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Ieri, 15 marzo, ricorreva la giornata europea del consumo e non sembra che sui media la notizia abbia avuto il giusto rilievo, soprattutto per quanto riguarda la necessità di riflessione e di azione che tutti dovremmo avvertire rispetto ad un tema che è sempre più cruciale e strategico nella riflessione sulle prospettive del nostro futuro.

Infatti, la domanda semplice e banale che la politica, l'economia, la diplomazia internazionale, il mondo delle imprese, l'intera società civile ecc. dovrebbe porsi in maniera chiara è: ma è possibile andare avanti così? E' possibile continuare a perseguire modelli di consumo e di impatto sugli stock ed i flussi di materia ed energia sempre crescenti? E' possibile credere che il modello economico che abbiamo scelto per le nostre società, basato su di una crescita continua del consumo di risorse, possa continuare ancora? Queste sono anche le domande cruciali alle quali dovrebbe fornire risposte esaurienti e di forte indirizzo per il cambiamento di rotta che si fa sempre più evidente e necessario, la grande Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile che avrà luogo a Rio de Janeiro nel giugno prossimo (www.uncsd2012.org) .

A Copenhagen, in occasione della giornata europea del consumo, l'Agenzia Europea per l'Ambiente (European Environment Agency www.eea.europa.eu ) ha organizzato, insieme all'European Economic and Social Committee un seminario sul tema "Sustainable Consumption in a Time of Crisis".

E' di tutta evidenza che la situazione complessiva che moltissime società umane stanno attraversando dal 2008 (anno di avvio di questa profonda crisi economica e finanziaria internazionale) ad oggi può stimolare una significativa riflessione su come avviare percorsi di consumo sostenibile, riuscendo a dare così risposte concrete alla crisi stessa. La necessità quindi di avviare finalmente una decisa inversione verso un consumo responsabile, consapevole, equo e sostenibile, non è più una scelta opzionale ma assume i caratteri di una scelta obbligata. Non è un caso che la notizia sul sito dell'EEA sia titolata "Unsustainable consumption - the mother of all environmental issues ?" (il consumo insostenibile, la madre di tutti i problemi ambientali?).

Il consumo di prodotti e servizi esercita impatti in diversi modi sui sistemi naturali. L'incremento planetario del fenomeno del sovraconsumo vede negli ultimi anni fasce significative delle popolazioni di diversi paesi, definiti ormai i New Consumers (dalla Cina all'India, dalla Malesia all'Indonesia, dal Brasile al Sud Africa ecc.) che stanno raggiungendo livelli di consumismo simili a quelli dei paesi ricchi, con il risultato di un impatto complessivo sui sistemi naturali divenuto ormai totalmente insostenibile.

Infatti le nostre modalità di scelta e di acquisto dei prodotti contribuiscono direttamente o indirettamente a pesare sul cambiamento climatico, sull'inquinamento di aria, acqua e suolo, sulla perdita complessiva di biodiversità, sulla modificazione degli ecosistemi terrestri e marini e sulla continua riduzione delle risorse in tutto il mondo.

Il fatto che si possa continuare con gli attuali pattern di consumo non può più essere considerata un opzione praticabile, come è stato chiaramente ed ulteriormente ribadito dal seminario dell'EEA a Copenhagen. E' necessario ed urgente esplorare nuovi modelli di consumo che non compromettano i bisogni delle future generazioni ed ovviamente non continuino a distruggere irrimediabilmente i sistemi naturali. Il meeting di Copenhagen ha sottolineato quanto la situazione di grave recessione presente in Europa possa stimolare ad accelerare la decisa transizione verso nuove e diffuse modalità di consumo sostenibile basate anche sull'avvio e il rafforzamento di una nuova impostazione economica, definita in maniera molto mediatica Green Economy che costituisce uno dei temi prioritari oggetto della Conferenza Rio+20 prevista nel prossimo giugno.

Un cittadino europeo consuma almeno quattro volte più risorse di un cittadino medio in Africa e tre volte di più i quelle di un cittadino asiatico ma ne consuma la metà di quelle consumate da un cittadino statunitense, canadese o australiano. Ormai, come abbiamo più volte considerato nella pagine di questa rubrica, la conoscenza scientifica ci ha permesso di disporre di numerosi dati significativi da questo punto di vista (ricordo, per tutte, la bella ed agile pubblicazione del Sustainable Europe Research Institute (SERI) uno dei più autorevoli think-tank sulla sostenibilità a livello europeo ed internazionale, realizzata nel 2009, insieme ai Friends of the Earth, dal titolo "Overconsumption? Our use of the world's natural resources" (scaricabile dal sito http://old.seri.at/documentupload/SERI%20PR/overconsumption--2009.pdf) e l'iniziativa di ricerca internazionale sempre coordinata dal SERI che ci ha permesso di ottenere un calcolo dei flussi di materia dal 1980 ad oggi, sia a livello mondiale che per ogni nazione, vedasi www.materialflows.net ) .

L'utilizzo delle risorse naturali in Europa è in crescita: nel 2007 l'uso di risorse era di 8.2 miliardi di tonnellate delle quali più della metà riguardava minerali e metalli mentre i combustibili fossili e le biomasse erano approssimativamente un quarto ciascuno. Ogni cittadino europeo utilizzava risorse per 17 tonnellate l'anno.

Secondo i sondaggi sin qui svolti a livello europeo, ricordati dall'EEA, l'87% dei cittadini europei ritiene che l'Europa dovrebbe utilizzare in maniera molto più efficiente le risorse naturali, ed il 41% pensa che produce troppi rifiuti.

Gli europei utilizzano più spazio per vivere; la media dello spazio necessario per le loro abitazioni si è incrementato di almeno 6 metri quadrati dal 1990 ad oggi mentre il numero medio di abitanti per appartamento è sceso da 2.8 a 2.4.

Per quanto riguarda i rifiuti gli attuali livelli di consumo comportano una media di rifiuti solidi urbani prodotti da ogni cittadino europeo che, nel 2008, era di 444 kg e che, indirettamente generavano almeno 5.2 tonnellate di rifiuti nell'economia europea. Si tratta di dati nell'ambito dell'Unione Europea perché non si dispongono di molti dati sui rifiuti derivanti dalla produzione di prodotti e materiali importati dalle altre regioni. I dati mondiali che circolano sulla produzione di rifiuti sono abbastanza generici: il ponderoso rapporto del Programma Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP) sulla Green Economy ("Towards a Green Economy: Pathways to Sustainable Development and Poverty Eradication" pubblicato nel novembre 2011 vedasi http://www.grida.no/publications/green-economy/ ) nel capitolo rifiuti ricorda che la produzione mondiale di rifiuti derivanti dalle aree urbane e dall'industria si aggirano, ogni anno, tra i 3.4 ed i 4 miliardi di tonnellate, dei quali rifiuti industriali non pericolosi sono intorno a 1.2 miliardi, mentre i rifiuti solidi urbani sono tra 1.7 ed i 1.9 miliardi di tonnellate.

Tornando all'Europa si stimano in 89 milioni di tonnellate il cibo che viene buttato via ogni anno nelle case, nei ristoranti, nei negozi, lungo le filiere produttive, una media di circa 180 kg per cittadino europeo. Nel solo Regno Unito il 25% del cibo acquistato viene poi buttato.

Insomma il consumo, il sovraconsumo, sta divenendo sempre di più un problema centrale per il nostro futuro: moltissimi problemi legati a quanto già oggi minaccia la sopravvivenza del genere umano sono legati all'incremento del consumo di energia, di acqua e di materie prime, all'aumentata produzione dei rifiuti, degli scarti e alle emissioni ed all'incremento delle trasformazioni, da noi indotte, sui suoli e gli ecosistemi di tutto il mondo.

Ci vuole tanto coraggio per venire a parlare di smart city a chi non ha più una city perché un terremoto se l´è portata via ormai tre anni fa. Ci vuole tanto ottimismo per parlare di soluzioni intelligenti a chi in questi anni ha subito la stupidità di chi poteva decidere per il bene comune e non lo ha fatto. I professoroni sbarcati ieri a L´Aquila sono giovani, coraggiosi e ottimisti. Lavorano per l´Ocse, l´organizzazione mondiale per lo sviluppo e la cooperazione economica. Vengono da dieci paesi e cinque continenti. Dicono con entusiasmo frasi come "L´Aquila is beautiful" oppure, in italiano, "vi porto i saluti degli abruzzesi della Nuova Zelanda", e pensano che questo possa lenire le ferite del cuore. Sembrano ingenui ma non è così. Per molti mesi, mentre qui tutto era fermo, hanno studiato la situazione, hanno fatto tante interviste e ieri si sono presentati con un piano. Un grande piano.

Si chiama "Abruzzo verso il 2030: sulle ali dell´Aquila", ovvero "come rendere una regione più forte dopo un disastro naturale". La parola magica è smart city. Ovvero la città intelligente. La terra promessa attorno a cui lavorano in tutto il mondo architetti, ingegneri, ambientalisti per costruire un pianeta migliore.

Un modello chiaro e definito di cosa sia una smart city ancora non esiste, ma l´Unione Europea ha stanziato svariati miliardi di euro per spingere almeno trenta città europee a diventare smart entro il 2020: tra le città italiane Genova ha appena vinto la gara con Torino aggiudicandosi i primi tre lotti. Ma è solo l´inizio. Il ministro Profumo ha messo sul tavolo altri 200 milioni per chi volesse realizzare progetti "smart" in alcune regioni del Centro sud. Intanto il progetto dell´Expo 2015 ha abbandonato la via degli orti urbani e preso con decisione quello della smart city ottenendo così i soldi e la tecnologia di Telecom, Cisco, Accenture, mentre altri nove partner sono in arrivo per un totale di 400 milioni di euro di fondi privati da investire in un quartiere di Milano.

Cosa vuol dire "smart"? Vuol dire meno traffico, meno inquinamento, energia pulita, niente file e tante altre bellissime cose. Il presupposto è dare Internet a tutti, persone ma anche oggetti: lo scenario sono migliaia di sensori che mandano dati in tempo reale a supercomputer che li analizzano trovando soluzioni per farci vivere meglio in città sempre più affollate. Ma non basta Internet a rendere una città intelligente. Contano anche i materiali (più legno meno cemento, per esempio). E i comportamenti delle persone: con azioni stupide è impossibile avere una città intelligente. Insomma come ha spiegato qualche giorno fa il direttore del centro Nexa, il professor Juan Carlos De Martin, "una città digitale non è necessariamente smart, mentre una città smart è necessariamente digitale".

