Signor Presidente, In queste ore nelle quali, grazie alla sua intelligenza e sagacia politica, il Paese sembra avviato a ritrovare un percorso democratico e riformatore positivo, le associazioni che si battono per la tutela si rivolgono a lei e al presidente incaricato affinché la responsabilità dei Beni e delle Attività Culturali venga affidata ad una persona di alto profilo culturale e morale, di sicura competenza politico-amministrativa e di provata autonomia rispetto alle due più recenti, negative gestioni del Ministero stesso.
La situazione del MiBAC è infatti delle più desolanti da ogni punto di vista: risorse ridotte al livello della mera sopravvivenza, investimenti ormai quasi inesistenti, tecnici ministeriali, in assenza di concorsi, drammaticamente insufficienti di numero oltre che anziani, promosse ad alti livelli dirigenziali persone bocciate nei rari concorsi ledendo ogni meritocrazia, decine di Soprintendenze gestite pertanto ad interim, commissariamenti diffusi e in più di un caso altamente dannosi, co-pianificazione paesaggistica Ministero-Regioni praticamente ferma in un Belpaese aggredito dalla speculazione, educazione sempre più inadeguata al rispetto e alla fruizione del patrimonio storico-artistico e del paesaggio, e l’elenco potrebbe purtroppo continuare a lungo.
Anche da tale elenco sommario si evince l’assoluta necessità di porre alla guida del MiBAC una persona di grande autorevolezza morale, culturale e politica la quale, ripetiamo, nulla abbia avuto a che fare col più recente passato e possa dare pertanto un chiaro segnale di discontinuità.
Confidiamo, signor Presidente, nel suo comprovato amore per la cultura e per la bellezza, nella sua illuminata saggezza, nel suo raro senso dello Stato e le auguriamo i migliori risultati in quest’opera tanto difficile quanto meritoria.
Vittorio Emiliani, Desideria Pasolini dall’Onda, Vezio De Lucia per il Comitato per la Bellezza
Marisa Dalai, presidente Associazione “R. Bianchi Bandinelli”
Alessandra Mottola Molfino, presidente nazionale di Italia Nostra
Fulco Pratesi presidente onorario del Wwf-Italia
Edoardo Salzano e Maria Pia Guermandi per Eddyburg
Titolo originale: The Food Revolution and Its Impact on Real Estate – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Cosa può contribuire insieme a fermare il riscaldamento globale, dar da mangiare a chi ne ha bisogno, renderci più sani, e aumentare il valore degli immobili? In una sessione da tutto esaurito nel recente convegno autunnale Urban Land Institute di Los Angeles abbiamo appreso che la risposta al problema è l’agricoltura a base locale. Negli Stati Uniti spesso si considera ciò che mangiamo senza conferirgli particolare importanza, dove lo si coltiva, come viene prodotto. Ma come sta imparando anche il settore delle costruzioni, il cibo può avere grossi effetti anche sul successo o meno di importanti progetti edilizi, specie in questi tempi economicamente problematici.
Il convegno “Rivoluzione alimentare e ricadute sul settore immobiliare” ha proposto tre diversi esempi di quanto il tema si stia imponendo non solo nella nostra dieta, ma anche sui quartieri. Coordinata dall’esperta californiana California di marketing Beth Callender, l’assise ci ha fornito spunti di riflessione sul ruolo del cibo come fattore di miglioramento dei complessi edilizi, strumento per costruire identità e comunità, marchio che può caratterizzare un progetto.
Si parte con la presentazione di Christian Meany, associato del costruttore di San Francisco Wilson Meany Sullivan. Nel 1998, la Wilson Meany Sullivan è stata scelta dal Porto di San Francisco per riqualificare il Ferry Building, famoso complesso della città affacciato sul mare.
Affidato in concessione per 66 anni e trasformato, il Ferry Building è uno straordinario esempio di riuso pubblico-privato. I lavori sull’edificio del 1898 hanno riguardato il ripristino della facciata storica occidentale, della torre campanaria e Grand Hall alta 201 metri. Ma l’elemento che ha davvero determinato la rinascita di tutta l’area è stato il mercato alimentare in stile europeo al pianterreno, che attirando più di un milione di visitatori l’anno ne ha fatto una delle mete principali di tutta San Francisco. Prima è stato trasferito lì con accordi specifici un farmers market già esistente. Questo a sua volta ha attirato altri esercenti. Oggi complessivamente il mercato garantisce un gettito di quasi 13.500 dollari al metro quadro.
Il secondo intervento è stato quello di Brent Herrington della DMB Associates e presidente di Kukuiula Development Company. DMB opera dall’Arizona ed è una compagnia immobiliare diversificata con tradizione sia nei complessi terziario-commerciali, che turistici e per il tempo libero, che di quartieri residenziali in tutto l’ovest degli Stati Uniti. La relazione di Herrington si è concentrata sul ruolo dell’agricoltura in un complesso turistico di lusso. Con una consolidata esperienza in fatto di ampi spazi a verde e aperti, per quartieri come DC Ranch e Verrado, entrambi in Arizona, la DMB sta oggi realizzando Kukuiula, villaggio vacanze a bassa densità su un’area di 405 ettari nell’isola hawaiana di Kauai. Come gran parte di questi interventi di lusso, anche Kukuiula comprende un classico campo da golf, luogo di riunione, complesso termale-benessere, la cosa particolarissima però qui è rappresentata dalla fattoria a gestione comune su 4 ettari. Affacciata su un lago che copre altri 9 ettari, produce banane, papaye, bietole, agrumi, erbe aromatiche, ananas, rucola, alberi del pane e altro.
C’è un piccolo gruppo di dipendenti, ma sono in molti gli abitanti che hanno scelto di sporcarsi le mani con lavoro volontario sulla terra, o altri che semplicemente se ne stanno a contemplare, godendosi però poi i prodotti a tavola. Impressionante la varietà di frutti fiori, verdure che si riesce a produrre in così poco spazio, ma ancor più impressionante quanto abbia pesato la fattoria sulla scelta degli acquirenti e l’immagine del villaggio, spendendo relativamente poco(circa un milione di dollari), specie se la si paragona agli altri costosi servizi come il campo da golf, il club, o la spa (qui siamo sui 100 milioni).
L’ultima relatrice è stata Sibella Kraus, presidente di Sustainable Agriculture Education (SAGE) a Berkeley, California. All’inizio degli anni ’80 la Kraus era una cuoca al famoso ristorante Chez Panisse, poi ha iniziato a impegnarsi nella divulgazione dell’agricoltura di prossimità. SAGE opera nel campo delle coltivazioni urbane e della partecipazione degli abitanti in una prospettiva di sostenibilità. Secondo la Kraus, agricoltura urbana non significa solo far crescere delle cose, ma anche rafforzare la comunità. Ci ha raccontato come sempre più quartieri in città diverse stiano sviluppando esperienze del genere, a partire da un “greenprint” [gioco di parole su blueprint, che significa il lucido di un progetto n.d.t.]. Un greenprint a scala regionale individua gli spazi in cui è possibile investire in aree aperte, nello stesso modo in cui si fa con gli investimenti immobiliari.
Si mangia ogni giorno, e pare del tutto logico che si avvicini il più possibile a casa la produzione alimentare, specie se si pensa al’impronte ecologica che deriva dal trasporto e distribuzione. Come ama ripetere James Howard Kunstler, “É finita l’era dell’insalata mista che viaggia tremila chilometri”. La Kraus è sembrata particolarmente convinta dell’importanza di collegare agricoltura, tutela naturale, educazione ambientale, in un sistema di parchi agricoli, cinture produttive, zone di conservazione. Ha raccontato le esperienze in corso di food belt periurbana a Fresno e altre città della California. Ha trattato il tema dell’agriturismo sollecitando le amministrazioni a distinguersi proprio sul “sapore del luogo”.
Quando riflettiamo sul futuro del settore immobiliare, quindi è evidente come alimentazione e agricoltura diventino sempre più importanti, e anche convenienti.
I «padroni dell'universo». Un soprannome modesto per gli uomini di punta di Goldman Sachs (GS). Una banca d'affari con 142 anni di vita, più volte sull'orlo del baratro, da sempre creatrice di conflitti di interesse terrificanti, da far impallidire - per dimensione e pervasività - quelli berlusconiani.
Famosa per «prestare» i propri uomini alle istituzioni, quasi dei civil servants con il pessimo difetto di passare spesso dalla banca privata ai posti di governo. Come peraltro i membri della Trilaterale o del Bilderberg Group. Mario Monti è uomo accorto: è presente in tutti e tre. Per GS ha fatto finora l'international advisor, come anche Gianni Letta, dal 2007, nonostante il ruolo di governo. Cos'è un advisor? Beh, è un consigliere; una persona in grado di indicare a una banca internazionale i migliori affari in circolazione. Specie quando uno Stato deve privatizzate le società pubbliche. Sta nella buca del suggeritore, ma può diventare premier... E G&S ha comunicato ai mercati in tal caso lo spread per i Btp italiani calerebbe a 350 punti in un lampo.
È la banca che ha inventato (subito copiata dalle altre) i prodotti derivati, quei 600mila miliardi di dollari virtuali che stanno strangolando il mondo. Che ha aiutato i conservatori greci a nascondere lo stato reale dei conti pubblici davanti alla Ue. Che ha mandato l'amministratore delegato Henry Paulson, nel 2006, a fare il ministro del tesoro di Bush figlio. Dopo il crack di Lehmann Brothers inventò il piano Tarp: 700 miliardi di dollari statali per salvare le banche private anche a costo di far esplodere il debito pubblico Usa. G&S riuscì in quel caso a intascare buona parte dei 180 miliardi destinati al salvataggio di Aig, gruppo assicurativo. Prima di lui era stato su quella poltrona Robert Rubin, con Clinton presidente; c'era poi tornato molto vicino, con Obama, ma dovette lasciare quasi subito il team economico: troppo evidente il suo doppio ruolo. Robert Zoellick è invece partito da G&S per coprire decine di ruoli per conto dei repubblicani, fino a diventare 11° presidente della Banca Mondiale.
Ma anche gli italiani si difendono bene. Romano Prodi era stato lui advisor, prima di tornare all'Iri per privatizzarla e spiccare quindi il volo verso la presidenza del consiglio, per ben due volte. Al suo fianco, negli anni, Massimo Tononi, ex funzionario della sede di Londra e quindi sottosegretario all'economia tra il 2006 e il 2008.
Ma il più noto è certamente Mario Draghi. Dal 2002 al 2005 è stato vicepresidente e membro del management Committee Worldwide della Goldman Sachs; in pratica il responsabile per l'Europa. Ha lasciato l'incarico per diventare governatore della Banca d'Italia e prendere la presidenza del Financial Stability Forum (ora rinominato Board), incaricato di trovare e mettere a punto nuove regole per il sistema finanziario globale. Compito improbo, che ha partorito molte raccomandazioni ma nessun risultato operativo di rilievo (le regole di Basilea 3 sono tutto sommato a tutela della solidità delle banche, non certo limitative di certe «audacie» speculative).
Dall'inizio di questo mese siede alla presidenza della Banca Centrale Europea, ma prima ancora di entrarci aveva scritto e poi fatto co-firmare a Trichet - la lettera segreta con cui il governo veniva messo alle strette: o le «riforme consigliate» in tempi stretti o niente acquisti di Btp. Forse rimpiange di ver lasciato il Financial Stability Board. Ma non deve preoccuparsi: al suo posto Mark Carney, governatore della Banca centrale canadese. Anche lui, per 13 lunghi anni, al fianco dei «padroni dell'universo» targati Goldman Sachs.
Quelle pagine di pubblicità – che ci hanno messo in conto – saranno ricordate pure per la delusione dei fans di Cappellacci. Dopo il rullo di tamburi e le trombe a tutto fiato si aspettavano il seguito, la spiegazione tempestiva e inconfutabile: la prova che il “partito del no” aveva torto a difendere spiagge e scogliere non più bellezze uniche ma merci da mettere senza rimpianti nel frullatore del mercato. Non c'è stato il colpo di scena, lo schiaffo al lavoro degli esperti del tempo di Soru. Il [nuovo] Ppr è ancora una bozza ufficiosa e parziale, senza una spiegazione.
Le ragioni dell'attesa sono evidenti: il Ppr deve inquadrare le due leggi (piano-casa e golf). Così lo strumento sovraordinato, di interesse europeo, è qui ridotto al rango di spalla, e nella sarda commedia aspetta e appoggia le battute di altri. Deve aggiustare le contraddizioni dei due provvedimenti che altrimenti non resisterebbero in nessun giudizio. E non è detto resistano, come lascia intendere l'intervista del ministro Galan al Sole24ore del 2novembre. Ma attenzione, l'obiettivo potrebbe essere il cortocircuito, una fase di destabilizzazione comoda per chi volesse approfittarne.
Sul Ppr Cappellacci non offre una nuova visione. Conserva il vecchio impianto debilitandolo in più punti, aprendo varchi, pure nelle fasce tutelate già negli anni Settanta del secolo scorso, che diventeranno voragini secondo l'uso che si farà di norme ambigue come quelle nel piano-casa1. Si annuncia la tutela nei titoli con ritrattazione nelle successive pagine. Come una manovra finanziaria che accoglie migliaia di esigenze incompatibili o la giustizia resa flessibile e ad personam.
Nelle due leggi, diverse e complementari, è scritto il programma di governo del territorio secondo la destra o una parte di essa. Il piano-casa, alla terza edizione, ha un suo costrutto ideologico nel versante populista, accoglie interessi diffusi. E' ad ampio spettro contro i vincoli, come si dice per gli antibiotici. Dà un permesso generale che ha il suo lato ragionevole nel proposito di combattere le regole intricate che rendono difficile aprire una finestra e facili le speculazioni – che però, a ben guardare, saranno le più garantite.
La legge sul golf è un mezzo rozzo e approssimativo (al punto che, appena approvata, ha bisogno del soccorso triangolare di piano-casa3 oltre che di Ppr). Una mistificazione senza estro che non entrerà nella lista dei grandi fantasiosi trucchi della Storia (dal cavallo di Troia all' affare Dreyfus al milione di posti di lavoro di B). Starà tra i tentativi di aggirare i vincoli paesaggistici a favore di pochi, con il pretesto dello sviluppo in tempo di crisi. Farà il paio con l' “accordo di programma” introdotto nella pianificazione del 1993, a vantaggio di una cinquina di investitori e inapplicato (quegli strumenti, è bene ricordarlo, sono stati cassati con ignominia perché simulavano la tutela a fronte di una legge meno severa del recente Codice dei beni culturali).
Curioso metodo: più esche metti e più golfisti arriveranno (i quali, dicono le statistiche, sono vacanzieri di prima classe come i pellegrini sono una sottoclasse del mercato turistico). Da qui, per accontentare quelli che l'hanno votata, l'idea di una distribuzione equa dei campi: che però si faranno, come sanno tutti, dove l'investimento edilizio è più conveniente. Dove sarà più vantaggioso vendere le case, difficilmente ai golfisti giramondo.
