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Dal 13 giugno, giorno della vittoria popolare nei referendum, sono passati cinque mesi e più, troppi in un'epoca di cambiamenti rapidi, materiali e finanziari. Il tempo è passato come acqua sui marmi dei Palazzi: non ha lasciato traccia. Il Forum dei movimenti per l'acqua che convoca la manifestazione di oggi spiega bene questo silenzio: «Governo e Confindustria, poteri finanziari e lobbies territoriali, visto che il popolo ha votato contro di loro, hanno deciso di abolire il popolo, con una nuova e gigantesca espropriazione di democrazia».

Abbiamo un nuovo governo, in Italia, approvato dal novanta per cento del parlamento. Il presidente del consiglio non ha trovato parole da indirizzare ai ventisette milioni di sì, non ha fatto neppure un cenno di riconoscimento nei loro confronti, un saluto, non ha citato l'esistenza di problemi ambientali. Un suo ministro, preposto proprio a quel tema, è inciampato sul nucleare, come se non sapesse che la maggioranza delle persone non ne vuole sapere. Sarà lui a rappresentare il paese a Durban in Sudafrica, dove tra pochi giorni il pianeta discuterà su come sopravvivere al disastro ambientale? Sarà lui a rappresentarci a Marsiglia, in marzo, quando si parlerà di acqua al sesto Forum idrico delle multinazionali? Cosa ne sanno costoro, vecchi e nuovi governanti, di acqua, se non che è roba che il mercato predilige e che si può vendere ad alto prezzo, facendo cassa? A Marsiglia, dentro e fuori il Forum dei padroni e il contemporaneo Forum alternativo dei popoli, sarà il referendum italiano a fare da protagonista. Tutti chiederanno come abbiamo fatto, cosa ci proponiamo; molti vorranno discutere, imparare da noi. Racconteremo di un movimento o meglio di mille movimenti, di persone che hanno imparato e insegnato nello stesso tempo, a fare la politica, a raccogliere le firme, a parlare, a cantare e ballare per l'acqua, con generosità e con fiducia nel buon diritto (e nel buon movimento).

Per tenere vivo questo impegno, il Forum lancia oggi, dalla manifestazione romana, la sua proposta di «obbedienza civile». Con un po' di ironia - uno scherzo gentile per coloro che conoscono le durezze della «disobbedienza civile» - si propone di far rispettare il diritto nato dal referendum, cominciando dal non applicare i balzelli che esso ha abrogato.

E' sempre la democrazia del referendum in campo, quella che nessuno ha pensato di consultare. Il nostro ceto politico, o chi lo rappresenta, o lo rappresentava, o lo rappresenterà, è talmente spaventato dallo spread da non vedere che il paese sta crollando, dalla Liguria alla Sicilia. Dice di non avere i quattrini per prevenire, per riparare. Potrebbe almeno rivolgersi a quei 27 milioni di persone che nell'acqua, quella buona come quella cattiva, hanno imparato ad affondare i piedi e le mani.

C’è un po’ di terrorismo in chi è contrario al fallimento nel descriverne gli effetti. Mi è chiaro che giungere a una qualche forma di fallimento non è come bere una tazza di caffè, ma il problema non è questo, il tema è: se ne può fare a meno? Una risposta a questo interrogativo presuppone una qualche considerazione sulle trasformazione del capitalismo. Un po’ mi devo ripetere, mi scuso.

Si sostiene che la crisi attuale è una crisi da eccessiva capacità produttiva e da mancanza di domanda solvibile. Due osservazioni: da una parte questa interpretazione è contraddittoria con l’osservazione che la crisi prende corpo da un eccesso di domanda a “credito”, quindi non la domanda ma la sua finanziarizzazione è il problema; dall’altra parte è vero che c’è una crisi di domanda dato che la popolazione viene continuamente tosata per far fronte alle ingiunzioni della finanza.

È necessario riflettere che la finanziarizzazione dell’economia non è solo una evoluzione del capitalismo ma la modificazione della sua natura. Il processo è passato dalla proposizione denaro-merce-denaro (D-M-D), attraverso il quale il capitale, con una distribuzione non equa del valore prodotto tra capitale e lavoro, accumulava ricchezza, a quella odierne denaro-denaro-denaro (D-D-D), che senza la “mediazione” della produzione di merci (e servizi), permette di accumulare ricchezza (in poche mani).

Si rifletta sui seguenti dati mondiali: il PIL ammonta a 74.000 miliardi; le Borse valgono 50.000 miliardi; le Obbligazioni ammontano a 95.000 miliardi; mentre gli “altri” strumenti finanziaria ammontano a 466.000 miliardi. Risulta così che la produzione reale, merci e servizi (74.000 miliardi), è pari al 13% degli strumenti finanziari. Quanto uomini e donne producono, in tutto il mondo, rappresenta poco più di 1/10 del valore della “ricchezza” finanziaria che circola. Questo dato quantitativo ha modificato la qualità dell’organizzazione economica: mentre resta attiva la parte di produzione materiale si è sviluppata un’enorme massa di attività finanziaria che mentre trent’anni fa lucrava sul “parco buoi”, nome affibbiato a chi affidava alla borsa i propri risparmi nella speranza di arricchirsi, ora lucra sui popoli che da una parte sono sottoposti a una distribuzione non equa di quanto producono (gli indipendenti sono poco tali e sono entrati nella catena allungata del valore aggiunto) e, dall’altra parte, sono tosati (più tasse e meno servizi) in quanto cittadini.

Si tratta di un mutamento che investe la produzione, la distribuzione della ricchezza, ma anche il processo politico e la stessa, tanta o poca che sia, democrazia. Quando la ricchezza si produce attraverso la mediazione della merce era attiva dentro lo stesso corpo della produzione, una forza antagonistica che cercava di imporre una diversa distribuzione della ricchezza prodotta e l'affermarsi di diritti di cittadinanza. Nessun regalo, conquiste frutto di lotte, di lacrime e sangue. Al contrario quando diventa prevalente il meccanismo finanziario, si scioglie il rapporto tra capitale e società, e diventa impossibile ogni antagonismo specifico. Tutto si sposta sul piano politico, un bene e un male insieme. Un male perché manca una cultura alternativa, tutti viviamo entro la dimensione liberista e del mercato, un bene perché è possibile andare alla radice del problema.

È diventato senso comune che il mercato (finanziario) vuole sicurezza e credibilità! È una parte molto modesta della verità. La speculazione finanziaria da se stessa, data la massa di risorse che muove, e le tecnologie che usa (gli High Frequency Trading – HFT – che muovono due terzi delle borse), si crea autonomamente le occasioni di successo per speculare. Come ha scritto Prodi “i loro computer scattano tutti insieme, comprano e vendono gli stessi titoli e forzano in tal modo il compimento delle aspettative”. Contrastare la speculazione, come lo si sta facendo, significa solo offrirle alimento continuo. Si può fare più equamente, e sarebbe importante, ma questo non intaccherebbe il meccanismo. Bisogna colpire direttamente la speculazione al cuore, toglierle l’acqua nella quale nuota. Certo che ci vorrebbe un’azione comune a livello internazionale, ma l’elite politica e tecnica è figlia ideologica, qualche volta non solo ideologica, del liberismo e della finanza; ambedue si possono “criticare” ma non toccare, bisogna farli “operare meglio”. Come ha scritto Halevi, le maggiore banche tedesche e francesi sono piene di titoli tossici, messi in bilancio al loro valore nominale mentre valgono zero, ma il sistema (la governance europea franco-tedesca) difende le banche tedesche e francesi, mettendo in primo piano i debiti sovrani e le banche dei paesi sotto tiro (e quando toccherà alla Francia? Perché toccherà!).

In sostanza il sistema non si tocca; si possono punire, anche severamente, come in America, chi la fa grossa, ma poi si finanziano le banche, né si riesce a mettere una qualche freno (amministrativo, fiscale, legislativo, ecc.) alla speculazione. Come l’apprendista stregone che non riesce a gestire le forze che ha scatenato.

Non voglio dire che il sistema è al collasso, ma è sulla strada; ci vorrà tempo (anche secoli secondo Ruffolo) e ci vorranno forze, ma si coglie “una condizione di insoddisfazione diffusa, di generale incertezza e di sfiducia e timore del futuro”.

La Grecia ha fatto tutto quello che le era stato richiesto, licenziamenti, diminuzione di stipendi, tagli, ecc. ed è giunta, di fatto al fallimento (controllato). La speculazione finanziaria ha aggredito la Grecia, ha tosato la popolazione, ha scarnificato la società. Il furbo Papandreu ha tentato la mossa democratica del referendum, è stato redarguito, bastonato ed ha fatto marcia indietro.

Oggi tocca all’Italia (un po’ alla Spagna, domani la Francia, nessuno è al riparo. La finanza non ha patria, non ha terra, non ha sangue), che si appresta (con serietà, si dice) a seguire le richieste della Banca europea, del Fondo monetario, della Commissione della UE, cioè di fatto della finanza, per scivolare lentamente in una versione diversa della Grecia. Ha senso? Certo che no, ma la questione è: ha senso una politica keynesiana? Ha senso una più equa distribuzione dei sacrifici? Ha senso pensare a risposte più “riformiste” e civili alle indicazione della Banca europea? Ha senso pensare ad operation twist (di che dimensione dato l’ammontare del debito italiano), proposta da Bellofiore e Toporowski? senza con tutto questo intaccare il potere e la capacità operativa della speculazione (che costituisce parte strutturale del sistema)?

Credo di no, e mi domando: è necessario continuare ad avere la Borsa che ha perso ogni originale funzione? È possibile dividere le banche che fanno finanza da quelle della raccolta e collocamento del risparmio? È possibile avere una banca europea che operi come una banca nazionale? È possibile avere un governo europeo, non solo economico ma generale? È possibile tassare le rendite e i patrimoni? Ecc. Tutto è possibile ma poche cose sono probabili.

Qual è l’ottica con la quale un governo di centro-sinistra (che si dice probabile) deve guardare alla situazione? Certo c’è da ricostruire il senso della società, come dice Rosy Bindi, c’è da ricostruire un ruolo internazionale, c’è da rilanciare lo sviluppo (sostenibile, equilibrato, ambientale, risparmiatore, ecc. lo si qualifichi quanto lo si vuole), c’è da affrontare il problema del lavoro di giovani, donne, precari, disoccupati, c’è da occuparsi di scuola, sanità, territorio, ecc. La domanda è: tutto questo è fattibile insieme al pagamento del debito? Qualcuno (Amato) parla di una patrimoniale di 300-400 miliardi per ridurre drasticamente il debito. Bene, ma tutto il resto come lo si fa? Sacrifici, per piacere no, riforme impopolari per piacere no, e non solo per collocazione politica ma perché inutili e dannosi per fare tutte le cose elencate prima.

Penso che bisogna mettere mano al debito. Il come, dipende da volontà e forza: un concordato con i creditori (via il 30%); una moratoria di 3-5 anni; differenziato rispetto alle persone fisiche e alle istituzioni (le banche che hanno in bilancio titoli tossici potrebbero benissimo tenersi anche i titoli sovrani, con buona pace del Cancelliere tedesco), ecc. La patrimoniale certo che ci vuole, ma dovrebbe servire ad avviare tutte le altre cose, così come una ristrutturazione della spesa pubblica (spese militari, ecc.) potrebbe liberare risorse. Mentre la lotta all’evasione (mancati introiti per 120 miliardi l’anno) e alla corruzione (60 miliardi l’anno) potrebbero servire alla diminuzione delle imposte dei lavoratori. Insomma ci sarebbe tanto da fare, ma bisogna in parte, in toto, o per un certo numero di anni, liberarsi del debito.

Non dovrebbe essere una iniziativa europea? Certo, ma in sua mancanza facciamo da soli, non c’è da salvare una astratta Italia, ma una concreta popolazione di uomini e donne. Questo è il tema.

Oggi ci avviamo al governo del “grande” Mario; che si tratti di persona onesta e retta è molto probabile, ma è il suo pensiero che preoccupa, un pensiero tanto forte quanto inefficace.

Si parla tanto di crescita ma dovremmo avere il coraggio di dire cosa non può più crescere. Il consumo di territorio, la speculazione edilizia, l'edilizia costruttiva e distruttiva, il consumo di cemento sicuramente no Sessanta anni fa il Polesine. Quarantacinque anni fa Firenze, ed eravamo ragazzini quando andammo per giorni e giorni a toglier fango dai libri della Biblioteca nazionale. Proprio come i ragazzi che hanno ripulito Genova nelle settimane scorse. Quasi nessuna regione risparmiata e a volte colpita più volte e in zone diverse, la Calabria e quel campeggio spazzato via a Soverato, la Campania e quella montagna di fango che travolge Sarno, la Versilia e la Lunigiana, il Piemonte tante volte ad Alessandria e ad Alba, la Sicilia colpita in queste ore e ancora una volta a Messina invasa dall'acqua e dalle frane come due anni fa, il Veneto, Vicenza e Venezia, la Liguria, le tante volte di La Spezia e il martirio di Genova (alluvionata 29 volte in 50 anni).

Queste al momento mi ricordo ma sui siti web potete trovarle tutte e impallidire alla lettura. Da oltre mezzo secolo sappiamo che tre quinti del nostro territorio nazionale è a rischio di alluvioni, frane, erosioni e dissesti. Da oltre dieci anni sappiamo che anche i cambiamenti climatici (una realtà che tanti hanno sottovalutato e alcuni persino negato) rendono ancora più drammatica la situazione e ancora più fragile il territorio. Abbiamo tanti dati forniti dal consiglio nazionale dei geologi, da molti ricercatori, dai metereologi, dalla protezione civile, dalle agenzie regionali per l'ambiente, dalle associazioni ambientaliste. Sappiamo ad esempio che consumiamo più cemento pro capite degli Stati Uniti e che ogni anno 250.000 ettari di territorio vengono cementificati (nel Veneto ad esempio pur essendo aumentata la popolazione di 400.000 unità , i 128 milioni di metri cubi costruiti erano commisurati ad un aumento di 850.000 unità e queste case non solo erano il doppio di quelle necessarie ma avevano anche una tipologia adatta a classi medie e dunque alti costi, mentre i 400.0000 abitanti in più erano immigrati, anziani e giovani) e temo che lo stesso dato troveremmo anche in molte altre regioni.

Sappiamo che il territorio agro silvo pastorale si riduce ad una velocità pazzesca, e che l'abbandono dell'agricoltura è un fattore in crescita costante che determina minore controllo sul territorio e soprattutto nessuna attenzione alla riforestazione in particolare nelle aree pedemontane. Conosciamo, per averle visitate, decine di aree artigianali e di insediamenti abitativi costruiti nelle aree di esondazione dei fiumi (aree che non dovevano mai essere urbanizzate e che invece decine di varianti ai piani regolatori o piani regolatori generali inesistenti hanno consentito di urbanizzare), possiamo fare un lungo elenco di fiumi importanti e di torrenti tombinati, irregimentati o deviati (pratica decennale che ha stravolto l'assetto idrogeologico di tantissimi bacini idrografici e che non andava autorizzata), vantiamo addirittura una centrale nucleare, quella di Caorso, costruita ai limiti dell'area di esondazione del Po. Non ci siamo fatti mancare nulla.

Tutte queste cause messe insieme hanno prodotto quelli che Cederna chiamava "brandelli d'Italia". Le risorse necessarie alla prevenzione e alla messa in sicurezza del nostro territorio nazionale si aggirano sui 40 miliardi di euro mentre quelle realmente investite negli ultimi vent'anni sono state appena 400 milioni di euro. Mentre per indennizzi, ricostruzioni e riparazione dei danni a posteriori si sono spesi (male e molto spesso per ricostruire negli stessi luoghi interessati da inondazioni e frane) 52 miliardi di euro in cinquant'anni e se sommiamo gli indennizzi post terremoti la cifra arriva a 213 miliardi di euro! Una cifra mostruosa!

Da decenni sappiamo quel che andrebbe fatto, ma non lo abbiamo mai fatto: passare dall'incuria alla cura del territorio, dalla speculazione selvaggia alla pianificazione sostenibile, dalla edilizia costruttiva alla edilizia di recupero e manutenzione, dall'intervento a posteriori alla prevenzione. Non possiamo più sprecare soldi e natura, non vogliamo perdere altre vite umane, non possiamo far vivere milioni di persone in condizioni di insicurezza. Per questa ragione l'assenza di qualsiasi riferimento ai temi della qualità dello sviluppo e alla sostenibilità ambientale nel discorso di insediamento del Presidente del consiglio Monti ci ha delusi e ci preoccupa parecchio. Tra economia ed ecologia e tra ecologia e nuova occupazione vi sono molti più intrecci di quelli che tanti economisti assai poco innovatori e riformatori riescono a vedere: un territorio sicuro per i cittadini e per le attività produttive è la condizione prima di qualsiasi sviluppo possibile, e un paesaggio di qualità è la ricchezza fondamentale dell'Italia.

Rimettiamo, per l'ennesima volta e testardamente questo tema all'attenzione delle forze sociali, politiche e dei governi nazionale e locali: perché in un paese che va sott'acqua una settimana sì e l'altra pure non c'è sviluppo possibile. Si parla tanto di crescita, mentre dovremmo avere il coraggio di dire cosa può e deve ancora svilupparsi e cosa invece non può più crescere. Il consumo di territorio, la speculazione edilizia, l'edilizia costruttiva e distruttiva, il consumo di cemento sicuramente non possono e non devono più crescere. Mentre devono crescere l'edilizia di manutenzione e recupero, l'agricoltura di qualità, la manutenzione dei fiumi e dei torrenti. Da una parte dei soldi che potrebbero entrare dalla patrimoniale, da un taglio di 1,5 miliardi alle spese militari, dallo storno delle risorse destinate all'inutile Ponte sullo Stretto, possono derivare le risorse ordinarie necessarie a mettere in sicurezza e a curare il nostro territorio.

Se non è una grande opera questa, se non è una grande riforma civile come vogliamo chiamarla? Soldi ordinari, senza commissari straordinari, gestiti dai Comuni e dalle Regioni e rendicontati annualmente. E da subito l'istituzione di una sorta di Servizio Civile Giovanile Regionale che si occupi dei primi lavori di manutenzione e pulitura dei corsi d'acqua.

Titolo originale: How cycling set deprived Indian girls on a life-long journey – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Bihar è uno degli stati più poveri e popolosi dell’India, dove metà delle donne e un quarto degli uomini sono analfabeti, e il 90% dei 104 milioni di abitanti vive in zone rurali. Esistenza particolarmente difficile per le ragazze, e uno degli ostacoli principali alla loro realizzazione è quella cosa semplicissima dello spostamento necessario per andare a scuola. Per molte, troppo lungo, costoso, pericoloso. Ma proprio qui, nel poverissimo e rurale Bihar, si è trovata una soluzione a due ruote.

