La Mamma di Batman lascia il Banana di Arcore. Messa così, si potrebbe anche sceneggiare a fumetti la non ufficiale ma nemmeno smentita intenzione di Letizia Moratti, che prepara un approdo nelle file del Terzo polo, ed è andata a pranzo con Gianfranco Fini. «Dialogo proficuo», è il verdetto ufficiale. Non si hanno commenti di Silvio Berlusconi, che l’altroieri s’è detto impegnato nella lettura dei diari (tarocchi) di Mussolini, personaggio con il quale ha confessato una forte immedesimazione. Anche per il tradimento di Letizia potrebbe trovare qualche rimando storico. E nemmeno si conoscono - ma si possono immaginare - i commenti di quel 42 per cento di milanesi che l’hanno votata alle scorse elezioni, quelle della sonora sconfitta contro Pisapia. Non che i pessimi e gelidi rapporti fra la Moratti e il Pdl, dopo la débacle, fossero un mistero.
Lei, la Moratti, tre settimane fa non aveva rinnovato la tessera, presa dalle mani di Berlusconi proprio il 13 dicembre 2009, poche ore prima che l’allora premier venisse colpito da una miniatura del Duomo scagliata dall’attentatore Tartaglia. Aveva anche confessato, la Moratti, un «disagio profondo», e perfino la scoperta che il Pdl «non ha senso etico».
Comica o triste, si giudichi a piacere la vicenda. Di sicuro è il segno dello sgretolamento di un partito dove ogni cacicco ormai fa la sua personale corsa, scrutando un orizzonte tempestoso e cercando nuovi approdi. È anche singolare che le manovre di sganciamento avviate dalla Moratti coincidano con il polemico addio di un’altra donna del Pdl, Stefania Craxi, che porta un cognome simbolo per l’avventura politica e personale di Berlusconi. Due donne milanesi che, negli stessi giorni, prendono il volo dal berlusconismo. La Craxi chiude valutando che «il centrodestra è finito», e che non si può più stare in un partito dove la leadeship del Cavaliere non sarà mai messa in discussione. La Moratti avviando amorose schermaglie con Gianfranco Fini, l’Arcinemico di Berlusconi.
Sulla scena milanese, è di sicuro comica la ridda di commenti imbufaliti degli ex-sodali della Moratti, pronta a intrupparsi nel Terzo polo che ha contribuito a mandarla a casa. È la politica, ragazzi. E questa politica deve aver conquistato anche Letizia Moratti, già star di una tecnocrazia con la puzza sotto il naso, e ora disposta a farsi trattare come una Scilipoti in tailleur.
Fontego dei Tedeschi, si tratta ad oltranza, per chiudere l’intesa entro fine anno. Anche ieri, oltre tre ore di confronto tra il Comune (schierato con il vicedirettore generale Bassetto e gli assessori Maggioni, Micelli, Filippini) e legali e tecnici della famiglia Benetton: c’è intesa di massima, ma ora si tratta di mettere nero su bianco la convenzione, gli spazi che resteranno ad uso pubblico nella piena disponibilità del Comune e il corrispettivo in milioni di euro per il cambio di destinazione d’uso da uffici pubblici a commercio. Naturalmente è il quantum oggetto del discutere, ma non solo: il Comune deve anche garantirsi la disponibilità «reale e garantita, nei secoli a venire degli spazi pubblici», come la spiega il vicedirettore generale Bassetto, «perché non si tratta di una semplice servitù, ma di un libero utilizzo di spazi liberi dalle attività commerciali da parte del Comune». In maniera informale - ufficialmente nessuno parla di soldi - il Comune ha valutato l’intera trattativa 10 milioni di euro e non intende andare sotto i 6 cash insieme al mantenimento ad uso pubblico di tutti gli spazi non commerciali. Soluzione di massima sulla quale, alla fine, anche Edizione Property pare convergere. «Di soldi non abbiamo parlato nel dettaglio», commenta l’assessore ai Lavori pubblici Alessandro Maggioni, «ma la proprietà sa che il Comune chiede che tutti gli spazi non a uso commerciale - cortile, corridoi, bagni e quant’altro - restino a standard pubblico». Niente più muro-contro-muro, toni costruttivi. «Abbiamo avuto tre ore di lavoro fitto sulla bozza di convenzione e questo fa piacere perché dimostra l’interesse di entrambe le parti a chiudere l’intesa», commenta la dottoressa Valentina Zanatta, portavoce di Edizioni Property, che però non si sbilancia sul merito dei punti ancora irrisolti, «sull’uso pubblico degli spazi non commerciali non c’è nessun problema. Restano da definire un paio di punti e non si tratta solo del valore economico del cambio di standard. Ma vogliamo tutti chiudere l’intesa entro fine anno. Noi siamo già pronti con tutti i lavori di consolidamento e restauro che non comportano cambi d’uso, come quelli sulle facciate già cantierabili: ma, l’azienda ha deciso di non fare ulteriori investimenti sul palazzo prima di avere firmato la convenzione». A Ca’ Farsetti sono giorni frenetici per Patrimonio e Bilancio. In attesa della conclusione temporale della procedura di evidenza pubblica per Ca’ Corner della Regina, si è già organizzata la vendita certa (in assenza di rilanci) al gruppo Prada, che ha fatto un’offerta irrevocabile per 40 milioni. Già in calendario il 29 dicembre il Consiglio comunale per le varianti urbanistiche definitive e il 30 appuntamento fissato dal notaio.
Prosegue senza sosta la vasta operazione di colonizzazione degli spazi della città ad opera dei saccheggiatori/benefattori dei beni comuni e dei patrimoni pubblici. Già se ne era parlato sulla stampa locale, e già nel l fortunato libriccino di Paola Somma, Benettown, settimo della collana Occhi aperti su Venezia dell’editore Corte del fòntego se ne erano comprese le vicende e la sottesa strategia. Al lettore non veneziano potrà essere utile sapere alcune cose sull’oggetto dell’operazione. Il Fontego dei Tedeschi era, dagli inizi del XII secolo l’antico quartier generale dei mercanti tedeschi: depositi e magazzino, residenza, uffici e servizi riempivano gi spazi del grande edificio a corte, sul Canal Grande a Rivo Alto, dov’era l’antico porto della Repubblica Serenissima, accanto al famoso Ponte. Da alcuni decenni il Fontego era l’edificio centrale delle Poste: un grade e frequentatissimo spazio pubblico, in uno dei centri nevralgici della città. Dal 2008 se ne era impadronito la multinazionale di Treviso, per 58 milioni di euro.
Diventerà un grande centro commerciale (“megastore”). Anche per questo edificio, come per gli altri che ne hanno preceduto e che ne seguiranno il trasferimento dal pubblico al privato, il comune provvederà alle necessarie varianti urbanistiche. Certo, afferma uno degli assessori “competenti”, «il Comune chiede che tutti gli spazi non a uso commerciale - cortile, corridoi, bagni e quant’altro - restino a standard pubblico»; anche i clienti dei negozi di Benetton e soci fanno pipì.
Per arrivare in questo luogo di confine e smaltimento, il metodo migliore - non il più veloce - è prendere il tram numero 14, fino al capolinea Lorenteggio. Tagliamo la zona sud ovest di Milano, attraverso la dismissione industriale esaltata dal credo della riqualificazione. Riqualificare. Uno dei verbi feticcio dagli anni '80 a oggi. Riqualificare un quartiere, una ex area produttiva, un lavoratore dopo il licenziamento.
Questa zona di Milano si snoda sui due lati della ferrovia, da Porta Genova viaggia lungo il Naviglio Grande. Sfilano, appena oltre l'ombra dei palazzi residenziali, i fantasmi novecenteschi di Ansaldo, Bisleri, General Electric, Riva Calzoni, Loro Parisini, Osram, Richard Ginori, e più avanti, a Corsico, le Cartiere Burgo. Migliaia di lavoratori hanno preso gli autobus nel dopoguerra, dall'hinterland e dagli altri quartieri cittadini, pullman già pieni alle cinque del mattino per raggiungere i cancelli delle industrie, il primo turno delle sei.
La retorica del Cerutti Gino
Da almeno tre decenni, l'industria ha celato la sua parte meno attraente per limitarsi alla superficie del marketing, all'esaltazione dell'aggregato artificiale dei consumi: ha stretto un patto con la finanza e generato una nuova geografia. A partire dagli inizi degli anni '80, il prezzo degli immobili è diventato pura rappresentazione, non a caso attraversiamo il glamour di via Tortona e via Solari, studi di produzione e post produzione televisiva, studi di grafica, showroom, atelier, agenzie di una non meglio precisata immagine connessa alla visione dell'esistenza da sbirciare nei talk show leggeri e intelligenti, da sfogliare negli inserti dei quotidiani, dei magazine, quando il surrogato di questa rappresentazione è comunicazione, evento chiacchierabile, così vorace da fagocitare tutto, compresa l'aura di autenticità ridotta a feticismo dei luoghi, come via Giambellino 50, la retorica del quando eravamo Cerutti Gino, usata anche dagli immobiliaristi come additivo.
Nel grande spazio di via Savona, all'altezza del cavalcavia, la Osram produceva lampadine, alla sinistra del tram, e ora occorre torcere un po' il collo come quando ci arrampichiamo sulla sedia per svitarne una fulminata, e lì in alto, nei palazzi costruiti dalle Acli, c'è l'appartamento di Pier Carlo Scajola, il figlio dell'indimenticabile ministro di tutto, e in particolare del «Marco Biagi era un rompicoglioni che voleva solo il rinnovo del contratto». Questi palazzi edificati all'inizio degli anni zero segnano la demarcazione tra due parti distinte di via Giambellino. Subito dopo il semaforo, superata una delle sedi della Cgil, il tram si avvia ai lotti delle case popolari costruite a partire dagli anni '30, edifici a quattro piani, con gli intonaci scrostati che disegnano figure involontarie sui muri, accanto alle paraboliche lasciate a germogliare sui balconi di appartamenti spesso sfitti e murati per evitare occupazioni. Attaccati ai muri di questi edifici, campeggiano i grandi cartelloni pubblicitari, sotto di essi i carrelli vuoti dei supermercati vagano smarriti, ma almeno sembrano avere una vita indipendente, senza più la moneta nell'ingranaggio.
Una scatola vuota
Durante la campagna elettorale, negli anni scorsi, su questi stessi muri spiccava sempre la grande faccia di Berlusconi, il cerone e il ritocco digitale erano ancora più significativi e provvidenziali, se confrontati con l'intonaco sfatto dei palazzi che lo circondavano, e lo sorreggevano. Di fronte, resiste l'insegna del Pussycat, uno degli ultimi cinema porno di Milano, e subito dopo inizia piazza Tirana, e il rettilineo che conduce al capolinea. Il marciapiede a destra è Milano. Se attraversiamo la strada siamo a Corsico. Le linee di confine sono luoghi che svelano comportamenti di solito celati.
Nel Canton Ticino, per esempio, gli svizzeri hanno costruito una discarica a pochi metri dalle case italiane. E anche qui, tra Milano e Corsico, la situazione è simile: si tratta sempre di rifiuti, anche se di un altro genere.
Camminiamo verso i palazzi di vetro, i loghi nel cielo pressato, uniforme. Sopra sei di questi edifici spicca il marchio Vodafone, gli altri sono in netta minoranza. Proprio Vodafone, nell'autunno del 2007, ha effettuato la più grande cessione - finora - di lavoratori in Italia: 914 persone allontanate dalle sedi di Ivrea, Milano, Padova, Roma, Napoli e cedute da una multinazionale - con profitti di miliardi di euro - a un'azienda, Comdata Care, fondata per l'occasione, una scatola vuota destinata ad accogliere il business - le attività cedute - più che i lavoratori. Comdata Care è ospitata nell'edificio della casa madre, Comdata, a trecento metri da Vodafone, ma è come se ci fosse una frattura di tremila chilometri, proprio sul confine tra Milano e Corsico.
Visto da fuori, l'edificio di Comdata pare il carcere di Opera. È un blocco rettangolare, quattro piani di cemento armato si estendono in orizzontale, punteggiati da una serie di finestrelle quadrate. In questo edificio, senza marchi e loghi, lavorano un'ottantina di superstiti di quell'operazione finanziaria spacciata per «focalizzazione e specializzazione delle competenze», come recita l'accordo ministeriale del 2007. La vendita di 914 persone è avvenuta grazie a uno dei punti più controversi della legge 30, la cosiddetta cessione del ramo d'azienda, la legge che, di fatto, ha aggirato l'articolo 18, la legge per cui il celebre brano cantato da Sergio Endrigo sarebbe un'idiozia.
Per fare un fiore ci vuole un ramo / per fare il ramo ci vuole l'albero, scriveva Gianni Rodari nel testo. Ma per i legislatori, per i politici della destra italiana, entusiasti sostenitori di questa legge - e per i politici di sinistra, che nel 2006, benché al governo, non hanno fatto nulla per cancellarla, aggrappandosi alla patetica distinzione tra flessibilità e precarietà - il ramo è sempre indipendente dall'albero, non è strettamente legato alla pianta e può essere segato in qualsiasi momento, tanto avrà una vita autonoma, anzi, era già autonomo prima del taglio.
Nei giorni della cessione, un esercito di esperti ha sostenuto l'operazione, non sarebbe cambiato nulla, i lavoratori sarebbero stati tutelati per sette anni, questa la durata dell'accordo. Bisognava guardare avanti, verso nuovi orizzonti. Lo diceva - e lo dice ancora - Pietro Ichino, il cui studio legale milanese avrebbe poi difeso Vodafone contro i lavoratori che hanno fatto causa alla multinazionale. Pier Luigi Celli - ex direttore generale di molte cose, compresa Omnitel, l'azienda italiana fagocitata da Vodafone - aveva scritto, in un intervento sul Corriere della Sera, che «la sicurezza a tutti i costi sta portando, anche ai lavoratori più danni, in prospettiva, che vere e proprie certezze».
Nuovi vocaboli
Già nel 2010, il lavoro per cui 914 persone sono state cedute da Vodafone è in gran parte finito a Galati, Romania: una violazione del punto 11 dell'accordo ministeriale, per cui non è previsto «il ricorso al sub-appalto per l'esecuzione delle attività oggetto del trasferimento». Galati è una città di circa trecentomila abitanti, costruita sulle rive del Danubio, al confine con la Moldavia. Alcuni lavoratori italiani di Comdata Care sono andati a Galati per la formazione del personale rumeno che avrebbe svolto le mansioni dei lavoratori italiani.
C'è sempre qualcuno disposto a eliminare qualcun altro, anche quando, paradossalmente, questa azione comporta l'eliminazione di se stesso. Le aziende italiane come Comdata - composte da migliaia di lavoratori - utilizzano in Italia per lo più interinali o personale assunto con un basso inquadramento contrattuale, e capita che facciano svolgere la stessa mansione a lavoratori con quattro contratti differenti. Comdata fornisce i proprio servizi a una quarantina di grandi aziende, come Telecom, Wind, Enel, Eni, Eon, Edison, Banca Mediolanum, Mondadori, Osram. Le aziende come Comdata utilizzano una concatenazione al ribasso per cui, a Galati, impiegano manodopera rumena e la mettono in competizione con quella moldava, che vive a pochi minuti di distanza, incentivando il pendolarismo frontaliero tra Galati e Cahul, il capoluogo dell'omonimo distretto moldavo. Un lavoratore a Galati guadagna in media 1000 ron per 6 ore e 10 minuti di lavoro, dal lunedì al sabato. 1000 ron sono 230 euro al mese.
Il neologismo che descrive questa pratica industriale di sfruttamento - delocalizzare - è comparso nel dizionario italiano dal 1991, subito dopo la fine degli stati comunisti nell'est europeo. E tuttavia, fino agli '90, delocalizzare riguardava la produzione di lavatrici, automobili, beni industriali materiali. Negli anni '90, le aziende italiane dei settori come le telecomunicazioni, gli assicurativi o i bancari investivano ancora nella formazione del personale, in Italia. Ma nell'ultimo decennio, l'unico credo è stato risparmiare e aumentare ancora di più i profitti. Questo capitalismo italiano predatore, senza cultura del lavoro, è privo non solo di etica ma anche di un obiettivo industriale a breve termine, concentrato solo sul report giornaliero di pezzi, di pratiche gestite, non importa come. È un capitalismo digitale e cottimista, che vorrebbe considerare i luoghi un accessorio vago, grazie all'utilizzo della tecnologia.
Il vero luogo della delocalizzazione è nessun luogo, il fluttuare nell'indeterminatezza, è il flusso di dati che giunge a un terminale alla periferia di Galati, dove la manodopera e gli uffici costano molto meno che a Milano.
Sul binario laterale
Il lavoro immateriale trasferito dalle aziende italiane in Romania è la rappresentazione di uno spettro, come i vuoti delle aziende dismesse milanesi o convertite in altro. I clienti di una compagnia telefonica o di una banca, per esempio, devono mandare via fax la fotocopia fronte retro della propria carta di credito, le coordinate bancarie e la carta di identità. Si tratta di dati sensibili, i clienti sono titubanti, sospettosi, ma alla fine inviano i documenti a un numero verde italiano. La tecnologia converte i fax in formato elettronico, così possono essere gestiti in qualsiasi zona del pianeta, in questo caso a Galati, dove i lavoratori parlano anche italiano.
I volti fotocopiati dei clienti vagano nell'etereo tecnologico e incontrano la tastiera di una lavoratrice che si alza all'alba a Cahul, Moldavia, esce nel mattino gelato e attende l'autobus che la conduce fino al confine, e lì prende la coincidenza per Galati dove digita il proprio login di accesso alla rete di un'azienda italiana, la password derivata dal soprannome del fidanzato o del figlio, e in questo istante, la lavoratrice sta guadagnando, per una giornata di 6 ore, 9,58 euro, ovvero 1,59 euro all'ora.
Il capitalismo italiano ha il problema di gestire lo smaltimento dei rifiuti, siano esse scorie industriali o umane. Ha depositato le persone in edifici anonimi, ai margini delle città, lungo le linee di confine, in attesa che i deboli vincoli contrattuali - già ampiamente violati - scadano. Un po' come capita in alcune stazioni di provincia, dove vagoni tossici attendono su un binario laterale da anni, prima di scomparire chissà dove. Nel caso di Vodafone, la gran parte di 914 residui era costituita da donne tra i 30 e i 40 anni, con almeno un figlio. Ma nel gruppo c'erano anche disabili e alcuni sindacalisti sgraditi.
Il veleno negli orti
Disabituati a forme di lotta collettiva, educati da decenni in cui - per la narrazione dei media dominanti - il conflitto è qualcosa di cui vergognarsi, sinonimo di sconfitti e di perdenti, ai lavoratori è richiesto uno sforzo biografico individuale, silenzioso e asettico, per affrontare una legislazione che può solo accentuare situazioni endemiche aggravate dall'economia, ignorate da una politica autoreferenziale, schiava di se stessa. E un governo politico come quello di Monti, travestito da tecnico, da dottore di famiglia accorso al capezzale con il camice del paternalismo ricattatorio, può solo aggravare la situazione, allungando l'età lavorativa quando, nella realtà, i lavoratori sono sgraditi già alla soglia dei quarant'anni, a meno che non accettino condizioni rumene o, meglio, moldave.
A poche centinaia di metri di distanza da Comdata, c'è un terreno di 260 mila metri quadrati, recintato e sigillato dai lucchetti della magistratura nel novembre 2010. È la ex cava Garegnano, si estende fino al capolinea della metropolitana e lambisce il carcere minorile Beccaria. Nella cava, per decenni è stato sepolto ogni tipo di rifiuto urbano e industriale, dall'amianto ai solventi, dai metalli pesanti alla diossina. La giunta Moratti aveva autorizzato la costruzione di palazzi, uffici, negozi, un quartiere residenziale di oltre cinquemila abitanti. Ma la falda acquifera è avvelenata. I pensionati che coltivavano gli orti su quel terreno hanno mangiato verdura contaminata.
Le classi dirigenti italiane dimenticano che i rifiuti - di qualsiasi tipo - benché compressi e mansueti, si esprimono, e rilasciano il male che hanno dolorosamente subito e trattenuto in se stessi, e il morbo prima o poi si espande ovunque, dalla falda silenziosa alla superficie seduttiva, con una forma di tragica e gioiosa liberazione.
postilla
Eh già: gran brutta cosa la condizione di orfani! Ma lo è davvero quella di orfani del capitalismo industriale? Vero, verissimo, che la rapina dei territori via via che le barriere fisiche si ritirano e consentono di accedere, di guardare e considerare, appare sempre più evidente e lacerante. Ma nella prospettiva del ricordo, specie del ricordo indiretto e mediato, il tram operaio all’alba sferragliante nella nebbia cronica di una periferia da quadro delle avanguardie novecentesche finisce per assumere una funzione ideologica, e se non altro farci guardare nella direzione sbagliata. Quegli spazi sono lì ad aspettare senso nuovo, non a piangere quello perduto. Mentre l’acuto senso di animazione sospesa di Giorgio Falco - come già nel caso delle preesistenze contadine nello sprawl metropolitano deL’ubicazione del bene – forse pencola involontariamente troppo verso una pietrificazione in positivo di certe culture novecentesche. Che sono state, non dimentichiamolo, esattamente il carburante della macchina che ci lascia quella montagna di detriti (f.b.)