Preoccupa la replica, l'estensione di una legge così sconsiderata: per insediamenti legati alla vela, al trekking, al calcetto o semplicemente alla balneazione. Preoccupa questa mancanza di rigore. Un modo di fare approssimativo e impressionante. Impressiona soprattutto lo scarto tra le immagini terribili dei luoghi devastati nei giorni scorsi, il riconoscimento che la manomissione dei suoli ha contribuito ai disastri, e la determinazione di Cappellacci che frena i dubbi di qualche consigliere regionale perché o il piano-casa o la crisi. Così è a Cagliari, per ora.
Si veda anche Cappellacci vuole rifare il piano paesaggistico della sardegna e Cappellacci e la pubblicità in cemento.
Un convegno molto utile per capire, a San Casciano. Flavio Cattaneo (amministratore delegato Terna), Roberto Colaninno (presidente Alitalia), Vito Gamberale (amministratore delegato del fondo F2i, specializzato in investimenti in reti e infrastrutture), Mauro Moretti (amministratore delegato ferrovie italiane). Quattro nomi che interverranno nella giornata conclusiva del convegno "Le reti che fanno crescere l'Italia". Quattro nomi che rappresentano il ponte di comando delle infrastrutture italiane e dei relativi interessi e fin qui siamo all'ordinario lobbismo; ma che assumono un significato particolare se vi aggiungiamo Massimo D'Alema, Riccardo Conti e il ministro Altero Matteoli, i politici che parleranno insieme agli 'imprenditori'. La sede prescelta del convegno, che si terrà dal 10 al 12 novembre, è non casualmente San Casciano in Val di Pesa, il comune la cui pessima gestione del caso Laika per dichiarazione di Conti viene rovesciata in modello esemplare.
Il significato politico dell'incontro è del tutto evidente. Si vuole proporre un tipo di governance basato sull'intreccio fra (presunti) interessi pubblici e interessi privati alimentati con i soldi dei contribuenti. Il tutto in nome di una modernizzazione che ignora i problemi del territorio, della crescente scarsità delle risorse e che neanche i disastri e le alluvioni degli ultimi giorni riescono a riscuotere dal tetragono procedere verso l'insostenibilità sociale ed economica (oltre che ambientale). Una politica che vede il futuro della Toscana nel ruolo di piattaforma logistica dei trasporti e dei traffici nord-sud (meno di quelli est-ovest ha detto Conti con una puntatina di dissenso rispetto a precedenti dichiarazioni del presidente della Regione - quest'ultimo è solamente intervistato nella tre giorni). Un' iniziativa della parte più conservatrice del Pd a difesa delle posizioni di potere nella roccaforte, o presunta tale, toscana e chiaramente contro le timide aperture del governo regionale e la politica riformatrice dell'assessore al territorio, Anna Marson. Riccardo Conti, l'organizzatore, qui si presenta come vicepresidente dell'Associazione Romano Viviani a braccetto con la Fondazione Italianieuropei di Massimo d'Alema. Ma di fatto il suo ruolo è di coordinatore nazionale per le infrastrutture nel Pd, di consigliere di amministrazione di F2i (guarda caso) in rappresentanza del Monte dei Paschi di Siena e, sempre per la 'banca rossa' di consigliere amministrazione della società G6Rete Gas acquistata dal fondo F2i che diventa così il secondo distributore di gas in Italia, dopo Eni. Il tutto con la benedizione di Altero Matteoli, che di Conti condivide gli stessi interessi infrastrutturali e la stessa idea di una governance territoriale fatta da imprenditori e di politici cointeressati che fanno da riferimento a cooperative rosse e costruttori privati.
Notevole il fatto che nei tre giorni, per lo più popolati da politici e amministratori del Pd cresciuti nelle botteghe del partito e perciò sconosciuti alla società, siano stati invitati docenti universitari di vari atenei nazionali, ma non un solo docente toscano, nel momento che le Università di Firenze, Pisa, Siena formano una rete di atenei per la revisione del Piano di indirizzo territoriale, che a sua volta avrà qualcosa da dire su quali siano le reti che fanno crescere la Toscana. Ma ancora più notevole il fatto che non si accenni, nell'intervista di Conti apparsa su Metropoli (giornaletto locale di proprietà del coordinatore del Pdl Denis Verdini, che qui funge da cassa di risonanza del Pd), né ai movimenti e ai comitati che in Toscana sono attivi, non per contrastare, ma per qualificare in senso moderno, sostenibile e non cementizio lo sviluppo della reti (soprattutto immateriali), né all'opportunità e necessità di partecipazione dei cittadini.
D'altronde la politica come ramo specialistico delle professioni intellettuali che non deve essere condizionata dal 'popolo', vale a dire è sorda nei confronti della società civile, è il nocciolo del pensiero politico di D'Alema. Da qui le alleanze con i vari Matteoli, le pericolose frequentazioni dei Pronzato e dei Penati, il prolungato appeasement nei confronti di Berlusconi. E la triplice veste di Conti - che Bersani continua a ignorare - con i suoi corposi conflitti d'interessi, dà un pessimo segnale di contro-rinnovamento (dove il rinnovamento non è certo quello ultraliberistico di Renzi) e delude chi ancora spera nelle capacità del partito democratico di liberarsi dai condizionamenti delle conventicole affaristiche.
Quando la nausea mi assale succhio uno spicchio di limone. Quando ascolto storie come questa torno a leggere questo testo. Lo consiglio anche a voi
Mettiamo che tutto vada liscio nella road map delineata dal presidente della Repubblica, e sostenuta pure dal presidente degli Stati uniti. Mettiamo pure che tutto, oltre che liscio, vada per il meglio: che Mario Monti riesca a risollevare i conti pubblici e ad abbassare lo spread facendo il contrario di quello che è prevedibile che faccia, cioè con la patrimoniale, senza macelleria sociale, senza vendere il Colosseo e rilanciando l'occupazione, la produzione e i consumi. Mettiamoci infine l'auspicio che dal suo governo nasca una legge elettorale accettabile. Bene, anche in questo scenario fantascientifico i danni collaterali dell'operazione sarebbero, come quelli delle cosiddette operazioni di polizia internazionale, superiori ai risultati, e tali da compromettere gravemente l'uscita dal ventennio berlusconiano. Se ne contano, allo stato attuale, almeno tre, con conseguenti corollari e paradossi.
Primo danno, la fine, politicamente certificata, dell'autonomia della politica. La piramide istituzionale italiana si consegna, per mano del suo massimo vertice, alla governance economica europea e mondiale. La quale, ormai l'abbiamo capito, non avrà pace finché non piazzerà dei propri uomini alla guida dei paesi più esposti alla crisi dell'Eurozona: così in Italia con Monti, così in Grecia con Papademos. E' ovvio che per legittimare questa situazione vengano mobilitate tutte le ragioni emergenziali possibili, e in parte indiscutibilmente reali, dall'insostenibilità del debito al crollo di credibilità dell'Italia. Il ragionamento però, come sempre quando impazza la psicologia dell'emergenza, andrebbe ribaltato: come siamo arrivati a questa situazione? E perché, mentre ci si arrivava, non è stata né tentata né concepita una strada per uscire dallo stato terminale della politica con la politica, se non per dare qualche risposta almeno per intralciare con qualche domanda le mosse rovinose dell'economia e dei cosiddetti mercati?
La risposta sta nel secondo danno collaterale, che è la resa incondizionata, e per giunta fuori tempo massimo, alla religione neoliberista. Che impera in tutto l'Occidente da oltre un trentennio, ci ha portato alla catastrofe economico-finanziaria degli ultimi quattro anni e ha ormai come obbiettivo, anche questo l'abbiamo capito, non il condizionamento ma l'asservimento, se non l'azzeramento, della politica tout court: il capitale ha deciso che deve governare direttamente, senza alcuna mediazione, né degli stati né dei governi né dei parlamenti. Però mentre negli Stati uniti la presidenza Obama ha perlomeno messo in scena, pur perdendolo, un conflitto fra primato dell'economia e primato della politica (conflitto oggi peraltro ottimamente alimentato da Occupy Wall Street), l'Europa incarna nella sua stessa architettura, monca di una Costituzione e di istituzioni politiche credibili, una forma inedita di sovranità economica assoluta.
In Italia, la congiuntura - indubbiamente assai difficile - che vede coincidere la fine del ventennio berlusconiano con la resa dei conti del trentennio liberale avrebbe potuto offrire l'occasione per uscire dall'uno e dall'altro con una sostanziale inversione di rotta. Senonché qui viene in primo piano un nodo finora sottaciuto del fronte antiberlusconiano. Nel quale hanno troppo a lungo e troppo pacificamente convissuto due tendenze opposte: quella che dal berlusconismo vuole uscire uscendo altresì dal liberismo, e quella che viceversa ne vuole uscire con un liberismo più affilato, ancorché più presentabile, di quello che Berlusconi è riuscito a praticare. Il risultato è il passaggio dal feticismo della merce (e del corpo-merce) di Berlusconi al feticismo dei mercati fatto proprio dalla sinistra liberaldemocratica.
Vale allora la pena almeno di accennare, pur senza poterlo sviluppare, a un punto concettuale che oggi diventa politicamente decisivo. Solo in Italia la distinzione lessicale fra liberismo e liberalismo alimenta l'illusione di una distinzione concettuale e politica fra i due termini che oggi, e non da oggi, non si dà. Come molti - da Michel Foucault a Wendy Brown a Luciano Gallino nel suo ultimo libro - hanno ampiamente dimostrato, quello che in Italia chiamiamo neoliberismo, e che altrove si chiama neoliberalismo, non è una dottrina meramente economica che lascia immune il liberalismo politico classico o che può esserne corretta: è una dottrina economica e politica che estende la forma dell'impresa alla società e alle istituzioni, e che la liberaldemocrazia se la sta semplicemente ingoiando, su una sponda e sull'altra dell'Atlantico. Lo stato d'eccezione che a turno ci è toccato o ci tocca sperimentare - negli Usa di Bush di ieri sotto l'emergenza antiterrorismo come nella Grecia e nell'Italia di oggi sotto l'emergenza della crisi - ne sono una diretta conseguenza, prima o poi destinata all'implosione.
Il terzo danno collaterale riguarda la Costituzione italiana e riporta d'attualità il discorso, di fatto archiviato, su quella europea. Non è per caso, in questo scenario di neoliberismo trionfante, che la seconda non sia mai nata, e che la prima traballi da anni. Una ripresa di iniziativa politica continentale dal basso per la Costituzione europea sarebbe oggi l'unica risposta adeguata all'Europa della Bce e del duo Merkel-Sarkozy, e l'ultimo a essere insensibile al tema sarebbe lo stesso Giorgio Napolitano. Del quale, per venire alla Costituzione italiana, non è certo in discussione il ruolo di garante fin qui svolto. Non si può tuttavia eludere il fatto che l'Italia ha vissuto negli ultimi anni, sotto l'emergenza della «anomalia» berlusconiana, una sorta di regime di coabitazione semipresidenzialista che non mancherà di lasciare traccia per il futuro, e che altri in futuro potrebbero interpretare in modo meno commendevole. Così come non mancherà di lasciare traccia l'inedito istituto delle dimissioni a tempo del presidente del Consiglio, e l'eclissarsi del ruolo del parlamento e dei partiti in una situazione straordinaria come quella attuale.
Con il che torniamo al punto di partenza, non senza enumerare i paradossi in partenza accennati. Per paradosso, all'esito di questa situazione la bandiera dell'autonomia della politica viene impugnata da chi l'ha maggiormente affossata sostenendo un regime come quello berlusconiano in cui politica ed economia erano indistinguibili (si veda la manifestazione annunciata per oggi dal Foglio, Libero e il Giornale). E la bandiera della critica all'Europa tecnocratica viene impugnata da chi, come la Lega, dell'Europa politica è sempre stato acerrimo nemico. Un rovesciamento delle parti in cui noi stessi, al manifesto, non ci sentiamo propriamente a nostro agio, ma tant'è.
Ancora un punto, quello che in queste ore appassiona di più le cronache. Giustamente, da parte delle posizioni sia Pd sia Pdl più caute nell'appoggiare la soluzione-Monti, viene la richiesta che se governo tecnico dev'essere, che lo sia davvero: che sia composto di tecnici, che non coinvolga i partiti più del necessario e del dovuto, che abbia un programma definito e un tempo limitato. E' una cautela consapevole del big bang che questo governo può innescare nei singoli partiti e nelle coalizioni sia di centrodestra sia di centrosinistra, e nello stesso bipolarismo. Un big bang che tuttavia di tutti i danni non sarebbe certo il maggiore, e anzi forse non sarebbe un danno. Sotto di esso però, neanche tanto nascosto, c'è un altro pericolo: che il passaggio-Monti serva a ratificare definitivamente quel ruolo ancillare del Pd rispetto a un equilibrio centrista garante dei «poteri forti» al quale fin dall'89 si tenta di inchiodare il resto di quella che fu la più grande sinistra d'Occidente. E non è un affatto un caso che questo nodo torni al pettine all'uscita dall'anomalia berlusconiana, come ultimo e decisivo atto della «normalizzazione europea» del laboratorio italiano.
Prima o poi, a chiunque di noi potrà capitare di sentirsi rivolgere una domanda dai nostri figli, nipoti o pronipoti: ma come avete fatto, tra il 1994 e il 2011, a fidarvi di Silvio Berlusconi uomo politico e capo del governo, a sopportarlo per 17 anni? Tanto vale, allora, cominciare a prepararsi e provare a rispondere.
Ora che il regime televisivo èarrivato alla fine, mentre spunta l´alba di una nuova Liberazione e speriamo anche di una nuova ricostruzione nazionale, quel sortilegio che ha condizionato per quasi un ventennio la vita pubblica italiana appare sempre più incomprensibile e inspiegabile. E non solo agli occhi degli avversari, ma anche di molti (ex) fan, supporter o addirittura berluscones di antica e provata fede.
Il fatto è che la "sindrome di Arcore", come quella di Stoccolma che fa innamorare il rapito o la rapita del suo carceriere, ha fatto innamorare gli italiani - o almeno una larga partedi essi - del loro tiranno mediatico. Non sarebbe corretto attribuire questa infatuazione collettiva soltanto alla televisione, al potere o allo strapotere mediatico che il Cavaliere ha esercitato sulla società italiana a partire dalla metà degli anni Ottanta, cioè dall´avvento della tv commerciale, ben prima della sua fatidica "discesa in campo".
Nessuno ha mai sostenuto che Berlusconi abbia vinto per tre volte le elezioni solo per le sue televisioni. Ma, in mancanza di controprove, si può legittimamente ipotizzare che forse senza le tv non le avrebbe vinte.
È certo, comunque, che il fenomeno ha contagiato purtroppo anche una parte degli avversari, in un processo imitativo e mimetico che non ha risparmiato neppure alcuni settori ed esponenti della sinistra. Quella che occorre, allora, è innanzitutto una svolta nella vita civile del Paese, un´alternativa culturale e sociale, non soltanto un cambio di governo. Ecco perché la personalizzazione della politica, favorita dalla rappresentazione mediatica e in particolare dalla spettacolarizzazione televisiva, a questo punto deve cedere il passo all´elaborazione dei contenuti, dei programmi, delle idee.