Ma torniamo al piano. Oggi i professoroni guidati dagli olandesi della università di Groningen lo presentano in pompa magna nei laboratori dell´Istituto Nazionale di Fisica Nucleare del Gran Sasso, uno dei gioielli della ricerca italiana. Uno dei pochi simboli felici della regione. Non sarà un momento banale: nel corso della giornata è atteso anche il presidente del Consiglio Mario Monti che secondo molti verrà a mettere il sigillo del governo sul progetto "L´Aquila Smart City" dopo che anche Expo2015 ha detto di voler mettere a disposizione le proprie soluzioni tecnologiche per la ricostruzione. Vedremo se sarà così.

Ieri pomeriggio intanto il piano è stato anticipato agli aquilani. Si chiama strategia di "condivisione e partecipazione". O anche "ricostruzione dal basso". Serve a creare consenso, ma anche a fare piani migliori. L´appuntamento era alle tre del pomeriggio nel ridotto del teatro comunale, proprio nel centro storico sventrato, tra macerie e transenne che sembrano eterne, come fossero monumenti alla nostra incapacità di ripartire. La sala era strapiena, gonfia di umori cattivi e con qualche speranza che affiorava negli applausi convinti dopo i discorsi dei professori Ocse, così belli e astratti a volte.

In ventesima fila, come un cittadino qualunque, c´era Fabrizio Barca, che non è solo il ministro che ha avuto dal premier Monti la delega ad occuparsi della ricostruzione. È anche l´artefice del piano l´Aquila Smart City. La storia è questa. L´idea di una ricostruzione intelligente non è venuta ai signori dell´Ocse, ma ai giovani architetti aquilani. Meno di un mese dopo il sisma si sono costituiti in una associazione che hanno chiamato "Collettivo 99", dove collettivo non ha il senso di una collocazione politica, ma solo di un lavoro comune, tengono a precisare; mentre 99 è il numero che rappresenta la storia dell´Aquila, i castelli della fondazione, le piazze, le fontane. Insomma i giovani architetti aquilani, mentre il governo Berlusconi e la Protezione Civile di Bertolaso allestiscono in fretta case provvisorie e danno il via alla solita ricostruzione all´italiana, scrivono documenti su documenti per dire che il dramma del terremoto può essere una opportunità, perché con le nuove tecnologie si può ricostruire una città migliore, con spazi comuni diversi, verde ed energia al centro di tutto. Una smart city. Naturalmente non li ascolta nessuno.

Ma in qualche modo riescono a far sì che una parte degli otto milioni di euro raccolti da sindacati e Confindustria, in un fondo di solidarietà, vengano usati per uno studio strategico. Così arrivano al ministero dello Sviluppo Economico e lì intercettano Barca, che allora era un alto dirigente con eccellenti contatti all´Ocse. Il piano parte così. Per questo alla fine non è tanto diverso dalle cose che scrivevano gli architetti aquilani. In più dice tre cose. Indire una gara internazionale per la ricostruzione. Candidare l´Aquila a capitale europea della cultura del 2019. Diventare un laboratorio mondiale di innovazione.

Poi si sono alzati i cittadini aquilani. Con il dolore impresso sul viso e nella voce la rabbia per essere stati ignorati finora. Hanno detto che L´Aquila intelligente è una cosa bella, certo, ma prima di tutto vogliono tornare a dormire in una casa. Prima di tutto.

Postilla

Abbiamo valutato molto criticamente il documento che ha prodotto l’evento dell’Aquila, cui la Repubblica (giornale ormai filogovernativo come pochi altri) dà ampio e beneaugurante spazio. La cronaca conferma le ragioni della nostra critica. Il debolissimo documento dell’OCSE è un testo che è stato adoperato identico in molte occasioni, e per L’Aquila è stato completato con alcuni inserti: quelli appunto che accreditano la positiva “innovazione” di un intervento per l’edilizia storica che si imita a conservare le facciate demolendo il resto, che considera meritevoli di una qualche tutela solo i “monumenti” demolendo “l’edilizia minore”, che promuove l sostituzione del paziente lavoro dell’urbanistica, della storia e del restauro con l’intervento “creativo” degli architetti, magari mobilitati da un concorso internazionale.

Ma come ha osservato un nostro redattore, ciò che conta non è il documento, ma gli sponsor. E gli sponsor sono preoccupanti: il governo, la Confindustria, le organizzazioni regionali e provinciali della Cgil, Cisl, Uil; uno schieramento molo ampio. In un clima certamente più civile e “internazionale” di quello della precedente gestione B&B, anzichè introdurre nel pensiero corrente che per salvare l’Italia servono le “new towns” in salsa di Arcore, vi si vuole introdurre la convinzione che per rendere “smart” le città occorre cancellarne la memoria storica.

Insomma, un grande evento pieno d’”intelligenza” per accreditare l’idea che i centri storici si possono “ristrutturare”; l’”Aquila smart city” per cancellare la Carta di Gubbio.

Tra i documenti sulla Carta di Gubbio vedi, su eddyburg, 1960 La Carta di Gubbio, Attualità della Carta di Gubbio, La tutela del centro storico e la pipa di Magritte, Centri storici: assicurare la tutela, garantire la viibilità. Altri ne trovi inserendo le parole "carta di gubbio" nel "cerca" che sta nella testata di tutte le pagine

È tempo di abbandonare la furiosa polemica ideologica sul Tav e – grazie a una moratoria – ripristinare un confronto politico sulle scelte strategiche nel campo dei trasporti e delle infrastrutture. Per un nuovo modello di sviluppo

Uno degli argomenti più usati nella battaglia mediatica intorno al Tunnel di Base della Valsusa è che si è perso molto tempo a discutere dagli anni ’90 e soprattutto dal 2005 ad oggi, che tutte le mediazioni sono state fatte e adesso bisogna procedere decisi con un’opera utile e strategica che l’Europa ci chiede.

A noi pare giusto che prima di fare un tunnel nelle Alpi di 57 km con una nuova linea ferroviaria, in una situazione di gravissima crisi economica e di tagli “per tutti”, si discuta e si capisca se si sono davvero prese in considerazione tutte le opzioni possibili, se l’opera serva e se l’ordine di priorità stabilito sia quello giusto. Del resto, questa riflessione si sta riaprendo anche in Francia. Il problema, però, è che la discussione che si è svolta in questi anni, a cui anche i Verdi hanno dato un contributo rilevante, è stata in qualche modo “truccata” e che molto tempo si sia perso e si stia ancora perdendo dietro questo “trucco”. Se è vero infatti che l’Osservatorio ha lavorato e prodotto proposte interessanti e pregevoli che oggi vengono riproposte anche nel documento presentato da uno dei leader della battaglia della Valsusa, Antonio Ferrentino, è anche vero che Mario Virano non ha mai accettato di includere nel lavoro dell’Osservatorio un confronto sull’effettiva utilità del Tunnel di base e le possibili alternative. Eppure questo confronto è ancora necessario e possibile, oggi più che mai. Perché rispetto a 15 anni fa i tempi sono cambiati ed è dimostrato che le infrastrutture grandi e costose non sono necessariamente portatrici di sviluppo e lavoro e il traffico non vi si trasferisce “magicamente”. Perché dal 2005 a oggi i flussi di traffico merci sono diminuiti su quella linea e perché, come ben hanno sottolineato i 360 tecnici e professori che hanno sottoscritto l’appello a Monti, non è mai davvero stata fatta un’analisi di sostenibilità ambientale, trasportistica e finanziaria dell’opera, come non si fa del resto per nessuna “grande” opera in Italia.

Noi, come ecologiste, siamo fra coloro che non hanno mai escluso la possibilità che se avvenisse davvero il trasferimento modale, se la linea si avvicinasse alla saturazione, allora si potrebbe considerare l’esigenza di una nuova linea ferroviaria e di un tunnel alpino. In questo senso, è davvero discutibile puntare sul progetto «low cost» che esclude proprio le cose più urgenti, cioè le politiche e i nodi urbani, e si concentra solo sul tunnel di base. Dobbiamo perciò convincere gli interlocutori più ragionevoli e i tecnici del governo che, poiché assolutamente nulla è stato fatto verso una politica dei trasporti sostenibile, allora puntare oggi sul Tunnel è un inutile spreco. Da qui la nostra richiesta al governo e al Parlamento di aprire un dialogo anche con i 360 tecnici e professionisti che gli hanno inviato un appello, con i con i sindaci della Valle e con gli ambientalisti.

Pensiamo poi che alcune recenti prese di posizione, in particolare da parte del Pd, sulla necessità di una svolta nella politica dei trasporti siano interessanti e possano aprire una breccia nel “muro contro muro” attuale; e riteniamo che ci siano in particolare quattro cose che si possono avviare subito per dimostrare che si fa sul serio: riaprire immediatamente la procedura di ratifica del Protocollo Trasporti della Convenzione delle Alpi stralciata in Parlamento, rivedere le politiche di sostegno generoso all’autotrasporto (che hanno ricevuto anche di recente circa 500 milioni di euro di incentivi, mentre si taglia tutto il resto), restituire le risorse per la mobilità urbana (decurtate del 20% nel 2011) e destinare i fondi promessi ai treni e ai servizi per i pendolari. Se questo non si farà, allora l’attuale discussione è solo una foglia di fico per coprire il vero obiettivo che è quello di imporre il tunnel subito e comunque, necessario o no.

Da questo punto di vista, non bisogna neppure dimenticare che della “svolta” nella politica dei Trasporti deve assolutamente far parte un serio ripensamento delle infrastrutture autostradali previste, in gran parte non utili e molto onerose per lo Stato e per i cittadini, e il progetto del Terzo Valico ferroviario Milano-Genova, che presenta dal punto di vista finanziario (7 miliardi di euro), trasportistico e ambientale delle criticità non dissimili dal Tunnel della Valsusa. Anche in quel caso si parte dal “foro pilota” per scavare un “buco” nella montagna, che non solo è stata occasione di malversazioni, violazioni di legislazioni ambientali e reati vari, ma ha anche condizionato fortemente la scelta del progetto definitivo, che adesso si intende fare partire in tempi brevi, pur in assenza, anche in questo caso, del finanziamento complessivo dell’opera.