Tre anni fa il nuovo primo ministro statale Nitish Kumar ha adottato una “agenda di genere” impegnandosi a riequilibrare i ruoli sociali per indurre un po’ di sviluppo in quella che resta fra le aree più arretrate dell’India. L’idea era di favorire fra le giovani dello stato indipendenza, motivazione, e fra le iniziative di punta spicca il Mukhyamantri Balika Cycle Yojna,programma che assegna 2.000 rupie (una trentina di euro) per l’acquisto di una bicicletta. Con risultati sinora assai promettenti: in tre anni in Bihar sono 871.000 le studentesse saltate in sella grazie al progetto. I tassi di abbandono scolastico delle ragazze sono diminuiti, e le iscrizioni nelle scuole cresciute dalle 160.000 del 2006-2007 alle 490.000 di oggi.

Ragazze come Pinki Kumari (15 anni), del liceo di Desari, che si faceva 14 km al giorno. Poi tornata a casa doveva aiutare la mamma nelle faccende domestiche. “Era sfiancante, e frequentare la scuola una specie di rituale. Non avevo in pratica tempo per studiare”, ricorda Pinki. Il padre, Anil Sharma, elettricista, voleva che si sposasse in fretta. Ma fu costretto a rinunciare davanti alla determinazione della figlia di continuare a studiare, dopo aver ottenuto la sua bicicletta dal governo. Oggi Pinki per andare a scuola ci impiega 15 minuti, ed è piena di speranze per il futuro della famiglia.

Siamo andati poco tempo fa a visitare in Bihar la scuola del villaggio di Bumbuar, circondati da una schiera di fierissime ragazzine in bicicletta, ad ascoltare storie di grandi progressi, visto che dal varo del programma la frequenza delle femmine si è impennata del 90%. Nelle famiglie da cui provengono, come in tutto il resto del Bihar povero e rurale, le biciclette erano riservate ai genitori, o al massimo ai fratelli maggiori maschi. Oggi però che sono così tante a frequentare la scuola di Bumbuar regolarmente, non solo iniziano a saperne di più di tutte le materie di studio, ma cresce la fame di conoscenze e l’aspirazione a un futuro professionale migliore.

Una simpatica giovane ciclista con cui ci incontriamo ci conferma queste speranze di tutte le sue compagne di classe, quando racconta: “Ogni mattina non vedo l’ora di andare a scuola. Quando sarò più grande voglio andare all’università”. Un balzo in avanti nell’istruzione e aspirazioni delle ragazze del villaggio, che significa un vero e proprio nuovo mondo rispetto all’epoca dei loro genitori: sono solo quattro le mamme, su 70 studentesse, che sono arrivate alla licenza elementare. E ampliando l’orizzonte, lo stato di Bihar non è solo in questa iniziativa. Sono almeno quattro i governi indiani, dal Punjab a Tamil Nadu, che condividono l’idea del primo ministro Kumar e la stanno traducendo in realtà. Lui riassume schematicamente i suoi obiettivi: “Non c’è niente che mi dia più soddisfazione di un lavoro ben fatto, quando vedo un piccolo corteo di ragazze in sella alla bicicletta che vanno a scuola. É una affermazione di progresso sociale, di eguaglianza e di nuovo potere”.

Gli scioperi generali erano molto comuni in Europa e Stati uniti sul finire del diciannovesimo secolo e all’inizio del ventesimo. Essi provocarono intensi dibattiti nei sindacati e nei partiti e movimenti rivoluzionari (anarchici, comunisti, socialisti). L’oggetto del dibattito era l’importanza dello sciopero generale per le lotte politiche e sociali, le condizioni per il loro successo, il ruolo delle forze politiche nella loro organizzazione. Rosa Luxemburg (1871-1919) fu una delle presenze più importanti in quei dibattiti. Ora lo sciopero generale è tornato. In Europa, dopo quelli in Grecia, Spagna e Italia, ieri era la volta del Portogallo. Perché lo sciopero generale è tornato? Che analogie ci sono con le condizioni e le lotte sociali del passato?

Nei loro distinti ambiti (comunità, città, regione, paese), lo sciopero generale è sempre stato la manifestazione della resistenza contro situazioni ingiuste e dannose, ossia, situazioni che peggioravano le classi lavoratrici o perfino la società nel suo complesso, anche se specifici settori sociali o professionali potevano essere quelli più direttamente colpiti. Il rifiuto di diritti civili e politici, le repressioni violente contro le proteste sociali, le sconfitte dei sindacati nella loro lotta per il welfare sociale o contro la dislocazione di fabbriche con il relativo impatto diretto sulla vita di intere comunità, i «tradimenti parlamentari» (come le scelte della guerra o del militarismo), queste furono alcune delle condizioni che nel passato portarono allo sciopero generale.

All’inizio del ventunesimo secolo noi viviamo in un tempo diverso; le condizioni ingiuste e dannose non sono le stesse di prima. Tuttavia, rispetto alle rispettive logiche sociali, ci sono inquietanti similitudini. Ieri, la lotta era per quei diritti di cui le classi popolari sentivano di essere ingiustamente privati; oggi, la lotta è contro l’ingiusta perdita di diritti per cui tante generazioni di lavoratori hanno combattuto e che parevano essere conquiste irreversibili. Ieri, la lotta era per una più equa distribuzione dell’immensa ricchezza creata dal capitale e dal lavoro; oggi, la lotta è contro una distribuzione della ricchezza sempre più iniqua (la confisca di salari e pensioni, l’aumento dello ore di lavoro e l’accelerazione dei ritmi lavorativi; imposizioni fiscali e salvataggi finanziari che favoriscono i ricchi - l’1% secondo quelli che vogliono occupare Wall Street - e condannano l’altro 99% a una vita quotidiana fatta di ansie e incertezze, di attese frustrate, dignità e speranze perdute).

Ieri, la lotta era per una democrazia che doveva rappresentare gli interessi della maggioranza emancipata; oggi, la lotta è per una democrazia che, una volta conquistata, è stata svuotata dalla corruzione, mediocrità e dalla avidità di leader e di tecnocrati non eletti che servono il capitale finanziario come hanno sempre fatto. Ieri, la lotta era per alternative (il socialismo) che le classi dirigenti sapevano esistere e quindi, chiunque le sostenesse, doveva essere represso brutalmente; oggi, la lotta è contro il senso comune neo-liberista, doviziosamente riprodotto dai media, che non c’è alternativa al crescente impoverimento delle maggioranze o allo svuotamento delle opzioni democratiche.

Alla luce di tutto questo, lo sciopero generale di ieri in Portogallo vuole lanciare i seguenti messaggi. Primo, le misure di austerità approvate dal governo per il prossimo budget sono controproducenti in quanto è tanto vero per i governi quanto per la gente comune che nessuno paga i suoi conti producendo e lavorando di meno; quelle misure d’austerità porteranno ad altre misure dello stesso tipo con l’ulteriore impoverimento di milioni di persone (guardate la Grecia); i sacrifici chiesti ai portoghesi non saranno mai compensati dai mercati perché questi prosperano chiedendone sempre di più (guardate all’Irlanda). Secondo, la soluzione meno dannosa è una soluzione europea.

Però federalizzare il debito senza federalizzare la democrazia (la soluzione favorita dalla Germania: gli eurobonds in cambio della resa totale al controllo finanziario di Berlino) significherà la fine della democrazia in Europa, e la Germania dovrebbe essere il paese meno interessato a una tale prospettiva. Come alternativa la Ue dovrebbe lavorare in tempi rapidi per andare alla federalizzazione del debito insieme alla federalizzazione della democrazia (più poteri all’euro-parlamento, elezione diretta della Commissione europea, un nuovo mandato per la Banca centrale). Dal momento che questo richiede tempo e per i mercati il lungo termine sono i prossimi dieci minuti, la Banca centrale europea dovrebbe cominciare a intervenire subito e in modo tale da mandare un segnale inequivoco della fattibilità e credibilità dei futuri cambi politici. Con un nuovo presidente e una diversa interpretazione del mandato corrente, questo è nelle possibilità della Bce.

* Sociologo, professore alla facoltà di economia dell’università di Coimbra (Portogallo) e docente di diritto alla università del Wisconsin-Madison (Usa). E’ uno dei fondatori del Forum sociale mondiale

GENOVA – Un fondo alimentato da forme di fiscalità per finanziare gli interventi di emergenza, ma soprattutto quelli di prevenzione e le opere infrastrutturali: questo proporrà oggi al Consiglio dei Ministri Corradi Clini, responsabile del dicastero dell’Ambiente.

Da Genova (colpita dall’alluvione il 4 novembre) il ministro ha tracciato il suo programma: la costituzione del fondo da sostenere «non con una tassa di scopo propriamente detta» ma con risorse che potrebbero derivare «anche dalla patrimoniale se si deciderà di vararla».

Intanto oggi si prorogherà probabilmente l’aumento delle accise sul carburante. Clini ha dichiarato l’intenzione di rivedere la legge urbanistica nazionale in riferimento alle autorizzazioni edilizie: «In Italia sono state e sono autorizzate costruzioni – ha detto – che mai avrebbero dovuto essere approvate». Occorreranno sei mesi per tracciare «le nuove linee guida» e mettere in cantiere una mappatura del territorio.

Il principio ribadito dal ministro è stato: spendere in prevenzione è meno costoso che rincorrere i danni in emergenza. In riferimento all’outlet che dovrebbe essere costruito a Brugnato, un comune alluvionato, Clini ha detto, «mi sembra difficile che qualcuno abbia la fantasia di autorizzare costruzioni nuove in zone che sono esposte a rischi».

Restituzione fiscal drag, aumento pensioni, reddito minimo. Proponiamo una serie di misure: a) l'introduzione della 14° per i pensionati sotto i mille euro lordi mensili, b) la restituzione del fiscal drag ai lavoratori dipendenti; c) la reintroduzione del Reddito Minimo d'Inserimento (cancellato nella 14ma legislatura) per i disoccupati e per chi non gode di altre forme di ammortizzatori sociali. Stima della spesa: 10,5 miliardi di euro in tre anni.

Ammortizzatori sociali per co.pro e paraubordinati. Proponiamo l'istituzione di un'indennità minima netta di 700 euro fino a 9 mesi per tutti i lavoratori a progetto monocomittenti e i lavoratori parasubordinati che perdano il posto di lavoro. Costo della misura in tre anni 3,6 miliardi di euro.

Sostegno innovazione e ricerca. Proponiamo di destinare almeno 700 euro l'anno adinvestimenti nell'innovazione e nella ricerca pubblica attraverso una serie di misure specifiche come i crediti di imposta per l'assunzione dei ricercatori, l'aumento della retribuzione dei dottoroandi di ricerca, il finanziamento di progetti di ricerca pilota.

Sostegno alle produzioni ed ai consumi della green economy. Proponiamo di stanziare 1miliardo e 200 milioni l'anno per una politica industriale volta a sostenere con incentivi e servizi le produzioni della green economy: dalle energie rinnovabili alla bioedilizia, dalla mobilità sostenibile, alle produzioni in generale a impatto ambientale zero. Proponiamo la formazione di distretti di economia verde.

Fondo per l'agricoltura biologica. Si propone uno stanziamento triennale di 100 milioni di euro l'anno sul capitolo per il Fondo di sviluppo per l'agricoltura biologica vincolato alla realizzazione di un nuovo Piano d'Azione per l'Agricoltura biologica, con lo scopo di incrementare la domanda di prodotto biologico da parte dei consumatori, sia migliorando il sistema dell’offerta da parte dei produttori.

Sostegno all'altra economia. Proponiamo di stanziare almeno 50 milioni di euro l'anno per sostenere le diverse forme dell'altra economia, attraverso la creazione di 50 distretti di economia solidale in Italia per il sostegno delle diverse attività dell'altra economia: finanza etica, commercio equo e solidale, gruppi di acquisto solidale, ecc.

Programma di “piccole opere” . Di fronte ai faraonici programmi di “grandi opere” che producono ingente spesa pubblica, scarsi benefici sociali e danni ambientali per il territorio (e business per poche imprese), si propone invece un programma di “piccole opere” che riguardi interventi integrati –sociali, ambientali, urbanistici, ambientali- che possono andare dalla sistemazione della rete idrica locale, al recupero urbanistico dei piccoli centri, al risanamento ambientale di coste e aree montane. Ovviamente tra le “piccole opere” non rientrano i porti turistici ed altri interventi invasivi e ambientalmente distorsivi. Proponiamo di spendere in 3 anni 1,3 miliardi di euro.

Ferrovie locali per i pendolari. Sempre nell’ottica di ridurre la mobilità privata, al fine di incentivare al massimo il trasporto su rotaia, si propone un intervento straordinario dell’ammontare complessivo di 750 milioni di euro per l’ammodernamento e il potenziamento delle linee locali di collegamento, in particolare al Sud, all’interno dei cosiddetti Sistemi Locali del Lavoro.

L'applicazione del protocollo di Kyoto, nel rispetto, almeno, dei nuovi obiettivi europei al 2020 (riduzione di almeno il 20% delle emissioni di Co2, traguardo del 20% di produzione energetica da rinnovabili e miglioramento dl 20% nell’efficienza energetica), la riconversione ecologica delle attività produttive, avendo però come obiettivo ottimale la riduzione delle emissioni nazionali per i Paesi sviluppati tra il 25% e il 40% sotto il livello del 1990 entro il 2020, che si sostanzi anche nell’individuazione di un percorso di riduzione delle emissioni che consenta di rimanere ben al di sotto di un aumento medio globale di 2 gradi centigradi della temperatura (rispetto ai livelli pre-industriali), conseguendo il raggiungimento del picco e la diminuzione delle emissioni di CO2 entro 10-15 anni e con il conseguimento entro il 2050 dell’obiettivo di riduzione dell’80%, rispetto ai livelli del 1990. Chiediamo di stanziare 200milioni di euro sul “fondo rotativo destinato a finanziare le misure di attuazione del protocollo di Kyoto”, dal 2007 non finanziato.

Trasporto pubblico locale. Il rilancio e la riforma del trasporto pubblico locale con servizi integrati su scala metropolitana e con potenziamento dei servizi ferroviari sulla media e corta distanza (IC, regionali e locali), dove si concentra l’80% circa dell’utenza, incentivando la formazione di Consorzi ed Agenzie interistituzionali al servizio della città diffusa. Si chiede di stanziare 750 milioni di euro in tre anni per rafforzare e sviluppare la mobilità sostenibile ed il trasporto pubblico locale.

il testo integrale della "Contromanovra" è scaricabile direttamente da qui. Ulteriori informazioni al sito Sbilanciamoci

Estratti e traduzione di Fabrizio Bottini

Con le dimensioni assunte a scala globale dal progetto di nuovi insediamenti, emerge la necessità sia di comprendere concretamente, sia di affrontare disciplinarmente il problema delle città socialmente (oltre che economicamente e ambientalmente) sostenibili. L’esperienza insegna quanto spesso non si tenga conto sul lungo termine delle necessità sociali nel programmare ad ampia scala abitazioni e quartieri. Ciò si deve in parte ai modelli di finanziamento dei progetti, dove la pianificazione è svolta dagli uffici pubblici, ma gli investimenti sono dei costruttori privati.

Di norma si dà la precedenza alla realizzazione delle case rispetto ai servizi, per ottenere il gettito con cui si finanziano le infrastrutture o le case economiche. Gli abitanti vanno a stare così in spazi privi di negozi, scuole, autobus, spazi di ritrovo in grado di offrire relazioni sociali. La situazione si protrae spesso per parecchi anni, anche se il quartiere cresce sino a dimensioni che giustificano perfettamente quei servizi locali. Ai problemi della casa si sommano le urgenze economiche, e le varie difficoltà di rapporto fra i soggetti pubblici e privati aumentano ancora la tendenza a pensare prima alle costruzioni che alla qualità urbana. Il che non toglie l’altissimo valore sociale responsabilità politica di affrontare le conseguenze di lungo termine, il degrado dei nuovi quartieri, i problemi emergenti. Del resto sono molto elevati anche i costi di questo degrado, economici certo, ma soprattutto sociali.

Se non si risponde alla necessità e diritto di avere delle infrastrutture a orientamento sociale qualunque nuovo quartiere può rapidamente imboccare la spirale in discesa del degrado. Fra gli esempi più vistosi si possono citale le banlieue di Parigi, il complesso Cabrini Green a Chicago, Broadwater Farmnella fascia settentrionale di Londra, o Park Hill a Sheffield che oggi è in corso di riqualificazione con un costo di 170 milioni di euro. Alcuni quartieri, come il Pruitt-Igoe di St. Louis negli USA o il Fountainwell Placedi Glasgow, sono stati completamente demoliti. In altri casi si interviene con riqualificazioni profonde e altissimi costi, come a Castle Vale a Birmingham, o Robin Hood Gardens e Holly Street a Londra. Sempre a Londra il complesso Heygate a Elephant and Castle, dove abitavano 3.000 persone, è stato demolito nel maggio 2011, con un costo approssimativo di dieci milioni di euro, più naturalmente gli oltre 40 milioni per le nuove case. Le cifre poi non rispecchiano davvero il costo sociale sostenuto dalla comunità, vent’anni di convivenza col crimine, comportamenti devianti, abitazioni di scarsa qualità, la pessima fama di quartiere fra i peggiori della città.

Il complesso Heygate – insieme a tanti altri quartieri popolari degli anni ’60 e ’70 – si è attirato forti critiche per l’architettura cosiddetta “brutalista”. All’inizio piaceva anche agli abitanti per le abitazioni spaziose e moderne, ma presto si iniziò a dire che così si isolavano gli alloggi, sic ostruivano spazi “morti” aumentando il rischio di comportamenti antisociali, ambienti rigidi non in grado di adattarsi alla vita contemporanea, e costosi da mantenere. Ma poi si critica anche oggi la decisione di demolire Heygate. Ci si chiede che logica ci sia nel distruggere tante case economiche in un’epoca in cui ce ne sarebbe tanto bisogno, mettendo in primo piano quanto in vent’anni abbiano contribuito la cattiva gestione e l’abbandono, al degrado. Forse il caso Heygate è il segno di un atteggiamento che cambia verso la casa popolare in generale, lo spazio urbano, la proprietà dell’alloggio.

In altri quartieri non si riesce a realizzare una vera complessità mescolando redditi diversi, case pubbliche e private. A Londra coi Docklands, quartiere di riqualificazione degli anni ’80 e ’90, residenziale e finanziario, si sono visti purtroppo tanti appartamenti di lusso dove vanno gli operatori finanziari, ma nessun intervento di case economiche per i rediti più bassi delle famiglie dell’East End. Il che sfocia in una tensione fra chi già nel quartiere ci abitava e i nuovi arrivati, con problemi di comportamenti antisociali e identità. Prima dell’attuale tendenza alla realizzazione di nuovi insediamenti, uno dei più importanti programmi del mondo per nuove città fu quello inglese delle New Towncon32 insediamenti fra il 1946 e il 1970 abitati complessivamente da tre milioni di persone. Questa esperienza ha dimostrato come ignorare la dimensione sociale dei nuovi spazi, le aspirazioni e opinioni dei residenti, sia causa di problemi di lungo termine.