Per evitare dunque che il post-berlusconismo risulti anche peggiore del berlusconismo, occorre inoculare nel corpo sociale quelli che Paolo Sylos Labini chiamava gli "anticorpi", da cui ha preso il titolo una riuscita collana dell´editore Laterza. E cioè, la capacità d´indignarsi e di reagire, l´intransigenza, la trasparenza, l´onestà pubblica e privata. Una vaccinazione di massa, insomma, per rafforzare le difese immunitarie contro i virus endemici della corruzione, del clientelismo, del populismo mediatico, della demagogia, del trasformismo che tende a degenerare nel camaleontismo.
È dal sistema della comunicazione che bisogna partire per rivitalizzare il rapporto tra informazione e democrazia, in modo da regolare attraverso il controllo dell´opinione pubblica l´aggregazione e la raccolta del consenso, per garantire un effettivo pluralismo. A cominciare, naturalmente, dal servizio pubblico radiotelevisivo che ne è l´architrave portante.
La tv continua a rappresentare in Italia il veicolo di gran lunga prevalente per l´informazione: quasi il 90%. E le sei reti generaliste di Rai e Mediaset detengono ancora una quota di oltre il 73% di share medio giornaliero. Nel complesso, la televisione rastrella così il 44,8% delle risorse pubblicitarie, rispetto al 15,4% dei quotidiani e al 12,8 dei periodici.
È quanto mai necessario, quindi, quel riequilibrio del mercato che il presidente Ciampi invocava nel 2003 con il suo messaggio alle Camere. Se Mario Monti, già Commissario europeo alla Concorrenza, riceverà l´incarico dal Capo dello Stato e riuscirà a formare un nuovo governo, c´è da auspicare perciò che applichi all´anomalia televisiva italiana lo stesso rigore con cui trattò la Microsoft di Bill Gates. L´antitrust vale a Bruxelles come a Roma.
Quale disciplina scientifica bisogna scomodare per dimostrare che la nostra civiltà auto-dipendente è destinata all'auto-distruzione? Forse una nuova branca della psicologia, la traffic psychology, che studiando le relazioni tra l'imbottigliamento del traffico e i modelli di comportamento ha «scoperto» che - cuore e polmoni a parte - le particelle di anidride carbonica intasano anche il cervello, in particolare le regioni che sovrintendono ai processi decisionali. Si chiama stress. Quanto alla medicina, periodicamente racconta una strage, ma la «notizia» curiosamente risulta più noiosa che drammatica.
Prendiamo Milano, per esempio, una delle aree urbane più inquinate d'Europa, l'unica città italiana che per affrontare l'emergenza ha approvato la congestion charge (tassa di congestione) seguendo l'esempio di Londra, che dal 2003 impone un pedaggio di 10 sterline a tutti gli automobilisti che si avventurano nelle zone centrali. Secondo uno studio illustrato dal professor Pier Alberto Bertazzi dell'Università degli Studi di Milano, il numero di morti direttamente attribuibili all'inquinamento è tra i 160 e i 200 all'anno. «Viviamo immersi in un aerosol - spiega - e respiriamo in condizioni normali 200 milioni di particelle al minuto, 10 milioni delle quali si depositano nei polmoni». I feti esposti all'inquinamento perdono peso in relazione alla concentrazione di Pm10 e i bambini milanesi hanno i bronchi più malati d'Italia. Non stupisce allora la rilevazione dell'Istat secondo cui, riflettendo sul «grado di soddisfazione per la propria vita», i cittadini italiani hanno messo in cima alle loro preoccupazioni il traffico (41,2%), i parcheggi (38%) e l'inquinamento (36,8%).
Fino ad ora però nessun sindaco di una grande area urbana ha avuto il coraggio di affrontare la questione. Tranne uno. Giuliano Pisapia. Va dato atto alla sua amministrazione di aver preso una decisione (quasi) rivoluzionaria, soprattutto grazie al clamoroso risultato dei referendum ambientali di giugno che ha trasmesso un po' di coraggio a chi aveva il dovere di prendere decisioni che i politici hanno sempre ritenuto impopolari. Sbagliando. L'ottimismo della volontà oggi impone di vedere il bicchiere mezzo pieno, perché non c'è dubbio che con l'introduzione dell'Area C (la zona a pagamento per tutti, entrerà in vigore il 16 gennaio) Milano ha fatto un passo avanti impensabile solo fino a pochi mesi fa - la città soffocava con la farsa dell'ecopass di Letizia Moratti. Eppure, considerando la situazione drammatica, si poteva fare di più.
Il superamento dei livelli di guardia delle polveri sottili (50 mg/mc di Pm10) ormai è un fatto normale. Le automobili uccidono i pedoni e le «utenze più deboli» con impressionante regolarità. Nel 2010 a Milano sono stati uccisi 21 pedoni, 7 ciclisti e 15 motociclisti (43 persone), in provincia di Milano ne sono morte 64 (20 pedoni, 9 ciclisti e 35 motociclisti). Giacomo, 12 anni, non rientra in questa statistica: è stato ucciso domenica scorsa in via Solari mentre tornava a casa in bicicletta. Un'automobile parcheggiata in doppia fila ha aperto la portiera, lui, per scartala, è finito sotto un tram. Il giorno dopo, solo il giorno dopo, i vigili hanno multato 400 automobili in sosta vietata lungo la carreggiata di via Solari. Una non soluzione che incattivisce e serve solo per fare cassa (il Comune nel 2011 ha incassato 126 milioni di euro di multe). E non è una boutade la richiesta di dimissioni del capo dei vigili Tullio Mastrangelo avanzata dal comitato GenitoriAntiSmog per la morte di Giacomo: «Non vogliamo un caprio espiatorio ma pretendiamo un cambio di impostazione nel controllo della sicurezza e vigilanza rigorosa sul rispetto delle regole» (in netta discontinuità col passato, dunque, visto che Mastrangelo, con l'ex vicesindaco De Corato, ha sempre concepito i vigili urbani come un corpo di polizia al servizio dell'ideologia sicuritaria).
I ciclisti ormai non chiedono più rispetto, lo pretendono. La rivoluzione a pedali è una delle poche buone notizie che prima dell'elezione di Giuliano Pisapia ha reso più respirabile l'aria in città. Il sindaco lo sa e adesso dovrebbe sentirsi in dovere di proteggere un'utenza che debole non è: secondo l'ultimo censimento di Fiab Ciclobby, in una giornata lavorativa si registrano oltre 33 mila passaggi in bici nella cerchia dei navigli (+ 8% rispetto all'anno scorso e + 13% rispetto al 2009). I picchi nelle fasce orarie confermano che si usa la bicicletta per gli spostamenti casa-lavoro. Dunque non c'è che una soluzione per agevolare questa tendenza: disincentivare l'uso dell'automobile investendo nel trasporto pubblico e nella ciclabilità. E Milano è una delle poche metropoli che può permettersi di giocare d'azzardo, sfidando luoghi comuni e la lobby dei commercianti: più della metà degli spostamenti giornalieri (2,5 milioni di passaggi) è inferiore ai 3,5 chilometri (40 minuti a piedi, 15 minuti sui pedali). Va in questa direzione la congestion charge adottata da Palazzo Marino? Sì, e no.
Dal 16 gennaio tutti gli automobilisti che vorranno congestionare il centro dovranno pagare 5 euro. Non poco. Si tratta di un cambiamento radicale, la rottura di un tabù: viene tassato il 90% delle auto circolanti (con ecopass il 10%). Ai residenti del centro storico, i più ricchi, sono stati concessi 40 passaggi gratuiti, poi pagheranno solo 2 euro. Qualcuno arriccia il naso. Ma non è qui che il sindaco rischia di dilapidare un pizzico di quel consenso che ha conquistato in campagna elettorale: il fatto è che i commercianti pagheranno solo 3 euro (con ecopass erano 5) e così i veicoli commerciali, quelli di maggiore impatto sul traffico, potranno circolare più liberamente di prima. Non è stata presa in considerazione nemmeno una fascia oraria obbligatoria per il carico/scarico merci (9,30-18,30), una proposta saggia a costo zero per decongestionare le ore di punta. Hanno vinto i commercianti. A Londra, invece, non ci sono categorie esentate (nemmeno i medici) eppure la congestion charge non ha penalizzato il commercio: il volume di affari è cresciuto del 4,4% e la tassa è servita per acquistare 500 nuovi bus.
C'è poi una questione, diciamo così, di classe che in questi tempi non andrebbe sottovalutata. Riassumendo: detto che è già stato aumentato del 50% il prezzo del biglietto del tram, è giusto che una Panda e una Porsche paghino la stessa cifra? Se è vero che il sindaco ha detto che il provvedimento è perfettibile, allora sarebbe carino inventarsi una tassa di ingresso in base alla cilindrata, oppure in base al reddito: se davvero le automobili fanno male, non dovrebbe essere così impopolare stabilire una tassa annuale che va dai 150 ai 1.000 euro per tutti i possessori di automobile.
A proposito di soldi, che fine faranno? Va da sé che Pisapia ha promesso di reinvestirli per la mobilità, ma di questi tempi non si sa mai. Per questo qualcuno ha avuto un'idea semplice: l'istituzione di una sorta di fondo separato e vincolato che non finisca nel calderone del bilancio - conti trasparenti su internet, per dimostrare che ogni centesimo versato dagli automobilisti sarà utilizzato per non auto-distruggersi. E tra sei mesi magari toccare con mano, su due ruote, i risultati ottenuti con la congestion charge: per una pista ciclabile basta poco, una pennellata lungo il ciglio della strada, e tanta buona volontà. Politica.
Negli anni trionfali di Berlusconi era possibile sostenere con molti argomenti che non si trattava comunque di un regime: ma come definire il crollare per disfacimento che è sotto i nostri occhi, l´assenza totale di ricambio all´interno del centrodestra, le fughe accelerate e talora sorprendenti, dopo gli "irresponsabili" afflussi dei mesi scorsi (talora con protagonisti non dissimili)? "Muore ignominiosamente la Repubblica" scriveva il poeta Mario Luzi alla fine degli anni settanta: allora la tragedia investiva per intero il Paese e il ceto politico, oggi il centrodestra è in gran parte approdato alla farsa. Ad una dissoluzione senza nobiltà.
All´indomani del 25 luglio del 1943 fra i tanti fedelissimi di Mussolini vi fu un solo caso drammatico, il suicidio per coerenza estrema di Manlio Morgagni, presidente dell´agenzia giornalistica di regime: "Il Duce non c´è più, la mia vita non ha più scopo", lasciò scritto. Le cronache di questi giorni ci danno, fortunatamente, una tranquilla sicurezza: Morgagni non corre proprio il rischio di avere degli imitatori, neppure incruenti, anche se la paura del suicidio (con riferimento solo alla carriera, naturalmente) è stato l´argomento più evocato nelle dichiarazioni. E con buona pace della giovane deputata del Pdl che ha assunto come suo modello Claretta Petacci.
Non si leggano però solo come farsa le cronache dei giorni scorsi, il ricomparire di transfughi o ex transfughi. C´è in realtà poco da sorridere: ci sono i sintomi di una tragedia nelle private disinvolture e vergogne che molte microscopiche vicende ci raccontano (o ci hanno raccontato nei mesi passati, con segno rovesciato). E che Cirino Pomicino sia fra gli affossatori della "seconda repubblica" è il più malinconico epitaffio sia della "prima" che della "seconda".
Sono una cosa terribilmente seria le crisi di regime. Coinvolgono nel loro insieme le istituzioni e il Paese, e conviene prender avvio dalle domande più immediate: perché questo ceto politico è riuscito a imporsi sin qui, a occupare così a lungo la scena? La legge elettorale lo spiega solo in parte, e ripropone in altre forme la stessa domanda: perché il centrodestra ha potuto riempire le sue liste di figure di questo tipo senza pagare dazio? Perché nel crollo della "prima Repubblica" è stata solo o prevalentemente questa "società incivile" ad invadere le istituzioni e non hanno trovato spazio voci diverse, espressione di un opposto modo di intendere la politica e il rapporto fra privato e pubblico?
Non ci si fermi però a queste prime e più immediate domande: quando tramonta un regime è necessario un esame di coscienza più profondo. Nel crollo della "prima repubblica" esso fu eluso addossando ogni colpa a un ceto politico corrotto, contrapposto a una società civile incontaminata: le conseguenze dell´abbaglio si videro presto ed oggi nessuno può affidarsi a quel mito. Nel dicembre del 1994, nell´imminente crisi del primo governo del Cavaliere, Sandro Viola scriveva su questo giornale: "quando Berlusconi prima o poi cadrà, sul Paese non sorgerà un´alba radiosa. Vi stagneranno invece i fumi tossici, i miasmi del degrado politico di questi mesi". I mesi sono diventati anni, quasi un ventennio, e il degrado ha superato da tempo i livelli di guardia. Con una sfiducia nella democrazia ormai dilagante, e con conseguenze pesantissime nell´insieme della società.
Poco meno di un anno fa il rapporto del Censis sul 2010 ha disegnato il quadro di un´Italia sfiduciata, percorsa da una diffusa sensazione di fragilità individuale e collettiva. Incapace di vedere un approdo, una direzione di marcia. Un´Italia "senza più legge né desiderio": ma tornare a "desiderare", a sperare, è la virtù civile necessaria per rimetter in moto la società. E per andare in questa direzione, concludeva il Censis, è necessario ridare centralità e prestigio alle leggi e alle regole. Quel rapporto segnalava anche un dato drammatico, che fu colpevolmente rimosso dall´agenda politica: gli oltre due milioni di giovani che non studiavano e non avevano lavoro né lo cercavano. Resi sempre più sfiduciati e apatici dal diffuso trionfare dei "furbetti" e delle corporazioni. Tramontate da tempo le disastrose illusioni del berlusconismo, affermava allora Giuseppe De Rita, un leader vero dovrebbe ridare in primo luogo agli italiani il senso delle loro responsabilità.
Da qui occorre ripartire, da quella "ricostruzione etica" evocata domenica da Eugenio Scalfari: una più generale ricostruzione che riguarda l´intero Paese ma che nella politica deve trovare riferimento e incentivo. Anche per questo un governo di civil servants sarebbe oggi fortemente auspicabile, segno di un´inversione di tendenza cui chiamare il Paese.
Il governo Monti è oggi una speranza per l’Italia. La speranza di voltare pagina dopo l’ingloriosa fine del ciclo berlusconiano, risalendo la china della credibilità perduta, tenendo insieme equità e risanamento, rimettendo in sesto il sistema politico a partire dalla riforma elettorale. Ma non basterà applaudire per sventare i pericoli che incombono sul Paese.
L’emergenza italiana chiede di essere affrontata con forza, oltre che con equilibrio e giustizia. Ci attendono scelte difficili, politiche severe e non si potrà fare a meno di una forte legittimazione del governo (che è cosa diversa dalla sua legittimità). Il governo Monti si forma in una condizione eccezionale: ma sarebbe inaccettabile che si affermasse come il commissariamento della politica da parte delle tecnocrazie europee o delle oligarchie economiche. Per nascere, invece, il nuovo governo deve poggiare su un’assunzione piena, esplicita di responsabilità dei partiti maggiori, a cominciare da Pdl e Pd. Nessuno può far finta di niente o fischiettare. Senza un loro impegno solenne, aperto alla convergenza di tutti, è meglio correre subito alle urne.