Dunque l’urgenza di aprire subito il cantiere di Chiomonte (dove per la cronaca nessun lavoro è davvero cominciato come si evince dal rapporto dei deputati europei che hanno visitato la zona il 10 febbraio scorso) non sta in piedi, visto che è un’opera propedeutica al Tunnel di base, che non è prioritario. Che senso ha sprecare allora adesso milioni di euro? Non è meglio spenderli in quelle politiche e aggiustamenti infrastrutturali di cui si parla? Contrariamente ad Antonio Ferrentino, riteniamo perciò che la proposta di una moratoria, come richiesto anche nell’appello promosso da Don Ciotti qualche giorno fa, sia il presupposto necessario per poter avviare quella svolta della politica dei trasporti che molti oggi auspicano.

Ultima considerazione: si continua a dare per scontato che secondo il nuovo regolamento in corso di approvazione l’Ue finanzierà per il 40% il Tunnel di base e che è urgente dimostrare che l’Italia non ha dubbi sul tunnel e potrà presentare un progetto sostenibile per concorrere ai nuovi fondi nel 2014. Anche l’accelerazione sul tunnel di Chiomonte si spiega perché l’Ue, che ha già ridotto il finanziamento di 643 milioni di euro deciso nel 2007, deve vedere che le cose si muovono per poter erogare i fondi stanziati fino a fine 2013. Da qui i numeri fantasiosi che si succedono in documenti anche ufficiali. In realtà la Ue terminerà il processo legislativo sulle Linee guida TEN-T 2014/2020 e le decisioni di bilancio Connecting Europe Facility tra non meno di 12/15 mesi e la battaglia su quanto e cosa finanziare deve ancora cominciare. Ogni progetto verrà esaminato sulla base del livello di avanzamento e della sua sostenibilità finanziaria e ambientale. Oggi siamo ancora al progetto preliminare del Tunnel di base. Secondo le nuove regole europee sarà necessario fare il progetto finale corredato da una VAS e da un piano finanziario credibile di diversi miliardi di euro per Italia e Francia. Ed esistono numerosi e fondati dubbi sulla capacità dell’Italia di assicurare il reale e puntuale cofinanziamento di un’opera cosi pesante. Poi bisognerà allocare i lavori. Prima di qualche anno nulla potrà partire davvero, anche se fossimo in una situazione di totale accordo su tutto, e non lo siamo di certo.

Perché allora non ammettere che i tempi saranno comunque molto lunghi? Perché non utilizzare il periodo delle prossime prospettive finanziarie europee per avere il sostegno della Ue per l’adeguamento e la velocizzazione della linea esistente, ivi incluso l’adeguamento del tunnel a treni container, cosa che era già prevista ma ancora non è realizzata? Perché non includervi anche una richiesta sul nodo di Torino, dato che anche le linee adiacenti alle tratte internazionali potranno verosimilmente concorrere al finanziamento europeo, anche se per una percentuale molto minore che per le tratte di confine (20% al massimo)? Perché, insomma, non metterci d’accordo subito su cosa fare nei prossimi 10 anni e mettere fra parentesi la battaglia sul Tunnel? È necessario rimettere al centro del dibattito le politiche e le reali priorità infrastrutturali della tratta Lione-Torino anche nell’ambito più vasto della discussione in corso in Europa (ma non ancora in Italia) sui valichi alpini, sul trasferimento modale, sulle priorità della mobilità che deve diventare sempre più sostenibile e in linea con gli obiettivi europei di riduzione delle emissioni e dell’impatto sul territorio.

I tempi dunque ci sono per la moratoria e per ripristinare un confronto politico sulle scelte strategiche nel campo dei trasporti e quelle più specifiche sull’infrastruttura, confronto che non può prescindere da una discussione sul modello di sviluppo per il futuro del nostro paese, abbandonando da ogni parte la furia della polemica ideologica.

Santiago Calatrava sotto inchiesta della Corte dei Conti, con altri sei tecnici, per la costruzione del quarto ponte sul Canal Grande. L´ipotesi è un danno di 3,4 milioni per la lievitazione dei costi e dei tempi, nonché per gli errori commessi nella realizzazione dell´opera.

Non c´è pace sul ponte di Calatrava, costruito tra mille polemiche, venuto alla luce dopo un interminabile cantiere durato oltre un decennio ed oggi attraversato quotidianamente da migliaia di pendolari che arrivano in città. Le indagini della Corte dei Conti sono durate quasi come il cantiere: sette anni. Alla fine il procuratore regionale Carmine Scarano ha quantificato un danno complessivo di 3 milioni e 467 mila euro che si è tradotto in un "invito a dedurre", l´equivalente di un avviso di garanzia, spedito a New York nella casa dell´archistar spagnolo e ai sei tecnici (Roberto Scibilia, Salvatore Vento, Roberto Casarin, Franco Bonzio, Luigi Licciardo e Hermes Redi) coinvolti a vario titolo nell´inchiesta. Gli "indagati" avranno 90 giorni di tempo per rispondere con una memoria difensiva. Dopo di che la procura contabile deciderà se rinviare a giudizio Calatrava e gli altri tecnici, oppure archiviare.

A supporto dell´accusa Scarano cita quattro consulenze tecniche, una dell´Autorità di vigilanza sui contratti pubblici e le altre firmate da Paolo Leggeri, Gianfranco Roccataglia e la perizia di Massimo Majowiecki, il quale ha definito il ponte «un´opera in prognosi riservata». I pareri arrivano comunque tutti alla stessa conclusione consentendo alla procura di scrivere che «la realizzazione del ponte ha comportato un oggettivo e sconsiderato aumento dei costi rispetto agli oneri inizialmente preventivati - di fatto totalmente disattesi - e comporterà per il futuro un costante e spropositato esborso economico da parte dell´amministrazione» per la manutenzione straordinaria. E ancora: «Dalla documentazione emerge una macroscopica approssimazione e diffusa incapacità sfociata in un imbarazzante, quanto stupefacente insieme di errori. Un´incapacità tecnica e una leggerezza nell´uso del denaro pubblico».

La storia del ponte di Calatrava parte dal 1996, quando l´architetto spagnolo dona al Comune lo studio di fattibilità del ponte. Nel 1999 si passa all´incarico ufficiale per la progettazione definitiva, quindi nel 2001 arriva la gara. Nel frattempo si passa dai 3,8 milioni preventivati ai 6,7 del progetto esecutivo, fino ad arrivare agli 11,7 milioni finali nel 2008. Di fronte alla richiesta di danni della Corte dei Conti l´ex sindaco Massimo Cacciari, che ha seguito per buona parte il progetto, è polemico: «Ma dove vive la Corte dei Conti? Si sapeva fin dall´inizio che i conti non potevano reggere. Con questa normativa le opere pubbliche in Italia non si possono fare». Più cauto l´attuale sindaco Giorgio Orsoni: «I giudici useranno tutta la prudenza del caso per una vicenda così complessa. Dei tecnici bisogna comunque fidarsi, ma se sbagliano è giusto che paghino».

Occupy Wall Street scopre le virtù del mercato. Non lo Stock Exchange, storico presidio finanziario sulla punta di Manhattan, ma quello, più a nord, di Union Square: la piazza di New York dove ifarmersdell'agricoltura biologica di Long Island e della valle dell'Hudson vendono (ahimè, a prezzi proibitivi: 7 dollari per un etto di lattuga) i loro prodotti rigorosamente organici. Perché va bene prendersela con le banche per il disastro dei mutuisubprime, attaccare il candidato-finanziere Mitt Romney, protestare contro l'aumento delle rette scolastiche e universitarie. Ma il movimento giovanile che ha tenuto banco per tutto l'autunno ha anche una sua anima bucolica, mentre tra i suoi nemici giurati — i giganti dell'industria e della finanza — ci sono anche le multinazionali dell'agroalimentare. Così la battaglia degli «occupanti» ora si allarga allafood justice: più agricoltura naturale, più spazio ai produttori locali e lotta dura contro lecorporationdei cibi geneticamente modificati, come la Monsanto.

Dopo il «letargo» invernale, il movimento di protesta si sta riorganizzando: i suoi attivisti di New York hanno appena completato un giro in bus di cinque settimane per coordinarsi coi gruppi degli altri Stati, dalla California al Maine, e per raccogliere idee nuove. Domani marcia e occupazione simbolica di Zuccotti Park per celebrare i sei mesi del movimento (che mise le tende nella celebre piazza-parco il 17 settembre). Ma già oggi, davanti al Congresso di Washington, «Occupy Wall Street» si trasforma in «Occupy Monsanto»: scende in piazza con una serie di azioni dimostrative la sua Gcu (Genetic Crimes Unit) che accuserà il Parlamento di essere divenuto esso stesso un organismo geneticamente modificato. «Modificato» dai soldi della lobby delle culture transgeniche.

Si può discutere se le fattorie organiche, di certo salutari ma anche elitarie, producano più «giustizia alimentare» dell'agricoltura industrializzata le cui derrate, certamente di qualità inferiore, sfamano a basso costo. Ma il movimento ha bisogno di individuare nuovi campi di battaglia e di concentrarsi su pochi temi popolari. Tra l'altro i soldi delle donazioni piovute su «Occupy» a settembre e ottobre stanno finendo: un indice della delusione dei «supporter» per un movimento che di chiaro ha solo il «marchio»: il 99 per cento di americani impoveriti (o comunque colpiti dalla crisi) contro l'1 per cento dei ricchi e privilegiati.