L’ultima battaglia sul megainsendiamento che cambierà le abitudini a mezzo Veneto si combatterà martedì prossimo in consiglio comunale a Dolo. Anche se si chiama Veneto-City e non Dolo-City. Perché una decisione regionale di questa portata - 2 milioni di metri cubi di cemento! – debba pesare sulle spalle di un sindaco, ultimo anello della catena di comando, potrebbero spiegarlo solo gli amministratori regionali che hanno costruito in 10 anni le condizioni perché avvenisse. L’ultimo arrivato, il presidente Luca Zaia, si chiama fuori dicendo che ha trovato tutte le procedure completate. Una per la verità non lo è del tutto: il Piano territoriale regionale di coordinamento (Ptrc) in cui per la prima volta nel 2008 è stata inserita Veneto City, è stato adottato dalla giunta Galan ma non approvato dal Consiglio. Il quale si è cimentato su questa faccenda martedì 6 dicembre, in una seduta straordinaria chiesta dal centrosinistra. E’ saltato fuori che esiste un’opposizione alla colata di cemento anche nel centrodestra. Chiunque, seriamente intenzionato ad opporsi, avrebbe colto l’occasione per cercare convergenze e far nascere una maggioranza trasversale. Non la capogruppo del Pd Laura Puppato e il vice Lucio Tiozzo, che conducevano il dibattito: invece di chiedere un rinvio in commissione per cercare una sponda o valutare almeno l’ipotesi, hanno preferito andare al voto. Ovviamente perdendo: 18 a 23. Adesso tutti potranno dire che il Pd veneto era contrario, purtroppo è in minoranza e non ha potuto fermare l’operazione.
Contrarietà di facciata, politica dei due forni. Vecchi metodi, che in questa legislatura si sono venuti sommando ad altri disagi verso la conduzione del Pd. Siamo arrivati alla dissociazione fisica: quanto di più dirompente potrebbe esserci, eppure nessuno ne parla. Mauro Bortoli, consigliere di Padova, già segretario provinciale e poi regionale del Pci-Ds, ha scelto un posto lontano dal gruppo per segnalare lo stacco che intende avere. Il Pd occupa l’ala a sinistra del presidente, Bortoli se ne sta in fondo all’emiciclo, neanche fosse in castigo. Scelta considerata bizzarra e invece motivata da ragioni politiche che l’interessato non esita a confermare: «Mi sono impegnato a far nascere il Pd, ci ho creduto fino in fondo, ma oggi non ne sono più tanto contento. E’ rimasto un contenitore dove c’è dentro tutto. Mi rendo conto che la politica è solo propaganda, così me ne sto a latere. Do il mio contributo. Rispondo a me stesso, ho una posizione critica ma non creo problemi. Non ho fondato correnti, non so quanti la pensano come me. Spero che si avvii una discussione».
Tra gli altri articoli sulla vicenda vedi del 9 agosto
Le ruspe di colossi delle costruzioni e dell´impiantistica, magnati del petrolio e imprenditori locali hanno acceso i motori per prendersi le rive del Belpaese - La parola magica che dà il via libera a nuovo cemento entro i 150 metri dalla battigia è waterfront, declinata in sigle come "rifacimento del litorale" - A Pozzuoli si gioca la partita edilizia più importante del Mezzogiorno, a Ostia in programma beauty farm e ristoranti, a Palermo approvata l´ennesima struttura
Nella Liguria devastata dall´alluvione c´è chi è pronto a mettere altro cemento su una costa che non regge più all´urto dell´acqua che scende dai monti. In Sicilia invece il cemento si vuole depositare direttamente davanti al mare, nel cuore di un sito Unesco. Ecco le mani sulle coste d´Italia. Le ruspe di colossi delle costruzioni e dell´impiantistica, di magnati del petrolio o di imprenditori sconosciuti, hanno già acceso i motori. Vogliono prendersi le rive del Belpaese, che in teoria - cioè secondo la legge - sono inedificabili. Per metterci palazzoni, alberghi, ristoranti e centri commerciali. La parola magica che consente di aggirare il divieto assoluto di costruire entro i 150 metri dalla battigia è "waterfront", declinata in sigle del tipo «rifacimento della costa» o «nuovo porto turistico». Da Santa Margherita Ligure a Siracusa, passando per Marina di Massa, Cecina, Fiumicino, Napoli, Brindisi o Lipari, ecco i grandi affari in riva al mare. In campo imprese e società pronte a gettarsi a capofitto su un business che solo di opere edilizie vale al momento 1,5 miliardi di euro, che si moltiplicano a dismisura se si aggiungono gli affari commerciali collaterali una volta ultimate le costruzioni. Per cercare di arginare quelle che gli ambientalisti definiscono «le mille Val di Susa in riva al mare» si battono giornalmente associazioni come Italia Nostra, Wwf e Legambiente, e sparuti comitati di cittadini spesso lasciati soli dalla politica locale a fronteggiare poteri forti, anzi fortissimi, visto che in tempi record riescono a farsi approvare varianti urbanistiche su misura come non accadeva nemmeno nella Palermo o nella Napoli del sacco edilizio. Ma quali sono i progetti in via di approvazione o già in fase di realizzazione? Chi c´è dietro le società private interessate a questo grande business?
Hotel dietro al porto
Il viaggio nei waterfront d´Italia parte dalla Liguria, da Santa Margherita. Qui la società Santa Benessere, guidata da Gianantonio Bandera, imprenditore ligure noto per il rifacimento del teatro Alcione e per il progetto del contestato porticciolo a Punta Vagno, ha presentato al Comune un progetto da 70 milioni di euro e la richiesta di concessione demaniale dell´area portuale per i prossimi 90 anni. Cosa vuole realizzare? Un centro di talassoterapia da 30 mila presenze annue e l´allungamento del molo e della diga foranea per chiudere il golfo e consentire anche a megayacht di 50 metri di poter attraccare a Santa Margherita. Dal Fai ad archistar come Renzo Piano, in tanti contestano il piano della Santa Benessere, che dietro di sé ha soci e finanziatori più o meno occulti. L´azionista di maggioranza della società che ha presentato il progetto è un trust inglese, la Rochester holding, che a sua volta ha tra i finanziatori Gabriele Volpi, magnate diventato miliardario con il petrolio nigeriano e che oggi guida un gruppo da 1,4 miliardi di fatturato con proprietà che vanno dalla logistica petrolifera alla pallanuoto e al calcio: è proprietario della Pro Recco e dello Spezia. I soldi insomma ci sono. Lui, Volpi, prende le distanze dicendo di non sapere nulla di questo progetto e di avere investito «soltanto nel trust inglese». In realtà nel cda della Santa Benessere siedono Bandera e Andrea Corradino, entrambi soci dello Spezia calcio. Entro lo scorso novembre il Comune ligure aveva dato tempo per presentare osservazioni al piano.
Pochi chilometri più a Sud di Santa Margherita altre ruspe e altri costruttori si stanno muovendo per realizzare alberghi sul mare laddove sulla carta non si potrebbe piazzare nemmeno un palo della luce. Tra Marina di Carrara e Marina di Massa il gruppo di Francesco Caltagirone Bellavista vuole costruire un porto turistico da 800 posti. Peccato però che tra le strutture a supporto metta anche «40 appartamenti, uno yacht club e un residence a tre piani». «E perfino una torre di otto piani e una piazza da 6000 metri quadrati», dice Antonio Delle Mura, presidente di Italia Nostra Toscana. Le amministrazioni comunali guardano con molto interesse all´iniziativa, in ballo ci sono investimenti per 250 milioni di euro e lavoro per molti concittadini. «Nessuno pensa alle conseguenze ambientali e all´impatto devastante per quest´area, con il rischio di erosione della spiaggia e occultamento della vista a mare: tutti sembrano essersi dimenticati, inoltre, che il progetto presentato ricalca una iniziativa del 2001 presentata dall´Autorità portuale e bocciata allora dal ministero dell´Ambiente», aggiunge Delle Mura.
Italia Nostra in Toscana insieme al Wwf è impegnata però anche su un altro fronte, quello di Cecina. In campo c´è una cordata d´imprenditori locali raccolta nel Club nautico che vuole rivoltare come un calzino il vecchio porticciolo, allargandone la capienza a mille posti barca. Fin qui nulla di strano. Se non fosse che accanto al porto si vorrebbe realizzare un parcheggio da 2000 posti auto, 400 box attrezzati, 40 esercizi commerciali, un hotel a 4 stelle, un centro benessere e 80 appartamenti. E, ciliegina sulla torta, un padiglione esposizioni per la nautica e un mercatino del pesce, con ristorante ed eliporto. «Cosa c´entra tutto questo con un porto turistico?», si chiede la professoressa Roberta De Monticelli, che ha denunciato quanto sta accadendo a Cecina alla Commissione Europea: «Spostare una foce e realizzare un pennello a mare che cambierà le correnti, il tutto in una riserva dello Stato, insomma è davvero incredibile», aggiunge la De Monticelli. Ma quali sono i meccanismi per aggirare il divieto di costruire sulla costa? In base a quali leggi si può andare oltre i piani regolatori vigenti?
Bonifiche di facciata
È certamente a una manciata di chilometri da Napoli che si sta giocando una delle partite edilizie più importanti del Mezzogiorno. E precisamente a Pozzuoli nell´ex area industriale Sofer-Ansaldo, oggi di proprietà della Waterfront flegreo: società, questa, del gruppo dell´ingegnere Livio Cosenza, settantenne, grande elettore del sindaco di Pozzuoli Agostino Magliulo, padre dell´onorevole Giulia e di Francesco, 35 anni, amministratore delegato della Watefront. Nel board della società in questione siede inoltre Carlo Bianco, consigliere d´amministrazione della Pirelli Re. La partita inizia quando il Comune nel 2007 affida all´architetto Peter Eisenman un piano di riqualificazione dell´area. Il piano viene consegnato all´amministrazione, che a sua volta firma subito un protocollo d´intesa con la Waterfront. Cosa prevede il mega progetto di Eisenman? Semplice, la realizzazione di un polo turistico alberghiero con annesso centro commerciale, un polo per la nautica da diporto con tanto di accademia della vela e un terzo polo definito genericamente «polifunzionale». La Waterfront affida subito la progettazione esecutiva a uno studio locale, nel quale lavora tra gli altri la figlia del sindaco di Pozzuoli. Il Cipe, nel frattempo, stanzia 40 milioni di euro per la bretella che collegherà l´area all´autostrada. Le ruspe sono pronte, visto che le carte ci sono tutte e sono in regola. In arrivo 600 milioni di euro d´investimenti, con tanto di anticipo già approvato da Intesa Sanpaolo.
Per il professore d´economia dell´Università di Napoli Ugo Marani si tratta «di un bel progetto che sarà trasformato in scempio» e per questo «va fermato». L´opposizione di Pozzuoli, dal Pd a Rifondazione protesta, ma al momento l´iter burocratico è già concluso e c´è poco da fare. Altri affari sono in corso nelle grandi città. Sul litorale romano, a esempio, il sindaco Gianni Alemanno ha in mente progetti in grande stile: attraverso l´Eur spa punta a stravolgere il waterfront di Ostia, costruendo beauty farm, alberghi, centri commerciali, ristoranti e perfino una scuola di surf, il tutto con la scusa di raddoppiare il porto attuale. A Palermo, invece, il consiglio comunale ha appena approvato il nuovo piano regolatore del porto, che prevede la realizzazione di un ennesimo porticciolo turistico nella zona di Sant´Erasmo, a due passi dal centro storico della città e nonostante vi siano già altri tre porti turistici in funzione sul lungomare palermitano. Nel capoluogo siciliano gli ambientalisti da anni contestano la riqualificazione di Sant´Erasmo, che sarà affidata a una società privata che gestirà il porticciolo per i prossimi trent´anni.
Piattaforme nel sito Unesco
Le ruspe e le betoniere sono invece già in azione nel cuore di un luogo protetto dall´Unesco: Ortigia, centro storico di Siracusa che si affaccia sul bellissimo golfo aretuseo intriso di storia e leggende greche. Qui il gruppo Acqua Pia Marcia del costruttore Francesco Caltagirone Bellavista ha iniziato i lavori d´interramento per il nuovo porto turistico che sarà chiamato Marina di Archimede. Il progetto da 80 milioni di euro, presentato nel 2007 da una società locale, approvato dal Comune a tempo di record e acquistato in corsa dal gruppo Caltagirone, prevede lavori su un´area di 147 mila metri quadrati, 50 mila dei quali in riva al mare: saranno realizzati 507 posti barca, ma anche «uffici, negozi ristorante, caffetteria, centro benessere e un albergo», dice il deputato regionale del Pd, Roberto De Benedictis. Ma al Comune è arrivata una seconda richiesta, questa volta da parte di una società d´imprenditori locali, la Spero srl, che vuole realizzare un altro porto a fianco di quello di Caltagirone. La Spero vuole investire 100 milioni di euro per costruire un molo da 430 posti barca e sul mare una piattaforma - grande quanto sette campi di calcio - da rendere edificabile per mettere in piedi alberghi, centri commerciali, uffici pubblici, ristoranti, tabaccherie e anche una libreria, per dare un tocco di cultura a un´operazione che, come sostiene il deputato Pd Bruno Marziano, «realizzerebbe il sogno di qualsiasi costruttore: cementificare il mare». Il Comune ha già approvato il progetto e l´ha inviato alla Regione per l´autorizzazione integrata ambientale. «Ci si chiede però come sia possibile costruire alberghi in riva al mare o sul mare, in un sito protetto dall´Unesco. Sarebbe una follia», dice ancora De Benedictis. Intanto Legambiente annuncia battaglia: «Difenderemo Ortigia da queste speculazioni», giura il presidente regionale Domenico Fontana. Ma tutti questi nuovi posti barca sono davvero necessari? Non c´è un altro modo per aumentare l´offerta?
Riqualificare i porti abbandonati
Santa Margherita, Massa Carrara, Napoli, Siracusa, sono soltanto la punta di un iceberg fatto di speculazioni sulle coste in nome dell´esigenza di nuovi posti barca che servono per attrarre turisti ma anche per costruire in zone inedificabili. Italia Nostra ha in corso una ventina di battaglie per bloccare la costruzione di nuovi porti, come quelli di Cecina, San Vincenzo e Talamone in Toscana, o Fiumicino, Anzio e Civitavecchia nel Lazio e, ancora, risalendo, quelli di Sarzana e Ventimiglia in Liguria. Soltanto in Sicilia sono già stati varati, o stanno per essere approvati, progetti di costruzione di ben 12 porti, da Menfi a Licata, da Marsala a Capo d´Orlando e Lipari, benedetti da 24 milioni di euro dell´Unione europea. Soldi pubblici per porti che saranno gestiti da privati scelti spesso senza alcuna procedura di evidenza pubblica. «Il territorio costiero è evidentemente sotto attacco», dice la presidente di Italia Nostra, Alessandra Mottola Molfino. Secondo Sebastiano Venneri, presidente nazionale di Legambiente, si tratta di puri e semplici affari perché basterebbe riqualificare i vecchi porti per ottenere migliaia di nuovi posti barca senza ulteriori cementificazioni: «Abbiamo appena completato uno studio che mette nero su bianco come sia possibile ottenere ben 39.100 nuovi posti barca semplicemente riqualificando i porti abbandonati - dice Venneri - circa 13 mila posti sono attivabili immediatamente con piccolissime opere di restauro, 9 mila posti in tempi brevi e altri 15.800 con lavori che non vanno oltre i 24 mesi». Ma in questo caso il business sarebbe molto meno appetibile. Almeno per i signori del cemento.
Tra «lievi difformità», segnaletica «inadeguata», «anomalie» e «problemi» di larghezza e curvatura, la rete delle piste ciclabili milanesi non spunta neppure la sufficienza. Bocciata. Il 65 per cento degli itinerari non rispetta le norme, alcuni tratti sono «pienamente» fuorilegge e altri sono malfatti, sbagliati, da aggiustare. La valutazione incrociata di caratteristiche formali e standard di (bassa) qualità ha indotto quest'analisi: solo una corsia su due è utile, sicura e dunque «consigliata»; il 30 per cento dei percorsi va affrontato solo in caso di necessità e il residuale 10 per cento va sempre evitato. Motivo? «Le condizioni della pista o la pericolosità degli accessi rendono la sua percorrenza più insidiosa della viabilità ordinaria». Meglio buttarsi nel traffico: possibile?
Paradossi d'una città piana, incardinata su cerchi concentrici e tagliata da raggi stradali, urbanisticamente ideale per le due ruote, che proprio non riesce a far convivere auto, bici e pedoni. Il dossier «CicloMilano» — progetto di Ciclobby e Actl con il sostegno della Fondazione Cariplo — è il risultato di un anno e mezzo di sopralluoghi, campagne fotografiche, studio delle soluzioni. È la prima completa mappatura dei tracciati per la mobilità dolce, un censimento puntuale di 135 chilometri di percorsi ciclabili. I difetti peggiori: corsie che sbucano nel traffico, tronconi spezzati, carenza di stalli. Le priorità: piccola manutenzione, auto più lente, marciapiedi in condivisione, rastrelliere. Un lifting, più che una rivoluzione: «Una buona ciclabilità — osserva il presidente di Ciclobby, Eugenio Galli — nasce da un mix di interventi messi in campo con cura e competenza, pensati attraverso una progettazione partecipata». Punti chiave: «continuità», «percorribilità» e «visibilità» degli itinerari.
Il dossier è stato presentato ieri all'assessore comunale alla Mobilità, Pierfrancesco Maran. Che commenta: «Nei prossimi mesi realizzeremo nuove piste e corsie ciclabili. È uno dei punti qualificanti della nostra azione amministrativa. Progetti come quello di CicloMilano ci danno indicazioni molto importanti». Eccone alcune. La pista di via Venti Settembre è ricavata «a fianco di un controviale non molto trafficato» e spesso «ingombra di auto parcheggiate». Giudizio: è inutile, superflua, potrebbe persino essere cancellata. Andiamo oltre. Il tratto lungo via Pavia non è «distinguibile dal marciapiede», «interrotto da una veranda ristorante», purtroppo «inutilizzabile»: funzionerebbe meglio come parcheggio per le bici. E ancora, via Dezza: «Il fondo è attraversato dalle radici degli alberi che creano continui ostacoli, se ne propone il declassamento a marciapiede di zona pedonale».
La riforma della mobilità ciclistica, suggeriscono Ciclobby e Actl, potrebbe partire da tre progetti pilota alla Bicocca (zona a 30 chilometri orari), nell'area dei viali delle Regioni (itinerari «cerniera») e al quartiere Sarpi (ridisegno della viabilità). Con la firma sulla Carta di Bruxelles, Milano s'è impegnata a dimezzare il rischio d'incidenti mortali per i ciclisti entro il 2020. C'è molto da pedalare.
Che sia appannato anche l’occhio della lince, nato per distinguere, sceverare, giudicare? Bisogna confessare che quando il governo di turno minaccia di tagliare i fondi all’Accademia dei Lincei, agli storici dell’arte non corre un brivido lungo la schiena. Da tempo, infatti, l’Accademia è morta e sepolta alla ricerca storico-artistica, e si è trasformata in una sorta di pensionato di lusso a cui accedono di diritto i baroni della Sapienza, i loro allievi e i loro alleati concorsuali. Ma, a giudicare dal memorabile evento che i Lincei hanno ospitato lunedì scorso, anche i colleghi archeologi non se la passano benissimo. In quell’occasione sono stati solennemente presentati i due volumi del terzo rapporto del Commissario dell’area archeologica di Roma: che è Roberto Cecchi, oggi discusso sottosegretario ai Beni culturali. A mettere in guarda i Lincei doveva bastare il mostruoso prezzo di stampa dei tomi: 68.000 euro. Una vera enormità, se paragonati ai 48.000 euro del costo medio annuale per le missioni sul territorio della Soprintendenza archeologica di Roma (ora peraltro bloccate per legge, senza che il sullodato Commissario muovesse un dito). E poi non era davvero il caso di esaltare il modello commissariale: e cioè l’esautorazione delle soprintendenze voluta da Bondi e Bertolaso, che ha prodotto la svendita del Colosseo a Diego della Valle, e nessun rimedio all’elevatissimo rischio idrogeologico del Palatino. E invece Eugenio La Rocca si è addirittura spinto a definire questa esperienza nefasta «una pietra miliare nella storia degli scavi archeologici». Insomma l’architetto Roberto Cecchi come Giovan Pietro Bellori, Luigi Pigorini, Rodolfo Lanciani o Ranuccio Bianchi Bandinelli: non c’è che dire, uno sguardo linceo. Ma, si sa, le grazie di un sottosegretario sono ambitissime: e specie da chi desidera organizzare mostre imperiali bisognose di fondi pubblici. Tuttavia, non sarà l’appannato bollino della lince a legittimare l’azione di governo di Roberto Cecchi. Ben altri sono i banchi di prova che lo attendono: incoraggiare e tutelare la meritoria, ma ancora insufficiente, ripresa delle assunzioni di storici dell’arte e archeologi; il varo di una legge che salvi finalmente Sepino dalle pale eoliche e dagli errori del Consiglio di Stato; la nomina di un direttore generale del paesaggio e dei beni storico-artistici che sappia guidare una vera e dura azione di tutela morale e materiale, e moltissimo altro ancora. Se Cecchi vorrà contribuire a salvare il patrimonio, e magari anche la propria faccia, non ha che da rimboccarsi le maniche.