L’esame della letteratura scientifica sui vari casi di nuovi insediamenti del mondo sottolinea la difficoltà di questi spazi a trasformarsi in vere e proprie città: spesso occorrono anche più di quindici anni perché si sviluppi qualche tipo di rete sociale locale. Alcune ricerche sulla Cina rilevano quanto manchi un sistema di rapporti per periodi assai lunghi, dopo il completamento dei quartieri. Si capisce il bisogno di infrastrutture a carattere sociale di alta qualità, di servizi a sostegno degli abitanti, di partecipazione alle decisioni, di spazi e attività condivisi. Egualmente importanti anche forse meno visibili di facilitazione all’incontro fra abitanti, costruzione di reti e condivisione.

Alcune ricerche della fondazione Joseph Rowntree sui quartieri riusciti ad articolata composizione sociale individuano nove priorità. Precisamente: buone abitazioni; buone scuole; quartieri sicuri, gradevoli, ordinati; assistenti sociali; asili infantili; case economiche integrate nell’insieme; attenta collaborazione fra i vari enti interessati nel progetto; personale che segua il quartiere; supervisione degli spazi pubblici e del verde. Senza questi presupposti un nuovo quartiere difficilmente produrrà coesione,ambienti vivaci che conferiscono identità e appartenenza. I casi studiati mostrano come i quartieri privi di servizi e operatori adeguati soffrano di tutta una seri di disagi sociali. L’insegnamento delle new town britanniche è di alti tassi di malattie, anche psicologiche, isolamento spesso determinato dalla povertà dei collegamenti, raggiungere amici, parenti, posti di lavoro. Altro problema quello di abitazioni poco flessibili, dove non si riesce a mantenere abitanti o attirarne dei nuovi, scarse occasioni di partecipare alle decisioni urbanistiche, con risultati di servizi e spazi inadeguati: e costi economici e sociali.

I quartieri degradati spesso hanno problemi di manutenzione; ad esempio in Gran Bretagna il forte incremento di coloro che comprano case per affittarle ha reso difficile intervenire in quartieri problematici. Difficile impedire a qualcuno di trasferirsi dove vuole, magari abbandonando chi non può farlo. Nei casi più estremi, il quartiere degradato diventa una sacca di emarginati, di soggetti vulnerabili, e relativi comportamenti antisociali, questioni di salute, istruzione, ordine pubblico. Nei quartieri si deve cercare di mantenere un insieme di abitanti a vario reddito, fasce di età, tipo di godimento dell’alloggio, per ottenere spazi desiderabili sul lungo termine. Spesso si sceglie un posto perché le case sono migliori, c’è più spazio pagando meno, ci sono occasioni di lavoro. Ma come insegna l’esperienza e dimostrano le ricerche, se non si risolvono da subito i problemi delle infrastrutture sociali, dell’isolamento, dei piccoli motivi di insoddisfazione, poi rapidamente si può scivolare nel degrado.

Il National Housing Audit del CABE nel 2007 ha rilevato un rapporto diretto tra infrastrutture sociali, servizi, e soddisfazione degli abitanti di un quartiere. E in media anche quando c’era un’ottima opinione per le case, il gradimento calava per i quartieri in generale, si descrivevano problemi di carenza di spazio pubblico, strade poco sicure per i bambini e i ciclisti, poca identità spaziale. L’insoddisfazione cresce man mano si resta di più in un quartiere: dopo un anno è scontento il 18%, solo il 10% chi ci sta da meno. La fama più o meno buona della zona si definisce molto presto: è una volta che c’è, è molto resistente al cambiamento.

L’identità di un quartiere si basa sul tipo di case, la forma o l’uso in proprietà o in affitto, i ceti sociali e il reddito, professione dei capifamiglia, immigrati. Anche se col tempo ci si evolve, la prima impressione può persistere a lungo e influenzare la disponibilità di altri a trasferirsi. Bradley Stoke, nuovo quartiere alla periferia di Bristol realizzato negli anni ‘80, è stato ribattezzato dalla stampa locale “Sadly Broke” [tristemente fallito] per via della quantità di proprietari che faticavano col mutuo. E anche vent’anni dopo quel “Sadly Broke” resiste. Ci sono già segnali che anche la nuova generazione di nuovi quartieri e città incontra certi problemi. Chenggong, a Kunming, Cina meridionale, Ordos e Qingshuihe nella Mongolia interna, sono esempi di “città fantasma”, progettate dal nulla per attirare investimenti e favorire sviluppo locale, sono vuote e lasciate a metà. Si trovano staccate dai centri esistenti, a 20 o 30 chilometri, pensate per particolari attività come estrazione mineraria, uffici governativi, università che dovrebbero trasferirsi lì.

I lavori si sono fermati a Qingshuihe nel 2007 dopo due anni. Oggi ci sono case e alberghi vuoti, giusto di fianco alla città vecchia che è “assai bisognosa di interventi sociali e infrastrutturali”. A Chenggong si dice ci siano 100.000 nuovi appartamenti, edifici pubblici, campus universitari e una metropolitana leggera: ma non ci abita nessuno.Si ritiene che sia la distanza dalle città esistenti, uno dei motivi del fallimento cinese. In un articolo sui problemi di Ordos e Qingshuihe si legge:non è realistico pensare che una comunità si sradichi dal proprio contesto sociale e culturale da un momento all’altro: è insostenibile”. Lo stesso è avvenuto nelle nuove città egiziane del deserto. Mancanza di servizi infrastrutture sociali, unita alla distanza dal Cairo, ha reso molto difficile attirare nuovi abitanti.

In tutti questi esempi, osservatori da vari prospettive ritengono di poter trovare la risposta per come provare negli anni a venire a costruire a dimensione conforme, quartieri adatti agli abitanti. Ma si continuano anche a ripetere i medesimi errori, nonostante la ricerca e l’evidenza indichino obiettivi sociali, economici e ambientali diversi. Le amministrazioni locali, gli uffici governativi, gli enti per le case popolari, devono collaborare con urbanisti e costruttori a far sì che i nuovi quartieri nascano integrati in un quadro sociale, economico, ambientale, con strategie di investimento adeguate, se non si vuole correre il rischio di un fallimento.

(il rapporto integrale, circa 60 pagine con una breve prefazione di Peter Hall, è scaricabile direttamente da qui)

Che cosa si può cogliere sulla politica infrastrutturale del governo Monti? Finora, come giusto dati i tempi strettissimi, non molto. Innanzitutto una attenzione particolare all’intervento dei privati, attraverso una riforma del project financing, che ne aumenti il ruolo e li protegga maggiormente dai capricci della politica. C’è solo da aggiungere che occorrerà anche un occhio vigile sugli aspetti indifendibili del project financing all’italiana: l’indebitamento pubblico mascherato, ciò l’intervento di capitali privati la cui redditività sia comunque garantita dallo stato. Di fatto, un prestito in altra veste, solo dilazionato nel tempo in modo non trasparente.

Facciamo un esempio: le nuove linee ferroviarie non hanno alcun ritorno finanziario (gli utenti non ne vogliono sapere di pagare gli investimenti). Il project financing in questo caso si trasforma sì in un investimento privato, ma con dei canoni annui a carico delle Ferrovie (“canoni di disponibilità”, nei termini della “finanza creativa” cara al governo Berlusconi), che di fatto sono le rate di un prestito ben mascherato. Purtroppo le banche hanno un ruolo centrale in queste operazioni, e certo non tocca a loro entrare nel merito di chi alla fine pagherà, cioè, in questo caso, gli ignari contribuenti, attraverso il bilancio di Fs, società tutta pubblica. Notoriamente, le autostrade, piaccia o meno, hanno utenti molto più disposti a sobbarcarsi i costi di investimento, sempre a loro insaputa.

Allora sembra urgentissimo dare forti segni di discontinuità rispetto alla logica delle grandi opere berlusconiane, soprattutto in termini di trasparenza: confrontare tra loro i progetti sul tavolo con analisi costi-benefici, e esplicitare chi e quanto alla fine pagherà. Infine c’è il problema di spendere i pochi soldi pubblici che ci saranno, con forti contenuti anticiclici: meglio allora concentrarsi sulle “piccole opere”, ad alta intensità di lavoro (ad esempio le manutenzioni), meno visibili politicamente ma molto più efficaci e utili.

Cronaca di un disastro annunciato

di Alessio Caspanello

Da settembre a oggi in Italia sono 32 le vittime del dissesto idrogeologico. Manca un piano nazionale di prevenzione L'alluvione che ha colpito il messinese devasta il comune di Saponara. Tre le vittime travolte dal fango. La Procura apre un'inchiesta per omicidio colposo Si poteva mettere in sicurezza il territorio con quei 160 milioni promessi e congelati da Berlusconi

Chiudendo gli occhi per un attimo, sembra di essere tornati indietro al primo ottobre del 2009. L'odore nauseabondo del fango, l'olezzo della nafta bruciata dai mezzi di soccorso, gli ordini urlati, il calpestio degli anfibi dei soccorritori, gli sguardi smarriti, gli occhi al cielo sperando che il sole faccia capolino dietro le nuvole nere, le bestemmie e le preghiere. Due anni fa, a Giampilieri e Scaletta, sotto il fango di messinesi ne sono rimasi trentasette. Ieri, di messinesi ne sono morti tre. Per il resto, tutto uguale. Due anni. Trascorsi invano.

Non è un paese normale quello in cui ogni volta che piove ci si deve chiudere in casa per ordinanza sindacale, quasi si fosse in guerra. Non è un paese normale quello in cui non c'è sicurezza nemmeno barricati dentro casa, perché troppo vicina agli argini di un torrente o troppo sotto una montagna. Non è normale che, a danno annunciato, non si intervenga. Saponara è un paesino di poche migliaia di abitanti, in collina, a cinque km in linea d'aria dal mare. Fino a ieri, era famoso per aver dato i natali a Graziella Campagna, la ragazzina quindicenne vigliaccamente uccisa dagli sgherri locali affiliati a Cosa nostra. Da ieri, e per qualche giorno, la ribalta delle prime pagine. Luigi Valla, il figlio Giuseppe ed il piccolo Luca Vinci sono rimasti vittime del fango e dell'acqua.

Luigi, cinquantacinquenne dirigente provinciale della Fiom (e già animatore della sezione del Pci di Saponara) e Giuseppe, studente di medicina di 28 anni, sono stati travolti in casa dalla frana che si è staccata dal costone sovrastante la loro abitazione. Luca, un bambino di soli dieci anni, è stato letteralmente strappato dalle mani della madre dalla furia del fango che veniva giù dalla monta: un evento imprevedibile, ha confermato il capo della protezione civile Franco Gabrielli. E anche Gaetano Sciacca, ingegnere capo del Genio civile di Messina che negli anni non le ha certo mandate a dire sul delirante scempio che si è fatto del territorio, ha dovuto constatare come le condizioni della collina che è franata siano buone, come il versante sia stato curato, come sia presente una vegetazione rigogliosa. E come le case non sorgano in zone abusive, precisazione che, quando una tragedia di questo tipo accade in Sicilia, è sempre meglio evidenziare in rosso, giusto a scanso di equivoci. Versione confermata anche dal sindaco di Saponara, Nicola Venuto, che, quasi in lacrime, ha spiegato che nel 2010 c'erano stati degli smottamenti e segnalati dei rischi «ma in un un'altra zona, non in questa».

E quindi pare proprio che la mano dell'uomo, nella tragedia non ci sia. Pare. Perché, di nuovo, non è normale che una tempesta possa uccidere tre persone. L'Italia, la Sicilia, e Messina in particolare, è una lunga teoria di torrenti che dalle montagne scorrono verso il mare. E negli anni sono stati riempiti di detriti, usati come discariche, colonizzati da case e coperti dal cemento. E le montagne, le montagne lanciano segnali, avvertimenti, non cadono giù da un giorno all'altro. Bisogna coglierli, quei segnali. E possibilmente intervenire. Perché i torrenti esondano, e le montagne franano. Ed quando lo fanno, esigono un tributo in vite umane. E non bastano i messaggi di cordoglio, e la fila di auto blu di fronte alla Prefettura. Servirebbero interventi massicci. Quelli che avrebbero in parte potuto garantire i centosessanta milioni di euro che il governo Berlusconi aveva stanziato per Giampilieri, Scaletta, Mili, san Fratello, Caronia, tutti comuni del messinese, ionici, tirrenici, peloritani e nebroidei devastati da frane e alluvioni.

Sarebbero serviti se solo fossero stati disponibili. E invece niente: accreditandoli, si sarebbe sforato il patto di stabilità della Regione Sicilia. E quindi niente. Alla fine, raschiando il barile, di milioni ne sono arrivati una quarantina. Per una intera provincia che si sbriciola sotto la pioggia.Il mattino dopo, a Saponara c'è un sole che sembra maggio. Perché la natura, se vuole, sa anche essere bastarda. E beffarda. Quello che resta è un paese colorato di marrone, gente che scava, gente che conta i danni, gente che si dispera e gente che piange. E che cerca un colpevole. Trovarlo, se mai ci si riuscirà, toccherà al Procuratore Capo Guido Lo Forte e al sostituto Camillo Falvo, che sono arrivati in paese per l'apertura dovuta di un'inchiesta: disastro colposo e omicidio colposo plurimo. Che arriva giusto una decina di giorni dopo i 18 avvisi di chiusura indagini per i fatti di Giampilieri.

Stess test territoriali, non grandi opere

di Tonino Perna

Il primo ottobre del 2009 a Giampilieri, nella stessa provincia di Messina flagellata in questi giorni, caddero in poche ore 350 millimetri di pioggia. I morti a causa delle frane furono 37. A Genova, pochi giorni fa, di millimetri ne sono caduti 500, quanta pioggia viene mediamente giù in sei mesi.

Gli eventi estremi di cui tutti ora parlano con padronanza di linguaggio - uragani, tifoni e alle nostre latitudini piogge intense e concentrate alternate a periodi di forte siccità - sono ormai una tragica normalità. Il cambiamento climatico è una verità scientifica e non un'opinione. Di conseguenza, accusare la natura come il Fato è sbagliato e serve solo a nascondere altre responsabilità, umane e politiche.

Per la sua vicinanza geografica ai luoghi del disastro odierno, quello che è accaduto a Giampilieri rappresenta una perfetta cartina di tornasole. Il governo aveva promesso di intervenire, ma gli unici soldi arrivati sono andati agli alberghi della costa costretti a ospitare gli sfollati. In due anni non si è fatto nulla, e molti sono rientrati clandestinamente nelle case a rischio per necessità e non per incoscienza.

Oggi si ripresenta la stessa situazione. Tutti si strappano le vesti per poi non fare assolutamente nulla per il risanamento del territorio. Fare i conti con la normalità degli «eventi estremi» è una necessità che non trova adeguata rispondenza nelle volontà politiche dei governi.

Eppure le idee e le competenze per intervenire con successo non mancherebbero. Basterebbe farla finita con le grandi opere per destinare le risorse a un'unica opera di messa in sicurezza del territorio, a carattere nazionale, articolata in tante piccole opere locali sulla base di una scala di priorità, come da tempo propone anche Sbilanciamoci. Ma come si definisce questa scala di priorità? Attraverso degli stress test territoriali, simulando l'impatto di una pioggia intensa su un determinato territorio, secondo le sue caratteristiche morfologiche, e agendo su di esso di conseguenza.

È grave che tutto ciò non si faccia, ancora più grave in tempi di crisi economica e finanziaria. Abbandonare il territorio vuol dire non solo sopportare la tragedia delle vittime e il costo (materiale e immateriale) dei danni ambientali. Vuol dire anche alimentare l'assistenzialismo statale, ad esempio pagando per anni l'albergo a chi è rimasto senza un tetto. Quello stesso assistenzialismo che a parole si dice di voler combattere.

Stato di calamità in Calabria: Scopelliti fa l'«ambientalista»

di Silvio Messinetti

Un morto, una tragedia ferroviaria sfiorata, un ponte crollato, la linea jonica interrotta in più punti, intere zone del catanzarese prive di energia elettrica, gravi danni a Catanzaro città, chiuse le sale operatorie del Policlinico, decine di negozi invasi da fango ed acqua. Insomma, un disastro. Il solito in Calabria. Dove sostiene Legambiente: «Il 100% dei comuni è a rischio frane». E di fronte a questi dati raccapriccianti la politica non sa far altro che passerelle e messinscene.

«Chiediamo l'attivazione delle procedure per la dichiarazione dello stato di calamità. Speriamo che il governo ci fornisca tempestivamente le risposte. Noi faremo tutto ciò che è utile per cercare di attirare l'attenzione per il nostro territorio visto che i danni sono ingenti. Quello che noi facciamo finta di non sapere è che esistono situazioni di alloggi, abitazioni costruite all'interno di fiumare. E questo è accaduto perchè la politica era disattenta e oggi paghiamo le situazioni del passato. Dobbiamo lavorare per cercare di consolidare il nostro territorio e salvaguardarlo».

A parlare non è un'attivista dei movimenti a difesa del territorio ma il presidente della Regione, Peppe Scopelliti (Pdl), che anziché fare il mea culpa si traveste da ambientalista fuori tempo massimo. E alla presenza del capo della Protezione civile, Franco Gabrielli, si cimenta nel solito scaricabarile. Ingiustificabile dato che le responsabilità delle istituzioni sono gigantesche. Sono passati appena 18 mesi dalla frana spettacolare di Maierato le cui immagini fecero il giro del mondo, e Scopelliti e compari in questo tempo sono stati a guardare. Nessun piano di messa in sicurezza del territorio, nessuna opera di salvaguardia e prevenzione. Ma solo cementificazione selvaggia, speculazione edilizia, banditismo urbanistico. E il risultato è sconcertante, la lista dei danni di due giorni di pioggia lunga come un lenzuolo.

Ieri è stato il crotonese a essere interessato da forti temporali che hanno provocato l'allagamento di molte abitazioni poste ai piani terra e di diversi scantinati, oltre a problemi alla circolazione per una serie di piccole frane verificatesi su alcune strade interne. Interrotta la linea ferroviaria jonica tra Soverato e Crotone per un muro caduto e allagata la stazione di Botricello. A Reggio in località Bocale i vigili del fuoco sono intervenuti per soccorrere una donna rimasta isolata nella sua abitazione dopo che una mareggiata aveva portato via un tratto di strada. A Cinquefrondi e a Cittanova le scuole sono state chiuse su disposizione dei sindaci. Stessa cosa a Catanzaro, colpita da un vero e proprio diluvio durato fino a notte fonda. Non è ancora chiaro il quadro dei danni, delle frane, delle interruzioni stradali dentro la città e nell'immediata periferia.

Le zone più colpite sono quelle a sud, nei quartieri Santa Maria e Lido e a Catanzaro Sala che ancora piange il morto di lunedì notte travolto dal muro della sua abitazione. Molti altri quartieri risultano senza energia elettrica. La linea ferroviaria tra Lamezia e Catanzaro è ancora interrotta a causa del crollo di un ponte avvenuto pochi istanti dopo il passaggio di un convoglio che è deragliato per la presenza sui binari dei detriti provocati da uno smottamento. I 21 passeggeri non hanno riportato conseguenze. Solo per una fortunata casualità il treno non è precipitato nel dirupo sottostante. Nella Locride stanno tornando a casa gli abitanti di Platì, dopo l'evacuazione di dieci nuclei familiari. E poi c'è Natile Vecchio, nel pressi di Careri, in provincia di Reggio ove l'unico ponte di accesso al paese è crollato. Come la credibilità di chi governa una Regione che anziché pianger miseria dovrebbe assumersi per intero le responsabilità. E dimettersi.

