Uno degli strumenti che la giunta Cappellacci aveva predisposto per distruggere il Piano paesaggistico regionale della giunta Soru (l’unica applicazione compiuta del Codice del paesaggio) era il cosiddetto “piano-casa”. Esso consentiva, tra l’altro, una deroga amplissima al divieto di costruire, in particolare, nell’area di protezione della fascia costiera puntigliosamente individuata dal Ppr lungo l’intero litorale, con ampiezza variabile a seconda delle specifiche caratteristiche di ogni suo segmento. Analoghe deroghe erano consentite – e sono anch’esse censurate dal governo Monti - dalla legge, della giunta Cappellacci per la “liberalizzazione” dei campi da golf.
Il 20 gennaio scorso il Consiglio dei ministri ha infatti deciso d’impugnare alcune delle leggi della maggioranza berlusconiana della Sardegna, ribadendo la supremazia dei valori di tutela paesaggistica che fanno capo – grazie all’articolo 9 della Costituzione – alla responsabilità dello stato, anche in situazioni quale quella dell’Isola, nella quale la regione dispone di competenze “speciali”. I punti che il consiglio dei ministri ha censurato riguardano in particolare: che gli interventi previsti dalla legge «sono realizzati non solo "in deroga alle previsioni dei regolamenti edilizi e degli strumenti urbanistici comunali vigenti", ma in deroga anche "alle vigenti disposizioni normative regionali"».
Il governo rileva che «la specifica disciplina dettata dalla l.r. Sardegna in esame, consentendo una deroga generica alle vigenti disposizioni normative e regolamentari che disciplinano l'attività edilizia senza tener conto dei vincoli paesaggistici, si pone in contrasto con i principi di tutela dei beni paesaggistici contenuti nel Codice dei beni culturali e del paesaggio e nelle disposizioni di organizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali ad essa collegate ed, in tal modo, viola l'articolo 9 e l'articolo 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione di cui dette disposizioni costituiscono diretta attuazione».
Oltre a censurare alcuni aspetti di natura urbanistica della versione sarda del “piano-casa” il documento censura altri provvedimenti della giunta Cappellacci con i quali si proseguiva e completava l’aggressione alle precedenti norme di tutela paesaggistica. Tra questi, il provvedimento con il quale si consentiva il consolidamento permanente di strutture mobili temporanee, e la famigerata legge per lo sviluppo dei campi da golf. Quest’ultima legge – se l’impugnativa del Consiglio dei ministri non venisse accolta - permetterebbe alla giunta regionale di « adeguare il Piano paesaggistico regionale consentendo la realizzazione nella fascia costiera, entro la fascia di 1.000 metri dalla linea di battigia (500 metri per le isole minori) di nuove strutture residenziali e ricettive connesse ai campi da golf»!
Riportiamo di seguito il testo integrale del documento del Consiglio dei ministri.
Modifiche e integrazioni alla legge regionale n. 4 del 2009, alla legge regionale n. 19 del 2011, alla legge regionale n. 28 del 1998 e alla legge regionale n. 22 del 1984, ed altre norme di carattere urbanistico. (21-11-2011). Regione: Sardegna- Estremi: legge n.21 del 21-11-2011- Bur: n. 35 del 29-11-2011- Settore: Politiche infrastrutturali- Delibera C.d.M. del: 20-01-2012 / Impugnativa
Motivi dell'impugnativa: La legge regionale in esame, recante " Modifiche e integrazioni alla legge regionale n. 4 del 2009, alla legge regionale n. 19 del 2011, alla legge regionale n. 28 del 1998 e alla legge regionale n. 22 del 1984, ed altre norme di carattere urbanistico", presenta diversi profili di illegittimità costituzionale. Si premette che la Regione Sardegna ha potestà legislativa di tipo primario in materia di urbanistica ed edilizia, ai sensi dell'articolo 3 , comma 1, lettera f) dello Statuto speciale di autonomia, l. cost. n.3/1948. La regione è altresì titolare di competenza esclusiva in materia di «piani territoriali paesistici», in base all'articolo 6, comma 2, del d.P.R. 22 maggio 1975, n. 480, di approvazione delle Nuove norme di attuazione dello Statuto, emanato con l. cost. 26 febbraio 1948, n. 3. Ciò premesso occorre tuttavia precisare che le potestà esclusive regionali incontrano, oltre ai limiti generali previsti dagli stessi Statuti, il limite del rispetto delle disposizioni statali costituenti norme fondamentali di riforma economico-sociale.
In particolare, l'articolo 3 del citato d.P.R. n. 480 del 1975, nel prevedere le materie attribuite alla potestà legislativa regionale della Sardegna, richiama il rispetto dei «principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica». Questo principio si evince dalle eseguenti pronunce della Consulta: - Corte Costituzionale sentenza n. 51 del 2006 nella quale, proprio con riferimento alla Regione Sardegna, la Corte ha chiarito che il legislatore statale conserva il potere di vincolare la potestà legislativa primaria della Regione speciale attraverso l'emanazione di leggi qualificabili come "riforme economico-sociali": e ciò anche sulla base del titolo di competenza legislativa nella materia "tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali", di cui all'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, comprensiva tanto della tutela del paesaggio quanto della tutela dei beni ambientali o culturali; con la conseguenza che le norme fondamentali contenute negli atti legislativi statali emanati in tale materia potranno continuare ad imporsi al necessario rispetto del legislatore della Regione Sardegna che eserciti la propria competenza statutaria nella materia "edilizia ed urbanistica" (v. anche sentenza n. 536 del 2002); - Corte Costituzionale sentenza n. 164 del 2009 che ha accolto il ricorso in via d'azione dello Stato avverso una legge della Regione autonoma della Valle d'Aosta in materia di tutela paesaggistica ricordando che la potestà normativa della Regione autonoma deve esercitarsi «in armonia con la Costituzione e con i principi dell'ordinamento, nonché delle norme fondamentali e di riforma economico-sociale» e qualificando norme «di grande riforma economico-sociale» le disposizioni della c.d. legge "Galasso" e l'elenco delle aree tutelate per legge contenuto nell'odierno art. 142 del d.lgs. n. 42 del 2004.
Ciò premesso, sono censurabili, in particolare le seguenti norme regionali :
- 1 L'articolo 7, comma 1, lettera f), della legge regionale in esame, prevede che gli interventi di cui agli articoli 2, 3, 4, 5 e 6 della presente legge sono realizzati non solo "in deroga alle previsioni dei regolamenti edilizi e degli strumenti urbanistici comunali vigenti", ma in deroga anche "alle vigenti disposizioni normative regionali". Tale generica previsione è suscettibile di essere interpretata in un'accezione ampia, tale da ricomprendervi anche normative che afferiscono ad ambiti di legislazione esclusiva statale , risultando pertanto censurabile sotto diversi profili di seguito specificati : - 1.1 Si ha, in primo luogo, una incostituzionale riduzione della tutela paesaggistica, agli effetti della realizzazione del "piano casa", allo stesso livello degli strumenti urbanistici ed edilizi, ciò che si pone in diretto contrasto con la norma di grande riforma economico-sociale posta dall'art. 5 del decreto legge n. 70 del 2011 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 106 del 2011), che ha posto i principi fondamentali sui così detti "piani ? casa" (legge nazionale quadro per la riqualificazione incentivata delle aree urbane), chiarendo, senza ombra di dubbio, che resta fermo il rispetto delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio (in linea, del resto, con i contenuti dell'intesa sancita in sede di Conferenza Stato Regioni in data 1 aprile 2009, che fissava gli ambiti e i limiti di intervento generali dei piani casa regionali, salvaguardando le reciproche competenze dello Stato e delle regioni negli ambiti della salvaguardia della tutela ambientale e dell'urbanistica). La specifica disciplina dettata dalla l.r. Sardegna in esame, consentendo una deroga generica alle vigenti disposizioni normative e regolamentari che disciplinano l'attività edilizia senza tener conto dei vincoli paesaggistici, si pone in contrasto con i principi di tutela dei beni paesaggistici contenuti nel Codice dei beni culturali e del paesaggio e nelle disposizioni di organizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali ad essa collegate ed, in tal modo, viola l'articolo 9 e l'articolo 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione di cui dette disposizioni costituiscono diretta attuazione.
- 1.2 La norma, inoltre, contrasta con i principi dell'ordinamento civile laddove nell'autorizzare genericamente interventi edilizi in deroga omette di richiamare il rispetto del decreto ministeriale n. 1444/1968 che contiene disposizioni in materia di distanze e altezze degli edifici. Al riguardo si fa rilevare che la giurisprudenza ha sempre ritenuto che gli artt. 8 e 9 del predetto decreto ministeriale in tema di distanze tra edifici per la sua genesi (è stata adottato ex art. 41-quinquies, comma 8, della legge 17.08.1942 n. 1150) e per la sua funzione igienico-sanitaria (evitare intercapedini malsane mediante la fissazione di valori minimi inderogabili), costituisce un principio inderogabile della materia (cfr. ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. IV, sentenze 7731/2010 e n. 4374/2011), anche per le Regioni e province autonome che, in base agili statuti di autonomia, siano titolari di competenza esclusiva nella materia urbanistica. La stessa Corte Costituzionale, sin dalla sentenza n. 120 del 1996, ha precisato che "la predetta norma sulle distanze tra edifici, deve considerarsi integrativa di quelle previste dal codice civile (art. 873 cod. civ. e segg.)" e che "le disposizioni sulle distanze fra costruzioni sono giustificate dal fatto di essere preordinate, non solo alla tutela degli interessi dei due frontisti ma, in una più ampia visione, anche al rispetto di una serie di esigenze generali, tra cui i bisogni di salute pubblica, sicurezza, vie di comunicazione e buona gestione del territorio. Si tratta, quindi, di una normativa che prevale sulla potestà legislativa regionale, in quanto integra la disciplina privatistica delle distanze (cfr. anche Corte Costituzionale 16 giugno 2005, n. 232). La Corte costituzionale, poi, con sentenza n. 232/2005, ha avuto modo di affermare che le normative locali (regionali o comunali) possono prevedere distanze inferiori alla misura minima di cui all'art. 9 del D.M 1444/1968, tuttavia entro precisi limiti: l'introduzione di deroghe è consentita solo nell'ambito della pianificazione urbanistica, come nell'ipotesi espressamente prevista dall'art. 9 comma 3 del DM 1444/1968, che riguarda edifici tra loro omogenei perché inseriti in un piano particolareggiato o in un piano di lottizzazione. Sulla scorta delle suesposte argomentazioni si ritiene che l'articolo 7, comma 1 lettera f), della legge regionale in esame, laddove non prevede la salvezza anche delle disposizioni in materia di altezze e distanze di cui al citato decreto ministeriale n. 1444/1968, contrasti con l'articolo 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione che riserva alla competenza esclusiva statale la materia dell'ordinamento civile.
- 1.3 Infine, lo stesso art. 7, comma 1, lettera f), consente che gli interventi edilizi sopra indicati siano realizzabili senza fare salve le misure di controllo dell'urbanizzazione stabilite dalla normativa in materia di rischi di incidenti rilevanti e pertanto si pone in contrasto con il decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334, recante attuazione della direttiva 96/82/CE (Seveso). Al riguardo si osserva che il decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 334 e s.m.i., recante attuazione della direttiva 96/82/CE (c.d. direttiva Seveso), relativa al controllo dei rischi di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose, detta disposizioni vincolanti in materia di assetto del territorio e controllo dell'urbanizzazione. A tal fine il D.M. 9 maggio 2001, che stabilisce i requisiti minimi di sicurezza in materia di pianificazione urbanistica e territoriale per le zone interessate da stabilimenti a rischio di incidente rilevante, prevede che le autorità responsabili della gestione del territorio recepiscono negli strumenti di regolamentazione territoriale ed urbanistica e negli atti autorizzativi dell'attività edilizia, nelle aree interessate dagli effetti degli scenari incidentali ipotizzabili in relazione alla presenza di stabilimenti a rischio di incidente rilevante, le informazioni fornite dai gestori sulle aree di danno e le valutazioni di compatibilità degli interventi fornite dall'autorità tecnica competente. La suesposta normativa statale è, pertanto, inderogabile e trova fondamento nella disciplina recata dalla direttiva 96/82/CE, ed in particolare nell'art. 12 della stessa direttiva che stabilisce misure in materia di controllo dell'urbanizzazione. Sulla scorta delle suesposte argomentazioni si ritiene che la norma in esame viola l'art. 117, comma 1, della Costituzione nella misura in cui contrasta con la normativa comunitaria e l'art. 117, comma 2, lett. s), della Costituzione nella misura in cui dispone in modo difforme dalla normativa nazionale di riferimento afferente alla materia della «tutela dell'ambiente e dell'ecosistema» in cui lo Stato ha competenza legislativa esclusiva.
- 2 L'articolo 18 prevede che, dopo la prima applicazione (fase nella quale si applica il d.P.R. n. 139 del 2010), la Giunta regionale possa individuare ulteriori forme di semplificazione del procedimento di autorizzazione paesaggistica in conformità ai principi contenuti nel decreto del Presidente della Repubblica n. 139 del 2010. La norma, così disponendo, riconosce alla regione una potestà legislativa che appartiene in via esclusiva alla Stato e, pertanto, viola l'articolo 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione che riserva al legislatore statale la materia della «tutela dell'ambiente e dell'ecosistema».
- 3 L'articolo 20 introduce modifiche alla legge regionale n. 22 del 1984 ("Norme per la classificazione delle aziende ricettive"). La nuova formulazione dell'articolo 4-bis, prevede che «nelle aziende ricettive all'area aperta regolarmente autorizzate e nei limiti della ricettività autorizzata gli allestimenti mobili di pernottamento, quali tende, roulotte, caravan, mobil-home, maxicaravan o case mobili e pertinenze ed accessori funzionali all'esercizio dell'attività sono diretti a soddisfare esigenze di carattere turistico meramente temporanee e, anche se collocati in via continuativa, non costituiscono attività rilevante a fini urbanistici, edilizi e paesaggistici.». Sul punto si fa rilevare che non spetta alla normativa regionale qualificare alcuni interventi come paesaggisticamente irrilevanti, ampliando la previsione dell'articolo 149 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Sul piano concreto, l'estensione dell'ambito degli interventi qualificati come paesaggisticamente irrilevanti, contenuta nella nuova formulazione dell'articolo 4-bis (la precedente si limitava agli "allestimenti mobili di pernottamento"), pone seri problemi di impatto paesaggistico. Infatti, occorre considerare che: - per "aziende ricettive" si intendono villaggi turistici e campeggi e, quindi, la previsione riguarda aree assai importanti dal punto di vista paesaggistico; - la definizione delle «case mobili» è incerta, e rischia di costituire motivo di elusione dell'intera disciplina di tutela del territorio, comportando la disapplicazione delle regole di edificazione stabilite nella legge e negli strumenti di pianificazione; tanto più che la disposizione in questione vanifica la necessaria sussistenza delle caratteristiche tecniche individuate quali indici di precarietà e temporaneità (esistenza dei "meccanismi di rotazione" in funzione, "rimovibilità degli allacciamenti alle reti tecnologiche"), poiché qualifica detti interventi come comunque «diretti a soddisfare esigenze di carattere turistico meramente temporanee» anche e nonostante questi risultino « collocati in via continuativa». - sicuramente, tra le «pertinenze ed accessori funzionali all'esercizio dell'attività» ricettiva, potrebbero rientrare strutture edificatorie (ad esempio, quelle dei servizi e degli spazi comuni dei villaggi vacanze) di grande dimensione e di grande impatto paesaggistico, che altrimenti dovrebbero indubbiamente essere sottoposte ad una piena valutazione di compatibilità paesaggistica (oltre che di compatibilità urbanistico-edilizia).
Si aggiunga che interventi del tutto analoghi, se non sostanzialmente coincidenti con quelli che la l.r. n. 21 del 2011 intende "liberalizzare", sono compresi tra quelli soggetti al procedimento di autorizzazione paesaggistica, seppure in forma semplificata, dal d.P.R. n. 139 del 2010, attuativo della previsione dell'articolo 146, comma 9, del Codice (vedi, tipologie di cui al n. 38 e, soprattutto, al n. 39, dell'Allegato) e che il Piano Paesaggistico Regionale, all'articolo 20, comma 1, lettera b), n. 3 ("Fascia costiera"), detta una disciplina di tutela che esclude la realizzazione di detti interventi. Appare dunque evidente, anche in questo caso, l'irragionevolezza della disposizione regionale ed il contrasto con le disposizioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Si segnala che una analoga questione è stata già esaminata e accolta dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 235 del 19 luglio 2011 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, e 2 della legge della Regione Campania 25 ottobre 2010, n. 11, nella parte in cui, nel disciplinare le strutture turistiche presso gli stabilimenti balneari, prevedendo, tra l'altro, «la permanenza delle istallazioni e delle strutture, realizzate per l'uso balneare, per l'intero anno solare», detta norme difformi dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, con particolare riguardo alla pianificazione paesaggistica e al regime dell'autorizzazione paesaggistica. "La normativa censurata ? ha osservato la Corte - prevede sia deroghe alla pianificazione paesaggistica, sia apposite procedure di autorizzazione paesaggistica. Vi è, quindi, una invasione nella competenza legislativa statale, in quanto le disposizioni impugnate intervengono in materia di tutela del paesaggio, ambito riservato alla potestà legislativa dello Stato, e sono in contrasto con quanto previsto dal decreto legislativo n. 42 del 2004 (da ultimo, sentenze n. 101 del 2010 e n. 272 del 2009)". Sulla scorte delle suesposte argomentazioni si ritiene che la norma in esame contrasti con gli articoli 9 e dell'articolo 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione. - 4.
L'articolo 23, commi 6 e 7, della l.r. n. 21 del 2011, sostituendo l'articolo 5, commi 4 e 5, della l.r. n. 19 del 2011, ha previsto che la Giunta regionale sia autorizzata ad adeguare il Piano paesaggistico regionale consentendo la realizzazione nella fascia costiera, entro la fascia di 1.000 metri dalla linea di battigia (500 metri per le isole minori) di nuove strutture residenziali e ricettive connesse ai campi da golf e disponendo che per tali finalità si applica la procedura di cui all'articolo 11 della legge regionale 23 ottobre 1009, n. 4 che si conclude con una deliberazione della Giunta. Questa procedura, non prevedendo alcuna partecipazione dell'Amministrazione statale, viola l'articolo 143 del Codice per i beni culturali ed il paesaggio che, stabilendo l'intesa e l'accordo tra Stato e Regione anche per la revisione dei piani paesaggistici, ribadisce il principio della pianificazione congiunta e costituisce elemento cardine del sistema di tutela del paesaggio, assicurato dal Codice stesso in diretta attuazione del principio fondamentale espresso dall'articolo 9, secondo comma, della Costituzione .
Pertanto, la disposizione in esame presenta profili di incostituzionalità, in quanto eccede dalle competenze statutarie di cui all'articolo 3 dello statuto speciale di autonomia della Regione Sardegna di cui alla legge costituzionale n. 3 del 1948 contrastando con gli articoli 117, comma 2 lettera s), e con l'art. 118, terzo comma, Cost., che rimanda alla legge statale la disciplina delle "forme di intesa e di coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali" Per questi motivi le sopra evidenziate norme regionali devono essere impugnate di fronte alla Corte Costituzionale ai sensi dell'articolo 127 della Costituzione.
All’origine del sisma c’è l’indebolimento della democrazia Lo scacco del modello liberista getta luce sulle radici materiali della crisi dei sistemi rappresentativi. Non se ne esce rivolgendosi ai buoni sentimenti
È vero: nel dibattito politico italiano c’è un elemento di grave provincialismo. Non so se questo dipenda, come pensa Donald Sassoon, dalla fine del Pci che si muoveva in un orizzonte internazionale e abituava i suoi militanti a guardare a ciò che accadeva nel mondo. Non c’è però dubbio che ciò pesi profondamente sia nell’analisi della situazione attuale che nella individuazione di nuove prospettive strategiche.
Basta pensare al modo con cui è stato, in generale, interpretato il fenomeno berlusconiano: come un fatto tipicamente italiano, caratteristico del «populismo» nostrano o, addirittura, come una rinascita, in forme diverse, del fascismo. Mentre è stato la forma specifica assunta in Italia dalla egemonia, a livello europeo, della destre, e si è inserito in un generale processo di crisi e di degenerazione delle forme democratiche.
In questi giorni si è osservato che in Italia, «per governare non è più necessario essere “rappresentanti del popolo”, cioè passati attraverso il filtro del voto». È una tesi discutibile; ma se così fosse, sarebbe, precisamente, l’effetto diretto della crisi della democrazia che si è avuta in Italia negli ultimi due decenni. Non lo sottolineo della generica «crisi della politica» di cui oggi tanto si parla, a proposito e a sproposito; così come, in termini altrettanto generici, e spesso retorici, si parla della necessità di una sua «rigenerazione». Quasi si trattasse di una questione di buona volontà o di un impulso di carattere morale; e non invece di un problema strettamente materiale, che su questo piano deve essere affrontato.