La vicenda del commissariamento di Roma e Ostia ha un unico pregio: fra dieci giorni terminerà. Sugli esiti e le conseguenze che purtroppo continueranno a manifestarsi anche in futuro, torneremo nel dettaglio, perché si tratta di un’operazione per molti versi, tutti negativi, esemplare. Qui è importante ribadire il carattere di mistificazione mediatica che l’ha caratterizzata soprattutto in quest’ultima fase. Come ci auguriamo emergerà ben presto con sempre maggiore chiarezza, il commissariamento non ha apportato alcun elemento di innovazione scientifica, anzi ha provocato un’impasse nelle pratiche operative della Soprintendenza, proprio perché non accompagnato da un adeguato percorso metodologico.
Quanto all’Accademia dei Lincei, condividiamo toto corde l’opinione di Montanari: anche in questo campo è giunto il tempo di procedere ad un’operazione di verità. Ricerca e innovazione abitano altrove.
E da molto tempo, come testimonia un aneddoto risalente al 1953. Di fronte ad un Ranuccio Bianchi Bandinelli esterrefatto (per l’ignoranza dell’interlocutore), un archeologo linceo di lungo corso che per carità di patria non nomineremo, manifestò tutta la sua riprovazione per il livello a cui si stava abbassando la veneranda Accademia, rea di concedere riconoscimenti “persino ad una miss” (sic!). Si trattava del Premio Feltrinelli assegnato a Mies van der Rohe. (m.p.g.)
Sulle nostre vetuste istituzioni culturali, in eddyburg:
Il colore della cultura: La nottola di Minerva
Vorrei partire citando una odiosa, odiata, quindi a modo suo azzeccata battuta: con la cultura non si mangia. Azzeccata perché dice qualcosa di vero, pur nella sua odiosa prospettiva, ovvero che stanti certi attuali orientamenti non è certo col sostegno al teatro off e al restauro di un bastione, che sarà possibile far profitti. Il che suscita tutta l’ovvia indignazione possibile, ma è innegabilmente vero, nel suo angusto enunciato. Così come è innegabilmente vero, che le riflessioni sugli ultimissimi eventi di violenza urbana in Italia si sono rapidamente quanto classicamente involate, da quasi subito, verso una miriade di massimi sistemi: tutti ragionamenti degnissimi, ovvio, e preziosi, a volte, ma che dal punto di vista della conoscenza specifica ci lasciano al punto di prima.
A Torino il movente razzista popolare, mescolato alla sottocultura familista e sessista, al disagio delle periferie abbandonate, ai tagli al sistema del welfare, e con un balzo ulteriore (che pare di approfondimento ma ahimè si allontana dal punto) dovremmo “chiederci se i venti anni di liberismo urbano, accettati come un assioma di fede e messi entusiasticamente in pratica dai governi progressisti nazionali e locali, non abbiano minato alla radice la città pubblica, il bene comune per eccellenza”, per usare le parole di Paolo Berdini. A Firenze la pianificata violenza nazifascista da terzo millennio, mescolata al generico razzismo contemporaneo, che di nuovo evoca sia lo smarrimento per l’inconoscibile della mente umana alla radice di tutte le violenze assurde del genere, sia le risposte di tipo politico-costituzionale sull’illegalità oggettiva di certi gruppi troppo a lungo tollerati nel ventennio berlusconiano del fascismo scongelato a scopo elettorale. Ottimi principi, con cui però ahimè si continua a “non mangiare”.
Ovvero a non battere chiodo nel caso, eventuale, in cui si volesse davvero risolvere qualche problema anziché invocare nuovi e diversi paradigmi generali di ordine sociale, politico, di convivenza ecc. E in cui si volesse anche evitare, operazione sempre utile, che altri, portatori sani di nuovi paradigmi alternativi, finiscano per imporli implicitamente, magari mescolati dentro alle solite politiche confuse e improvvisate: dagli interventi sul tema della verginità minorile, al tifo calcistico organizzato, all’economicamente insostenibile eliminazione dei campi rom. O d’altra parte al trattamento psichiatrico obbligatorio dei ragionieri nazisti, o alla telesorveglianza dei mercati rionali, alla stretta sul porto d’armi … Perché sono tutti temi evocati, prima o poi. Il che fa venire in mente un simile dibattito, egualmente confuso e contraddittorio, molto ma molto recente, anche se del tutto o quasi dimenticato: quello sulle rivolte britanniche di quest’estate.
Allora, le reazioni istintive non mancarono certo dei classici toni da critica ai massimi sistemi: la rivolta frutto di scelte urbanistiche sbagliate della sinistra, oppure da queste contenuta nei suoi effetti più potenzialmente devastanti; la rivolta determinata dal disinvestimento nei servizi sociali e di sostegno alle famiglie, oppure dal lassismo dei medesimi servizi, della scuola che non sa più insegnare disciplina e cittadinanza, della televisione che impone modelli scemi e consumisti. Ce n’era, insomma, per tutti i gusti, e anche di più. Ogni specialismo e specifico punto di vista poteva ampiamente trarre spunto per portare un po’ d’acqua al proprio mulino (credo di ricordarmi di averlo fatto anch’io, lo confesso, e forse più di una volta). Ma c’è almeno un aspetto che conferma la cultura un po’ più positivamente empirica del mondo anglosassone, dal quale noi sempre appesi lassù alle grandi categorie avremmo molto da imparare. Mi riferisco all’indagine sociologica urbana lanciata quasi immediatamente dalla London School of Economics in collaborazione col Guardian.
Ricerca per capire, con i classici strumenti dello studio sul campo, in che contesto sociale, motivazionale, ambientale urbano, familiare, di gruppi e bande, da quali ragioni individuali e collettive si è innescata l’inopinata esplosione delle riots. Il metodo parte dalle interviste dirette a chi è stato protagonista degli eventi, ed è a sua volta ispirato a quello utilizzato a Detroit negli anni ’60, anche nella collaborazione fra in istituto universitario e un quotidiano. Una seconda fase prevede indagini simili sull’altro versante della barricata, ovvero le forze del’ordine e la magistratura. Il fatto davvero interessante e innovativo, dal punto di vista dei non esperti, ovvero anche di chi eventualmente poi dovrà discutere e adottare materialmente politiche urbane coerenti, è che la ricerca Reading The Riots si può leggere in diretta, in progress, e alle elaborazioni dati, alle osservazioni specialistiche, affianca costantemente stimoli della cronaca, dei commenti, degli approfondimenti.
Poi, se si hanno orientamenti conservatori si può comunque continuare a leggere tutto come problema di mancata responsabilizzazione degli individui, se si è di sinistra trovare l’anello debole nella crisi del welfare nelle sue varie manifestazioni. Però di sicuro anche i più impavidi decolli verso l’iper-uranio di grandi principi e nuovi paradigmi avvengono sempre con l’ancoraggio di controllo del dato empirico in forma massimamente accessibile. Detto in altre parole: se esiste un riferimento di conoscenze certo e aperto, dotato di una propria struttura, legittimazione, elasticità, l’eventuale malafede o pura ingenuità del nostro cosiddetto “benaltrismo” (piaga nazionale peggio della malaria) è costretta suo malgrado a levare le tende. Un risultato non da poco.
Nella Torino degli anni '60 insieme ai cartelli «non si affitta ai meridionali» si era messo in moto un grande processo di integrazione basato sulla scuola pubblica e sui servizi sociali. Martedì su queste pagine, Marco Revelli attribuiva giustamente questo risultato alla cultura della solidarietà operaia allora vincente. Nella Firenze di Giorgio La Pira si mise in moto un inedito clima di sostegno alla vertenza delle officine Pignone minacciate di chiusura e lo stesso sindaco fu in prima fila nella battaglia per dare una casa ai fiorentini. Prese addirittura la decisione di requisire alloggi vuoti per darli agli sfrattati.
Le città di quegli anni avevano dunque un senso di appartenenza che, al di là della collocazione sociale di ciascuno gruppo, fornivano servizi, assistenza e integrazione. Erano insomma i luoghi della convivenza pubblica, e come tali venivano percepite da tutti. L'uccisione a freddo dei senegalesi nei mercati rionali fiorentini e il tentativo di pogrom contro i rom torinesi avvengono in un vuoto quotidiano, fatto di indifferenza e scetticismo. Come se la concezione stessa della città luogo pubblico fosse stata spazzata via. È questo il tema di fondo che ci interroga e al quale dobbiamo dare una risposta. Dobbiamo cioè chiederci se i venti anni di liberismo urbano, accettati come un assioma di fede e messi entusiasticamente in pratica dai governi progressisti nazionali e locali, non abbiano minato alla radice la città pubblica, il bene comune per eccellenza.
Ci accorgeremmo allora che i protagonisti di Torino e Firenze non sono «mostri»: sono i frutti avvelenati della devastazione culturale. La furia dei liberisti non ha infatti risparmiato nulla e nessuno. Le scuole dei piccoli centri sono state chiuse. Nelle grandi città vivono in perenne stato di instabilità per le carenze di manutenzione e di personale. I servizi sociali sono falcidiati dovunque «perché non ci sono i soldi». Questa formula magica non vale per il servizio sanitario nazionale che è stato invece privatizzato e affidato (a nostre spese) alle caritatevoli mani dei Don Verzè, degli Angelucci e dei Tarantini di turno. I trasporti urbani dal prossimo gennaio saranno ulteriormente tagliati fino quasi ad annullarli.
Ciascun cittadino è dunque solo nell'affrontare la vita: la rete sociale del welfare è stata cancellata. Le città sono state ridotte a luoghi anonimi, utili all'arricchimento della proprietà fondiaria. Nel decidere nuovi progetti non si discute mai se esiste o meno la convenienza sociale; se le abitazioni costeranno di meno; se ci si metterà meno tempo per andare al lavoro. Si discute soltanto - Sesto San Giovanni è una miniera al riguardo - di quante centinaia di migliaia di metri cubi occorre incrementare i progetti per ignobili arricchimenti e vergognose prebende.
Stanno in questo devastante deserto le radici dell'indifferenza, del rancore diffuso. E stanno sempre qui i rischi dell'accendersi di una ulteriore spirale di violenza razzista. Gli ingredienti ci sono tutti. Con la crisi economica sempre più grave aumenteranno le disuguaglianze e le fasce di emarginazione. Senegalesi e rom saranno, ancora di più, facili bersagli per tutti coloro che vogliono far dimenticare che le origini della crisi stanno in un sistema economico ed urbano perverso che non si ha il coraggio di fermare.
Il pericolo si aggrava ulteriormente se si analizzano i provvedimenti che i professori al governo stanno prendendo in questi giorni. Purtroppo destinati a cercare vie di fuga violente dall'impoverimento di larghi strati della popolazione.
Ambiente, paesaggio e beni culturali in tempo di crisi: a governo tecnico, qualche appunto tecnico.
Primo: ancora più fragile dell´economia italiana è il suolo della Penisola. Sono state censite almeno mezzo milione di frane, che interessano poco meno del 10% del nostro territorio. Non si tratta solo di morfologia naturale: il degrado è velocizzato dall´abbandono delle coltivazioni e da incendi boschivi spesso dolosi. Ma anche dalla cementificazione (infrastrutture e insediamenti abitativi) che sigillando i suoli accresce la probabilità di frane e alluvioni e ne rende più gravi gli effetti, dall´incuria per il regime delle acque, che riduce le risorse idriche e genera disastrose esondazioni. Queste traumatiche alterazioni del suolo comportano enormi danni (almeno 5 miliardi di euro negli ultimi sette anni, secondo l´Ispra) e continue perdite di vite umane. Molto vulnerabili anche le nostre coste, quasi 5.000 chilometri già in continua erosione e a rischio allagamento per almeno il 24% (dati Ispra), eppure ancora devastate dalla proliferazione di porti turistici, a celebrare i fasti di una prosperità che non c´è più. Eppure, mentre il degrado del territorio avanza con ritmo spietato, sentiamo ripetere la favola di uno "sviluppo" economico basato sul moltiplicarsi di autostrade e ferrovie (anche se inutili) e sul rilancio dell´edilizia (mediante condoni, sanatorie, "piani casa"). Ma se così fosse, perché questo tipo di sviluppo ha prodotto la crisi profonda che attraversiamo? Dopo la frana di Giampilieri presso Messina, che nell´ottobre 2009 uccise quaranta italiani, Bertolaso ne attribuì la colpa all´abusivismo edilizio, ma si affrettò a dichiarare che per consolidare quel tratto di costa mancano le risorse, «due o tre milardi di euro». Due giorni dopo, il ministro Prestigiacomo dichiarò che «il ponte sullo Stretto non è alternativo alla protezione dell´ambiente», e il ministro Matteoli disse che i lavori per il ponte devono continuare. Questa è l´idea dello "sviluppo sostenibile" che ci è stata fino a ieri propinata: non un centesimo per consolidare le coste dello Stretto, "uno sfasciume pendulo sul mare" secondo la celebre definizione di Giustino Fortunato, sì invece a una pioggia di miliardi per costruire su quelle frane un´opera faraonica (la definizione è del presidente Napolitano). Questo governo avrà la forza di mettere in discussione le favolette che ci sono state ammannite? Vorrà studiare caso per caso, con esperti terzi e non legati alle banche e alle imprese appaltatrici, la sostenibilità reale della Tav in Val di Susa e altrove? O vorrà allinearsi all´elegante dichiarazione dell´ad di Trenitalia, Moretti, secondo cui a sollevare dubbi contro la TAV sarebbero solo «quattro fessi»?
Secondo: il paesaggio italiano è fra i più devastati d´Europa. A fronte di un incremento demografico nullo, abbiamo il più alto consumo di suolo d´Europa. Incentivi, sanatorie e condoni hanno seminato per il Paese migliaia di capannoni "industriali" dove non si produce nulla e nulla viene immagazzinato (ma che "producono" vantaggi fiscali per chi li fa). Almeno due milioni sono gli appartamenti invenduti (centomila solo a Roma e dintorni), eppure si continua a costruire. Città preziose come Bologna vedono svuotarsi il centro storico, mentre si favoleggia di grattacieli, imitando gli sceicchi del Golfo Persico in una provinciale corsa a una "modernità" già stantia. La retorica delle energie rinnovabili aggrava la situazione: l´Italia è il Paese europeo con più incentivi a chi installa eolico e pannelli solari, mentre non spende quasi niente in ricerca per massimizzarne gli effetti e ridurne l´impatto. Se davvero credessimo nelle rinnovabili, dovremmo fare esattamente il contrario. Perché non dare, invece, incentivi a chi riusa edifici abbandonati, anziché costruirne di nuovi? O a chi salva o incrementa l´uso agricolo dei suoli? Cura del suolo e riuso degli edifici abbandonati potrebbero innescare un processo virtuoso, assorbendo manodopera di un´edilizia comunque in crisi e allo sbando.
Terzo: da quando il governo Berlusconi tagliò quasi un miliardo e mezzo al già languente bilancio del ministero dei Beni culturali (luglio 2008), le strutture pubbliche della tutela hanno visto un vertiginoso ridursi di funzionalità e capacità d´intervento. Mentre cala ogni giorno il numero degli addetti, per pensionamenti e assenza di turnover, e la loro età media si avvicina ormai ai 60 anni, aumentano sulla carta i loro compiti. Soprintendenti-superman devono reggere due, tre, quattro uffici spostandosi da una città all´altra, e intanto mancano i soldi per telefono, benzina, luce elettrica. Per rimediare, qualcuno ha una soluzione pronta: chiudere le Soprintendenze, accorpando gli ultimi superstiti in uffici regionali senza competenze, senza bilancio, senza poteri. Piccola osservazione tecnica: la tutela del paesaggio e del patrimonio artistico della Nazione, imposta dall´art. 9 della Costituzione, non si può fare se non c´è chi tutela. E nessuno al mondo ha mai inventato un sistema migliore delle Soprintendenze territoriali italiane, gloriosa istituzione che ha un secolo e deve essere rinnovata e migliorata, ma non messa in soffitta.
Il governo Monti ha raccolto altissime competenze, a cominciare da quelle del presidente del Consiglio e del ministro dello Sviluppo Passera. Da un governo come questo abbiamo il diritto di aspettarci un´analisi fredda e professionale dei dati, e la capacità laica di dirsi, e di dirci, la verità. È un dato positivo della "manovra" di questi giorni l´assenza della voce "dismissioni del patrimonio pubblico", una fonte d´introiti assai amata da Tremonti. Ed è da augurarsi che il patrimonio culturale e il paesaggio, protetti dalla Costituzione, non vengano mai più messi in vendita. È deludente, invece, che manchi un tentativo minimamente adeguato di combattere l´evasione fiscale: 120 miliardi l´anno di tasse non pagate sono una enorme risorsa economica non sfruttata, anzi generalmente rimossa dalla pubblica attenzione, con sfumature non poi tanto grandi fra centrodestra e centrosinistra. Attingervi potrebbe risparmiarci qualche lacrima sui sacrifici che ci attendono. Sarebbe essenziale per rispondere al sempre attuale invito di Keynes: sconfiggere "l´incubo del contabile", e cioè il pregiudizio secondo cui nulla si può fare, se non comporta frutti economici immediati. «Invece di utilizzare l´immenso incremento delle risorse materiali e tecniche per costruire la città delle meraviglie - scrive Keynes - stiamo creando ghetti e bassifondi; e si ritiene che sia giusto così perché "fruttano", mentre – nell´imbecille linguaggio economicistico - la città delle meraviglie potrebbe "ipotecare il futuro"». Questa «regola autodistruttiva di calcolo finanziario governa ogni aspetto della vita. Distruggiamo le campagne perché le bellezze naturali non hanno valore economico. Saremmo capaci di fermare il sole e le stelle perché non ci danno alcun dividendo» (è ancora Keynes che parla). Il paesaggio, l´ambiente, il patrimonio culturale sono come il sole e le stelle: illuminano e condizionano la nostra vita, corpo e anima. Perciò hanno un ruolo così alto nella Costituzione, dove incarnano l´idea che ne è il cuore: il bene comune e l´utilità sociale, sovraordinati al profitto privato. Paesaggio, ambiente, patrimonio richiedono sapienza tecnica per essere tutelati: ma richiedono anche un´idea d´Italia, un´idea declinata al futuro.
C'era una volta
di Loris Campetti
C'era una volta il contratto nazionale di lavoro, una delle più importanti conquiste democratiche del nostro secondo dopoguerra. Da ieri non c'è più, grazie allo strappo di Sergio Marchionne e al cambiamento di natura della Cisl e della Uil che da sindacati generali hanno scelto di regredire al rango di sindacati aziendali corporativi. Fim e Uilm, insieme ad altri addentellati padronali e di destra, hanno firmato l'estensione del cosiddetto «contratto Pomigliano» a tutti gli 86 mila dipendenti della Fiat. Senza alcuna delega da parte dei lavoratori ai quali sarà negato, oggi e per sempre secondo il diktat di Marchionne e grazie all'articolo 8 della manovra agostana Berlusconi-Sacconi, di giudicare con un voto quel che è stato deciso sulla loro pelle.
C'erano una volta anche le Rsu, figlie più o meno legittime degli antichi consigli di fabbrica, che comunque rappresentavano le volontà e il voto dei lavoratori. I delegati eletti democraticamente saranno ora sostituiti da ascari nominati dai sindacati firmatari degli accordi. Non si potrà più conoscere il consenso delle singole sigle perché i lavoratori sono stati retrocessi a pura mano d'opera, privi di diritti e di rappresentanza. Appendici delle macchine, variabili dipendenti del mercato, della globalizzazione e dei capricci dei padroni.
In Fiat, come in tutte le aziende italiane, c'era una volta la Fiom, 110 anni di vita, lotte, sconfitte e conquiste, il sindacato dei metalmeccanici più rappresentativo quando le rappresentanze venivano elette. Dal 1° gennaio del 2012 non ci sarà più nelle fabbriche dell'Eroe dei due monti Sergio Marchionne. Perché no? Perché la Fiom non ha accettato il ricatto «lavoro in cambio dei diritti» della Fiat dopo Cristo, rifiutandosi di firmare il contratto di Pomigliano.
C'era una volta il diritto di sciopero. E ad ammalarsi, a contrattare organizzazione del lavoro e straordinari. La firma di ieri ha cancellato in blocco questi diritti. Se vogliono lavorare gli operai dovranno accettare queste regole. Neanche questo è vero perché la Fiat sta andando a rotoli e viene chiuso uno stabilimento dopo l'altro. L'unica cosa che si può dire è che, grazie alla complicità dei sindacati di complemento, il padrone si è ripreso in mano tutto il potere. E' la vendetta rispetto alle conquiste del '69 e degli anni Settanta. Una vendetta preparata lungamente con la complicità dei governi e della politica quasi in blocco. La manovra di Marchionne si affianca a quella di Monti e insieme rappresentano i pilastri di una nuova era basata sulla dittatura della finanza e dei padroni. Il terzo pilastro è l'insieme del sindacato confederale, con l'eccezione della Cgil se finalmente sceglierà di schierarsi con la «sua» Fiom senza se e senza ma. Il quarto pilastro è il Partito democratico, diviso, incapace persino di leggere i passaggi epocali.
