto, Palazzo Marino traccia una nuova rotta: meglio puntare su una nuova politica di risparmio energetico e ambientale e su una visione metropolitana che guardi ai trasporti, ad esempio, in chiave più vasta. L’assessore guarda alla «crescita "senza governo"» della città e rivendica un ruolo centrale di regia per l’amministrazione. «Il processo non sarà privo di ostacoli», scrive.
Nella nuova visione dovranno rientrare anche i progetti già approvati o i cantieri già aperti (da Porta Vittoria a Porta Nuova fino a Citylife): dove possibile si tenteranno «modifiche in ascolto delle esigenze dei quartieri». Fino a Santa Giulia, definita una «ferita da rimarginare e, in parte, necessariamente da ripensare». I tempi: dopo la giunta di oggi, gli indirizzi politici arriveranno in commissione dalla prossima settimana e, successivamente, in consiglio comunale insieme alla delibera di revoca del Pgt. Allo stesso tempo partirà un tour di ascolto della città, dai consigli di zona agli operatori fino alle associazioni. Seguendo gli indirizzi dell’informativa, si ripasseranno in rassegna le osservazioni, un’operazione che durerà per tutto il 2011. Il nuovo libro mastro dell’urbanistica sbarcherà in aula dal 2012.
Corriere della Sera
Nuovo Pgt: il cemento lascia spazio al verde
di Rossella Verga
Più pubblico e meno privato. Più verde e servizi, meno cemento e «di qualità». Blindatissimo il Parco Sud, da valorizzare prima e dopo Expo. «Potenziato» l'housing sociale. La giunta Pisapia approva oggi il documento di indirizzo per il governo del territorio, ribaltando l'impianto costruito dall'amministrazione di Letizia Moratti e riportando in capo al Comune la regia del Pgt.
L'assessore all'Urbanistica, Lucia De Cesaris, dopo aver illustrato ieri sera il piano ai capigruppo e ai partiti della maggioranza, presenterà la «manovra correttiva» ai colleghi di giunta, illustrando tutti i passaggi per un «rilancio della qualità urbana» che dovrà passare attraverso la «revisione degli indici edificatori connessi al sistema perequativo» del Parco Sud, «con l'eliminazione delle potenzialità edificatorie previste per gli ambiti di trasformazione periurbana», ma anche attraverso la riduzione degli indici per gli ambiti di trasformazione urbana (Ato), dalle caserme agli scali ferroviari.
«Limitazione» è illeit motivdel nuovo Piano di governo del territorio, che segue la stella polare della «città come bene comune» dove si potrà costruire meno. Per l'assessore De Cesaris, per esempio, il piano immaginato dal predecessore Carlo Masseroli avrebbe prodotto «potenzialità edificatorie virtualmente illimitate» nella città «consolidata», ed è anche qui che la giunta Pisapia intende porre rimedio con l'introduzione di un indice massimo compatibile con le singole zone.
Oggi il via libera della giunta. Dalla prossima settimana il documento arriverà nelle commissioni consiliari. Ma saranno necessari ancora un paio di mesi per completare l'esame delle osservazioni che l'amministrazione ha voluto riaprire per dare risposta alle «istanze inascoltate della città». Il piano riveduto e corretto dovrebbe infine approdare all'esame dell'aula di Palazzo Marino nei primi mesi dell'anno prossimo.
Tante le novità nel documento di indirizzo, ma alcuni passaggi per la giunta Pisapia assumono il carattere di pietre miliari. Si parla di «rivisitazione del piano dei servizi» e di «incremento» delle dotazioni pubbliche negli ambiti di trasformazione, dove sarà il pubblico a definire le priorità. Sul tema degli scali ferroviari, si sottolinea nella relazione, occorre separare le esigenze di riqualificazione da quelle d'interesse pubblico, «anche attraverso un nuovo accordo di programma». Va inoltre ripensata la politica della casa, «rilanciando l'affitto». Occorre «rimarginare» alcune ferite, a cominciare dall'intervento di Santa Giulia.
Il documento urbanistico in discussione oggi tratteggia una città dinamica mortificata negli anni. «Da almeno vent'anni — si legge — la dinamicità sociale si accompagna a una scarsa capacità di governo, un vuoto di politiche pubbliche». Si è affermata, rincara De Cesaris, la logica «condominiale» nell'affrontare i problemi della città. Il Pgt per la giunta Pisapia offre anche l'occasione di ribaltare questa concezione. Ma l'assessore non si fa illusioni: il processo verso il ritorno della regia pubblica «non sarà privo di ostacoli e contraccolpi». Ci vuole il «massimo di umiltà» e «chiarezza di obiettivi realistici».
Titolo originale: The Future Is Machine-Readable – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Quando si chiede a qualcuno di descrivere la città del futuro, ci si aspettano immagini di metropoli scintillanti magari di quelle che si intravedono in Giappone o in Corea, o i quei disegni tutti acciaio e cristallo e auto senza pilota che scivolano silenziose sull’autostrada .
E invece il vero modello di città del futuro è una minuscola cittadina medievale nella campagna toscana, Peccioli. Con oltre un quarto della popolazione residente che ha superato l’età della pensione, qui anche la gente appare un po’ antiquata. E invece Peccioli è all’avanguardia della rivoluzione tecnologica europea. Nel quadro di una collaborazione con la Scuola Sant'Anna di Pisa iniziata nel 1995, la cittadina si è trasformata nel campo di applicazione delle ricerche avanzate sull’invecchiamento, telesoccorso, energie alternative, tutela ambientale, e molto altro. Qui hanno iniziato ad lavorare per strada in mezzo alla gente i primi operai robot.
Dopo una breve sperimentazione nel 2009, due unità del tipo DustCart [più o meno letteralmente carretto delle pulizie n.d.t.] si sono fatti carico della raccolta rifiuti nel centro di Peccioli per due mesi del 2010. Gli abitanti richiedono un intervento, il supervisore dei robot (un’intelligenza artificiale che si chiama AmI) spedisce il DustCart più vicino all’interessato, a prelevare la spazzatura e portarla al centro smistamento. Li hanno soprannominati Oscar, quei robot (il riferimento è al signore che faceva prima quel lavoro, non al Muppet).