La «crisi» del capitalismo liberista (o finanziario) di cui si parla finalmente in modo aperto getta luce sulle radici materiali della crisi attuale della democrazia e della politica democratica (e sulle stesse ragioni dell’avvento e della fine del berlusconismo), spingendo a guardare oltre i confini nazionali e ad afferrare l’“intero” in cui va situata la vicenda italiana, senza illudersi che essa possa essere risolta adeguandosi al «rigore» di Bruxelles o limitandosi ad avviare una politica certo importante di liberalizzazioni.
Oggi ed è questo il punto centrale c’è un indebolimento generale delle democrazie, una perdita di credibilità delle istituzioni democratiche che viene da molto lontano e che si manifesta anche nella tendenza sempre più diffusa a risolvere direttamente, cioè senza intermediazioni politiche o parlamentari, problemi sia personali che collettivi.
Ma questa crisi ha matrici materiali assai precise e concrete: nei Paesi dell’Ocse per citare un solo, e drammatico, esempio fatto da Sapelli ci sono 250 milioni di disoccupati, e di questi una buona parte sono destinati a restare disoccupati per sempre. Né si intravede, a livello europeo, una presa d’atto di questa situazione; mentre le società diventano, giorno per giorno, più disuguali, più divise, più lacerate e le democrazie perdono sempre più credito, come avviene quando gli individui, volenti o nolenti, sono sospinti nella difesa del cerchio ristretto del proprio interesse particolare.
In una crisi di questo tipo non serve rivolgersi ai buoni sentimenti o indossare i panni di Menenio Agrippa, appellandosi ai valori dell’«ordine sociale». La democrazia vive e si sviluppa se ha solide basi materiali; altrimenti entra in crisi, decade, può morire. Si è sviluppata e diffusa dal 1945 agli anni 70 del secolo corso perché era basata su un organico e conflittuale compromesso tra capitale e lavoro. Oggi è come sospesa per aria, senza fondamento materiale.
Se oggi il problema centrale è quello di «rimotivare» la democrazia, la prima cosa da fare è perciò lavorare per darle nuove basi materiali, ridefinendo i termini di un nuovo «compromesso». E per far ciò le forze riformatrici devono far sentire senza timore la loro voce scegliendo se necessario anche il terreno del conflitto. Fino a poco tempo fa era di moda dire che Marx era morto e sepolto; ora se ne ricomincia a fare il nome.
Certo, i rapporti fra capitale e lavoro oggi si pongono in forme del tutto inedite rispetto al XX secolo; ma come si vede anche dalla crisi attuale, il nesso fra democrazia e lavoro è centrale, strutturale: simul stabunt, simul cadent. È da qui che bisogna perciò ripartire ma ed è un punto altrettanto importante oltrepassando gli orizzonti tradizionali del movimento operaio e costruendo legami materiali, culturali, etici, politici di tipo nuovo che consentano all’Europa di imboccare strade originali, svolgendo il compito che le spetta nel millennio che si è aperto.
Che Berlusco Magnus abbia condotto l´Italia a due dita dalla fossa, lo dicono i numeri. Sembrava onnipotente e in tre anni dilapida il capitale: due mesi fa era un relitto, politicamente parlando, scaricato persino dall´apologetica pseudoequidistante; non capitolerà mai, ripete fino all´ultimo; e come Dio vuole, toglie l´ormai insostenibile disturbo, dimissionario coatto.
Qui lo scenario muta. Nell´anomala maggioranza a due anime su cui campa il gabinetto professorale chiamato a salvare l´Italia dal default, sta meglio che a Palazzo Chigi: ha un potere d´interdizione; i peones temevano lo scioglimento delle Camere; rassicurati, fanno quadrato. Gli resta uno zoccolo duro elettorale sotto ipnosi televisiva, e sa dove cercare sostegni (ad esempio, dalla gerarchia ecclesiastica, pagandoli in favori inauditi sulla pelle dello Stato).
Passiamo alle congetture prognostiche. Il solo punto sicuro è che, rebus sic stantibus, non revochi la fiducia ai professori: istigato dai leghisti in furioso rigurgito tribale («stacchi la spina», cos´aspetta?), ogni tanto ventila propositi minacciosi, da non prendere sul serio; staccandola morrebbe col paziente; e resta da vedere se riesca a staccarla; in una congiuntura simile è prevedibile che dei gregari passino al campo governativo salvando indennità, rimborsi, pensione. Molto dipende dalle lune economiche. Qualora l´Italia esca stremata ma viva, grazie alla terapia eroica, ha partita elettorale scomoda chi vendeva illusioni: sfumata la sbornia, lo vedono dal vero, un pifferaio; istupidendo poveri diavoli s´arricchiva a dismisura, con largo beneficio degli adepti malaffaristi.
Nella seconda ipotesi la primavera 2013 trova l´economia europea in sesto e l´effetto traumatico pesa meno: dirà (il verbo puntuale è «sbraitare») d´avere visto giusto, mentre dei terroristi seminavano paure gratuite in odio al governo amato dal popolo; era un complotto; stampa eversiva, giustizia deviata, tenebrosi poteri forti, ecc.; e riprende fiato il partito della vita facile (lassismo fiscale, al diavolo la concorrenza, favori venali, mercati neri, logge, trionfi omertosi).
Terza, sciaguratissima eventualità, quam Deus avertat, che, fallite le terapie, l´Italia affoghi: Stato insolvente significa tensioni crude; saltano i circuiti legali; nello status naturae immaginato da Thomas Hobbes «homo homini lupus» ma il Caimano Leviathan s´impone ai lupi. È la sua ora: il denaro gli scorre nelle mani; ha castelli, ville, lanterne magiche, trombe; schiera cappellani, maghi, sgherri; assolda compagnie di ventura.
Fantasie apocalittiche? Non direi. S´era fondato l´impero mediante frode, corruzione, plagio: è organicamente incapace d´autocontrollo; gli mancano categorie elementari, dalla morale al gusto. Confermano tale natura nove anni d´un malgoverno funesto: crede che tutto gli sia lecito; pretende poteri assoluti; lo stesso delirio sfoga sul palco internazionale. Supponiamo che l´Italia sia benestante e sull´onda del trionfalismo populistico Sua Maestà riconfiguri lo Stato a modo suo. Quante volte l´ha detto, lamentando d´avere le mani legate, lui, «uomo del fare». Ecco quadri verosimili: abita al Quirinale, penalmente immune, quindi niente da obiettare alle soirées; da Monte Cavallo governa pro domo sua mediante docili ministri; presiede un Consiglio superiore della magistratura addomesticato; il pubblico ministero cambia nome, avvocato dell´accusa, e piglia ordini dall´esecutivo; fioriscono P5, P6 e via seguitando nella schiuma d´affari loschi.
L´unico inconveniente è che, non essendo inesauribili le mammelle collettive, succhiate da boiardi, corruttori, corrotti e varia malavita, prima o poi sopravvenga la bancarotta. Che l´antietica berlusconiana portasse lì, era ovvio: nessun organismo sociale resiste al salasso sistematico; lo sviluppo economico richiede tensioni morali incompatibili con oppio televisivo, saturnali permanenti, furbizie gaglioffe. I caimani non leggono, quindi Re Lanterna non sa chi sia Max Weber, né cos´abbia scritto sull´etica calvinista nella cultura del capitalismo (ma un panegirista, forse burlone, gli attribuiva letture latine, niente meno che Erasmo).
Le prognosi non allargano i cuori. Il berlusconismo sopravvive, non foss´altro come potente lobby, dalle televisioni alla banca, con tante possibili cabale tattiche (fa testo l´infausta Bicamerale), né sono uomini della penitenza i dignitari d´Arcore. E i cantori sedicenti neutrali? Lo proclamavano condottiero neoliberale, salvo ammettere tra i denti che tale non sia un nemico del mercato: servizi simili segnano le persone, chi li ha resi probabilmente continua. Dopo 18 anni d´egemonia brutale o strisciante, quando non stava al governo, è trucco d´esorcista rimuoverlo dalla storia come non vi fosse mai entrato (così Benedetto Croce liquidava vent´anni fascisti, un brutto sogno). Rincresce dirlo ma i fatti parlano: aveva radici etniche e lascia impronte; dettava modelli accettati ex adverso; chiudendo gli occhi sulla colossale anomalia, professionisti della politica lo considerano ancora interlocutore valido. Iscriviamola nei caratteri meno lodevoli dell´anima italiana, una socievole indifferenza morale: è caduto sotto il peso d´errori suoi, sconfitto dai mercati; non che gli oppositori l´abbiano combattuto e vinto in termini d´idee e scelte etiche.
In proposito, dovendo indicare una lettura istruttiva, nominerei Kafka, Il processo, secondo capitolo. Una domenica mattina Josef K., misteriosamente imputato, va in tribunale. Scenario onirico: il pubblico in galleria sta curvo toccando il soffitto con testa e spalle; qualcuno le appoggia al cuscino che s´è portato; aria greve, fumo, polvere, rumori confusi; la platea appare divisa tra due partiti. Nell´arringa K. sentiva in empatia metà del pubblico. Lo interrompono degli strilli. Parlava stando su una predella. Sceso nella calca, vede i distintivi sotto le barbe: erano finti partiti; non fanno caldo né freddo le furenti invettive con cui li apostrofa. Gl´italiani hanno gravi doléances verso una classe politica connivente o inerte davanti al predone, fin dagli anni della resistibile ascesa.
Un canale da scavare in laguna, il porto nei cantieri Mose Nuovo tunnel per le auto. E rispunta l’idea di De Piccoli
Un nuovo canale in mezzo alla laguna. Un nuovo porto ai cantieri del Mose di Malamocco, l’off shore. Un tunnel subacqueo per portare le auto da Pellestrina al Lido e viceversa. Il Mose in avanzato stato di costruzione, i grandi progetti di edificazione al Lido. E sullo sfondo il cemento in gronda lagunare, Tessera city e la sublagunare. Tempo di crisi e di tagli, ma non per i grandi progetti in laguna.
La protesta contro le grandi navi ha prodotto una proposta del Porto che mette sul piatto alternative a breve e lungo termine. Come nel 2003 quando (sindaco era Paolo Costa, ex ministro e attuale presidente del Porto) il Mose venne approvato dal Consiglio comunale con i famosi 11 punti tra cui c’era la grande conca di Malamocco. La conca è quasi ultimata, ma alle navi non basta già più. Tanto che per i petroli e i container il Porto vuole realizzare una piattaforma in mare da un milione e mezzo di euro. Grandi progetti attesi all’esame della città. Le due proposte avanzate per iscritto dal Porto al governo – e condivise dal sindaco Orsoni – parlano di scavare il canale Sant’Angelo Contorta da due a 10 metri. Un anno di lavori, un milione e mezzo di metri cubi di fanghi da scavare, 30-40 milioni di euro di spesa. E poi di realizzare (nel 2017) la nuova Stazione passeggeri nel cantiere dei cassoni del Mose, a Santa Maria del Mare. Il ministro per l’Ambiente Corrado Clini prima della tragedia della Costa Concordia aveva lanciato l’idea di spostare in mare le grandi navi. Ora ha scritto al Porto. «Condivido questa soluzione, fatte salve le verifiche puntuali in merito alle compatibilità ambientali», scrive Clini, che rilancia anche l’idea di spostare in mare le petroliere. E sulla «compatibilità ambientale» dei nuovi lavori con l’equilibrio lagunare il dibattito è già aperto.
L’ingegnere idraulico Luigi D’Alpaos si dice convinto che scavare un canale del genere in mezzo alla laguna avrà «conseguenze idrauliche gravissime». Aumento di acque alte, perdita di sedimenti. Un canale dei Petroli bis. Quanto al porto passeggeri sul Mose, le obiezioni riguardano l’impatto della piattaforma in cemento del Mose (11 ettari) e la distanza da Venezia. I comitati protestano, i proponenti già pensano a un tunnel per le auto. Qualcuno ricorda che un progetto per il porto in mare (a Punta Sabbioni) c’è già, e non è mai stato preso in considerazione. E’ il «Perla» di Cesare De Piccoli: grandi navi al Lido e turisti portati a Venezia con la motonave. Ed è polemica.
Rinviamo alle nostre postille agli articoli di Enrico Tantucci (19 gennaio) e di Alberto Vitucci (21 gennaio)
L’associazione architetti annuncia valanghe di richieste: «Non sono proibite? Le facciamo anche noi»
Una valanga di richieste per farsi autorizzare la «terrazza a vasca». Progetto da decenni vietato a Venezia e ora richiesto da Benetton per il Fontego dei Tedeschi. «La legge deve essere uguale per tutti», dice il presidente degli architetti veneziani Pietro Mariutti, «non si capisce come una norma applicata da tempo ai veneziani possa essere ignorata o aggirata perché lo chiede un grande gruppo industriale». Una protesta che si annuncia clamorosa, quella annunciata dagli architetti veneziani. Che domani si ritrovano in campo Manin per manifestare contro le «lungaggini della burocrazia comunale». E intanto promettono battaglia.
Nel mirino c’è il progetto dell’architetto olandese Rem Koolhaas. Archistar di fama mondiale, a cui Benetton ha commissionato il progetto di restauro e riuso del Fontego dei Tedeschi, palazzo storico ai piedi del Ponte di Rialto acquistato per 53 milioni di euro. «Un riuso che va nel senso indicato dalla tradizione», ha spiegato Koolhaas attraverso i cuoi collaboratori veneziani, «perché il Fontego non diventerà un albergo ma un moderno centro commerciale, com’era nel Cinquecento».
Quello che fa discutere è però lo stravolgimento degli interni, del cortile ma anche del sottotetto e della copertura che dovrebbe lasciare spazio, appunto, a una grande terrazza panoramica «a vasca». Modalità vietata dal regolamento edilizio, ma adesso sul punto di essere approvata. «Dovrà pronunciarsi la Soprintendenza», ha detto il sindaco Giorgio Orsoni. Gilberto Benetton, da parte sua, ha ribadito che «la terrazza è parte strategica del progetto». La rivolta corre sul web, ed è stata portata in pubblico con toni molto chiari dall’architetto Giorgio Gianighian. «Se il Comune approva quel progetto dovrà approvare anche decine di altre terrazze di quel tipo», ha detto l’altra sera all’Ateneo veneto, «anche se non sono firmate dall’archistar. Le norme devono essere uguali per tutti».
Questione intricata. Molti nel mondo degli architetti e della cultura veneziana invitano anche a «valutare il progetto nel merito», vista la peersonalità indiscutibile del grande architetto che lo ha firmato. «Non si possono imporre divieti a tappeto e poi derogarli solo perché a chiederlo è un architetto di grido», dice l’architetto Vincenzo Casali, «Koolhaas è un grande dell’architettura moderna, e il giudizio dovrebbe entrare nel merito, affidato alle commissioni edilizie. Se è vbello si fa, altrimenti no. Ma se continuiamo con i divieti ciechi tuteliamo gli architetti degli anni Cinquanta e la nostra generazione è destinata a non poter far nulla». Amerigo Restucci, rettore del’Iuav, non ha dubbi. «Autorizzare una terrazza del genere in un edificio storico sarebbe una pazzìa. Vuol dire rinunciare all’idea che a Venezia esiste una chiave stilistica e storica che tiene insieme il tutto». La terrazza «a vasca». Ma anche le scale mobili. Una invece di due, retrattile e sospesa, a colori. Elementi ultramoderni che fanno discutere. Il Comune ha firmato con Benetton una onvenzione in cui chiede sia mantenuto l’uso pubblico del cortile a piano terra e di alcuni spazi (biblioteca, cafeteria) al primo piano. Sarà garantito l’uso pubblico del cortile, da decenni sede delle Poste centrali. Adesso si discute del progetto. Lo studio Koolhaas lo presenterà all’Edilizia privata e alla Soprintendenza per il parere. «E’ positivo», aveva detto Benetton quando ministro era ancora Giancarlo Galan, «e interessa molto il ministero». Adesso l’ultima ipotesi dovrà essere valutata dagli uffici.
L’intervista del neo-ministro per i Beni Culturali, Lorenzo Ornaghi, comparsa ieri sul “Corriere della Sera” contiene punti e spunti interessanti. Vi sono tuttavia taluni temi strategici della tutela sui quali sarebbe utile conoscere il suo più che autorevole parere: 1) nell’intervista si parla dei piani-casa (per lo più orrendi) voluti da Berlusconi e solo in parte corretti, non c’è notizia invece dei piani paesaggistici che MiBAC e Regioni dovrebbero avere già redatto da quel dì, e che sono lo strumento fondamentale di difesa dall’aggressione cementizia in atto, per cui la priorità delle priorità è fare il punto su di essi dopo la latitanza dei predecessori di Ornaghi, soprattutto di Sandro Bondi; 2) non vi sono accenni alla grave situazione del personale dei Musei che, senza interventi urgenti, porterà a chiusure sempre più frequenti: qua e là i portoni cominciano a rimanere penosamente, forzosamente sbarrati, magari la domenica; 3) silenzio pure sul rapporto centro-periferia che da anni ormai inceppa i meccanismi della tutela: Ornaghi non ne porta ovviamente colpa di sorta, ma, a fronte della megastruttura centrale, ci sono fior di soprintendenze ancora gestite “ad interim”, e (sono dati recenti forniti dall’arch. Roberto Cecchi oggi sottosegretario) quelle ai Beni Architettonici risultano così sguarnite di personale che, a Milano, ogni tecnico dovrebbe affrontare 79,24 pratiche al giorno…Mi fermo qui: questa è la realtà oggettivamente devastata della tutela dei beni culturali e paesaggistici e ad essa poco lenimento possono apportare i privati, le fondazioni, le associazioni. Su questi tre punti (ma ve ne sarebbero alcuni altri) lo Stato c’è o non c’è. Senza vie di mezzo.
Il ministro ribadisce la volontà di far decollare, coi dovuti paletti, l’operazione-Colosseo. Tutti siamo favorevoli. In chiarezza e con una premessa: il grido “il Colosseo crolla!” è clamorosamente fasullo. Il monumento-simbolo – l’ha chiarito bene la sua direttrice Rossella Rea ad “Ambiente Italia” (Rai3) – è stato “messo in sicurezza” coi 40 miliardi di lire forniti a metà degli anni ’90 dalla Banca di Roma. A cosa serviranno i 25 milioni di euro della Tod’s? L’ha specificato la stessa Rea: a) ripulire con nebulizzazioni i marmi dell’Anfiteatro; 2) rifare le cancellate; 3) togliere l’asfalto dai percorsi interni riscoprendo il travertino originario; 4) creare il Centro Servizi. C’entra tutto ciò con la sicurezza strutturale del Colosseo? Meno di zero. Il monumento “soffre”, questo sì, per le scosse continue del vicino traffico veicolare, anche pesante, e per l’eccesso di “pressione antropica”, cioè di visitatori. Qualcuno vuole eliminare il traffico? Per Alemanno è più facile gridare “al crollo”. Quanto ai 5 milioni di visitatori…se ne vogliono tanti di più.
Titolo originale: Let’s choose towns for all, not suburban sprawl - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Il governo britannico è sul punto di prendere la decisione più importante da un decennio a questa parte sul futuro delle città e delle campagne. Il sistema nazionale di pianificazione può condurci alla ricchezza economica proseguendo nel processo di rinascita urbana, oppure scatenare le devastanti energie della dispersione. Sono trascorsi quasi tredici anni, da quando ci trovammo di fronte a una simile scelta. Nel 1999, dopo un approfondito dibattito pubblico sulla casa, l’espansione urbana, il degrado delle zone centrali, il governo istituì una apposita task force, da me presieduta. Nostro obiettivo era di porre termine a un’epoca di cattiva progettazione urbana periferica che risucchiava la vitalità dei centri riempiendo le strade di milioni di automobili. Volevamo sfruttare lo sviluppo economico per rivitalizzare città grandi e piccole, in modo sostenibile. Le nostre indicazioni erano sostenute da tutti i principali partiti politici.
Lunghi anni di lavoro sui grandi progetti di architettura in tutto il mondo, mi hanno convinto che un buon sistema urbanistico rappresenta la chiave della riqualificazione, e quindi dello sviluppo economico nelle città. Nel Nord America si notano enormi differenze fra situazioni come quelle di Detroit o Phoenix, dove l’assenza di buona pianificazione ha cancellato la vitalità dei quartieri centrali, e Portland o Vancouver, dove ci si è invece preoccupati di concentrare le trasformazioni nell’area interna. In Inghilterra ci sono più superfici già urbanizzate disponibili che in qualunque altro paese. Dando loro la precedenza, negli ultimi dieci anni, abbiamo visto tornare la vitalità nei centri più importanti del paese. Quartieri storicamente emarginati che si trasformavano, si ripopolavano, vedevano crescere i valori immobiliari. Aree urbane che si rafforzavano grazie a una coordinata crescita di case, uffici, negozi, attività culturali. Si sosteneva la vita collettiva, si arginava l’invadenza delle auto, si ripristinavano antichi edifici e spazi. Una città compatta non ha solo valore economico e sociale, ma è anche molto più energeticamente efficiente (fino a cinque volte tanto) di quanto non lo sia un insediamento disperso.