Quando dagli slogan si passa, però, alle azioni concrete, la spinta del movimento si disperde in manifestazioni nelle quali ognuno protesta per la sua causa: le assicurazioni sanitarie esose, il costo dell'istruzione, Mitt Romney, la gente buttata fuori dalle case pignorate. Bank of America, la banca che ha fatto più pasticci coi mutui, resta il bersaglio preferito, ma ora viene raggiunta da Monsanto, trasformata in simbolo del cibo-Frankenstein.

postilla

Come spesso accade con le corrispondenze da oltreoceano di Massimo Gaggi, ci sono un paio di sfrondature preliminari da fare, prima di arrivare alla notizia: quella relativa alla sostanziale “linea padronale” del giornale per cui scrive, e quella del nuovo mondo pazientemente spiegato a noialtri un po’ tonti delle retrovie. Ecco, al netto da questa scrematura resta anche qualcosa di assai concreto: la critica al sistema pare assumere, anche nelle forme più radicali (soprattutto nelle forme più radicali), i toni di una specie di Arcadia evocativa, dove ad essere evocato c’è un passato-presente invece molto più contraddittorio e difficile da indicare come prospettiva. Ora, è pur vero che non esiste progresso lineare se non nelle fantasie di qualche studioso a gettone, ma certo con la sola ingenuità non si va lontano. A meno di non sperare (e qualcuno forse sotto sotto ci conta), nella forza distruttrice di una specie di Vandea del terzo millennio (f.b.)

Che cos´hanno in comune la Tav in Val di Susa e le new towns berlusconiane che assediano L´Aquila dopo il terremoto? Che cosa unisce l´autostrada tirrenica e il "piano casa" che devasta le città? Finanziatori e appaltatori, banche e imprese sono spesso gli stessi, anche se amano cambiare etichetta creando raggruppamenti di imprese, controllate, partecipate, banche d´affari e d´investimento. E sempre gli stessi, non cessa di ricordarcelo Roberto Saviano, sono i canali per il riciclaggio del denaro sporco delle mafie. Ma queste lobbies, che senza tregua promuovono i propri affari, non mieterebbero tante vittorie senza la connivenza della politica e il silenzio dell´opinione pubblica. Espulso dall´orizzonte del discorso è invece il terzo incomodo: il pubblico interesse, i valori della legalità.

Se questo è il gorgo che ci sta ingoiando, è perché l´Italia da decenni è vittima e ostaggio di un pensiero unico, spacciato per ineluttabile. Un unico modello di sviluppo, una stessa retorica della crescita senza fine governano le "grandi opere", la nuova urbanizzazione e la speculazione edilizia che spalma di cemento l´intero Paese. Ma su questa idea di crescita grava un gigantesco malinteso. Dovremmo perseguire solo lo sviluppo che coincida col bene comune, generando stabili benefici ai cittadini. è invalsa invece la pessima abitudine di chiamare "sviluppo" ogni opera, pubblica o privata, che produca profitti delle imprese, anche a costo di devastare il territorio. Si scambia in tal modo il mezzo per il fine, e in nome della "crescita" si sdogana qualsiasi progetto, anche i peggiori, senza nemmeno degnarsi di mostrarne la pubblica utilità. A giustificare questa deriva si adducono due argomenti. Il primo è che la redditività delle "grandi opere" è provata dall´impegno finanziario dei privati; ma si è ben visto (Corte dei conti sulla Tav) che il project financing è uno specchietto per le allodole. Una volta approvato il progetto, i finanziatori spariscono e subentrano fondi statali, accrescendo il debito pubblico. Il secondo argomento, la creazione di posti di lavoro, è inquinato da un meccanismo "a piramide" di appalti e subappalti, tanto più inesorabile quanto più grandi siano le imprese coinvolte e le relative "opere". Nessuno, intanto, si chiede se non vi siano altri modi di creare o salvaguardare l´occupazione. La Legge Obiettivo del governo Berlusconi, ha scritto Maria Rosa Vittadini, «ha trasformato il paese in un immenso campo di scorribanda per cordate di interessi mosse dal puro scopo di accaparrarsi risorse pubbliche. Un numero imbarazzante di infrastrutture (oltre 300) è stato etichettato come "opera di preminente interesse nazionale" e come tale ha ricevuto incaute promesse di finanziamento da parte del Cipe. Si tratta di una impressionante congerie di infrastrutture prive di qualunque disegno "di sistema" nazionale, di qualunque valutazione d´insieme, di qualunque ordine di priorità».

Questo è il modello di sviluppo dominante negli ultimi decenni, questa la spirale negativa che ci ha condotto alla crisi che attraversiamo. Ma per reagire alla crisi ci vien suggerita una cura omeopatica, a base di ulteriore cemento. Ci lasciamo dietro, intanto, una scia di rovine, nel paesaggio e nella società. Le new towns dell´Aquila si fanno a prezzo di abbandonarne il pregevole centro storico, ridotto a una Pompei del secolo XXI; il passante Tav di Firenze, costosissima variante sotterranea di un assai migliore percorso di superficie, viene scavato sotto la città senza le dovute certezze sul rischio strutturale e sismico. In Val di Susa, l´irrigidirsi del governo sta provocando una crescente sfiducia nelle istituzioni, certo non temperata dalle "risposte" pubblicate sul sito di Palazzo Chigi. Esse lasciano in ombra troppi punti importanti: per esempio il recentissimo ammodernamento della già esistente galleria del Fréjus, costato mezzo miliardo di euro; per esempio gli alti rischi di dissesto idrogeologico (come già accaduto nella tratta Bologna-Firenze); per esempio la reticenza sullo smaltimento dello smarino amiantifero e sui danni alla salute da dispersione delle polveri sottili.

O ancora l´azzardata asserzione che «le tratte in superficie si collocano in aree già compromesse». Ma il vero capolavoro di questa artefatta verità è in una frasetta: «Si può dire che il consumo del suolo dell´opera assuma una rilevanza minima se confrontato con i dati del consumo edilizio e urbanistico dei comuni della Val di Susa nel periodo 2000-2006». Complimenti: lo scellerato consumo di suolo da parte dei Comuni non è dunque, per chi ci governa, un errore da stigmatizzare e correggere, bensì una scusante per martoriare ulteriormente la valle. A ragione un recente convegno a Firenze, organizzato da Italia Nostra, si è chiesto se le "grandi opere" siano causa o effetto della crisi economica. Ma una cosa è certa: non ne sono la cura.

Perché un modello di finto sviluppo come questo ha tanta solidità da esser condiviso da governi d´ogni sorta? La forza d´urto delle lobbies e dei loro affari è essenziale ma non basta. La dominanza di una fallimentare idea di crescita è il rovescio e l´identico della drammatica incapacità di immaginare per il Paese un modello alternativo di sviluppo, che vinca il muro contro muro delle opposte retoriche della "crescita" e della "de-crescita". E l´assenza di un progetto per l´Italia del futuro è insieme causa ed effetto della crisi della politica, della fiducia nei partiti scesa sotto l´8%, della somiglianza fra non-progetti "di destra" e non-progetti "di sinistra". Ma è proprio impossibile immaginare un´Italia ancora capace di vera innovazione, e non solo di cementificazione? Fra finta crescita e de-crescita, esiste una terza strada: una crescita vera, incentrata sull´utilità sociale e non sui profitti di banche e imprese. Ne esiste, anzi, persino il progetto, che governanti e politici amano dimenticare. Si chiama Costituzione. Ma per una vera crescita nella legalità e nello spirito della Costituzione, cioè del bene comune, è necessario investire prioritariamente in cultura e non in ponti sullo Stretto, in ricerca e non in incentivi alle imprese che disseminano pale eoliche in valli senza vento, nella scuola e non nei tunnel. È tempo di trasformare in manifesto e progetto quell´"imperativo ecologico" di cui parlava Hans Jonas: di ridare all´Italia un futuro degno della sua storia.

Titolo originale: OECD Warns of Ever-Higher Greenhouse Gas Emissions– Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

LONDRA — Le emissioni globali di gas serra potrebbero crescere del 50% entro il 2050 se non si adottano politiche più ambiziose per il clima,coi combustibili fossili ancora prevalenti nella produzione energetica, avverte l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico.

“Se non cambia la composizione energetica globale i carburanti di origine fossile peseranno per l’85% della domanda nel 2050, con un incremento del 50% nelle emissioni di gas serra”, afferma l’Organizzazione con sede a Parigi nella sua previsione per il 2050. Nello stesso anno l’economia globale avrà una dimensione quadruple dell’attuale, e nel mondo si consumer l’80% in più di energia. Ma, appunto si prevede, la composizione di questa energia potrebbe non essere molto diversa da quella di oggi. Perché potrebbero essere soprattutto carburanti di origine fossile come petrolio, carbone, gas, a costituire sino all’80% dei consumi, mentre le rinnovabili, ad esempio carburanti di origine vegetale si prevede possano pesare al massimo un 10%, col nucleare a coprire la differenza.

A causa di questa forte dipendenza da carburanti fossili, si calcola che le emissioni di anidride carbonica potrebbero crescere del 70%, dice l’OCSE, facendo crescere la temperatura di 3-6 gradi entro il 2100, e superando così quel limite dei 2 gradi fissato dagli organismi internazionali. Nonostante la crisi economica e la conseguente riduzione della produzione industriale, nel 2010 le emissioni di anidride carbonica hanno toccato un massimo storico di 30,6 giga-tonnellate. Dal punto di vista economico il costo di non intraprendere azioni per il clima si può calcolare in una caduta del 14% dei consumi mondiali pro-capite nel 2050, secondo alcune stime. Elevati anche i costi umani, con morti premature da esposizione agli inquinanti raddoppiate: 3,6 milioni l’anno secondo l’OCSE.

Potrebbe crescere del 55% la domanda di acqua, aumentare la competizione per le scorte e lasciare il 40% della popolazione globale in una situazione di rischio, con una scomparsa del 10% delle specie vegetali e animali. Per prevenire i peggiori effetti del riscaldamento globale l’azione mondiale deve cominciare già dal 2013, con un sistema di scambi di emissioni globale, il settore energetico che diventa low-carbon e l’introduzione di nuove tecnologie a basso costo, dalle biomasse alla ritenzione del carbonio. Prima del 2020 potrebbe non entrare in vigore nessun nuovo trattato internazionale sul clima, però, senza alcun sistema di scambi, rendendo assai più difficile l’obiettivo di contenere l’aumento ai 2 gradi previsti, e la necessità di rapidissimi tagli di emissioni dopo quella data per recuperare.