Può anche sorprendere che nel XXI secolo i robot più avanzati a contatto con l’uomo debbano solo raccogliere spazzatura, modelli Roomba o DustCart. Perché l’ascesa di queste macchine non è stata travolgente come ci si aspettava? Perché se è abbastanza facile sostituire al meglio gli esseri umani per lavori semplici e ripetitivi, trovano invece enormi difficoltà nell’operare in ambienti estranei. Limiti che li tengono incatenati a luoghi monotoni e lineari, come una catena di montaggio, e di solito lontano dagli sguardi della gente. Quando sono alla fine arrivate, le auto senza pilota hanno subito imboccato la via con meno ostacoli: quella dell’aria.
Se i robot vogliono diventare una presenza corrente quotidiana, si pensa di solito, dovranno adattarsi ad operare in un ambiente aperto del tutto non controllato. Credo invece che sia molto più probabile il contrario: in futuro, modificheremo lo spazio per renderlo più robot-centrico, per rispondere alle necessità delle macchine.
Per esempio le strade, oggi del tutto sconcertanti per un robot. Anche la famosa automobile a guida automatica di Google si sposta solo dopo che un essere umano l’ha programmata inserendo "segnali, semafori e tutto il resto" spiega il responsabile Jay Nanncarrow. L’auto della Google non può funzionare in un ambiente che non conosce già, e non è neppure chiaro se sia in grado di gestire eventi imprevisti come semafori aggiunti per lavori, o chiusura temporanea di corsie.
Se il futuro è anche delle auto automatiche, dovremo anche investire parecchio sulle infrastrutture, per adeguarle al robot. Ciò può voler dire segnali radio in corrispondenza degli attraversamenti pedonali, o guide elettroniche inserite nell’asfalto per capire dove fermarsi in caso di incroci complicati. Ci sarà anche bisogno di segnali che avvertano il passeggero che sta uscendo dalla rete delle strade attrezzate alla guida automatica.
Per le vie, negozi e altre attività aggiungeranno al tipo di visibilità attuale anche quella elettronica. Già oggi in Corea i pendolari possono fare la spesa in metropolitana scansendo immagini di alimentari sui muri delle pensiline. L’introduzione massiccia di sistemi robotizzati a basso costo potrebbe anche voler dire un grande ritorno del negozio tradizionale, dove i cliente arriva con una lista e si rivolge all’addetto.
É quanto già accaduto alla nuova biblioteca James B. Hunt della North Carolina State University costata 115 milioni di dollari. L’ateneo la presenta come il proprio "simbolo di una nuova era di sviluppo". Fra le novità di questa nuova era, c’è che agli studenti non è più consentito girare liberamente per gli scaffali, come si è fatto per generazioni. I due milioni di volumi saranno in sale climatizzate sotterranee, a cui ha accesso esclusivamente un impianto robotizzato. Queste scaffalature occupano solo una minima parte dello spazio che si prendevano prima, e la consegna è di gran lunga più rapida (con questo sistema dovrebbe anche finire il vecchio vizio di tenersi troppo libri che possono anche servire ad altri). Insomma invece di progettare un robot in grado di muoversi nella biblioteca, l’Università ha concepito l’intera biblioteca attorno al robot.
Ma cosa potrebbe accadere se si introducessero i robot anche in altri aspetti della nostra vita? Rendere le strade adatte alle auto che si guidano da sole può essere abbastanza facile, visto che si tratta di un ambiente già piuttosto controllato e standardizzato, dall’organizzazione planimetrica alla segnaletica. Le strade sono anche gestite da un’autorità centralizzata, il che rende relativamente semplice introdurre le modifiche necessarie, quindi non dovremmo sorprenderci troppo se diventasse normale progettare strade leggibili dalle macchine. A Peccioli, i ricercatori hanno introdotto parecchi accorgimenti per guidare DustCart. É stata contrassegnata una particolare "corsia per robot " dipinta di giallo, per separare la macchina dal traffico normale ed evitare ingorghi nelle vie più strette. C’è anche una segnaletica rivolta agli automobilisti per avvertirli della presenza di questo insolito collega. L’area è del tutto coperta da Wi-Fi ad alta velocità e telecamere a circuito chiuso, che garantiscono un contatto costante coi droni, e ci sono segnali dappertutto nella zona di raccolta della spazzatura per guidare DustCart.
Ma una maggior diffusione di robot non significa solo realizzare ambienti più controllati; vuol dire anche rendere i nostri spazi il più possibile leggibili alle macchine. I codici QR evoluzione mutante di quelli a barre non sono nulla di nuovo, ma si stanno oggi affermando grazie all’enorme diffusione degli smartphone. Anziché concepire sistemi di lettura ottica simili al nostro, diventa assai più facile sostituire al testo scritto qualcosa che è leggibile alla macchina, ma incomprensibile agli esseri umani. Improbabile che si possa rinunciare del tutto alle nostre normali informazioni, per passare a una scacchiera di icone, ma se vogliamo che degli androidi ci servano al banco della spesa o trasportino i pazienti in barella in ospedale, dovremo almeno accettare il diffondersi di questa forma di bilinguismo.
Stiamo vivendo una digitalizzazione di massa dei nostri dati. Si prevede che enormi proporzioni delle informazioni quotidiane, dal giornale alla corrispondenza, passino a un formato gestibile digitalmente. Mentre gli archivisti lavorano a mettere a disposizione interi cataloghi storici di materiali scritti. Il futuro ci riserba anche molto di più, portandoci verso un mondo tutto leggibile dalle macchine.
postilla
Comprensibile e in parte anche condivisibile, l’entusiasmo dell’adepto per un mondo che vede spuntare ogni giorno dappertutto i segni dell’ascesa trionfante del robot, nella forma poco inquietante e assai diversa dalle problematiche domande di Isaac Asimov (che paiono loro, fantascienza in negativo, per certi versi).