Se la Gran Bretagna vuole restare competitiva nello scenario globale, c’è bisogno di case e spazi del lavoro meglio concepiti. Purtroppo la rinascita urbana resta un fenomeno fragile, e con la recente crisi economica è molto rallentata, in alcuni casi si è addirittura fermata o peggio. Condivido la preoccupazione del comitato congiunto della Camera dei Comuni, quando si rileva che la bozza attuale di riforma urbanistica mette in primo piano gli aspetti economici, al di sopra di quelli sociali e ambientali. Sono anche del tutto d’accordo con la necessità di concentrarsi in prima istanza sulle superfici già urbanizzate, prima di pensare alle trasformazioni di aree libere; prima il centro, delle zone extraurbane. Anche il rapporto sulle arterie commerciali curato da Mary Portas afferma: “Una volta investito nella creazione di un capitale sociale nel cuore delle città, il capitale economico seguirà”. Sono perfettamente d’accordo: lo spazio pubblico è un diritto civile.
Al governo non mancano certo le migliori informazioni di prima mano su cosa dovrebbe essere cambiato. Credo che il sottosegretario responsabile, Greg Clark, le abbia ascoltate, spero che seguirà le raccomandazioni del comitato. Clark deve anche sfruttare il nuovo sistema urbanistico per dar senso a una crescita sostenibile. Che non vuol dire coniare nuove definizioni sul significato, ma di cosa vuole dire quel termine quando si tratta di territorio e edifici, ovvero esprimere un chiaro orientamento verso per quartieri compatti e a varie funzioni, inseriti nelle aree urbane esistenti, riqualificare ciò che già c’è, rispettare l’ambiente, la storia, rafforzare il tessuto economico e sociale dell’Inghilterra urbana.
Però si sta discutendo di qualcosa di più di questi particolari. In gioco c’è il riconoscimento da parte del governo, per usare le stesse parole di Clark, che c’è bisogno di “più pianificazione, non di meno” per garantire la certezza degli investimenti, prerequisito per una rapida ripresa economica. C’è anche bisogno di un nuovo impegno da parte delle amministrazioni locali per predisporre i piani regolatori. Scandalizza, che solo meno della metà del totale sia dotata di un piano aggiornato per governare lo sviluppo del proprio territorio. Il governo deve anche occuparsi delle competenze interne alle amministrazioni, che sono carenti. Se non si interviene, esistono zone del paese che resteranno ancora senza piani aggiornati per molti anni.
Arrivare a questa riforma nazionale è cruciale per il futuro del paese. Il 90% di noi abita e lavora in aree classificate urbane. Ci avviene gran parte della nostra attività economica. Se usassimo il sistema urbanistico per sostenere e rafforzare il sistema urbano, esso diventerà il motore economico dello sviluppo. Ma se consentiamo troppa libertà al mondo delle costruzioni per operare in zone extraurbane, sicuramente le prossime generazioni non ci ringrazieranno, perché saranno costrette a pagare un prezzo molto salato in termini di coesione sociale, degrado naturale, e anche occasioni economiche perdute
Titolo originale: Putin suggests a public green space to replace wasteland of Soviet grey – scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Da quando è stato demolito il mostruoso Hotel Rossiya nel 2006, pare che nessuno abbia più saputo che farsene, di quell’enorme spazio che occupava, appena alle spalle delle cupole a forma di cipolla della cattedrale di San Basilio, vicino alla Piazza Rossa. Perlomeno, finché da lì non è passato qualche giorno fa Vladimir Putin. In visita insieme al sindaco di Mosca, al primo ministro è venuta un’idea. “Lo sa cosa penso? – ha detto Putin. Che in pratica negli ultimi anni si sono ormai costruite tutte le zone a parco del cuore di Mosca. Magari qui potremmo farci proprio un parco”.
Una osservazione casuale che potrebbe cambiar faccia al centro della città nei prossimi decenni. Il sindaco Sobyanin ha risposto che gli pare una idea “interessante”, e nell’arco di poche ore il suo ufficio annunciava ufficialmente la redazione di un progetto di parco in quell’area. Negli anni si erano accumulate una serie di proposte, tutte accantonate. All’inizio si pensava a un altro enorme albergo con centro commerciale, progettato dall’architetto britannico Lord Foster. Abbandonato dopo le difficoltà del costruttore per la crisi finanziaria. Poi si è passati a nuovi edifici amministrativi, per una zona che sta fra la Piazza Rossa e la Moscova. Un altro progetto che pare abbandonato. Nonostante la natura piuttosto estemporanea dell’ultima idea, sarebbero molti i moscoviti favorevoli a un parco, a mantenere a spazio pubblico una bella zona centrale della città, anziché trasformarla nell’ennesimo albergo di lusso o centro commerciale per ricchi.
Un importante critico di architettura, Grigory Revzin, l’ha definita una “idea brillante”. A Mosca è molto cambiato l’atteggiamento nei confronti dei parchi nell’ultimo anno, dopo che l’imprenditore Roman Abramovich ha iniziato a finanziare il rinnovo di Gorky Park e gli interventi di architetti e urbanisti. L’albergo Rossiya era un grigio mastodonte, in grado di contenere oltre 4.000 persone. All’epoca della costruzione negli anni ’60 per fargli posto era stato demolito un quartiere tradizionale. Oggi è stata demolita gran parte degli alberghi di epoca sovietica nel centro di Mosca, per sostituirli con moderni cinque stelle. L’area del Rossiya però era rimasta vuota, transennata e ingombra di macerie.
ACQUA CASSATA
La volontà popolare è salva Per ora
di Alberto Lucarelli
Appena il manifesto mercoledi scorso mi ha avvertito della norma truffa contenuta nel decreto Monti bis sulle liberalizzazioni, che all'art. 20 vietava alle aziende speciali di gestire i servizi di interesse economico generale, non ho esitato a confermare il mio giudizio in merito ad un progetto eversivo, incostituzionale: una barbarie giuridica.
Ancora una volta l'immediata reattività del manifesto e del Forum dei movimenti per l'acqua consentiva di tutelare ed affermare principi elementari di convivenza e di civiltà giuridica: l'art. 20 veniva stralciato. Una vittoria dunque, la cittadinanza attiva ha resistito.
Il decreto approvato nel suo complesso è devastante e qualcuno potrebbe dire che la nostra è stata una vittoria di Pirro. Non è così! Certo, esso inasprisce quanto introdotto dalla manovra di ferragosto, ovvero il progetto di privatizzazione forzata dei servizi pubblici locali, disattendendo l'esito referendario. Tuttavia l'aver bloccato quella norma ha un forte significato. La democrazia partecipativa ha impedito alla democrazia tecnocratica di commissariare definitivamente la democrazia locale, negando ai comuni di scegliere i propri modelli organizzativi, ma soprattutto ha impedito che fosse decretato il de profundis dei soggetti di diritto pubblico, quali appunto l'azienda speciale, ente pubblico superstite nell'ordinamento giuridico italiano.
Il governo stralciando l'art. 20 dal decreto ha avuto paura di approvare un "papocchio" e soprattutto paura di 27 milioni di cittadini pronti questa volta a trasformare i voti in "spade". Ci proveranno ancora? Gli intrecci affaristici sono belli e pronti e attendono soltanto il «la» per depredare e saccheggiare i beni comuni. Per questo motivo i movimenti dovranno essere sempre più compatti e l'obiettivo finale dovrà essere il governo pubblico democratico e partecipato di tutto il ciclo integrato delle acque: dalle sorgenti, alla captazione, agli oneri di concessione, agli ambiti territoriali, alla difesa del suolo e dei bacini idrografici, alle tariffe, ai modi di gestione e finanziamento, alla trasparenza nelle gare di appalto, alla dimensione sociale.
L'azienda speciale Abc Napoli, voluta fortemente da de Magistris, e ancora avversata, nella sua prima realizzazione, da poteri oscuri e trasversali, si è, per il momento, salvata, ma forse abbiamo contribuito anche a salvare un "pezzettino" della democrazia locale, che, fino a quando i comuni non decideranno di reagire con forza alla dittatura del patto di stabilità, rischia, giorno dopo giorno, di divenire un simulacro. Ma di questo e altro se ne parlerà il 28 gennaio a Napoli nel primo Forum della rete dei comuni per i beni comuni, con l'obiettivo di smettere di scrutare il pagliaio e con la consapevolezza che è arrivata l'ora di trovare l'ago. Alcuni comuni l'ago lo stanno trovando e la novità è che lo stanno trovando trasformando in azione politico-amministrativa quanto emerso e dettato dal basso, dalle pratiche sociali: dal conflitto e dalla proposta. All'orizzonte, ma neanche tanto, nuovi modelli di democrazia e nuove soggettività con l'ambizione di esprimere alternative al dominio di una sovranità autoritaria da disincagliare dagli istituti della rappresentanza, della delega e dalle logiche proprietarie egoistiche ed escludenti.
GRANDI OPERE
Ponte sullo Stretto, lo stop definitivo
(red.)
È sicuramente una buona notizia lo stop del Cipe al Ponte sulla Stretto di Messina. E infatti esultano comitati e associazioni ambientaliste che hanno combattuto battaglie pluriennali contro la grande opera. Il Cipe, che ha sbloccato venerdì interventi infrastrutturali per 6,2 miliardi, ha bloccato il Ponte e finanziato invece piani di opere medio-piccole immediatamente cantierabili per l'ammodernamento delle scuole (556 milioni), la difesa del suolo (750 milioni), la manutenzione della rete ferroviaria (840 milioni all'interno del Contratto Rfi). Secondo il Sole24ore, che ieri ha riportato la notizia, «c'è un doppio cambio di filosofia rispetto ai tre anni gestiti dal ministro Tremonti. Si favoriscono da una parte interventi diffusi sul territorio piuttosto che mega opere dai tempi lunghi; e dall'altra si definiscono piani dettagliati e già concordati con il territorio allo scopo di far partire prima possibile le ruspe». Ora andrebbe sciolta la società che avrebbe dovuto gestire il Ponte.
La trivella non si ferma nelle aree protette
di Andrea Palladino
Giallo sulle perforazioni. L'articolo 17 del decreto «Cresci Italia» consente le ricerche petrolifere nelle «nuove aree protette». I Verdi attaccano, Clini smentisce
È un corpo fluido il decreto Monti, una sorta di ectoplasma che si aggira tra i corridoi dei palazzi romani, pronto a cambiare colore, odore, consistenza. Impossibile avere un testo certo, che possa fugare i tanti dubbi sulle scelte dell'esecutivo. Ed è un vero giallo la questione della trivella libera, ovvero della norma contenuta nell'articolo 17 dell'unico documento arrivato informalmente nelle redazioni dopo le otto ore di discussione a Palazzo Chigi. Non è roba da poco: se quel testo fosse confermato le parole del ministro dell'ambiente Corrado Clini - che assicurava tutti sul rispetto delle aree protette - sarebbero clamorosamente smentite, aprendo le porte alle piattaforme offshore nelle zone più pregiate del nostro mare.
A lanciare l'allarme ieri mattina, quando tutti i giornali riportavano quell'unico testo conosciuto, è stato il presidente dei Verdi Angelo Bonelli: «Sulle trivellazioni petrolifere avevamo ragione noi: confermiamo quello che abbiamo denunciato ieri e le smentite che sono arrivate suonano come delle prese in giro». Venerdì sera, subito dopo la chiusura del consiglio dei ministri, Corrado Clini aveva assicurato che «il decreto liberalizzazioni non contiene alcuna norma relativa alle trivellazioni in mare». Una smentita che però non toglie il legittimo dubbio. Il ministero dell'ambiente, contattato ieri da il manifesto, non ha voluto divulgare il testo definitivo approvato dal consiglio dei ministri, limitandosi a ribadire le dichiarazioni di Clini: «Mandarvi il testo di sabato pomeriggio? Impossibile. Lo renderà noto Palazzo Chigi», hanno spiegato i collaboratori di Corrado Clini. C'è di più: il documento pubblicato sui siti dei principali giornali italiani - che porta la data del 21 gennaio, ore 9.37 - non è stato mai smentito da Palazzo Chigi o dal ministro Passera, autore di gran parte del decreto. E su quel documento l'articolo 17 è presente.
Il testo, se confermato, renderebbe di fatto possibile aggirare il divieto di estrarre il petrolio nelle aree protette, compresi i santuari marittimi. Fino ad oggi il testo unico sull'ambiente del 2006 vietava la trivellazione «all'interno del perimetro delle aree marine e costiere a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela ambientale». L'articolo 17 del decreto Monti - o almeno del testo divulgato venerdì pomeriggio - cambia sostanzialmente questo passaggio. Primo punto: «Nel caso di istituzione di nuova area protetta restano efficaci i titoli abilitativi già rilasciati». Le zone marine in attesa di completamento dell'istruttoria - in carico al dicastero di Corrado Clini - per essere dichiarate protette sono ben dodici: Costa del Piceno, l'isola di Gallinara, l'arcipelago toscano, la costa del Monte Conero, capo Testa, il Golfo di Orosei, capo Monte Santu, le Isole Eolie, l'isola di Pantelleria, la Penisola salentina, Pantani di Vindicari in Sicilia, l'arcipelago della Maddalena. Zone che in molti casi - come nel canale di Sicilia e nella zona della Penisola salentina - coincidono con aree di possibili estrazioni di petrolio attraverso le piattaforme offshore.
Secondo i dati pubblicati dal ministero dello sviluppo economico - il dicastero che rilascia le concessioni petrolifere - ad oggi sono state autorizzate 25 attività di ricerca di idrocarburi in mare e 91 in terra ferma. Altre 45 richieste per attività al largo delle nostre coste sono in attesa di essere analizzate. In molti casi le aree interessate coincidono o sfiorano quelle zone che dovrebbero un giorno essere dichiarate protette. È il caso, ad esempio, della vasta area richiesta dalla società inglese Spectrum, che attraversa buona parte del mare Adriatico, dal Golfo di Manfredonia fino alla punta del Salento, zona candidata a divenire protetta. In questa stessa zona del mare della Puglia potrebbero iniziare a breve le prospezioni della Northern Petroleum, altra società del Regno Unito, specializzata in ricerche petrolifere. Questa stessa società ha chiesto al governo italiano la concessione per altre aree nel canale di Sicilia, comprese tra il mare di Agrigento e l'isola di Pantelleria, zona inclusa nell'elenco delle aree protette ancora da approvare.
Con la nuova norma, qualora fosse confermata, le ricerche petrolifere in queste aree del Mediterraneo meridionale potrebbero continuare anche dopo il decreto di delimitazione delle zone protette. Mentre il Costa Concordia rischia di uccidere il mare dell'isola del Giglio, spargendo più di 2000 litri di gasolio, e in attesa che qualcuno inizi a cercare i 200 fusti di solventi sparsi nel santuario dei Cetacei nell'arcipelago toscano, il ministro Passera ha tentato di trasformare il Tirreno e l'Adriatico in un novello golfo del Messico. Corrado Clini assicura che alla fine il buon senso è prevalso e che quell'articolo ammazza mare non è passato. Di fronte ad un testo fantasma il dubbio resta, fino alla firma di Napolitano.
10 mila No-Triv in piazza contro i pozzi nell'Adriatico
(red.)
Circa 10 mila persone (8 mila per la Questura) hanno manifestato ieri a Monopoli, in provincia di Bari, contro le prospezioni geosismiche alla ricerca di petrolio nel Mare Adriatico. Al corteo, indetto dal Comitato No petrolio, Sì energie rinnovabili, hanno partecipato anche il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, il presidente del Consiglio regionale Onofrio Introna e diversi sindaci, compreso il primo cittadino di Monopoli Emilio Romani, che ha chiesto una moratoria delle trivellazioni. Per Stefano Ciafani e Francesco Tarantino, presidente nazionale e vicepresidente regionale pugliese di Legambiente, «se estraessimo gli 11 milioni di tonnellate di riserve petrolifere stimate nei fondali marini del nostro Paese, li esauriremmo in soli 55 giorni. Perciò basta con le menzogne: le trivellazioni non servono a ridurre i costi delle bollette». Per il senatore del Pd Salvatore Tomaselli, anche lui in piazza, il messaggio della manifestazione è che «nessuna scelta che porti con sè rischi gravi per l'ambiente può essere più imposta alle comunità locali, come spesso è avvenuto in passato».
I POZZI DELL'ENI NEL MARE DI CROTONE
Quelle trivelle a Capo Colonna, lo scempio nella Magna Grecia
di Filippo Sestito
La norma presente all'interno della bozza del decreto sulle liberalizzazioni prevede la possibilità di facilitare la ricerca di idrocarburi nelle acque territoriali italiane. Di fatto il governo Monti concede alle multinazionali del petrolio e dell'energia di trivellare i fondali marini anche in aree preziose dal punto di vista ambientale e protette.
Nello specifico, per quanto riguarda la città di Crotone, questo provvedimento si inserisce in una politica che ha visto da decenni l'Eni estrarre nel tratto di mare a ridosso della costa crotonese e del promontorio di Capo Colonna circa il 15% del fabbisogno nazionale di gas metano, in una logica di costante sfruttamento del territorio, senza alcuna adeguata garanzia per i danni ambientali prodotti alla flora ed alla fauna marina e che provocano inoltre il fenomeno della subsidenza - sprofondamento ed erosione del territorio - senza nessuna tutela e con scarsa ricaduta economica per la comunità del crotonese.
Numerosi pozzi per l'estrazione del gas metano e tre piattaforme di proprietà dell'Eni, collocate a qualche miglio dal litorale crotonese, svettano nell'immediata prossimità dell'area marina protetta più grande d'Europa e di uno dei più importanti siti archeologici della Magna Grecia, il promontorio di Capo Colonna. A più riprese l'Eni ha realizzato interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria dei pozzi estrattivi a poche decine di metri dall'unica colonna dorica del tempio di Hera Lacinia rimasta in piedi. Va ricordato che in quell'area è impedita la realizzazione di qualunque opera che possa compromettere la stabilità stessa della colonna e la conservazione dell'area archeologica.
Crotone aspetta da circa quindici anni la bonifica dell'ex area industriale da parte dell'Eni. Le industrie del polo chimico dismesso, infatti, hanno provocato un inquinamento fortissimo a danno dei lavoratori, di tutto il suolo ed il sottosuolo interessato dagli impianti, dello specchio di mare adiacente, delle falde acquifere e dell'aria che respiriamo. Oggi, inoltre, a seguito dell'inchiesta della magistratura crotonese, si scopre che i materiali di risulta di quelle produzioni chimiche sono stati utilizzati per costruire edifici pubblici e privati. Il danno ambientale è quantificato, secondo una perizia di parte commissionata all'Apat dal ministero dell'Ambiente, in 1.920 milioni di euro che, sommati alla richiesta di risarcimento della Regione Calabria, fa un totale di 2.720 milioni di euro che l'Eni deve pagare per la bonifica dei siti indebitamente inquinati.
«Vogliono bloccare la città riproponendo un metodo centralista e dirigista». Carlo Masseroli, capogruppo Pdl ed ex assessore all'Urbanistica, contesta la filosofia del nuovo pgt firmato dall'assessore Ada Lucia De Cesaris che arriva oggi in giunta. E il presidente della Provincia, Guido Podestà, ricorda: «Si era deciso di destinare gli oneri degli Scali ferroviari al prolungamento delle metropolitane».
«Gli obiettivi possono anche essere condivisibili, ma non sono realizzabili. E il rischio è che Milano si blocchi».
Carlo Masseroli, capogruppo del Pdl in consiglio comunale ed assessore che aveva messo la firma al Piano di governo del territorio adottato e poi revocato dalla giunta Pisapia, non vuole essere tranchant: «la piattaforma è rimasta sostanzialmente uguale e comunque siamo tutti convinti del fatto che Milano ha bisogno di regole certe perché non venga bloccato il necessario processo di sviluppo. Esamineremo il documento: ma se le premesse sono quelle anticipate dall'assessore, Milano è destinata ad arretrare». Masseroli si spiega: «Sembra si vogliano far prevalere il dirigismo tipico dei vecchi e falliti piani regolatori, il centralismo e la burocrazia. E' antistorico dal punto di vista culturale ed economico, soprattutto in un momento in cui anche il Governo centrale impone le liberalizzazioni, è sbagliato usare questo metodo».
Il nuovo provvedimento firmato dall'assessore Ada Lucia De Cesaris approda oggi in giunta e, subito dopo, comincerà l'iter in commissione prima dell'arrivo in consiglio comunale, previsto per metà febbraio. Un provvedimento che taglia gli indici edificatori (da 0,5 a 0,35), fissa un indice massimo di 1 (che, sulle aree non costruite, può essere raggiunto con premialità, anche per la realizzazione di residenza sociale), mette il Parco Sud al riparo dal cemento, abolisce il tunnel Expo-Forlanini ma conferma la Circle line, riporta il cambio di destinazione sotto il controllo del Comune e aumenta del 25 per cento l'edilizia sociale residenziale.