Votare non sarebbe un dramma. Il voto è la normalità, la bellezza, la forza della democrazia. E la democrazia non è un lusso, checché ne dicano alcuni. Non c’è responsabilità politica senza consenso. Ma proprio per questo, ciò che mancherà al nuovo governo, devono fornirglielo il Parlamento e i partiti. Un esecutivo può anche avere un profilo tecnico ed è opportuno che i partiti stavolta facciano un passo indietro dalla compagine ministeriale, innanzitutto perché la conflittualità tra Pdl e Pd appare irriducibile ma non esiste una sospensione della politica.
La piena assunzione di responsabilità per il Pd vorrà dire in primo luogo sostenere contenuti di equità nell’azione di risanamento e di rilancio della crescita. Le dimissioni di Berlusconi sono state un grande successo per le opposizioni. Non era facile vista l’ingessatura dell’attuale sistema. Non sarebbe stato possibile senza l’unità d’azione delle ultime settimane.
Bersani disse che il più antiberlusconiano sarebbe stato quello che l’avrebbe fatto cadere, non chi gridava più forte. Può segnare il punto. E può anche dire a testa alta che il suo partito è pronto a un sacrificio la rinuncia a elezioni immediate per aiutare l’Italia a compiere insieme un importante passo avanti.
La verifica dell’equità sociale però è decisiva. Compito del governo Monti sarà integrare con nuove misure le manovre di Berlusconi: come si farà? È chiaro che a pagare l’aggiunta ora dovranno essere soprattutto coloro che fin qui sono stati risparmiati. La lotta contro l’evasione fiscale va rafforzata, senza escludere misure straordinarie come la sovrattassa per gli “scudati”. I privilegi ingiusti vanno colpiti, eliminando il superfuo nei costi della politica ma anche le barriere di professioni, lobby, corporazioni e i superbonus dei supermanager. I grandi patrimoni e le rendite non potranno più essere esentate dal contributo al risanamento. La tassazione si deve spostare dal lavoro alla rendita, perché solo così può ripartire la crescita. E, siccome il costo sarà alto, tutti dovranno rinunciare a qualcosa. Ma se si può chiedere ai lavoratori di accelerare il superamento delle pensioni di anzianità, anticipando il passaggio al contributivo pro rata, deve essere chiaro che l’arma ideologica dell’articolo 18 va deposta. Neppure Confindustria chiede la libertà di licenziamento. Mario Monti non è un liberista, ma uno studioso che si è formato sull’economia sociale di mercato: a lui toccherà promuovere un nuovo patto sociale, superando quella politica di divisione del mondo del lavoro che Berlusconi ha perseguito con ostinazione fino all’ultimo.
Come scriviamo in questo numero del giornale, il governo Monti avrà anche il compito di restituire all’Italia una legge elettorale di tipo occidentale. Il che vuol dire almeno il ripristino di un rapporto diretto tra elettore ed eletto e l’eliminazione del premio di maggioranza (quel surrogato presidenzialista che ha stravolto il nostro modello costituzionale). Siamo a bivio dopo la Seconda Repubblica: o imbocchiamo davvero la via presidenziale (con elezione separata del Parlamento) o costruiamo un sistema parlamentare efficiente. Non è difficile fare in modo che il premier sia il leader del partito più votato, che la sera del voto sia già chiara al mondo la coalizione di maggioranza, che i governi durino normalmente una legislatura, che comunque il Parlamento possa sanzionare un esecutivo senza che si gridi allo scandalo.
La fase nuova che si apre avrà bisogno di più politica. L’auspicio è che le opposizioni a Berlusconi mantengano, nonostante i dubbi e le riserve di oggi, l’unità di questi giorni. Se venisse meno, sarebbe una chance in meno per l’Italia.
Postilla
A proposito di leggi elettorali. Ma le leggi non le fa il Parlamento?
Governo tecnico? È una parola ambigua, non c´è niente di tecnico nel colpire i ceti medi e popolari Bisogna scegliere tra equità e macelleria, ed è una scelta politica
Un governo che in poche settimane faccia quel che serve al Paese: la patrimoniale, la tassazione delle rendite finanziarie, l´abbattimento delle spese militari. Solo a un programma del genere Sinistra Ecologia e Libertà potrebbe dire di sì. Per poi andare subito - molto prima del 2013 - al voto anticipato: «La medicina giusta per i mali dell´Italia resta la democrazia». Nichi Vendola è in Cina con cento imprenditori pugliesi. Un viaggio da governatore, per stringere rapporti commerciali e istituzionali. Ci risponde da Pechino, ma è come se fosse qui: «Non ho dormito affatto, ho passato la notte al telefono», dice alla fine di quest´intervista. Investito - anche lui - dallo stato di paura in cui la borsa e lo spread hanno gettato il Paese nel mercoledì nero dei mercati.
Sel apre al governo Monti?
«Non è così. Ci viene detto che urge fare una manovra per dare una risposta all´Europa e al mondo. Noi diciamo va bene, si faccia in un tempo ristretto un intervento di riforma della struttura della ricchezza, si facciano scelte drastiche in termini di tassazione patrimoniale e tassazione delle rendite, si abbattano tutte le spese militari. Poi, però, si vada subito al voto».
Queste cose può farle un governo tecnico?
«Tecnico è una parola ambigua che va messa al bando. Non c´è niente di tecnico nell´infliggere colpi ai ceti medi e popolari. Bisogna scegliere tra equità sociale o macelleria. E´ una scelta politica».
Fatta la scelta, quanto dovrebbe durare quest´esecutivo?
«Mi sembra che per fare le cose che ho detto bastino poche settimane. Dopo ci sono solo le elezioni anticipate, dentro questo Parlamento ci sono troppe infezioni».
Secondo molti andare al voto adesso sarebbe un suicidio per l´Italia.
«Chi pensava un anno fa che fosse una iattura andare alle urne deve fare i conti oggi con i danni drammatici che questi tempi supplementari del governo Berlusconi hanno inferto al Paese. C´è sempre la crisi economica per non andare al voto, ma c´è una gigantesca crisi politica che alimenta la crisi economica e che bisogna affrontare con l´esercizio della democrazia. Altrimenti spegniamo la politica e diciamo al mondo che c´è la dittatura delle istituzioni economiche e finanziarie, che i governi e i parlamenti si fanno dirigere dalle grandi banche europee e americane. E noi siamo liberi di decidere: o la macelleria sociale, o la macelleria sociale».
La strada maestra è il voto, quindi. Ora però si parla di un governo guidato da Mario Monti con dentro anche il Pdl.
«Lo trovo paradossale. Ma insomma chi ha fallito? Chi ha perso la maggioranza? Chi ha mandato allo sbando il Paese?».
Questa sembra la via indicata da Napolitano.
«Il Capo dello Stato agisce con grande rigore, secondo i compiti assegnatigli dalla Costituzione. E agisce anche con la grande responsabilità di rappresentare l´Italia di cui non ci si vergogna. Indica degli strumenti, poi però ci sono i contenuti politici e quelli non sono a disposizione di altri che non siano in Parlamento. Non mi si può chiedere, seppur virtualmente, di condividere cose che io considero dannose per l´economia e dal punto di vista sociale, come gli interventi sulle pensioni o i licenziamenti facili».
Questa posizione la allontana dal Pd?
«Io ho detto il mio pensiero, che mi risulta essere quello del segretario Cgil Susanna Camusso e del segretario pd Bersani. Voglio essere responsabile nel contribuire a un momento di pulizia e di svolta per questo Paese, non corresponsabile nel tenere in vita l´infezione berlusconiana. Senza equità sociale, senza una risposta alla crisi drammatica dei ceti popolari, sarò all´opposizione di qualunque governo».
L'applausometro al seguito del senatore Mario Monti, timoniere di un governo di emergenza nazionale dal Pdl al Pd, va di pari passo con la bordata di fischi contro le voci che invece indicano la via maestra delle elezioni. Non c'è tempo per i bizantinismi del Palazzo, meglio mettere tra parentesi la politica per dare tutto il potere all'economia.
A caratteri cubitali il messaggio viene inviato dalla prima pagina del giornale di Confindustria ("Fate presto"), per spiegare che i tempi della politica (della democrazia) sono troppo lenti e poco conciliabili con quelli della crisi finanziaria. Quindi si può al massimo concedere un rapido passaggio parlamentare per il via libera a Monti, ma chiedere agli elettori come uscire dalla crisi non si può. In altra forma, lo stesso pensiero unico è replicato sulle colonne del Corsera, in prima linea nella battaglia a sostegno «delle qualità super partes» di Monti, come scrive il direttore De Bortoli. Siccome il gettonatissimo candidato a palazzo Chigi è chiamato a salvare l'Italia con «scelte impopolari», sarà bene non mischiare l'alto incarico con gli intralci delle forze politiche (una traduzione dei famosi «lacci e lacciuoli»). Come se essere super partes e impopolari fosse oggi il valore aggiunto, la chiave di volta necessaria per uscire vivi dalle macerie del berlusconismo. Come se dopo il colossale spostamento della ricchezza del paese dal lavoro al profitto (8 punti di Pil: ogni anno 120 miliardi di euro), eredità dell'ultimo quindicennio italiano, non fosse ancora giunta l'ora di chiamare al governo una politica esplicitamente di parte, di quella parte che, altrimenti, sotto le macerie resterà sepolta.
Su queste pagine Guido Viale sottolineava il monopolio degli economisti nel dibattito sulla crisi finanziaria. Avergli delegato la "narrazione" degli eventi, che fossero liberisti e keynesiani, ha avuto l'effetto, e lo vediamo in queste febbrili giornate, di camuffare le leggi dell'economia come leggi di natura. L'abbuffata liberista che ha precipitato il mondo nel terremoto di questi anni, ora pretende di indicare la ricetta e la cura. E può farlo senza l'intralcio e l'impaccio di doverne rispondere ai cittadini.
Le dimissioni di Berlusconi sono persino difficili da credere, come è difficile svegliarsi da un incubo che ha segnato la psicologia collettiva. Tra le pesanti eredità del quindicennio, oltre al disfacimento sociale (ieri dati Istat denunciavano la cifra di cinque milioni di disoccupati: il doppio della media europea), allo svuotamento di ogni principio di rappresentanza, all'annichilimento di qualunque regola di convivenza civile, ci sono i semi avvelenati dell'antipolitica. Che ancora fruttificano, dando a un governo libero da questi partiti il colore rosso della mela avvelenata.
Giulio Malgara rinuncia alla presidenza della Biennale di Venezia. Giancarlo Galan non procede alla nomina. Paolo Baratta rimane al timone dell´istituzione, a meno che, come suggeriscono alcune voci, non diventi nuovo ministro dei Beni culturali, nell´eventuale governo Monti. Nella mattinata di ieri, l´impasse veneziana si è sbloccata. Grazie al passo indietro del pubblicitario amico di Silvio Berlusconi, che per altro arriva dopo il grande movimento di intellettuali che si sono espressi contro la sua designazione e a favore di una proroga per Baratta.
«Ci sono in ballo questioni più importanti; non volevo aggiungere un problema ai tanti che abbiamo», così Malgara ha motivato il suo improvviso "no grazie" all´incarico di guidare la Biennale. Incarico offertogli da Galan poco più di un mese fa e causa di malumori in Veneto e non solo. Nelle scorse settimane, dal sindaco di Venezia e vicepresidente del cda della Biennale Giorgio Orsoni in poi, sono stati in tanti a esprimere opinione negativa sulla scelta del ministro, che aveva diviso anche la Commissione cultura della Camera. Mentre il quotidiano La Nuova Venezia ha raccolto un record di firme illustri per sostenere la riconferma di Baratta. In 4350 hanno risposto all´appello, tra cui i rappresentati delle 30 istituzioni culturali più importanti del mondo: da Nicholas Serota della Tate Modern di Londra ai direttori del Centre Pompidou di Parigi e del MoMA di New York. Nomi che devono avere avuto un peso nella decisione finale. Dal Mibac, fanno sapere che ieri il capo di gabinetto del ministro, Salvatore Nastasi, faceva da ponte tra Galan e Malgara per ottenere la rinuncia di quest´ultimo all´incarico ed evitare così al ministro un formale passo indietro. Ma il fondatore dell'Auditel ha tenuto a precisare che non sono state le polemiche attorno alla sua designazione a spingerlo a lasciare: «In una situazione delicata sul piano politico e istituzionale mi sembrava poco opportuno procedere a questa nomina – ha detto –. Ho sensibilità per queste questioni. Mi è molto dispiaciuto».
Secca la dichiarazione del ministro Galan: «Ringrazio Giulio Malgara per avermi chiesto di non ratificare la sua nomina nonostante fossi già nelle condizioni di poterlo fare. Lo ritengo un gesto di pacificazione che rende onore a una figura il cui profilo istituzionale viene confermato da tale decisione». Per il sindaco di Venezia Orsoni, Malgara «ha dimostrato una sensibilità encomiabile e adesso vedremo cosa succederà».
Lo scenario, infatti, è ancora aperto con Paolo Baratta saldo al comando della Biennale di Venezia, anche se la sua presidenza scade il 18 dicembre. A un nuovo ministro spetterà il compito di prorogare il mandato. Intanto, entro la fine del mese, il cda della Biennale si riunirà per proporre le nomine dei nuovi direttori dei settori, primi tra tutti quelli per l´Architettura e per le Arti Visive. L´edizione 2013 dell´Esposizione internazionale, quella successiva alla direzione di Bice Curiger che si chiude il 27 novembre, nascerà sotto una stella tutta da individuare.
I democratici: "Approvato per creare lo scontro" - Confindustria e Legambiente chiedono all´Ars di votare contro il provvedimento - Cracolici: "Faremo di tutto per non farlo passare"
Aspra, asprissima [sic], praticamente una bocciatura con tanto di sondaggio. L´ennesima sanatoria edilizia sarebbe «una vergogna per il 70 per cento degli italiani secondo i dati Ipsos». È il giudizio di Confindustria Sicilia e di Legambiente Sicilia sull´approvazione della commissione Territorio e Ambiente all´Ars [Assemblea regionale siciliana] del disegno di legge salva-coste del deputato regionale Paolo Ruggirello (Mpa), lui stesso proprietario di una casa abusiva che verrebbe sanata dalla norma. Una vicenda che sembrava caduta nel dimenticatoio, dopo le polemiche degli ambientalisti e della stessa Sala d´Ercole, ma tornata alla ribalta dopo il voto della commissione. A tenere alto lo scontro è sempre Confindustria, che ieri sera ha diffuso con Legambiente un appello ai deputati siciliani: «L´unico effetto concreto delle tre sanatorie edilizie nazionali - scrivono - è stata una violenta recrudescenza dell´abusivismo senza tenere conto che la gran parte degli abusivi che hanno usufruito dei precedenti condoni, non ha completato il pagamento dell´oblazione. Per questo chiediamo a tutti i deputati di votare contro questo ddl».