Aggrediti dal cemento

di Elena Di Dio

L'ingegnere capo del genio civile di Messina parla con voce trafelata. Col cuore denso di rabbia e negli occhi lo strazio di un territorio macellato, esposto; nelle orecchie le parole di sconforto degli abitanti di contrada Scarcelli a Saponara, piccolo centro sul versante tirrenico a 23 chilometri da Messina capoluogo, costretti da ieri ad abbandonare le proprie case per l'ordine di evacuazione del sindaco Nicola Venuto. Gaetano Sciacca, l'ingegnere capo del genio civile, da qualche anno a Messina è la voce stonata nel coro di parole inutili che amministratori, consiglieri e commentatori vari dedicano alle alluvioni, al dissesto idrogeologico, alle morti di Giampilieri, al recupero del suolo.

A Giampilieri, il 1 ottobre del 2009, morivano 37 messinesi sepolti dal fango di una collina crollata sulle case. Lui, Sciacca, poche ore dopo ricordava a tutti - proprio dalle pagine del manifesto - che le sue denunce sulla fragilità di un territorio aggredito dalle costruzioni erano state opportunamente inviate alle autorità competenti insieme a un piano di interventi mai realizzato. Fino alla tragedia. Da Giampilieri in poi, l'unica a mantenere le promesse di stanziamento dei fondi pubblici è stata la Regione siciliana che ha investito per l'apertura di 21 cantieri in quelle aree sulla fascia ionica di Messina 40 milioni di euro. I 160 milioni di euro promessi dal premier dimesso Silvio Berlusconi sono un miraggio. Lo sono stati in questi due anni e continuano a esserlo dopo la firma dell'ordinanza con cui l'ex presidente del consiglio, solo il 2 settembre scorso, prevedeva lo stanziamento. Un territorio abbandonato. E malgovernato, come continua a dire Sciacca dopo la tragedia che ieri sera a Saponara ha portato via con fango e rabbia la vita di Luca Vinci, un bimbo di dieci anni e quelle di Luigi e Giuseppe Valla, padre e figlio.

«Non si può consumare altro suolo - tuona Sciacca - Non si può costruire ovunque rilasciando concessioni edilizie senza considerare le ricadute su un territorio fragilissimo. I sindaci facciano la prima cosa essenziale e doverosa per il compito che gli viene consegnato: garantire la sicurezza dei cittadini. Finché la vera emergenza sarà un territorio così a rischio l'emergenza non si esaurirà mai». È agitato Sciacca ma lucido come sempre e ai sindaci del territorio siciliano manda a dire chiaro e tondo: «Il governo del territorio spetta al sindaco che lo esercita attraverso la pianificazione territoriale dei piani regolatori generali. Basta nuove costruzioni. Stop all'aumento degli indici di edificabilità. Il nostro territorio non può più sopportarlo. I soldi delle amministrazioni pubbliche non possono essere spesi per le opere di urbanizzazione a vantaggio delle nuove lottizzazioni.

I soldi devono essere spesi per la valorizzazione e la messa in sicurezza dell'esistente. È uno scempio non più sostenibile». Parole che suonano come una sentenza e che si concentrano sulle omissioni locali tralasciando quelle di un governo nazionale che ha dimenticato il territorio del meridione e quello della provincia di Messina in particolare. Segnata a ogni ottobre - il mese delle alluvioni e dei nubifragi in questa area della penisola - dal rischio di tragedie legate al maltempo che sbriciola interi tratti collinari. È successo già nel 1998 quando morirono a Messina città cinque persone, si è ripetuto nel 2009 a Giampilieri con 37 vittime. Si è replicato ieri a Saponara con tre morti.

Il governo Monti, intanto, muove i primi passi. I ministri dell'Ambiente Corrado Clini e dell'Interno, Anna Maria Cancellieri sono stati in prefettura ieri pomeriggio per discutere delle misure d'emergenza e di una primissima stima dei danni per portare in consiglio dei ministri, in programma domani, il caso Messina. E individuare le risorse da destinare a questo territorio. Conferma anche l'assessore al Territorio della Regione siciliana, Sebastiano Di Betta: «Il Corpo forestale della Regione già ieri ha effettuato i primi sopralluoghi nelle zone alluvionate per una primissima conta dei danni. Il ministro Clini ha assicurato l'intervento del governo».

Il Ponte delle sciagure

di Antonello Mangano

«Diciamo che si sono allargati». Quando il presidente dell'Anas Piero Ciucci venne nella città dello Stretto per presentare il progetto del Ponte commentò così la lunghissima lista di «opere compensative» presentata dai politici locali. Era il febbraio 2010. L'incontro si tenne in un «palacultura» inaugurato dopo 35 anni di lavori. Il disagio del megacantiere andava compensato col raddoppio della tangenziale e con nuovi svincoli autostradali, persino quello di Giampilieri. Fino alla richiesta che oggi assume un significato particolare: la copertura dei torrenti Papardo e Annunziata, ovvero quei piccoli tratti miracolosamente sfuggiti all'asfalto. Il 27 settembre del 1998 l'Annunziata straripò uccidendo cinque persone: una intera famiglia più un cingalese trascinato via dal fango. Allora si ascoltò per la prima volta il consueto «mai più» che ogni volta avrebbe accompagnato i funerali delle vittime e le immagini dei corsi d'acqua trasformati in bombe d'acqua. E una delle discariche previste dal progetto del Ponte è posta proprio sopra il torrente Annunziata.

Poche settimane fa una delegazione della Rete No Ponte riusciva a incontrare il vicesindaco superando un doppio sbarramento di polizia e vigili urbani. Gli attivisti volevano semplicemente invitare i politici locali a non firmare l'accordo con la «Stretto di Messina» che avrebbe consegnato il territorio a un progetto di devastazione. Oltre sei milioni di metri cubi sarebbero «conferiti» nei «siti di recupero ambientale», secondo l'elegante burocratese dei progettisti. Per ambientalisti e tecnici, invece, si tratta di discariche poste nei canali d'impluvio: cioè ulteriori tappi capaci di creare nuove bombe d'acqua. Alcune sono previste a Messina, le altre a Torregrotta e Valdina, esattamente a metà strada tra Barcellona e Saponara, teatro delle alluvioni che hanno fatto tre morti.

«Oggi in una scuola ho visto le classi vuote. Ormai la gente non esce di casa se vede una nuvola nera», disse un attivista al vicesindaco. «Bisogna avere i dati, le prove», rispose il lungimirante politico. Dopo qualche settimana il primo cittadino - in seguito all'allerta meteo - ordinava a tutti i presidi della città di trattenere gli alunni fino al termine della pioggia. In molti casi era troppo tardi: i dirigenti scolastici avevano mandato a casa i bambini. Per evitare lo psicodramma del 9 novembre, due giorni fa le scuole sono rimaste chiuse preventivamente.

Ieri il consiglio comunale messinese, per la quinta volta di seguito, si è riunito per discutere l'accordo di programma con la Stretto di Messina. Nelle quattro occasioni precedenti era mancato il numero legale. Il sindaco era stato spesso assente. Ponte e sicurezza del territorio sono questioni cruciali per la città, ma la classe politica le vive con rilassatezza. Gli animi si infiammano solo quando si discute di «opere compensative», ovvero la modalità con cui un ceto politico di questuanti spera di strappare a Roma le risorse che per via ordinaria non arriveranno mai.

«I cittadini chiedono sicurezza dal rischio idrogeologico. Le frane che hanno causato 37 morti il primo ottobre 2009 rappresentano l'evento più tragico di una sequenza di episodi calamitosi. Sotto accusa è un modello di gestione del territorio». Subito dopo la tragedia di Giampilieri il movimento No Ponte chiedeva che le risorse per la grande opera fossero spostate alla sicurezza del territorio. Una posizione oggi condivisa da tutti gli schieramenti politici e dalle parti sociali, ma che non ha prodotto risultati tangibili.

Nello Stretto opera già il cosiddetto «monitore ambientale», la figura prevista dal contratto del Ponte. Dovrebbe studiare «ante operam» il territorio. Un appalto da 29 milioni di euro. La società capofila è la multinazionale EDF, equivalente francese dell'Enel, accusata di aver inquinato la falda acquifera di Melfi, in Basilicata. Gli studi previsti riguardano la lepre italica e i pipistrelli, ma ci dicono pochissimo sulla fragilità del territorio.

Per Giampilieri e Scaletta Zanclea (altro comune vittima del disastro del 2009) sono stati stanziati fondi per 180 milioni. Ma sono inutilizzabili a causa di un'ordinanza sbagliata. Sembra quasi che le sciagure siano preparate con cura, per una sorta di «shock economy» all'italiana. Un copione che due anni fa vedeva Berlusconi sorvolare in elicottero le zone devastate, proporre il suo show a base di battute, promettere agli sfollati una nuova abitazione col frigo pieno. Di solito si concludeva con gli affari della cricca.

A Messina non funzionò, i movimenti e gli abitanti rifiutarono le new town. Ai funerali il cavaliere fu pesantemente contestato. E ci rimase malissimo: «Berlusconi va a Messina, lavora tutta la mattina per rifare le case, va in chiesa e sta tre ore in piedi con la gamba che gli fa male, di fronte alle bare. Abbraccia tutti coloro che deve abbracciare perché hanno perso i cari», confida a Lavitola in una celebre telefonata intercettata. «Poi dalla chiesa va alla sua macchina e ha quindici giovani da una parte e dall'altra che gli dicono 'assassino', 'buffone', 'vergogna'. E non succede niente. O lascio, o facciamo la rivoluzione. Ma la rivoluzione vera».

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Rapporto della Protezione Civile

Un «dilagante processo di urbanizzazione», la «cementificazione dei corsi d'acqua», la «deforestazione» dei bacini idrografici, la mancata manutenzione di fiumi, torrenti, scarichi a mare, insomma la fotografia di un territorio con «squilibri idrogeologici non disgiunti da cause antropiche»: era già tutto nel rapporto della Protezione civile scritto nell'ottobre 2008, un anno prima delle 37 vittime dell'alluvione che colpì il messinese devastando Giampilieri e un anno dopo l'alluvione del 25 ottobre 2007, quando esondarono i fiumi, si registrarono smottamenti e frane ma, per fortuna, nessun morto. Quel rapporto è stato consegnato alla procura di Messina che ne ha tratto spunti per l'inchiesta sui fatti del 2009, chiusa una decina di giorni fa con l'avviso di conclusione indagini a 18 tra amministratori, tecnici e dirigenti.

ROMA — Corrado Clini, il nuovo ministro dell'Ambiente, ha parlato di «svuotamento». Ha detto ieri, prima di volare a Messina: «Bisogna cominciare ad agire sui territori svuotando le zone dove non si sarebbe mai dovuto costruire». E in tanti hanno applaudito, gli ambientalisti per primi, loro che da anni quello svuotamento lo chiamano «delocalizzazione» e che, da anni, professano la libertà dei fiumi oggi imbrigliati dal cemento.

Eppure la proposta del ministro Clini è costellata di «ma». Gabriele Scarascia Mugnozza, capo dipartimento di Scienza della Terra dell'università La Sapienza di Roma, li riassume con due domande: «Clini dice cose giustissime: ma dove trova i soldi per fare questo? E anche: dove trova le persone che hanno la forza di spostare i cittadini dal proprio territorio?».

Già: chi li sposta i cittadini dalle loro case? Raffaele Lombardo, governatore della Sicilia, pensa che non ci siano persone così. Pensa che: «La teoria delle nuove case che costerebbero molto molto meno che rimettere in sicurezza le case crollate trova la resistenza imbattibile dei cittadini». E non è un pensiero solo del meridione profondo.

Basta fare un salto fra i paesini della Toscana ferita: «Cosa pensa Clini? Di cancellare i piccoli comuni con un colpo di spugna?». Sandro Donati è il sindaco di Mulazzo, il comune che custodisce Montereggio, il paesino dei librai analfabeti. «Ci sono la storia, la cultura, le tradizioni con cui fare i conti», ribadisce il primo cittadino eletto in una lista civica di centrosinistra. E le sue parole incontrano l'esperienza tecnica di Paola Pagliara, capo del settore rischio idrogeologico della Protezione civile.

Dice Pagliara: «Di fronte al rischio idrogeologico non ci sono che due approcci possibili: o si svuotano gli abitati o si rimettono in sesto. Storicamente come Protezione civile abbiamo sempre avuto problemi con lo svuotamento. Il primo che facemmo, a Cavallerizzo di Cerzeto, nel cosentino, ci fece combattere con una resistenza strenua degli abitanti della comunità che lo abitava».

Ma non è soltanto un problema di cittadini. Franco Orsi, sindaco (e senatore) pdl di Albisola, Liguria, dice di non aver problemi a «delocalizzare» i propri cittadini al momento dell'allerta meteo. «Il problema della proposta del ministro Clini è un altro: d'accordo svuotare, dunque abbattere le case. E gli ambientalisti applaudono. Ma poi? Quando si tratta di ricostruire? Ha un'idea il ministro di quanto sia problematico far passare le varianti ad un piano regolatore? E quante resistenze oppongono gli ambientalisti?».

Oggi queste resistenze gli ambientalisti le hanno lasciate da parte. Applaudono alla proposta di Corrado Clini che vede coronare il loro sogno di liberare i fiumi. E le obiezioni, semmai sono di altro genere. Come quelle economiche avanzate da Francesco Ferrante, senatore ecodem del Pd: «Sacrosanta la proposta del ministro. Ma siamo sicuri di trovare ovunque le sostenibilità logiche ed economiche?».

Paure condivise anche da Maria Grazia Midulla, responsabile clima ed energia del Wwf, e da Giorgio Zampetti, dell'ufficio scientifico di Legambiente che, però, sostiene la proposta come una panacea: «La delocalizzazione è una proposta che noi facciamo da sempre. Delocalizzare una struttura è un intervento risolutivo, la messa in sicurezza è invece infinitamente più onerosa».

Gian Vito Graziano, presidente del consiglio nazionale dei geologi, esordisce entusiasta: «Penso che quella del ministro Clini sia una scelta molto coraggiosa». Il «ma» arriva subito dopo: «Come pensa di riuscire ad attuarlo? In Italia manca una legge che supporti la difesa del sottosuolo, adesso affidata soltanto ad un capitolo della legge 152 del 2006. Ed è ben poca cosa: io in Italia non ho mai visto buttare giù una villetta, ma nemmeno una casetta abusiva».

Francesco Chiocci, ordinario di Geologia alla Sapienza di Roma, propone il «ma» più articolato di tutti. Dice, infatti: «La delocalizzazione è sicuramente un'opzione. Ma la verità è che non esiste una risposta univoca ad un problema tentacolare come questo. Penso, ad esempio, ai paesini costieri della Liguria: sono spesso costruiti su fondali dove non esistono alternative. Non ha senso dire che vengono svuotati, bisognerebbe dire che vengono chiusi per sempre. E ricostruiti altrove».

Sostenibilità è un concetto che ci parla di "quanto a lungo può reggere" qualcosa. Nasce in riferimento ad uno dei pedali del pianoforte, che in inglese si chiama "sustain", quello che serve per allungare le note, per farle durare nel tempo. Non per niente i francesi traducono con durabilité, capacità di durata. La consapevolezza che le nostre azioni debbano essere sostenibili è senz’altro uno degli elementi chiave per il futuro delle attività umane. Oggi, in tempi d’incertezza, al futuro forse ci si pensa un po’ di più, anche perché a ben vedere il futuro non è roba nostra così come non lo sono le risorse naturali. Sono patrimoni condivisi, che tocca alle generazioni in vita preservare per quelle che verranno.

In tema di sostenibilità il cibo è un fattore centrale, determinante, che non si può non considerare e che può essere la leva principale su cui agire per "far durare di più". Attraverso la scelta del cibo scegliamo il tipo di agricoltura che si pratica nel mondo e a casa nostra, se essa debba rispettare o no la fertilità dei suoli, una presenza umana consistente nelle zone rurali, la difesa della biodiversità, il corretto impiego dell’acqua e il mantenimento dei paesaggi insieme alla sicurezza idrogeologica dei territori.

Scelte che oltretutto di solito si coniugano perfettamente con il bello e il buono i quali, infatti, sono al contempo sia conseguenze sia presupposti della sostenibilità. È qualcosa di rivoluzionario. Ben presto - se non l’abbiamo già fatto - scopriremo che mangiare può essere un’attività che è tanto più piacevole e salutare quanto più è sostenibile, e che dunque la nostra parte possiamo farla ampiamente senza grandi sacrifici ma anzi, aggiungendo piccole ma importanti porzioni di felicità alle nostre vite.

"Mangiare è un atto agricolo", ha scritto il poeta contadino Wendell Berry. Possiamo aggiungere che è un atto ecologico, un atto paesaggistico, un atto di profondo rispetto per le culture, un atto politico. E deve diventare un atto sostenibile, perché mangiare è la cosa più direttamente, intimamente collegata - tanto in maniera evidente quanto in maniera nascosta perché ancora insondabile per le nostre conoscenze scientifiche - con tutto ciò che ci circonda: quel grande sistema complesso che è il pianeta che ci ospita. In poche parole la nostra casa, di cui però non siamo semplici inquilini, ma parte integrante.

Siamo dentro il sistema naturale e ormai per troppo tempo abbiamo fatto finta di esserne un corpo estraneo. Per questo motivo non agire in maniera sostenibile, "che fa durare", fa male alla Terra ma ne fa anche a noi umani. Ed è dunque anche soltanto per l’egoismo che ha sempre caratterizzato la nostra specie che dovremmo rivedere molte nostre scelte, partendo proprio da quelle che per molti nel tempo sono diventate insignificanti, semplicemente perché quotidiane. Come la scelta di che cosa mangiare ogni giorno, che ha il potere di migliorare il mondo, per noi e per chi verrà dopo di noi.

Ha fatto bene il governo Monti sia ad approvare fra i suoi primi atti il decreto legge su Roma Capitale sia ad istituire un Ministero per la Coesione territoriale. Il concetto di Nazione è inciso nella nostra Costituzione, a partire dall’art. 9 che, in modo sintetico e felice, afferma: “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Con una prevalenza – di visione e di compiti – per l’apparato delle Soprintendenze statali allora ricadenti nella Direzione generale delle Antichità e delle Belle Arti (da non pochi rimpianta) presso la Pubblica Istruzione. Poi, con Giovanni Spadolini, nel Ministero dei Beni Culturali e Ambientali felice connubio presto spezzato togliendo l’Ambiente e lasciando però il Paesaggio.