Masseroli insiste: «Se tieni bassi gli indici non hai plusvalenze. E allora mi devono spiegare come fanno il Parco Sud, la Circle line e le case in housing sociale». E poi, «basta con il dibattito sulla quantità di cemento, che è un approccio provinciale e ideologico al tema della gestione del territorio. Meglio il cemento di Brera che il non cemento di Porto di Mare, dico io per paradosso. Se continuiamo a mettere paletti, alla fine lavoreranno soltanto i grandi operatori che per paradosso sono i nemici contro cui si è spesso mossa la sinistra».
Ancora: «Bisogna aumentare quantità e qualità di servizi, siamo d'accordo. Il nostro Pgt indicava la strada, con un sistema di accreditamento per riconoscere chi fa servizi. Con tutto il rispetto per il tentativo fatto, come si muoverà questa giunta, in alternativa?».
La critica è di fondo: «Questo Pgt — accusa Masseroli — poggia tutto sulle spalle del pubblico. Ma il pubblico, in questa fase, non ha più un euro e il rischio è che questo piano resti un bel libro dei sogni. Spero che nella fase delle modifiche in aula potremo lavorare insieme, e sono pronto a ricredermi».
Preoccupato anche il presidente della Provincia, Guido Podestà: «Anzitutto, mi auguro che non si perda altro tempo, perché Milano ha bisogno di uno strumento di riferimento urbanistico. In particolare, poi, spero sia confermato l'impegno che avevamo concordato con il sindaco Letizia Moratti: destinare una parte degli oneri della riqualificazione degli scali ferroviari ai prolungamenti della metropolitana verso i Comuni della Provincia. È un intervento necessario per la battaglia all'inquinamento e al traffico».
Preoccupato il capogruppo leghista in Comune, Matteo Salvini: «La battaglia sul cemento l'abbiamo fatta noi, dai banchi della maggioranza, ed è per merito nostro che l'ippodromo è rimasto ippodromo. Ma ci vuole buon senso e il timore è che la sinistra abbia estremizzato questo tema, bloccando di fatto Milano e allontanando tutti gli operatori, che qui non potranno più costruire. Quando si ferma una città, si rischia di perdere migliaia di posti di lavoro».
L'ex presidente del consiglio comunale, Manfredi Palmeri (Fli) ricorda: «Non votai il precedente Pgt perché volevo venissero tutelate le osservazioni dei cittadini. Ma con Pisapia non è cambiato molto: si finge di ascoltare la città ma si impedisce di fare nuove osservazioni pescando fra quelle vecchie le più gradite alla sinistra: è un privilegio della giunta e della maggioranza contro i cittadini, che possono essere solo spettatori».
Sono 1.562 i progetti orfani dell'otto per mille dopo che i 45 milioni a disposizione nel 2011, racimolati con le dichiarazioni dei redditi 2008, hanno preso altre vie rispetto alle quattro (calamità naturali, lotta contro la fame nel mondo, assistenza ai rifugiati, salvaguardia dei beni culturali) indicate dalla legge e per le quali i contribuenti ogni anno scelgono di destinare la loro quota di Irpef allo Stato. Dei progetti rimasti al palo, il 76% riguarda interventi per il patrimonio artistico, il 13% per le calamità, l'8% per la fame nel mondo e il 3% per i rifugiati. E’ dal 2001 che la quota dell'otto per mille da destinare al sociale si assottiglia, anche se mai come l'anno scorso era arrivata a rimanere completamente a secco. La continua decurtazione, operata soprattutto per far fronte alle esigenze dei conti pubblici, ha fatto sì che in undici anni (dal totale 2011) il fondo dell'otto per mille disponesse di 1,2 miliardi, ma in realtà abbia potuto "spendere" solo 510 milioni. Meno della metà. Il resto delle risorse ha preso altre strade.
L'otto per mille nel 2011 ha lasciato a bocca asciutta 1.562 progetti che aspiravano a ricevere una parte dei 145 milioni che i contribuenti hanno destinato allo Stato nel 2008 attraverso la dichiarazione dei redditi. A essere penalizzati sono soprattutto gli interventi nel campo dei beni culturali, che rappresentano il 76% delle proposte arrivate alla presidenza del Consiglio. Seguono, ma a grande distanza, i progetti contro le calamità naturali il 13% delle richieste), quelli contro la fame nel mondo (8%) e, infine, le misure di assistenza ai rifugiati. L'andamento delle richieste presentate entro lo scorso metà marzo alla presidenza del Consiglio e che come ogni anno Palazzo Chigi avrebbe dovuto scremare sulla base dei requisiti dei candidati, per poi predispone il piano di ripartizione, è in sintonia con quanto avvenuto nel passato. Negli ultimi undici anni, infatti, i progetti relativi ai beni culturali hanno sempre rappresentato di gran lunga la maggioranza e questo spiega perché nel periodo 2001-2011 abbiano ricevuto complessivamente oltre 346 milioni di euro, contro i 103 milioni destinati alle calamità naturali, i 48 milioni peri rifugiati e i 18 milioni per debellare la fame nel mondo.
Già nel 2006 e nel 2008 per la scarsità delle risorse - in quegli anni l'otto per mille a disposizione era, in entrambi i casi, di 89 milioni, poi ridotto, per effetto del trasferimento delle finanze ad altre finalità, rispettivamente a 4,7 e 3,5 milioni - alcuni settori erano rimasti a secco. Nel 2006 gli oltre 4 milioni avevano aiutato solo i progetti contro la fame nel mondo, mentre due anni dopo erano state privilegiati i progetti sulle calamità naturali, a cui erano stati trasferiti tutti i 3,5 milioni. Mai, però, si era arrivati a non avere neanche un soldo da destinare alle quattro aree di intervento previste dalla legge. Nel 2011, infatti, i 145 milioni si sono lentamente assottigliati, fino a scomparire del tutto. I primi 64 se ne sono andati a luglio scorso, quando la manovra (il D1 98) ha deciso che quelle risorse servivano a far fronte alle emergenze della protezione civile. A dicembre è stato il sovraffollamento delle carceri a presentare il conto e così il decreto legge m ha dirottato 57 milioni per finanziare l'edilizia penitenziaria. I residui 24 milioni sono caduti sotto le esigenze dei conti pubblici, che per raddrizzarsi racimolano risorse dove ce ne sono. Saldo finale: zero. Poco importa - ma questa è storia che si ripete da anni - che i contribuenti abbiano destinato i soldi allo Stato, piuttosto che alla Chiesa cattolica o alle altre confessioni religiose, per vederli impegnati nel sociale.
D'altra parte è dal 2001 che le risorse dell'otto per mille lottano con le necessità del bilancio statale, bisognoso di reperire finanze. Per esempio, nel 2004 la Finanziaria sottrasse dal fondo dell'otto per mille 8o milioni, che furono in parte utilizzati per ripianare i buchi dei conti pubblici, ma anche per inviare il nostro contingente militare in Iraq e per il Fondo di previdenza del personale di volo. Così che negli ultimi undici anni l'otto per mille ha perso più della metà delle risorse: aveva a disposizione 1,2 miliardi, ma alla fine sono rimasti solo Sto milioni. Di fronte a ciò assume ancora più rilievo la proposta di evitare che la quota del contributo possa prendere strade diverse da quelle previste dalla legge e che i contribuenti si aspettano. Lo stop all'abitudine di svuotare il teso- retto dell'otto per mille è contenuto in un disegno di legge- frutto di un collage di diversi progetti parlamentari - approvato a fine settembre dalla Camera e ora all'esame del Senato. Il Ddl prevede nuovi criteri di ripartizione dei soldi, piano che ora predispone entro fine luglio di ogni anno la presidenza del Consiglio sulla scorta delle indicazioni delle amministrazioni competenti. Secondo la proposta, invece, anche le commissioni parlamentari - che ora hanno solo una funzione consultiva e che in passato si so- no spesso trovate in disaccordo sulla ripartizione operata da Palazzo Chigi - dovrebbero dire la loro su come suddividere i soldi. Sempre che i fondi non vengano dirottati altrove. Ma anche in questo caso il Ddl impone qualche vincolo: lo storno delle risorse può avvenire solo di fronte a esigenze impreviste assolutamente straordinarie.
Ci sono due strade per creare occupazione. Una è quella delle politiche fiscali: lo Stato riduce le tasse alle imprese per incentivarle ad assumere. L´altra vede lo Stato creare direttamente posti di lavoro. Rientrano palesemente nella prima le misure predisposte dal governo che sono entrate in vigore a gennaio.
La più rilevante sta nell´articolo 2: prevede, per le imprese che assumono a tempo indeterminato giovani sotto i 35 anni, una deduzione Irap di 10.600 euro per ogni neo assunto, aumentata della metà per le imprese del Meridione.
C´è una obiezione di fondo alle misure del governo: le politiche fiscali presentano una serie di inconvenienti che ne limitano molto la capacità di creare occupazione. Anzitutto esse offrono incentivi a pioggia, ossia non distinguono tra i settori di attività economica in cui appare più utile creare occupazione. Un nuovo assunto è un disoccupato in meno, però sarebbe meglio per l´economia se l´assunzione riguardasse un centro di ricerca invece che un fast food, scelta che non si può fare con incentivi del genere. In secondo luogo bisognerà vedere se le imprese aumentano realmente il personale grazie alle assunzioni incentivate dagli sgravi fiscali, oppure se ne approfittano licenziando appena possono un numero ancora maggiore di quarantenni. Infine le politiche fiscali hanno un effetto incerto. Un´impresa che sa di fruire entro l´anno fiscale di uno sgravio di imposta per ogni assunzione non è detto si precipiti ad assumere tot operai o impiegati il 2 gennaio. È possibile che aspetti di vedere come andranno i futuri ordinativi, i crediti che ha richiesto, i pagamenti dei clienti in ritardo di un anno; con il risultato che, ove decida di assumere, lo fa magari a novembre. Uno sfasamento troppo lungo a fronte di 7 milioni di disoccupati e male occupati in attesa.
Veniamo alla seconda strada. Dagli Usa provengono due casi che attestano, da un lato, la scarsa efficacia delle politiche fiscali per creare occupazione; dall´altro, il ritorno dell´idea che il modo migliore per farlo consiste nel creare direttamente posti di lavoro. A febbraio 2009 il governo Obama varò una legge sulla ripresa (acronimo Arra) comprendente un pacchetto di 787 miliardi di dollari tra riduzione di imposte, prestiti e facilitazioni di vario genere. Secondo uno studio di due consiglieri del presidente, grazie a tale intervento si sarebbe evitato che la perdita di posti di lavoro toccasse i 5 milioni, mentre entro fine 2010 se ne sarebbero creati 3.675.000 di nuovi. E la disoccupazione avrebbe toccato al massimo l´8% a metà 2009 per scendere presto al 7. In realtà i posti di lavoro persi dopo l´entrata in vigore della legge hanno superato gli 8 milioni, quelli creati ex novo erano soltanto un milione e mezzo a metà 2011 e il tasso di disoccupazione ha toccato il 10%.
Forse scottato dall´insuccesso di Arra, a ottobre 2011 il presidente Obama ha presentato al Congresso un altro piano in cui le politiche fiscali hanno ancora un certo peso, però accanto ad esse propone lo stanziamento di 140 miliardi di dollari per mantenere in servizio 280.000 insegnanti; modernizzare oltre 35.000 scuole; effettuare investimenti immediati per riattare strade, ferrovie, trasporti locali e aeroporti e ridare così un lavoro a centinaia di migliaia di operai delle costruzioni. In sostanza, il governo Usa ha deciso di puntare meno sui tagli di tasse e assai più su interventi diretti "per creare posti di lavoro adesso" (così dice la copertina del piano). È un passo significativo verso un recupero da parte dello Stato del ruolo di datore di lavoro di ultima istanza, quello che durante il New Deal creò in pochi mesi milioni di posti di lavoro.
Uno Stato che voglia oggi rivestire tale ruolo assume il maggior numero possibile di disoccupati a un salario vicino a quello medio (intorno ai 15.000 euro lordi l´anno), e li destina a settori di urgente utilità pubblica; tali, altresì, da comportare un´alta intensità di lavoro. Quindi niente grandi opere, bensì gran numero di opere piccole e medie. Tra i settori che in Italia presentano dette caratteristiche si possono collocare in prima fila il riassetto idrogeologico, la ristrutturazione delle scuole che violano le norme di sicurezza (la metà), la ricostruzione degli ospedali obsoleti (forse il 60%). Significa questo che lo Stato dovrebbe mettersi a fare l´idraulico o il muratore, come un tempo fece panettoni e conserve? Certo che no. Lo Stato dovrebbe semplicemente istituire un´Agenzia per l´occupazione, che determina i criteri di assunzione e il sistema di pagamento. Dopodiché questa si mette in contatto con enti territoriali, servizi per l´impiego, organizzazioni del volontariato, che provvedono localmente alle pratiche di assunzione delle persone interessate e le avvìano al lavoro. È probabile che non vi sarebbero difficoltà eccessive a farlo, visto le tante Pmi, cooperative e aziende pubbliche, aventi competenze idonee in uno dei settori indicati, le quali potrebbero aver interesse a impiegare stabilmente personale il cui costo è sopportato per la maggior parte dallo Stato.
La domanda cruciale è come finanzia le assunzioni il datore di lavoro di ultima istanza. Si può tentare qualche indicazione, partendo da una cifra-obiettivo: un milione di assunzioni (di disoccupati) entro pochi mesi. A 15.000 euro l´uno, la spesa sarebbe (a parte il problema di tasse e contributi) di 15 miliardi l´anno. Le fonti potrebbero essere molteplici. Si va dalla soppressione delle spese del bilancio statale che a paragone di quelle necessarie appaiono inutili, a una piccola patrimoniale di scopo; dal contributo delle aziende coinvolte, che potrebbero trovare allettante l´idea di pagare, supponiamo, un terzo della spesa pro capite, a una riforma degli ammortizzatori sociali fondata sull´idea che, in presenza di lunghi periodi di cassa integrazione, proponga agli interessati la libera scelta tra 750 euro al mese o meno per stare a casa, e 1.200 per svolgere un lavoro decente. Altri contributi potrebbero venire da enti territoriali e ministeri interessati dalle attività di ristrutturazione di numerosi spazi e beni pubblici. Non va infine trascurato che disoccupazione e sotto-occupazione sottraggono all´economia decine di miliardi l´anno. John M. Keynes - al quale risale l´idea di un simile intervento - diceva che l´essenziale per un governo è decidere quali scelte vuol fare; poi, aguzzando l´ingegno, i mezzi li trova.
«Legge elettorale? Queste camere non moralmente all'altezza» Trivelle, acqua pubblica, «Bersani vigili bene. Se nei decreti si cancella il voto dei referendum mandi sotto il governo». «Innanzitutto: altro che "quarto polo". Ambisco a costruire il "primo polo", per vincere le elezioni e portare il paese a sinistra». Nichi Vendola risponde così alla domanda se vuole costruire un polo alternativo Sel-Idv, se se i rapporti con il Pd dovessero precipitare».
Ma nel Pd in molti spingono per rompere con voi e allearsi con il centro.
«C'è da compiere l'opera immane della deberlusconizzazione del paese. Il berlusconismo non era una condizione di costume, un'idea di società. Ora, con il governo tecnico, c'è una messa in stand by della contesa fra programmi e valori alternativi. Ma quella di una grande sinistra di governo che rimescoli culture, radicale senza estremismi né tentazioni minoritarie, riformista e non genuflessa al mercato, non è esigenza di un ceto politico.»
Si può deberlusconizzare insieme al Pd che oggi vota con Berlusconi?
«Il nostro riferimento è il popolo del centrosinistra e la sua ben orientata domanda di cambiamento, che si è espressa nelle amministrative e nei referendum che hanno colpito al cuore le culture liberiste ovunque collocate. Mettevano al centro un'idea alternativa al modello berlusconiano: la pratica dei beni comuni. Il Pd ha subito queste vittorie. Ma io resto alle parole di Bersani, alla battaglia tentata per marcare con contenuti sociali il governo. Generosa, ma con scarsi risultati. In queste ore c'è una seria compromissione della credibilità dei tecnici sul terreno della sostenibilità ambientale, nominata ma poi violata nel concreto.»
Il decreto liberalizzazioni dà il via libera alla trivellazione delle coste. Il ministro Clini smentisce, ma così c'era scritto sul testo, fino a ieri.
«Per noi pugliesi il vero petrolio è il mare, la bellezza, i valori d'uso di un paesaggio incantato. Se servirà, daremo battaglia fino alle estreme conseguenze. Non è la prima volta che il governo fa girare notizie e poi smentisce, per vedere l'effetto. Se è vero quello che dice il ministro, vuol dire che la mobilitazione immediata ha pagato.»
Il Pd è un fan delle liberalizzazioni.
«Tutti i parlamentari pugliesi hanno aderito alla manifestazione di sabato contro le trivelle. Chiediamo coerenza.»
Chiedereste di non votarlo?
«Chiederemmo di mandare sotto il governo. E ugualmente sulle privatizzazioni, se ci fosse un aggiramento dei referendum sull'acqua. Torno alle trivelle: se fosse, sarebbe in sintonia con la liberalizzazione della trivellazione dei fondali dei mari per la ricerca di greggio che vuole la Commissione europea. L'Europa che c'è oggi è schifosa, senz'anima, corrotta. È la piccola meschina Europa di Merkel e Sarkozy.»
E ora anche di Monti.
«Monti è una variante colta e illuminata. Ma fa difficoltà a capire che non esiste crescita che non assuma l'ambiente come contenuto anziché limite. È inadeguato, a prescindere dai meriti dei singoli, dentro un europeismo che salva l'euro e uccide l'Europa. Abbiamo chiamato l'assemblea di domenica a Roma 'per la giustizia sociale, una nuova sinistra per salvare l'Italia e l'Europa'. Oggi la sinistra deve prendere la bandiera degli Stati uniti d'Europa, rinnovando quel patto con i cittadini che ha fatto di noi dopo il nazi-fascismo il continente del progresso e dei diritti. »
Sta pensando a portare Sel fra i socialisti europei, dov'è il Pd?
«Apro una riflessione esplicita e senza sotterfugi sulla necessità di rimescolare le famiglie europee di ispirazione progressista. Se potessi, prenderei tre tessere in Europa: quella della Sinistra, che ho contribuito a costruire, quella del socialismo che oggi gioca una partita rilevante - in Francia, in Germania - per cambiare il segno al continente, e dei Verdi che su alcune questioni hanno colto in anticipo i nodi di fondo.»
Napolitano chiede ai partiti la legge elettorale. Bocciato il referendum, voi quale sistema proponete?
«Se devo essere sincero, penso che le camere che hanno salvato Cosentino non abbia la legittimazione morale per fare una nuova legge elettorale. Meglio le elezioni anticipate. Ma tutto il paese chiede di cambiare il Porcellum. E i partiti così vorrebbero dar un segno di 'autoriforma'. A qualunque parlamento si può chiedere una buona legge elettorale. Ma stiamo parlando di questo parlamento. Di un percorso che deve passare per il consenso di Berlusconi e delle sue truppe. Per lui - l'ha detto - il Porcellum è il miglior sistema possibile. Chi può pensare che questo parlamento faccia una buona legge? »
Nel caso, quale sistema preferisce?
«Una buona legge deve salvaguardare il pluralismo e le coalizioni. Domenica a Roma, insomma non nascerà il Quarto Polo.»
Allora perché alla vostra assemblea nazionale avete invitato Emiliano, Borsellino, De Magistris, Zedda e Landini?
«Un'alternativa di governo non può che essere la costruzione di una rete di relazioni fra politica e società. Un'alternativa solo movimentista o solo politicista nascerebbe con la vocazione alla sconfitta. La sinistra non può rinascere per rese dei conti ideologiche ma come capacità di ricostruire un disegno per l'Italia e per l'Europa.»
Per D'Alema le alleanze si fonderanno sul giudizio positivo su Monti.
«Ma ne è sicura? Persino gli apologeti di Monti cominciano a ridimensionarsi. Certo, non c'è paragone con Berlusconi che in Europa faceva cucù e le corna. Ma siamo sicuri che questo governo ci porterà fuori dalla crisi?»
Con il viaggio di oggi, 21 gennaio 2012, del presidente del Consiglio Mario Monti a Tripoli, si riattiva il trattato di amicizia e cooperazione firmato a Bengasi nel 2008 da Berlusconi e Gheddafi. In tre anni la situazione è completamente cambiata: Berlusconi è stato costretto a dimettersi, il colonnello Gheddafi è stato linciato e barbaramente assassinato perché non parlasse. Nel ripristinare il trattato di amicizia è necessario che si prenda atto della nuova situazione. In Italia c'è un governo nuovo, serio, capace, diretto da Mario Monti. In Libia, alla dittatura di Gheddafi è subentrato un governo provvisorio gestito da Mustafa Abdel Jalil, che ha promesso elezioni democratiche entro pochi mesi.