Gli attuali impegni internazionali di taglio delle emissioni non bastano a mantenere il riscaldamento entro limiti di sicurezza, afferma l’OCSE. Costruire un mercato di scambi di emissioni potrebbe anche stimolare un rapido sviluppo di nuove tecnologi e a basso costo in grado di tagliarle. La risposta più semplice è fissare un prezzo globale, collegando così tutto il sistema delle emissioni nazionali e regionali entro una rete di scambio. Un deciso taglio all’uso degli inefficienti carburanti di origine fossile stimolerebbe anche l’efficienza energetica e lo sviluppo delle fonti rinnovabili, determinando un incremento del reddito globale dello 0,3% nel 2050.

postilla

Vero, che spesso la mano sinistra non sa quello che fa la mano destra. Ma quando si tratta di organismi importanti come l’Ocse, per cui sapere è potere, e quando in gioco c’è una cosuccia come la sopravvivenza del mondo più o meno come lo conosciamo (Suv a parte forse), magari ragionare in modo sistemico e non caciarone aiuta. L’hanno scoperto tutti gli stati che si sono cimentati davvero in leggi per il contenimento delle emissioni: prima o poi la forma dell’insediamento viene coinvolta, eccome se viene coinvolta, perché sono edifici e sistemi urbani una delle chiavi su cui intervenire. Non bastano un paio di turbine o di pannelli solari sul tetto, ci vuole, come hanno ad esempio cominciato a fare in California col governatore Schwarzenegger, un nuovo equilibrio fra case, infrastrutture, attività produttive. La città al centro insomma, e urbanistica e politiche urbane al centro del centro.

Cosa succede invece in Italia, paese dei mille campanili per antonomasia, con la cultura urbana più solida del mondo? Succede che l’OCSE (speriamo ancora suo malgrado e male informata) sponsorizza un “progetto di sviluppo” dove la fanno da padrone esattamente i meccanismi progettuali caso per caso e pasticcioni che da sempre – con la scusa di sostenere economia e occupazione - producono squilibrio territoriale e fatalmente inducono nuove emissioni da consumi di carburanti di origine fossile, nei trasporti privati e non solo. Salvo appunto buttare qui e là qualche pannello solare per le allodole. Vezio De Lucia su questo sito ha sollevato il problema,e si spera che alle teste pensanti, dell’OCSE e del Ministero che improvvidamente sostengono certe stupidaggini incoerenti, venga qualche scrupolo a controllare meglio le idee che qualcuno ha infilato di nascosto nei loro documenti ufficiali. Altrimenti ci fanno davvero una figuraccia, scienziati e “specialisti” inclusi (f.b.)

Dal ministro Ornaghi ai professori di storia dell’arte, ecco perché tutti noi dovremmo andare a visitare la città distrutta dal terremoto

Uno spettro non si aggira per l’Aquila. È l’ombra-ministro per i Beni culturali, il professor Lorenzo Ornaghi. Chissà se questo prudente assenteismo si deve al fatto che uno degli uomini più discussi della “ricostruzione”, il vicecommissario Antonio Cicchetti (il gentiluomo di Sua Santità che – come ha raccontato da ultimo Gian Antonio Stella – si è costruito, tra le macerie, un super-resort di lusso) è stato a lungo il direttore amministrativo di quell’Università Cattolica di cui Ornaghi è ancora il rettore, anche se temporaneamente in sonno. Fosse andato all’Aquila, il ministro avrebbe capito in una frazione di secondo che tutte le ciance sui Leonardi perduti, sulle costituenti della cultura-che-fattura, sul “brand Italia” e sulle sponsorizzazioni del Colosseo sono solo diversivi indecorosi, e che l’unico atto simbolico che in questo momento avrebbe un senso sarebbe trasferire la sede del Ministero all’Aquila, e mettersi a combattere in prima linea per la città martire del patrimonio storico e artistico della nazione italiana.

La situazione dell’Aquila supera, infatti, anche la più catastrofica immaginazione. Il centro storico è una città spettrale, dove nessun cantiere è in funzione, nessuna pietra è stata ricollocata (e anzi molte sono state rubate), e dove le meravigliose e immense chiese monumentali (a cominciare dal Duomo) sono spesso ancora a cielo aperto, o sono protette da ridicoli teli, dunque in preda alla pioggia e alla neve.

Piero Calamandrei ha scritto che «una parte della nostra Costituzione è una polemica contro il presente»: ecco, camminare per l’Aquila permette di capire che l’articolo più polemico è, oggi, l’articolo 9. All’Aquila, infatti, la Repubblica ha sistematicamente tradito se stessa, rinunciando radicalmente a «tutelare il patrimonio storico e artistico della nazione italiana».

Ma com’è possibile che quasi nessuno denunci più che a pochi chilometri da Roma si entra in un mondo parallelo, dove la Costituzione, la legge e la civiltà semplicemente non esistono? Il vicecommissario con delega ai Beni culturali, Luciano Marchetti, risponde che i conflitti di competenze, la litigiosità degli aquilani (sic) e la mancanza di fondi bloccano la ricostruzione. Ma lo dice con tono svagato, in un ineffabile misto di rassegnazione e cinismo burocratico: e si capisce subito che, di questo passo, fra trent’anni il centro dell’Aquila sarà ancora in queste condizioni. Ha dunque ragione da vendere Italia Nostra, che chiede le dimissioni del commissario (che ci sta a fare, se da tre anni non riesce a far nulla?), il ritorno alle competenze ordinarie delle soprintendenze (a cui Ornaghi dovrebbe fare massicce trasfusioni di personale e mezzi, se solo tutti i suoi predecessori non avessero ridotto il Mibac al lumicino), e l’avvio immediato dei lavori di ricostruzione. Mancano i soldi? Ornaghi dovrebbe battere allora il pugno sul tavolo del Consiglio dei Ministri: uno dei venti capoluoghi di regione italiani è in fin di vita, e non c’è più molto tempo se vogliamo salvarlo.

Ornaghi non è l’unico che dovrebbe andare all’Aquila. Dovrebbero farlo innanzitutto gli storici dell’arte delle università e delle soprintendenze italiane. Perché magari si renderebbero conto che continuare a gettare denaro ed energia nella spensierata industria delle mostre e dei Grandi Eventi è ora doppiamente criminale: proprio come organizzare una festa da ballo mentre il cadavere di un fratello giace nella stanza accanto.

Ma è a tutti gli italiani che farebbe bene vedere l’Aquila. È terribilmente illuminante visitare nelle stesse ore un’intera città monumentale distrutta e abbandonata, e le “new towns” imposte da Berlusconi e Bertolaso, cioè gli insediamenti, sorti intorno alla città, che accolgono quindicimila dei quasi trentamila aquilani che vivevano in quel centro. Sono non-luoghi di cemento che sembrano immaginati da Orwell: anonimi, senza servizi, senza negozi, senza piazze. Con i mobili uguali in ogni appartamento, in comodato come tutto il resto. E con giganteschi televisori-alienatori che fanno da piazze e monumenti virtuali per un popolo che si vuole senza memoria, senza identità e senza futuro: e, dunque, senza la rabbia per ribellarsi. Ma l’Aquila non è solo la metafora dell’Italia, rischia di rappresentarne anche il futuro: quello di un Paese che affianca all’inarrestabile stupro cementizio del territorio la distruzione, l’alienazione, la banalizzazione del patrimonio storico monumentale, condannando così all’abbrutimento morale e civile le prossime generazioni.

Nell’ Epopea aquilana del popolo delle carriole (Angelus Novus Edizioni 2011), Antonio Gasbarrini racconta che la notte del 6 aprile 2009 (più o meno all’ora in cui qualcuno, a Roma, sghignazzava pensando alla pioggia di cemento e denaro), sua figlia arrivò sconvolta, dal centro della città, e gli disse solo: «L’Aquila non c’è più». A tre anni esatti, è ancora così. L’Aquila non c’è più: ma se possiamo continuare a dormire sapendo tutto questo, allora è l’Italia a non esserci più.

Sembra superata la brutta scivolata di ieri della ministra Fornero con l´infelice frase sulla "paccata di miliardi". "Paccata di miliardi" che sarebbe disponibile solo se le parti sociali accettano preventivamente il pacchetto di riforme proposto dal governo. Per lo meno non ha fermato quel pezzo simbolicamente importante di negoziato che riguarda l´articolo 18. La voglia di arrivare ad un accordo sostenibile per tutti prevale, per fortuna, sulle irritazioni e i passi falsi. Anche se sarà bene che Elsa Fornero, come tutto il governo di cui fa parte, ricordino che l´ottica del bene comune non solo va verificata con i soggetti interessati, ma deve valere sempre, verso tutti i soggetti e interessi. Il negoziato con sindacati e Confindustria sta avvenendo in modo pubblico e trasparente, anche se con qualche insofferenza di troppo. Non così è andata sulle liberalizzazioni, dove più che di un negoziato sul bene comune si è avuta l´impressione di un cedimento agli interessi di lobby ristrette ma potenti, al riparo dagli sguardi dei cittadini che ne hanno visto solo gli esiti non sempre favorevoli per loro stessi.

Ma entriamo nel merito del pacchetto di riforme messo sul tavolo dalla ministra. Vi sono diverse cose apprezzabili, in primis l´introduzione di una indennità di disoccupazione unica, che copra diverse fattispecie di perdita del lavoro, benché sia dubbio che riguardi anche i vari co.co.pro. e finte partite Iva, ovvero tutti coloro che sono attualmente sprotetti. Continueranno ad essere esclusi anche coloro che hanno contratti così brevi e provvisori da non riuscire a maturare 52 settimane lavorative piene in due anni. Anche il rafforzamento dell´apprendistato come via di ingresso nel mercato del lavoro è un passaggio importante. Ma non risolve il problema dell´ingresso dei neo-laureati o di chi, come molte donne, si ricolloca sul mercato del lavoro in età non giovanile, o di chi perde una occupazione in età matura. Non affrontare la questione di una maggiore standardizzazione dei contratti di lavoro all´ingresso è una delle debolezze del pacchetto di riforme proposte dal governo, che sembra tutto spostato sul, certo importantissimo, tema degli ammortizzatori sociali e sulla flessibilità in uscita (articolo 18).