La versione Pdl-Lega (che ora insorge) del decreto per Roma Capitale assegnava di fatto le deleghe per la tutela al nuovo ente togliendole a Regione e Ministero. Questa è certamente meno infelice e però suscita seri problemi funzionali, di competenza, che il Parlamento deve chiarire. All’articolo 131 del Codice per i beni culturali e paesaggistici è scolpito: “Salva la potestà dello Stato di tutela del paesaggio”. Norma che riprende quanto ribadito da varie sentenze della Suprema Corte. Ci deve dunque essere un organismo tecnico-scientifico che esercita un superiore controllo sugli atti di Regioni, Province e Comuni. Non su quelli del nuovo ente Roma Capitale? E’ vero che solo a Roma esiste – omaggio di Corrado Ricci – una Soprintendenza comunale, oggi flebile se si guarda al degrado del centro storico. Essa è affiancata alle Soprintendenze statali di settore, che però da sempre prevalgono, come del resto sta scritto nel Codice (prima Urbani, poi Buttiglione, infine Rutelli). Nel decreto inviato alle Camere si parla invece di una Conferenza delle Soprintendenze composta dalla Direzione regionale per i beni paesaggistici del Lazio, dalla Soprintendenza Capitolina e dalle varie Soprintendenze statali competenti su Roma. Alla pari. Formula assai macchinosa e, temo, inefficiente. Roma Capitale ha tutta una serie di deleghe che la fanno “concorrere” a molte cose. Escluse però le chiese romane “nazionalizzate” – SS Apostoli, Sant’Ignazio, Sant’Andrea della Valle, il Gesù, Santa Maria del Popolo, Sant’Andrea al Quirinale, ecc., una settantina - ricomprese nel Fondo per l’Edilizia di Culto presso il Viminale. Per queste, fermi tutti.

Ma essa “concorre” alle politiche di tutela e di valorizzazione paesaggistica, e ancora a tutela, pianificazione, recupero e riqualificazione del paesaggio e “all’attività di vigilanza sui beni paesaggistici tutelati dal Codice”. In tanta confusa collaborazione “orizzontale”, ci vorrà pure qualcuno che, alla fine, dice l’ultima parola e su questo l’art. 131 del Codice parla, o parlava, chiaro. Come ci vorrà pure qualcuno che apponga i vincoli: archeologici, architettonici, paesaggistici, ecc. E chi se non il Soprintendente ministeriale, cioè lo Stato? Insomma, sono tanti i nodi e garbugli da sciogliere e non si capisce come al MiBAC (forse, con la crisi di governo, in faccende di poltrone affaccendati) abbiano avallato un testo simile. A Roma la gestione dell’urbanistica è stata assai debole, con 12-14mila ettari “mangiati” dall’abusivismo. Fenomeno, ora, tutto speculativo, e galoppante. Al neo-ministro Ornaghi serve un sottosegretario “tecnico” molto esperto nei problemi dell’Amministrazione, centrale e periferica. Facile da individuare fra i tanti Soprintendenti o Direttori generali coraggiosi e di valore sciaguratamente mandati in pensione a poco più di sessant’anni.

Titolo originale: Visions of a Development Rising From the Sea– Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Ai newyorkesi piace un sacco, pure troppo qualche volta, inventarsi sempre nuovi nomi a definire nuove aree in gran voga, che sia NoMad (a Nord di Madison Square Park) o SoBro (South Bronx) o addirittura BoCoCa (Boerum Hill, Cobble Hill e Carroll Gardens). Adesso arriva pure LoLo: il più creativo di tutti dato che quel quartiere ancora non esiste.

LoLo, che sta per Lower-Lower-Manhattan, è una delle prime proposte uscite dal nuovo Centro Studi Immobiliari della Columbia University. L’area si creerebbe collegando Lower Manhattan e Governors Island tramite imbonimento con milioni e milioni di metri cubi di terra, in modo simile a quanto successo con Battery Park City negli anni ‘70. Su un arco di venti-trenta anni, calcolano al Centro, su LoLo si potrebbero realizzare circa otto milioni di metri quadrati di superficie di pavimento, con un gettito di oltre 16 miliardi e mezzo di dollari per l’amministrazione cittadina.

Forse si tratta di un progetto impossibile, dato che le norme per le costruzioni su area di colmata sono molto rigide. E poi Governors Island è diventata una meta molto popolare per il tempo libero e gli eventi artistici. Ma si tratta comunque di una di quelle idee di ampio respiro di cui New York ha sempre bisogno, pensa Vishaan Chakrabarti, direttore del centro studi e titolare della cattedra Marc Holliday di sviluppo immobiliare alla Columbia.

Fra gli altri progetti allo studio del centro, il modo in cui la città potrebbe stimolare nuove trasformazioni modificando le norme di zoning. Ci sono quasi quattrocento milioni di metri quadrati di diritti edificatori non sfruttati, settanta milioni solo a Manhattan. Il metodo più comune usato per costruire è quello di acquisire da edifici accanto i cosiddetti “diritti d’aria” ovvero di edificare verticalmente. Se si rendessero più elastiche le norme di zoning, secondo il Centro, un costruttore potrebbe acquisire diritti d’aria non solo da edifici accanto, ma in tutta l’area omogenea.

Del resto è stato proprio il principio adottato nella zona del progetto High Line, a cui ha lavorato Chakrabarti quando era consulente dell’ufficio di Manhattan per il cittadino Department of City Planning. Lì I costruttori possono acquisire diritti aerei da qualunque proprietà, confinante o meno. “Credo nel libero mercato” dichiara Chakrabarti. “Se c’è un bacino di acquisto limitati, le proprietà tendono ad alzare eccessivamente i prezzi, nel caso in cui il mercato si fa più fluido i diritti aerei si assestano. La cosa ha funzionato magnificamente con la High Line, oltre i nostri sogni più spinti”.

Il Center for Urban Real Estate funziona da quest’estate alla Columbia presso la Graduate School of Architecture, Planning and Preservation. Oltre a Chakrabarti il gruppo conta su un altro professore e un ricercatore a tempo pieno, più la partecipazione parziale di un professore. I finanziamenti sono della Carnegie Corporation e della Open Society Foundations, oltre che dalla facoltà di architettura. La Durst Organization, che ha da poco donato quattro milioni di dollari alla facoltà e alla biblioteca, sostiene gli eventi annuali di presentazione delle ricerche del Centro. Prima di entrare alla Columbia nel 2009, Chakrabarti è stato vicepresidente esecutivo alla Related Companies, grossa impresa di costruzioni, per cui ha collaborato a coordinare il progetto Hudson Yards e la ristrutturazione della Moynihan Station. Continua a collaborare come consulente per la compagnia su vari progetti.

Il Centro sta anche iniziando la redazione di un Rapporto, titolo NYC2040, sulle trasformazioni edilizie di New York in un arco di trent’anni a venire, tenendo conto di politiche pubbliche e questioni ambientali. Alcuni risultati dello studio potrebbero essere anche anticipate in primavera, con pubblicazione definitiva entro l’estate. Per quanto riguarda il progetto per Governors Island, Chakrabarti ne aveva già parlato a un incontro tenuto dalla Municipal Arts Society. Mentre la versione integrale della proposta è stata esplicitata settimana scorsa al convegno “Zoning the City” del Department of City Planning.

Chakrabarti non ha ancora presentato ufficialmente il progetto LoLo agli uffici cittadini. Si rende conto che si tratta di una cosa “enorme” che necessita complesse valutazioni ambientali, procedure, e modifiche normative. Ma nonostante la difficoltà si dichiara convinto che non sia molto più complicato della variante urbanistica e realizzazione del progetto Hudson Yards, o del prolungamento della Linea 7 della metropolitana. In entrambi in casi la procedura è stata molto complessa. Ci vorranno decenni, con un costo per la città di miliardi di dollari.

La proposta comprende quaranta ettari di area a tutela storica nazionale sull’isola, 300.000 metri quadrati circa per edifici a servizi pubblici come scuole, 130 ettari di spazi aperti. Il gettito delle trasformazioni edilizie sarà sufficiente a sostenere i costi di prolungamento delle linee 1 e 6 della metropolitana nel nuovo quartiere, e per un ponte che collega con l’area di Red Hook sulla sponda di Brooklyn. Robert Pirani, direttore esecutivo dell’associazione Governors Island Alliance, gruppo che partecipa anche alla Regional Plan Association, dice di dover ancora vedere il progetto completo. Ma da quanto ne sa Pirani mette in dubbio la possibilità che con questa colmata di collegamento fra Manhattan e Governors Island si possano stimolare trasformazioni positive. “Col traghetto ci vogliono cinque minuti da Manhattan, ed è una gestione molto economica. Secondo me il fatto di essere staccato da Manhattan non impedisce affatto le trasformazioni”.

E aggiunge: “La città deve certo dotarsi di infrastrutture migliori sull’isola, dall’acqua potabile ai trasporti pubblici, così che poi qualunque intervento possa essere considerato come tutti gli altri, anziché qualcosa di amorfo e anomalo. I costruttori vogliono certezze, è quello che manca”. Il Centro propone anche l’uso di colmate per creare isole-barriera nella baia per proteggersi dalle onde, di eliminare le sponde a muro esistenti attorno a Governors Island e sostituirle con cosiddetti margini morbidi, superfici inondabili con maggiore capacità, secondo gli studiosi, di assorbire gli effetti di una tempesta. I materiali per la colmata possono essere messi a disposizione dal Genio Militare che di norma draga il porto di New York per mantenere la profondità dei corridoi di navigazione. Nei prossimi 55 anni, si calcola di dragare 180 milioni di metri cubi dal fondale, di cui la maggior parte dovrebbe essere smaltito in altre colmate o in miniere abbandonate sparse per tutto il paese.

Prima che fossero approvate le norme ora vigenti sull’imbonimento e la possibilità di costruirci sopra, era il metodo correntemente usato per ampliare la superficie della città, come per Battery Park City, realizzata dagli scavi per la costruzione del World Trade Center. È un metodo ampiamente utilizzato nelle città di tutto il mondo. Si sono usati 250 milioni di metri cubi di interramento per l’aeroporto di Hong Kong, e ben 6,65 miliardi di metri cubi per nuove superfici urbane nella baia di Tokyo. Quindi la proposta di Governors Island è abbastanza modesta, visto che si utilizzerebbero circa 23 milioni di metri cubi, stando ai calcoli dello studio. “Vishaan pensa in modo globale” giudica Vin Cipolla, presidente della Municipal Arts Society di New York, che ben conosce il progetto per Governors Island, “e non si fa certo intimorire dalle cose che possono stimolare verso il futuro una regione come la nostra”.

É passato solo qualche giorno dalla sensazionale rivelazione di un installatore di pannelli solari: David Cameron non è un vero ecologista! Ma va? Raccontava alla stampa, l’artigiano e probabile ex elettore dei tories, che il primo ministro prima si fa installare gli impianti pagando “solo” cinquemila euro e rotti grazie ai sostegni al settore garantiti dai laburisti di Brown, e poi appena andato al governo taglia i medesimi sussidi, lasciando il settore a bocca asciutta. Con buona pace dell’artigiano, a cui va naturalmente tutta la nostra solidarietà, il sedicente ambientalismo dei Conservatori pare proprio consegnato agli archivi insieme agli opuscoli elettorali. Basta vedere ciò che accade con la riforma urbanistica e in genere l’approccio al territorio, per confermare e rafforzare l’idea.

La penultima puntata della composita telenovela, che si gioca su vari tavoli, aveva un sapore vagamente berlusconiano, palesi illegalità tipiche del nostro paese a parte. Come riferiva Robert Booth sul Guardian c’era stato un andirivieni un po’ troppo frequente delle stesse persone fra i privatissimi uffici delle compagnie interessate alle trasformazioni urbane e quelli pubblici dei Ministeri intenti a scrivere le nuove regole. Regole tanto tagliate su misura per i costruttori da far nascere qualche legittimo sospetto di interferenza, confermato dai documenti. Appunto nulla di illegale, per ora, però almeno politicamente discutibile di sicuro sì. Ma i tavoli su cui si gioca la partita sono parecchi, e ieri l’attenzione doveva concentrarsi su quello, assai più delicato nel rapporto con l’opinione pubblica e l’elettorato, del problema casa.

Perché il governo di coalizione ha approvato una serie di agevolazioni per i mutui, rivolte alle giovani coppie e non solo, che dovrebbero da un lato iniziare ad allentare la grave e annosa tensione abitativa del paese, dall’altro sbloccare un settore edilizio che, complice la crisi economica, l’anno scorso ha toccato un minimo di produzione che non si vedeva da quasi un secolo. La crisi economica però è appunto considerata solo “complice”: come hanno sottolineato Cameron e Clegg presentando il provvedimento, per sbloccare davvero il settore si dovranno aspettare i risultati della riforma urbanistica, quella che riduce da mille a cinquanta il numero di pagine delle linee guida nazionali (devono aver studiato semplificazione con Calderoli) e introduce un “orientamento preventivamente favorevole alle trasformazioni sostenibili” guardandosi bene dallo spiegare cosa diavolo voglia dire sostenibili. E implicitamente lasciando agli opuscoli dei costruttori il compito di interpretare il concetto bruntlandiano.

Ma giusto oggi 23 novembre 2011 all’elenco dei possibili tavoli di gioco delle strategie territoriali si aggiunge il rapporto del centro studi conservatore Policy Exchange intitolato Cities for Growth: Solutions for our Planning Problems, firmato da Alex Morton. Una firma particolarmente significativa di questi tempi, visto che proprio l’anno scorso Morton pubblicava un altro studio dedicato specificamente al tema della casa. Oggi lo sguardo si allarga al territorio nazionale, che nella migliore tradizione del neoconservatorismo globalizzato sarebbe sottoposto al tallone di ferro di una tradizione urbanistica soffocante. Le cui radici sono facili da ricostruire: nel secondo dopoguerra, complice l’unità nazionale e l’anelito diffuso alla ripresa, il tarlo del comunismo riesce a infilarsi nei gangli istituzionali, e ad arrivare sino ad oggi quando esplode la contraddizione: grigi burocrati autoreferenziali che pretendono di decidere da polverosi uffici pubblici la vita dei cittadini. Sicuramente è un tipo di retorica che ricorda qualcosa a qualcuno.

La soluzione naturalmente è spazzar via col vento della storia queste croste novecentesche, e farlo attraverso la riforma urbanistica in corso. L’impavido Alex Morton non ha alcun dubbio quando prova a migliorare ulteriormente quanto già suggerito ai ministri dai grandi manager immobiliari. Loro chiedevano e ottenevano “orientamento preventivamente favorevole alle trasformazioni sostenibili”, e probabilmente questo secondo Morton è troppo, perché poi ci si deve infilare (come infatti hanno subito chiesto CPRE e National Trust) in quelle sottili definizioni di cosa sia sostenibile e cosa no. Molto meglio, suggerisce nel suo rapporto, una “Presumption Against Public Interference” che credo non abbia alcun bisogno di interpretazione. Il centro studi Policy Exchange è, in tutto e per tutto, organico al partito Conservatore al governo, forse anche più di altri enti ultraliberisti del genere come per esempio oltreoceano la repubblicana estrema Heritage Foundation, nota per le attività pro-sprawl. E proprio sul tema della dispersione urbana, mai esplicitamente nominata, si articolano le tesi di Morton, riassumibili in un breve slogan: costruiamo sulla Green Belt.

Ci si potrebbe soffermare sulle forme narrative del rapporto, tanto simili a quelle di certi lavori recenti soprattutto americani, dal Bruegmann di Sprawl, a compact history, al Glaeser di Triumph of the city, ma lascio ai veri appassionati (con un po’ di certosina pazienza) il privilegio, scaricando direttamente le cento e passa pagine del rapporto qui in fondo. Si va dal classico “così vuole la famiglia media” rivolto naturalmente al modello della casa singola con giardino, che richiede sterminati spazi, al recupero a gettone di Ebenezer Howard e del suo movimento, dimenticandosi o forse non sapendo neppure sino a che punto l’idea della Green Belt in senso assolutamente moderno si debba a quella scuola di pensiero. E naturalmente ad ogni passo si evoca il nemico acquattato nell’ombra: il sinistro urbanista di sinistra, grigio funzionario orwelliano che vuole incasellare l’umanità dentro a grigi scatoloni, magari completi di Grande Fratello che scruta ogni nostro movimento …

Purtroppo non c’è niente da ridere, sapendo che questi sono gli ascoltati consiglieri del governo, e che poi magari arriva pure l’aiutino di qualche concentrazione mediatica alla Murdoch, a soffiare sul fuoco di temi già assai caldi come l’emergenza abitativa, l’edilizia ferma, certe lungaggini burocratiche innegabili. Però a concludere questa ennesima puntata dedicata alla riforma del sistema urbanistico britannico, che non dimentichiamo da un secolo fa da riferimento internazionale, forse valgono di più alcune citazioni letterali di Alex Morton:

“Le Green Belt soffocano le nostre città, tutelando spazi senza valore ai loro margini, di fatto spingendo le trasformazioni verso la campagna vera e propria e densificando ancor di più quanto è già congestionato”.

É arrivato il momento per una radicale revisione del sistema urbanistico. Al centro delle decisioni ci sono da almeno sessant’anni le amministrazioni locali. Adesso occorre introdurre un orientamento preventivamente contrario all’interferenza pubblica [Presumption Against Interference] al cuore del sistema. La pianificazione locale si deve interessare di obiettivi strategici, non cercare di gestire ogni piccola cosa”.

“Il paese è costruito solo per il 10%, non mancano certo superfici disponibili, ce ne sono invece troppo poche su cui sia autorizzato costruire. Per fare un esempio, a Oxford e in Oxfordshire un ettaro di terreno agricolo costa 23.000 euro. Quando la destinazione è industriale però vale cinquanta volte tanto, e se è residenziale duecento volte. Ne abbiamo destinati troppo pochi a queste funzioni”.

Ecco, è contro queste argomentazioni apparentemente di buon senso ma facilone e in malafede, che tocca scontrarsi. Il modo migliore però non è quello di indignarsi e scagliarsi contro il Male, ma di fare appello alla ragionevolezza del medesimo “pubblico”, e in fondo del medesimo “mercato” a cui si rivolgono i profeti a gettone da un paio di generazioni in qua.

Per qualche commento in più sul rapporto Policy Exchange consiglio Oliver Wright, Call for new towns on Green Belt, su The Independent 23 novembre. Il capolavoro completo è scaricabile in pdf qui di seguito.

Nel presentare il proprio governo, il 16 novembre scorso, il nuovo premier Mario Monti ha raccontato come i dirigenti dei partiti abbiano preferito non entrare nell´esecutivo e ha aggiunto un´osservazione significativa, e perturbante.

«Sono arrivato alla conclusione, nel corso delle consultazioni, che la non presenza di personalità politiche nel governo agevolerà, piuttosto che ostacolare, un solido radicamento del governo nel Parlamento e nelle forze politiche, perché toglierà un motivo di imbarazzo».