Ai libici interessa il Trattato non fosse altro che per la cifra veramente consistente del risarcimento: 5 miliardi di dollari. Per gli italiani, di rimando, il Trattato è importante poiché chiude una vertenza quasi secolare sul passato coloniale e in cambio conta di ottenere più petrolio e metano e meno immigrati clandestini. Tutto, però, non fila liscio. Come c'era da attendersi, i libici chiedono di rivedere il Trattato, non fosse altro perché quello di Bengasi porta la firma di Gheddafi. Ma anche l'Italia di Monti ha tutto il diritto di rivedere il Trattato del 2008, di apportarvi delle modifiche, soprattutto in quella misera parte politica del documento nella quale si ignora del tutto il rispetto dei diritti umani.
È su questo punto invece che si deve basare la nuova cooperazione, perché ci sono dei segnali a Tripoli per nulla positivi. A cominciare dalla dichiarazione dello stesso capo del Cnt, Abdel Jalil, che la nuova Libia «adotterà la sharia come legge essenziale». E per gli strepitosi onori tributati il 7 gennaio 2012 a Tripoli al presidente sudanese Omar Al Bashir, ricercato dalla corte penale internazionale dell'Aia per «genocidio» e «crimini contro l'umanità», crimini nettamente più gravi di quelli attribuiti a Gheddafi. E infine, secondo un rapporto dell'Onu, abusi e torture sono praticate ancora oggi sui 7.000 seguaci dell'ex rais, o presunti tali, che si ammassano nelle prigioni.
Purtroppo anche l'Italia ha preso parte a quella guerra illegale, ingiustamente definita unified protector (protettore unificato) dopo aver causato 35 miliardi di danni, anche l'Italia viene ora chiamata a ricostruire il paese. Noi vogliamo sperare che il presidente del consiglio Monti, che sa il valore e il peso delle parole, non citi le 1.182 missioni sul territorio libico compiute dall'aeronautica italiana e le 1.921 ore eseguite dai trenta elicotteri della marina. È stato commesso un grandissimo errore, cerchiamo almeno di non esserne fieri.
Va anche detto che la situazione in Libia è tutto meno che normale. Ancora pochi giorni fa ci sono stati scontri a Tripoli tra miliziani delle katibas e truppe governative con sei morti e diciotto feriti. Ci sono ancora in armi 50mila miliziani che si rifiutano di consegnare il loro armamento, leggero e pesante, e lo stesso Jalil ha confessato che non è ancora scongiurata l'ipotesi di una guerra civile. Un altro segnale poco rassicurante è quello fornito dal governatore della banca centrale libica, Saddeq Omar Elkaber. Ieri ha comunicato all'Unicredit che ridurrà il suo contributo dal 4,9% al 2,8%. Anche il fondo sovrano Lia diminuirà il suo apporto dal 2,7% all'1,5%.
Vorremmo inoltre ricordare a Mario Monti il «silenzio assordante» della Francia dinanzi alla visita a Tripoli di Omar Al Bashir. Le Monde ha scritto che per queste incoerenze la Francia presta il fianco alle accuse di praticare due pesi e due misure. Quello che è certo è che la Francia non ha scatenato la guerra in Libia soltanto perché le stava antipatico il colonnello. Abbiamo il sospetto che la lista delle pretese del presidente Sarkozy sia molto lunga e verrà presentata a giorni, ora che la campagna elettorale per le presidenziali si sta facendo più intensa e brutale.
Niente limiti per ora al passaggio delle grandi navi da San Marco. Niente decreto del governo, che si riserva di emettere un provvedimento firmato dai due ministri (Passera delle Infrastrutture e Clini del’Ambiente) per autorizzare lo studio di fattibilità dei progetti alternativi proposti dal Porto: una nuova Marittima sui cantieri del Mose a Santa Maria del Mare, pronta nel 2017, e intanto lo scavo del canale Contorta Sant’Angelo, per collegare Fusina all’attuale Marittima. La prima versione del decreto era molto più «operativa». Prevedeva sotto la normativa di sicurezza per le «aree sensibili» del Mediterraneo una parte dedicata a Venezia. Divieto di passaggio in bacino San Marco delle navi al di sopra delle 30 mila tonnellate di stazza. Ma il ministro Passera si è opposto, e si è scelta la via del decreto interministeriale. In attesa dei nuovi progetti però la situazione rimarrà quella attuale. Intanto la proposta del presidente del Porto Paolo Costa ha incassato l’appoggio del governo. E anche quello, pur più prudente, del presidente della Regione Luca Zaia. «Può essere la quadratura del cerchio», dice, «adesso bisogna passare ai necessari approfondimenti tecnici di fattibilità». Soddisfatto anche il sindaco Giorgio Orsoni. «La proposta del Porto va bene, l’abbiamo scritta insieme. Io credo che le navi vdadano messe fuori dalla laguna, allontanate da San Marco».
Lo scavo del canale da Fusina alla Marittima costerà almeno 30 milioni di euro. Bisogna scavare un milione e mezzo di metri cubi di fanghi. «Ma con il commissario si può fare in sei mesi», dice Orsoni, «potrà essere pronto entro il 2013». Costa ha già indicato nella sua lettera inviata l’altro giorno ai ministri Passera e Clini e al sottosegretario Mario Ciaccia anche la strada. Estendere i poteri del commissario, il dirigente regionale Roberto Casarin per decidere in fretta dove scaricare i fanghi, che potrebbero servire per tombare il vicino canale Vittorio Emanuele. Quanto al progetto a lungo termine, Costa ricorda nella sua lettera che «dal 2014 il cantiere del Mose renderà libera una piattaforma di 450 metri per 250». Nei progetti sottoposti all’Europa doveva essere smantellata per riparare il danno ambientale. Ma in questo caso potrebbe ospitare la nuova stazione marittima per attraccare almeno cinque grandi navi, collegata con tunnel al Lido. Un grande progetto che non esclude ovviamente, sempre nei piani del Porto, l’off-shore per i mercantili e i petroli (un miliardo e mezzo di euro), per cui si attende il via libera del Cipe.
Tutti d’accordo? «Evidentemente per il governo la laguna non è un’area a rischio», commenta il Comitato «No Grandi Navi», «ma un contenitore per grandi opere. Lo scavo del nuovo canale avrà effetti idraulici pesanti, portando il canale dei Petroli e le acque alte nel cuore della città. Invitiamo i cittadini a vigilare». Soddisfatti invece i sindacati e gli operatori portuali. «Mi pare una soluzione equilibrata», commenta il segretario della Cgil veneziana Umberto Tronchin, «si allontaneranno le grandi navi da San Marco mantenendo però il lavoro alle 1600 persone che lavorano con le crociere». Si lavora adesso ai due progetti proposti dal Porto e a quanto pare condivisi anche dal governo e dagli enti locali.
Ma per il momento niente divieti. Le navi da crociera continueranno a passare per San Marco almeno fino alla fine del 2013, nonostante gli annunci in senso contrario dei giorni scorsi. Il fatto che le meganavi entrino nel cuore della città per arrivare alla Marittima – unico posto al mondo – non è stato secondo il governo paragonabile all’ormai famoso «inchino» che le navi fanno in mare aperto avvicinandosi alla costa. «L’inchino lo fanno le compagnie e il porto ai loro clienti, permettendo alle navi di passare a pochi metri da San Marco», ha detto Tommaso Cacciari alla trasmissione di Santoro Servizio pubblico, «in realtà questa è gente che non porta a ricchezza a Venezia. Se le navi ormeggiassero a Marghera non cambierebbe nulla». Venezia e le navi ancora in primo piano su tv e media. Oggi uno speciale su Ambiente Italia (Raitre) dalle ore 13.
Dopo la grande e catastrofica acqua alta del novembre 1966 si sviluppò un dibattito, intenso e ricco di analisi e d’idee, che si concluse con alcuni punti fermi. Tra questi, il danno che il cosiddetto “Canale dei petroli” aveva apportato all’equilibrio idrodinamico della Laguna, la necessità di ridurne dimensioni e portata, la necessità di salvaguardare l’unitarietà idraulica e naturalistica del bacino lagunare. Le decisioni furono tradotte in legge: anzi, in una “legge speciale” che, in quanto tale, dovrebbe prevalere su ogni altro provvedimento normativo. Purtroppo le leggi non agiscono che attraverso le azioni dei governanti a ciò chiamati (perciò il governo si chiama “potere esecutivo”). I governanti operarono per poco tempo. Poi cominciarono a distruggere ciò che le leggi stabilivano di conservare. Dopo l'alluvione delle acque di mare e di terra, arrivò quella del turismo. Questa volta applaudirono. Ma non vogliamo ripetere ancora cose che abbiamo scritto pochi giorni fa, postillando un articolo di Enrico Tantucci sulla stesso argomento.. Il punto è che, pontificando o brontolando continuano a distruggere Venezia. Solidali.
Dev'essere «il vecchio che è in noi», in questo caso in me, a farmi sussultare alla lettura dell'articolo del mio assai stimato amico Alberto Asor Rosa sul manifesto di ieri. Egli vede nel formarsi extra o postparlamentare del governo Monti, voluto dal Presidente della Repubblica e accettato più o meno obtorto collo dalle intere Camere, esclusa la Lega, un passaggio salvifico che ci ha estratti dalla palude del berlusconismo. E in questa ammirazione non è certo il solo. Ma, rispetto agli altri estimatori, sottolinea nell'emergere di Monti una superiore saggezza e oggettività, le cui radici attribuisce all'Europa di Bruxelles, esclusion fatta degli ineleganti Sarkozy e Merkel, augurabilmente sulla via d'uscita. Qui la sua argomentazione fa un salto, perché è impervio trovare nelle misure prese da Monti farina diversa da quella che sta nel sacco franco-tedesco. Ma Asor Rosa ne vede la necessità anche nella mancanza di alternative. Chiunque ne voglia avanzare deve godere di altrettanta saggezza e consenso, nonché del rispettoso silenzio dei partiti in deliquescenza e di una opinione sfatta sulla quale galleggiano pochi residui di classe.
Di tanta saggezza non mi sento, ahimé, portatrice. Ma di consensi ne ho conosciuti troppi perché mi persuadano. Nulla di quanto è avvenuto in Italia mi piace. Non la lunga berlusconata, assai consensuale, seguita allo spegnersi del partito comunista più grosso e intelligente del continente. Non la linea di un governo la cui «tecnica» sta nel seguire fedelmente le direttive europee. Non l'improvviso decisionismo del Presidente della Repubblica, che la stampa vorrebbe già fornito dei poteri relativi e dunque di una costituzione presidenziale che con le inedite attuali convergenze non sarebbe inattuabile. Non la decisione del suddetto Presidente di non chiedere una destituzione del precedente Premier per recidivo assalto alle istituzioni repubblicane, anziché lasciarlo con la sua maggioranza alle Camere, da dove potrebbe riemergere fra un anno e, unendo il suo populismo a quello della Lega, attrarre chissamai di nuovo le masse disorientate e afflitte dalle misure di rigore.
Le quali non sono né oggettive né obbligate, affatto. Non mi richiamerò agli Stiglitz, Krugman, Mary Kaldor, Fitoussi eccetera, che lo predicano da testate più autorevoli della nostra, ma al lavoro svolto da noi e da "Sbilanciamoci" fin da quest'estate.
Esso non lascia dubbi sulla natura di parte liberista di Monti e del suo governo, appoggiato senza sorprese dal moderatismo della Chiesa di Roma - mica siamo più all'irrequieto Vaticano II. La liberazione da ogni vincolo che esige la proprietà, a cominciare dai lacci e lacciuoli che si era conquistato il lavoro dipendente, non ha nulla di oggettivo. E all'opporle da parte della Cgil la difesa dell'art.18 si può applaudire, non senza ricordare che, rispetto al 1970, esso non è in grado di difendere la massa imponente degli occupati nelle piccole aziende, dei precari, dei disoccupati, ormai quasi pari a quella degli ex garantiti. Né vedo che cosa ci sia di necessitato nel dire no alla modesta TobinTax. È forse super partes la differenza scandalosa fra l'imposizione sul lavoro e quella sull'impresa? E l'attuale franchigia delle transazioni finanziarie per miliardi? E poi che c'è di oggettivo nell'azzerare i referendum per l'acqua pubblica? E nell'assegnare altri servizi pubblici ai privati?
Il governo Monti non è né tecnico né oggettivo, è onesto e di parte. Meglio di parte che corrotto? Sì, non fosse per il fatto che il sistema berlusconiano ha indotto gran parte dell'opinione già progressista a non distinguere più fra destra e sinistra, sfruttatori e sfruttati, fra chi ha e chi non ha, chi si è arricchito e chi si è impoverito da vent'anni a questa parte, rovesciando la proporzione prima consueta fra redditi da capitale e redditi da lavoro - concetti vecchi ma realtà corpose lussureggianti.
Meglio ricordare che siamo tutti di parte, anche davanti al debito pubblico e alla sua formazione, che è precedente al governo Berlusconi, né può essere attribuita alla multinazionale dei tassisti e dei notai. E d'altra parte, la mancanza di "oggettività" di Monti non si deve a una sua malvagità, sono certa che oltre che impeccabile sia caritatevole; viene dalla persuasione, non solo sua, che a tassare i grandi patrimoni o i grandi profitti o le finanze questi si butterebbero di colpo all'estero invece che far valere i propri talenti, materiali e immateriali, nella nostra Italia. Non è vero affatto, se no perché non hanno fatto altro che questo anche con il Cavaliere? Perché da trenta anni in qua ci siamo deindustrializzati e ha prevalso l'investimento sulle finanze, ormai superiore a ogni Pil in giro per il pianeta?
Basta scorrere i materiali e le statistiche, ormai trovabili dovunque, sulle fusioni, sulle delocalizzazioni, su come emergono gli emergenti, sul mutato rapporto tra regioni del mondo. Sarà un caso che nove paesi d'Europa siano più che mai nei guai e degradati tutti dalle agenzie di rating, salvo la Germania e, credo, la Finlandia? Sarà un caso che non c'è crescita da nessuna parte del continente? Sarà un caso che le agenzie suddette non si siano accorte che i subprimes erano una truffa e la Grecia lasciava montare da anni il suo debito? Sarà un caso che le grandi famiglie già industriali, vedi gli Agnelli, siano passati alle rendite? Che nel conflitto fra Marchionne e i lavoratori né l'Europa né Monti hanno niente da dire? Che la disoccupazione cresca, e anche la povertà? Perfino in Germania c'è chi è pagato un euro all'ora. E che tutti i paesi siano indebitati, perché alla crescita dei disoccupati consegue il calo delle entrate pubbliche? Le politiche di rigore sono non solo crudeli, sono inefficaci.
Così stanno le cose, e su questo rifiorisce la destra estrema. Vorrei che Asor Rosa mi smentisse sui fatti. Può solo obiettarmi: ma tu chi sei? Chi rappresenti? Se parli per il mondo del lavoro, com'è che questo non vi sta a sentire? Tu, voi, davanti alla splendida schiera degli onesti non siete niente. Sta' zitta, insolente. Insolente forse sì, zitta no.
Se proviamo ad interrogare il sito-database gestito dall’ong Grain (http://farmlandgrab.org), utile a monitorare le operazioni di acquisizioni di terra in corso, in giro per il mondo, abbiamo l’impressione di trovarci di fronte ad una partita a risiko lasciata a metà. Ma questo non è un gioco da tavolo, è piuttosto il “risiko della terra” (Roiatti F., 2009, Il nuovo colonialismo, Università Bocconi editore, Milano). E soprattutto, non sono i dadi a decidere la sorte dei concorrenti e perciò dei rispettivi territori, bensì il denaro. Il denaro usato dai paesi più ricchi, per sfruttare il suolo-merce dei paesi più poveri, che proprio in virtù di questa condizione sono costretti a privarsene. Il fenomeno è detto land grabbing (“appropriazione dei terreni”). Nel dettaglio si tratta di una pratica basata sull’acquisto, o ad ogni modo l’affitto a lungo termine (dai 40/50 e fino a 99 anni), di grandi estensioni di terreni in paesi poveri con lo scopo di adibirli a coltivazioni agricole. Ma, punto essenziale, le relative produzioni sono essenzialmente destinate all’esportazione intercontinentale. I paesi costretti ad appendere il cartello "vendesi" sulle proprie terre per privarsi del suolo, la più basilare delle risorse, in molti casi rappresentano le emergenze umanitarie del pianeta, e la maggioranza dei contratti finisce per coinvolgere i governi compresi nella lista dei paesi più corrotti (perciò nella sostanza più deboli) elaborata dall’ ong Trasparency International. Le multinazionali che ridisegnano la mappa del mondo acquistando, fanno invece capo a Stati Uniti ed Europa, ed in modo particolare ai paesi emergenti dell’Asia, Medioriente ed America Latina.
Proviamo a vedere i numeri di questa partita. Il recente report della International Land Coalition (Anseeuw W., Alden Wily L., Cotula L., Taylor M., 2012, Land Rights and the Rush for Land: Findings of the Global Commercial Pressures on Land Research Project, ILC, Roma) parla chiaro. Facendo riferimento agli anni compresi fra il 2000 ed il 2007 il fenomeno è lentamente cresciuto, facendo registrare alla fine del periodo contratti che hanno assorbito 10,4 mln di ettari di suolo. Il fenomeno ha poi subito un’impennata improvvisa, nel triennio 2008-10, che ha fatto registrare cessioni per ben 44,3 mln di ettari (Grafico 1).
Ad oggi sarebbero circa di 203 mln gli ettari di terra venduta, o ad ogni modo ceduta, per questa pratica (tabella 1)
Tabella 1. Acquisizioni di suolo al 2012 (per continenti)
Africa: 134,5 mln Ha; 66,49%
Asia: 43,5 mln Ha; 21,50%
America:18,9 mln Ha; 9,34%
Europa: 4,7 mln Ha; 2,32%
Oceania: 0,7 mln Ha; 0,35%
Fonte: ns. elaborazione su dati di Anseeuw et. al. 2012
La brusca crescita del fenomeno è collegata a tre ordini di questioni. La sicurezza alimentare, nel senso che la domanda mondiale di cibo si estende quantitativamente e si articola qualitatativamente, mentre le superfici coltivabili sono più o meno sempre le stesse, l’impennata dei prezzi delle commodities agricole del 2008 legata alla debordante finanziarizzazione del loro mercato, ed indirettamente la produzione dei biocarburanti soggetta alle direttive americane ed europee che impongono alle multinazionali del petrolio la vendita di quote fisse di questo tipo di carburanti, incentivandone la produzione (Grafico 2).
Secondo stime del Global Land Tool Network attraverso questa pratica circa 5 mln di persone in media ogni anni subiscono conseguenze legate agli espropri di terra (GLTN, 2008, Secure Land Rights for All, UN-HABITAT, Nairobi). Ma questo non è tutto. Sono piuttosto le conseguenze indirette a risultare più preoccupanti. Infatti attraverso questa pratica viene negato il pubblico accesso alle risorse che presuppongono una detenzione, un utilizzo e una gestione collettiva. Le popolazioni insediate si trovano costrette ad allontanarsi dalla loro terra, consentendo l’eliminazione del “controllo sociale” sullo sfruttamento delle risorse che caratterizza ogni gestione collettiva del suolo. Tende a scomparire l’agricoltura differenziata di carattere storico (che provvedeva a molteplici esigenze e rivestiva diverse funzioni), sostituita con le monocolture intensive, utili a soddisfare unicamente le richieste del mercato in termini di materie prime e di beni commerciabili. Più in generale si consolida un immaginario egemonico, che spinge verso il rifiuto a riconoscere l’esistenza di qualsiasi pratica d’uso del suolo esterna al mercato, e la sostituzione degli “interessi individuali” a ogni forma di “interesse comune”.
Dunque, il suolo. Un concetto che viene da lontano e che nasconde, dietro molteplici declinazioni disciplinari, una storia in gran parte sconosciuta (Bevilacqua P., 2004, “Il suolo: una storia sconosciuta”, in I frutti di Demetra, n. 4), e soprattutto un’ideologia che ha saputo imporsi. In riferimento all’ambito disciplinare dell’urbanistica, la maschera mimetica del concetto di suolo che rinvia continuatamene ad altro da sé (territorio, ambiente, paesaggio, etc.), ha permesso di celare la sua consolidata figura di “bene di mercato”; così, esso finisce per essere il più vago e incerto fra i termini centrali nel lessico urbanistico, nonostante continui a rappresentare il principale elemento concettuale ed operativo posto alla base dell’epistemologia disciplinare. A mio avviso, troppo spesso le molteplici linee di elaborazione sul tema evitano di porre la questione di fondo che riguarda la sua attuale piegatura ideologica e culturale, la sua “essenza” cioè di mero elemento passivo, di banale merce; e, di conseguenza, rinunciano ad ogni obiettivo teso a scardinare i processi che hanno contribuito a determinarla. E questa tendenza fatta da un lato di inconsapevolezza e dall’altro di accettazione della visione dominante del mondo rende immanente e naturalizza, l’attuale stato delle cose. Fino al grottesco.