Richiesta che fa sua il capogruppo del Pd all´Ars, Antonello Cracolici, che si dice pronto insieme al suo partito a fare di tutto per bloccare il ddl. E Cracolici si spinge oltre: «Qualcuno - dice - sta tentando di fare giochetti politici». Per il capogruppo Pd dietro all´approvazione del ddl ci sarebbe una questione politica. Il dito è puntato verso i deputati del Pdl, ma soprattutto del Terzo Polo, che avrebbero sostituito i loro colleghi in commissione, tra questi Pippo Limoli (Pdl), Nino Dina (Udc), Pippo Currenti (Fli). «Il Pdl ha sostituito dei deputati per raggiungere il numero legale - dice Cracolici - e il Terzo Polo si è presentato per garantire la sua presenza in commissione. Era tutto funzionale per aprire un conflitto con il Pd, anche da parte del Terzo Polo».
Per quanto riguarda il ddl (che potrebbe arrivare in aula anche a dicembre, se la conferenza dei capigruppo del 22 novembre deciderà di aprire una finestra nel Bilancio) sempre secondo Cracolici, è improbabile un´approvazione in aula: «Ha evidenti profili d´incostituzionalità». Una norma per cui Ruggirello aveva preconizzato un appoggio bipartisan («Vedrete quanti la voteranno» aveva detto), e che, tiene a precisare, «non è una sanatoria».
In commissione, Currenti del Fli ha votato a favore, anche se per Livio Marrocco, suo capogruppo, si tratta di scelta personale: «Parlerò al più presto con lui. Noi siamo contrari a questa sanatoria e non la voteremo». Nell´Udc, Nino Dina si schermisce, lui che si è astenuto «per insufficienza di elementi», anche se auspica in aula un confronto. Così come Francesco Musotto, capogruppo dell´Mpa (colui che aveva ritirato la firma dal ddl) che illustra la posizione del suo partito «senza ipocrisie»: «Noi dell´Mpa lasceremo libertà assoluta ai colleghi, tra di noi sono molti coloro che non sono d´accordo. Eppure c´è un atteggiamento da struzzi. Non mi sembra che ci siano ruspe in giro a distruggere ecomostri. Voi ne vedete? Toccherà all´Assemblea trovare la soluzione migliore».
Si dice contro Fabio Mancuso (Pdl), e rigetta le accuse di aver favorito l´approvazione in commissione con la sua presenza: «Non la voteremo, ci vuole un riordino globale e non occuparsene soltanto con un articolo». E non vuole passare per una a favore dell´abusivismo, Marianna Caronia del Pid: «Ho votato con la speranza che in aula si possa discutere di queste case ridotte in un limbo».
Per essere un maximendamento che dovrebbe far crescere l'economia, bisogna ammettere che è stato fatto lo sforzo diametralmente opposto. La parola più usata nel testo è infatti «riduzione». Dalle spese dei singoli ministeri, a quelle degli enti locali e dei dipendenti pubblici. Definitivo l'intervento sulle pensioni, dove si fissa per la vecchiaia l'età minima di 67 anni. Nuovi tagli agli enti locali, che dovranno vendere «obbligatoriamente» tutte le quote detenute nelle società che gestiscono servizi pubblici: se non lo faranno potranno essere rimossi dal loro incarico. Per essere un maxiemendamento che dovrebbe far «crescere» l'economia bisogna ammettere che è stato fatto lo sforzo diametralmente opposto. La parola più usata nel testo è infatti «riduzione». Delle spese dei singoli ministeri, di quelle degli enti locali di ogni ordine e grado, dei dipendenti pubblici. L'elenco appare quasi sterminato.
C'è il nuovo intervento «definitivo» sulle pensioni, che fissa per la vecchiaia l'età minima di 67 anni. Tutti meccanismi di «adeguamento» dell'età pensionabile alle «aspettative di vita» vengono accelerati in modo tale da portare tutti a questo limite entro il 2026. Proprio il tema su cui Bossi e la Lega avevano dichiarato una propagandistica «linea del Piave».
Nulla di nuovo nemmeno per quanto riguarda la dismissione degli immobili pubblici non residenziali, da «conferire a fondi comuni di investimento immobiliare» o società private «anche di nuova costituzione». L'incasso servirà a ridurre il debito pubblico e si punta a ricavare 4,8 miliardi. Stessa procedura per i terreni agricoli - anche delle «aree protette» - del demanio, che potranno essere ceduti a trattativa privata fino a 400.000 euro di valore (poi scatta l'obbligo di asta pubblica). Con il più la norma-belletto della «corsia preferenziale» riservata ai «giovani imprenditori agricoli».
Gli enti locali vengono aggrediti su più lati. Debbono ovviamente «contribuire a ridurre il debito pubblico», e quindi si tagliano ai loro bilanci altri trasferimenti (745milioni nel 2012, 1,6 miliardi l'anno successivo). Ma debbono anche vendere obbligatoriamente tutte le quote detenute nelle società che gestiscono servizi pubblici. Per «convincerli» vengono utilizzati diversi strumenti. Per esempio, si tagliano 926 milioni al «sostegno di sviluppo del trasporto». Ma si dispone anche la «liberalizzazione dei servizi pubblici di rilevanza economica» (come nel vecchio decreto) con un'aggiunta. Se non lo faranno entro i termini stabiliti (31 marzo 2012 per gli «affidamenti diretti», entro il 30 giugno per le società miste), i prefetti avranno il potere di fissare un «termine perentorio» entro il quale eseguire l'ordine. Trascorso il quale li rimuoveranno dalla carica commissariando l'ente locale. Ciò vale - tranne che per l'acqua - anche per tutti quei servizi che ricadono tra gli effetti del referendum dello scorso giugno. In questo modo, insomma, si eliminano le «possibilità di resistenza» dei tanti sindaci che puntavano a ricorrere in tribunale contro queste disposizioni.
Confermata anche la riforma degli «ordini professionali», la «semplificazione dei pagamenti» da parte delle amministrazioni pubbliche verso fornitori o appaltisti. E nello stesso spirito si muove la «riduzione degli oneri amministrativi per imprese e cittadini»; ovvero le «zone a burocrazia zero», dove è permesso praticamente di tutto se gli organi di controllo (comuni, ecc) non rispondono alle richieste entro un determinato tempo. Ivi compresa la necessità di presentare «certificati», dando per scontato che l'amministrazione pubblica li possa acquisire per vie interne.
Amministrazione che però viene completamente ridisegnata con la possibilità di mettere in «mobilità» il personale in eccesso. Dovranno farlo per forza, perché anche qui i dirigenti inadempienti rischiano grosso. Fatta la «comunicazione» ai sindacati, si provedde a ricollocarli in altra sede, anche in altra regione. Dopo tre mesi vengono messi in «disponibilità» con stipendio ridotto del 20% e senza tener conto di «altri emolumenti comunque denominati» (che costituiscono quasi sempre una componente elevata della retribuzione finale). Dopo due anni, se non si trova o non si accetta un altra sede, si è fuori.
Confermata infine, tra le tante cose che non c'è stato il tempo di studiare, anche la definizione della Val di Susa come «area di interesse strategico nazionale». Entrarci «abusivamente» e «impedire o ostacolare l'accesso autorizzato» (ai mezzi e alle persone che vi devono lavorare) «è punito ai sensi dell'art. 682 del codice penale» («contravvenzioni concernenti l'inosservanza dei provvedimenti di polizia e le manifestazioni sediziose e pericolose»). A quanto pare, l'unica «crescita» possibile con un decreto del genere è quella dei processi in tribunale...
Riconversione ecologica della produzione e dei consumi, democrazia economica fondata sull'autogoverno. La possibilità c'è, a patto di scardinare i diktat dei vincoli di bilancio
Prima ancora di esserne la causa - e in gran parte, ovviamente, lo è - Berlusconi è il prodotto del berlusconismo: una tabe che affligge non solo il suo entourage politico-affaristico e il suo elettorato, ma larga parte dell'establishment culturale, imprenditoriale e politico del paese (il sindaco di Firenze e il suo seguito ne sono un esempio).
E Confindustria che lo ha sostenuto fino all'altro ieri anche; e allora, di che si lamenta?). Ma gli uomini e le donne al governo dell'Europa sono anch'essi promotori e prodotto (sono prigionieri del loro elettorato; che è però quello che hanno costruito e vellicato) di un virus altrettanto grave, di cui Berlusconi non è che la manifestazione più grottesca, infame e repellente. Quel virus è il pensiero unico: la convinzione, contro ogni evidenza, che il mercato, e solo il mercato, può tirarci fuori dai guai in cui ci ha cacciati. E che per tirarci fuori dai guai, per uscire dalla crisi, occorre rilanciare la crescita: cioè sperare - e che altro, se no? - in un aumento del Pil tale da generare entrate fiscali sufficienti a pagare gli interessi e a rimborsare, un po' per volta, una parte consistente del debito pubblico. Per loro l'economia è come un'auto a cui si è imballato il motore. Basta dargli una spinta e tornerà a correre - cioè a crescere - di nuovo. Ma le cose non sono così facili; e non lo saranno mai più. E intanto, in attesa di questo miracolo, la soluzione vincente è il taglio della spesa pubblica: pensioni, sanità, scuola, trasporto pubblico, welfare municipale, pubblico impiego, salari e stipendi. E privatizzazione di tutto, contando di ricavarne le risorse necessarie a tacitare gli appetiti dei mercati, cioè di tutti coloro impegnati a produrre denaro per mezzo di denaro: banche, assicurazioni, fondi di investimento, speculatori, mafie (queste, sì, con la liquidità necessaria a fare piazza pulita di tutto quel che è in svendita: a partire dai servizi pubblici locali). Di tagliare per altre vie le unghie alla speculazione non si parla; perché quello che chiamano mercato è speculazione: senza l'una non c'è l'altro, e viceversa; simul stabunt, simul cadent. Così, invece di crescere l'economia si avvita su se stessa in una spirale che porta diritto al fallimento (default): non solo delle finanze pubbliche (a beneficio di chi le tiene in pugno), ma del sistema produttivo, della convivenza civile, dell'ambiente.
La parabola della Grecia ne è un esempio: tutti sanno - ma pochi lo dicono - che non si riprenderà più per decenni. Ma altri paesi, Italia in testa, sono già sullo stesso cammino e nessun paese dell'eurozona è più al sicuro. Per statuto la Banca centrale europea (Bce) non può fornire liquidità alle banche messe in crisi dai debiti sovrani (cioè degli Stati) che detengono: ufficialmente per non generare inflazione; in realtà per perpetuare quel blocco dei salari da cui ha avuto origine la cavalcata dei profitti degli ultimi decenni. Così, per garantire quei debiti si ricorre alla creazione di nuovi debiti in una catena senza fine (andando a chiedere l'elemosina persino in Cina) e l'Europa consegna alla finanza internazionale e alla speculazione le chiavi dell'economia: la creazione di liquidità, cioè la moneta.
Siamo alla vigilia della Cop 17, il vertice dell'Onu che a Durban (Sudafrica) dovrebbe rinnovare, estendere e approfondire gli accordi di Kyoto per ridurre in modo drastico le emissioni di gas di serra, causa dell'imminente catastrofe climatica. Scienziati di tutto il mondo ribadiscono l'urgenza di un cambio di rotta, pena la sopravvivenza stessa dell'umanità. Ma nessuno si occupa più della questione e niente evidenzia meglio l'inconsistenza e vacuità della governance europea (e di quelle del resto del mondo: tutte fautrici e insieme prigioniere del pensiero unico). Già si sa che a Durban non si concluderà niente, come niente si è concluso a Copenhagen (Cop 15) e a Cancùn (Cop 16). Se tre anni fa erano Berlusconi e la pseudo-ministra Prestigiacomo a girare l'Europa per spiegare agli altri capi di governo che certi impegni erano irrealizzabili e dannosi per l'economia, ora il loro obiettivo è raggiunto: anche se in alcuni paesi qualche passo in avanti, comunque insufficiente, è stato fatto, su questo punto, in nome della crescita, l'allineamento dell'Europa al berlusconismo è ormai completo.
C'è un'alternativa a questa spirale? Certo che c'è. E' la conversione ecologica del sistema produttivo e dei consumi: la promozione di una democrazia economica fondata sull'autogoverno e un sistema produttivo decentrato, diffuso, diversificato, esperto, riterritorializzato (a chilometri zero, ovviamente dove è possibile), replicabile in tutto il mondo: tanto nei paesi di consolidata industrializzazione che in quelli emergenti e in quelli devastati da sfruttamento e globalizzazione. Una conversione che coinvolga i settori portanti della generazione e dell'efficienza energetica, dell'agricoltura e dell'alimentazione, dell'edilizia e della cura del territorio, della mobilità e della sanità; e promuova l'autogoverno dei saperi, dei servizi pubblici e dei territori, restituiti alla loro vocazione di beni comuni; e adotti consumi più sobri e meno aggressivi verso l'ambiente: non la rinuncia ascetica né la miseria a cui la finanza sta condannando il 99% della popolazione mondiale; bensì un graduale passaggio dai consumi individuali, in cui le scelte sono imposte dalla moda, dalla pubblicità, dal marketing, dagli sprechi, a un consumo condiviso, in cui gli acquisti vengono effettuati, nel rispetto degli orientamenti di ciascuno, attraverso processi partecipati come quelli dei gruppi di acquisto solidale (Gas). E con dei veri tagli alle spese viziose: che non sono la pensione dopo quarant'anni di lavoro in fonderia, e nemmeno il prepensionamento di uomini e donne nel pieno del loro vigore cacciati dalle aziende e senza alternative; ma le spese militari, l'evasione fiscale, le grandi opere inutili e dannose, la corruzione, i costi dei politici (dei politici, non della politica: quella vera non costa quasi niente). Solo nella prospettiva di una conversione ecologica le risorse che si ricavano da tagli del genere non verranno sprecate; evitando soprattutto di pagare un servizio del debito (in Italia oltre 100 miliardi di euro all'anno) che non può che affondare il paese. Non è il vagheggiamento di una società ideale, ma un programma che risponde a un elementare senso di giustizia in un processo fatto di conflitti, di partecipazione e di organizzazione delle forze necessarie per imporre soluzioni innovative e condivise: a partire dalle situazioni di crisi occupazionale che non hanno prospettive se non nella riconversione produttiva; e dal condizionamento dei governi locali, per risalire di lì ai governi nazionali e alle governance europee e mondiali.
Ma dove sono mai le forze per imboccare una strada del genere? Quelle forze hanno fatto una comparsa a livello globale nella giornata del 15 ottobre, trascinate dall'indignazione nei confronti del modo in cui vengono governate, dalla volontà di valorizzare l'energia e l'intelligenza di una generazione messa ai margini dai poteri della finanza, dalla determinazione a non pagare i costi della crisi e i debiti contratti dagli establishment politici e finanziari al potere. Il segnale è partito dalla Spagna e le parole più chiare sono state dette a New York; ma la manifestazione più numerosa e dalla composizione più variegata di questo movimento in marcia è stata quella di Roma, dove si sono ritrovati, per la prima volta insieme, associazioni, movimenti, comitati, sindacati e persone (dai No Tav agli occupanti del Teatro Valle, dalla Fiom ai Cobas, dal Forum per l'acqua al movimento degli studenti) che da anni lavorano con tenacia a promuovere progetti e rivendicazioni tra loro diversi ma convergenti; e non è valsa a offuscarne il significato la messa in scena di una aggressività vacua e violenta.