Il voto separato di ieri ha spazzato via il fantasma della nuova unità sindacale materializzatosi per un sol giorno, anzi per tre ore. E oggi un Marchionne ringalluzzito da una vittoria costata appena trenta danari, potrà raccontare nuove bugie sull'italianità della Fiat parlando dalle linee di montaggio di Pomigliano liberate dai delegati e dagli iscritti della Fiom. Che pure ci saranno, ma fuori dai cancelli. E il manifesto insieme a loro.
Il segno del comando
di Mauro Ravarino
Divieto di sciopero e sanzioni per chi non rispetta gli accordi. La Fiat monetizza i diritti con un premio di risultato che gli operai non vedevano da due anni. A Torino, la firma che «cambia la natura del sindacato». Senza la Fiom
TORINO
Tutto come da copione o quasi. Solo con qualche giorno di ritardo. I sindacati del «sì» hanno firmato con il Lingotto, ieri all'Unione Industriale di Torino, il nuovo contratto del gruppo, che prevede - dal primo gennaio - l'estensione dell'accordo di Pomigliano a 86 mila e 200 dipendenti di oltre sessanta stabilimenti di Fiat Auto e Fiat Industrial. Una firma senza la Fiom, estromessa dalla trattativa e, ben presto, anche dalla rappresentanza nelle fabbriche. L'intesa, come quella già siglata per Mirafiori, prevede, infatti, che le Rsa siano elette solo tra i sindacati firmatari (Fim, Uilm, Fismic, Ugl e Associazione Capi e Quadri). «Con questo accordo cambia la natura del sindacato confederale in Italia - commenta Maurizio Landini, segretario generale Fiom - Chi ha firmato, ha accettato di ridursi al ruolo di sindacato aziendale e corporativo. Fim e Uilm hanno agito contro la loro natura confederale».
Sepolto e disdetto il contratto nazionale, salutata Confindustria, il Lingotto ha plasmato per tutto il gruppo un contratto su misura e senza l'intenzione di interpellare i lavoratori con un referendum. Sulle materie regolate dal contratto, i sindacati hanno il divieto di indire scioperi; a questo, si affianca l'ormai famosa «clausola di responsabilità»: chi non rispetta gli accordi verrà sanzionato in termini di contributi e permessi sindacali. Tra le novità dell'intesa ci sono la maggiorazione dal 50% al 60% dello straordinario al sabato, l'aggiunta ai cinque scatti di anzianità biennali di un sesto scatto quadriennale, un aumento dello 0,5% del contributo aziendale ai fondi pensione integrativi. E, poi, il decantato premio straordinario di 600 euro (da notare che per due anni consecutivi la Fiat non ha saldato il premio di risultato), che tutto i lavoratori, compresi quelli in cassa integrazione, riceveranno nella busta paga di luglio.
Si lavorerà su 18 turni (3 al giorno su 6 giorni), con una settimana di 6 giorni lavorativi e la successiva di 4 giorni. Salgono a 120 , rispetto alle attuali 40, le ore di straordinario a disposizione dell'azienda, senza bisogno di contrattazione. Alla fine, sono rientrati anche i dubbi della Uilm sull'assenteismo, pure in questo caso, le volontà dell'azienda non sono state incrinate: più o meno ricalcano lo schema Mirafiori (il Lingotto non pagherà, infatti, i primi due giorni di malattia se l'assenteismo supererà il 3,5 per cento), seppur Rocco Palombella, leader Uilm, ribadisca: «Abbiamo condiviso una formulazione che garantisce i malati veri con delle norme stringenti utili a dissuadere quelli "finti"».
Secondo i firmatari, in seguito all'intesa i lavoratori del Gruppo beneficeranno di un incremento salariale medio del 5,2% sulla paga base. «Ora che abbiamo chiuso il capitolo contratto, dobbiamo aprire il capitolo lavoro» sottolinea Bruno Vitali, Fim. Ma la firma è arrivata senza nessuna promessa della Fiat e, per ora, di modelli nuovi non se vedono.
Esulta l'ad Sergio Marchionne, che parla di svolta storica nelle relazioni sindacali, e lancia un messaggio ai fedelissimi: «A quei sindacati che hanno abbracciato con noi questa sfida va riconosciuto il coraggio di cambiare le cose, va dato atto della mentalità innovativa che è l'unica in grado di costruire una base solida per il futuro». E bolla la Fiom come rappresentante dell'«antagonismo per professione». Per Susanna Camusso «si impone il tema della modifica dell'Articolo 19 dello Statuto dei lavoratori» per recuperare la rappresentanza Fiom.
«L'accordo firmato a Torino peggiora le condizioni di lavoro e limita le libertà sindacali per i lavoratori del Gruppo. Il governo non può stare a guardare» tuona Landini. «La Fiat - spiega Giorgio Airaudo, responsabile Auto Fiom - ha costretto alla resa una parte del sindacato imponendogli l'uscita dal contratto nazionale nella più importante azienda metalmeccanica privata italiana. Noi continueremo la nostra vertenza e vedremo se avranno il coraggio di far votare i lavoratori». Per Federico Bellono, Fiom Torino, «si sono limitati a registrare le volontà dell'azienda. I 600 euro sono pochi se si pensa a che i lavoratori non percepiscono premi da due anni». Infine, Mimmo Pantaleo, Flc: «È un grave attacco ai diritti costituzionali e alla democrazia perchè esclude il diritto dei lavoratori a poter essere rappresentati dalla Fiom».
Luciano Gallino
«È la fine del contratto nazionale»
intervista di Antonio Sciotto
«L'accordo esteso a tutti gli stabilimenti Fiat è un passo verso la fine del contratto nazionale. Un fatto grave in un momento in cui i lavoratori sono divisi e frammentati, si perdono tutele fondamentali». Il professor Luciano Gallino, sociologo del lavoro molto attento al mondo dell'industria, non ha dubbi: l'intesa siglata ieri è tutta a perdere.
Dunque, professor Gallino, diciamo addio ai contratto nazionale.
È perlomeno un passo verso la sua fine, a cui hanno contribuito gli ultimi governi, in particolare quelli di Berlusconi: hanno sparato a zero, trovando spesso riscontro nella Confindustria. Non credo che questo sia un buon segno, perché il contratto nazionale in Italia ha almeno un secolo di storia, è stato e dovrebbe essere uno strumento importante di difesa complessiva dei diritti dei lavoratori, ha l'importante funzione di redistribuire il reddito, mantenendo il contatto con l'aumento della produttività e del carovita.
Ma ha ancora senso difendere il contratto nazionale quando il lavoro è ormai sempre più diviso e figure come ad esempio le partite Iva non ci rientrano nè mai ci rientreranno?
Io credo che abbia sempre e comunque un senso, per tutti quei lavoratori che cerchino una garanzia di base e collettiva. Anzi, oggi ci sono ancora maggiori ragioni per difenderlo. Quando c'erano le fabbriche con migliaia di lavoratori, per certi aspetti un contratto per un grande sito copriva la maggior parte degli addetti dell'intero settore, ma adesso che le fabbriche con migliaia di addetti non ci sono più, perché sono disperse sul territorio, il contratto nazionale funge da essenziale contrappeso alla frammentazione.
I lavoratori Fiat hanno aumentato gli straordinari comandati, la fatica alla catena con pause ridotte, perdono il diritto di sciopero. A fronte, però, sarebbe assicurata la permanenza della Fiat in Italia, e una monetizzazione con premi di produzione. È forse necessario in un momento in cui le buste paga sono sempre più sottili?
Non direi che è necessario. Ma è certo che un lavoratore messo alle strette, in preda al timore di perdere il posto, in una situazione in cui sono letteralmente milioni quelli che non hanno un'occupazione, o sono precari e malpagati, possa finire per dover scegliere il male minore. A me però questa non sembra una buona strada per relazioni industriali progressive. Mi pare piuttosto che vi sia un'ulteriore discesa, un arretramento, verso relazioni non dico pre-moderne ma quasi. Un regresso verso il modello statunitense, dove tanto le relazioni industriali nel complesso quanto la legislazione e la giurisprudenza sul lavoro, sono molto più arretrate che da noi, o meglio lo erano fino a ieri. Stiamo correndo indietro per raggiungere i parametri degli Usa.
Sembra approfondirsi la divisione tra Cgil-Fiom da un lato e Cisl-Uil dall'altro. Le Rsu Fiom sono escluse perché si applicherà l'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori. Aumenterà il conflitto dentro le fabbriche?
Lo scenario sarà sempre più frammentato in una miriade di vertenze locali e puntiformi. Per certi aspetti è un contributo a una sorta di «giungla» delle relazioni industriali. Soprattutto se non si trovasse il modo di bloccare, se non addirittura di abolire, l'articolo 8 della manovra, che permette qualsiasi tipo di deroga alle leggi. Molti si soffermano solo sull'aggiramento dell'articolo 18, ma per certi versi direi che non è nemmeno l'aspetto peggiore. Nel secondo comma dell'articolo 8 sono minuziosamente indicate tutte le materie su cui è possibile derogare: dalle assunzioni con contratti atipici alle paghe, fino agli agli orari e all'organizzazione del lavoro. E tutto questo, neanche con la maggioranza dei sindacati, ma basta quella delle Rsu. Altri gruppi potrebbero decidere di seguire l'esempio Fiat, disegnandosi un contratto di settore e uscendo da quello nazionale: aggiungendo questo aspetto alla esclusione delle Rsu e alle deroghe permesse dall'articolo 8, abbiamo un mix disastroso, un combinato disposto micidiale che alla lunga non gioverà neanche alle aziende. Perché le imprese hanno l'interesse di fondo ad avere un interlocutore relativamente unitario, che non cambia voce e faccia a seconda che sia laziale, siciliano o veneto. Quanto all'articolo 19 dello Statuto, credo dovrebbero pronunciarsi i giuristi, ma certo, se ce ne sono le ragioni, potrebbe essere necessario modificarlo.
Ma incassato questo accordo, almeno Marchionne resterà in Italia? O lei vede comunque una Fiat in fuga?
Se ragioniamo sui dati e sulla realtà attuale, è piuttosto preoccupante. A Pomigliano si parla non già di riassumere tutti i 5 mila operai, ma intanto solo un migliaio entro febbraio 2012: stanno facendo una selezione con aspetti che sembrano un po' strani, che mettono in difficoltà la Fiom. Termini Imerese ha chiuso e non si sa quale sia il suo futuro. A Mirafiori non so da quanto tempo lavorano una settimana al mese, e si annuncia una cassa integrazione fino a metà 2013, in vista di un nuovo modello che non si sa che cosa sia. Quest'anno la produzione di vetture Fiat toccherà il minimo storico, molto al di sotto delle 600 mila unità. Il che vuol dire meno della Francia, della Germania, del Regno Unito, della Spagna, perfino della Repubblica ceca e della Polonia. Il grande produttore europeo che se la batteva alla pari con la Volkswagen, è oggi al settimo/ottavo posto come produttore nazionale: la Volkswagen quest'anno arriverà a circa 5 milioni di vetture prodotte in Germania, più circa 2 milioni all'estero. E intanto il famoso piano «Fabbrica Italia» Fiat ancora nessuno lo ha visto.
Ma lasciare l'Italia per paesi più a basso costo, è almeno una scelta furba sul piano economico?
Io ribalterei la visione: mi chiederei cosa ci interessa come cittadini italiani. Credo innanzitutto i posti di lavoro, e le imposte pagate in Italia, per produzione fatta nel nostro Paese. Ci interessa la ricerca, e che l'industria nel suo complesso resti da noi. Che poi la Fiat abbia migliaia di lavoratori all'estero non ci riguarda più di tanto, sono posti di lavoro e imposte versate fuori.
HANNO DETTO
«Un segnale di grande speranza per il paese», dice Sergio Marchionne: «Quanto fatto oggi dimostra che i grandi passi si possono compiere quando si lavora tutti nella stessa direzione e quando c'è condivisione d'intenti». «L'intesa peggiora le condizioni di lavoro e limita le libertà sindacali per i lavoratori del gruppo», afferma Maurizio Landini: «il governo non può stare a guardare perchè l'accordo non dice nulla degli investimenti». «l'accordo impone il tema della modifica dell'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori», commenta Susanna Camusso. L'accordo è stato raggiunto senza la Fiom, che in base all'art. 19 è esclusa dalla rappresentanza degli stabilimenti.
MILA DIPENDENTI
Il variegato mondo Fiat, composto da 87 mila dipendenti, avrà da oggi in poi un contratto unico, mutuato su quello di Pomigliano, siglato l'anno scorso. La firma sull'intesa è stata posta da Fim, Uilm, Fismic e Ugl, con esclusione della Fiom, che perde così le sue Rsu
MILA AUTOMOBILI
Il gruppo che ha sede al Lingotto di Torino produce circa 600 mila vetture in Italia, un numero in costante calo, mentre si abbassano anche le vendite. In controtendenza gruppi come la Volkswagen, che produce nel paese di origine (la Germania), ben cinque milioni di automobili
Sono due anni che gli Stati europei vivono una crisi che somiglia a una guerra, di quelle che cambiano il mondo. La guerra non è conclusa e quel che imparammo nel ´45, oggi l´apprendiamo con terribile lentezza. Allora tutti si gettarono in una grande corsa: per ricostruire, e anche ricostruirsi interiormente. Oggi si procede a fatica, e per anni è prevalsa l´inerzia o perfino la denegazione. Siamo vissuti come immersi nelle acque dell´ottimismo: avevamo l´Unione europea, avevamo la moneta unica come apogeo. Il disastro, ritenuto impossibile, non era calcolato.
Invece il disastro era non solo possibile ma dietro l´angolo, e per questo urge un risveglio analogo a quello postbellico degli europei e dei loro leader (Monnet, Adenauer, De Gasperi). Alcuni, come Paul Valéry, si svegliarono già prima, dopo il ´14-‘18: «Noialtri, civilizzazioni, sappiamo ora che siamo mortali. Il tempo del mondo finito comincia». Non dimentichiamo mai che da tale presa di coscienza nacquero due cose, non una: l´Europa, e il Welfare. La prima era un no ai nazionalismi, la seconda alle recessioni punitive che scaraventavano genti disperate nelle dittature. Oggi siamo a un bivio simile, e un primo parziale risveglio è iniziato al vertice dell‘8-9 dicembre a Bruxelles.
Il tempo del mondo finito comincia con la consapevolezza che la moneta è davvero in pericolo, se non s´accompagna a un´unione economica-politica che leghi più strettamente i paesi dell´Euro. Se i governi non osano, finalmente, dire la verità ai confusi, spaventati cittadini: le nostre sovranità nazionali sono troppo fatiscenti, per fronteggiare una mutazione mondiale che si manifesta con il caos dei mercati. Non possiamo più permetterci finti sovrani. Neanche possiamo permetterci di dire, come tanti cittadini mossi da giusta rabbia verso i sacrifici richiesti, che la colpa dei debiti eccessivi è imputabile all´1 per cento dei popoli. Da trent´anni l´elettore ha legittimato, votandoli, governi sperperatori, custodi di caste privilegiate.
Anche i politici tedeschi hanno mentito ai cittadini: un atavico impasto di ordine e paura ha abituato all´autodisciplina la nazione, ma anch´essa ha creduto nell´Euro inattaccabile. La Sueddeutsche Zeitung è severa con le sue élite: «Non si può salvare l´Euro tedesco, dando all´Euro europeo solo garanzie limitate». La cultura della stabilità è un bene (tutt´altro che imperiale) che Berlino ha disseminato in Europa; ma è mancata la coscienza che anche il suo piccolo mondo finiva, se cadeva l´Unione. Che anche la solidarietà sociale è un bene pubblico europeo, come la stabilità. Non si può fare l´Euro senza unione economico-politica, dicevano gli scettici tedeschi. Ora che l´unione si può fare s´imbronciano, e fanno come se l´Euro fosse un punto d´arrivo, non di partenza.
Il vertice di Bruxelles è stato giudicato negativamente da molti europeisti, ma potrebbe essere un ricominciamento. Non per la prima volta, i governi più consapevoli hanno deciso di isolare Londra, di tentare un´unione fiscale più compatta partendo da un gruppo ristretto di paesi: quelli dell´Euro, cui s´aggiungerà chi vorrà. La loro sovranità diminuisce, visto che compiti cruciali, di controllo preventivo e sanzione, sono delegati a organi sovranazionali come la Commissione, la Corte di giustizia, la Banca centrale che agirà come agente del Fondo salva-stati operativo nel luglio 2012, prima del previsto. Alcuni denunciano l´accordo intergovernativo: l´Europa comunitaria dei 27 sarebbe scavalcata, i conflitti col Trattato di Lisbona sicuri. Ma anche questo dobbiamo ricordare: l´Europa si è sempre perfezionata a scaglioni (Schengen, moneta unica). I cavilli giuridici si superano, se si vuole.
Un altro progresso è l´abbandono, sia pur stentato, del voto all´unanimità (il liberum veto che già una volta, nella Polonia del ´700, fece morire una nazione). Il Fondo salva-Stati abbandonerà, in emergenza, il diritto di veto. E certo ci sono parole aspre, come l´automatismo delle sanzioni. Ma l´automatismo è benefico, non fosse altro perché mette fine a quella che Monti chiamò, tempo fa, «l´eccessiva deferenza fra stati dell´Unione». In un regime di deferenza i controllori giudicano i controllati, omertosamente si proteggono l´un l´altro. Nel trattato dell´eurozona, solo una maggioranza qualificata di stati potrà opporsi a sanzioni automatiche.
Un´ondata di sdegno si è levata ultimamente contro Berlino: per l´arroganza di certe condotte (Volker Kauder, deputato democristiano e uomo di fiducia della Merkel, ha detto: «L´Europa ora parla tedesco!»). Lo sdegno è stato utile, e soprattutto è servita l´insurrezione socialdemocratica. L´europeismo sta rimettendo radici nella sinistra tedesca, e il Pd farà bene a sostenerla in ogni modo. Il risultato è stato che la Merkel ha dovuto scuotersi dal sonno dogmatico che prescriveva di metter prima «la casa in ordine» e poi fare l´Europa: nei giorni precedenti il summit, sembra aver capito che nessuno stato da solo può salvare l´Europa. Che dare autorità alla Commissione, alla Corte di giustizia, alla Bce è infinitamente più efficace del grido accentratore di un solo Stato. Non a caso la Bce ha annunciato, forte dell´unione fiscale voluta dall´eurozona, che da ora in poi sosterrà le banche per periodi prolungati (tre anni), accettando come garanzie i titoli di Stato di scarsa qualità. Di fatto la Bce già è prestatore di ultima istanza, senza dirlo, assicurando liquidità alle banche, e quindi respiro a Stati e cittadini.
Nel suo discorso al congresso socialdemocratico, il 4 dicembre, Helmut Schmidt ha puntato il dito su contraddizioni europee non più sopportabili: non solo fra sovranità statali e moneta unica, ma anche fra regole del Trattato. Quest´ultimo vieta, ad esempio, il salvataggio europeo degli Stati. Ma è in conflitto con il principio di sussidiarietà che Schmidt riassume così: «Quando uno Stato da solo non riesce a regolare i propri problemi, l´Unione deve farsene carico». La stessa costituzione tedesca è tra le più ardite su questo punto: nell´Articolo Europeo aggiunto dopo la moneta unica (nr 23), è scritto che la Germania, «per realizzare l´Europa unita, può delegarle sovranità».
Val dunque la pena essere prudenti, quando si accusa la Germania. Chi si è opposto alla diminuzione del diritto di veto e difende prerogative degli Stati non è Berlino, ma Parigi. È a Parigi che occorre una rivoluzione europea, più che in Germania. Molte rigidità tedesche sono state inasprite, lungo un ventennio, dall´Eliseo. E i socialisti non sono meglio di Sarkozy. Hollande, candidato all´Eliseo, fonda la propria campagna sul diniego d´ogni ingerenza europea. Quanto all´attuale Presidente, l´intervista che pubblichiamo su Repubblica è pura ipocrisia: l´unione fiscale va bene perché il potere «torna ormai agli Stati (...) non s´organizza più attorno alla Bce e alla Commissione». Bugie siffatte confondono i cittadini, e pure i mercati.
Il nuovo ordine europeo è duro per i popoli. Il mondo cambia; ricchezze e speranze traslocano da Ovest a Est. Di fronte non abbiamo 1-2 anni, ma molti anni di bassa crescita. Tanto più duro è l´ordine se non si salva l´idea del Welfare, oltre che l´Euro. Se i mali scatenatori della crisi (diseguaglianze, privilegi, corruzione, agenzie di rating asservite alle lobby) ci vengono ripresentati addirittura come farmaci. Se l´Europa non comincia a pensare una nuova crescita, ecologica, e a darsi i mezzi (non l´odierno avaro bilancio) per scommettere tutti insieme sullo sviluppo oltre che sulla stabilità. Lo chiedeva il socialista Papandreou: mai fu ascoltato.