Però, se ripensiamo col senno di poi ad esempio a tutti i guai portati dall’automobile alla forma delle città e del territorio, o allo schematismo con cui certa cultura architettonica e urbanistica novecentesca ha inglobato l’entusiasmo per la macchina delle avanguardie artistiche, qualche problemino in effetti sorge. Certo non ci aspetta un futuro da rincoglionimento ameboide, tutti lì come un nerd da barzelletta a guardare ad occhi spalancati un apparecchio che vive in nostra vece.
Ma ci tocca, ragionevolmente, evitare sia il solito atteggiamento da diffidenza contadina (che poi sotto sotto ci fa accettare quasi tutto, se ce lo propongono nel modo giusto), sia appunto l’accettare tutto quanto come dono del cielo, fino alla santificazione dei suoi angeli vista dopo la morte di Steve Jobs.
L’urbanista consapevole dovrebbe saperlo: la differenza, nel bene e nel male, è un po’ come quella fra le utopie sociali ottocentesche e il sogno immerso nel verde alla Silvio Berlusconi e dintorni. Ci sono un sacco di vie di mezzo, o anche del tutto nuove, da inventarsi e/o esplorare (f.b.)
La svolta (in retromarcia) dei campi
di Giuseppe Sarcina
BRUXELLES — Le organizzazioni degli agricoltori stanno calcolando le perdite. «Siamo nell'ordine di 240-280 milioni in meno, ogni anno a partire dal 2014», comunica Pietro Sandri, responsabile economico di Coldiretti. Stime e tabelle girano anche negli uffici della Cia (Confederazione italiana agricoltori) e Confagricoltura. «Per l'Italia è in arrivo un taglio complessivo del 25% delle risorse», dichiara il presidente Cia, Giuseppe Politi. A Bruxelles, intanto, si prepara la grande macchina delle lobby agricole, le più antiche, le più rodate alla lunga trattativa che si aprirà sulla proposta presentata due giorni fa dal Commissario europeo Dacian Ciolos. Il Trattato di Lisbona ha introdotto la procedura della «codecisione» anche per l'agricoltura. Il progetto, quindi, dovrà essere approvato dall'Europarlamento e dal Consiglio dei ministri (i 27 Stati).
Ci sono da dividere 1.040 miliardi di fondi in sette anni per il periodo 2014-2020, con 972 miliardi di «pagamenti diretti», cioè di sussidi passati direttamente agli agricoltori. Il problema è che la nuova Pac (Politica agricola comune) d'ora in avanti deve fare i conti non più con 15 Paesi, ma con 27. In prima fila i partner dell'Est europeo. Da dove partire? Ciolos fissa un parametro base, la «Sau» (superficie agricola utilizzabile), come dire: consideriamo la terra effettivamente coltivata. Risultato: i grandi Stati, compresa l'Italia, si collocano sopra la media dell'Europa allargata e dunque, secondo il ragionamento di Ciolos, sono loro che devono ridurre le pretese per fare spazio ai nuovi arrivati. Detto in cifre e prendendo come riferimento il 2013, l'Italia, secondo la simulazione realizzata da Coldiretti, dovrebbe rinunciare al 6% circa di finanziamenti all'anno (tra i 240 e i 280 milioni di euro).
E qui scatta la reazione di Sandri (Coldiretti): «La scelta del parametro della superficie agricola utilizzabile è del tutto arbitrario. Per l'Italia il danno è doppio. In termini assoluti, per il taglio secco di fondi. E in termini relativi se guardiamo al nostro concorrente più agguerrito, la Francia che perde solo il 3%». Anche Germania e Spagna, però, dovrebbero cedere più o meno il 6%. La Gran Bretagna idem, ma, come sempre, fa capitolo a parte, poiché ha diritto a un rimborso dai tempi di Margaret Thatcher.
Le organizzazioni di categoria stanno valutando l'impatto sul mercato italiano. «Saremo fortemente penalizzati, migliaia di imprese sono in grave pericolo», osserva Politi della Cia. Coldiretti stima che i danni maggiori saranno a carico soprattutto dei grandi allevamenti del Nord Italia e dei coltivatori di olive. Conseguenze pesanti anche per il settore degli agrumi e del tabacco. Ma non piacciono neanche le altre scelte compiute dal Commissario Ciolos. Un solo esempio: la definizione troppo larga e generosa di «agricoltore attivo».
È sufficiente dimostrare di aver ricevuto sussidi per un ammontare superiore al 5% del proprio reddito globale (comprese quindi altre attività di «diversificazione») per essere ammessi alla nuova distribuzione di finanziamenti. In serata arriva anche la lunga nota del ministro dell'Agricoltura Saverio Romano. Questo il passaggio chiave: «Le proposte della Commissione appaiono complessivamente insoddisfacenti. Tutto l'impianto è caratterizzato da una forte complessità burocratica e da un'eccessiva rigidità. Sarà necessario un forte impegno del governo italiano, delle Regioni e dei rappresentanti italiani nel Parlamento europeo per correggere l'impostazione».
Interessante, però, registrare anche un punto di vista esterno, come quello di Franz Fischler, austriaco, ex commissario all'Agricoltura, oggi presidente di «Ecosocial forum», organizzazione non governativa. «Certo, sulla carta l'Italia perde qualcosa, ma con l'allargamento della Ue era inevitabile. La proposta della Commissione prevede però la possibilità di passare da un sistema di finanziamento diretto ai singoli agricoltori a una distribuzione delle risorse su scala omogenea, magari regionale. Per l'Italia può essere l'occasione per razionalizzare l'utilizzo dei fondi».