Una cosa emerge ormai con chiarezza: entro i vincoli di bilancio imposti dalla Bce a Grecia, Italia (quelli esplicitati dalla lettera con cui Draghi e Trichet hanno definito il programma di questo come di ogni prossimo governo) e in tutta l'Europa non c'è posto né per la politica, né per la proposta, né per l'alternativa. C'è posto solo per l'obbedienza, la rinuncia, il servilismo mascherato da buon senso di tanti columnist, e una spirale che porta direttamente al default; dopo aver però devastato occupazione, redditi, convivenza civile, tessuto produttivo e ambiente. La strada stretta della conversione ecologica passa allora attraverso lo scardinamento di questo diktat ed è a senso unico.
La crisi in corso, con il salvataggio delle banche too big to fail (troppo grandi per fallire) ci fa capire quanta forza hanno in realtà i debitori. E' la condizione in cui si trova oggi il nostro paese: la sua insolvenza trascinerebbe nello stesso gorgo, insieme all'euro, tutta la costruzione dell'Unione europea e le economie sia deboli che "forti" di tutti gli altri paesi. Ci sono dunque le condizioni per imporre una ristrutturazione radicale e selettiva del debito pubblico italiano attraverso un negoziato condotto insieme ai paesi cosiddetti Pigs, tutti esposti alla stessa deriva. Cominciando così a sgonfiare la bolla del debito che dai mutui subprime alle banche e agli hedge fund, e da quelle agli Stati che le hanno salvate, e dagli Stati di nuovo alle banche e poi di nuovo agli Stati, continua e continuerà ad aleggiare sul continente, sconvolgendone tutto il sistema produttivo; e buttando a terra uno a uno come tanti birilli tutti gli Stati dell'Unione.
Non sarà l'attuale governo - né il prossimo - ad avviare un negoziato del genere; ma questo è il discrimine intorno a cui raccogliere e ricostruire un'autentica forza di opposizione. Anche per salvare l'euro; e l'Europa che vogliamo.
Il governatore ora apre alle modifiche "Ogni indicazioni è ben accetta". Incontro a Roma per i danni dell´alluvione con i rappresentanti del governo
La tragedia delle alluvioni che hanno devastato l´area spezzina e Genova, riapre la partita delle costruzioni vicino ai corsi d´acqua: torna in discussione il regolamento approvato nel luglio scorso dalla giunta regionale, che riduce da 10 a 3 metri la distanza minima dai corsi d´acqua entro cui è vietato edificare. A rimettere le carte in tavola è il presidente della Regione, Claudio Burlando, cui ieri il governo ha comunicato che arrivano i fondi europei attesi da due anni e mezzo e che potrà utilizzarne una parte, tra i 20 ed i 30 milioni, per i danni alluvionali. La questione delle costruzioni vicino ai corsi d´acqua è stata rilanciata in questi giorni dalle associazioni ambientaliste, WWF, Legambiente e Italia Nostra, che chiedono la revoca del regolamento, e ripresa dal consigliere regionale di Rifondazione Alessandro Benzi. Il presidente della Regione Claudio Burlando risponde: «È nostro interesse avere grande rigore per cui al consiglio regionale dico: fate una commissione, invitate le associazioni, sentitele e diteci secondo voi cosa non va bene. Se le proposte saranno ragionevoli, le prenderemo in considerazione».
Dunque, la palla passa al consiglio regionale e proprio ieri la commissione consiliare Territorio si è occupata di norme urbanistiche e permessi a costruire con una serie di audizioni con gli ordini professionali sulla legge proposta dal vicepresidente della giunta Marylin Fusco sui casi di silenzio assenso. «Queste non sono giornate di polemica ma è tempo di assumersi una responsabilità e rivedere quello che è possibile: dunque penso che vada ripensata tutta la normativa con un dibattito approfondito». Tradotto: l´esame dei provvedimenti in commissione non sarà breve.
Ma tornando alle costruzioni vicino ai corsi d´acqua, se WWF Legambiente e Italia Nostra contestano il pericolo derivante dall´aver accorciato la distanza dell´area interdetta alle costruzioni, il presidente della Regione spiega come nasce e perché la giunta ha approvato questo regolamento. «Questa proposta non proviene dai settori tipicamente accusati di voler fare, ma dall´ambiente, dalla dirigente nota per essere attenta alla tutela del territorio: ci ha spiegato che in questo modo la tutela è maggiore». Difficile, però, pensare che si possa garantire maggiormente dai rischi idraulici, restringendo da 10 a 3 metri la fascia della non edificabilità. O no? «I tecnici ci hanno invece spiegato che i dieci metri erano solo una distanza teorica, che fioccavano le deroghe e che venivano adottate dagli enti senza che la Regione le vedesse. Allora abbiamo provato a mettere un regolamento nuovo». Non era più facile prevedere che ai 10 metri non si deroga? «Il nuovo regolamento recita che non è possibile dare alcuna autorizzazione che comporti un aumento del rischio idraulico. Dopodiché, se scavi come a Rapallo, per fare il depuratore sottoterra vicino al torrente, non metti ostacoli al deflusso delle acque. Premesso questo, ripeto che se ci sono proposte ragionevoli le prenderemo in considerazione».
Burlando tra l´altro proprio ieri è stato a Roma dove, «in un clima da ultimo giorno di Bisanzio» come l´ha definito lui stesso, ha incontrato il capo della Protezione civile, Gabrielli, i ministri Fitto, Matteoli e Prestigiacomo e il sottosegretario alla presidenza del consiglio Gianni Letta. Le garanzie per il risarcimento dei danni alluvionali e per ripristinare le infrastrutture, per ora vengono dai fondi Fas: sono sbloccati i 288 milioni di euro che la Liguria aspetta da due anni e mezzo. La Regione potrà utilizzarne una quota tra i venti ed i 30 milioni per affrontare l´emergenza alluvionale. «Vedremo quanto e come - dice Burlando - valutando se in questi anni qualche progetto si è perso per strada e se ci sono delle economie», anche perché quei finanziamenti arrivano per progetti già individuati. L´altra novità riguarda l´impegno del ministero delle infrastrutture, «che attiverà un tavolo tecnico anche con Anas perché serve anche un´attività di progettazione delle strade da ricostruire: nello spezzino ci sono 250 chilometri di strade inagibili». Infine, è piaciuta l´ipotesi di mantenere l´accisa sui carburanti nata per l´emergenza Libia e utilizzarne i proventi per i danni delle alluvioni. Ma per vararlo ci vorrà una norma, sia pure un atto amministrativo e non una legge, da parte di ministeri e governo che in questi giorni sono in tutt´altro affaccendati.
La natura è un grande business contro la crisi. "Green Italy" porta un milione di posti di lavoro. Ecco la mappa dello sviluppo ecocompatibile
di Giovanni Valentini
Se è vero che il verde è il colore della speranza, proprio perché abbinato alla natura e alla sua rinascita, allora la "green economy" può rappresentare per l´Italia qualcosa di più concreto di un sogno collettivo: una nuova frontiera, cioè un´occasione di ripresa, un´opportunità di crescita, una leva contro la crisi. Per affrontare la recessione e accrescere la propria competitività sul mercato globale, le nostre imprese si stanno orientando decisamente in questa direzione. E nel segno dell´economia verde, investono sempre più in tecnologie, processi e prodotti ecocompatibili fino quasi a raddoppiare nel 2011, con effetti ricostituenti e benefici anche sull´occupazione, diretta o indiretta: tanto da far registrare solo nel 2009 circa 200 mila assunzioni e annunciare per i prossimi anni almeno un milione di posti di lavoro.
Dal 2010 a oggi, la percentuale delle piccole e medie imprese manifatturiere (dai 20 ai 499 dipendenti) impegnate finanziariamente nel maggior risparmio energetico o nel minor impatto ambientale, è passata dal 30,4 al 57,5. Una rivoluzione tecnologica e produttiva, destinata a incidere direttamente sulla qualità del "made in Italy" e quindi sulle assunzioni di personale qualificato.
Già nel 2011 la domanda di figure professionali orientate verso la "green economy" è arrivata a superare il 38% del totale: oltre 220 mila, di cui quasi la metà (97 mila) legate al settore delle energie rinnovabili, alla gestione delle acque e dei rifiuti o alla tutela dell´ambiente, su un totale di circa 600 mila. A questi ritmi si può ragionevolmente prevedere che nei prossimi anni, tra nuova occupazione e riqualificazione di quella esistente, la riconversione ecologica dell´economia alimenterà un boom di assunzioni tra "green jobs" in senso stretto e figure riconducibili alla "green economy". Le competenze richieste appartengono trasversalmente a diversi i settori, con picchi superiori al 50% fra gli esperti di diritto, ai dirigenti e agli imprenditori, ma ancor più fra artigiani, operai specializzati e agricoltori (60,4).
Contenuti in un Rapporto che verrà presentato a Milano lunedì prossimo, 14 novembre, presso l´Assolombarda, su iniziativa di Unioncamere e di Symbola, la fondazione presieduta da Ermete Realacci, questi dati delineano - appunto - uno scenario di crescita e di speranza per il futuro del Paese. Una via d´uscita, insomma, di fronte alla crisi strutturale che incombe drammaticamente sull´economia nazionale. "GreenItaly" è insieme un impegno e una sfida per modificare radicalmente il nostro modello di sviluppo, cercando una soluzione innovativa per superare la congiuntura.
Sono state soprattutto le medie imprese, in quest´ultimo anno, a investire su tecnologie e prodotti a maggior risparmio energetico o a minor impatto ambientale: il 68,5% contro il 37,3 del 2010, rispetto alle piccole imprese (tra i 20 e i 49 dipendenti) che sono passate a loro volta dal 29,1 al 55,1. La parte del leone la fanno le industrie manifatturiere (64,4%), seguite a ruota da quelle alimentari (61,3), da quelle meccaniche (58,6) e poi da quelle che producono beni per la persona e per la casa (50,1%). Quanto alla ripartizione geografica, è un segno confortante che l´incremento maggiore si registri proprio al Sud (64,5%), più in ritardo e perciò più propenso a guardare avanti per recuperare terreno, rispetto al 57,3 del Nord-Est, al 56,7 del Nord-Ovest e al 53,6 del Centro.
«Nel momento difficile che il Paese sta attraversando - osserva Realacci - è necessario riguadagnare credibilità e serietà sul terreno finanziario, ma anche indicare la strada per il futuro della nostra economia, mettendo in moto le migliori energie». E perciò commenta con soddisfazione il fatto che «nell´incrocio tra innovazione, qualità e bellezza, la green economy in salsa italiana è già ben presente nelle attività della parte più avanzata del nostro sistema imprenditoriale».
Nella relazione che accompagna il Rapporto "GreenItaly", il presidente di Symbola sostiene poi che «la crisi va colta come una grande occasione di cambiamento, un´opportunità per affrontare le questioni aperte da tempo». La "rivoluzione ecologica" può rappresentare la chiave di volta per favorire un´autentica modernizzazione del Paese nella prospettiva di uno sviluppo sostenibile, cioè compatibile con la difesa dell´ambiente e la tutela della salute collettiva. E in Italia, più che altrove, l´economia verde si incrocia con la "soft economy", vale a dire con la qualità, l´innovazione e la ricerca, con quella insomma che un grande storico dell´economia come Carlo Maria Cipolla definiva la capacità di "produrre all´ombra dei campanili cose che piacciono al mondo": dai settori più tradizionali a quelli più innovativi, dall´agroalimentare alle ceramiche, dalla nautica al turismo, fino alla "meccatronica" (il mix di meccanica, elettronica e informatica).
Si tratta, ovviamente, di una sfida su scala internazionale per il nostro Paese e per le nostre imprese, chiamate a confrontarsi su progetti ambiziosi e impegnativi: come, per esempio, quello denominato "Desertec" che prevede investimenti per 300 miliardi di euro sulla sponda sud del Mediterraneo, nel campo delle fonti rinnovabili e in particolare nel solare termico ad alta concentrazione. Né mancano opportunità rilevanti a livello nazionale, come quelle che interessano il settore edilizio per la ristrutturazione delle case e l´efficienza energetica: finora il credito d´imposta del 55% per cento a favore dei privati, per le spese sostenute in questo genere di interventi sulle proprie abitazioni, è stato utilizzato da circa 600 mila famiglie e ha prodotto investimenti per quasi 12 miliardi di euro, coinvolgendo decine di migliaia di occupati.
Crescita e sostenibilità ambientale, considerate fino a ieri in antitesi, si stanno rivelando quindi due facce di quella stessa medaglia che è la competitività di un "sistema Paese". L´Italia ha tutte le carte in regola per partecipare a pieno titolo a questa gara globale: le bellezze naturali; un patrimonio storico, artistico e culturale, unico al mondo; talento, fantasia, creatività. «Occorre - conclude Realacci - un´economia più a misura d´uomo, attenta alle comunità e ai territori. E proprio per questo più sostenibile e competitiva».
Jeremy Rifkin: è l´unica via allo sviluppo
"Quell´energia che sbaraglia il mercato"
intervista di Antonio Cianciullo
«La green economy è l´unico settore della nostra economia che ancora funziona perché è l´unico allineato al futuro. Gli altri segmenti sono in crisi e, ogni volta che hanno un momento di temporaneo recupero e il motore della produzione si rimette in moto con il vecchio sistema, i prezzi del petrolio e delle materie prime schizzano alle stelle facendo inceppare di nuovo il meccanismo: la seconda rivoluzione industriale è arrivata al capolinea perché non ha saputo calcolare i limiti fisici del pianeta». Jeremy Rifkin ha appena pubblicato La terza rivoluzione industriale, il manifesto della società che si sta formando attorno ai valori della green economy.
Partiamo dai numeri. Fino a ieri molti ritenevano l´economia verde utile ma secondaria, un attore di secondo piano sulla scena economica mondiale. Oggi la situazione è cambiata?
«Sì perché la Terza rivoluzione industriale si sta dimostrando un cambiamento epocale del nostro modo di produrre e di pensare. Alcune industrie chiuderanno, ma molte altre apriranno e verranno creati centinaia di milioni di posti di lavoro per l´energia rinnovabile distribuita nelle case, negli uffici, nelle campagne; per la realizzazione di un ciclo di immagazzinamento dell´energia basato sull´idrogeno; per la sostituzione del vecchio parco auto inquinante con veicoli elettrici; per la creazione di smart grid in grado di far viaggiare l´energia come le informazioni sul web».
Una rivoluzione solo al futuro?
«Al contrario, è un processo già iniziato. Le faccio solo un paio di esempi. Negli Stati Uniti l´efficienza energetica delle case è estremamente bassa: aumentarla costerebbe 100 miliardi di dollari l´anno ma permetterebbe di risparmiare energia per 163 miliardi di dollari l´anno. E la mobilità offre analoghe opportunità. Zipcar, la più importante società di car sharing, in un decennio di attività ha aperto migliaia di sedi per mettere le auto condivise a disposizione dei suoi clienti: cresce del 30 per cento l´anno e nel 2009 ha fatturato 130 milioni di dollari».
Non tutto il movimento ambientalista però appoggia la green economy. C´è una frangia che contesta gli impianti eolici, solari e a biomasse in nome del paesaggio.