Questa impostazione suggerirebbe che il problema del mercato del lavoro italiano, e addirittura della mancata competitività del sistema produttivo, sia la scarsa flessibilità in uscita. Ma i modelli danesi e tedesco, spesso citati anche dalla Fornero, sono dinamici innanzitutto perché sono dinamiche le aziende, che creano posti di lavoro; per cui perdere l´occupazione non è un salto nel buio, ma un passaggio abbastanza veloce verso un altro lavoro. Non è così in Italia, nonostante ormai da diversi anni il mercato del lavoro italiano sia diventato tra i più flessibili, anche per i cosiddetti garantiti. La scarsa competitività italiana, da cui deriva anche l´alto tasso di disoccupazione, ha a che fare non con la mancanza di flessibilità in uscita, ma con la scarsa capacità di innovazione delle aziende, il basso investimento in capitale umano e in ricerca e innovazione. E se le aziende straniere non investono volentieri in Italia non è certo per timore dell´articolo 18, ma perché temono la macchinosità e la lentezza della nostra burocrazia, per altro incapace di proteggere da fenomeni di corruzione, quando non vi è coinvolta essa stessa.

Infine, in Danimarca e in Germania, come in molti altri Paesi europei, nessuno è lasciato senza protezione una volta terminato il diritto all´indennità di disoccupazione senza aver trovato una nuova occupazione. Possono accedere ad una garanzia di reddito assistenziale, destinata a chi ha perso il diritto alla indennità o a chi non ne ha mai avuto diritto, ma è povero. È una misura cui la ministra si è dichiarata più volte favorevole, trovando risposte per altro tiepide in una parte almeno dei sindacati. Ma richiede risorse consistenti che non possono che venire dal bilancio dello Stato.

In Germania, ad esempio, dopo la cosiddetta riforma Hartz del 2002, questo sussidio garantisce 350 euro al mese per una persona sola, che possono salire fino al 1240 euro circa per una coppia con due bambini, più integrazioni per l´affitto, i libri di scuola, le spese mediche. Anche chi riceve l´indennità di disoccupazione, se questa è inferiore al sussidio, può ricevere una integrazione fino ad un livello equivalente. Inoltre esistono centri per l´impiego efficienti, che accompagnano e stimolano chi riceve il sussidio a stare nel mercato del lavoro, formarsi, e così via. Accanto al dinamismo dell´economia, l´esistenza di questa rete di protezione consente di affrontare meglio le crisi vuoi nell´economia, vuoi nelle biografie personali. In assenza di entrambe queste cose, rimane solo la disoccupazione di lunga durata senza sussidi e senza speranze.

E così il governo tira finalmente fuori alcune risposte ai dubbi sul Tav Torino-Lione. Posto che una seria valutazione non si fa a colpi di comunicati e dibattito sui giornali, ma attivando una apposita commissione tecnica indipendente, accenniamo qui ad alcune obiezioni. Secondo il team tecnico della Comunità Montana Valli Susa e Sangone, i 14 punti appaiono “affrettati, superficiali, parziali e qua e là inesatti; in ogni caso mancano i riferimenti agli studi che dovrebbero esserne la base e che, se esistono, continuano a essere coperti da segreto di Stato”. Il riferimento alla riduzione delle emissioni di gas serra e ai benefici ambientali dell’opera non è credibile, in quanto la letteratura scientifica internazionale attribuisce a opere simili pessime prestazioni energetiche e qui si afferma il contrario senza fornire un’Analisi del Ciclo di Vita (LCA) o un semplice bilancio di carbonio verificabile, invocati da anni.

Il nuovo tunnel di base, tra energia e materie prime spese in fase di realizzazione ed energia di gestione, inclusa quella per il raffreddamento dell’elevata temperatura interna alla roccia, produrrebbe più emissioni della linea storica a pieno carico di merci e passeggeri, in palese contrasto con gli obiettivi europei di efficienza energetica 20-20-20. Per limitare l’impatto psicologico e diluire quello finanziario a carico dei contribuenti si tende nei 14 punti a frammentare l’opera in sezioni indipendenti più piccole, che tuttavia non permetterebbero da sole di raggiungere le prestazioni promesse. Un esempio: si dichiara una riduzione dei tempi di percorrenza tra Torino e Chambéry pari a 79 minuti, solo grazie al nuovo tunnel di base, rimanendo invariati i raccordi. Ma tale risultato è irraggiungibile senza la realizzazione dell’intera tratta, in quanto implicherebbe velocità prossime ai 500 km/h in tunnel a fronte di una velocità di progetto di 220 km/h. Delle tre ore di riduzione tempi di percorrenza sulla tratta Parigi-Milano enunciate al punto 6, già ora circa 40 minuti sarebbero recuperabili facendo transitare i TGV sulla nuova e sottoutilizzata linea ad alta velocità Torino-Milano, sulla quale tuttavia i treni francesi non sono ammessi per discutibili scelte sui sistemi di segnalamento, che pure l’Europa individua come primo fattore da armonizzare per le reti transeuropee. Al punto 11 si arriva addirittura ad affermare che “il progetto non genera danni ambientali diretti ed indiretti” il che è ovviamente impossibile, un’opera di questo genere presenta inevitabilmente enormi criticità ambientali e sanitarie, evidenziate perfino nelle relazioni progettuali LTF, che si può tentare di mitigare e compensare, ma non certo eliminare. L’unico modo per non avere impatti “nel delicato ambiente alpino” è lasciarlo indisturbato!

I posti di lavoro promessi, oltre che sovrastimati, riguarderebbero principalmente gli scavi in galleria, dunque notoriamente temporanei, insalubri e di modesta qualificazione professionale, in genere coperti da emigrati da paesi in via di sviluppo. Le prestazioni della linea esistente vengono minimizzate sulla base della vetustà e non delle sue effettive capacità. Nel 2010 infatti la linea attuale è stata utilizzata a meno del 12% delle sue potenzialità. Un tunnel è un tunnel, non può essere né vecchio né nuovo allorché svolge la sua funzione di condotto. Il Frejus, benché ultimato nel 1871, a differenza di quanto affermato al punto 8 “dove non entrano i containers oggi in uso per il trasporto merci” è stato recentemente ampliato per consentire il passaggio di container a sagoma GB1 (standard europeo), spendendo poco meno di 400 milioni di euro. Non è chiaro perché il collaudo tardi ancora o, se c’è stato, perché permangano i limiti preesistenti ai lavori. Quanto alla pendenza della linea storica, indicata al punto 6 nel 33 per mille, si rileva che il valore medio è attorno al 20 per mille, e solo 1 km raggiunge il 31 per mille e non il 33. L’energia spesa per raggiungere la quota massima del tunnel del Frejus a 1335 metri viene inoltre in buona parte recuperata nel tratto di discesa.

Si ricorda che negli Stati Uniti l’unico tunnel che attraversa il Continental Divide nelle Montagne Rocciose del Colorado, il Moffat Tunnel, lungo 10 km, è a binario unico e culmina a ben 2817 m, e dal 1928 viene ritenuto ancora perfettamente efficiente. In conclusione: c’è già una ferrovia funzionante lungi da essere paragonata a una macchina da scrivere nell’era del computer; l’attuale domanda di trasporto è enormemente inferiore alla capacità della linea; costruire un’altra linea in megatunnel costa una cifra spropositata in un momento così critico per la nostra economia; l’Europa non ci ha imposto niente, tant’è che non ha ancora deciso se finanziare o meno il tunnel di base; la valutazione di impatto ambientale dell’intero progetto non è mai stata effettuata; l’analisi completa costi-benefici non è ancora stata pubblicata; il bilancio energetico non è disponibile. E nel frattempo, intorno alla torta si affollano anche troppi commensali, tutti interessati a partire con i lavori, non importa come, purché si cominci a scavare.

Se ne sentono di tutti i colori sulla bocca dei sostenitori della Tav Torino-Lione. Il luogo comune più gettonato è il richiamo alle decisioni democraticamente assunte che non possono essere bloccate da una minoranza (per di più violenta). Bene, parliamone, guardando agli atti.

Chi e come ha deciso la realizzazione del “cunicolo esplorativo” per il quale a Chiomonte si sta procedendo manu militari alla occupazione dei terreni sui quali aprire il cantiere per la sua realizzazione?

Nell’avviso pubblico del 2010 con il quale si è avviato il procedimento, LTF dichiara testualmente: “Che il cunicolo esplorativo de La Maddalena è progettualmente necessario ai fini della realizzazione del collegamento ferroviario Torino-Lione che rientra nell’ambito del primo Programma delle Infrastrutture Strategiche di cui alla Deliberazione del 21 dicembre 2001, n. 121/2001 (Legge Obbiettivo) del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE)”.

Il procedimento è stato avviato ai sensi dell’art.165 e 166 del D.Lgs 163/2006 e cioè grazie a “norme speciali”, in deroga a quanto stabilito dalle direttive europee e le norme nazionali di recepimento in materia di opere pubbliche, applicabili alle opere incluse nel “Programma delle Infrastrutture Strategiche” definito con la delibera Cipe 121/2001 e dalle successive modifiche ed integrazioni.

In particolare il comma 9 dell’art. 165 consente di realizzare opere propedeutiche, cunicoli esplorativi, in quanto utili per la definizione del progetto delle opere incluse nella legge obbiettivo. A parte il fatto di considerare una galleria di oltre sette chilometri e del diametro di oltre sette metri un cunicolo esplorativo, la norma (che non ha riscontri in nessun altro paese europeo) affida al Ministro delle Infrastrutture “la decisione ed il rilascio delle autorizzazioni per lo svolgimento delle attività relative, ivi inclusa l’installazione dei cantieri e l’individuazione di siti di deposito”.

Il Ministro in carica nel 2010 era Altero Matteoli, ma pare che la decisione sia in realtà precedente. Infatti questo millantato nuovo progetto (altro ritornello dei pasdaran sitav) non è altro che quello stesso per il quale l’impresa della legacoop, la CMC di Ravenna, tentò l’apertura del cantiere a Venaus nel dicembre del 2005. La nuova galleria della Maddelana che oggi prevede l’imbocco a Chiomonte (guarda caso uno dei pochissimi comuni della valle favorevole alla TAV) anziché a Venaus (contrario alla TAV come la stragrande maggioranza dei comuni) è definita nei documenti depositati da LTF come “Variante della galleria di Venaus”. E che il cantiere che nei prossimi giorni si tenterà di aprire sia lo stesso di 6 anni fa è confermato anche dal fatto che ad aprirlo sarà la stessa impresa alla quale era stato affidato l’appalto per la galleria di Venaus, la CMC di Ravenna.