Attraverso la recente inchiesta “Corsa alla terra” di Piero Riccardi per Report (Riccardi P., 2011, “Corsa alla terra”, in Gabanelli M., condotto da, Report, Rai Tre, puntata trasmessa il 18 dicembre), scopriamo il punto di vista di Klaus Deininger (capo economista di Banca Mondiale) riguardo alla pratica del land grabbing «[…] rispetto a 3 o 5 anni fa, prima di questa ondata di investimenti nessuno era realmente interessato all’agricoltura. Era un’industria al tramonto, un’attività considerata poco sexy. E’ cambiato molto da allora. E penso che sia uno sviluppo davvero positivo, perché saremo in grado di aiutare in maniera significativa i poveri». Ma è questa una scelta, camuffata dalla presunta necessità di risolvere il problema della fame nel mondo, che proprio non mi convince. A mio avviso occorre porre a corollario di ogni prospettiva politica la necessità di indicare il superamento da una parte della nozione di sviluppo inteso come incremento indefinito della mercificazione, e dall’altra della stessa nozione di crescita intesa, di fatto, come uno stato naturale e positivo. Ciò è tanto più urgente nella misura in cui si ha a che fare con un Terzo mondo, già messo in ginocchio dalla fame, e che peraltro in termini culturali risulta legato all’idea del limite e della sussistenza, piuttosto che a quella di crescita indefinita (Figura).
Fonte: Cartografare il presente, http://www.cartografareilpresente.org (Nives Lòpez Izquierdo, Terra e povertà in Africa, 2009)
In questo senso occorre porre al centro delle elaborazioni e delle pratiche urbanistiche un punto di vista fondativo: la concezione del suolo come bene comune. Un’istanza questa dei beni comuni che, ancorché “tecnicamente amorfa” (Mattei U., 2001, Beni comuni. Un manifesto, Laterza Roma-Bari), dovrebbe costituire un nodo centrale nel dibattito sui “destini” dell’urbanistica e, più in generale, sui nuovi paradigmi per una società autenticamente consapevole e autodeterminata. Questa prospettiva di ricerca del suolo come bene comune ci permette invece di innescare una dinamica tesa a sottrarre il suolo alle logiche di mercato che hanno determinato negli ultimi decenni non solo una inesorabile e progressiva cannibalizzazione del suolo, ma anche una completa espropriazione di ogni significato “collettivo”. Ciò comporta dare centralità alle relazioni di prossimità tra abitanti e risorse locali, ricostruire matrici identitarie, mettere in primo piano il valore costitutivo, etico dei rapporti sociali e della solidarietà, lavorando per riaffermare una progettualità collettiva in grado di ridefinire il futuro del proprio lavoro e del proprio abitare.
Oggi il dibattito sui beni comuni è sicuramente più maturo. Il tema della “tutela dei beni comuni” ossia quell’insieme di pratiche legate ad interpretare criticamente questioni come la privatizzazione delle risorse naturali, la progressiva erosione dei beni e dei servizi pubblici, l’indebolimento dei meccanismi democratici di controllo, le restrizioni legali sul diritto d'autore sui brevetti e marchi commerciali informano il dibattito scientifico nazionale ed internazionale. Ed in particolare la questione del suolo come bene comune, e per traslato l’interpretazione in termini strategici del suo controllo (dal punto di vista della sua produzione e della sua riproduzione) entra a pieno titolo fra i termini del dibattito urbanistico (Caridi G., 2012, Suolo. Bene comune vs merce, Città del Sole, Reggio Calabria). Ciò vale, in qualche modo, anche in relazione alle recenti posizioni in merito espresse anche dall’INU che fanno riferimento alla “mancata acquisizione dal vigente sistema normativo del significato di ‘bene comune’ che il suolo indubitabilmente assume” (AA. VV., a cura di 2011, Rapporto sul consumo di suolo 2010, Inu edizioni, Roma). Questa prospettiva di ricerca permette di assicurare alle comunità insediate un controllo consapevole e democratico del suolo, con l’intenzione di rimuovere le disuguaglianze legate al suo accesso/controllo. Mentre la Banca Mondiale continua ad affermare che questo “interesse crescente per le terre agricole” (World Bank, 2011, Rising Global Interest in Farmland, Washington D.C) non costituisce un vero e proprio problema gli indignados della terra di Africa, Asia ed America latina continuano ad organizzarsi e a lottare per difendere il proprio suolo, e con esso i diritti al lavoro, al cibo ed alla sopravvivenza. La realtà è cruda ed occorre conoscerla per modificarla, se vogliamo modificarla.
Giuseppe Caridi è architetto, dottore di ricerca in “Pianificazione e progettazione della città mediterranea”
Gli articoli scritti per eddyburg.itpossono essere ripresi da qualunque altro mezzo d'informazione alla condizione di citarne l'autore e la fonte
Meno palazzi e abitanti il nuovo Pgt di Pisapia dimezza le costruzioni
di Oriana Liso
Oltre 5mila osservazioni esaminate una per una, per decidere quali accogliere del tutto o in parte e quali respingere: un lavoro che ora confluisce nella delibera che disegna il nuovo Piano di governo del territorio, il Pgt, profondamente modificato rispetto a quello approvato durante il mandato del sindaco Moratti. Modifiche nette: il nuovo strumento urbanistico dimezza i metri cubi di cemento di nuove costruzioni, grazie alla sensibile riduzione degli indici di edificabilità e, soprattutto, alla cancellazione della possibilità di utilizzare il Parco Sud come virtuale terreno di scambio per nuove volumetrie. Una rivoluzione, insomma, che ora dovrà affrontare l’iter di approvazione: lunedì arriverà in giunta il documento di modifica del Pgt, per poi passare in commissione Urbanistica e - a metà febbraio, se saranno rispettate le previsioni - in Consiglio comunale per la discussione definitiva, che si prospetta già accesa e che dovrebbe portare all’approvazione definitiva entro fine anno.
Un primo dato: le osservazioni di enti, associazioni e cittadini accolte nella precedente versione del piano arrivavano all’8 per cento delle 4.765 totali (diventate poi 5.400 in virtù di una diversa catalogazione di alcune). Il gruppo di lavoro messo assieme dall’assessore all’Urbanistica Ada Lucia de Cesaris, invece, ne ha recepite oltre il 40 per cento, tra osservazioni generali e riferite a specifici ambiti di trasformazione del territorio. È proprio attraverso l’accoglimento di molte di queste osservazioni che si arriva al secondo dato, concretissimo: la superficie massima consentita di nuove costruzioni nei nuovi quartieri è più che dimezzata, rispetto alle vecchie previsioni, passando da quasi 5 milioni e 800mila metri quadri a 2 milioni e 800mila: di questi, oltre 2 milioni e 400mila metri quadri "scompaiono" proprio grazie all’eliminazione del concetto di perequazione con il Parco Sud tanto caro all’ex assessore Carlo Masseroli. Diminuiscono anche gli "Atu", gli ambiti di trasformazione urbana, ovvero quelle aree dismesse o sottoutilizzate all’interno della città che già esiste, altre zone (come gli ex scali ferroviari) seguono un diverso destino con l’accordo di programma con Fs e, ancora, altri ambiti (Expo, Cascina Merlata) vengono "sottratti" e inseriti in un regime transitorio a parte. Risultato: calano anche sensibilmente - nel piano che presenterà De Cesaris - i nuovi abitanti teorici degli "Atu" e di quattro ambiti di trasformazione periurbana: da quasi 100mila a poco meno di 31mila.
Ogni ipotesi di modifica, comunque, dovrà passare dal Consiglio comunale. Commenta il papà del vecchio Pgt, Masseroli: «Bisogna fare in fretta, l’assenza di regole attuali è la situazione peggiore. Ma chiedo: quale sarà il metodo di lavoro? Le modifiche potrebbero essere così radicali da obbligare a ripartire da zero. E, se stiamo alle promesse di questa giunta, le osservazioni andranno discusse tutte in aula». Dà fiducia al lavoro dell’assessore e degli urbanisti del Pim Legambiente Lombardia. Il presidente Damiano Di Simine si aspetta che «le modifiche derivanti dall’esame delle osservazioni apportino rilevanti miglioramenti al Pgt: ora la palla passa alle forze politiche, chiamate ad esprimersi in tempi ragionevoli».
L’appello anticrisi di Rosati alla giunta "Usate la riforma per aiutare il lavoro"
di Luca De Vito
Il pgt come strumento per rilanciare il mercato del lavoro in città. Uno dei temi caldi, tra quelli che verranno presentati oggi nell’incontro tra i sindacati e l’assessore al bilancio Bruno Tabacci, riguarda il Piano di governo del territorio e la possibilità di utilizzarlo come volano per la ripresa dell’occupazione. «Con il Pgt - ha spiegato Onorio Rosati, segretario della Camera del lavoro - si devono creare le condizioni per cui alcune aree vengano destinate a insediamenti produttivi del manifatturiero». Territorio cittadino che, attraverso opportuni incentivi, possa trasformarsi in spazi appetibili per la produzione industriale. «Se non riparte il settore artigianale - ha aggiunto Rosati - non riparte nulla e non riusciamo a dare una risposta occupazionale né ai lavoratori dell’industria, né degli altri settori».
Il segretario Cgil punta il dito anche contro la speculazione sui terreni e chiede al Comune di pensare a un sistema di disincentivi per quegli imprenditori che, per poter sfruttare il valore elevato delle aree, «arrivano a delocalizzare la produzione».
Nel bouquet di richieste che i sindacati faranno oggi a Tabacci, non c’è solo l’attenzione sul Pgt. Ci sono anche l’apertura di un tavolo istituzionale sulla situazione economica e il rifinanziamento del fondo anticrisi. Per la Cgil sono due temi da affrontare con urgenza, anche alla luce degli ultimi dati sul mercato del lavoro in città e provincia. Oltre ai 25mila lavoratori a rischio licenziamento, ci sono infatti 13mila persone che, tra il 2010 e il 2011, sono usciti dalle liste di mobilità senza riuscire a trovare un’occupazione. Ex lavoratori che non hanno avuto un reinserimento e che ad oggi, nella maggior parte dei casi, non hanno alcun tipo di reddito. A delineare un quadro ancora più cupo, poi, c’è anche il tasso di disoccupazione, stimato intorno al 5,9 per cento. Un dato che se riferito ai giovani arriva al 20% in provincia e al 22% in città.
L’intervento istituzionale, secondo i sindacati, non è più rinviabile. «Dal 1998 la Provincia ha in mano tutte le competenze per il mercato del lavoro - ha polemizzato Rosati - nonostante la piena crisi, l’apposita commissione non è stata rinnovata, è scaduta e non si riunisce: noi continuiamo a chiedere ma su questo fronte stiamo registrando un vuoto assoluto». Anche a livello regionale, poi, ci sarà da muoversi, e in fretta. «Il 2012 è l’ultimo anno della cassa integrazione in deroga che viene accordata da Regione Lombardia, uno strumento fondamentale che ha sostenuto il reddito delle famiglie in questi anni. Non è pensabile adesso perderla senza avere altre forme di tutela per i lavoratori».
I vincoli alla crescita del cemento per disegnare la Milano del futuro
di Oriana Liso
Accordi da trovare con Fs e Regione per convertire scali e vecchie stazioni
Milano-Romana, Rogoredo, Porta Genova, scalo Farini, San Cristoforo, Lambrate: sono tanti gli scali ferroviari su cui il vecchio Pgt prevedeva grandi sviluppi. Che, ora, vengono invece demandati all’accordo di programma in via di definizione tra Ferrovie dello Stato, Regione e Comune. Le aree di cui si tratta mettono assieme una superficie di un milione e 190mila metri quadrati su cui - nei vecchi progetti - erano previsti vari interventi: dal parco urbano di Scalo Romana con pista ciclo-pedonale e collegamento pedonale tra la stazione Lodi Tibb e la fermata omonima del metrò 3, al distretto della moda con parco sul Naviglio a Porta Genova, passando per edilizia convenzionata e residenziale ma anche un grande parco allo Scalo Farini su un’area di 500mila metri quadrati.
Addio al maxi-tunnel da Linate a Rho resiste la circle line delle ferrovie
Lo stop definitivo al tunnel che avrebbe dovuto collegare Linate alla fiera di Rho viene certificato nella nuova versione del piano. Ma non solo: scompariranno anche altre infrastrutture considerate non sostenibili, sia dal punto di vista ambientale che economico. Restano di certo - pur demandando al futuro Piano urbano della mobilità i dettagli - le previsioni di infrastrutture strategiche, ad esempio la Circle line, la cerchia ferroviaria che seguirà i contorni della città (e che invece sembrava destinata a sparire), le metropolitane 4 e 5 - anche se con tempi ormai dilatati - e la metrotranvia da Cascina Gobba a viale Certosa. Modifiche saranno previste anche per la sosta pubblica e privata, e si rivedrà la rete ciclabile «superando lo schema radiocentrico proposto» dal vecchio piano.
Spuntano i corridoi ecologici per collegare parchi e giardini
Se il Parco Sud, nella nuova versione del Pgt, resta verde anche virtualmente (perché non viene più usato come merce di scambio per costruire altrove), aumenta anche la previsione di una Milano a miglior impatto ambientale. Soprattutto, la delibera di modifica del Pgt accoglie le osservazioni di chi, come molte associazioni ambientaliste, lamentavano una scarsa attenzione alle connessioni del verde cittadino con i sistemi provinciale e regionale. Per questo si introduce il progetto di una rete ecologica comunale (Rec) con corridoi verdi che mettano a sistema grandi e piccoli parchi urbani. Importante anche l’attenzione all’efficienza energetica degli edifici (da costruire e da recuperare, con premi volumetrici per chi è virtuoso) e l’introduzione di norme specifiche per la bonifica dei suoli contaminati.
Più housing sociale per le fasce deboli le case low cost sul 30% dei terreni
Un vincolo netto, che risponde anche alle promesse di questa coalizione in campagna elettorale e che supera gli aggiustamenti fatti sul vecchio piano grazie alla battaglia in aula consiliare. Il nuovo Pgt fissa un incremento delle quote di terreno che i privati dovranno cedere per finalità pubbliche negli ambiti di trasformazione urbana, in cambio della possibilità di costruire: metà della superficie territoriale, e di questa il 30 per cento servirà per edilizia residenziale sociale. Previsioni di housing sociale, poi, dovranno esserci in tutte le trasformazioni più rilevanti dei prossimi anni, articolando gli interventi su due fronti: edilizia agevolata e convenzionata e vere case popolari. Il documento di indirizzo del nuovo piano, del resto, è preciso: tra le finalità c’è il «bilanciamento tra diritti edificatori per funzioni di mercato e per finalità di interesse pubblico e sociale»
I nuovi quartieri
Scendono a 21 grattacieli in dubbio a Stephenson
Alla base del nuovo Pgt targato Pisapia-De Cesaris c’è il concetto della promozione di uno sviluppo urbano più equilibrato. Scompaiono, quindi, le previsioni di colate di cemento su alcune aree collocate nel territorio agricolo (Forlanini, Ronchetto, Monluè, Porto di Mare). Non si parla più della possibilità di spostare il carcere di San Vittore, creando una Cittadella della giustizia, ormai tramontata. Diminuisce sensibilmente l’indice edificabile massimo previsto su alcune aree di trasformazione urbanistica che diventano 21, mentre nell’ultima versione erano 24. Nella mappa che lunedì verrà sottoposta alla giunta, sembra scomparire anche il grande progetto della "Defense milanese" nell’area di via Stephenson, che prevedeva la possibilità di costruire in quella zona fino a 50 grattacieli di un nuovo business district
Titolo originale: Redlining 2.0: Microsoft App Would Help You Avoid Blighted Areas—And Keep Them Blighted - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Qualche giorno fa è stato annunciato il brevetto di una nuova app che consente a un pedone di usare il GPS per costruirsi un percorso attraverso la città.
Direttamente dal brevetto:
”Quando si parla di costruire percorsi si pensa sempre a un veicolo, meno al pedone. Certo sono molti coloro che si spostano in auto, ma sinora si sono ignorate le applicazioni per chi va a piedi. Mentre invece si averte molto forte la necessità di funzioni di questo tipo rivolte a chi di norma non usa l’auto, ad esempio perché non ne possiede una a causa del reddito, e abita in zone con problemi economici” .
Una buona notizia. Pare interessante vedere che una grande compagnia come Microsoft riconosca l’esistenza di modi per spostarsi anche diversi dall’auto. Mentre invece a guardare politici e amministratori cittadini parrebbe scontato che tutta l’attenzione vada in esclusiva agli automobilisti, quasi nulla agli altri (pedoni, ciclisti, utenti dei mezzi pubblici). Insomma che un marchio tanto importante si rivolga al pedone con un prodotto tanto utile è un piccolo ma fondamentale passo avanti per legittimare anche i non-guidatori.
Ma, come qualcuno ha già osservato, quella app fa sorgere un grosso problema: volendo, si può anche attivare un meccanismo che aiuta a evitare i “quartieri non sicuri”.
E quel “quartieri non sicuri” per tanti si traduce automaticamente in “ghetto” sollevando una serie di questioni razziali, di classe, violenza, cose già discusse da parecchi blog in modo più o meno approfondito e condivisibile. Comunque la si pensi sugli orientamenti più o meno marcati di consapevolezza – su cosa dovrebbe o non dovrebbe fare Microsoft e con quale urgenza – l’applicazione sembra proprio almeno confermare le cose così come stanno oggi: i quartieri degradati si devono distinguere in modo netto da quelli vivaci, e occorre avvisare la gente perché li eviti.
Ma allontanare i pedoni da certe aree può solo rafforzarne la condizione di “ghetto” allontanando ulteriormente quel passaggio che magari potrebbe riempire negozi, far vivere le strade quel tanto che basta per reagire al degrado. Rendersi visibili dall’esterno attira l’attenzione sulle potenzialità di un quartiere, scuote dal ristagno e dalla rassegnazione. Ad esempio il corridoio H Street a Washington DC con l’incredibile sviluppo degli ultimi cinque anni, o quanto sta ancora accadendo sulla St. Claude Avenue di New Orleans.
O ancora Brewerytown, un quartiere appena a nord ovest del centro di Filadelfia. Da tanto tempo emarginato, con elevati tassi di criminalità, ma zona ad elevata accessibilità pedonale individuata dall’amministrazione quando qualche anno fa si è voluta rilanciare la tranvia lungo Girard Avenue. Sollevando l’interesse di operatori immobiliari e investitori, e innescando un processo di calo della criminalità e incremento delle attività.
Una piccola precisazione: fra chi ha aperto una sede su Girard Avenue c’è anche Next American City, e io stesso ci ho comprato un appartamento. Come lo classificherebbe l’applicazione Microsoft un quartiere in piena trasformazione tipo Brewerytown? La app mi inviterebbe ad allontanarmi da casa, dal lavoro? Magari facendomi fare un giro lunghissimo per “quartieri sicuri”?
Il decreto sulle liberalizzazioni proposto dal governo contiene un articolo 22 che affida il territorio nazionale - e il mare attorno - alle multinazionali del petrolio e del gas. Esse potranno fare le ricerche che ritengono necessarie e sfruttare i giacimenti ritrovati per un numero di anni indefinito (20+5+5+ ecc.) salvo poi, una volta esaurito il luogo, rimettere ordinatamente tutto a posto. Come dubitarne?
È tutto scritto con precisione. È perfino adombrata, al punto 8 comma c del suddetto articolo, la necessità di indicare «...l'entità e la destinazione delle compensazioni previste per la fase di ricerca e sviluppo». Insomma è fatto balenare fin da subito un possibile guadagno da parte di proprietari delle aree, enti locali, regioni; anzi l'opportunità di un'equa spartizione, regolata magari da qualche organo dello stato, appositamente delegato. Tutto fatto bene, sia chiaro, come in una banda degna di rispetto. Il massimo per dei veri liberali.
I vari lotti, una volta individuati saranno messi a gara "europea". Non tutti potranno partecipare, ma solo le imprese dotate di sufficiente credibilità. Una volta partita la gara e superate le specificità che il decreto indica sommariamente, l'attribuzione dovrà avvenire nei successivi otto anni, pena la revoca della concessione. Possiamo immaginare che verso la fine dei primi otto anni il nostro amatissimo territorio nazionale avrà frequenti trivelle e scavi dappertutto; poco tempo dopo ci saranno più buchi per chilometro quadrato che in una fetta di formaggio svizzero. Siccome la malignità è il nostro forte, possiamo anche dare per certo che le multinazionali di qui sopra si spartiranno l'intero Stivale, ma senza pestarsi i piedi. Le gare saranno pro forma, con buona pace di tutti e spesa minore per ciascuno. Come è del tutto legittimo, il senatore Monti chiamerà tutto questo liberalizzazione, mentre sarebbe più opportuno parlare di un cartello. Ma i cartelli fanno parte del mercato, o no?