«Mi sembra una contraddizione destinata a essere superata dall´evoluzione della green economy. In questo momento di transizione una quota significativa di energia rinnovabile viene prodotta dai grandi impianti perché siamo nella fase di sviluppo iniziale della filiera. Io non sono contrario per principio ai grandi impianti, e penso che in alcuni luoghi si possano realizzare, ma sono destinati ad essere superati dalla logica della Terza rivoluzione industriale. Una rivoluzione basata sullo sviluppo di milioni di mini e micro centrali di produzione energetica che troveranno posto sui tetti e sulle facciate di buona parte degli edifici».
Eppure la crisi economica ha fatto registrare in molti paesi una battuta di arresto della green economy.
«Si sono fermate le economie che non hanno puntato sul futuro. Ma per sapere dove va il mondo c´è un modo molto semplice: guardare cosa fanno i giovani. I loro valori sono quelli di Internet: il diritto all´accesso alle conoscenze, il rapporto paritario, lo scambio di informazioni e di musica, presto lo scambio di energia. La loro rivoluzione è l´attacco al sistema basato sull´autoritarismo, sul potere gerarchico, sull´accentramento. Vogliono una società che abbia come valori la trasparenza, il decentramento e l´accesso libero alle reti».
Una possibilità reale?
«Alcuni dei governi rimasti attaccati al vecchio modo di pensare, come i regimi dittatoriali dell´Africa mediterranea, sono già stati spazzati via perché il potere laterale costruito dalla generazione di internet ha battuto l´arroganza delle autocrazie. Lo sviluppo del movimento degli indignati mostra che una critica radicale alla vecchia logica industriale sta crescendo rapidamente anche nei paesi industrializzati: c´è bisogno di un concetto più avanzato e più largo di democrazia che includa gli atti della vita quotidiana e una redistribuzione della ricchezza».
Martin Lutero sosteneva: «pecca fortiter sed crede fortius», pecca di più ma credi di più. Non vorremmo che l’enfasi posta sullo “sviluppo” determinato dagli investimenti nei settori del disnquinamento, della mitigazione ecc. significasse “inquina di più per disinquinare di più. Non è detto che la “green economy” coincida con la ristrutturzione economica dell’ecnomia.
Ciriaco D'Alessio, prescritto in un'inchiesta per tangenti, sarà Magistrato delle acque. Arrestato nel '93 a Milano, aveva incassato una bustarella da 400 milioni di lire per un appalto stradale
Un’attrazione fatale lega le opere pubbliche e i manager che hanno avuto guai con la giustizia. L’ultimo caso è quello del Magistrato delle acque di Venezia, un incarico di peso, uno dei più importanti a livello nazionale perché tra l’altro deve gestire i lavori del Mose, il gigantesco sistema delle paratie mobili contestato da molti, ma che nelle intenzioni di chi l’ha voluto dovrebbe salvare la città dall’acqua alta, una delle poche grandi opere uscita a fatica dal libro dei sogni dei governi Berlusconi ed effettivamente trasformata in lavori. Secondo i piani ufficiali l’imponente struttura, la cui prima pietra fu posta la bellezza di 22 anni fa, dovrebbe essere finalmente pronta nel 2014, quindi stando almeno alle promesse siamo alle fasi finali e cruciali. Proprio in vista di questo rush è prevista un’ulteriore pioggia di finanziamenti (crisi permettendo) sull’ordine dei miliardi di euro in direzione Venezia.
A SOVRINTENDERE questa enorme partita mattonar-finanziaria, il ministro delle Infrastrutture, Altero Matteoli ha voluto all’inizio di novembre un dirigente pubblico che in passato ebbe guai serissimi con i tribunali e che si salvò per il rotto della cuffia da una condanna certa. Questo manager si chiama Ciriaco D’Alessio, 63 anni di Bonito nell’Avellinese, è un dirigente di prima fascia del ministero e le avventure giudiziarie che lo hanno riguardato non solo non gli hanno troncato la carriera, ma è come se fossero state considerate un attestato di benemerenza e avessero fatto curriculum. D’Alessio fu arrestato il 14 maggio 1993 a Milano, città dove fino a poco tempo prima aveva svolto il delicato incarico di Provveditore alle opere pubbliche. Aveva incassato una bustarella di 400 milioni di lire per un appalto stradale e i magistrati lo accusarono quindi di corruzione aggravata e violazione della legge sul finanziamento dei partiti, perché parte di quei quattrini erano finiti proprio nelle casse dei partiti.
Nell’inchiesta era coinvolto anche Gianni Prandini, allora ministro democristiano dei Lavori pubblici, lo stesso che alcuni anni prima, nel 1989, aveva inaugurato l’avvio dei lavori del Mose assieme al ministro socialista e veneziano Gianni De Michelis. Le testimonianze rese da D’Alessio su quegli affari di corruzione furono giudicate di “fondamentale importanza” dalla Giunta per le autorizzazioni a procedere del Parlamento che poi dette il suo assenso alla possibilità di processare il ministro democristiano. La Giunta scrisse che “anche il Provveditore delle opere pubbliche di Milano, Ciriaco D’Alessio, ha confermato di aver consegnato personalmente al Prandini somme di denaro da parte di imprenditori”. Al processo l’ex ministro fu condannato a 6 anni e 4 mesi di reclusione per le tangenti sugli appalti, sentenza poi annullata nel 2003 per un vizio di forma. D’Alessio fu più fortunato perché nel 2001 il reato che gli veniva contestato fu ritenuto caduto a causa della prescrizione.
DA MAGISTRATO delle acque, D’Alessio si occuperà non solo del Mose, ma anche della bonifica di Marghera e in entrambi i casi incrocerà un altro manager che sembra un suo gemellino: Piergiorgio Baita. Anche Baita ebbe guai seri con la giustizia ai tempi della Prima Repubblica, anche lui 19 anni fa fu arrestato e rinchiuso nel carcere di Venezia, fu poi prodigo di testimonianze e di racconti sulle “logiche di spartizione tra Dc e Psi”, come scrissero allora i giornali, e alla fine sfuggì per un soffio alla condanna mentre venivano giudicati colpevoli 7 tra amministratori e manager che con lo stesso Baita avevano fatto affari. Anche Baita non solo non è rimasto azzoppato per questi episodi, ma è stato baciato da una carriera luminosa. Ora ricopre 72 incarichi in 40 società diverse, presidente, consigliere, amministratore, è diventato il re del mattone della Laguna e con la sua ditta Mantovani è presente in tutte le grandi opere pubbliche della città e dei dintorni. Con D’Alessio farà coppia fissa e avrà le mani in pasta su tutto ciò che conta, dal Mose al disinquinamento, appunto.
Prima dell’approdo a Venezia, D’Alessio non era stato affatto relegato in un qualche sottoscala del ministero di Porta Pia a Roma, anzi. È stato Provveditore per le opere pubbliche in Piemonte e in Calabria, per esempio, e nel 2005, ai tempi del precedente governo Berlusconi, fu indicato dal ministro Beppe Pisanu come rappresentante dell’Interno nel comitato per le Olimpiadi invernali di Torino. Un anno fa Matteoli gli affidò l’ennesimo incarico prestigioso e delicato: Provveditore per le opere pubbliche in Toscana, proprio al posto di uno dei massimi esponenti della cricca degli appalti statali, quel Fabio De Santis tanto caro a Denis Verdini, coordinatore Pdl. Già allora ci fu chi ebbe da ridire per quella designazione ritenuta azzardata. Parole al vento: non solo hanno fatto finta di niente, ma con la nomina di D’Alessio a Venezia hanno rincarato la dose.
Nonostante l’opposizione di associazioni ambientaliste, anche nazionali, sembra ormai difficile scongiurare la costruzione di una superstrada di oltre tre chilometri, che nel suburbio meridionale cancellerà uno degli ultimi lembi della campagna romana. Le sue quattro corsie richiederanno sbancamenti, rilevati di terra, un viadotto e una galleria in aree d’interesse naturalistico, provocando sensibili alterazioni ambientali.
La stampa se n’è già occupata; ha illustrato il progetto, ha svelato le mire speculative che sono all’origine della dispendiosa opera pubblica, ed ha illustrato i danni che deriverebbero dalla sua attuazione. La questione fu posta inizialmente per la tutela di una vallicella, bellissima e rigogliosa, nota come Fosso della Cecchignola, che doveva essere devastata per realizzare il collegamento stradale con il Colle della Strega, allora destinato all’edificazione. In realtà l’area interessata è molto più vasta, e comprende ampi spazi verdi adiacenti al parco della via Appia. Per risolvere i problemi del traffico sarebbe più che sufficiente l’adeguamento della viabilità esistente, ma i pesanti programmi di urbanizzazione di suoli ancora intatti richiedono evidentemente la realizzazione della nuova arteria stradale; richiedono il sacrificio della parte più delicata e angusta del canalone, ove non più largo di 120 metri attraversa l’abitato.
In questo caso la sconfitta della tutela ambientale e della decenza urbana non comporta solo il consueto danno territoriale inferto dalla speculazione. La perdita è ben maggiore. Si vanifica infatti la possibilità di adottare una nuova strategia per la riqualificazione del suburbio romano. L’opportunità è offerta dal parco regionale dell´Appia, il cui ampliamento su aree non costruite nel contesto urbano consentirebbe fin d’ora di applicare anche qui nuovi criteri di protezione dei suoli, di recupero dei caratteri naturali, di conservazione del paesaggio e di tutela delle attività tradizionali. A questo si stava arrivando nel 2005 con una proposta di legge approvata dalla giunta regionale per l’inserimento nel parco dell’Appia di circa 1.500 ettari di territorio appartenente ai comuni di Roma, Ciampino e Marino. Il provvedimento avrebbe dovuto proteggere tra l’altro comprensori di grande valore naturale e archeologico a Marino, esposti alla realizzazione di disinvolti programmi edilizi; avrebbe dovuto inoltre includere nel parco il tratto urbano della via Appia, tra Porta Capena (presso il Circo Massimo) e Porta San Sebastiano. Debolezze e opportunismi dilazionarono ad arte l’approvazione della legge da parte del Consiglio regionale, il cui scioglimento ne comportò il definitivo abbandono.
I parchi regionali sono istituzioni di formazione recente, ove si stanno acquisendo importanti esperienze nella protezione dei valori naturalistici e ambientali; svolgono funzioni analoghe a quelle esercitate dalle soprintendenze per la difesa e la cura dei monumenti, dei suoli archeologici e del paesaggio. Come tutte le istituzioni preposte alla tutela di interessi pubblici anche i parchi regionali si trovano ora in condizioni di particolare debolezza, e sono esposti al rischio del totale esautoramento. Se riusciranno a superare le difficoltà del momento è da sperare che vengano loro riconosciute maggiori e più estese competenze per la difesa dei caratteri naturali e degli aspetti ambientali anche all´interno delle città.
I disastri vieppiù frequentemente causati dal cattivo uso del suolo dovrebbero riproporre con ogni urgenza la questione della tutela ambientale. Il Fosso della Cecchignola ha egregiamente svolto la sua funzione di drenaggio nel corso delle recenti alluvioni: cancellarlo sarebbe un insopportabile segno di cedimento a fronte di interessi particolari. Si sostiene, al Comune, che la procedura amministrativa per la costruzione della strada sia ormai troppo avanzata per fare marcia indietro. Chi può crederlo?
Postilla
Che la costruzione della superstrada abbia scopi puramente speculativi è fuor di dubbio. E che questa ennesima devastazione all’Agro romano sia gravissima è altrettanto evidente.
Meno efficaci ci sembrano gli strumenti invocati a difesa, almeno per quello che raccontano le cronache di questi anni.
E’ vero che sul destino dei parchi regionali è in corso una battaglia poco chiara, ma è altrettanto vero che la loro azione non è stata esente da criticità: perchè diventino istituzioni in grado di operare con incisività per una salvaguardia integrale dei territori e in piena collaborazione con le altre istituzioni di tutela, occorre forse ripensare a taluni meccanismi che ne hanno ostacolato, anche pesantemente, l’operato.
E’ forse il momento giusto per interrogarsi su quello che non ha funzionato, sulle cause e sulle soluzioni possibili: eddyburg invita a farlo tutti coloro che hanno a cuore il destino di territori straordinari e fragilissimi. (m.p.g.)
La scelta scellerata dell’amministrazione Pisapia di revocare la delibera di approvazione del PGT comporta, come stabilito dall’art.13 della legge regionale n°12, l’inefficacia dell’intero provvedimento e la necessità di ricominciare da capo avviando un nuovo unico procedimento che passi attraverso la fase dell’adozione e poi a quella dell’approvazione.
Ciò comporta, evidentemente, il blocco per alcuni anni dello sviluppo edilizio, infrastrutturale e dei servizi della città con ricadute devastanti su di un settore economico che è popolato non solo da costruttori, ma anche da operai, manovali, imbianchini, muratori, carpentieri etc. e dalle rispettive famiglie. A ciò si aggiunga il pregiudizio che ne subirebbe l’intera popolazione cittadina a causa dell’inevitabile impossibilità di edificare le case in housing sociale per decine di migliaia di famiglie nonché il totale immobilismo rispetto alla realizzazione di ogni tipo di infrastruttura e di servizi per la città.
Nell’augurarmi che il Consiglio Comunale di Milano, unico organo legittimato a revocare una propria delibera, non si assuma una simile responsabilità, ho ritenuto doveroso, quale cittadino ed ex consigliere comunale, procedere ad invitare formalmente con apposita diffida (notificata per conoscenza anche al Sindaco, all’assessore all’Urbanistica e al presidente del Consiglio Comunale di cui unisco copia) il responsabile del procedimento nella persona del direttore del settore Pianificazione Urbanistica Generale al pieno rispetto della legge provvedendo senza indugio alla pubblicazione del PGT già approvato da 9 mesi, tenuto conto che si tratta di un obbligo d’ufficio con tutte le conseguenze del caso.
Non si parla che di riforme. Ogni misura di politica economica è annunciata come una riforma anche quando si tratta di normale amministrazione. Il termine si è inflazionato. Riforme dovrebbero essere quelle che cambiano la struttura di un sistema, non quelle che ne modificano i parametri, come l´età pensionabile o il livello della contrattazione salariale. L´accento sulle cosiddette riforme è posto tutto sulla contrazione dei costi e in particolare di quelli del lavoro: decentramento dei livelli di contrattazione, flessibilità dei contratti (per non dire licenziamenti), mobilità del lavoro, ecc... E non si parla d´altro che di liberalizzazioni, privatizzazioni, semplificazioni e riduzione del peso della burocrazia.
Ora non c´è dubbio che interventi di modernizzazione e di razionalizzazione siano opportuni. Ma è assai dubbio che si traducano in un forte stimolo alla crescita nel tempo breve, anzi brevissimo, di cui disponiamo. Perché il passo fondamentale per avviare un ciclo di crescita robusto e duraturo non può che consistere nell´espansione della domanda aggregata la quale, oltre a trainare la ripresa dell´occupazione, avrebbe un effetto benefico sul gettito fiscale e quindi sulla tenuta dei conti pubblici e sulla fiducia dei mercati.
La questione fondamentale per suscitare la crescita, dunque, è la "domanda". Ma come attivarla? Uno dei pilastri per ottenere un´espansione della domanda è rappresentato da un piano di investimenti pubblici nelle infrastrutture e nella riconversione ecologica dell´economia.