La frase turba perché con un certo candore rivela una verità oculatamente nascosta. Così come sono congegnati, così come agiscono da decenni, i partiti non sanno fare quel che prescrive la Costituzione: non sono un associarsi libero di cittadini che «concorre con metodo democratico a determinare la politica nazionale»; rappresentano più se stessi che i cittadini; e nel mezzo della crisi sono motivo d´imbarazzo. Il nuovo premier ama la retorica minimalista – la litote, l´eufemismo – ma quando spiega che le forze politiche non vogliono scottarsi perché «stanno uscendo da una fase di dialettica molto molto vivace tra loro» (e non senza asprezza aggiunge: «Spero, che stiano uscendo») snida crudamente la realtà.

È una realtà che dovrebbe inquietarci, dunque svegliarci: al momento, i partiti sono incapaci di radicare in Parlamento e in se stessi l´arte del governare. Sanno conquistare il potere, più che esercitarlo con una veduta lunga e soprattutto precisa del mondo. Sono come reclusi in un cerchio. È ingiusto che Monti deprezzi la nobile parola dialettica. Ma i partiti se lo meritano.

Questo significa che l´emergenza democratica in cui viviamo da quando s´è disfatto il vecchio sistema di partiti, nei primi anni ´90, non finisce con Berlusconi: il berlusconismo continua, essendo qualcosa che è in noi, nato da storture mai raddrizzate perché tanti vi stanno comodi. Il berlusconismo irrompe quando la politica invece di ascoltare e incarnare i bisogni della società accudisce i propri affari, spesso bui. La dialettica, che dovrebbe essere ricerca dell´idea meno imprecisa, per forza degenera. È a quel punto che le lobby più potenti, constatando lo svanire di mediatori tra popolo e Stato, si mettono a governare direttamente, accentuando lo sradicamento evocato da Monti.

Questa volta, a differenza di quanto accadde nel ´94, entrano in scena tecnici di grande perizia, e l´Età dei Torbidi con ministri inetti, eversivi, premiati perché asserviti al capo, è superata. Ma non tutto di quell´età è superato, e in particolare non il vizio maggiore: il conflitto d´interessi. Un vizio banalizzato, quando a governare non sono solo accademici e civil servants europei come Monti, ma banchieri che sino al giorno prima hanno protetto non la cosa pubblica bensì i profitti di aziende, banche. È il caso di Corrado Passera, che appena nominato ha lasciato Banca Intesa ma guida dicasteri e deleghe (sviluppo, infrastrutture, trasporti, telecomunicazioni) legati rischiosamente ad attività di ieri. Sarà ardua la neutralità, quando si tratterà di favorire o no i treni degli amici Montezemolo e Della Valle, di favorire o no quell´Alitalia che lui stesso (con i sindacati) volle italiana, nel 2008, assecondando l´insania di Berlusconi e affossando l´accordo di Prodi e Padoa-Schioppa con Air France: l´italianità costò ai contribuenti 3-4 miliardi di euro, e molti disoccupati in più. Passera assicura: «I fatti dimostreranno» che conflitto d´interessi non c´è. Vedremo. Il male che Monti denunciò su La Stampa il 4-5-07 (il «potere occulto delle banche», la «confusione tra politica e affari») e tanto irritò Passera, per ora resta.

Alcuni dicono che la democrazia è sospesa, e qualcosa di vero c´è perché la Repubblica italiana non nacque come Repubblica di ottimati. Ma il grido di sdegno suona falso, e non solo perché la Costituzione non prevede l´elezione di un premier, caduto il quale si torna al voto. È falso perché preserva, occultandolo, uno dei nostri più grandi difetti: l´inattitudine a esplorare i propri storici fallimenti.

Se la democrazia viene affidata ai tecnici e alla loro neutralità ideologica, è perché politica e partiti hanno demandato responsabilità che erano loro, specie in tempi di crisi. Perché non hanno raccontato ai cittadini il mondo che muta, lo Stato nazione che ovunque vanta sovranità finte, l´Europa che sola ci permette di ritrovare sovranità. Perché non dicono che esiste ormai una res publica europea, con sue leggi, e che a essa urge lavorare, dandole un governo federale, un Parlamento più forte, una Banca Centrale vera. Non domani: oggi.

La situazione italiana ha una struttura tragica, che toccò l´acme quando fu scoperchiata Tangentopoli ma che è più antica. Ogni tragedia svela infatti una colpa originaria, per la quale son mancate espiazioni e che quindi tende a riprodursi, sempre più grave: non a caso non è mai un eroe singolo a macchiarsi di colpe ma un lignaggio (gli Atridi, per esempio). La colpa scardina la pòlis, semina flagelli che travolgono legalità e morale pubblica. Alla colpa segue la nemesi: tutta la pòlis la paga.

In Italia la scelleratezza comincia presto, dopo la Liberazione. Da allora siamo impigliati nel cortocircuito colpa-nemesi, senza produrre la catarsi: il momento della purificazione in cui – nelle Supplici di Eschilo – s´alza Pelasgo, capo di Argo, e dice: «Occorre un pensiero profondo che porti salvezza. Come un palombaro devo scendere giù nell´abisso, scrutando il fondo con occhio lucido e sobrio così che questa vicenda non rovini la città e per noi stessi si concluda felicemente». Lo sguardo del palombaro è la rivoluzione della decenza e della responsabilità che tocca ai partiti, e l´avvento di Monti mostra che l´anagrafe non c´entra. Sylos Labini che nel ´94 vide i pericoli non era un ragazzo. Scrive Davide Susanetti, nel suo bel libro sulla tragedia greca, che il tuffo di Pelasgo implica una più netta visione dei diritti della realtà: «Per mutare non bisogna commuoversi, ma spostarsi fuori dall´incantesimo funesto del cerchio» che ci ingabbia (Catastrofi politiche, Carocci 2011).

Monti non è ancora la guarigione, visto che decontaminare spetta ai politici. Per ora, essi vogliono prendere voti come ieri: vendendo illusioni. Ma Monti è un possibile ponte tra nemesi e catarsi. Già il cambiamento di linguaggio conforta: sempre le catarsi cominciano medicando le parole. L´ironia del premier sull´espressione staccare la spina è stata un soffio di aria fresca nel tanfo che respiriamo. Altre parole purtroppo restano. Quando Passera dice che «sì, assolutamente» usciremo dalla crisi, usa il più fallace degli avverbi. Anche la parola blindare andrebbe bandita: nasce dal linguaggio militare tedesco (lo scopo è render l´avversario cieco, blind). Non è una bella dialettica.

Monti è l´occasione, il kairòs che se non cogliamo c´inabissa. Per i partiti, è l´occasione di mutare modi di pensare, rappresentare, in Italia e soprattutto in Europa. Di ricominciare la «lunga corsa» intrapresa dopo il ´45. Di darsi un progetto, non più sostituito dall´Annuncio o l´Evento: quell´Evento, dice Giuseppe De Rita, «che scava la fossa in cui cadrà il giorno dopo».

Non c´è un solo partito che abbia idee sull´Europa da completare. Non ce n´è uno che dica il vero su clima, demografia, pensioni, disuguaglianza, crisi che riorganizza il mondo. Diciamo commissariamento, come se poteri europei fatali ci comandassero. In realtà siamo prede di forze lontane perché l´Europa politica non c´è. Monti denunciò a giugno l´eccessiva deferenza fra Stati dell´Unione. Speriamo non sia troppo deferente con Berlino. Che glielo ricordi: le austerità punitive imposte prima della solidarietà sovranazionale sono come le Riparazioni sfociate dopo il 14-18 nella fine della democrazia di Weimar.

Le patologie italiane permangono, nonostante i molti onest´uomini al governo. Il fatto che il partito più favorevole a Monti, l´Udc, sia invischiato nelle tangenti Enav-Finmeccanica, e si torni a parlare di «tritacarne mediatico», è nefasto. Il pensiero profondo che salva lo si acquisisce solo se si scende giù nell´abisso, scrutando il fondo. Scrutarlo con l´aiuto di un´informazione indipendente aiuterà chi pensa che non basti un Dio, per risollevarci e rimettere nei cardini il mondo.

Poco meno di una decina di anni addietro il manifesto titolò la foto di copertina che presentava un gruppo di immigrati con un «Non ci posso credere!». Il titolo si riferiva alla imprevista dichiarazione dell'on. Gianfranco Fini sull'opportunità di concedere il voto agli immigrati. In effetti non si capiva bene cosa avesse in mente Fini e cosa intendesse proporre. Era da poco stato approvato quel pacchetto di emendamenti al Testo Unico delle leggi sull'immigrazione che va sotto il nome di legge Bossi-Fini e la dichiarazione risultò sorprendente anche e soprattutto perché contrastava con il carattere persecutorio di alcune delle norme presenti in quel testo.

La proposta fu salutata da noi - e da pochi altri - oltre che con sorpresa, anche con scetticismo. E infatti non se ne fece nulla. Diverso è il caso della proposta lanciata ieri dal presidente Napolitano di estendere la cittadinanza italiana ai bambini nati in Italia da famiglie di immigrati. Ciò sia per la figura di chi ha avanzato la richiesta, che per la sua urgenza e per il contesto nel quale cade. Il presidente è persona notoriamente cauta e moderata, gode di autorevolezza e fiducia con pochi precedenti. Inoltre in passato ha operato nell'ambito della politica migratoria in direzione dell'integrazione. Fu sua la legge di un solo articolo che, nel 1996, permise (con l'attivazione di una norma contenuta in un decreto decaduto) a 270 mila immigrati di non perdere la regolarizzazione appena ottenuta. Fu sua, giustappunto, la legge Turco-Napolitano del 1998 che - pur zeppa di norme repressive, a cominciare dall'istituzione dei Cpt (ora Cie, insomma i lager per immigrati) - era piuttosto avanzata sul piano delle politiche sociali.

Il secondo governo Berlusconi, nato dopo la sconfitta del centrosinistra nel 2001, già condizionato dagli orientamenti xenofobi della Lega Nord, non cancellò la legge: si limitò a peggiorarne gli aspetti di controllo e repressivi mentre, per quanto attiene alle politiche sociali, decise semplicemente di garantirne la non applicazione soprattutto non finanziandole. Ma qualcosa tuttavia rimase: penso all'art. 18 sulla protezione delle persone vittime della tratta di esseri umani, all'estensione - sulla base del principio universale del diritto alla salute - del godimento dell'assistenza sanitaria anche per gli immigrati non regolari. E penso ai ricongiungimenti familiari, che hanno permesso l'ingresso in Italia di centinaia di migliaia di bambini e di persone in età fertile.

Questi bambini ora vanno a scuola e, se sono cinesi nati in Toscana nel distretto del cuoio, si chiamano Vanni, Marzia o Chen. Se sono indiani si chiamano Simona come la figlia dei miei amici Metha di Piadena, i quali però hanno anche un figlio che si chiama Hani, dato che la multiculturalità è una cosa complessa. Per questo rimando allo splendido libro con le foto di Giuseppe Morandi (e testi, tra gli altri, di Peter Kammerer e Ivan della Mea). Comunque è certo che questi bambini vanno a scuola e parlano italiano: non anche italiano ma soprattutto italiano. Hanno tutti un forte accento e non un accento straniero, bensì quello del paese dove abitano e sono nati: strettamente partenopeo se nel distretto dell'abbigliamento nell'area vesuviana, romano se nell'area di Piazza Vittorio, dove Flavio, Tse e Tsiao sono tutti all'apparenza cinesi. Si vada a vedere alla scuola elementare Di Donato di via Bixio, per averne un esempio lampante.

Di questo mi pare che abbia preso saggiamente atto il presidente della Repubblica. Ha indicato che, in base alla nuova realtà dell'immigrazione, i processi di integrazione hanno bisogno di un'ulteriore iniziativa istituzionale, insomma che lo stato riconosca la nuova realtà multiculturale dell'Italia.

Qualche razzista del Pdl si è già unito al coro della Lega, lamentandosi del fatto che si passa dalla nostra tradizione di cittadinanza fondata sullo ius sanguinis a un modello fondato sullo ius soli. Ma siamo nel 2011: «diritto di sangue» (che pure ha caratterizzato alcune improvvide iniziative legislative recenti del repubblichino on. Tremaglia) non suona molto bene. Tanto è vero che nei paesi d'Europa più avanzati, che hanno questa stessa nostra eredità, si va verso un suo superamento, sia pure spesso parziale.

Infine, si sente spesso dire che in Italia cinque milioni di cittadini stranieri immigrati sono troppi. Sono assolutamente d'accordo: in molti paesi europei solo una parte di questi cinque milioni di immigrati sarebbero ancora «cittadini stranieri». Gli altri - un quarto o un quinto - sarebbero già cittadini nazionali. Un cauto adeguamento a una più civile situazione europea mi pare il senso dell'iniziativa del presidente Napolitano.

Per quale trauma, forse databile con la povertà delle campagne d´inizio Novecento, in questo Paese quando si parla di agricoltura nella migliore delle ipotesi siamo distratti e nella peggiore infastiditi? Ne è un sintomo il malcelato recalcitrare di chi ogni tanto ha in sorte il ministero delle Politiche agricole e forestali, ma anche il disinteresse che l´intera società civile manifesta nei confronti dell´attuazione delle sue politiche. L´agricoltura parrebbe fuori dall´italico radar. Ma almeno, il nuovo ministro del governo Monti, Mario Catania, è un dirigente del Mipaf da più di trent´anni e sicuramente conoscerà l´importanza del settore, soprattutto la necessità di un rapporto forte con la Commissione Europea. Nell´augurargli buon lavoro dobbiamo tuttavia constatare che, dal 2008, egli è il quarto ministro dell´Agricoltura del nostro Paese, e anche questo la dice lunga sull´attenzione della politica verso la questione agroalimentare.

Nemmeno in questo momento storico, in cui la società civile si mobilita su questioni cruciali come quella dell´acqua pubblica o del consumo di suolo, quella miccia prende fuoco: sull´agricoltura non ci entusiasmiamo. E questo vale ovviamente anche a livello europeo. Per esempio, se si chiede in giro che cosa è la Pac, pochi sapranno rispondere. Pac sta per Politica agricola comune, le normative europee in tema di agricoltura. Non mi sembra una cosa normale non saperne niente. Perché se ci dicessero che non capiamo niente di cibo, ci offenderemmo. Ma come si può avere una cultura del cibo se si ritiene l´agricoltura un argomento poco interessante? Oggi l´esodo dalle campagne ha toccato il suo punto più drammatico, allora perché non riflettere sul fatto che una nuova idea di agricoltura può favorire progetti di vita per tanti giovani chiamati non a fare la vita grama dei vecchi contadini, ma un lavoro moderno, dignitoso e gratificante? Stiamo parlando di migliaia di nuovi posti di lavoro, di sostenibilità, quindi di assoluto bisogno di nuove politiche agricole.

Ora la Pac, che esiste dagli anni ´50, è in fase di revisione: dopo un lungo iter di consultazioni è stata presentata, ad ottobre, la proposta legislativa che dovrà passare attraverso un processo di co-decisione che coinvolge il Parlamento e il Consiglio d´Europa. Questo processo sarà piuttosto lungo prima che la nuova normativa entri in vigore, presumibilmente a inizio 2014, quindi c´è un po´ di tempo per partecipare, cercare i nostri parlamentari, raccogliere firme se necessario, fare dibattiti... insomma le cose normali di quando le cose ci stanno a cuore.

C´è poi un ulteriore motivo per occuparsi della Pac. Tutti i cittadini dell´Unione pagano tasse che vengono destinate ai vari settori di attività: dall´agricoltura all´educazione, alla salute. Ora, rispetto al budget totale a disposizione della Ue, circa il 40% viene destinato alle politiche agricole. Ma la domanda è: a quale agricoltura vanno questi soldi? Prevalentemente all´agricoltura di quantità, quella dell´agrobusiness, dei grandi mercati internazionali, delle monocolture, della grande distribuzione organizzata, delle grandi aziende di capitale. Con qualche lieve miglioramento rispetto al passato, anche la proposta presentata a ottobre sembra andare in questa direzione. Grosso modo l´80% del budget sarebbe ancora destinato a questo tipo di agricoltura e solo il 20% andrebbe alle produzioni sostenibili e di piccola scala.

Noi di cosa abbiamo realmente bisogno? Proviamo a fare un elenco, che vale per l´Italia come per il resto d´Europa (oltre che del mondo, ma il mondo non ha ancora un organismo di governo planetario, a meno che non si voglia ritenere che il Wto e la Banca Mondiale svolgano questa funzione): 1) abbiamo bisogno di garantire la fertilità dei suoli; 2) abbiamo bisogno di incentivare l´agricoltura nelle zone a rischio idrogeologico perché le attività forestali e agricole prevengono il degrado del territorio, mantenendo le comunità nelle loro sedi naturali a prendresi cura dei paesaggi; 3) abbiamo bisogno di ridurre le emissioni di CO2, in larga percentuale addebitabili agli allevamenti intensivi, al trasporto di generi alimentari per le grandi distribuzioni, agli sprechi energetici che il sistema alimentare globale impone; 4) abbiamo bisogno di ridurre gli sprechi, perché un terzo del cibo prodotto finisce direttamente nella spazzatura e questo è innanzitutto immorale, secondariamente stupido; 5) abbiamo bisogno di proteggere le risorse come gli oceani, le acque interne e l´aria da un processo di inquinamento chimico che non può più essere tollerato; 6) abbiamo bisogno di invertire la tendenza delle malattie "da benessere" come l´obesità, il diabete, i disordini cardiocircolatori, i tumori, causate in buona parte dall´inquinamento, dall´alimentazione di cattiva qualità, dalla presenza di chimica legalizzata nel nostro cibo quotidiano; 7) abbiamo bisogno di mitigare i cambiamenti climatici; 8) abbiamo bisogno di proteggere le culture locali, che hanno in sé molte informazioni utili in questi tempi di crisi ambientale, sociale ed economica; 9) abbiamo bisogno di proteggere le economie locali, e i mercati di prossimità, che possono rivitalizzare le nostre aree rurali e farle tornare ad essere luoghi di benessere, di produzione di reddito, di occupazione giovanile; 10) abbiamo bisogno di mantenere alte le bandiere del turismo, che non si nutre solo di visite alle città d´arte ma soprattutto di paesaggi agrari e di territori accoglienti.

E chi fa tutto questo, tutti i giorni, senza ricevere nessun compenso? L´agricoltura di qualità, che ha come obiettivo primario il cibo per le persone e non le merci per i mercati e che, nella stragrande maggioranza dei casi, è un´agricoltura di piccola scala. Ecco, noi vorremmo che la nuova Pac destinasse molto di più a questo tipo di agricoltura, e non soltanto il 20%. Se iniziamo a insistere in ogni occasione possibile, su questi argomenti, qualche passo importante si può ancora fare.

Non è solo una questione di bisogni: è anche una questione di diritti. Provate a trasformare l´elenco di prima in un elenco di diritti, vedrete che si fa in fretta. E il diritto principale, che li racchiude tutti, si chiama "sovranità alimentare". Ecco di cosa si stanno dimenticando, a Bruxelles: che abbiamo diritto a un cibo «salubre, culturalmente appropriato, prodotto attraverso metodi sostenibili ed ecologici». E questo, l´agricoltura orientata all´industria, semplicemente, non lo può fare.