«La riforma degli aiuti? Cambierà il paesaggio nelle nostre campagne»
Intervista a Federico Radice Fossati, di Claudio Del Frate
MILANO — «Fosse solo la questione del 6 o 7% in meno degli aiuti, si potrebbe anche sopportare. Ma il cambio di passo nella politica agricola comunitaria deciso a Bruxelles è una svolta perché rivoluziona il criterio con cui essi vengono decisi; e quello nuovo è destinato a modificare, soprattutto in Italia e soprattutto in alcune regioni, non solo l'economia, non solo l'agricoltura ma addirittura il paesaggio». Il tono della voce è pacato ma lo scenario che Federico Radice Fossati, imprenditore della terra con storiche radici in uno dei «cuori verdi» dell'Italia, la Lomellina, va tratteggiando dice che niente, a partire dal 2014 sarà più come prima.
Perché dunque quanto deciso dalla Ue stavolta è così importante?
«Per capirlo occorre dare rapidamente uno sguardo al passato; la politica agricola comunitaria fondata sugli incentivi nasce col trattato di Roma per scongiurare all'Europa penuria di cibo. Ma ben presto la nostra agricoltura diventa la migliore del pianeta fino a creare le famose eccedenze di produzione, fino all'assurdo del '92, quando la Comunità vara gli incentivi per non produrre».
E arriviamo a grandi passi ai giorni nostri: cosa cambierà nel concreto a partire dal 2014?
«Storicamente gli aiuti erano concessi in base ai quintali per ettaro, un meccanismo che premiava la produttività dei suoli. Adesso subentra invece un calcolo fondato meramente sull'estensione dei terreni. È come se l'Europa avesse concesso a tutti gli agricoltori una sorta di pensione, indipendente dalla qualità e dall'efficienza del loro lavoro, rinunciando di fatto a ogni politica agricola. Purtroppo è un cambiamento che era nell'aria, largamente annunciato».
Come impatterà questo cambiamento sull'agricoltura italiana? Proviamo a immaginare degli scenari...
«Faccio l'esempio che ho sotto gli occhi della Lomellina, territorio vocato alla coltivazione del riso. Quest'ultima è una coltura che proprio per il particolare valore assegnato al prodotto riceveva dall'Europa incentivi pari all'incirca a mille euro l'ettaro. Con la nuova Pac il contributo scenderà a duecento euro. Questo significa che molti imprenditori saranno spinti a seminare non più riso ma ad esempio mais per produrre biogas, che a quel punto sarà molto più redditizio. Ecco perché la nuova Pac potrebbe cambiare addirittura il paesaggio di territori come la Lombardia o il Piemonte».
Il mondo agricolo contesta poi che la «torta» viene divisa senza grandi distinzioni tra tutti i 27 Paesi dell'Unione...
«Anche in questo caso il guaio vero è che non viene introdotta alcuna distinzione di qualità. Ma la stortura riguarda non solo singoli Paesi ma anche singole regioni. In Italia, ad esempio, la Lombardia vedrà ridotti i contributi Ue del 42% mentre quelli della Valle d'Aosta saliranno del 540%».
Accennava poco fa al fatto che questa svolta era ampiamente annunciata: come mai non è stata fermata?
«Perché adesso a Bruxelles votano 27 Paesi; sono i costi della democrazia, mi verrebbe banalmente da dire. Il nuovo meccanismo premia indubbiamente nazioni più arretrate, ad esempio la Romania, che tra l'altro esprime il commissario europeo all'agricoltura».
Adesso che spazi esistono, se esistono, per correggere la rotta?
«L'Italia dovrà imparare a contare di più su se stessa e meno sull'Europa. Gli aiuti dovranno essere concepiti in base a due pilastri; il primo è la qualità dei prodotti, il secondo è la tutela del paesaggio, il valore ambientale e turistico che sempre più è abbinato a quello della coltivazione della terra».
Ma il destino dell'agricoltura sarà sempre quello di essere sorretta dalla «stampella» degli aiuti pubblici?
«Di fatto stiamo andando verso il superamento di questo meccanismo. Almeno se vogliamo continuare a parlare di una politica produttiva nel settore agricolo e a patto di ricordare che il libero mercato comporterà un aumento sensibile del prezzo di molti prodotti alimentari».
Una generazione di giovani che rischia di rimanere bloccata. Un Mezzogiorno che ha ricominciato a perdere i propri giovani più qualificati, mentre i ragazzi più svantaggiati sono lasciati ad una scuola senza risorse e al lavoro nero. Un’area del lavoro nero senza protezione neppure dai rischi per la salute e per la vita, che viene proposta come l’unica alternativa al non lavoro da un lato, alla criminalità dall’altra. Una qualità del lavoro, anche regolare, spesso bassa anche sul piano della sicurezza. Una disattenzione sistematica e talvolta anche crudele per i bisogni di cura, non solo dei malati, ma dei bambini e delle persone non autosufficienti, con effetti sia di sovraccarico familiare (specie femminile) e di cristallizzazione delle disuguaglianze.
Un territorio che si sfalda alle prime piogge, producendo disastri il cui costo umano e ambientale è sempre più insostenibile non solo dal punto di vista dell’etica e della giustizia, ma anche dal punto di vista economico. Sono questioni non nuove, che tuttavia in queste settimane per una serie di coincidenze sono divenute visibili tutte assieme. Pur nella loro diversità, hanno in comune l’essere testimonianza di uno spreco non solo ingiusto, ma che non possiamo più permetterci come Paese, pena l’impoverimento sociale, se non la stessa rottura della coesione sociale.
Un’agenda dello sviluppo deve partire da qui. Deve cioè farsi guidare dall’obiettivo di porre fine allo spreco di risorse umane, sociali e ambientali di cui questi fenomeni sono l’espressione. Una sorta di New Deal, potremmo dire, con la sua felice combinazione di valorizzazione delle risorse di capitale umano e di sistemazione e valorizzazione del territorio. Proprio perché le risorse finanziarie per le politiche di crescita andranno reperite con ulteriori manovre certamente non popolari e saranno comunque scarse, non possono essere sprecate in iniziative, magari di grande visibilità, ma di impatto sull’occupazione e sullo sviluppo economico dubbio e nel migliore dei casi solo nel lungo periodo. Devono essere indirizzate a obiettivi non più rimandabili di contrasto allo spreco e di valorizzazione delle risorse esistenti, a partire dal capitale umano.