L'incombere delle compagnie petrolifere non è nominativo nell'articolo 22 ma piuttosto nel precedente articolo 21, o, meglio ancora, nella relazione che l'accompagna, nella quale si può leggere che se non si introducono minori limiti alla ricerca in mare al largo delle zone di rispetto, il risultato sarebbe una «riduzione degli investimenti in tecnologie e servizi forniti dalle imprese italiane con un crollo dei progetti in corso, stimabile in circa 3-4 miliardi di euro nei prossimi anni, con abbandono degli investimenti in corso sul territorio italiano da parte delle imprese italiane ed estere operanti nel settore (recente esempio la Exxon)».
Siccome non si può scontentare la Exxon e le sue beneamate sorelle, allora si può sacrificare terra e mare, ambiente e paesaggio. Si distrugga pure tutto, si buchi e si sporchi, ma finalmente avremo una vera libertà, da vantare a Bruxelles e a Berlino.
Naomi Klein - Una delle cose più misteriose riguardo a questo momento è: “perché adesso?” La gente ha lottato contro le misure di austerità e ha urlato per un paio di anni contro gli abusi delle banche, facendo essenzialmente la stessa analisi: “Non saremo noi a pagare per la vostra crisi”. Ma non sembrava proprio che acquistasse popolarità, almeno negli Stati Uniti. C’erano dimostrazioni e c’erano progetti politici e c’erano proteste come a Bloombergville. Ma, erano in gran parte ignorate. Non c’era davvero nulla su vastissima scala, nulla che realmente avesse un impatto significativo. E adesso, improvvisamente, questo gruppo di persone in un parco ha fatto esplodere qualche cosa di straordinario. Come lo spieghi, allora, dato che sei stato impegnato in OWS dall’inizio, ma anche nelle precedenti azioni contro l’austerità?
Yotam Marom – Ebbene, la prima risposta è: non ho idea , nessuno ne ha. Ma posso fare delle congetture. Penso che ci siano delle cose che si devono considerare con attenzione quando ci sono momenti come questi. Una sono le condizioni: disoccupazione, debito, sfratti, i molti altri problemi che deve affrontare la gente. Le condizioni sono vere e sono brutte, e non si possono simulare. Un altro tipo di base per questo tipo di cosa è quello che fa la gente che organizza per preparare momenti come questi. Ci piace fantasticare su queste insurrezioni e sugli importanti momenti politici – ci piace immaginare che vengano fuori dal nulla e che sia necessario solo questo – ma queste cose accadono se c’è dietro uno sforzo organizzativo enorme che viene fatto ogni giorno, in tutto il mondo, in comunità che sono realmente emarginate e che affrontano attacchi bruttissimi.
Quelli quindi sono i due prerequisiti perché si verifichino questi momenti. Ci si deve poi chiedere: quale è il terzo elemento che fa sì che tutto si realizzi, quale è ‘ il grilletto, la polverina magica? Beh, non sono sicuro della risposta, ma so che sensazione dà. La sensazione che qualche cosa è che si è aperto, una specie di spazio che nessuno sapeva esistesse, e quindi tutte le cose che prima erano impossibili, ora sono possibili. Qualche cosa che è stato come disintasato. Persone di tutti i tipi hanno proprio iniziato a vedere le loro lotte in questo qualche cosa, hanno iniziato a identificarsi con questo, hanno cominciato a sentire che era possibile vincere, che c’è un’alternativa, che le cose non devono essere sempre così. Penso che in questo caso questo sia l’elemento speciale.
NK – Pensi che ci sia una discussione organica riguardo al cambiare fondamentalmente il sistema economico? Cioè, sappiamo che esiste una forte, rabbiosa critica della corruzione e della conquista dal processo politico da parte delle grosse imprese commerciali. E’ in corso davvero un richiamo ad agire. Ciò che è meno chiaro è la misura in cui al gente si sta preparando a costruire davvero qualche altra cosa.
YM – Sì, certamente penso che siamo in un momento unico per lo sviluppo di un movimento che non è soltanto un movimento di protesta contro qualche cosa, ma anche un tentativo di costruire qualche cosa al suo posto. Potenzialmente è una versione molto precoce di quello che chiamerei un movimento di potere duale, cioè un movimento che da una parte sta cercando di formare i valori e le istituzioni che vogliamo vedere in una società libera, e che allo stesso tempo, però, sta creando lo spazio per quel mondo resistendo e smantellando le istituzioni che ci impediscono di averlo. In generale la tattica di occupare, è una forma davvero fantastica di lotta di potere duale perché l’occupazione è sia una casa dove possiamo praticare l’alternativa – praticando una democrazia partecipativa, avendo le biblioteche radicali, avendo una tenda sanitaria dove chiunque può farsi curare, tutte cose cosa su piccola scala – ed è anche un terreno di prova per le lotte all’esterno. E’ il luogo dove creiamo la nostra lotta contro le istituzioni che ci tengono lontano dalle cose di cui abbiamo bisogno, contro le banche in quanto rappresentanti del capitalismo della finanza, contro lo stato che protegge e incentiva quegli interessi.
E’ sorprendente e davvero incoraggiante perché è un qualche cosa che è mancato molto in tante lotte del passato. Di solito o c’è una cosa o un’altra.
Ci sono le istituzioni alternative, come gli eco-villaggi e le cooperative alimentari e così via – e poi ci sono i movimenti di protesta e altre contro-istituzioni, come i gruppi pacifisti o i sindacati. Essi però raramente si mettono insieme o considerano le loro come lotte da condividere. Molto raramente ci sono movimenti che vogliono fare entrambe le cose, che le considerano inseparabili, che comprendono che le alternative debbono essere una lotta e che la lotta deve essere fatta in un modo che rappresenti i valori del mondo che vogliamo creare. Penso davvero, quindi, che ci sia qualche cosa di realmente radicale e fondamentale in questo, e tantissima potenzialità.
NK – Io sono assolutamente d’accordo che la chiave è nel mettere insieme la resistenza e le alternative. Un mio amico, l’attivista britannico per l’ecologia e per le arti, John Jordan, dice che l’utopia e la resistenza sono come la doppia elica del DNA dei militanti, e quando la gente e cercano soltanto di costruire la loro utopia e non si impegnano nei sistemi di potere, allora diventano irrilevanti e anche estremamente vulnerabili al potere dello stato e spesso saranno schiacciati. Allo stesso tempo se ci si limita a protestare, a resistere senza avere quelle alternative, allora penso che questo diventi un veleno per i movimenti.
Penso però ancora al problema della politica – di fare il salto da alternative su piccola scala ai grossi cambiamenti politici che permettano di cambiare la cultura. Un sacco di persone sono riuscite a capire che il sistema è così rovinato che non si tratta di chi va al potere. Però uno dei modi di rispondere a questo è dire: “Va bene, non formeremo un partito politico e non tenteremo di prendere il potere, ma guarderemo questo sistema e tenteremo di identificare le barriere strutturali che impediscono il cambiamento e di promuovere gli obiettivi politici che potrebbero iniziare a riparare quei difetti strutturali.” E queste sono, per esempio, i modi in cui le grosse imprese commerciali sono capaci di finanziare le elezioni e il ruolo dei mezzi di informazione pagati dalle grosse aziende e tutto il problema della personalità delle grosse imprese commerciali in questo paese. E’ possibile trovare poche lotte politiche ci importanza cruciale, che potrebbero creare una situazione in cui, tra dieci anni, la gente potrebbe non sentirsi così completamente cinica riguardo all’idea di cambiamento all’interno del sistema politico. Che cosa ne pensi?
YM – Ebbene, hai ragione a dire che dobbiamo trovare dei modi di farlo, ma modi che non compromettano quello che finora è riuscito così bene per il movimento e per questo momento, cioè che è così ampio che così tante persone diverse ci si possono ritrovare.
Penso che all’interno del movimento più ampio, abbiamo ruoli diversi e che c’è un ruolo particolare per Occupiamo Wall Street. Personalmente non voglio avere nulla a che fare con la gente che fa pressioni o che si mette in lizza proprio adesso, né voglio concentrarmi tutto il tempo per conseguire piccoli cambiamenti politici e non credo che questo sia il ruolo di Occupiamo Wall Street. Ma spero senza alcun dubbio che la gente il cui terreno è questo vada e lo faccia. Spero che possano riconoscere che quanto accade ora è la creazione di un clima dove è possibile che essi spingano verso sinistra e ottengano di più. Non sarò contento di tutti i compromessi che quella gente dovrà fare, ma abbiamo bisogno anche di quello. Se vogliamo una vera trasformazione sociale significativa, abbiamo bisogno di ottenere delle cose lungo il percorso, perché in questo modo forniamo alla gente le fondamenta sopra le quali possono continuare a lottare a lungo termine e in questo modo cresciamo per diventare una massa critica che alla fine potrà creare una spaccatura fondamentale con questo sistema.
E nel frattempo, il nostro ruolo in quanto OWS dovrebbe essere di avere sogni ancora più grandi. Penso che sia nostro compito guardare molto avanti, sostenere le nostre idee, creare alternative e intervenire nei processi politici ed economici che governano la vita delle persone. E’ necessario riconoscere che le istituzioni che governano le nostre vite hanno davvero potere, ma che non necessariamente dobbiamo parteciparvi seguendo le loro regole. Penso che il ruolo di OWS sia di ostacolare quei processi per impedire loro di usare quel potere e di creare aperture per le alternative che stiamo cercando di costruire. E poi se i politici o gli altri che si considerano solidali con questo movimento vogliono continuare a farlo, allora dovrebbero usare questo momento per ottenere le cose che ci aiuteranno a diventare più forti nel tempo; ora hanno un’occasione di farlo.
NK – Sono dilaniata riguardo a questo. Da una parte, OWS è così ampia che un enorme varietà di persone ha trovato un posto nella tenda. E c’è certamente un valore soltanto nell’avere un movimento molto ampio che è in grado di intervenire nei discorsi politici quando ci sono congiunture cruciali particolarmente perché, guardando a quello che accade in Europa in questo momento, penso che dobbiamo tenerci pronti per il prossimo colpo economico. E’ molto importante che quando il prossimo “giro” di austerità colpirà gli Stati Uniti, ci sarà un movimento di massa pronto a dire: “Impossibile. Non pagheremo – se avete bisogno di soldi, tassate l’1% ricco e tagliate le spese militari, non tagliate l’istruzione, e i tagliandi per il cibo.”
Dovremmo, però, essere chiari: questo non vuol dire migliorare le cose, significa soltanto tentare di impedire che le cose vadano molto peggio. Per migliorare la situazione, ci deve essere una richiesta positiva.
Guardate per esempio le proteste degli studenti cileni. E’ un movimento notevole, e storicamente è enormemente significativo, perché è realmente la fine della dittatura cilena più di venti anni dopo che è di fatto finita. Pinochet è stato al potere così a lungo e tante delle sue politiche sono state bloccate durante la transizione negoziata, che la sinistra in Cile non si è ripresa fino a quando questa generazione di giovani è scesa nelle strade. E lo hanno fatto provocati dalle misure di austerità che colpivano duramente l’istruzione. Invece di dire soltanto: “Va bene, siamo contro questi recenti tagli”, hanno detto: “siamo per l’istruzione pubblica gratuita e vogliamo capovolgere tutto il programma della privatizzazione.” Può sembrare una richiesta limitata, ma sono stati capaci trattare della disuguaglianza in modo molto più ampio. Lo hanno fatto mostrando come la privatizzazione dell’istruzione in Cile e la creazione di un brutale sistema di educazione squilibrata aumentava e bloccava la disuguaglianza, non fornendo agli studenti poveri alcuna via di uscita dalla povertà. Le proteste hanno acceso il paese ed ora non è più soltanto un movimento di studenti. E’ quindi una situazione completamente diversa rispetto ad OWS perché è iniziata con una richiesta. Mostra però come, se la richiesta è abbastanza radicale, può aprire un dibattito molto più ampio riguardo al tipo di società che vogliamo.
Penso che riguardi più le idee che le richieste. La mia preoccupazione è che ci sono così tanti gruppi che tentano di cooptare questo movimento e di fare soldi grazie ai suoi sforzi, che il movimento rischia di definirsi per quello che non è, invece che per quello che è, o, soprattutto per che cosa potrebbe diventare. Se il movimento viene messo costantemente nella posizione di dire: “No, non siamo la vostra pedina. Non siamo questo, non siamo quello,” il pericolo è di essere bloccati in una identità difensiva che è stata di fatto imposta dal di fuori. Penso che parzialmente sia accaduto quasto al movimento che si è opposto alla globalizzazione delle grosse imprese commerciali dopo Seattle, e non vorrei affatto vedere che quegli errori vengono ripetuti.
YM -Penso che tu abbia ragione riguardo a questo. E anche riguardo al problema delle richieste in opposizione alle idee. Non abbiamo richieste da fare del tipo che le altre persone vogliono sentire. Abbiamo però delle richieste, naturalmente vogliamo delle cose. Quando chiediamo la restituzione di case pignorate per le famiglie a cui viene impedito di riscattarla dall’ipoteca, oppure organizziamo gli studenti a fare flash-mob davanti alle banche che continuano a tenerli in debito, o i militanti ambientalisti che si sdraiano per terra fingendosi morti davanti alle banche che investono nel carbone: questi sono modi di esprimere le nostre richieste con un nuovo linguaggio della resistenza. OWS è davvero un’enorme tenda che non ha una sola voce, ma questo non significa che tutti gli altri raggruppamenti debbano sparire quando noi ci entriamo. Ci sono ancora gruppi che lottano per il diritto agli alloggi che chiedono di porre fine ai pignoramenti, o i sindacati che chiedono buoni posti di lavoro, ecc. Stiamo cercando di costruire un movimento dove gli individui e i gruppi abbiano l’autonomia di fare ciò di cui hanno bisogno di fare e di scegliere le battaglie che hanno bisogno di scegliere, essendo allo stesso tempo solidali con un qualche cosa di più ampio e di vasta portata qualche cosa di radicale e visionario. E questo è in parte il motivo per cui la visione è così importante, perché collega tutte le lotte.
Penso però che dobbiamo ottenere le cose, hai assolutamente ragione riguardo a questo. Suppongo che il modo in cui considero questo argomento è che noi adesso stiamo per passare, speriamo, dal simbolico al reale, sia nel campo di creare le alternative che nelle azioni di reazione. Dobbiamo chiedere la restituzione delle case, non soltanto come simboli, ma per le persone che ci vivono. Riaprire gli ospedali che sono stati chiusi e farci andare i medici. E lo stesso vale per la lotta: per sconvolgere le cose, come al solito, spostarci dalla protesta alla resistenza. Avremo un impatto reale quando il Congresso non farà approvare quelle leggi perché c’è troppa resistenza, perché ci sono persone che dimostrano nelle strade. Avremo un impatto reale quando non solo danzeremo attorno alle lobby bancarie ma quando abbiamo bloccato le porte dei loro quartieri generali dove organizzano la loro politica. Dobbiamo costringere chi prende le decisioni politiche valutare di nuovo le loro decisioni, e dobbiamo creare il potere di cambiarle completamente non soltanto nei contenuti, ma anche nella forma. Se ci limitiamo a cambiare i discorsi e basta, allora finiremo per perdere un’occasione incredibile di influenzare realmente la vita delle persone in modi significativi. Questo non è un gioco. Una società dove ci sono case vuote ma gente che non ha una casa, è fondamentalmente disgustosa ed è inaccettabile, non deve essere permessa. E si può dire lo stesso per altre realtà: per la guerra, o per il regime patriarcale esistente o per il razzismo. Abbiamo una responsabilità incredibile.
NK – E nessuno sa come fare ciò che tentiamo di fare. Si può indicare l’Islanda o qualche cosa che è successa in Argentina. Queste però sono lotte nazionali, qualche cosa alla periferia economica. Nessun movimento ha mai sfidato con successo il capitale globale iper-mobile alla sua fonte e quindi ciò di cui parliamo è così nuovo che fa paura. Penso che le persone dovrebbero ammettere di essere terrorizzati e che non sanno come fare ciò che sognano di fare, perché se non lo fanno, allora la loro paura – o piuttosto la nostra paura darà inconsciamente forma alla nostra politica e si può finire in una situazione nella quale si dice:”No, non voglio alcuna struttura,” o, “No, non voglio fare nessun tipo di richiesta politica, non voglio nulla a che fare con la politica,” mentre invece vuol dire che siete estremamente spaventati del fatto che non avete idea di come si fa. Forse se ammettiamo tutti che siamo in un territorio sconosciuto, quella paura perde un po’ della sua forza.
YM – Sì, questo è davvero importante. Tutti noi lo stiamo facendo. Quello che avete appena detto mi ha in un certo modo ricordato di un momento che c’è stato e che ha costituito veramente un punto di svolta per me. Per circa tre settimane, seduti a parlare con un gruppo di persone che avevo appena conosciuto, pensavamo al movimento e a dove poteva dirigersi e ricordo questo momento folle quando questo pensiero mi colpì:” Oh, stiamo vincendo.” Era surreale. E poi quel pensiero è stato immediatamente seguito dalla domanda: “Che cosa vogliamo, allora?”. Non avevamo ottenuto molto e non lo abbiamo ancora ottenuto, e non siamo per niente vicino alla società in cui vogliamo vivere, ma è stata però quella sensazione, che i discorsi si stavano spostando, che il mondo intero stava osservando, che avevamo un sacco di possibilità in vista. E’ stata la prima volta che ho mai sperimentato questo e penso la prima volta che tantissima gente che è viva oggi ha provato. E’ stato un momento che mi ha fatto sentire padrone del miodestino, ha davvero cambiato la mia vita, ma è stato anche un momento incredibilmente terrificante, perché, merda, significa che è reale, che la posta è alta, che non è uno scherzo.
Allora, seguendo il filone di ciò che è possibile: tutto questo era impossibile pochi mesi fa. Tutto questo era inconcepibile. Lo sentivo in modo molto personale ed ero cinico e ho imparato molto da quello. Si scopre che sappiamo pochissimo riguardo a ciò che è possibile. E questo ti rende realmente umile ed è e importante e apre un sacco di porte. Che cosa pensi che sia possibile?
NK – Prima di tutto, è un momento di possibilità di azione che non ho mai visto perché non abbiamo mai avuto tanta gente dalla nostra parte come in questo momento. Cioè, non c’era così tanta gente con noi nel momento di Seattle, per esempio. Eravamo ai margini e lo siamo sempre stati perché eravamo in un momento di grossa crescita economica. Adesso il sistema ha cominciato a infrangere le regole in modo così provocatorio che la sua credibilità è rovinata. E c’è un vuoto. C’è un vuoto che altre voci credibili possono riempire e questo è molto eccitante.
Personalmente penso che la possibilità più grande sia nel mettere insieme la crisi ecologica e la crisi economica. Considero il cambiamento del clima come l’ espressione estrema della violenza del capitalismo: questo modello economico che è devoto all’avidità più che a tutto il resto, non soltanto rende misere le nostre vite a breve termine, ma si sta avviando a rendere inabitabile il pianeta a medio termine. E sappiamo, scientificamente, che se continuiamo a fare come al solito, questo è il futuro verso il quale stiamo andando. Penso che il cambiamento del clima sia l’argomento più forte che abbiamo mai avuto contro il capitalismo delle grosse imprese commerciali, e anche l’argomento più forte che abbiamo mai avuto per il bisogno di alternative ad esso. E la scienza ci impone una scadenza: dobbiamo aver già iniziato a ridurre radicalmente le emissioni prima la fine del decennio, e questo significa cominciare da adesso. Penso che la scadenza basata su principi scientifici debba far parte di ogni discussione su quello che dobbiamo fare prossimamente, perché di fatto non abbiamo a disposizione un tempo illimitato.
Dovremmo anche renderci conto che questo tipo di urgenza esistenziale potrebbe essere una forza regressiva se la utilizzano le persone . E’ facile immaginare dei despoti che usano l’emergenza climatica per dire:”Non abbiamo tempo per la democrazia o per la partecipazione, dobbiamo imporre tutto dall’alto.” Proprio adesso il modo in cui l’urgenza è usata all’interno del movimento ambientalista tradizionale per dire: ”Questo problema è così urgente che possiamo soltanto domandare questi accordi di compromesso “cap-and-trade” perché è tutto quello che possiamo sperare di ottenere politicamente.” L’abitudine di parlare di collegamenti tra la crescita economica e il cambiamento di clima, è stata piuttosto accantonata perché, presumibilmente, non abbiamo tempo di fare quel tipo di rapidi cambiamenti.
NK - Questo, però, era un calcolo politico prima di OWS. Come hai fatto notare, OWS sta cercando di cambiare quello che è possibile. Quindi quello che ho detto sempre quando parlo ai gruppi ambientalisti è: cominciate a immaginare che cosa serbe possibile fare se il movimento a favore del clima non se ne stessero per conto loro ma fossero parte di una rivolta politica più ampia che lotta contro un modello economico basato sull’avidità. In quel contesto è molto più pratico parlare di cambiamento di quel sistema. E’ molto più pratico, infatti che promuovere piani corrotti come quelli di cap-and-trade che sappiamo non avere la possibilità di portarci dove le scienza ci dice che è necessario andare.