In Italia il finanziamento di un piano per la crescita potrebbe provenire in primo luogo da un´imposta patrimoniale dell´ordine di 15 miliardi di euro all´anno che si protragga per almeno tre o cinque anni. Nel contempo, in questo momento difficilissimo per la tenuta delle finanze pubbliche, andrebbero attivate le grandi imprese a partecipazione statale come Eni, Enel e Finmeccanica e andrebbe coinvolto il sistema bancario, non solo per motivi di solidarietà nazionale ma anche perché il rilancio della crescita avrebbe l´effetto di far risalire le quotazioni azionarie delle grandi imprese e delle banche che oggi sono pesantemente sottovalutate a causa del "rischio Italia".
In Europa il finanziamento di un piano per la crescita dovrebbe avvenire attraverso due interventi da attuare simultaneamente: l´emissione degli Eurobonds e il varo della tassa sulle transazioni finanziarie che permetterebbe di pagare la spesa per interessi sulle obbligazioni europee.
Il rilancio della crescita dell´economia italiana ed europea avrebbe un effetto importante sulla fiducia che è essenziale per alimentare la circolazione della moneta e per riattivare il credito bancario alle famiglie e alle imprese. Perché oggi le banche europee a causa delle fosche prospettive di crescita hanno degli attivi che sono diventati sempre più illiquidi e tendono a mettere a riserva oppure ad impiegare in attività speculative la liquidità che si possono procurare a basso costo dalla Banca Centrale Europea.
Inoltre, è di cruciale importanza rovesciare le convinzioni dominanti che considerano i redditi da lavoro come gravami da minimizzare piuttosto che fattori di benessere da promuovere: come vincoli e non come obiettivi. Il fatto è che è proprio nel mostruoso aumento delle disuguaglianze sta l´origine della crisi attuale. Alle origini della crisi americana, trasmessa poi all´Europa, c´è un colossale indebitamento generato dalla necessità di evitare la contrazione della domanda associata alla stagnazione dei salari. Quelle disuguaglianze oggi non si sono ridotte ed anzi sono state accentuate dallo spostamento del debito privato su quello pubblico e quindi dalla necessità di tagliare le prestazioni sociali per far quadrare i conti. E le agenzie di rating che avevano tranquillamente garantito i conti di imprese fallimentari oggi non si stanno facendo scrupoli nel declassare gli Stati in difficoltà.
La verità è che nel capitalismo finanziario il problema cruciale è quello della distribuzione della ricchezza. La crescita comporta uno spostamento della ricchezza concentrata in misura sproporzionata verso i livelli più alti.
Ma quale crescita dobbiamo avere in mente nel periodo attuale? Crediamo che l´obiettivo prioritario non debba essere di tipo quantitativo. Oggi dobbiamo puntare su di un´economia della sostituzione e dell´efficienza che ci porti verso una condizione di "stato stazionario di natura dinamica". Cioè dobbiamo impegnarci verso la costruzione di un´economia in cui il prodotto totale non continui ad espandersi indefinitamente ma che punti invece su uno sviluppo di qualità.
Una più equa distribuzione del reddito e una produzione ecologicamente più equilibrata: ecco le vere riforme di un capitalismo che ci sta trascinando verso un´età dei torbidi.
Il salto d'epoca si materializza attorno alle 8 della sera. Non è solo la decisione delle dimissioni di Berlusconi ad annunciarlo. E' il combinato disposto del comunicato del Quirinale, in cui la decisione del premier viene messa nero su bianco, e della nuova missiva in arrivo dalla Commissione Ue, anticipata in contemporanea sul sito di Repubblica. Il ventennio berlusconiano finisce nello stesso momento in cui quel che resta della sovranità nazionale italiana viene messa al guinzaglio dalla governance europea. La talpa della religione neoliberista ha scavato di più della millantata rivoluzione liberale del mago di Arcore.
Solo un'ora prima, a colloquio in corso fra Berlusconi e Napolitano, la ridda delle ipotesi e controipotesi sulla crisi di governo ormai certificata dal voto sul rendiconto pareva avviata su più consueti binari, sia pure controllati dal semaforo della Ue e dominati dal feticismo dei mercati e dello spread. Intervistato dal Tg3 delle 19, Giuliano Ferrara raccontava che Berlusconi era salito al Colle mezz'ora prima diviso fra due diverse ipotesi, a loro volta sostenute da due diverse tifoserie. La prima, tifoseria di Ferrara medesimo e pochi altri: lanciare un appello all'opposizione per ottenerne l'appoggio in Senato sulle misure anticrisi annunciate al G20, garantendo di dimettersi subito dopo per andare risolutamente alle elezioni. La seconda, tifoserie varie Pdl e Lega, meno votate al rischio elettorale e fermamente incollate agli scranni parlamentari: fare il famoso passo a lato e adattarsi a favorire la nascita di un governo Alfano o chi per lui, con la speranza di allargare la maggioranza di quanto basta per tentare di arrivare a fine legislatura. Due alternative corrispondenti a due opposte filosofie; posta in gioco, il senso del ventennio berlusconiano da consegnare alla storia. Nel primo caso, un Berlusconi terminale ritrova il Berlusconi delle origini e sfida le urne rivendicando tutto il peso del suo ventennio, puntando i piedi sull'irreversibilità del bipolarismo, riproponendosi - dio solo sa come - come l'unica personalità in grado di affrontare la crisi europea senza inchinarsi più del dovuto ai relativi diktat: se funerale del berlusconismo dev'essere, che sia almeno un funerale in grande. Nel secondo caso, un Berlusconi terminale si mette la maschera del leader responsabile, garantisce i suoi passando il testimone, ma accettando di sfigurare il ventennio nel suo contrario, ovvero nel rito grigio e trito di una manovra parlamentare da prima Repubblica di sapore democristiano, esattamente ciò contro cui aveva detto di essere sceso in campo nel '94: un funerale mestissimo e di seconda classe.
All'uscita dal Quirinale, mentre agenzie e siti italiani e stranieri battono le sue dimissioni attese in tutto il mondo, Berlusconi sa e dice che ormai le cose non sono più nelle sue mani ma in quelle di Napolitano. Non scioglie del tutto il suo dilemma, ma si dichiara nettamente a favore della prima alternativa: dopo di lui, elezioni. Dopo di lui, governo di transizione, replica un Bersani soddisfatto ma ben consapevole che Berlusconi si è dimesso ma non è scomparso, e che la situazione economica e finanziaria è «delicatissima». A misure anticrisi approvate, si apre il gran ballo delle consultazioni. L'epoca però è improvvisamente cambiata. Non si tratta più solo, né per il Cavaliere né per l'opposizione, di dare adeguata sepoltura al ventennio berlusconiano barcamenandosi fra la seconda Repubblica mai nata e la prima che può sempre tornare. Si tratta di ereditare un sistema economico e sociale massacrato e sottoposto a 39 quiz stilati nell'inglese standardizzato delle istituzioni economiche, non politiche, sovranazionali. Al funerale del berlusconismo, qualcuno si ricordi di dire che Berlusconi e Bossi non ci facevano caso, ma Arcore e la Padania stavano in Europa.
Ci sono due scene, nel fine regno di Berlusconi, che dicono la sua caduta con crudezza inaudita: più ancora del voto del rendiconto dello Stato che ha attestato, ieri, lo svanire della maggioranza.
Ambedue le scene avvengono fuori Italia, trasmesse dal mezzo che Berlusconi per decenni ha brandito come scettro: la tv. La prima è il riso di Sarkozy e Merkel, quando una giornalista chiede se Roma sia affidabile. È l´equivalente del lancio di monete su Craxi: un´uccisione politica.
La seconda scena è del 4 novembre, dopo il G20 a Cannes, e forse è quella che parla di più. Con volto tirato, stupito, il Premier ripete che di crisi non c´è traccia, che «per una moda passeggera» i mercati s´avventano sul nostro debito sovrano: «Noi siamo veramente un´economia forte, la terza economia europea, la settima economia del mondo... la vita in Italia è la vita di un Paese benestante, in tutte le occasioni questo si dimostra... i consumi non sono diminuiti, i ristoranti sono pieni, con fatica si riesce a prenotare posti negli aerei, i posti di vacanza nei ponti sono assolutamente iperprenotati... ecco, non credo che voi vi accorgiate, andando a vivere in Italia, che l´Italia senta un qualche cosa che possa assomigliare a una forte crisi! Non mi sembra!»
Vale la pena soffermarsi su questa frase - su questo «non credo», «non mi sembra» - perché in pochi secondi apprendiamo quel che è stato, ed è, il berlusconismo: l´apparenza che usurpa il reale, e il vocabolario di tale usurpazione. Non è il linguaggio della politica, che anche quando s´ingarbuglia s´adatta astuto alle circostanze. Non è neanche il linguaggio di una classe: in questo caso, di un imprenditore sceso in politica perché messo alle strette dalla giustizia. È il linguaggio dello spot promozionale: insistente, sempre eguale a se stesso, sempre indirizzato al cittadino che di politica non vuol sapere, sempre pronto ad annusare il possibile cliente in chi sta appeso alla Tv.
Per il pubblicitario non c´è crisi, non ci sono precipizi, ma un mondo liscio, parallelo a quello - reale - che sta «là fuori». Nei disastri il pubblicitario c´è o non c´è a seconda delle convenienze: iper-presente all´Aquila, iper-latente in Liguria e a Genova. In pieno sfascio economico la réclame non smetterà di esibire sontuosi sofà, mogli che corrono ai centri benessere, lussuose automobili che una giovane coppia, piccata, non compra perché le ritiene, nientemeno, «troppo poco care». Ecco, il quasi ventennio Berlusconi è stato questo: uno show che dominava le menti anche se sporadicamente governava la sinistra. Un Truman Show, che alla fine beve il cervello stesso del suo demiurgo.
Ricordate il finale del film? È il risveglio che Eugenio Scalfari invoca nell´articolo di domenica. Truman, l´eroe in fuga, giunge ai limiti estremi di quello che crede essere il mondo ed è invece un immenso studio Tv. Col proprio veliero cozza contro una parete che s´erge all´orizzonte e simula, tutta dipinta d´azzurro, il cielo ai confini con le acque (lo spazio azzurro dei fan di Berlusconi, nel sito Pdl). Dalla cabina di regia è interpellato dal capo della Grande Manipolazione, Christof, e Truman che ha scoperto la verità gli chiede: «E io chi sono?» - «Tu sei la star» - «Non c´era niente di vero...» - «Tu, eri vero. Per questo era così bello guardarti. Ascoltami Truman, là fuori non troverai più verità di quanta ne esista nel mondo che ho creato per te: le stesse ipocrisie, gli stessi inganni, ma nel mio mondo, tu non hai niente da temere... Io ti conosco meglio di te stesso. Tu hai paura. Per questo non puoi andar via». La sfera di cristallo s´infrange quando Truman scoppia a ridere, recita la frase-spot che ripeteva nel finto villaggio, e esce dallo show: «Caso mai non vi rivedessi... Buon pomeriggio, buona sera e buona notte! Già..».
Accade così il risveglio ma non sarà facile, perché quasi tutti hanno concorso alla costruzione della sfera con nuvole, notti, cieli finti. Perché tanti si sono abituati alle frasi-spot, all´infantile ecolalia. Anche la sinistra ha concorso, fin da quando permise che un proprietario di reti tv si candidasse a premier. Non dimentichiamo come finirono i governi Prodi, affossati da chi pretendeva sostenerli e parve ignaro che il tycoon perdeva magari il governo ma non il potere. L´ultimo esecutivo di sinistra, nel 2006-2008, fu considerato fallimentare dagli stessi alleati di Prodi perché troppo rigoroso in economia, troppo preoccupato di sincronizzare i tempi italiani con l´orologio europeo. Chi nomina ancora in pubblico Vincenzo Visco, dipinto dalla destra come Dracula assetato di sangue perché in lotta con l´evasione fiscale? Eppure Tremonti ha dovuto riesumare non poche sue misure: oggi l´evasore è ritratto come insetto parassita, parola che Visco non usò.
L´altro giorno, intervistato da Lilli Gruber a 8½, Enrico Letta è stato evasivo sull´austerità. Senza Berlusconi, ha detto, noi «non abbiamo davanti un tempo di drammi quanto alle misure da prendere. L´Italia è un Paese che ha fondamentali assolutamente solidi, forti. Ha imprenditori, ha lavoratori, ha ricchezze, ha patrimoni. L´Italia ha tante, tante, tante possibilità di farcela! Noi non siamo la Grecia! Siamo proprietari delle nostre case, proprietari in buona parte del nostro debito pubblico. L´Italia ha la ricchezza!» Che dovremo fare, caduto questo governo? Ci salveremo «facendo scelte che indichino la terra promessa. Perché ci sono una serie di importanti riforme che non sono fatte solo per sacrificarsi: ma per cambiare ed essere migliori!» Tutto questo è vago, e non così diverso, in fondo, da quanto detto dal Premier a Cannes. Perfino certi suoi tic verbali sono ripresi: l´ubiquo avverbio "assolutamente", o le infantilizzanti parole a raffica (tante tante tante possibilità, riecheggianti la grande grande grande riforma giudiziaria). Non è vero quello che si legge in queste ore: «Berlusconi non esiste».
Centro e sinistre si stanno dimostrando responsabili, ma non è evidente che abbiano, della crisi, una visione davvero chiara. Che siano pronti ad affrontare il tema destinato per volontà del Premier a sovrastare la campagna elettorale: l´Europa. Nell´attacco il centrosinistra è bravo. Molto meno nel contrattacco. Continuerà a denunciare il commissariamento, o lavorerà su misure più eque ma per noi necessarie? E come replicherà allo spot di Berlusconi, secondo cui è colpa dell´euro se stiamo male? Possibile che nessuno gli ricordi che al governo c´era lui, quando l´euro fu introdotto nel 2002 e i prezzi s´impennarono senza trasparenza né controllo alcuno? Dovrebbe far riflettere il fatto che il dibattito interno al Pd, o la battaglia europea su una vera Banca centrale, prestatrice di ultima istanza, avvengano soprattutto sul Foglio.
Uscire dal Truman Show significa rifare le istituzioni italiane, oggi sfatte. Non è chiaro se la sinistra darà alla Rai l´indipendenza dai partiti che possiede la Bbc. Se lotterà in Europa per trasformarla in qualcosa di più democratico e sovranazionale. Se riempirà di contenuti i discorsi sull´etica pubblica, combattendo corruzione, cricche, mafie. Se vorrà la legge elettorale reclamata dai cittadini, e candiderà parlamentari debitori verso gli elettori, non i partiti. Se contrasterà l´inadeguatezza e i fallimenti della seconda repubblica senza proporre tutti i mali della prima. Promettono male, i posti nelle liste di centro sinistra garantiti ai transfughi Pdl.
Non so cosa intendesse Prodi, quando domenica su Repubblica ha detto che «Bersani è una persona eccellente, di grandi capacità, ma non riesce a "uscire"». A me pare che parlasse di un´uscita dal deserto del reale: dal Truman Show. Berlusconi scimmiotta Mao: «Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente». Siamo sicuri che non lo scimmiotti anche la sinistra? I sogni utopici, dice Slavoj Žižek, eliminano il "rumore di fondo": cioè la realtà. Siamo sicuri che questo rumore sapremo udirlo, capirlo, restituirgli uno spazio?