Non serve fare il Ponte sullo Stretto se un quarto dei giovani italiani è senza lavoro e se quelli più istruiti e con più chance di trovare un lavoro fuggono dal Mezzogiorno. Pensare al terzo valico o all’alta velocità in un Paese che frana ogni volta che piove (vale per la Lombardia come, se non più, che per la Campania) appare se non altro un po’ miope. Per non parlare del fatto che il nostro Paese ha una lunga storia di più o meno grandi opere incompiute. Occorre piuttosto mettere in moto una domanda di lavoro che miri a migliorare da subito sia, ovviamente, la condizione dei neo-lavoratori che quella delle comunità in cui vivono.
Un primo settore è quello dell’ambiente, a partire dalla messa in sicurezza del territorio. Una domanda di lavoro che riguarda lavoro a tutti i livelli di qualificazione. Un secondo settore è quello della sicurezza del lavoro. Qui le imprese vanno chiamate alla loro responsabilità, impedendo che si crei una sorta di corto circuito ricattatorio tra mantenimento dell’occupazione e mancata sicurezza. Un terzo settore è quello delle infrastrutture sociali: la scuola di ogni ordine e grado, soprattutto nel Mezzogiorno, i servizi per la prima infanzia per contrastare le disuguaglianze tra bambini, oltre che per favorire l’occupazione femminile, i servizi domiciliari per le persone non autosufficienti.
Dove trovare i fondi? In parte si tratta di rendere più efficiente la spesa attuale. È stato ad esempio calcolato che si spende di più per far fronte ai disastri ambientali di quanto non si spenderebbe per la loro prevenzione. Anche la spesa assistenziale potrebbe essere più efficiente dal punto di vista sia della risposta al bisogno che di quello della creazione di posti di lavoro. È a questo, e non a tagli lineari, che dovrebbe mirare la delega per la riforma previdenziale e assistenziale. In parte anche le imprese devono essere chiamate a una politica di investimenti nel capitale umano – sotto forma di sicurezza e di valorizzazione – se non vogliono limitarsi a competere solo tramite il contenimento dei salari. Ma occorre anche reperire risorse finanziarie nuove. Una tassa sui patrimoni mobiliari e immobiliari, e la re-introduzione dell’imposta sull’eredità sarebbero la soluzione più equa, soprattutto dal punto di vista dei più giovani. Perché compenserebbe le disuguaglianze di origine sociale, che in Italia hanno un peso enorme e inaccettabile sul destino e le chance di vita individuali.
Riusciranno gli Occupanti di Wall Street a trasformarsi in un movimento che abbia sul Partito democratico lo stesso impatto che il Tea Party ha avuto sul Gop ( Grand Old Party, cioè i repubblicani, ndt)? C'è da dubitarne. I Tea Parties sono stati a doppio taglio per la dirigenza del Gop - fonte di nuova energia e nuovi militanti ma anche un handicap quanto a capacità di attrarre il voto degli indipendenti. E l'ostacolo diventerà sempre più chiaro quanto più sarà duro lo scontro tra i due maggiori candidati alle primarie repubblicane, Rick Perry e Mitt Romney.
Finora gli «Occupanti di Wall street» hanno aiutato i democratici. La loro rivendicazione primaria che i ricchi si addossino la loro parte di sacrifici sembra su misura per il nuovo disegno di legge dei democratici per una tassa del 5,6% sui milionari, come anche per la spinta del presidente Barack Obama a revocare il taglio delle tasse voluto da George Bush jr. per i redditi superiori ai 250.000 dollari e per limitare le deduzioni sui redditi alti.
E gli Occupanti offrono al presidente un potenziale argomento per la campagna: «Di questi tempi un sacco di gente che sta facendo le cose giuste non è ricompensata e invece è ricompensata un sacco di gente che fa le cose sbagliate» ha detto nella sua conferenza stampa la settimana scorsa, quando ha predetto che la frustrazione che anima gli Occupanti «si esprimerà politicamente nel 2012 e oltre, finché la gente non sentirà che stiamo tornando ad alcuni valori della vecchia America».
Ma se Occupare Wall street si struttura in qualcosa che somiglia a un vero movimento, allora il Partito democratico potrebbe trovare più difficoltà a digerirlo di quante ne abbia avute il Gop col Tea Party. Dopo tutto, una bella fetta dei fondi elettorali di entrambi i partiti viene da Wall street e dalle sale dei consigli d'amministrazione. Wall street e l'America delle corporations dispongono di nugoli di pr (public-relations) e di eserciti di lobbisti per fare pressione, per non parlare delle inesauribili tasche dei fratelli Koch o di Dick Armey e dei SuperPac di Karl Rove. Anche se gli Occupanti possono accedere a un po' di denaro sindacale, non c'è partita.
Ma la vera difficoltà giace ancora più a fondo. Un po' di storia può aiutare.
Nei primi decenni del XX secolo i democratici non ebbero difficoltà ad abbracciare il populismo economico. Accusava le grandi concentrazioni industriali dell'epoca di soffocare l'economia e avvelenare la democrazia. Nella campagna del 1912 Woodrow Wilson promise di guidare «una crociata contro i poteri che ci hanno governato... hanno limitato il nostro sviluppo... hanno determinato le nostre vite... ci hanno infilato una camicia di forza a loro piacimento». La lotta per spaccare i trusts sarebbe stata, nelle parole di Wilson, niente meno che «una seconda lotta di liberazione».