Le elezioni del Parlamento europeo, nel 2014, saranno una prova decisiva. Se la Commissione avrà più peso, è essenziale che il suo Presidente sia eletto dai popoli. È indispensabile che anche i deputati dell´Unione si sveglino: reclamando tasse sulle transazioni finanziarie, e una severa sorveglianza di banche, borse. Martin Schulz, futuro Presidente, è stato chiamato da Schmidt a una «rivolta del Parlamento europeo». È essenziale che nasca una vera agorà europea, che vinca l´ignoranza dei più e le ipocrisie dei pochi.
La critica, a volte anche giustificata, a certe idee di sviluppo sostenibile locale, è quella di essere passatiste, reazionarie, e pure un po’ stupidotte. Stupidotte perché negano l’evidenza: ve ne state lì nel vostro paesello a vantarvi di non consumare suolo agricolo per case e capannoni, ma poi da lì prima o poi dovete e volete uscire, magari anche in macchina, a consumare quello altrui: quando entrate nei capannoni a lavorare, a fare shopping, a divertirvi ecc. Il che, pur detto spessissimo in malafede, è abbastanza difficile da negare, visto che “agire globalmente” non è proprio cosa alla portata della casalinga o dello studente comune. Chissà se, messi concretamente di fronte al modello di vita in spartano stile Transition Town coerente con questi presupposti, gli elettori oggi favorevoli a certe politiche non cambierebbero completamente idea. La debolezza implicita delle petizioni di principio, si sa.
Se lo chiedono da tempo ad esempio gli operatori delle trasformazioni edilizie e urbanistiche su larga scala, ovviamente legate a filo doppio sia agli stili di vita che al modello di sviluppo che li affianca. O almeno alcuni di questi operatori, quelli che cercano nuovi percorsi di mercato coerenti con gli orizzonti delineati dalla scienza, quelli sì e per forza identici ai presupposti di Transition Town: il riscaldamento globale, l’esaurimento delle scorte petrolifere, non sono una profezia di Nostradamus, e anche se dovesse arrivare la bacchetta magica di qualche rivoluzionaria scoperta tecnologica, di sicuro dovremo rivedere la nostra vita, o meglio riorganizzarla completamente. Gli spazi delle attività economiche, ad esempio. Ovvero proprio quelli verso cui si dirigono ogni giorno, incoerenti e peccaminosi, gli abitanti dei comuni a crescita zero.
Una risposta interessante ci arriva in questi giorni dalla California. Lo stesso posto in cui un secolo fa scoccava la scintilla del modello di sviluppo socioeconomico territoriale a base automobilistica, con l’edilizia da un lato, le autostrade pubbliche dall’altro, e sul versante produttivo l’agricoltura industrializzata e le imprese più innovative, come quelle informatiche. Ancora oggi quel modello sembra trionfare vistosamente con l’eredità urbanistica di Steve Jobs via Norman Foster: la nuova sede centrale della Apple a Cupertino, office park suburbano del tutto autonomo, astronave atterrata in un bosco raggiungibile solo in auto, dove tutti i quadri dirigenti della multinazionale convergono ogni mattina dalle villette sparse, a raccogliersi attorno alla direzione di impresa. Pare un film anni ’50, e probabilmente lo è, ma pone un problema: se lo fanno loro, a maggior ragione non c’è via d’uscita? L’unico modo per sopravvivere è segare il ramo su cui stiamo seduti (perché questo, ci dicono, stiamo facendo)? Ecco, dalla California uno studio Urban Land Institute ci risponde forse no.
Firmato dall’urbanista Arthur Nelson per conto di quella che tutto sommato è una associazione di costruttori edilizi, il rapporto The New California Dream vuole in tutto e per tutto inserirsi nel mercato, ma farlo individuando una nuova potenziale domanda da parte delle famiglie e delle imprese più innovative, ovvero quelle che hanno colto davvero le prospettive indicate dalle leggi statali. Quelle leggi che, prendendo piuttosto sul serio i temi energetici e climatici, stanno iniziando a definire il modello di sviluppo caratteristico della prossima generazione. Gli spazi produttivi per esempio: conti alla mano, le destinazioni d’uso già deliberate a livello delle principali aree metropolitane (che pesano per l’80% e oltre del totale), insieme agli ambiti già materialmente occupati da manufatti e servizi industriai, commerciali ecc. SONO ABBONDANTEMENTE SUFFICIENTI A COPRIRE LA DOMANDA PER MEZZO SECOLO.
Non si tratta, è il caso di ricordarlo, delle proiezioni di un’associazione ambientalista, o di un accademico interessato soprattutto a pubblicare e farsi notare, ma di uno studio che mette al centro gli interessi dei costruttori, e dice quanto ci sia da lavorare, per un paio di generazioni, esclusivamente per il cosiddetto retrofit edilizio, ambientale, urbanistico delle zone industriali in senso lato. Ovvero inserendo sia l’adeguamento dei fabbricati in quanto tali, sia la ricostruzione e cambio di destinazione, sia infine i grandi interventi integrati e compartecipati, dal parco scientifico su area dismessa alla riconversione multifunzionale interi di settori urbani. Come si intuisce, sta proprio qui la chiave per il contenimento del consumo di suolo: nel recepire e indicare un modello progressivo e progressista, in cui alla quantità si sostituisce la qualità.
Con osservazioni apparentemente banali ma che non lo sono affatto se osservate in termini strategici, come la miniaturizzazione di tante apparecchiature, o la pura riduzione dei volumi corrispondenti a ciascun posto di lavoro grazie all’innovazione tecnologica, per non parlare di altre varie forme di innovazione organizzativa, come il telelavoro che trasforma spazi fissi in zone a rotazione. C’era qualcosa di intuitivamente profetico, nelle immagini patinate della creative class sempre intenta a digitare su portatili dai tavolini di un bar vista mare. Mancava però del tutto il contesto in cui quel piccolo gruppo elitario potesse fare filiera, ovvero un territorio socialmente sostenibile abitato anche da impiegati, studenti, immigrati, e abitato a basso impatto ambientale senza che questo significasse sottosviluppo. L’immagine dello zero consumo di suolo dell’Urban Land Institute, accoppiata alla montagna di lavoro per la trasformazione dell’esistente, pare davvero una quadratura del cerchio.
Però si dimentica apparentemente un aspetto, quello della pura speculazione che sta a sostenere ormai tutti i modelli divoratori di territorio a vanvera. Lo stesso che con la scusa dei posti di lavoro fa spuntare in tutta la pianura padana (e in tante altre parti del mondo) selve di capannoni qui, mentre se ne svuotano in contemporanea altri già esistenti a pochi chilometri di distanza. E il medesimo discorso si potrebbe fare per gli insediamenti commerciali e assimilati. La creazione di posti di lavoro non ha nulla a che vedere con l’occupazione di nuovo spazio. Almeno su quello, si dovrebbe essere d’accordo, invece purtroppo, complice una politica confusa e conformista, si finisce per subire ricatti squallidi e di corto respiro. Corto respiro sempre nostro, ahimè. Qualcuno ci aiuta a tirare il fiato?
(sul rapporto ULI, ho fatto altre considerazioni a proposito della parte residenziale, nonché allegato l’originale; leggibile in Mall)
Titolo originale: You can do anything in a department store these days – including eat. But it doesn't mean you should – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Vicino all’appartamento in cui sono cresciuta a New York c’era una grande magazzino Woolworths, e spesso il sabato mia nonna mi ci portava a pranzo. Si passeggiava per le scansie di dolcetti e cancelleria, annusando l’odore di caffè fresco. Poi ci sedevamo. La cameriera prendeva nota con una matita che teneva dietro l’orecchio, scarabocchiando su un blocchetto. “Cosa vi diamo oggi?”. Io ordinavo sempre la stessa cosa. Formaggio alla piastra e frappe al cioccolato. I bei tempi quando ancora tolleravo il lattosio.
Negli anni settanta non importava più niente a nessuno di cose appena preparate. Neppure a me. Forse non esisteva più nemmeno una vera e propria cucina, non ne sono sicura. Le focacce che si vedevano nelle scatole avevano strutto a sufficienza per conservarle in eterno. Lo strutto era un po’ come oggi il Botox della chirurgia plastica. Gli addetti preparavano solo i panini a richiesta, tutto il resto si scaldava alla piastra o nella friggitrice. Il bancone aveva la forma di un nodo gigante, e così potevamo in contemporanea guardare loro che giravano abilmente le polpette, mentre la clientela del negozio si sceglieva retine per capelli o calze.
Quando sono diventata grande, la catena Woolworths era quasi sparita, e a mangiare andavamo invece da Saks sulla Quinta Strada o da Bloomingdales. La nonna adorava mangiare nei grandi magazzini. Forse per via della comodità di poter fare contemporaneamente le sue due cose preferite: spendere e mangiare. Io l’ho sempre trovato claustrofobico, mangiare in un ristorante che sta vicino al reparto biancheria. E non mi godo il cibo se mancano le finestre. Poi, non essendo affatto una devota dello shopping, trovo la cosa stressante. Di solito entro, prendo quel che mi serve, e esco. Quanto shopping dovrà mai fare chi deve addirittura fermarsi un attimo a fare il pieno?
Certo, lo so che è molto diffuso far di tutto in un solo posto, e che si tratta di una tendenza che non accenna a diminuire. In America, Wal-Mart ha eliminato del tutto la necessità di uscire. Ci si può far visitare dal dottore, cenare, comprare arredi da giardino e biscotti. Al Mall of America in Minnesota, ci si può sposare, o si può divorziare, far battezzare il bambino, la dimostrazione che si può anche passare tutta la vita lì dentro.
Oggi che pure le farmacie stanno diventando come i grandi magazzini, è solo questione di tempo prima che comincino a offrire pranzi. Ma io non ho nessuna voglia di mangiare un panino nello stesso posto in cui qualcun altro si sta comprando una crema per le emorroidi. E poi quei panini preconfezionati. A casa, te lo prepari e poi lo mangi. Non c’è nessuno che se li prepara e li mette via con giorni di anticipo. Peggio ancora, il sushi preconfezionato. Certo è piuttosto improbabile che esista un cuoco specializzato in sushi nei profondi meandri di un negozio Boots ad affettarvi tonno fresco. Cioè, quella roba è stata preconfezionata in una fabbrica da qualche parte nel Galles. In definitiva si tratta di un sushi che migra molto più del salmone dell’Atlantico.
Questa storia della comodità ci sta levando ogni tipo di esperienza culinaria. La gente oggi fa spesa al distributore di benzina. Certo, molto bene comprare localmente ciò che si mangia, però li avete mai visti i filari di pomodori dietro il garage? Quarant’anni fa, a meno di abitare in una comune hippy, non importava a nessuno se il cibo era biologico. Adesso invece abbiamo un palato più esigente. Ma c’è sempre qualcosa che non va, vedendo un ananasso sugli scaffali dell’edicola. Anche se mia nonna, ovviamente, ne sarebbe stata entusiasta.
Ma, quando tutto questo sarà finito, che cosa sarà della politica e delle sue istituzioni? Diremo che è stata una parentesi oppure una rivelazione? Parentesi che, come si è aperta, così si chiude ridando voce al discorso di prima; oppure rivelazione di qualcosa di nuovo, sorto dalle macerie del vecchio?
Queste domande devono apparire insensate a coloro che pensano o sostengono che nulla di rilevante sia accaduto e che tutto, in fondo, sarà come prima, così forse credendo di meglio contrastare la tesi estremistica di coloro che, per loro irresponsabili intenti, hanno gridato allo scandalo costituzionale, al colpo o colpetto di stato. In effetti, chi potrebbe dire che la Costituzione è stata violata?
La scelta del presidente del Consiglio è stata fatta dal presidente della Repubblica; il presidente del Consiglio ha proposto al presidente della Repubblica la lista dei ministri e questi li ha nominati; il governo si è presentato alle Camere e ha ottenuto la fiducia; leggi e decreti del governo dovranno passare all´approvazione del Parlamento. Non c´è che dire: tutto in regola. Dovrebbero essere soddisfatti perfino coloro i quali pensano che la legge elettorale abbia sterilizzando poteri e possibilità del presidente della Repubblica.
Come il potere di ricercare in Parlamento eventuali maggioranze diverse da quella venuta dalle elezioni. Per costoro, in caso di crisi, si dovrebbe necessariamente, sempre e comunque, ritornare a votare. Quella che si è formata per sostenere il nuovo governo, infatti, non è una maggioranza alternativa alla precedente; è – di fatto – la stessa, soltanto allargata a forze di opposizione chiamate a condividerne le responsabilità. Abbiamo girato pagina quanto alle persone al governo – il che non è poco – ma non abbiamo affatto rotto la continuità politica, come del resto il presidente del Consiglio, con atti e parole, continuamente, tiene a precisare. Onde potrebbe dirsi: prosecuzione della vecchia politica con altra competenza e rispettabilità. Nelle presenti condizioni politiche parlamentari, del resto, non potrebbe essere altrimenti.
Per quanto riguarda la legalità costituzionale di quanto accaduto, nulla dunque da eccepire. Semplicemente, il presidente della Repubblica ha fatto un uso delle sue prerogative che è valso a colmare il deficit d´iniziativa e di responsabilità di forze politiche palesemente paralizzate dalle loro contraddizioni, di fronte all´incombere di un rischio-fallimento, al tempo stesso, economico e finanziario, sociale e politico, unanimemente riconosciuto nella sua gravità e impellenza. Fine, su questo punto.
È invece sulla sostanza costituzionale, sotto il profilo della democrazia, che occorre aprire una discussione. È qui che ci si deve chiedere che cosa troveremo alla fine (perché, prima o poi, tutto è destinato a finire e qualcos´altro incomincia).
Di fronte alla pressione della questione finanziaria e alle misure necessarie per fronteggiarla, i partiti politici hanno semplicemente alzato bandiera bianca, riconoscendo la propria impotenza, e si sono messi da parte. Nessun partito, nessuno schieramento di partiti, nessun leader politico, è stato nelle condizioni di parlare ai cittadini così: questo è il programma, queste le misure e questi i costi da pagare per il risanamento o, addirittura, per la salvezza, e siamo disposti ad assumere le responsabilità conseguenti. Né la maggioranza precedente, che proprio di fronte alle difficoltà, si andava sfaldando; né l´opposizione, che era sfaldata da prima. Niente di niente e, in questo niente, il ricorso al salvagente offerto dal presidente della Repubblica con la sua iniziativa per un governo fuori dai partiti è evidentemente apparsa l´unica via d´uscita. Insomma, comunque la si rigiri, è evidente la bancarotta, anzi l´autodichiarazione di bancarotta.
Di fronte a grandi problemi, ci si aspetterebbe una grande "classe dirigente", che cogliesse l´occasione propizia per mostrarsi capace d´iniziativa politica. Sennò: dirigente di che cosa?
Si dirà: e il governo, pur piovuto dal cielo, è tuttavia sostenuto dai partiti; anzi, il sostegno non è mai stato, nella storia della Repubblica, così largo; i partiti, quale più quale meno, per senso di responsabilità o per impossibilità di fare diversamente, alla fin fine, si mostrano in questo modo all´altezza della situazione. Sì e no. Sì, perché voteranno; no, perché il voto non è un sostegno e un coinvolgimento nelle scelte del governo ma è, piuttosto, una reciproca sopportazione in stato di necessità. Il governo, timoroso d´essere intralciato dai partiti; i partiti, timorosi di compromettersi col governo. Il presidente del Consiglio ha onestamente riconosciuto che i partiti, meno si fanno sentire, meglio è: votino le proposte del governo e basta. I partiti, a loro volta, sono in un´evidente contraddizione: devono ma non possono. Avvertono di dover votare ma, al tempo stesso, avvertono anche che non possono farlo impunemente. Gli stessi emendamenti di cui si discute in questi giorni sembrano più che altro dei conati: per usare il linguaggio corrente, non un "metterci la faccia", ma un cercare di "salvarsi la faccia".
In questa delicata situazione, i partiti devono esserci ma vorrebbero non esserci. Per questo, meno si fanno vedere, meglio è. I contatti, quando ci sono, avvengono dalla porta di servizio. Alla fine, si arriverà, con il sollievo di tutti, a un paradossale voto di fiducia che, strozzando il dibattito parlamentare, imporrà l´approvazione a scatola chiusa e permetterà di dire al proprio elettorato: non avrei voluto, ma sono stato costretto.
Ma c´è dell´altro. In un momento drammatico come questo, con il malessere sociale che cresce e dilaga, con la società che si divide tra chi può sempre di più, chi può ancora e chi non può più, con il bisogno di protezione dei deboli esposti a quella che avvertono come grande ingiustizia: proprio in questo momento i partiti sono come evaporati. Corrono il rischio che si finisca, per la loro stessa ammissione, per considerarli cose superflue, d´altri tempi. In qualunque democrazia, i partiti hanno il compito di raccogliere le istanze sociali e trasformarle in proposte politiche, per "concorrere con metodo democratico alla politica nazionale", come dice l´articolo 49 della Costituzione: sono dunque dei trasformatori di bisogni in politiche. Una volta svolto questo compito di unificazione secondo disegni generali, ne hanno un secondo, altrettanto importante: di tenere insieme la società, per la parte che ciascuno rappresenta, nel sostegno alla realizzazione dell´indirizzo politico, se fanno parte della maggioranza, e nell´opporsi, se non ne fanno parte. Un duplice compito di strutturazione democratica, in assenza del quale si genera un vuoto, una pericolosa situazione di anomia, cioè di disordine politico, nel quale il governo si trova a dover fare i conti direttamente col disfacimento particolaristico, corporativo ed egoistico dei gruppi sociali, inevitabilmente privilegiando i più forti a danno dei più deboli. La dialettica tra governo e società non trova oggi in Italia la necessaria mediazione dei partiti. Di questa, invece, la democrazia, in qualsiasi sua forma, ha necessità vitale.
Gli storici avrebbero molto da dirci sulla miscela perversa di crisi sociale e alienazione politica, cioè sulla rottura del nesso che i partiti devono creare tra società e Stato. Non che la storia sia il prodotto di leggi ineluttabili, ma certo fornisce numerosi esempi, nemmeno tanto lontani nel tempo: nel nostro caso, esempi – che sono ammonimenti – del disastro che si produce quando le forze della rappresentanza politica e sociale si ritirano a favore di soluzioni tecnocratiche, apparentemente neutrali, né di destra né di sinistra, al di sopra delle parti. Può essere che in queste considerazioni ci sia una piega di pessimismo, ma vale l´ammonimento: non tutti gli ottimisti sono sciocchi, ma tutti gli sciocchi sono ottimisti.
E allora? Allora, il rischio è che, "quando tutto questo sarà finito" ci si ritrovi nel vuoto di rappresentanza. Una certa destra nel vuoto si muove molto bene, per mezzo di qualche facilissima trovata demagogica. Il vuoto, invece, a sinistra ha bisogno di ben altro, cioè di partecipazione e di fiducia da riallacciare tra cittadini, e tra cittadini e quelle istituzioni che esistono per organizzare politicamente i loro ideali e interessi. Questo – altro che sparire, arrendendosi alle difficoltà – è il compito che attende i partiti che stanno da quella parte, un compito che ha bisogno di idee e programmi, strutture politiche rinnovate e trasparenti, uomini e donne di cui ci si possa fidare. Non di salvatori che "scendono in campo", ma di seri lavoratori della politica, degni del rispetto dei cittadini di cui si propongono come rappresentanti.
UN ACCORDO TIEPIDO PER UN PIANETA
CHE HA LA FEBBRE ALTA
di Pietro Greco
I diplomatici parlano di una «svolta storica», arrivata dopo una estenuante maratona notturna. Ma quanto vincolante potrà essere la «piattaforma di Durban» se Usa, Canada, Giappone e Russia continuano a sfilarsi?
Con una sfibrante maratona, che si è conclusa ieri mattina alle ore 4.44, il ministro degli esteri del Sud Africa, signora Maite Nkoana-Mashabane, si è scrollata di dosso le ingiuste accuse di inefficienza avanzate dalle delegazioni di Francia e Germania, ha ottenuto il voto unanime dell’assemblea e ha evitato il fallimento diplomatico di Cop17, la diciassettesima Conferenza delle Parti che hanno sottoscritto la Convenzione Onu sui Cambiamenti del Clima. Era visibilmente soddisfatta, addirittura entusiasta e fresca come una rosa Maite Nkoana-Mashabane, ieri mattina all’alba. E dal suo punto di vista di ministro degli esteri del paese ospitante Cop17 ne aveva ben donde. Nessuno, sabato sera, avrebbe scommesso un soldo bucato su questo accordo finale. Onore al merito di Maite e dei diplomatici del Sud Africa, dunque.
Quanto alla sostanza dell’accordo, il giudizio va quanto meno articolato.
Tenendo conto che erano almeno tre le questioni importanti in discussione: Cop17 e l’accordo globale per mettere su politiche comuni di contrasto ai cambiamenti climatici; il rinnovo del Protocollo di Kyoto, che riguarda i soli Paesi di antica industrializzazione e che scade nel 2012; il Green Climate Fund, che a regime (nel 2020) dovrebbe mettere a disposizione dei paesi in via di sviluppo 100 miliardi di dollari l’anno per cooptarli nella lotta ai cambiamenti climatici. Ebbene Cmp7, la Conferenza delle parti che hanno ratificato il Protocollo di Kyoto è fallita. Almeno parzialmente. Perché non solo gli Stati Uniti, ancora una volta, non lo hanno ratificato, ma Canada, Giappone e Russia si sono sfilati. Non lo rinnoveranno alla sua scadenza. Solo l’Unione Europea e una manciata di piccoli paesi (Norvegia, Svizzera, Australia) hanno concordato di rinnovarlo fino al 2018. Quanto al Green Climate Fund si è deciso sì di implementarlo. Ma senza un’immediata dotazione di fondi. Si è creato il contenitore: e c’è chi lo considera un successo. Ma il contenitore è clamorosamente vuoto: e questo è un dato di fatto.