Chi ha deciso ed autorizzato la realizzazione di questa opera propedeutica per la progettazione della Torino-Lione è stato il Ministro in carica nel 2005, Pietro Lunardi, quello che consigliava la convivenza con la mafia, nessun altro.

A Chiomonte la CMC ancora non si è vista perchè quello presidiato dalle forze dell’ordine è un semplice insediamento militare. Il cantiere forse si tenterà di aprirlo nei prossimi giorni e dunque, forse, arriverà anche la CMC. La Comunità Montana valsusina aveva denunciato alle Autorità competenti anche questa anomalia. LTF dovrà spiegare alla Comunità Montana, e sarebbe il caso alle Autorità competenti, le ragioni per le quali quello che oggi viene millantato come un nuovo progetto viene realizzato dallo stesso appaltatore del vecchio progetto senza alcuna nuova gara e con un prezzo quasi doppio.

I paladini della democrazia la smettano di cianciare di decisioni assunte dalla maggioranza dei cittadini. L’opposizione a quel cantiere, formalmente contestato dalla Comunità Montana, fino a prova contraria, è l’opposizione dei rappresentanti democraticamente eletti dai Valsusini contro un cantiere deciso ed autorizzato da Pietro Lunardi, un ministro tecnico, non votato dai cittadini, scelto e nominato da Silvio Berlusconi.

Titolo originale: Negotiators reach consensus on global land governance guidelines– Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

I negoziatori riuniti a Roma hanno concordato una serie di linee guida volontarie globali su una “governance responsabile” della proprietà e accessibilità dei suoli, delle zone di pesca, delle aree a bosco. La proposta sarà inviata alla Commissione ONU sulla Sicurezza Alimentare per l’approvazione finale nel prossimo maggio,sempre a Roma, come precisa in un comunicato la FAO. “Una volta approvate, le linee guida saranno di applicazione volontaria, ma dato che le abbiamo scritte in modo molto organico, e che si tratta di una questione su cui tutti concordano la necessità di un quadro di riferimento, si prevede che condizioneranno in modo determinate le future decisioni politiche” commenta Yaya Olaniran, attuale presidente della Commissione Sicurezza Alimentare. "Stiamo in realtà già vedendo come i governi adeguino le proprie scelte e pratiche alle linee guida".

I negoziati durano da ottobre, e rappresentano il culmine di sei anni di discussioni fra governi, organizzazioni internazionali, società civile, coordinati dalla Commissione. Le linee guida nascono dalle preoccupazioni sul fenomeno dell’accaparramento di terreni, enormi superfici dei paesi in via di sviluppo affittate a investitori privati. Gli orientamenti concordati coprono tutta una serie di questioni, dai pari diritti delle donne alla proprietà, alla costruzione di registri trasparenti e accessibili dalle popolazioni rurali più povere, al riconoscimento e tutela dei diritti d’uso informali tradizionali a terra, acque per la pesca e boschi. José Graziano da Silva, direttore generale della FAO, definisce l’accordo “una pietra miliare” e specifica: “Queste linee guida volontarie svolgeranno un ruolo importantissimo nella risposta al problema della fame, e della sicurezza alimentare dei bambini e degli adulti, in modo sostenibile sia dal punto di vista ambientale che sociale”.

Dopo l’approvazione ufficiale gli orientamenti diventeranno secondo la FAO un riferimento per i governi nazionali nell’approvare leggi e programmi riguardanti I diritti di proprietà e sfruttamento dei suoli, pesca e foreste. Si vuole così anche dare agli investitori e altri soggetti economicamente interessati una indicazione sulle buone pratiche, e alla società civile una base per sostenere i diritti delle comunità rurali. Alla serie di negoziati hanno preso parte novantasei paesi, organizzazioni non governative, agenzie Onu e altri organismi internazionali, oltre a rappresentanti del settore privato, per arrivare agli accordi di Roma nella sede FAO la scorsa settimana. Presto la segreteria della Commissione sulla Sicurezza Alimentare dovrebbe pubblicare sul proprio sito web il testo completo delle linee guida.

“Il metodo partecipativo dei negoziati ha tutto il merito" continua Graziano da Silva. “Si tratta di un dialogo assai necessario. Importante per le linee guida volontarie, e necessario per rispondere ad altre sfide per la sicurezza alimentare e lo sviluppo delle campagne". Altri danno un giudizio più problematico. “L’ampiezza della partecipazione e la presenza dei governi ha diluito i contenuti per arrivare a un consenso. Ci vorrà parecchio tempo perché tutte le risorse e aspettative investite in queste linee guida inizino a dare effetti” commenta Liz Alden Wily, esperta internazionale di proprietà e gestione di terreni". Dopo tutto si tratta solo di linee guida, che non vincolano i governi, o le compagnie, chi prende le decisioni, gli investitori, tutti già molto addentro ai processi di acquisizione e sfruttamento delle risorse". Forse tutto il tempo e il denaro investiti per gli accordi si sarebbero potuti sfruttare meglio con una migliore legge internazionale sugli scambi, da cui tanto dipende lo sfruttamento delle risorse, e “rafforzando quelle oggi debolissime sui diritti umani. O sostenendo la mobilitazione dei milioni di poveri colpiti attualmente da leggi e programmi".

Aggiunge Alden Wily: “Sarà interessante capire se il sistema globale che propone queste linee guida saprà impegnarsi nello stesso modo a tradurle in 150 lingue diverse e farne avere delle copie a tutte le comunità rurali povere dei paesi in via di sviluppo. Un miliardo di copie”. In un nuovo rapporto Earth Security Initiative [l’ho allegato scaricabile direttamente qui da eddyburg n.d.r.] sui rischi degli investimenti in terreni agricoli, si afferma che politica e investitori dovrebbero tener maggiore conto dei diritti informali delle comunità sulle loro terre, che si tratta dell’unica strada verso uno sviluppo economico sostenibile. “E parallelamente c’è anche una efficace tutela dei suoli, della biodiversità, dell’acqua potabile" aggiunge Alejandro Litovsky, autore principale del rapporto e fondatore del gruppo. “Visti i rischi a cui sono esposti I paesi di fronte al cambiamento climatico, anche queste risorse devono essere considerate dal punto di vista economico come nazionali".

Entro aprile Passera e Ciaccia presenteranno un disegno di legge delega

L’obiettivo è quello di concludere entro aprile con la presentazione di un disegno di legge delega che riesca a tracciare un quadro di riferimento certo per la dotazione infrastrutturale in Italia. Un provvedimento quadro di non più di 6-7 articoli in cui tra edilizia residenziale, vie del mare e opere infrastrutturali (piccole, medie e grandi), il governo possa essere in grado di ridisegnare i settori e, nel contempo, di riscrivere la cornice ordinamentale di riferimento all’interno della quale accelerare le procedure, trovare le risorse, individuare le priorità.

Alla riunione di venerdì scorso, indetta dal viceministro dello sviluppo economico Mario Ciaccia con i committenti pubblici e privati, oltre ai rappresentanti di banche e imprese, ci si è dato un appuntamento ravvicinato. Entro i prossimi quindici giorni si lavorerà a spron battuto a partire dalle 89 proposte stilate oltre un anno fa dalle tre fondazioni, chiamate al tavolo di Ciaccia: Astrid di Bassanini, Italiadecide di Luciano Violante e Respubblica di Eugenio Belloni. Obiettivo è quello non solo di individuare il metodo e la pianificazione delle priorità, ma anche risolvere il problema dei capitali privati.

A sedere al “tavolo Ciaccia” che da qui ad aprile marcerà a tappe forzate, c’erano sia Anas che Fs, Castellucci e il gruppo Gavio, Confindustria, Ance, l’Associazione imprese generali, Abi e Confedilizia. Oltre a Pasquale De Lise, futuro direttore generale dell’Agenzia per le infrastrutture stradali e autostradali che, avuto un primo disco verde dal consiglio dei ministri, sarà destinata a partire da fine luglio a sostituire l’Anas come concedente delle concessioni stradali e autostradali.

Si è parlato del necessario decollo dei project bond che, sostenuti dal governo Monti anche a livello europeo, dovrebbero servire con un regime fiscale ordinario al 20% a far decollare le grandi opere cercando di sciogliere il nodo della partecipazione dei capitali privati con il project financing, che in Italia non è mai veramente decollato. Per gli investimenti pubblici un ruolo di primo piano l’avranno il Cipe e la Cassa depositi e prestiti. E se nella delega ci sarà un capitolo specifico sugli strumenti finanziari, si è affrontato un capitolo ad hoc relativo al nodo costituzionale. L’idea è quella di intervenire nuovamente sul titolo V, con un riordino dei poteri tra stato e regioni, con l’ipotesi di affidare le opere strategiche al primo e quelle minori alle seconde. Si tratterebbe di un nodo da sciogliere in fretta anche se, visti i risvolti costituzionali, i tempi potrebbero essere più lunghi – a meno di trovare un treno normativo su cui saltare in corsa.

È stato poi affrontato anche il tema dell’inserimento di una norma che sterilizzi i contratti in essere da eventuali modifiche legislative. Così come ha avuto modo di sostenere Ciaccia ultimamente, secondo cui è necessario garantire continuità per attirare investitori. Alla riunione si sarebbe discusso anche della possibile introduzione del débat public, su cui Monti insiste nonostante i dubbi circa la possibilità di importare in Italia il modello transalpino.

Sui tempi dell’operazione Ciaccia è stato categorico: Passera intende arrivare con il ddl in consiglio dei ministri entro aprile quando, tra l’altro, dovrebbe giungere a palazzo Chigi anche il lavoro di Giarda sulla spending review. Due interventi destinati a ridisegnare il volto dell’Italia.