Wilson fu all'altezza delle sue parole: firmò il Clayton Antitrust Act (che non solo rafforzò le leggi antitrust ma esentò i sindacati dalla loro applicazione), varò la Federal Trade Commission per sradicare «pratiche e azioni scorrette nel commercio» e creò la prima tassa nazionale sui redditi.
Anni dopo Franklin D. Roosevelt attaccò il potere finanziario e delle corporations dando ai lavoratori il diritto di sindacalizzarsi, la settimana di 40 ore, il sussidio di disoccupazione e la Social Security (la mutua). Non solo, ma istituì un'alta aliquota di tassazione sui ricchi.
Non stupisce che Wall street e la grande impresa lo attaccassero. Nella campagna del 1936 Roosevelt mise in guardia contro i «monarchici dell'economia» che avevano ridotto l'intera società al proprio servizio: «Le ore che uomini e donne lavoravano, i salari che ricevevano, le condizioni del loro lavoro ... tutto era sfuggito al controllo del popolo ed era imposto da questa nuova dittatura industriale». In gioco, tuonava Roosevelt, era niente meno che «la sopravvivenza della democrazia». Disse al popolo americano che la finanza e la grande industria erano determinati a scalzarlo: «mai prima d'ora in tutta la nostra storia, queste forze sono state così unite contro un candidato come oggi. Sono unanimi e concordi nell'odiarmi e io accolgo volentieri il loro odio».
Però già nel 1960 i democratici avevano lasciato perdere il populismo. Dalle loro campagne presidenziali erano scomparsi i racconti di avidi imprenditori e spregiudicati finanzieri. In parte perché l'economia era profondamente cambiata. La prosperità del dopoguerra aveva fatto crescere la middle class (che negli Usa comprende il proletariato, ndt) e aveva ridotto il divario tra ricchi e poveri. Dalla metà degli anni '50 un terzo di tutti i dipendenti del settore privato erano sindacalizzati e gli operai avevano ottenuto aumenti generosi e nuovi benefits.
A quel punto il keynesismo era stato largamente accettato come antidoto alle crisi economiche, sostituendo la gestione della domanda aggregata all'antagonismo di classe. Persino Richard Nixon dichiarava «ora siamo tutti keynesiani». Chi aveva bisogno di populismo economico quando la politica fiscale e monetaria appianava i cicli economici e quando i dividendi della crescita erano distribuiti in modo così ampio?
Ma c'era un'altra ragione per il crescente disagio dei democratici rispetto al populismo. La guerra del Vietnam generava una nuova sinistra anti-establishment e anti-autoritaria che diffidava dello stato almeno tanto - se non di più - di quanto diffidasse di Wall street e della grande impresa. La vittoria elettorale di Richard Nixon nel 1968 fu accompagnata da una profonda frattura tra democratici liberal e New Left che continuò per decenni.
Ed ecco Ronald Reagan, il grande affabulatore, che saltò nella breccia populista. Se non fu Reagan a inventare il populismo di destra in America, per lo meno gli dette la sua voce più stentorea. «Lo stato non è la soluzione, è il problema» intonava come un ritornello. Secondo Reagan, erano i faccendieri di Washington e gli arroganti burocrati a soffocare l'economia e a impastoiare la realizzazione individuale.
Il partito democratico non ha mai riassunto le sue posizioni populiste. Certo, nel 1992 Bill Clinton vinse la presidenza promettendo di «battersi per la trascurata middle class» contro le forze dell'«avidità», ma Clinton ereditava da Reagan e George Bush senior un deficit di bilancio così colossale che non poté mettere in campo granché per la sua battaglia. Dopo aver perso la sua lotta per la riforma sanitaria, Clinton stesso annunciò che l'era del big government (il grande stato) era finita e lo dimostrò annientando il welfare state.
Non sono stati i democratici a scatenare una guerra di classe che fu invece il risultato distintivo del populismo repubblicano di estrema destra. Tutti ricordano la pubblicità repubblicana nella presidenziale del 2004 che descriveva i democratici come «tassatori, scialacquatori di fondi pubblici, bevitori di cappuccino italiano, mangiatori di sushi, guidatori di Volvo, lettori del New York Times, trafitti di piercing, amanti di Hollywood».
I repubblicani attaccarono più volte John Kerry come un «liberal del Massachusetts» membro del «set del Chardonnay e del Brie». George W. Bush sfotté Kerry perché trovava ogni giorno una «nuova nuance» sulla guerra in Iraq, con l'accento su nuance per sottolineare l'elitismo culturale francese di Kerry. «In Texas noi non nuance» diceva per raccogliere risate e applausi. Il leader repubblicano Tom DeLay apriva i suoi discorsi elettorali dicendo «Buongiorno, o, come direbbe Kerry, Bonjour».
Il Tea Party è saltato su questo tema classista. Alla Conferenza della Conservative Political Action del 2010, il governatore del Minnesota Tom Pawlenty attaccò «le élites» che credono che i Tea Partiers siano rozzi solo perché «non hanno frequentato le scuole dell'Ivy League e non si ostentano in ricevimenti a base di Chablis e di Brie a San Francisco». Dopo che suo figlio Rand Paul è stato eletto al senato per il Kentucky, il maggio scorso Ron Paul ha spiegato che gli elettori vogliono «liberarsi della gente di potere che guida lo show, la gente che pensa di essere al di sopra di tutti».
Il che ci porta al presente. Barack Obama è molte cose, ma è lontano dal populismo di estrema sinistra più di ogni presidente democratico della storia moderna. È vero: una volta ebbe la temerarietà di rimproverare «i gattoni» di Wall street, ma quella frase fu un'eccezione - che poi gli ha causato problemi senza fine con Wall street.
Al contrario, Obama è stato straordinariamente sollecito verso Wall street e la grande impresa, nominando Timothy Geithner segretario del Tesoro e ambasciatore di fatto di Wall street alla Casa bianca; facendo sì che fosse confermato Bem Bernanke, scelto presidente della Federal Reserve da Bush, e scegliendo il presidente della General Electrics Jeffrey Immelt per guidare il suo Consiglio del lavoro.