Il fenomeno è globale, è noto come «land grab», accaparramento di terre: si dice così quando ricchi investitori si assicurano concessioni o contratti d'affitto pluridecennali su grandi estensioni di terra coltivabile in paesi «in via di sviluppo». Da un lato multinazionali dell'agrobusiness di paesi ricchi (Europa e Stati uniti o anche paesi del Golfo, o Corea del sud), dall'altro governi di paesi rurali e poveri come Etiopia, Madagascar - ovunque ci sia spazio, povertà, e governi disponibili.

Ora però la geografia del land grab riserva qualche sorpresa. Di recente infatti nel grande business internazionale della terra arabile si sono buttati anche paesi come la Cina e l'India - perfino il Bangladesh. Del caso indiano parla in modo approfondito uno studio ripreso da Grain, rete internazionale di ricerca sull'agricoltura (Rick Rowden, India's role in the new global farmland grab, 2011). Conta ben 80 aziende indiane che hanno già investito 2,4 miliardi di dollari nell'acquisto o leasing di piantagioni nella sola Africa orientale - Etiopia, Kenya, Madagascar, Mozambico - e Senegal (altre compagnie indiane guardano al sud America e in almeno un caso al sud-est asiatico).

Uno dei contratti più importanti descritti nello studio di Grain riguarda l'Etiopia, paese diventato una sorta di esempio negativo di come un governo può svendere d'autorità grandi parti del suo territorio nazionale ignorando i suoi stessi cittadini. Si tratta dell'acquisizione di circa 300mila ettari di terra arabile nella regione di Gambela da parte dell'azienda indiana Karuturi Global Ltd. Il governo etiope sostiene che si trattava di terre marginali e/o non sfruttate, che ora saranno messe "a frutto" e rese produttive. Ma questa versione è contestata da diversi osservatori locali: non ci sono terre "inutilizzate", ci sono coltivatori con mezzi artigianali e pastori nomadi - e quando le terre date in concessione a grandi aziende viene recintata, loro perdono l'accesso ai pascoli e all'acqua. Altri fanno notare che le nuove pratiche agricole sono efficenti perché sono meccanizzate, fanno grande uso di fertilizzanti e agrochimici (che poi inquineranno le falde idriche) e soprattutto usano parecchia acqua - che tolgono ai piccoli coltivatori locali.

Secondo il contratto firmato con il governo etiopico, leggiamo, Karuturi prende in concessione i primi 100mila ettari per 50 anni all'equivalente di 60 dollari per ettaro, e pagherà un "affitto" annuale di 1,18 dollari per ettaro. Con questo acquisisce il «diritto» a disporre di quella terra, a scavare pozzi, costruire dighe se lo ritiene necessario - l'acqua è inclusa nel prezzo, e non è fissato alcun limite alla quantità che può attingere. Sarà esente da tasse e dogane ogni bene che l'azienda importerà (macchinari, ecc.) e che esporterà (derrate agricole) e anche il rimpatrio dei capitali.

Il contratto non fa menzione alcuna a norme di protezione del lavoro, salari e trattamento dei lavoratori agricoli, né impone di destinare una qualche quota delle derrate prodotte al mercato interno. Una economista indiana osserva, con orrore, che secondo il contratto firmato con Karaturi il governo etiopico si impegna a consegnare la terra pattuita «libera da impedimenti»: ovvero sfratterà gli abitanti locali, se saranno di ostacolo al progetto, se necessario con la forza (Jayati Ghosh, su Frontline, 10-23 settembre 2011). Così, fa notare l'economista, aziende indiane vanno a fare in un paese terzo proprio ciò che in India stessa ormai provoca tante polemiche, resistenze, proteste ogni volta che popolazioni rurali sono costrette a sfollare per fare spazio a progetti agro-industiali. Ironie della storia - o delle geografie globalizzate.

Si è fermato il sogno americano

di Federico Rampini

Addio sogno di rifarsi una vita lasciando il gelo del Nord per approdare qui sulla West Coast. Basta con l’illusione che tutto sia possibile giù nella Sun Belt ("Cintura del Sole"), nell’Arizona o nel Nevada dalle mille opportunità. Gli americani hanno smesso di migrare, nel loro stesso paese. La mitica mobilità interna di questo popolo è crollata. «Siamo una nazione congelata», è la definizione che coniano gli esperti, sulla base degli ultimi dati del censimento. Eccoli qua, quei dati rielaborati dai ricercatori del Carsey Institute, per i tre Stati più tipici. Arizona, Florida, Nevada: per decenni furono le destinazioni di tanti americani decisi a "ripartire": nuovo lavoro, nuova casa, nuovi progetti.

Ebbene, l’Arizona che prima della crisi aveva un afflusso medio di centomila immigrati "domestici" (cioè americani) ogni anno, ora ne accoglie meno di cinquemila. La Florida è passata da oltre duecentomila arrivi annui, ad un saldo netto negativo: meno trentamila residenti. Il Nevada vedeva entrare in media cinquantamila nuovi abitanti all’anno, ora non arriva più nessuno.

Ci sono delle micro-eccezioni, come la Silicon Valley qui attorno a San Francisco, beneficiata dai buoni risultati di Apple, Google, Facebook, nonché dal recente boom di una nuova generazione di start-up legate a Internet, alle tecnologie verdi, alla biogenetica. Qui vicino, a Mountain View o a Cupertino, continuano ad arrivare giovani superlaureati in ingegneria, matematica, medicina. Ma sono piccoli numeri in un’oasi, forse anche una "bolla". La California nel suo insieme, invece, ha smesso di guadagnare popolazione da tempo. In parallelo, gli Stati del Nord-Est da dove si partiva in cerca di un futuro migliore, hanno visto crollare del 90% le loro uscite.

È la fine di un mito americano: le migrazioni interne hanno raggiunto il minimo storico da quando le autorità federali iniziarono a misurarle, cioè dalla seconda guerra mondiale. È uno degli effetti sconvolgenti della Grande Contrazione, la crisi eccezionalmente prolungata in cui ci troviamo dal 2008. Fino a quell’anno, l’America poteva vantare una superiorità su tutte le nazioni europee: la mobilità. Geografica e sociale. Perché le due cose sono strettamente connesse. Bisogna ricordarsi (o immaginarsi) un mondo in cui è facile "chiudere bottega" lì dove non hai avuto il successo sperato, vendere la casa con tutti i mobili, partire a qualche migliaio di chilometri e trapiantarti in un altro angolo del paese dove l’economia tira, ricominciare da zero: questa era l’America fino al 2007, l’ultimo anno prima del disastro. Era un mondo davvero diverso dall’Europa, grazie a tanti ingredienti.

Ricordiamoli. La flessibilità sul mercato del lavoro, dove non esiste differenza tra "precari e non": facile essere licenziati, facile ritrovare un posto. La fluidità del mercato immobiliare, dove si comprava e vendeva casa come si fa con l’automobile. Ovviamente, anche il fatto che gli Stati Uniti sono davvero "uniti": stessa lingua, stesse leggi (più o meno), pochissime barriere per inserirsi. Tutto questo era valido fino all’anno di grazia 2007. E faceva un oceano di differenza tra l’America e l’Europa: il Vecchio continente era per antonomasia il luogo di tutte le rigidità, i localismi, le barriere.

Ora quell’idea dell’America è stata spazzata via, sotto la pressione delle due principali manifestazioni della crisi. Da un lato si è paralizzato il mercato immobiliare: con cadute fino al 40% nel valore delle case, vendere significa impoverirsi, veder sfumare un bel pezzo dei propri risparmi. «Se nessuno può permettersi di vendere o comprare casa – osserva il demografo William Frey della Brookings Institution – la stagnazione è inevitabile». D’altro lato, ed è ancora più grave, c’è una disoccupazione stabilmente elevata, a livelli europei: è il 9% della forza lavoro in media negli Stati Uniti, se si contano solo i disoccupati ufficiali, ma sale fino al 15% effettivo se si includono gli "scoraggiati" che hanno smesso di cercare e quindi non figurano nelle statistiche, oppure hanno accettato lavori part-time insufficienti per mantenersi. Ancora più nuovo, rispetto alla tradizione americana, è il dato della disoccupazione giovanile salita ben oltre il 20%: un altro sintomo di "europeizzazione".

Questo ha effetti deprimenti sulla mobilità geografica, perché tipicamente i giovani erano i più disponibili a traversare l’America in cerca di una terra promessa, un Eldorado economico dove realizzare i propri sogni. Oggi, al contrario, fanno qualcosa di impensabile: restano, o tornano, in casa dei genitori. È il fenomeno dei "bamboccioni in America", recentissimo e sconvolgente. Sabato scorso il New York Times lo ha sbattuto in prima pagina, tanto è clamoroso – e traumatizzante – in una società dove l’addio dei giovani al focolaio dei genitori era un rito d’iniziazione molto precoce. Fino al 2007, in media ogni anno si formavano 1,3 milioni di nuovi nuclei familiari: giovani single, o giovani coppie che andavano ad abitare "altrove", quindi diventavano autonomi. L’anno scorso questo numero è sceso a 950.000, con una perdita netta del 30%. Ben 350.000 giovani americani hanno dovuto rinunciare all’indipendenza, e rassegnarsi a rimanere in casa dei genitori. Qui non li chiamano "bamboccioni", bensì "generazione boomerang": avevano lasciato casa per andare al college, ora tornano indietro.

E per forza: nella fascia di età fra i 25 e i 34 anni solo il 74% ha un lavoro, un altro minimo storico. Il 14,2% dei giovani adulti è costretto a vivere in casa di mamma e papà, un fenomeno mai visto prima in America (ed è ancora più elevato tra i maschi: il 19%). Questo crea a sua volta una spirale perversa. Quando l’economia tirava, e i giovani uscivano di casa presto, per ogni nuovo nucleo familiare che si formava l’economia guadagnava 145.000 dollari: tutte le spese legate all’acquisto dei mobili ed elettrodomestici per la casa, l’automobile, ecc. Ora che quei giovani restano in casa dei genitori, la loro spesa è minima e contribuisce alla depressione dei consumi.

La fine della mobilità americana ci colpisce anzitutto per la sua dimensione geografica: abbiamo sempre associato questo paese a una grande libertà di movimento, spostamenti continui da una costa all’altra, dal Sud al Nord (nella prima industrializzazione) o viceversa (dagli anni Settanta in poi). Ma l’aspetto geografico ha il suo corollario sociale. Gli americani si "spostano" meno anche sulla piramide dei ceti e dei redditi. La mobilità da uno Stato Usa all’altro coincideva con una forte ascesa nella scala sociale: i figli degli immigrati più poveri arrivati dal Messico, avevano una fondata speranza di guadagnare molto più dei genitori. Ora anche questa mobilità si è fortemente ridotta. Il che dà ragione al movimento di Occupy Wall Street, ovvero del "99%".

Per la prima volta nella storia, l’America di oggi comincia ad assomigliare alle società europee sclerotizzate, oligarchiche. Lo conferma una fonte autorevole e indipendente, il bipartisan Congressional Budget Office: il famigerato "un per cento" della popolazione americana ha visto i suoi redditi aumentare del 275% negli ultimi trent’anni. Il fenomeno della dilatazione nelle diseguaglianze sociali quindi è più antico dell’ultima crisi, in una certa misura ne è la causa. Ma con esso si è progressivamente svuotato il contratto sociale che era all’origine di questa nazione. L’idea che puoi sempre ripartire, perché c’è sempre un "altrove migliore" che ti aspetta, in questa crisi sta diventando un’illusione.

Quella lunga corsa a Ovest di un Paese fatto di speranza

di Vittorio Zucconi

La sua traduzione pratica e industriale era stata non soltanto l’automobile e, ancor di più, il "pick-up", il camioncino che fino dagli anni della Grande Depressione e della siccità aveva trasformato stati come l’Oklahoma in immense conche di polvere. Su di esso, famiglie intere ritratte dai grandi fotografi e raccontate dai narratori della disperazione come Steinbeck, aveva caricato le miserabili masserizie e i rottami del proprio fallimento, per andare verso l’Oceano Pacifico e la frontiera dell’ultima speranza, oltre la quale c’erano soltanto migliaia di chilometri di acqua.

Quando, negli Anni ‘50 e sotto il pungolo della Guerra Fredda e del timore di un’invasione, il generale presidente Dwight Eisenhower aveva lanciato la costruzione delle autostrade interstatali, secondo i criteri strategici delle strade consolari romane, il continente si era trasformato in un piano inclinato sul quale tutto ciò che non fosse saldamente inchiodato o radicato ruzzolava verso Ovest.

Furono inventati i "caravan", furgoni per passeggeri e persone, eredi dei carri coperti che il signor Studebaker aveva costruito per i Pionieri del XIX secolo e i magnifici Winnebago di alluminio lucido come gli aerei, roulotte leggere da agganciare alle Chevy, alle Ford, alle Chrysler per trascinare vite oltre le Montagne Rocciose.

Fino agli Anni ‘80 e ai primi Anni ‘90, in coincidenza con la vittoria - forse pirrica - sul nemico "rosso", le statistiche dicevano che un americano medio cambiava 20 lavori, non soltanto "posti", ma proprio attività, e 25 indirizzi nella propria vita, a cominciare dai 17 anni quando figli e figlie dovevano lasciare il nido materno, i più fortunati per il "college", gli altri per un lavoro e dunque un proprio indirizzo. Potevano piangere agitando i fazzoletti, i genitori, ma erano loro per prima a sapere che quello di andarsene, di volare via, di rispondere al "destino manifesto" di muoversi e conquistarsi spazi e territori propri, era la condizione dell’essere americani.

Il vero carburante, ancora più della benzina a poco prezzo che alimentava la migrazione perenne dei "tumbleweed", dei cespugli rotolanti, era lo stesso che aveva mosso i padri, i nonni, i bisnonni generazioni prima: la speranza. Meglio, la certezza che oltre il profilo delle colline e delle montagna, prima dei bassi e facili Appalachi poi le durissime Rocciose seguite da deserti micidiali dove morivano pionieri a migliaia, c’era il futuro migliore al quale tutti aspiravano. Era stata una continua corsa all’oro, anche quando l’oro non c’era più, e al suo posto sorgevano gli stabilimenti aereospaziali, i fertilissimi campi della California, i giacimenti e le miniere che costruirono città come Denver. E non importava - perché quello era il diritto storico, il lascito del destino - se nel rotolare da Est a Ovest la migrazione che portò un’Italia intera dall’Atlantico al Pacifico nel dopoguerra, 60 milioni, e che prima aveva guidato i pionieri scortati dalle giubbe blu, avrebbe travolto i popoli che già abitavano quelle terre, niente affatto vuote.

Se oggi la lava si sta raffreddando è perché la speranza, la certezza del futuro migliore alla fine dei grandi cieli sono diventate merce più rara, mentre è cresciuta, con il prezzo della benzina, la paura di perdere quello che si ha, più che la libidine di conquistare quello che non si ha. Tornano sempre più al nido dei genitori i non più giovanissimi, i trentenni e qualcosa, che dopo il college, o il primo matrimonio fallito o i licenziamenti multipli divengono la "boomerang generation", la generazione che va e poi ritorna.

Soltanto un americano su tre pensa che i propri figli staranno meglio di loro e persino la California, la Terra Promessa che già nel 1849 spinse i disperati a morire nella Valle del Morte in Nevada pur di raggiungerla, è in crisi demografica, oltre che finanziaria. Se un flusso umano continua è quello che viene da Sud, dall’oltre "Frontera" quella del Messico.

Si vedono ancora, sulla autostrade, i "caravan", i pick-up, le mega roulotte e le case mobili che portano sulle rastrelliere le biciclette dei bambini o l’auto di famiglia, con il papà al volante della motrice, la mamma al fianco e i marmocchi sballottati dietro, ma sono quasi sempre i lavorati migranti, i carpentieri, gli elettrici, gli idraulici, i muratori che seguono come procellarie il corso degli uragani e dei tornado per andare dove c’è da ricostruire e da guadagnare per qualche settimana o mese. Il grido del «Go West young man», va a Ovest giovanotto è sempre più lo stai fermo dove sei, aggrappato a quello che oggi hai. Domani non è più necessariamente il primo giorno del resto della tua vita, come voleva il proverbio ottimista, ma potrebbe essere l’ultimo della vita che ora hai.

postilla

Richard Florida ieri, a proposito dei medesimi dati censuari commentati da Rampini e Zucconi, scriveva sull'Atlantic che "La proprietà della casa, un tempo segno di ricchezza, in molti casi è oggi un ostacolo. Si discute fra economisti su quanto esattamente essere bloccati da un immobile che non si riesce a vendere impedisca di cogliere nuove occasioni di vita e lavoro: i dati indicano che l'ostacolo è notevole".

Florida coglie forse di più, oltre le immagini se mi si consente un pochino retoriche dei nostri inviati speciali, un aspetto della faccenda che dovrebbe stare a cuore di chi si occupa di territorio, sviluppo, ambiente. Perché il portato di questa storica mobilità, legata a quadruplo nodo alla crescita economica, si chiama suburban sprawl, consumo di suolo, spreco energetico. Quello che tramonta non è tanto un sogno più o meno americano, o un mito della frontiera, quanto l'idea di un mondo vacca da mungere senza criterio.

Naturalmente ci sono tanti altri aspetti della questione, come quello dello stravolgimento sociale degli spazi della dispersione, di cui ho provato a trattare qualche giorno fa in un pezzo su Mall, ma avremo modo di tornarci in seguito (f.b.)

Si continua a definirlo "tecnico" eppure questo guidato dal senatore Mario Monti è un governo a tutto tondo politico; molto più del governo Berlusconi che lo ha preceduto. Politico nel senso più pregnante del termine: perché ha riportato le questioni che interessano il nostro destino – nostro come società e come Paese – al primo posto, come dovrebbe essere (ed è sperabile che ciò restituisca all´Italia una forza di negoziazione con i partner europei che aveva perso e di cui ha bisogno).

Per anni ci eravamo dimenticati che il governo deve occuparsi delle cose che riguardano la nostra vita, non la vita di chi governa. Per anni abbiamo assistito impotenti a uno spettacolo preconfezionato a Palazzo Grazioli su come Palazzo Chigi doveva operare e per chi: per tre anni le questioni di sesso e di corruttela hanno inondato le nostre giornate, quelle degli interessi del premier tenuto l´agenda politica del Parlamento. E lo si chiamava governo politico. Di politico aveva due cose: era stato l´espressione diretta della maggioranza dei consensi usciti dalle urne e l´esito di un accordo tra alcuni partiti politici. Ma questo non è sufficiente a fare di un governo un governo politico. Questo è il preambolo, la condizione determinante ma non sufficiente.