Eccoci, dunque, al piatto forte (si fa per dire). Quello che ha fatto gridare all’inatteso successo Maite Nkoana-Mashabane, i rappresentanti dell’Europa e molti altri. I quasi duecento Paesi che hanno sottoscritto la Convenzione sul Clima riconoscono non solo che il cambiamento è reale e indesiderabile, ma anche che occorre uno sforzo congiunto, da parte di tutti, per contrastarlo. Questo sforzo deve consistere in un accordo, che dovrà avere «forza legale», che dovrà essere concluso entro il 2015 per diventare operativo a partire dal 2020. È un accordo con un’architettura barocca. E si espone a una duplice e divergente valutazione. Da un lato c’è chi saluta la novità politica: è la prima volta che c’è un accordo globale sulla necessità di un’azione congiunta nel quadro di impegno che abbia «forza legale». E, dunque, Durban ha realizzato quello che nessun’altra conferenza aveva mai ottenuto.
QUEI MALEDETTI 2 GRADI IN PIÙ
Dall’altro c’è chi guarda all’accordo con occhi tecnici: questo accordo non garantisce affatto che l’umanità riuscirà a contenere entro i 2 ̊C l’aumento della temperatura rispetto ai livelli dell’era pre-industriale. Entrambe sono delle verità. E tocca a ciascuno di noi valutare quale sia quella preminente. Intanto a Durban si contano, come sempre succede in queste occasioni, vincitori e vinti. Vincitore politico è certo il Sud Africa. Nonostante i sopracciò franco-tedeschi ha dimostrato di saper condurre in porto una barca oltremodo sgangherata. Vincitore è l’Unione Europea che si è ripreso lo scettro (effimero?) della leadership nella lotta ai cambiamenti climatici che Obama le aveva sottratto solo due anni fa a Copenaghen. Sconfitta – ma non troppo – è l’amministrazione Obama. È vero che non guida la carovana mondiale, ma è anche vero che potrà affrontare la prossima campagna elettorale per le presidenziali senza vincoli che la possano compromettere.
Restano invece nel limbo le grandi economie emergenti, la Cina, l’India, il Brasile. È vero che sono riuscite a non farsi lasciare il cerino in mano. Ma è anche vero che non sono riuscite ad assumere una posizione di leadership con la quale consolidare la loro scommessa sulla «green economy». Per loro, come per il clima, il passaggio a Durban è stato interlocutorio.
Corsivo
L’ULTIMA SUPERPOTENZA
di Pi.Gre.
L’accordo c’è e, infatti, i diplomatici parlano di successo. Ma è un accordo ancora privo di contenuti sostanziali. E, infatti, gli ambientalisti e molti scienziati parlano di grosso insuccesso. La domanda, allora, è: a che servono queste grandi assise del circo ecodiplomatico tipo Durban? La domanda è decisamente pertinente, se a vent’anni da Rio e dalla stesura della Convenzione sul Clima siamo ancora a un abbozzo di contenitore senza contenuti. E se l’unica piccola anforetta con un minuscolo contenuto – il Protocollo di Kyoto – torna a pezzi dal Sud Africa. Eppure, dopo averne riconosciuto tutti i limiti e le insopportabili lungaggini, la risposta è: le conferenze delle Nazioni Unite sul clima e sull’ambiente servono. Non fosse altro perché non hanno alcuna alternativa. Né efficiente, né democratica. L’Onu è barocca e inefficiente. Non è certo il governo ideale per affrontare i grandi problemi globali. Ma nessuno ha trovato finora di meglio. Nulla da fare, allora? Niente affatto. Occorre che scenda in campo, finalmente, l’unica, vera superpotenza residua: l’opinione pubblica mondiale. I governi, come i mercati, sono miopi. Non riescono ad alzare lo sguardo nel lungo periodo. Solo l’opinione pubblica mondiale ha la vista adatta. Purché sia sveglia e apra gli occhi.
L’UE: «UNA SVOLTA STORICA»
MA GLI AMBIENTALISTI:
«NON SONO PREVISTE SANZIONI»
di Emidio Russo
Entusiasmo a Bruxelles, che vede premiata la sua strategia. Anche il segretario generale Ban Ki-moon plaude. Ma il Wwf e il mondo ambientalista non è d’accordo: «Non è un accordo reale, mancano i vincoli».
L'accordo raggiunto a Durban nella notte tra sabato e domenica che stabilisce una nuova «road map» per il clima rappresenta «una svolta storica nella lotta contro i cambiamenti climatici»: lo afferma in un comunicato la Commissione europea. La soddisfazione, dopo un rush finale che aveva fatto temere i più che il vertice si sarebbe concluso con un clamoroso fallimento, è palpabile. «La strategia dell’Unione europea ha funzionato», afferma Bruxelles. «Quando numerose parti in causa hanno detto che Durban avrebbe dovuto soltanto applicare le decisioni prese a Copenaghen e Cancun, l’Ue aveva espresso il desiderio di una maggiore ambizione. Ed è quello che ha ottenuto», ha spiegato il Commissario europeo Connie Hedegaard, citato nel comunicato. «Kyoto divideva il mondo in due categorie, ora avremo un sistema che riflette la realtà di un mondo interdipendente», ha aggiunto il commissario europeo, che ha svolto un ruolo importante nelle trattative arrivate all’accordo dell’altra notte. «Con l'accordo sulla road map verso un nuovo quadro legale nel 2015 che includerà tutti i Paesi nella lotta contro i cambiamenti climatici, l'Ue ha raggiunto i suoi obiettivi chiave per la conferenza di Durban», ha concluso Hedegaard.
Anche il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, ha accolto con soddisfazione «la significativa intesa» raggiunta. La «piattaforma di Durban definisce il modo in cui la comunità internazionale si occuperà dei cambiamenti climatici nei prossimi anni», ha dichiarato Ban, poche ore dopo la fine delle trattative a oltranza che hanno impedito il fallimento della Conferenza.
AMBIENTALISTI CRITICI
Buona parte del mondo ambientalista tuttavia non è d’accordo. «Non hanno raggiunto un accordo reale, ma hanno attenuato i toni in modo che tutti saltassero a bordo», commenta Samantha Smith di Wwf International, notando che nel documento approvato non viene menzionato alcun tipo di sanzione. In base al protocollo di Kyoto del 1997 solo i Paesi industrializzati sono legalmente vincolati a ridurre le emissioni di carbonio, mentre quelli in via di sviluppo adottano misure su base volontaria. Con l’intesa raggiunta ieri, India e Cina si sono impegnate ad accettare invece in futuro target di emissioni legalmente vincolanti.
Critiche anche da Pechino: «Noi stiamo facendo quello che dovremmo e anche quello che voi non state facendo», ha detto durante i colloqui il negoziatore cinese Xie Zhenhua. Il riferimento era agli Stati Uniti, che nel 1997 non hanno ratificato Kyoto dicendo di non voler concedere alcun vantaggio competitivo alla Repubblica popolare. Il mondo, intanto, aspetta.
Sono stato invitato per la prima volta a parlare del Tav in Val di Susa nel 1997. Ci sono ritornato altre decine di volte, ogni volta con un bagaglio arricchito di conoscenze, saperi e amicizie. Ci ritornerò il 14 di dicembre, ad Avigliana, per parlare come sempre delle ragioni scientifiche ed economiche del no a un’opera inutile, nella totale assenza di chi, schierato per il sì, senza alcuna motivazione tecnica, si nasconde dietro il paravento delle presunte violenze del movimento No Tav, che solo l’occultazione della verità e la disinformazione può tenere in piedi.
Ci tornerò per ringraziare migliaia di cittadini e decine di sindaci che da circa 20 anni si oppongono non solo a un’opera che rischia di devastare la loro terra, ma che hanno, fino a oggi, impedito che si consumasse l’ennesimo saccheggio del futuro del nostro Paese. Per denunciare la menzogna e l’irresponsabilità dei governi che si sono succeduti in questi anni e del governo tecnico, oggi degno erede dei bugiardi e irresponsabili che lo hanno preceduto.
Ricorderò che con il comma 966 dell’unico articolo della legge n. 296/2006, la Finanziaria per l’anno 2007, si è sancito che: “Gli oneri per capitale e interessi dei titoli emessi e dei mutui contratti da Infrastrutture Spa fino alla data del 31 dicembre 2005 per il finanziamento degli investimenti per la realizzazione della infrastruttura ferroviaria ad alta velocità “Linea Torino-Milano-Napoli”, nonché gli oneri delle relative operazioni di copertura, sono assunti direttamente a carico del bilancio dello Stato”. Che con questa norma si prendeva atto che il “finanziamento privato” per la realizzazione delle infrastrutture per il treno ad Alta velocità, era in realtà, una pura e semplice bugia. Che l’importo del “finanziamento privato” diventato “debito pubblico” è esattamente di 12.950 milioni di euro. Che dopo il 2005 nulla è cambiato, altri presunti finanziamenti privati si sono aggiunti e prima o poi finiranno nel debito pubblico.
Ricorderò quello che i Valsusini misurano da anni sulla loro pelle: tutta la gestione del progetto Tav è stata accompagnata da atti, comunicazioni, contratti, pareri che si sono caratterizzati per la loro opacità quando non esplicitamente falsi. A partire dal falso più clamoroso, che ha consentito alla Tav Spa di costruire un’architettura contrattuale che con il cosiddetto project financing ha millantato un finanziamento privato mai esistito.
Parlerò del project-financing senza rischi per i privati e delle “società di diritto privato” con proprietà pubblica replicati dallo Stato e dagli Enti Locali, grazie a norme sui contratti pubblici (in contrasto o derogatorie rispetto a quelle contenute nelle direttive europee) e alle politiche di privatizzazione dei servizi pubblici (senza liberalizzazioni e con Spa pubbliche). Di un fenomeno straordinario, scarsamente analizzato dagli economisti, letteralmente sconosciuto nel confronto fra le forze politiche, promosso e alimentato dai tecnici al soldo delle banche d’affari, del tipo, guarda caso, di Corrado Passera.
Segnalerò al Governo dei tecnici e all’opposizione distratta e ignorante che nel debito pubblico dell’Italia, pari al 120% del Pil, non sono considerati i debiti delle “società di diritto privato” con capitale pubblico e quelli delle società con capitale privato per i project-financing totalmente garantiti da soggetti pubblici. Che, in entrambi i casi, si tratta di debiti pubblici a tutti gli effetti nascosti nella contabilità privatistica o di società con capitale pubblico o di società con capitale privato. Che la cifra esatta di tale debito, essendo nascosta nella contabilità di società di diritto privato, non è stata calcolata da alcun organo dello Stato, ma può essere stimata fra il 15 e il 20% del Pil e la sua emersione porterebbe il debito effettivo del Paese fra il 135 ed il 140% del Pil.
Segnalerò al Parlamento Europeo che fra gli impegni che l’Italia sta assumendo in queste ore per fronteggiare la grave crisi dei conti pubblici, non figura alcun provvedimento né per rimuovere questa clamorosa omissione né, soprattutto, le cause che consentono di costruire questo debito occulto e che dunque è destinato ad aumentare. Che, al contrario, sia nell’ultima manovra del Governo Berlusconi, sia nel Decreto del Governo Monti che il Parlamento si appresta ad approvare, proprio queste modalità di investimento sono quelle che vengono rafforzate ed incentivate.
Ringrazierò i No Tav valsusini per il loro tenace, straordinario ed essenziale contributo per impedire che la menzogna e l’ignoranza dei vassalli e paladini del modello Tav trascinino l’Italia e l’Europa verso una catastrofe dei conti pubblici ben più pesante di quella oggi minacciata per imporre sacrifici ai soliti noti.
Ai torinesi le Olimpiadi Invernali del 2006 sono state vendute come un’opportunità irrinunciabile per la rigenerazione del tessuto sociale ed economico.A cinque anni da quell’evento, però, Torino si ritrova comune più indebitato d’Italia: i piani di “riqualificazione” e le strutture olimpiche sono state pagati solo in parte da Stato e privati; non sapendo come riutilizzarle, la maggior parte delle nuove strutture destinate alle discipline sportive (specialmente i siti e gli alberghi di montagna) sono rimaste un “costo” tanto che per alcune si ipotizza già lo smantellamento; troppi locali, in primis il “villaggio degli atleti” che sta letteralmente cadendo a pezzi, sono rimasti inutilizzati, mentre centinaia di costosissimi “addobbi” olimpici sono divorati dalla ruggine nei magazzini comunali.
Solo qualche giorno fa, il programma Striscia La Notiziaha denunciato il triste stato di abbandono dei trampolini di Pragelato costruiti disboscando mezza montagna ma con l’obiettivo di proseguire nel tempo l’attività agonistica, creare un vivaio di atleti dell’arco alpino occidentale ed affittarli alle squadre internazionali. Già il presidente dellaFISIPietro Marocco aveva gridato allo scandalo “per il totale inutilizzo di questi impianti anche nella stagione agonistica”. Gli amministratori attuali e quelli che hanno promosso e gestito l’evento possono controbattere che è ancora presto per stilare un bilancio finale. Eppure, l’accumulazione di debiti sempre più onerosi non può lasciare indifferente la cittadinanza, specialmente le nuove generazioni che, insieme a figli, nipoti e pronipoti, saranno costretti ad accollarseli.
Nel frattempo, l’amministrazione comunale prova a far cassa vendendo ai privati immobili di prestigio e, soprattutto, fette di territorio potenzialmente edificabile tanto che, nei prossimi vent’anni, la popolazione sarà travolta da una valanga di cemento… La Costituzione italiana, all’articolo 9, pone tra i Principi fondamentali come compito della Repubblica, la “tutela del paesaggio e del patrimonio artistico della nazione”. Le nostre città hanno conservato contesti storico-artistici ed ambientali preziosi, paesaggi incomparabili, opportunità uniche per affermare un’alta qualità della vita, che, tuttavia, rischiano di perdere valore per colpa dell’espansione edilizia incontrollata, oltre che dell’invasione del traffico automobilistico. Uno dei “migliori” esempi di questi rischi è proprio Torino che è stata invasa e sarà ancora invasa da opere di dubbio gusto che portano con sé tanto cemento ed inquinamento.
Negli anni scorsi le critiche più accese si sono concentrate sul piazzale-parcheggio “Valdo Fusi”, davanti alla Camera di Commercio; sul “disboscamento” del Parco Sempione e di Piazza d’Armi, due dei principali parchi cittadini; sull’inutile sottopasso di corso Spezia che ha eliminato decine di alberi; sull’orribile “Palafuksas”, frontale al famoso mercato di Porta Palazzo, che solo da quest’anno, dopo tredici anni di ingloriosa inattività, si è trasformato in centro commerciale; sulle torri “popolari” di via Orvieto, nella cosiddetta “spina 3”, destinate a diventare simboli di degrado moderno: oggi, invece, sull’ambizioso progetto della bancaIntesa Sanpaolodi costruire un grattacielo nella zona centrale della città, e sul nuovo Palazzo della Regione, sempre formato –“grattacielo”, ancora una volta a firma di Massimiliano Fuksas.
Sin dalla presentazione del progetto diSanpaolonel 2006, sviluppato dall’archistar Renzo Piano, una larga fetta dell’opinione pubblica cittadina si è mobilitata, indignata per il superamento, in altezza, del simbolo monumentale torinese, la Mole Antonelliana. Di risposta, si è provveduto a modificare il progetto originario “sotterrando” alcuni piani per non intaccare il primato della Mole. Anche se, in realtà, l’impatto non cambierà, dato che l’edificio dell’Antonelli termina con una guglia, mentre il grattacielo sarà una struttura compatta e piena. Un’altra “pietra” dello scandalo è il progetto di costruzione di un palazzone proprio a ridosso della Mole, che, però, almeno questo, pare accantonato.
Il malcontento è diffuso anche in altri quartieri. Nel popolare San Paolo, ad esempio, sono iniziati i lavori per l’erezione di nuovi palazzoni e di un ennesimo centro commerciale, in sostituzione dello storico stabilimentoLancia. Oltre che a creare i soliti prevedibili disagi per residenti ed esercizi commerciali, questo progetto è ritenuto dal comitato spontaneo "Parco Lancia” “insostenibile, se non rovinoso”, perché va ad aumentare paurosamente la densità abitativa di un'area che è già a rischio di congestione, a fronte dell'insufficienza dei servizi primari presenti. Si calcola, infatti, che i nuovi palazzi potranno accogliere seicento famiglie, oltre 1800 persone, in un territorio che registra l'affollamento delle scuole, degli asili e dell'ASL. Senza mai ottenere una risposta positiva, i residenti ed il comitato hanno chiesto, in questi anni, nuove scuole, un asilo, alloggi per le fasce deboli, luoghi di incontro per i cittadini e di ridurre l'area edificabile da 56 a 14 mila mq.
Ma il disagio è manifesto anche in aree più “chic” come quella di Borgo Valentino dove i residenti, appendendo sui balconi drappelli di protesta, si oppongono alla costruzione di un grosso complesso sull'area exIsvor(stabilimentoFIAT) considerandola una “mera speculazione edilizia anche poco redditizia per la Città”. Mentre volantini e manifesti sono stati diffusi nelle vie più importanti per protestare contro la spianata di cemento che ospiterà il nuovo parcheggio sotterraneo di piazza Albarello, storico punto di partenza d’ogni manifestazione e sciopero. A dispetto delle campagne di disincentivazione all’uso dell’automobile, l’amministrazione torinese, infatti, ha moltiplicato esponenzialmente l’offerta di garage sotterranei.
A Collegno, invece, nella prima cintura torinese, sono preoccupati che venga devastato l’immenso verde del Campo Volo. L'area, infatti, pur ricompresa entro i confini del paese, è di proprietà di una Banca e per acquisirla l’amministrazione comunale ha avviato una trattativa con i suoi vertici che riceverebbero, in cambio, delle generose concessioni edilizie. I cittadini, però, temono che vengano “occupate” proprio le aree del Campo Volo.
Notizia delle ultime ore è quella della rinuncia, per mancanza di risorse, al boulevard di corso Principe Oddone - interessato dai lavori del passante ferroviario sotterraneo - che così, collegandosi a corso Mediterraneo, assomiglierà ad un’autostrada cittadina. Un’altra mazzata per le migliaia di residenti che da quasi dieci anni non possono aprire le finestre per rumore, polvere ed inquinamento. L’ultimo spottone elettorale della giunta Chiamparino s’inscenò lo scorso aprile con l’inaugurazione del Parco Dora. Un’area immensa in cui l’attività decennale delle industrie ha inquinato acqua e terreno e dove si è scelto di non abbattere (perché troppo costoso) i resti dei capannoni industriali preesistenti, in particolare lo scheletro d’acciaio dell’exTeksidche copre i nuovi campetti sportivi e che, insieme ai piloni arancioni arrugginiti alti più di trenta metri, creano un panorama quantomeno “discutibile”, se non “inquietante”, aggettivo usato da un gruppo di architetti presenti all’inaugurazione. Il “pacchetto” di obiezioni mosse al progetto, sin dalla sua gestazione, si concentrava sull’opportunità di sfruttare quelle strutture, su cui oggi s’arrampicano pericolosamente i ragazzini, per il trasloco dell’ospedale Amedeo di Savoia, ridotto alla fatiscenza, che avrebbe liberato spazio proprio sulla riva del fiume Dora, in una zona ancora più indicata per sviluppare il parco.
Eppure, il progetto che avrebbe dovuto suscitare le proteste più accese è stato celebrato, oltre che dalle autorità, dalla quasi totalità della popolazione. Ci riferiamo al nuovo stadio dellaJuventus, inaugurato solo tre mesi fa, per il quale si è dovuta approvareuna variante che ha trasformato l'area dell’ exStadio delle Alpida area destinata a servizi pubblici a “zona urbana di trasformazione”con la concessione - da parte del Comune di Torino - di 349mila metri quadri per 99 anni al prezzo stracciato di meno di un euro al metro quadro per ogni anno. E, come se non bastasse, è arrivata una seconda variante che ha permesso di costruire, accanto allo stadio, due centri commerciali che la societàJuventusha dato in gestione alle cooperativeCmb,Unieco,Nordiconad. Chi rivendica l’assoluta centralità dell’ “interesse pubblico”, dovrebbe rimarcare, infatti, come, sin dagli sprechi e le morti bianche degli anni Novanta per la costruzione dello stadio dei Mondiali, una vasta area pubblica un tempo agricola (la Continassa al confine con Venaria) - destinata dal Piano Regolatore originariamente a “Verde e Servizi” - è stata completamente affidata ai soggetti privati ed ai grandi operatori commerciali che non le hanno lasciato più un metro di verde. Sempre alla societàJuventusè stata praticamente regalata l’Arena Rock della Continassa che, sinora, non è mai stata utilizzata.