La dice ancora più lunga la non volontà del presidente Obama di mettere condizioni al salvataggio di Wall street - non chiedendo per esempio che le banche rinegoziassero i mutui dei proprietari di case in difficoltà o accettassero il ripristino del Glass-Steagall Act (del 1933 che separava nettamente tra banche di deposito e banche d'investimento), come condizioni per ricevere centinaia di miliardi di dollari di denaro dei contribuenti - cosa che ha contribuito alla nuova ondata populista.
Il salvataggio di Wall street ha alimentato il Tea Party e di certo alimenta alcune delle attuali accuse da parte di Occupy Wall street. Ciò non vuol dire che gli Occupanti non potranno avere un impatto sui democratici. Niente di buono succede a Washington - indipendentemente da quanto buoni siano il nostro presidente o i nostri deputati - finché la gente giusta non si aggrega fuori Washington per farlo succedere. La pressione da sinistra è di un'importanza decisiva. Ma è assai improbabile che il moderno Partito democratico abbracci il populismo di sinistra nel modo in cui il Gop ha abbracciato - o meglio, è stato costretto ad abbracciare - il populismo di destra. Basta seguire il denaro, e ricordare la storia.
Economista, Robert Reich è stato ministro del lavoro durante la prima presidenza Clinton. Ora è professore a Berkeley (California). Quest'articolo è ripreso dal sito www.alternet.org.
CHE cosa vogliono le migliaia di cittadini che da quasi un mese manifestano davanti a Wall Street sollevando un´ondata di protesta che interessa ormai le maggiori città americane? Come leggere questo movimento variegato che non ha leadership, non ha scopi definiti, non si lascia facilmente rubricare da un´etichetta di partito? Ha certo ottenuto l´adesione di alcuni importanti sindacati; ma non è per nulla inquadrabile in un´organizzazione gerarchica e poco inclusiva come il sindacato. Ha certo ottenuto l´adesione di alcuni esponenti democratici di prestigio (e la buona menzione del presidente Obama); ma è critico nei confronti di un partito che non ha dimostrato coraggio di fronte ai repubblicani e attenzione all´impoverimento della società americana. Ma, nonostante questi distinguo rispetto alla politica organizzata, i cittadini che manifestano non sono "mob", non sono una massa arrabbiata di americani invidiosi dei loro pochi ricchi concittadini, come gridano i repubblicani di "FoxNews". E non sono neppure una pericolosa espressione di populismo anarchico, teste calde che vogliono, ancora secondo le accuse repubblicane, dividere l´America con la lotta di classe.
In effetti la stessa espressione "populismo" è poco adatta a rappresentare questo nuovo movimento di protesta, che per la radicalità ma anche ragionevolezza degli slogan e dei messaggi assomiglia al movimento per i diritti civili degli anni ´60, quello che ha manifestato contro la guerra in Vietnam, contro la discriminazione razziale e di genere. In quelle lotte vi era il futuro. L´America di oggi è figlia di quel movimento giovanile. Sarà anche questa volta così? Per molti intellettuali e per alcuni commentatori televisivi potrebbe essere così. E quindi, l´espressione populismo (di per sé una categoria fumosa e difficile da tradurre in un concetto chiaro) è ancora meno adatta.
Populista è certamente il movimento del Tea Party, una congerie di molte delle categorie tradizionalmente associabili a questo tipo di movimento, per esempio: anti-intellettualismo o attacco ai "sapientoni" (per dirla con il Senatore Bossi) perché criticano e non si identificano con le opinioni popolari, istintive e radicali; e anti-governo o attacco alle politiche sociali che creano grossa burocrazia e mettono in moto più Stato e quindi un surplus di controllo della sfera economica. Il Tea Party si sente a suo agio con l´agenda repubblicana che da diversi decenni ha dato la sua totale adesione alla dottrina liberista, la quale addossa le responsabilità del declino economico dell'America a chi propone una più giusta distribuzione della ricchezza non a chi l´avversa, nella convinzione che se la natura degli interessi e dell´accumulazione seguisse il suo corso, a beneficiarne sarebbero tutti in proporzione. La retorica cristiana dei talenti e della responsabilità di usarli al meglio dà pathos a questa ideologia anarco-liberista, che si sente autorizzata dal Vangelo a svolgere la sua propaganda contro lo Stato, luogo satanico del potere e contro coloro che pensano di usarlo per una buona causa di giustizia. Dunque, anti-razionalismo, anti-intellettualismo, anti-governo: ecco gli ingredienti del populismo dei Tea Party. Il quale non è soltanto un movimento di protesta, ma è un movimento con un´agenda politica ben precisa, come il Congresso americano uscito dalle ultime elezioni sta dimostrando. Certo, il Tea Party non è unito sotto la guida di un leader carismatico e in questo non è simile ai populismi europei. È federalista come il Paese nel quale è nato, diramato attraverso le chiese evangeliche, riunito sotto i vari predicatori che mettono insieme l´omelia ogni domenica.
Occupy Wall Street non ha nulla di tutto questo. Ed è questa la ragione dell´incredibile attacco dei leader del Tea Party, i quali hanno annusato molto correttamente che questi manifestanti non hanno nulla da spartire con loro. Occupy Wall Street è un movimento spontaneo, e quindi democratico nel senso più elementare del termine, perché ispirato a ideali di auto-governo e di eguaglianza di cittadinanza. Lo slogan "Noi siamo il 99%" non intende fare guerra all´1%, cioè ai miliardari. Non è l´invidia che li guida come ha sostenuto un candidato repubblicano. Lo slogan chiede più semplicemente che chi ha più deve più contribuire anche perché quel di più lo ha in ragione di politiche adottate dai governi americani dalla fine degli anni ´70. Politiche alle quali tutti hanno obbedito e che però hanno favorito non tutti allo stesso modo. E non a causa dei talenti che il Signore distribuisce diversamente, ma di una mirata e sistematica politica della diseguaglianza.