Sono anche eccitata per il fatto che, negli ultimi dieci anni, da quando era al culmine il cosiddetto movimento anti-globalizzazione, è stato fatto un grandissimo lavoro che dimostra che la rilocalizzazione economica e e la democrazia economica sono sia fattibili che auspicabili. Guardate l’esplosione del movimento per il cibo locale, dell’agricoltura sostenuta dalle comunità, e dai mercati degli agricoltori. Oppure il movimento cooperativo verde. O i progetti di energia eolica e solare basati sulla comunità. E ci sono poi le città come Detroit, Portland o Bellingham, che lavorano su molteplici fronti per rilocalizzare le loro economie. Il fatto è che ci sono esempi reali che possiamo indicare ora, di comunità che hanno superato la crisi economica meglio di quei posti che dipendono ancora da poche grosse imprese multinazionali, e che potrebbero scomparire in una notte dopo che quelle imprese hanno chiuso le porte. Soprattutto però: molti di questi modelli si occupano contemporaneamente sia della crisi economica che di quella ecologica, creando lavoro, ricostruendo le comunità, mentre abbassano le emissioni e riducono la dipendenza dai combustibili fossili.
Tornando all’idea della resistenza e alle alternative che sono i rami gemelli dell’elica del DNA, vedo un futuro possibile dove il gruppo resistente di OWS potrebbe appoggiare le linee politiche di cui queste alternative economiche hanno bisogno per arrivare al livello successivo.
Allora, sì, è lì che vedo un grande potenziale –sia forza potenziale che perdita potenziale, occasioni perdute. E tu?
YM – Penso che ora ci siano più possibilità di quante ci siamo mai immaginati. Penso che in un futuro non così lontano potremo ottenere un sacco di cose che veramente servono a migliorare la vita della gente, possiamo continuare a cambiare il panorama politico e possiamo diventare un movimento di massa che avrà la forza di proporre un altro tipo di mondo e anche di combattere per esso. Siamo solo all’inizio e penso che ci sia un potenziale enorme. E vedo anche quel tipo di possibilità durare nel tempo. Penso che possiamo ottenere una società davvero libera. Penso che sia assolutamente possibile avere un sistema politico ed economico in cui possiamo dare il nostro parere sincero, che noi controlliamo in modo democratico, al quale partecipiamo, che è equo e liberatorio, dove possiamo avere autonomia per noi stessi e le nostre comunità e le nostre famiglie, ma che siano anche reciprocamente solidali. Penso che sia possibile e necessario. Questo fa parte della cosa meravigliosa che è questo momento e questo movimento. Proprio adesso, seduto qui, non riesco neanche a immaginare i limiti delle possibilità future.
NOTA.
Naomi Klein è una giornalista, attivista e autrice del libro The Shock Doctrine: The Rise of Disaster Capitalism e di No Logo. Ha una rubrica su The Nation e su The Guardian. Yotam Marom è un organizzatore politico, educatore e scrittore con base a New York. Ha partecipato attivamente al Movimento Occupiamo Wall Street ed è membro della Organization for a Free Society.
Fonte: www.zcommunications.org Originale: The Nation
The Nation, Traduzione di Maria Chiara Starace
Rischia di passare alla storia come il referendum tradito due volte. Tradito nei fatti, visto che niente si è mosso dopo che 27 milioni di italiani hanno votato "sì" il 12 e 13 giugno scorso alla ripubblicizzazione del servizio idrico integrato. Unica eccezione, la città di Napoli. Mortificato, poi, dalla bozza del decreto sulle liberalizzazioni del governo Monti, che al momento, negando agli enti di diritto pubblico (le aziende speciali) di gestire acquedotti e rete, apre di nuovo ai privati il grande affare dell´acqua italiana. A sette mesi dal voto, le tariffe sono in aumento costante: +12,5% in media dal 2009. Gli ultimi ritocchi per la stagione in corso sono segnalati tra Vicenza e Padova (4%), a Modena (6%), nel Chietino (30 euro). I gestori sono sempre gli stessi. Gli investimenti sulla rete un terzo di quelli promessi: 600 milioni contro i due miliardi necessari per aggiustare reti colabrodo.
Ieri sera davanti a Montecitorio i comitati dell´acqua pubblica hanno organizzato un rumoroso sit-in per rispondere al sottosegretario all´Economia, Gianfranco Polillo, che aveva definito il referendum sull´acqua «un mezzo imbroglio». Ricevuti dal sottosegretario allo Sviluppo, Claudio De Vincenti, professore vicino al Pd che a giugno aiutò il comitato del "no", ne hanno ricavato indicazioni incoraggianti. «Il sottosegretario ci ha fatto sapere che Monti non vuole passare come quello che ha affossato un referendum così popolare», urla al megafono Marco Bersani, leader del comitato per il "sì". Le poche righe sul divieto alle "aziende speciali" potrebbero scivolare via domani in Consiglio dei ministri. Ci sono 24 ore di tempo per capire come fare senza tradire il grande impianto liberalizzatore del decreto.
Sulla carta il referendum era stato uno scacco matto alle spa in due mosse. Il primo quesito bloccava la corsa dei privati, lanciata dal governo Berlusconi. Il secondo toglieva la possibilità ai gestori di fare soldi con l´acqua, abrogando la norma che consentiva di ottenere profitti garantiti sulla tariffa caricando sulla bolletta un minimo del 7% (remunerazione del capitale investito). Questa quota di guadagno oggi si è attestata attorno al 20%, con picchi al Nord del 25%. «È partita la nostra campagna di obbedienza civile al referendum», dice Giuseppe De Marzo, portavoce di "A Sud", «invitiamo gli utenti ad autoridursi la bolletta del 7 per cento».
Senza profitto, il privato esce. Ma non è andata così. Solo nell´Ato (Ambito territoriale ottimale) di Napoli si è passati da una spa pubblica (Arin spa) a un ente di diritto pubblico (Abc Napoli), quindi senza l´obbligo di fare profitti. Nel resto d´Italia, negli Ato dove il servizio idrico è gestito da spa miste (12), da privati (6), dai tre multicolossi Acea, Iren e A2A (13), non è cambiato niente. Non solo. I sindaci non hanno avuto la forza né i fondi per eliminare dalle bollette la remunerazione del capitale investito. Nichi Vendola, governatore della Puglia, tra i primi sostenitori dell´acqua pubblica, ha provato a spiegarlo ai lettori del Manifesto: «I sindaci non possono autorizzare una riduzione, a questo corrisponderebbe la diminuzione degli investimenti su acqua, fogne, salute».
Federutility raggruppa le imprese idriche ed energetiche e spiega: «L´Italia ha le bollette dell´acqua più basse al mondo e questo produce un elevato consumo, ma non ci sono soldi per i depuratori». L´abrogazione del 7%, dicono, non si applica ai piani d´ambito in corso: se ne riparlerà tra quindici anni. Sostiene Alberto Lucarelli, giurista e assessore ai Beni comuni di Napoli: «Non sono validi atti amministrativi e contratti basati su una legge che è stata abrogata». Abrogata dal referendum da 27 milioni.
Superato il tetto di 2.000 voti nel sondaggio lanciato da La Nuova Venezia sul sito web sul passaggio delle Grandi navi in Bacino San Marco. La larga maggioranza è favorevole al l’allontanamento delle navi da crociera a Venezia. Tre le opzioni prospettate in risposta: «Sì, vanno bloccate perché così l'ambiente muore»; «No, devono passare perché la città vive di turismo». Oppure il classico «Non so». Oltre 2.000 persone hanno partecipato in un giorno al sondaggio, schierandosi a maggioranza schiacciante a favore dell’ambiente, nonostante il traffico passeggeri sia una voce importante della vita economica del porto. D’altra parte, da mesi è cresciuto prepotentemente sul web il malessere contro il passaggio dei colossi del mare, a sfilare davanti a piazza San Marco. Il sondaggio resta aperto sul sito de La Nuova Venezia. Il tema del transito dei giganteschi condomini del mare - come li ha chiamati il ministro Clini - a pochi metri dalla Piazza è anche in home page del settimanale Espresso, all’indirizzo espresso.
Ci vorrà almeno un anno di lavori - dal momento del via libera - e una spesa vicina ai 40 milioni allontanare le navi da crociera dal Bacino di San Marco, come ormai tutti chiedono dopo l’affondamento della «Concordia» di fronte all’isola del Giglio. Mentre infatti il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni ha incontrato ieri a Roma il ministro dell’Ambiente Corrado Clini - che gli ha prospettato la possibilità di un provvedimento governativo in questo senso, sulle basi delle leggi già esistenti - e il presidente dell’Autorità Portuale Paolo Costa ha confermato la precisa volontà di Porto e Comune di eliminare progressivamente i passaggi delle navi da crociera in Bacino San Marco, restano però i problemi tecnici ed economici dell’operazione, che potrebbe essere realizzata non dal Magistrato alle Acque, come si pensa, ma dal commissario governativo allo scavo dei fanghi dei canali portuali Roberto Casarin, che almeno sino alla fine dell’anno in corso, ha la competenza su questo tipo di opere.
L’ipotesi più accreditata è quella dell’ingresso delle navi da crociera in laguna dalla Bocca di porto di Malamocco, raggiungendo la Marittima attraverso il Canale dei Petroli. Per questo, adottando un “senso unico” - che potrebbe in teoria diventare anche un doppio senso - sarebbe però necessario scavare e allargare il canale Contorta-Sant’Angelo, tra il canale della Giudecca e Marghera, mentre è da vedere se utilizzare per l’arrivo in Marittima anche il canale Vittorio Emanuele, dove è presente un elettrodotto. «Si tratterebbe di asportare non meno di un milione e mezzo di metri cubi di fanghi, facendone prima una caratterizzazione per valutare la percentuale di inquinanti - spiega l’ingegner Casarin - e se quelli più tossici fossero anche solo il 10 per cento, la spesa toccherebbe una cifra vicina ai 40 milioni di euro. Per lo stoccaggio, poi, alle Trezze o altrove, ci vorrebbe tempo per la disitratazione dei fanghi, almeno un anno». «La questione delle grandi navi- ha ricordato ieri Orsoni - l’abbiamo affrontata da tempo con uno specifico protocollo con l’Autorità Portuale e con la quale ci siamo dati tre mesi di tempo per trovare le soluzioni che permettano di alleggerire il traffico davanti a San Marco».
Entro gli inizi di marzo, così, dovrebbero essere pronte le «indicazioni su come operare, sempre che prima non intervenga una decisione da parte del governo». Il sindaco indica anche una possibile strada: se anche per i canali marittimi potesse essere applicato il codice della strada allora per un primo cittadino si aprirebbe la possibilità di avere delle competenze. «In ogni caso - conclude, dopo l’incontro con il ministro Clini - se il Ministero dovesse fare dei provvedimenti che ci aiutino ben vengano», con indirizzi specifici rivolti alle autorità competenti per ridurre il traffico marittimo nel aree a rischio.
Per Paolo Costa - intervenuto anche ieri a un dibattito televisivo sul caso Concordia a La7 - l’allontanamento delle grandi navi dal Bacino di San Marco si farà, anche se non c’è alcun rischio che in laguna possa ripetersi un simile incidente. «Al massimo una nave da crociera rischia di incagliarsi sul fondale sabbioso, come è già successo nel 2004 - ha ricordato - e verrebbe rimossa dai rimorchiatori. L’importante è che tra pochi giorni, finita la copertura mediatica, non si dimentichi il problema.
In posizione di attesa il nuovo presidente del Magistrato alle Acque Ciriaco D’Alessio: «Comune e porto stanno dialogando sulla soluzione da scegliere per risolvere il problema del passaggio delle grandi navi di laguna e ci sono un ventaglio di possibilità. Noi siamo pronti a fare la nostra parte, non appena sarà presa una decisione definitiva in merito». «Stiamo valutando la possibilità di adottare misure di limitazione - ha intanto dichiarato ieri il ministro Clini in Parlamento - per le rotte di queste navi in aree sensibili e a rischio. La legge 51 del 2011prevede che il ministro dell’Ambiente e quello dei Trasporti possano prendere in considerazione «limitazioni nelle aree a rischio.
In sostanza, per "salvare" la Venezia monumentale si propongono di distruggere la radice vitale della città: la sua Laguna. Infatti parlano di approfondire e allargare il "canale dei petroli", uno dei maggiori responsabili del disastro della Laguna che dal 1966 si decise di ridurre. E non ci si preoccupa del rischio che il disastro ecologico, allontanato da Piazza San marco, dovesse distruggere l'insieme della Laguna.
Ma non basta. Non si rendono conto che, al di là del rischio di un Costa Concordia bis, c'è la catastrofe quotidiana di un turismo "mordi e fuggi" che ha già profondamente trasformato la città, e che è oltretutto la concausa dei "Grattacieli (altro che "condomini", ministro Clini) del mare".
Una concluione, speriamo provvisoria: la fedeltà al Dio degli gli affari rende demente chi affarista non è.
Non è del tutto chiaro come mai Monti, che tanto ha insistito sullo sguardo lungo e l’Europa, abbia deciso di frenare lo scatto iniziale per dire d’un tratto ai tedeschi, in un’intervista alla Welt dell’11 gennaio: «Gli Stati Uniti d’Europa non li avremo mai. Non foss’altro perché non ne abbiamo bisogno». Forse è la prudenza a produrre un’affermazione così perentoria, che chiude orizzonti possibili. La battaglia contro gli egoismi di Berlino reclama compromessi. Forse è quella deferenza che lui stesso aveva stigmatizzato, il 26 giugno sul Financial Times: una sorta di virus che affligge i capi europei quando si compiacciono di sé per custodire apparenti sovranità. Nell’immediato e a casa i governi ne profittano - il potere degli esecutivi aumenta - ma in Europa quel che accampano è un diritto all’impotenza. O forse Monti non è un federalista, cosa senz’altro legittima se al diniego non aggiungesse la glossa un po’ stupefacente: della federazione «non c’è bisogno».
Non ce n’è bisogno, spiega, perché l’utopia di Ventotene è già realizzata, grazie alla sussidiarietà (quel che gli Stati non sanno fare da soli è delegato all’Unione sovranazionale, e viceversa). La sussidiarietà tuttavia dà risultati negli Stati compiutamente federali, non nell’Europa di oggi: se uno Stato affida incarichi a un’Unione senza statualità e di continuo paralizzata da 27 governi con diritto di veto, quando mai l’impresa funzionerà? Monti dice che il rimedio già c’è, ma nega la necessità dei mezzi per renderlo operante. Giunge addirittura ad annunciare che non ci saranno mai: per un Premier che nell’Unione è tra i più europeisti, e col coraggio dell’impolitico sta reinventando la politica, presumere con certezza un futuro ignoto è scommessa quantomeno azzardata.
Quel che è stupefacente, è l’ora storica in cui il federalismo viene sconfessato. I tempi bui sono sempre momenti di verità, e la verità la vediamo: l’alternativa alla federazione è una confederazione, che esclude un governo politico europeo, che dà il primato a finti Stati sovrani - limitandosi a migliorare coordinamento e reciproca sorveglianza - e che sta franando penosamente. La sorveglianza fa dell’Europa un panopticon, un Controllore: non prelude a un’azione comune, e di conseguenza non presuppone nuove competenze attive, non solo ispettive, degli organi sovranazionali (Commissione, Parlamento europeo). Non implica neppure la tutela delle democrazie: la prevalenza della concertazione economica, in nome dell’euro, aiuta paradossalmente gli autoritarismi - quello di Berlusconi ieri, quello ungherese oggi - a sopravvivere. Non così prima dell’euro: le terribili crisi dei cambi sempre provocavano cadute di governi. Non vorremmo che l’euro divenisse il garante di una Europa fondata sul doppio sacrificio del welfare e della democrazia.
Ernesto Rossi scriveva sin dal ‘52: «Federazione è l’arrosto; Confederazione è soltanto il fumo dell’arrosto. Coloro che dicono di volere un’unione confederale, in verità non vogliono niente; vogliono lasciare le cose come stanno, perché non sono disposti ad accettare alcuna limitazione delle sovranità nazionali». Il nome che Monti dà alla confederazione, denunciando il duopolio franco-tedesco, è «un’Europa dai molti centri (tra cui l’Italia)». L’arrosto ancora non c’è. C’è il fumo che avvolge i brancolanti superstiti degli Stati-nazione, consegnandoli alle furie dei mercati.
La tesi di Monti è la seguente: alcune economie europee vacillano, ma non l’euro. Basta dunque che ci si coordini meglio, e la solidarietà verrà. In parte il ragionamento tiene: oppressi dalla crisi, gli europei hanno sempre finito col fare qualche progresso, tanto grande in tutti è la paura dello sfascio. Quel che tiene di meno è l’analisi della crisi: venendo dagli Usa, essa «non è in alcun modo legata a un difetto del modello europeo (...) In Europa questa crisi non sarebbe mai potuta succedere. L’Europa è virtualmente in ottima posizione». Anche qui, la sicurezza è tanta. Sia l’Europa sia l’euro sono nati con imperfezioni gravi. La Banca custode della moneta è federale, ma ha le mani spesso legate (Monti l’ha detto a chiare lettere, ieri sul Financial Times). Le manca il rapporto dialettico con un governo egualmente sovranazionale, che le consenta di divenire prestatore di ultima istanza, come negli Usa, condividendo i rischi con il potere politico.
Questi non sono piccoli, ma grandissimi difetti di costruzione. Lo pensarono coloro che sin dall’inizio ammonirono contro l’«euro senza Stato». Lo afferma un rapporto sulla moneta unica, appena pubblicato per il Peterson Institute for International Economics: «Crediamo che la crisi europea sia politica, e in larga misura di presentazione», scrivono Fred Bergsten e Jacob Funk Kirkegaard. I due economisti americani appoggiano l’euro e l’unione fiscale decisa il 9 dicembre, ma aggiungono: «Fin dalla sua creazione negli anni ‘90, quel che è mancato nella moneta unica sono le istituzioni cruciali per assicurare il ripristino della stabilità finanziaria in tempi di incertezza acuta e di volatilità del mercato. Per questo il compito dei leader dell’eurozona va ben oltre i salvataggi (...) Essi devono riscrivere le regole dell’eurozona e completare una casa fatta solo a metà. Devono combinare misure finanziarie creative, per risolvere la crisi immediata, con un’ondata di nuove istituzioni».
Il federalismo non è subito attuabile, ma come orizzonte resta: «La maggiore sfida consiste nell’usare l’opportunità politica offerta dalla crisi per creare le basilari istituzioni (comuni), e completare nel lungo termine la casa lasciata a metà». Questo comporta, per Bergsten e Kirkegaard (anche per i federalisti europei), «revisioni aggiuntive e sostanziali dei trattati e delle istituzioni». L’Europa va ripensata sapendo che la via multicentrica-confederale non funziona. Quale via davvero alternativa tentare, se non quella federale?
Se il difetto di costruzione è l’euro senza Stato, lo stesso vale per le misure di rigore nazionali: anch’esse difettose, perché non compensate da un’Europa politica che generi crescita comune quando gli Stati non possono farlo. Domenica, su La Stampa, Enzo Bianchi ha detto una cosa illuminante: «Mi chiedo se uno dei motivi della progressiva disaffezione verso l’Europa non abbia anche a che fare con il fatto che non paghiamo direttamente alcuna tassa per il fatto di essere cittadini europei: cosa ho a che fare con quest’entità superiore che non ha una cassa comune alla quale io contribuisco? Si è infatti disposti a pagare di tasca propria solo per una realtà che ci supera ma che sentiamo nostra». Pagare un po’ meno tasse agli Stati e un po’ più tasse all’Europa, perché essa abbia un bilancio forte e investa in una crescita diversa (energie alternative, ricerca, trasporti, difesa, politiche mediterranee indipendenti dagli Usa). Questo è spendere meno e meglio, e dare una prospettiva al nostro mondo divenuto angosciosamente bidimensionale.
Molti ritengono che l’Europa federale abbia perso senso, ora che non è più questione di pace e guerra. Ma non meno drammatiche sono le crisi d’oggi: il welfare rattrappito, l’ineguaglianza, la miseria (dalla primavera scorsa negli ospedali greci mancano medicine). Per chi suona la campana della solidarietà, degli eurobond, dei debiti sovrani smorzati in comune, se non per noi che paghiamo il prezzo dell’Europa incompiuta? Non rischiamo più guerre fra Stati, ma il movente degli anni ‘40 rimane.
L’Europa non si edifica per creare il Bene (l’Identità e la Prosperità, secondo Monti): del Bene ognuno ha una sua idea, personale o identitaria. L’Europa serve per scongiurare insieme le sciagure: ieri la guerra, oggi la contrazione economica, la povertà, il clima, le possibili guerre civili. Compito nostro è evitare che naufraghi come la nave Concordia, con tutti i comandanti che fuggono per salvare solo se stessi, alla maniera del capitano Schettino, dopo aver condotto il bastimento alla rovina.