Il governo Berlusconi, nato politico, si è astenuto dal governare per noi e quando lo ha fatto ha generato problemi invece di risolverli. Per esempio, le norme sulla criminalizzazione dell´emigrazione hanno gettato petrolio sulle fobie razziste senza risolvere i problemi legati al controllo degli ingressi e all´integrazione degli immigrati; per esempio, gli interventi sulla scuola pubblica sono stati proditoriamente fatti per umiliarla e depauperarla avvantaggiando con i soldi dei contribuenti le scuole private. Questi sono i pochi esempi di agire politico del precedente governo, e sono entrambi esempi di cattiva politica, funzionale alle esigenze propagandistiche della coalizione, ovvero nel primo caso per imbonire i fedeli leghisti e nel secondo per tenere l´appoggio delle gerarchie vaticane. Queste scelte "politiche" sono state fatte all´interno di un´agenda di governo che non aveva alcun interesse a fare i nostri interessi. Il governo Berlusconi ha negato l´esistenza della crisi economica e finanziaria per anni, proprio dai primi mesi del suo insediamento, quando ironizzava sullo stato dell´economica degli altri partner europei per mandare agli italiani il messaggio voluto: il suo era il migliore dei governi possibili. Un´agenda politica senza politica.

Il governo del Presidente, com´è stato chiamato questo esecutivo guidato dal professor Monti, non è fatto di politici eletti, e quindi non è politico-partitico. Ma è fatto di cittadini italiani con competenze professionali specifiche. Non è inutile ricordare che chi è cittadino di un Paese democratico è naturalmente politico, perché non può che interessarsi delle questioni che riguardano la vita della società. Non solo chi milita in un partito è politico; e inoltre gli stessi partiti si organizzano grazie a cittadini che sono non politici di professione. La democrazia non ha politici di professione, anche se ha bisogno di stipendiare chi nella divisione del lavoro sociale si occupa degli affari pubblici. Nessuno ha la patente di "politicità" in democrazia, e nessuno può accaparrare per sé la politica e dire che è lui a sapere che cosa sia e come la si faccia (questo è proprio di una mentalità patrimonialistica). Il governo Monti è politicissimo, dunque. E lo è in primo luogo perché ha ricevuto il sostegno del Parlamento che lo ha reso a tutti gli effetti politico. Ma lo è per una ragione ancora più sostanziale, e davvero forte: perché i temi all´ordine del giorno nella sua agenda sono squisitamente politici, solo politici. L´interesse personale è uscito da Palazzo Chigi, che ha ospitato il governo meno politico che l´Italia repubblicana abbia conosciuto, anche se forte dell´alleanza di ferro e famelica tra partiti. Che sia stato incapace di affrontare i problemi politici del Paese è un´ulteriore dimostrazione del fatto che era incapace di essere politico. Dei governi come quello guidato dal professor Monti c´è bisogno perché quelli politico-partitici falliscono.

Il governo Monti è un governo politico, e va giudicato per le scelte politiche che farà. Giudicato per come vuole risolvere i problemi che riguardano la nostra economia, dalle pensioni, alla disoccupazione, al lavoro senza diritti e precario, alla lotta all´evasione fiscale (che è il problema più grave del nostro Paese). Questi obiettivi, che sono per opinione quasi unanime, urgenti e necessari, saranno giudicati per il modo e le strategie con cui il governo proporrà di realizzarli. E i ministri saranno chiamati non solo a rendere conto del loro operato. Nato come non-politico-partitico, questo governo non potrà che essere politico. Per un´altra ragione ancora. Poiché la politica che lo ispira non è per nulla neutrale o tecnica, ma pronunciata moderata, non indifferentista ma con un´evidente simpatia cattolica. Si tratta di qualità o caratteristiche politiche che andranno giudicate dal punto di vista degli interessi generali di tutti gli italiani, non di una parte soltanto, anche se maggioritaria.

In un´intervista di qualche mese fa la ministra, professoressa Elsa Fornero diceva due cose importanti. La prima: se lei fosse nata negli Stati Uniti non avrebbe avuto la possibilità di accedere a un´eccellente formazione universitaria. Leggo questa osservazione importante così: senza una buona scuola pubblica, la selezione dei competenti sarebbe in effetti una selezione di classe. È importante che nel governo ci siano ministri che riconoscono il valore della scuola pubblica. Una prospettiva che il governo che ha appena chiuso i battenti non ha mai avuto. Ridare vigore alla scuola è un obiettivo politico primario per la nostra società, lo è per ragioni economiche e politiche, poiché una democrazia di ignoranti è pericolosa. La seconda osservazione che faceva la ministra Fornero era che lei cestinava gli inviti ai convegni nei quali gli speaker erano solo uomini. L´osservazione è coerente a quella precedente. E riguarda l´eguale dignità: è umiliante dover sempre ricordare a chi tiene i fili delle carriere (che sono in maggioranza maschi) che ci sono donne competenti. I criteri delle eguali opportunità di formazione e del giusto riconoscimento dovrebbero essere la stella polare a guidare le scelte di ogni governo politico. Ed è su queste scelte e in base a questi criteri che l´operato di questo governo dovrebbe essere giudicato da chi in Parlamento decide e controlla, a nome di tutti noi.

Caro direttore, per incassare 6 miliardi, circa l'8% di quanto paghiamo di interessi sul debito pubblico ogni anno, pare andranno in vendita 338.000 ettari di terreni agricoli che oggi sono proprietà pubblica. Se non si farà attenzione, le conseguenze di una tale scelta, che in Africa è nota comeland grab(appropriazione di terra) operata da grandi gruppi multinazionali, potrebbero essere serie, e portarci verso la dipendenza alimentare dall'agrobusiness. Potrebbero derivarne danni sociali ingenti subitiin primisdai nostri piccoli agricoltori che non potendo competere con quei colossi nell'acquistare, finirebbero per vendere anche i loro appezzamenti (come già avvenne quando i latifondisti comprarono le proprietà comuni messe in vendita da Quintino Sella).

La scelta di vendere è definitiva e ci riguarda tutti, presenti e futuri. Andrebbe fatta con grande cautela soprattutto quando ci si trova sotto pressione internazionale. Il processo di elaborazione teorica e pratica della categoria giuridico-costituzionale dei beni comuni discende da questa considerazione. Il cambiamento dei rapporti di forza fra settore privato azionario e settore pubblico a favore del primo rende i governi così deboli da non poter operare nell'interesse del popolo sovrano. La necessità urgente di forte tutela giuridica dei beni comuni come proprietà di tutti che i governi devono amministrare fiduciariamente nasce da questo squilibrio di potere prodotto dalla globalizzazione.

Lo Stato italiano è proprietario, direttamente o tramite enti pubblici, di ingenti beni che fanno gola a molti. Gran parte di questi, che forniscono utilità indispensabili per garantire la sovranità dello Stato o la sua capacità di offrire servizi pubblici, non possono essere trattati come fossero proprietà privata del governo in carica. Alcuni dei beni dello Stato sono costituiti da edifici, acquedotti e terreni agricoli che soccorrono direttamente bisogni fondamentali della persona come coprirsi, bere o nutrirsi. Altri sono infrastrutture, come strade, autostrade, aeroporti, e porti che richiedono un assiduo investimento in manutenzione. Altri sono beni che i giuristi classificano come immateriali come le frequenze radiotelevisive, glislotaeronautici (per esempio la tratta aerea Milano-Roma), i brevetti ottenuti con la ricerca pubblica, le partecipazioni pubbliche nell'industria produttrice di beni o servizi.

Ancora, importanti beni servono allo Stato per erogare i suoi servizi alla collettività: scuole, ospedali, caserme, università, cimiteri, discariche, ambasciate. Ci sono poi i beni culturali: statue, monumenti, dipinti, reperti archeologici, lasciti del passato che dobbiamo trasmettere ai nostri successori. Per farlo occorre mantenerli accessibili a tutti godendone in comune, al di fuori dal modello del «divieto di accesso» che è tipico della proprietà (sia essa pubblica o privata). Beni comuni, governati dalla stessa logica di accesso sono poi i parchi, le foreste, i ghiacciai, le spiagge, il mare territoriale, l'aria da respirare o l'acqua da bere, a loro volta beni di grande valore collettivo il cui ingente valore d'uso non è tradizionalmente patrimonializzato.

Sebbene dotato di un patrimonio ingentissimo (fra cui ingenti riserve auree), il nostro settore pubblico è impoverito. I Comuni sono sul lastrico; gli edifici pubblici cadono spesso a pezzi e il territorio non riceve manutenzione. L'Italia è come un nobile decaduto che non sa gestire le sue ingenti proprietà, viene truffato dal maggiordomo e continua a indebitarsi per poter mantenere il proprio dispendioso stile di vita. Proprio come la nobiltà francese finì per svendere i propri palazzi, anche l'Italia, oberata dai debiti, sta vendendo (spesso svendendo) il suo patrimonio pubblico per «far cassa» e tirare avanti. Eppure se il patrimonio pubblico rimasto fosse amministrato davvero nell'interesse comune si potrebbero ottenere parecchi quattrini: molte concessioni (acque sorgive, autostrade, stabilimenti balneari, frequenze radiotelevisive, cave) sono rilasciate molto al di sotto del valore di mercato. La Gran Bretagna dando in affitto il suo etere ottiene circa 5 miliardi di sterline l'anno (grosso modo quanto si incasserebbe vendendo una tantum i terreni agricoli) contro i poco più di 50 milioni di euro che ottiene l'Italia.

Una buona amministrazione del patrimonio pubblico richiede sopratutto ordine, chiarezza nelle regole del gioco e democrazia nel decidere sulle cose di tutti. Le regole attualmente vigenti sono obsolete, oscure e quindi agevolmente eludibili. È importante farne di nuove e dotarle di innovativi strumenti applicativi. Una legge delega sulla riforma di beni pubblici predisposta dalla Commissione Rodotà contenente chiarezza su quali beni siano comuni e come vadano amministrati non è mai stata neppure discussa. Proprio nei momenti di maggior crisi sarebbe bene che alla logica della svendita subentrasse quella del buon padre di famiglia.

Postilla

Il rischio espresso da Mattei è così grave, devastante e imminente che nessun governo composto di persone intelligenti potrebbe ignorarlo. Se, almeno, non fosse inquinato. E purtroppo l'inquinamento del governo Monti risiede proprio in alcuni settori (l'ambiente, lo sviluppo, le infrastrutture) più delicati ai fini della minaccia che grava: sul consumo di energia, sulla sopravvivenza fisica degli umani, sull'asservimento dell esigenze locali alla sovranità del mercato globale sulle esigenze locali e su quello della democrazia e della politica alla sovranità dell'economia data. Un appello, quindi, al quale è necessario che molti aderiscano..

Damietta

Domenica 13 novembre, a Damietta, una città egiziana sul bordo orientale del delta del Nilo, a una cinquantina di chilometri dall’imbocco del canale di Suez, i violenti scontri tra polizia e gruppi di cittadini che reclamavano la chiusura di una fabbrica altamente inquinante hanno provocato almeno 1 morto e una dozzina di feriti tra i manifestanti.

La fabbrica contestata si trova all’interno della locale Free Zone, uno dei 9 recinti egiziani finalizzati alla produzione di merci da esportazione, dove, per attrarre gli investitori stranieri, si offrono condizioni competitive quali “esenzione fiscale, assenza di diritti per i lavoratori e deroghe dalle norme ambientali”. Create a partire dai primi anni ’70, le 9 free zones occupano nel complesso più 10 milioni di metri quadrati e al loro interno sono impiegati circa 200.000 lavoratori.

Fin dal 2005, la presenza della fabbrica di fertilizzanti Agrium, di proprietà di un gruppo canadese, ha suscitato le proteste della popolazione. Proteste che sono riesplose nel 2008, dopo il rifiuto del governo di tener conto delle raccomandazioni contenute in un rapporto di tecnici che ne documentava l’impatto devastante sulla salute umana, nonché sull’economia locale. La fabbrica, infatti, immette scarichi nocivi nel fiume e nel Mediterraneo, con danni alla pesca e al turismo, e sottrae ingenti quantità d’acqua agli usi agricoli. Il governo, non solo non ha imposto la sospensione delle attività inquinanti, ma, dopo la fusione di Agrium con la Mopco (Mirs Oil Production Company) ha autorizzato l’espansione del complesso produttivo, limitandosi a promettere che «non avrebbe risparmiato sforzi per obbligare la compagnia a rispettare gli standard ambientali».

Ora, per placare la popolazione, le autorità hanno ordinato la temporanea chiusura dell’impianto «per verificarne la eventuale pericolosità». In assenza di garanzie, le proteste continuano ed i cittadini di Damietta hanno bloccato gli accessi al porto e alla free zone.

Vedi l'articolo Violence in Egypt for Environmental Justice sul sito Gulf Oil and Gas

Rocinha

Nella notte tra il 12 e il 13 novembre, 3000 uomini della polizia e dell’esercito brasiliano, appoggiati da 18 mezzi blindati in dotazione della marina e da 7 elicotteri da combattimento, sono entrati a, una favela nel cuore di Rio de Janeiro per liberarla dai narcos e dai criminali. Il megablitz, denominato “Choc di pace”, si è concluso con successo e la favela è stata «riconsegnata agli abitanti». Alcuni intervistati dopo la “liberazione” hanno detto di sperare che ora le autorità porteranno miglioramenti per quanto riguarda la raccolta dei rifiuti, le fognature, l’erogazione di acqua ed elettricità. Per il momento, l’unica misura certa è che, per garantire l’ordine, vi sarà installata la diciannovesima unità di “polizia pacificatrice”. Contemporaneamente, l’esercito è entrato anche nella vicina favela di Videgal.

Il comandante delle forze di élite che hanno condotto l'operazione ha spiegato che la Rocinha è uno dei più importanti punti strategici per la polizia per controllare Rio e che “la pacificazione della zona significa che le autorità hanno chiuso la morsa della sicurezza intorno alle aree che ospiteranno i mondiali di calcio del 2014 e le Olimpiadi del 2016”.

Rocinha, spesso etichettata come la più grande baraccopoli dell’America latina, non è un insediamento precario. Per la sua dimensione demografica, oltre 150.000 persone, e soprattutto per la sua struttura fisica - edifici di 3 o 4 piani, negozi, 3 scuole, 3 asili, banche e farmacie - potrebbe essere definita una vera e propria città. Ma della città non ha né le infrastrutture né l’organizzazione, perché la sua esistenza non è mai stata riconosciuta ed il suo governo è stato coscientemente lasciato in mano alla criminalità organizzata.

Rocinha sorge sul fianco di una collina distante non più di un chilometro dalla spiaggia, e Videgal confina con Iparema. La loro contiguità con i quartieri più pregiati significa che la terra su cui sorgono questi recinti varrebbe/varrà moltissimo una volta liberata dai poveri.

Vedi gli articoli Rio to Pacify more Favelas ahead of World Cup su Google; e Maxi operazione di esercito e polizia per riprendere il controllo delle favelas a Rio, dal Sole 24 Ore (servizio fotografico)

Chiomonte

Nel decreto legge di stabilità finanziaria con maxiemendamento anticrisi approvato il 12 novembre dal Parlamento italiano, le aree ed i siti del comune di Chiomonte, individuati per l’installazione del cantiere della galleria geognostica e per la realizzazione del tunnel di base della linea ferroviaria Torino - Lione costituiscono “aree di interesse strategico nazionale”. Chi vi entrerà senza permesso sarà punito con l’arresto e la reclusione da 3 mesi a un anno. Oltre a rendere più pesanti le pene per i trasgressori, la militarizzazione dei cantieri ha almeno altre due conseguenze. Da un lato semplifica le procedure di esproprio per potersi impadronire dei terreni ancora non ceduti dai proprietari, dall’altro fa si che la roccia estratta dagli scavi, anche se piena di inquinanti, diventi materiale ordinario per legge.

Per rendere impenetrabile il recinto, l’attuale barriera di filo spinato sarà sostituita da un muro di cemento alto tre metri.

Vedi l'articolo Chiomonte sito strategico, i No Tav annunciano proteste, la Repubblica Torino

Pgt revocato. L'aula di Palazzo Marino ha approvato la delibera presentata dall'assessore all'Urbanistica Lucia De Cesaris con 26 voti a favore (centrosinistra), 3 contrari (la Lega) un astenuto (il radicale Marco Cappato) e il Pdl che ha continuato con lo sciopero del voto. L'aula del Comune fa un salto indietro nel tempo. Si torna alla fase d'adozione del piano di governo del territorio. Con l'esame delle osservazioni presentate dagli enti e dai cittadini. E con l'imperativo da parte di giunta e maggioranza di chiudere in tempi relativamente brevi. E comunque non oltre il termine ultimo e inappellabile del 31 dicembre 2012.

Aria frizzantina in consiglio comunale. L'assessore all'Urbanistica, Lucia De Cesaris conferma la scelta dell'amministrazione: «La decisione presa dalla giunta per il Pgt è giusta, equilibrata, ponderata. Sono tante le criticità del Pgt. A partire dal fatto che spoglia il Comune dei suoi poteri di pianificazione e lascia al mercato la più ampia libertà possibile. Un Pgt che rischia di consentire una pesante cementificazione del Parco Sud. Potevamo buttare all'aria tutto. Abbiamo invece deciso di ripartire dalle osservazioni». Poche ore prima il sindaco Giuliano Pisapia aveva ribadito la linea. «Abbiamo preso un impegno con i cittadini, noi revochiamo il Pgt sotto il profilo della necessità di valutare ed esaminare le osservazioni dei cittadini, cosa che non era stata fatta nel passato.

Ci sono oltre 4 mila osservazioni che vanno valutate per migliorare il futuro della città». Durissima la replica dell'opposizione con il capogruppo Carlo Masseroli, padre del Pgt: «Per rispondere a una élite state ammazzando il popolo milanese. State distruggendo il sistema economico di Milano, con tempi che non riusciamo a capire quali saranno. Vi prendete la responsabilità di questa fase senza regole che mette a repentaglio 40 mila posti di lavoro in una fase di crisi. State distruggendo un sistema economico senza dirci dove volete andare». La replica della De Cesaris è secca. Intanto ricorda che la revoca consente il mantenimento delle misure di salvaguardia, in vigore dal 14 luglio 2010, e l'approvazione dei programmi integrati di intervento e degli interventi diretti.

E poi affonda il colpo: «Non c'è nessuna città bloccata ma una città che ha bisogno di essere ripresa pezzettino per pezzettino per chiudere interventi fermi da anni che la devastano e rendono gli operatori arrabbiati contro la pubblica amministrazione. Ho la fila di persone davanti alla mia porta che mi chiedono di mandare avanti interventi fermi da anni, e non si capisce perché».

Adesso si riparte. Dalle 4765 osservazioni. I tempi? «È necessario adesso muoversi con rapidità e con grande senso di responsabilità - conclude la De Cesaris – per arrivare quanto prima, nell'interesse di tutti, all'approvazione definitiva del Pgt, cercando di anticipare, quanto più possibile, la data ultima del 31 dicembre 2012». «Se, come riteniamo, verranno fatte grandi modifiche al Pgt - replica Masseroli - i tempi si allungheranno a dismisura e sarete costretti a ripubblicare il Pgt. E a questo punto si sforerà il limite del 31 dicembre 2012». Appuntamento per un'altra maratona in aula.

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