Per gli ambientalisti, quella della Continassa è una delle più grandi sconfitte: da immensa area agricola adatta a diventare il primo parco cittadino per estensione, è stata trasformata in una distesa di cemento e supermercati. Il Piano Regolatore di Torino è, ormai, giunto alla sua “duecentesima edizione”, con l’approvazione, appunto, del progetto preliminare della “variante 200” pochi mesi prima della scadenza di mandato della giunta Chiamparino. Per le associazioni ambientaliste ed i comitati di quartiere essa non risponde certo all’esigenza di uno sviluppo urbano equilibrato, bensì a quella di far cassa velocemente da parte dell’amministrazione, in concerto con gli interessi privati, attraverso la valorizzazione immobiliare delle aree che vi sono ricomprese. E così la città sarà invasa da torri abitative da venti-trenta piani e nuovi centri commerciali, come se se ne sentisse la mancanza.
Nessun rispetto nemmeno per i morti, dato che la nuova variante sembra fregarsene della cosiddetta “fascia di rispetto cimiteriale”, prevedendo la costruzione di due torri, una da 80 metri e l’altra da 60, e dell’ennesimo centro commerciale da 25mila metri quadri proprio a ridosso del cimitero monumentale. Per i più critici, infatti, la realizzazione delle seconda linea di metropolitana è solamente una scusa, dato che non ci sono i soldi nemmeno per terminare la prima. L’urgenza dei governatori locali sarebbe quella di riaggiustare il bilancio e, quindi, di vendere il più possibile licenze di edificazione.
Uno dei principali “complici” del processo di cementificazione è lo stessoPolitecniconella persona dell’ingegner Mondini che, con la suaSITI(Istituto Superiore sui Sistemi Territoriali per l'Innovazione), è consulente della Città in materia di valutazione ambientale e non manca mai di avallare, se non suggerire, piani di espansione edilizia. Per la generazione di nuovi diritti edificatori si inventano le formule più assurde come quella di “trasferire” capacità edificatorie di spazi in cui è impossibile o vietato costruire in altre aree anche non immediatamente vicine: è il caso del parco Sempione (a cui sono stati strappati 180 alberi come a piazza D’Armi per i lavori del passante ferroviario) a cui è stata assegnata capacità edificatoria da poter trasferire ed aggiungere a quella dell’area della fabbricaGondrand(periferia Nord) dove si prevede di costruire quattro nuovi palazzoni.
Fra i privati, invece, il ruolo da protagonista lo gioca la famiglia di architetti Ponchia e la loroGefim(www.gefim.it) che, sin dal 1880, compra terreno da rivendere, ma, soprattutto, può esercitare una forte influenza sull’amministrazione pubblica perché gestisce i diritti edificatori sulle diverse areeFIATdismesse, essendo proprio una “creatura” dellaFIAT. Il governo cittadino conta molto sugli oneri di urbanizzazione, a cui è obbligata ogni impresa costruttrice, che, al posto di trasformarsi in servizi per la cittadinanza, vengono monetizzati per ingrassare le casse. Ovviamente, soldi ai servizi socio-assistenziali ed educativi-culturali non se ne possono più dare e si è anzi ricorso a tagli drastici: gli asili nido e le scuole d’infanzia, in primis, sono ormai rette da un esercito di precari, alcuni dei quali con contratti della durata di pochi mesi.
Cosa se ne faranno i torinesi di tutti questi nuovi grattacieli (anche nelle areeMichelindi corso Romania e strada Cebrosa, al posto dell’Alfa Romeodi via Botticelli e sull'area ex-Materferro), parcheggi interrati, fra cui quelli mercatali e di interscambio che sono sfruttati in minima parte, ed ipermercati che sostituiscono le ex fabbriche (Esselungadebutterà a Torino prendendosi l’exOfficine Grandi Motoridi corso Novara e l’exComaudi corso Traiano, il Palazzo del Lavoro diventerà un centro commerciale, stesso destino per piazza Bengasi) quando si contano 57000 alloggi sfitti e la popolazione residente è costantemente diminuita negli ultimi vent’anni come i comparti produttivi? Mentre aumenta la “popolazione” di quelli che vanno a frugare dentro i cassonetti, non solo composta da immigrati stranieri, ma anche da torinesi che appartenevano al ceto medio sino a poco tempo fa…A meno che non ci si accontenti di diventare il “dormitorio” di Milano, come già paventato da qualcuno…
Ma le “generazioni post-Olimpiadi” dovranno fare i conti non solo con le “promesse di cemento”, anche con tutte le promesse non mantenute: a parte il sistematico prolungamento temporale di ogni cantiere e l’irrefrenabile impulso a costruire parcheggi sotto i giardini ed i piazzali storici più suggestivi, si possono citare la mancata assegnazione ad O.N.G. ed associazioni interculturali del palazzo che ospitò il comitato organizzatore delle Olimpiadi, ora abbandonato a se stesso; la rinuncia al nuovo centro culturale cittadino presentato con effetti speciali di ogni tipo; la non compensazione delle centinaia di alberi eliminati da piazza D’Armi con i campi di proprietà dell’Esercito che non pare proprio disposto a lasciarli; la presa in giro dei “gianduiotti” (per la loro forma) dell’Atrium, le mega-strutture funzionali alla promozione del circo olimpico e per le quali si erano prospettate diverse soluzioni di riutilizzo sino a che non sono state completamente rimosse senza trovare qualcuno disposto ad acquistarle; e, non per ultima, la mancata riqualificazione dello storico calzaturificioSupergacon un poliambulatorio in spina 3, area gravemente deficiataria di servizi assistenziali, ma traboccante di centri commerciali. Non parliamo, poi, dell’“affare TAV”; ma tanto, anche in questo caso, ci ha già rassicurato l’ex ministro dei trasporti Matteoli per il quale “ai debiti ci penserà il Futuro”…
In principio era la Punta dell’Isola. Poi arrivò l’industria, e su quella prua geografica alla confluenza del Brembo nell’Adda l’imprenditore Cristoforo Benigno Crespi ci costruì nei primi anni dopo l’unità d’Italia quello che voleva essere un villaggio operaio modello. Non era il paradiso, ma almeno le casette con giardino schierate militarmente davanti alla fabbrica erano un posto decoroso per abitare, in attesa di andare a riposare in eterno al cimitero affacciato sulla valle padana, sotto gli occhi sempre vigili del mausoleo di famiglia. Stavano molto peggio i contadini tutto intorno. Nel XX secolo l’Unesco dichiarava il villaggio operaio Crespi d’Adda patrimonio dell’umanità, per inciso nella medesima seduta in cui lo diventava l’Isola di Pasqua coi suoi spettacolari faccioni di pietra. Qui però dobbiamo occuparci di facce di materiale diverso, diciamo facce di bronzo per non dir di peggio.
Uno dei motivi per cui Crespi interessava tanto l’Unesco era la sospensione del tempo tutto attorno, il fatto che a differenza di tanti altri casi magari anche più architettonicamente virtuosi di company town industriale tradizionale, geografia e sviluppo socioeconomico avevano racchiuso il villaggio in una specie di bolla artificiale, fatta di spazi aperti, valle del fiume, terrazzamenti. Verso la seconda metà del XX secolo iniziavano a crescere gli insediamenti urbani attorno al tracciato dell’autostrada Milano-Venezia solo qualche centinaio di metri più a nord, e nel migliore stile dell’epoca all’autostrada si attaccava una tipica espressione di attività economica postindustriale: il parco a tema Minitalia, dove turisti e curiosi potevano divertirsi a girare il Belpaese in miniatura, magari chiamando a gran voce da dietro la Torre di Pisa la zia che si era fermata troppo a Piazza San Marco …
Ma si sa, tutto cambia, e arriviamo ai nostri giorni di trionfo del cosiddetto sviluppo del territorio, della joint-venture pubblico-privata, dei luminosi futuri di crescita economica locale grazie alla visione di qualche lungimirante imprenditore. E soprattutto delle balle in malafede per venderci questa paccottiglia. L’autostrada A4 c’è e ovviamente ce la teniamo. Il parco a tema col piccolo Colosseo, le attività commerciali di complemento eccetera sta insediato appena sotto il tracciato, occupa parecchie decine di migliaia di metri quadrati dell’antica Punta, ma a sud si conserva ancora una apprezzabile fascia di greenbelt agricola fino al limite del terrazzamento che scende al villaggio operaio di Crespi, di cui si vedono le ciminiere della fabbrica. Parallelamente all’asse est-ovest segnato dall’autostrada invece, e lungo quello nord-sud dell’Isola bergamasca, il vero e proprio disastro dello sprawl suburbano fatto di capannoni a casaccio, lottizzazioni di villette e palazzine che chiudono su tutti i lati i residui nuclei storici, rotatorie per smistare il traffico verso la rotatoria accanto.
A dichiarare il rien-ne-va-plus finale ci si mette ora all’alba del terzo millennio la seconda autostrada, quella Pedemontana Lombarda che per motivi imperscrutabili qualcuno chiama “parco lineare” giusto perché ogni tanto nel progetti si vedono delle siepi a nascondere le sei-otto corsie asfaltate. Ma lasciando perdere i problemi di vista addomesticata di alcuni, torniamo a Crespi, un po’ malridotta, patrimonio sì ma con tanto bisogno di manutenzione. E qui suonano le trombe e arrivano al galoppo gli eroi dello sviluppo del territorio pubblico-privato: il pubblico paga, il privato porta a casa. Come si rilancia Crespi? Con un Accordo di Programma, manco a dirlo per lo sviluppo, che parte dalla sua poco corretta dizione inglese di development, la quale di solito si traduce con edilizia. Al centro dell’accordo la trasformazione edilizia di Minitalia, che rilancia il parco a tema e lo contestualizza nel territorio, comprendendo anche Crespi d’Adda.
C’è il nodo delle due autostrade e bisogna approfittarne. Come? Ma nel modo che ben sappiamo, ovvero col classico progetto “multifunzionale” fatto di alberghi, centri congressi, attività turistiche, commercio outlet. La formula architettonica è quella pure classica del pensoso progettista che sviluppa su un tavolo da disegno iper-uranico un concetto astratto, da scaraventare poi sul territorio locale, lasciando agli uffici stampa il compito di spiegare il perché e il percome. Nel caso specifico la ciliegina sulla torta (si fa per dire) è una torre albergo che si vedrà per chilometri e chilometri attorno, villaggio operaio incluso, e che pure nella migliore tradizione si propone “leonardesca”. Se non altro, a differenza di Mario Botta a Sarzana (che aveva confuso con Suzzara) qui non si sono sbagliati a scrivere, che so “leopardesca”.
In definitiva quello che emerge dal progetto proposto (e approvato da qualche settimana) dall’Accordo di Programma, garantito da Regione, Provincia, Comuni interessati, è l’ennesimo discutibilissimo nodo di attività a forte indirizzo automobilistico, con aumento di cubature, occupazione di notevoli spazi per i parcheggi, con una offerta che difficilmente si può considerare concorrenziale, salvo appunto la localizzazione. Se ne possono dire di cotte e di crude, degli impatti probabili anzi sicuri del traffico, e dei vantaggi abbastanza dubbi in termini occupazionali (di solito si guadagnano posti di lavoro da un lato, se ne perdono da un altro, magari di più qualificati). Ma gira e rigira apparentemente il ragionamento potrebbe anche essere: se non lì, dove altro? Ovvero come insegna anche il cosiddetto new urbanism, a suo modo attento alle sciocchezze più macroscopiche, se dobbiamo crescere meglio farlo là dove gli impatti sono minori, e nel caso specifico nell’area a maggior accessibilità e attrezzata.
Per giunta, a suo modo si tratta di un riuso di area parzialmente dismessa, pur allargandola parecchio: si rilancia Minitalia, come si potrebbe fare di un supermercato un po’ in ribasso negli affari. Crespi continua a starsene come stava prima, con buona pace dell’Unesco, circondata da quei campi come l’Isola di Pasqua dall’oceano. E qui casca l’asino con tutte e quattro le zampe: l’Accordo di Programma è falso e tendenzioso. Tutto legale, intendiamoci, formalmente corretto, ma non tutto ciò che è legale è lecito: le mappe e i calcoli del progetto approvato non corrispondono alla realtà, per il semplice motivo che non sono completi. Il resto della documentazione sta su un altro tavolo, leggibile in modo contestuale solo a chi ha organizzato il trucco. E a chi se ne è accorto, naturalmente.
Il progetto del parco a tema ampliato e rinforzato con la sua incongrua torre simil-leonardesca, per capirlo appieno, lo si deve accostare a quanto è sinora pubblico come Ambito di Trasformazione via Cristoforo Benigno Crespi. Che non sta dentro quell’Accordo di Programma, però. Sta nel Piano di Governo del Territorio del Comune di Brembate, ma come si legge chiarissimamente nella apposita scheda è una “Area agricola a seminativo semplice, a prato stabile e ad incolto. Il lato nord è adiacente al Parco Minitalia”. 76.000 metri quadrati di superficie che, come si legge benissimo dalla cartina allegata alla stessa scheda, arrivano a pochi metri dal bordo del terrazzamento affacciato su Crespi, e vengono destinati a funzione “ricettiva, museale, commerciale, svago e sociale”. Quindi ad appiccicarsi senza soluzione di continuità al progetto di outlet albergo leopardato eccetera. Cosa succede, in realtà e in sintesi?
Succede che si iniziano a cogliere i frutti maturi e già abbondantemente marci dell’idea balzana di “sviluppo del territorio” che sta dietro a ogni autostrada moderna, ovvero che a ogni crocicchio vero o immaginato si rimescolano interessi di trasformazione urbanistica, senza badare a nulla. Basta dare un’occhiata veloce alla Scheda dell’Ambito di Trasformazione (allegata, per l’Accordo di Programma faccio riferimento al sito regionale con tutta la documentazione: almeno ci salva l’Europa con la VAS obbligatoria!) per vedere cosa succederà. Sinora il villaggio Crespi è stato risparmiato nella sua integrità sia dalla collocazione nella Punta, tutelata in quanto valle dei due fiumi, che dalla destinazione agricola del terrazzamento superiore, che lo isola visivamente dall’ambiente autostradale.
Per capire meglio l’idea, pensiamo a un tipo di spazio ben noto a chiunque, ovvero la fascia laterale a uso commerciale di una grande arteria guardata dall’esterno, o la gran parte del perimetro di un grosso supermercato. Si tratta di zone ridotte a una specie di vasto “vicolo di servizio”, retrobottega necessariamente degradato, o al massimo barriera invalicabile ben schermata a verde. Oggi questa situazione riguarda l’affaccio sull’area agricola della zona recintata di Minitalia e dei parcheggi esterni al perimetro. Domani, se si attuasse il “doppio progetto” non solo su tutta l’area incomberebbe la incongrua mole della torre albergo, non solo traffico e parcheggi imporrebbero un carico assai pesante, ma con l’aggiunta dell’Ambito di Trasformazione Sud il fronte del “retrobottega” arriverebbe a lambire il sito Unesco. Unica soluzione possibile, a quel punto, e per essere coerenti, sarebbe accorpare anche Crespi d’Adda al parco tematico, magari obbligando gli abitanti a vestirsi con costumi d’epoca, e mimare il lavoro minorile su telai ottocenteschi …
Insomma, una volta per le emergenze si chiamavano i Caschi Blu, oggi ci tocca invocare l’intervento dell’Unesco, per salvarci dallo sviluppo del territorio: è un'emergenza umanitaria, a modo suo.
(in allegato la Scheda AT, le Osservazioni di Legambiente che chiariscono i motivi di opposizione al progetto nel suo complesso, un paio di articoli dai giornali degli ultimi giorni)
Esattamente sei mesi fa la vittoria referendaria contro la privatizzazione dell'acqua ha chiuso, nel senso comune e nell'opinione pubblica, un'intera epoca. Un’epoca che le oligarchie economiche e le loro schiere di cavalier serventi, più o meno “tecnici”, sono assai restie ad abbandonare, dichiarando invece guerra al 96% di "sì" referendari in Italia e al 99% dell'umanità in genere. A giugno il popolo italiano attraverso il voto democratico - termine che suona preoccupantemente démodé - tracciava di nuovo quel confine, ormai scoloratosi, fra merci e beni comuni, fra terreno dei diritti e terreno dei profitti, fra impresa di mercato e servizio pubblico d'interesse generale. Ciò accadeva dopo troppi anni d'indottrinamento neoliberista, in cui anche a sinistra ci si era convinti che il fine d'un servizio pubblico vitale fosse generare dividendi per gli azionisti e i beni comuni dovessero servire all'accumulazione di capitale privato. Il voto è stato quindi un colpo all’ideologia neoliberista che ci ha trascinati nella crisi teorizzando la fine d’ogni controllo democratico e d’ogni intervento politico sui mercati e sulla finanza, oltre che una democrazia anoressica, ridotta a mera partecipazione elettorale su agende preconfezionate. La buona novella del referendum italiano, promosso da una coalizione tanto vasta e socialmente radicata quanto squattrinata, ha fatto il giro del mondo e di tutta Europa.
Il primo messaggio che è arrivato negli altri paesi è stato semplice: le privatizzazioni e il dominio dei "mercati" non sono un destino naturale né un evento trascendentale, posto al di là della capacità d'intervento degli umani mortali. L’altro messaggio recepito è che, per poter ricondurre i nostri destini a portata di mano, dobbiamo metterci assieme, unirci, costruire reti sociali ampie ed inclusive. Dietro la vittoria referendaria, infatti, vi è un lungo processo molecolare che ha compattato, attorno all'acqua simbolo dei beni comuni, una miriade di soggetti locali e nazionali. Reti in grado d’elaborare proposte concrete, che consentano ai movimenti di "farsi direttamente legislatori". In Italia prima abbiamo usato lo strumento delle leggi d' iniziativa popolare, poi il referendum.
Possiamo tentare qualcosa di simile in Europa? Costruire un'alleanza sociale che, nel continente, sottragga l'acqua alla mercificazione, riaprendo così l'intero orizzonte dei beni comuni? A Napoli -unica città italiana che ha appena ripubblicizzato il servizio idrico, mostrando che ciò è ben possibile- sabato 10 e domenica 11 movimenti, sindacati, organizzazioni ambientaliste e molti altri soggetti sociali di tutta Europa si sono dati appuntamento, su invito del Forum italiano, per dar vita ad una rete continentale per l'acqua e per scrivere assieme un “manifesto” che fissi gli elementi condivisi, gli obiettivi e gli strumenti per realizzarli.
Perchè questa accelerazione, per un movimento che non scopre certo oggi l’impegno internazionale? Perchè allargare all'Europa il campo d'azione quotidiana, attraverso la creazione d’una rete stabile? In positivo la risposta è da ricercare nella vittoria italiana, in quella di un analogo referendum a Berlino e nei processi di ripubblicizzazione in Francia: i tempi per questo salto sono maturi. Ma la risposta è anche da ricercare nella crisi stessa. La Bce e la commissione europea, apertamente ridottesi a portavoce del potere finanziario, sono oggi una temibile minaccia per i beni comuni. Tuttavia l'Europa è, al contempo, anche la soluzione: non c'è salvezza senza Europa perchè il capitale si muove, ancor più potentemente che in passato, in una dimensione sovranazionale. Se non ci poniamo con efficacia a questa altezza, consci che nessun soggetto sociale, per quanto forte, è di per sè autosufficiente, e consci che la dimensione locale o nazionale non basterà ad arginare l'attacco del grande capitale ai beni comuni, ci troveremo più deboli e presto travolti dall'assalto della finanza globale, con il contorno di leggi nazionali e direttive europee privatizzatici. I beni comuni sono in pericolo - l'esperienza insegna come ad ogni attacco speculativo segua un ciclo di privatizzazioni e di saccheggio del patrimonio pubblico- ma allo stesso tempo sono anche la via maestra per l'uscita dalla crisi: sono una solida base di ricchezza collettiva che, se governata in modo partecipativo, non solo garantisce a tutti l'accesso a beni fondamentali, non solo ci traghetta al di là dell'eteronomia oligarchica in cui siamo immersi, ma può costituire anche il fondamento di un'altra economia, sociale e solidale. Un'economia della condivisione e della cooperazione anziché della competizione.
La nascente rete europea sceglierà così un cammino che appare quasi rivoluzionario, con i tempi che corrono, ossia quello della democrazia. Mentre il capitalismo finanziario accentua quei caratteri elitisti e mercatisti che costituiscono il vizio d'origine dell'Europa che conosciamo -come mostrano il referendum greco "negato", la lettera della Bce all'Italia e il tentativo di svuotare il referendum italiano appena vinto- di contro, come movimenti per l'acqua, risponderemo utilizzando per primi l'Iniziativa dei Cittadini Europei (attivabile con un milione di firme da raccogliere in almeno 7 paesi). L’Ice è il primo timido strumento di partecipazione democratica introdotto finalmente nell'Unione: dalla primavera del 2012 permetterà ai cittadini di spingere la Commissione a legiferare secondo la volontà indicata dal popolo europeo. Il nostro fine, ambizioso, è dar inizio a Napoli ad un percorso politico e culturale che porti dall'acqua e dai beni comuni fino a ridisegnare interi pezzi della fisionomia dell'Unione e delle politiche europee. Dal referendum italiano alle piazze degli indignados la richiesta di attivare forme di democrazia diretta sta attraversando il continente. Ad una finanza che vorrebbe sciogliere il popolo (Rossanda) e governarci direttamente, risponderemo avviando una campagna che recupererà pezzi di quella sovranità che ci è stata sottratta, per farci direttamente legislatori e artefici di un'altra Europa.