L´equità fiscale non è proprio un obiettivo rivoluzionario. Se così appare è perché le diseguaglianze economiche e sociali sono ormai così radicali da aver dato vita a due popoli, un po´ come nell´antica Atene: anche oggi, gli oligarchi, benché dentro il sistema democratico, scalpitano per avere privilegi e non sottostare alla regola dell´eguaglianza. Occupy Wall Street mette in luce questa antica e sempre nuova lotta tra oligarchia e democrazia. Soprattutto, mostra come la seconda non sia semplicemente una forma di governo, ma anche un ideale, una visione di società che quando le diseguaglianze si radicalizzano, come ora, non riesce più ad avere il consenso di tutti. L´1% simbolico – i super miliardari – sta a significare che alcuni sono fuori dal patto democratico dell´eguaglianza. È questa la radicalità di Occupy Wall Street.
A chi è indirizzata questa radicalità? Qual è la relazione di questo movimento democratico con la democrazia delle istituzioni? Queste domande mettono in luce la crisi profonda di rappresentatività delle istituzioni democratiche. Occupy Wall Street non ha specifici obiettivi se non uno: entrare in comunicazione con coloro che operano nelle istituzioni, i quali hanno da anni spento l´auricolare e sono, come si dice in Italia, auto-referenziali. Dall´interno dei parlamenti non si vuole ascoltare. La scollatura tra dentro e fuori delle istituzioni democratiche è preoccupante e, purtroppo, non è destinata a risanarsi velocemente. Questo movimento chiede dunque una ricostituzione della rappresentanza politica. Sfida gli eletti nel nome dell´autorità dell´ascolto. E ha senso occupare le piazze fisiche, visto che quelle mediatiche sono interessate a mettere una cortina di silenzio sulle opinioni dei cittadini. Se c´è un contributo che Occupy Wall Street può dare è quello di creare un clima politico finalmente di attenzione; di costringere chi si occupa delle politiche nazionali a non girare le spalle a coloro che di quelle politiche devono subire le conseguenze. Si tratta di un richiamo ai principi democratici, dunque: a quella promessa di libertà e giustizia per tutti che è scritta nelle nostre costituzioni.
L’egemonia culturale della destra conduce ad assumere, nel linguaggio corrente, l’espressione “lotta di classe” come significativa di una volontà di ribellione contro l’ordine sociale e i ceti benestanti. Viene adoperata come un manganello per colpire, dileggiare, screditare le proteste contro qualsivoglia Palazzo, soprattutto quello dominato dall’economia data. In realtà il termine ha un significato del tuto diverso. Nell’analisi di Marx essoesprime il fatto che il contrasto tra gli interessi del capitale (aumentare i profitti9 e quelli del proletariato (aumentare il salario) oggettivamente confliggono. Il conflitto quindi (la “lotta di classe”) è implicito nel sistema capitalistico. Qualche tempo fa si diceva, in qualche ambiente della sinistra, che la lotta di classe era finita, perché l’avevano vinta gli altri. Evidentemente non è così, la crisi del finanzcapitalismo, e il modo in cui il Palazzo globale vuole uscirne, rende trasparente il fatto che il conflitto (la lotta di classe) c’è, e gli altri stanno picchiando ancora più forte di prima. Il popolo, anche a Manhattan, se ne accorge. Ciò spaventa chi detiene il potere: squarciare il velo che copre la realtà del sistema è un oltraggio intollerabile. Ecco quindi l’anatema: dagli all’untore, che predica e vorrebbe praticare la “lotta di classe”.
Con gli esecutivi di centro destra l'esposizione è cresciuta del 13,5% contro una media del 5,1%. Dal 1982 lo stock è passato dal 63,1% al 121,8% del Prodotto interno lordo
Silvio Berlusconi
ROMA - Da quando Silvio Berlusconi è sceso in politica, nel 1994, sotto i sui tre governi, il debito pubblico è cresciuto più del doppio rispetto agli esecutivi guidati dai suoi avversari.
Negli ultimi 17 anni, Berlusconi è stato presidente del consiglio per quasi la metà del tempo registrando un incremento complessivo del debito pubblico del 13,5%. Molto più del 5,1% registrato sotto la guida degli altri quattro primi ministri: Lamberto Dini, Romano Prodi (due volte), Massimo D'Alema e Giuliano Amato.
Il 13 settembre scorso, a Strasburgo, in Francia, Berlusconi spiegò di aver ereditato il debito dalle amministrazioni che lo avevano preceduto. Il fardello del debito è quasi raddoppiato tra il 1982, quando ammontava al 63,1% del Pil, e il 1994, quando sotto il primo governo guidato da Berlusconi arrivò al 121,8%. Nel 2007, con Romano Prodi a Palazzo Chigi, il debito è sceso al 103,6%, al livello più basso dal 1991.
"Berlusconi non è stato certo aiutato dalla recessione che lo ha colpito mentre era al governo e dagli alti tassi di interesse che hanno aumentato il costo del debito" dice Paolo Manasse, professore di economia all'Università di Bologna. "Tuttavia - prosegue Manasse - con Berlusconi la spesa pubblica è sempre aumentata, anche negli anni di crescita economica e questo, insieme a scelte come quella di abolire la tassa sulla proprietà nel 2008, ha contribuito ad aumentare il debito pubblico".
Le tre principali agenzie di rating hanno recentemente tagliato il giudizio sullo stock italiano, proprio mentre il Paese sta lottando per evitare di essere contagiato dalla crisi europea dei debiti sovrano cercando di portare il proprio sotto il livello 120% del Pil. Il fardello più alto d'Europa, dopo la Grecia.
L'8 agosto scorso la Banca Centrale europea ha iniziato a comprare titoli di Stato italiani dopo che i rendimenti erano schizzati alle stelle e la Grecia si avvicinava al fallimento.
L'immagine è tratta dal sito Bloomberg news online