Per andare in treno da Matera a Potenza, 102 chilometri, un´ora e ventinove minuti in auto, servono sette ore e due cambi. Bisogna transitare in Puglia, cambiare a Bari, quindi a Foggia e rientrare in Basilicata. Si sale e scende tra regionali e nazionali. La velocità media del trasferimento è di 14,5 chilometri orari. Un fondista con tempi da Olimpiade, correndo tra i due capoluoghi, impiegherebbe un´ora in meno. L´alternativa per il Matera-Potenza è un regionale su binario unico con cambio ad Altamura: impiega dalle tre ore alle quattro e quaranta, ma in "orario da pendolare" ne passa soltanto uno al giorno.
Da Cosenza a Crotone (110 chilometri tutti in Calabria e un cambio) si impiegano tre ore. Per coprire Ragusa-Palermo (250 chilometri tutti in Sicilia, tre cambi) i convogli regionali di Trenitalia hanno bisogno di sei ore e dieci minuti. L´orario invernale prevede due treni, tutti e due a ridosso dell´ora di pranzo. O a Ragusa becchi questi o cerchi un pullman o fai l´autostop. La littorina è così lenta, poi, perché non è stata progettata per affrontare le curve del percorso: se aumenta la velocità, deraglia. Ma lo "slow train" non è solo un problema da profondo Sud. Per coprire la distanza da Acqui Terme a Genova (74 chilometri) ci vuole un´ora e mezza e si viaggia a 50 l´ora. Mauro Moretti, l´amministratore delegato del risanamento e rilancio delle Ferrovie di Stato, in questi giorni sta presentando i vagoni del silenzio sui nuovi Frecciarossa, annuncia un "Roma-Parigi" tutto coperto con la luce del giorno. Lo scorso maggio, a Piacenza, sul treno pendolare destinato a Fiorenzuola un impiegato bancario di 55 anni è dovuto uscire dal finestrino. Le porte del treno erano bloccate, quasi tutte.
Treni lenti, sporchi, in ritardo. E sempre di meno. Della Ferrovia Porrettana - il primo collegamento attraverso l´Appennino tosco-emiliano, dal 1864 scavalca la dorsale collegando Bologna a Pistoia - sono rimaste sei coppie di treni. Carrozze eliminate, la Rete ferroviaria italiana (ancora Fs) ha rimesso su strada 24 pullman. E in Calabria è dato in via d´estinzione un altro storico treno per pendolari, il "Tamburello" che collega Melito di Porto Salvo a Reggio Calabria quindi a Rosarno. Le politiche ferroviarie di questi tempi si possono osservare in maniera chiara nel Tigullio ligure: sono saltate diverse fermate per i treni a servizio universale, i rivieraschi devono prendere altrove freccerosse più care a cui poi mancano le coincidenze per tornare a casa. Su questo tratto di costa a forte richiamo turistico due Intercity non si fermano più, altri due non si fermeranno nel 2012. È per questo che i pendolari occupano i binari? È per questo che dal Veneto alla Puglia si assiste alla rivolta degli abbonati?
MENO CARROZZE, BIGLIETTO PIÙ CARO
Quarantaquattro "comitati contro" in nove regioni non sono nati a caso. Sul Lecco-Milano il gestore Trenord - il dieci per cento delle tratte regionali è gestito da imprese locali, il resto da Trenitalia - ha tolto 880 posti, il 20 per cento, e aumentato del 20 per cento il costo del biglietto. Tutti i giorni, e tutte le sere, la metà delle carrozze è senza luce. Sul treno diretto per Tirano delle 18,20, lo scorso 22 ottobre Trenord ha deciso di togliere quattro carrozze in male arnese. I pendolari della Valtellina hanno lasciato la banchina della Centrale di Milano occupando tutti i vagoni, anche quelli vietati. «Hanno chiamato un plotone di polizia per sgombrarci», racconta Giorgio Dahò del Coordinamento lombardo, «la maggior parte delle persone ha deciso di attendere il successivo e il treno sgombrato è partito semivuoto». Il Piacenza-Milano è stato bocciato dal 98 per cento dei clienti che l´hanno utilizzato: bagni rotti, sbarrati, così sporchi da essere inutilizzabili. Su ritardi e sporcizia una pendolare di Lodi ha vinto una causa contro Trenitalia per i suoi viaggi da San Zenone alla stazione Lambro: 500 euro di risarcimento dell´abbonamento e 2.000 euro per danni morali.
L´arretratezza del servizio è da allarme rosso. L´Aosta-Torino è percorsa da treni alimentati a diesel: non possono più entrare nella nuova stazione sotterranea di Porta Susa e i pendolari devono affrontare un nuovo cambio a Chivasso. Dei 29 treni regionali Rimini-Bologna, in media sedici sono inaccessibili per sovraffollamento: alcune carrozze vengono chiuse per non rischiare soffocamenti. Chi sale a Faenza può solo sostare davanti alle porte, a Imola i convogli sono così affollati che non può scendere chi è rimasto a metà vagone. Per tre anni consecutivi la Borgo San Lorenzo-Firenze è stata proclamata la tratta peggiore della Toscana: le carrozze sono vicine al collasso. Sull´Arezzo-Firenze i sei vagoni utilizzati si presentano con le porte rotte, le poltrone con la gomma piuma esondante, un riscaldamento da sauna estate e inverno, i finestrini bloccati, i cavi delle prese di collegamento tra le gambe dei passeggeri. Nessun appoggio per una bibita o il computer.
«Ogni mattina a Zagarolo restiamo a terra in centinaia», raccontano i gruppi organizzati attorno al disastro della Frosinone-Roma. I vandali contribuiscono all´opera di disfacimento sul Viterbo-Roma: l´ultima volta hanno spaccato 40 vetri, 25 mila euro e quattro giorni di stop per le riparazioni. Il conteggio dal 2 al 7 novembre ha messo in fila trentacinque fra finestrini e porte infrante, due estintori scaricati, sei sedute divelte, otto sedili tagliati e graffiti su tutto un convoglio. Un danno di 40 mila euro. Le stazioni della Val di Susa - servono il Torino-Modane - sono senza biglietterie: Chiomonte, Meana, Susa e Condove. A Ponte di Brenta, vicino a Padova, il degrado è salito al punto di favorire aggressioni e rapine. I chioschetti con i biglietti uno dopo l´altro spariscono dalle piccole stazioni dell´Alpago, nel Bellunese, e dalla provincia di Rovigo. Alla stazione Nomentana di Roma non c´è biglietteria né erogatrice, non ci sono servizi di ristoro, mai visto un controllore né una latrina. Dalle banchine d´attesa dell´hinterland napoletano hanno già tolto ventidue punti-vendita. In Sicilia la Barcellona-Castroreale, seconda stazione per bacino d´utenza della provincia di Messina, è semplicemente abbandonata. C´è una spiegazione a questa moria di stazioni, carrozze, servizi, riparazioni?
PENDOLARI ABBANDONATI
La manovra Monti ha previsto due miliardi di prossimi investimenti sui treni ad alta velocità. Sulla Milano-Genova (in tutto ne vale sei, si farà in vent´anni) e sulla Brescia-Treviglio (tratta, questa, della più ampia Milano-Verona). Sono nodi irrinunciabili, assi strategici. Per i treni a servizio universale - gli Intercity, i notturni e in generale la lunga percorrenza - mancano invece 134 milioni (sono i ricavi sui biglietti del 2011, Trenitalia non li ha realizzati e adesso taglia). Ancora, ai regionali dopo un serrato dibattito il governo ha scelto di togliere 800 milioni (su un miliardo e nove). L´Italia proiettata su un 2012 recessivo investe sui treni profit, comprime tutto quello che è un servizio.
Il trasporto pubblico locale su rotaia in Italia è un sistema iperstressato. Perde pezzi ovunque, soprattutto al Sud e nella capitale. Lo stato dei trasporti di Roma è utile per capire disagi e carenze strutturali di cui soffre tutto il sistema. Trecentocinquantamila pendolari ogni giorno raggiungono Roma sui 900 treni che viaggiano su otto linee regionali delle Ferrovie dello Stato. La Viterbo-Roma è una di queste, la più trafficata. E peggiora ogni stagione. «Nel Lazio non esiste materiale rotabile di riserva», spiega Valeria Mascoli, responsabile regionale Filt-Cgil, «non ci sono convogli che possano sostituire quelli che hanno bisogno di manutenzione e ripulitura. I 900 treni a disposizione sono sempre in circolazione, quando se ne rompe uno, scatta subito la soppressione e questo crea disagi sull´intera linea». È una carenza comune a tutti i grandi centri urbani dove si concentra il pendolarismo, Roma, Milano, Torino, Napoli. Ma nel 2012 che cosa succederà? Sono previste altre riduzioni?
I TAGLI LINEARI
La prossima stagione, sì, sarà peggiore. L´insieme dei contratti di servizio che Trenitalia ha stipulato con le Regioni, validi fino al 2014, vale 2 miliardi l´anno. È molto probabile che le amministrazioni regionali non riusciranno a mantenerli. Il decreto del luglio 2011 del Governo Berlusconi aveva tagliato 1,6 miliardi, lasciando un fondo di 400 milioni per il 2012. In queste ore sono stati recuperati 800 milioni. Il taglio finale, per l´anno prossimo, è di 800 milioni. Una cifra notevole, che inciderà proprio sull´elemento debole del sistema: il trasporto dei pendolari. Si rischia una soppressione di treni dal 10 al 20 per cento.
«È troppo presto per delineare un quadro preciso - spiega l´amministratore delegato di Trenitalia, Vincenzo Soprano - ma se ci saranno tagli, non dipenderanno da una nostra scelta industriale. A noi dallo Stato direttamente non arriva niente, i trasferimenti vanno alle Regioni che ci comprano il servizio». Servizio che per i pendolari lascia a desiderare. «Cosa ci possiamo fare se i treni hanno in media 30-35 anni di età e si rompono? Non ci sono risorse per rinnovarli. In Germania e in Francia il materiale rotabile è comprato direttamente dallo Stato. Da noi no. E poi parliamo delle nostre tariffe, le più basse in Europa. Ricaviamo 0,12 euro per passeggero/km, in Germania ricavano 0,2, in Gran Bretagna addirittura 0,5. Abbiamo già tagliato 1,6 miliardi di costi, non ci sono altri sprechi da eliminare». Si finisce sempre lì. Per avere un servizio migliore da Trenitalia con questo sistema servono più soldi. O dalle Regioni o dagli utenti (alzando il prezzo dei biglietti). Oppure si deve cambiare il sistema.
«Il vero scandalo italiano», sostiene Marco Ponti, professore di Economia dei trasporti al Politecnico di Milano, «è che non si fanno le gare pubbliche per l´affidamento dei servizi di trasporto regionali. Non le vogliono le Regioni, né i fornitori, né i sindacati. Negli ultimi anni ne sono state fatte soltanto due, in Friuli e in Emilia Romagna. Ed erano finte. Si è presentato un solo concorrente, Trenitalia». In Germania i servizi di trasporto locale assegnati con gara hanno consentito di ridurre i sussidi statali del 20 per cento.
L'ipotesi di estromettere le grandi navi da crociera dal Bacino di San Marco trasferendo gli approdi dalla Marittima alla Prima zona industriale di Marghera, lanciata dal sindaco Giorgio Orsoni e dal consigliere comunale ambientalista Beppe Caccia (lista “In Comune”), è altrettanto miope e autolesionista che continuare a lasciarle transitare nel cuore della città. Equivale a nascondere la polvere sotto il tappeto e a tenere pulito solo il salotto buono lasciando al degrado tutto il resto della casa. La laguna e Venezia sono un tutt'uno, la seconda non vive senza la prima, e i condomini galleggianti vanno fatti ormeggiare fuori, in mare aperto, come aveva proposto nel 2004 l'allora sottosegretario ai Trasporti del governo Prodi, Cesare De Piccoli, e come già oggi l'Autorità Portuale sta progettando di fare per il traffico petroli e per quello commerciale con una banchina off shore al largo di Malamocco.
Il dissesto della laguna, infatti, è iniziato a fine Ottocento per adattarla alla “moderna” portualità con l'ampliamento e l'approfondimento delle bocche portuali ed è continuato di scelta deleteria in scelta deleteria fino ad oggi col contorno che ben conosciamo di acque alte e di perdita di sedimenti. Oggi la laguna è un braccio di mare e continuare a portare al suo interno le grandi navi significa perseverare in un disegno i cui frutti nefasti dovrebbero ormai essere ben chiari a tutti e soprattutto a chi ci governa. Significa rinunciare ad ogni possibile futura chiusura del Canale dei Petroli, la cui presenza ha trasformato la laguna centrale in un tavoliere profondo un metro e mezzo cancellando chilometri quadrati di velme e di barene e una rete secolare di canali e di ghebi che attenuavano l'onda di marea.
E' proprio il transito delle navi nel Canale dei Petroli a provocare la maggior perdita di sedimenti in mare, messi in sospensione dalle onde, e ora si propone non di ridurre i traffici ma di aumentarli coi traghetti destinati a Fusina al terminal delle Autostrade del Mare (almeno 800 passaggi all'anno)? Con le navi da crociera (almeno 1400 passaggi all'anno)? Con la Marittima 2 già progettata dal Porto in Cassa di Colmata A per i mastodonti di nuova generazione da 350 e più metri? Vogliamo davvero arrivare alla profondita media della laguna di due metri e cinquanta profetizzata con questo trend per il 2050 dal professor Luigi D'Alpaos? O vogliamo dividere in due la laguna arginando il Canale dei Petroli, perché questa sarà l'altra alternativa?
Mi domando e domando: perché barattare un male (il passaggio delle navi a San Marco) con un altro male che non si sa se minore o maggiore (il mandarle a Marghera), quando c'è l'alternativa di tenerle fuori in mare? Il Principato di Monaco ha costruito in un anno nel 2002 davanti al Porto Hercule una diga semigalleggiante di 352 metri di lunghezza per 160 mila tonnellate di peso alla quale si ormeggiano proprio le grandi navi da crociera. Si è potuto fare a Montecarlo e a Venezia no?
Oltretutto gli scenari più ottimistici di crescita del livello del mare nei prossimi 100 anni parlano di cifre tra i 50 e gli 80 centimetri ma le proiezioni dei rilievi reali, satellitari, portano la previsione a un metro e più, e dunque prima o poi la laguna dovrà venire fisicamente separata dal mare, estromettendo qualsiasi funzione portuale. Perché, dunque, non pensarci fin da oggi, invece di gettare via inutilmente risorse preziose danneggiando per soprammercato l'ambiente?
Postilla
Silvio Testa è un valoroso giornalista veneziano (ha lavorato molti anni al Gazzettino , sempre con grande attenzione ai problemi della Laguna). La sua critica “storica” alle grandi navi in Laguna (ha oubblicato di recente un libriccino della fortunata collana “Occhi aperti su Venezia”. di Marina Zanazzo, Corte del fòntego) lo conduce, giustamente, a criticare anche la soluzione proposta oggi dal sindaco Orsoni e a rilanciare l’antica idea di un avamporto in Adriatico. Ma le Grandi Navi in Laguna sono solo la manifestazione plateale di un errore più profondo. L’incompatibilità tra i Grattacieli naviganti e Venezia è il simbolo dell’incompatibilità tra i Grandi Numeri del turismo di massa e la città Serenissima. Finché non si avrà il coraggio di progettare e applicare quello che Gigi Scano definiva “razionamento programmato dell’offerta turistica” la città meravigliosa (ancora un po’) non sarà salva. Il degrado che prosegue finirà di distruggerla.
Nell’organigramma del Ministero per i Beni e le Attività culturali la casella del segretario generale è ancora vuota. Quindi il decreto di nomina di chi sostituirà in quel ruolo l’architetto Roberto Cecchi divenuto sottosegretario non è stato ancora firmato. Dovrebbe essere designata la dottoressa Antonia Pasqua Recchia, direttore generale ai Beni architettonici, storico-artistici, ecc., ma, al momento, non se ne ha notizia formale. Da un paio di settimane quindi l’arch. Cecchi cumula ben tre incarichi: quello politico di sottosegretario e quelli tecnici di direttore generale del MiBAC nonché di commissario per l’area archeologica di Roma. Anomalia decisamente pesante, che si poteva evitare rispettando la legge, senza l’indugio di una sola ora. Ma l’Italia di oggi va così, purtroppo.
Le maggiori associazioni per la tutela avevano chiesto al neo-ministro Ornaghi una netta discontinuità rispetto all’era di Bondi, francamente disastrosa, e a quella certo non brillante di Galan. Al contrario egli ha nominato in quel ruolo-chiave il segretario generale di gestioni del Collegio Romano memorabili per l’accettazione supina di tagli feroci, per l’abolizione delle spese di missione, per la totale ibernazione dei piani paesaggistici, per la proliferazione di commissariamenti costosi e spesso dannosi, per l’acquisto a cifre spropositate del crocefisso esposto e strombazzato come Michelangelo, e che, al più, è opera di bottega, e via elencando. Altro che discontinuità. Una continuità perfetta, “inchiodata”. Tanto più che Salvatore Nastasi rimane, a quanto pare, nel doppio incarico di capo di gabinetto e di direttore generale dello Spettacolo (così recita il sito ministeriale). Come prima, più di prima? Certo. Tutto va ben al Collegio Romano.
Nei primi anni Novanta emersero le difficoltà che misero fine al "patto di finzione" su cui era prosperata l´era craxiana e fecero arrivare il paese in gravi condizioni alla sfida europea
"Oro per la patria" chiese il fascismo agli italiani per sostenere la guerra di aggressione all´Etiopia, e nella "giornata della fede" le donne furono chiamate a donare l´anello nuziale. Cominciò così il percorso che ci avrebbe portati alla tragedia della seconda guerra mondiale, e la Liberazione vide un Paese piegato e piagato. Un Paese che seppe però trovare la forza per risollevarsi e dare avvio ad una Ricostruzione materiale ed etica. In un quadro di drammatica miseria e di inflazione senza freni la moderazione responsabilmente scelta dal sindacato portò a sacrifici pesanti per i lavoratori ma fu decisiva. Ad essa non corrisposero però altre misure: ad esempio una imposta patrimoniale straordinaria e progressiva, e un cambio della moneta volto a colpire gli arricchimenti occulti. Le avevano proposte con forza le sinistre, che parteciparono al governo sino al 1947, ma vi si opposero la destra conservatrice e i grandi poteri economici e finanziari. E le sinistre furono poi estromesse dal governo nel clima della "guerra fredda".
Per risollevarci furono certo decisivi gli aiuti americani e il Piano Marshall ma quel clima pesò negativamente. Alimentò un´offensiva anticomunista e antisindacale che aprì la via a licenziamenti massicci, ad uno sfruttamento intenso nelle fabbriche e al mantenimento di salari bassissimi: profonde iniquità sociali segnarono così il nostro sviluppo e contribuirono alla sua interna debolezza. Ebbero radici qui le tensioni che emersero negli anni del "miracolo", ulteriormente alimentate poi da una dura controffensiva padronale. E destinate inevitabilmente ad esplodere: vennero così l´"autunno caldo" del 1969 e una "conflittualità permanente" che rese più acuta da noi la crisi degli anni settanta. Una crisi aggravata dallo shock petrolifero del 1973, che accentuò la nostra fragilità e mandò in frantumi la più generale illusione di uno "sviluppo senza limiti".
Negli anni Ottanta rimuovemmo quei nodi e dimenticammo colpevolmente che stavano crescendo ormai "i figli del trilione", come fu detto: si stava avvicinando infatti a cifre stratosferiche il debito pubblico che gli adulti stavano scaricando sulle loro spalle. E che salì dal 60% del Pil nel 1981 al 120% e oltre dei primi anni Novanta. La crisi internazionale mise allora impietosamente a nudo le nostre responsabilità, ruppe il "patto di finzione" su cui era apparentemente prosperata l´Italia craxiana e ci fece giungere in pessime condizioni alla sfida europea. Una sfida che apparve allora quasi impossibile ma che venne affrontata positivamente grazie al duro sforzo di risanamento iniziato dai governi guidati fra il 1992 e il 1994 da Amato prima e da Ciampi poi. Furono aiutati da sofferte scelte sindacali sul costo del lavoro (e dal coraggio di leader come Bruno Trentin), e furono meno condizionati che in passato dai partiti, travolti dalla bufera di Tangentopoli. Un paradosso, a ben vedere, che avrebbe dovuto imporre una riflessione profonda e una rigenerazione radicale della classe dirigente: così non fu, e ad una parte del Paese il "nuovo" parve identificarsi allora con le illusioni del populismo antipolitico e mediatico.
Il severo risanamento fu proseguito invece dal primo governo Prodi, che ci assicurò l´ingresso in Europa. Forse in qualcosa fu troppo debole: ad esempio nel farci comprendere il significato profondo del progetto che giustificava i sacrifici. Nell´aiutarci a dare corpo e soprattutto anima ad un futuro europeo da costruire. Oggi abbiamo di fronte lo stesso nodo, ulteriormente aggravato.