Postilla

Il cammino era iniziato da tempo. Ecco i passi che si sono succeduti neglinultimi trent’ani: la subrdinazione della pianificazione del territorio all’emergenza, della prospettiva al’occasione, della visione all’oggi; lo sganciamento delle decisioni settoriali da ogni ipotesi di inquadramento territoriale (ricordate la precoce scomparse dei “lineamenti fondamentali dell’assetto territoriale nazionale”?); la rincorsa di una “governabilità” pagata con la riduzione della democrazia (il decisionismo craxiano in salsa bassaniniana); il privilegio della Grande Opera sul lavoro minuto e quotidiano di risarcimento del territorio disgregato, delle città devastate, dei paesaggi degradati; il primato del mercato sullo stato, del privato sul pubblico, dell’economia (e quale economia) sulla politica, dei pochi (ricchi) sui molti (via via più impoveriti).

E’ un percorso lento e tortuoso che si è sviluppato fino ad ora. Ma con il governo “tecnico” il disegno si sviluppa con maggiore razionalità ed efficacia. Alle scorrerie delle bande di neoliberisti in pectore succedono le ordinate legioni corazzate dei neolberisti dichiarati. Si giunge a voler inserire nella Costituzione della Repubblica dichiarazioni e principi che ne scardinano molti altri: quelli fondamentali. E ci si propone di rafforzare il project financing all’italiana, in cui il rischio se lo accolla lo stato (il contribuente, e di stabilire che il contratto privatistico prevale sulla volontà del legislatore.

Titolo originale: Les points de controverse du projet de Las Vegas espagnol – Traduzione di Fabrizio Bottini

Sulla carta, un progetto che può anche affascinare: Las Vegas>Sands (LVS), la società che gestisce il gioco nella metropoli del Nevada, vuole espandersi in Europa e ha scelto la Spagna, paese indebolito dalla crisi a partire dal 2008, col Pil in diminuzione e tasso di disoccupazione superiore al 22 %. E la prospettiva di costruire sul proprio territorio una “Euro-Vegas” in grado di attirare11 milioni di visitatori l’anno” creando “260.000 posti di lavoro”[si veda il nostro articolo " Las Vegas megalo"] è senza dubbio seducente. Ma oltre ai dubbi sollevati da un modello di sviluppo basato sulla speculazione, gli oppositori vedono anche in forse l’attuabilità del progetto.

La questione localizzativa

Sono due le regioni - Madrid e Catalogna – a disputarsi la localizzazione dell’intervento. La scelta finale di Las Vegas Sands dovrebbe arrivare prima dell’estate. Da parte catalana, la Generalitat (il Parlamento locale) propone di realizzare Eurovegas nel delta del Llobregat, nella zona situata a ovest dell’aeroporto internazionale El Prat. Ma si tratta di un’area umida tutelata, e una delle ultime aree ancora non urbanizzate nella regione di Barcellona, in cui un progetto del genere fa temere per l’avvenire dell’ecosistema del Llobregat. Venti diverse associazioni si sono unite nel gruppo SOS Delta, chiedendo che il progetto venga ritirato.

Sul versante madrileno, l’area candidata sono 2.000 ettari nella zona Valdecarros, a sud-est della capitale, ad accogliere la città dei casino. Il medesimo terreno era inizialmente destinato a 50.000 alloggi più 500 ettari di spazi verdi, progetto che verrebbe ovviamente abbandonato in caso di scelta per Euro Vegas. Aprire il cantiere per i casino dovrebbe anche probabilmente comportare la demolizione della baraccopoli di Cañada RealGaliana, una delle più grandi dell’Europa occidentale, contrastante nella sua prossimità alla città dei giochi. Fra le soluzioni, trovare nuovo alloggio alle decine di migliaia di abitanti sgombrati.

Numeri contestati

Il partito nazionalista catalano Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) giudica le prospettive di sviluppo promesse da LVS “non realistiche”. Ha analizzato i dati sul turismo in Catalogna per il 2010, calcolando che in alta stagione il settore dà lavoro a 390.000 persone con 540.000 posti letto alberghieri. Secondo Anna Simo, deputata ERC al Parlamento catalano, "è impossibile che con soli 36.000 posti letto [la previsione di Euro Vegas], si possano creare altri 164.000 posti, calcolando sia casinò che campi da golf". Secondo il progetto ci sarebbero 30.000 visitatori al giorno, calcolo molto ottimistico che rappresenterebbe un quinto del totale spagnolo (50 milioni di turisti l’anno, 137.000 al giorno). Anche la parte dedicata ai casinò è oggetto di discussione: la presidente dell’amministrazione madrilena Esperanza Aguirre garantisce che sarà del 18 %. Mentre il presidente del governo catalano Artur Mas ne riduce parecchio la quota, fra il 2 e il 4%.

Cambiare la legge sul gioco?

Introdurre un complesso di casinò sul territorio spagnolo comporta cambiare in parte la legge con implicazioni che arrivano anche a Bruxelles. LVS chiede in sostanza di rendere meno rigida la norma sul riciclaggio, come permessa indispensabile al proprio insediamento. El Pais ha elencato una trentina di “leggi su misura” necessarie all’apertura del cantiere, che vanno dall’ingresso dei minori ai casinò, all’esenzione dai contributi sociali, fino al permesso di fumare nelle sale da gioco. Tutti adattamenti che i vari livelli amministrativi e politici coinvolti sembrano pronti ad accettare, a fronte dei vantaggi economici. "Se ci sono delle modifiche [legislative] da fare, e che rientrano nei miei principi, si faranno", promette la madrilena Esperanza Aguirre.

I precedenti progetti falliti di città del divertimento

Il progetto di Euro Vegas suscita forte perplessità in Spagna dato che non si tratta del primo dei grandi investimenti del genere. Cinque anni fa nella regione di Aragona se ne doveva lanciare uno immenso, Gran Escala, almeno trentadue casinò, cinque parchi a tema, cinquanta alberghi, con 90.000 posti di lavoro. Presentato all’amministrazione regionale nel dicembre 2007, prima che esplodesse la bolla immobiliare. Poi la crisi ha congelato i promotori, mai arrivati neppure all’acquisizione del terreni. Progetto caduto nel dimenticatoio.

In altri casi ci sono stati disastri finanziari: a Siviglia (Andalusia), il parco Isla Magica, aperto nel 1997, affoga in un passivo di 34 milioni di euro, coperto grazie all’intervento di fondi pubblici e casse di risparmio; a Benidorm (Alicante), il parco Terra Mitica, investimento da 65 milioni, per sopravvivere e mettersi sul mercato deve eliminare 219 posti di lavoro. In un paese dove già si contano troppi progetti faraonici che divorano risorse crescono i timori che la nuova Las Vegas iberica sia un investimento senza futuro. Ma i responsabili politici non sembrano ascoltare.

Analizzando la socialdemocrazia nel 1911, Robert Michels parlò di legge ferrea dell´oligarchia: per come si organizzano, e tendono a occuparsi della mera sopravvivenza degli apparati, i partiti diventano piano piano gruppi chiusi, inevitabilmente corrompendosi. Il loro scopo è conservare il proprio potere, estenderlo, e respingere ogni visione del mondo che insidi tale potere. Divengono quei difensori dei vecchi ordini che Machiavelli considerava micidiali ostacoli al cambiamento. Micidiali perché ben più agguerriti dei sempre tiepidi costruttori del nuovo. Anche le menti si chiudono, raggrinzite.

È quello che sta succedendo in Italia, nonostante l´evidente discontinuità rappresentata da Monti. Sono mutati non solo gli stili di governo ma lo sguardo sulla crisi: non più occultata ai cittadini ma limpidamente spiegata, coi vincoli che essa impone. Troppo presto si è parlato tuttavia di fine della seconda Repubblica, di nuovo inizio. La legge ferrea dell´oligarchia permane, e in alcuni momenti sembra perfino consolidarsi. Lo si nota soprattutto in due campi d´azione:la costruzione dell´Europa, e la cultura della legalità ovvero la lotta alla corruzione.

I due ambiti non sono affatto disgiunti: ambedue son figli di abitudini a cerchie recintate. Edificare un´Europa politica e federale implica l´abbandono di sovranità nazionali ormai fittizie, sotto il cui tetto sono cresciuti potentati incompetenti ma tutt´altro che indifesi. Allo stesso modo, creare in Italia una cultura della legalità implica una lotta senza cedimenti all´intreccio fra Stato e mafia, politica e corruzione: intreccio confermato proprio in questi giorni dalla condanna del boss palermitano Tagliavia. L´appello di Saviano a profittare della crisi per varare subito una legge anti-corruzione invita a rifondare le due cose insieme: Europa e legalità.

Vale la pena ricordare come nacque la moneta unica. Tra i pericoli indicati da Kohl ce n´era uno, di cui si parlò poco ma cui furono dedicate più riunioni ristrette: la mafia in Italia, e la sua congiunzione con le mafie dell´Est. Un libro uscito in quei tempi (Octopus, 1990), scritto da Claire Sterling, certifica questo timore: che l´Europa monetaria, invece di frenare la degenerazione della politica, le fornisse in realtà un ombrello protettivo. La moneta senza Stato europeo perpetuava l´illusione degli Stati sovrani, non più minacciati da svalutazioni monetarie che sempre erano state,in passato, momenti di crisi governative e di verità.

Quel timore non era infondato. Lo si è visto in Grecia (la sua piaga è la corruzione) e lo si vede in Italia. L´articolo 18 viene presentato oggi come inibitore di una rinascita. Ma gli specialisti dicono ben altro: se gli stranieri non investono da noi la causa non è l´articolo 18. È la mafia, l´assenza di leggi anti-corruzione. La paura che l´Italia incute dai tempi di Kohl è sempre quella.

Non è casuale dunque che i difensori del vecchio ordine s´aggrappino a due sovranità finte e al contempo distruttive: la sovranità dello Stato-nazione, e il diritto all´impunità di potentati che all´ombra dell´euro hanno confiscato la politica, impedendo che essa si rigenerasse e non tollerando incursioni giudiziarie. Il governo Monti non è sempre responsabile (il giudizio sulle sentenze non gli spetta) ma è vero che lascia fare (come lascia fare sulla Rai) con la scusa che prioritari sono i parametri economici. La battaglia anti-corruzione è tema politico e i tecnici, anche se pienamente legittimati a governare, sono nell´intimo allergici alla politica. Ne hanno addirittura «schifo»: la piccola frase detta da un ministro non cade dal cielo. Quanto all´Europa, il governo è più refrattario del previsto, considerate l´esperienza e le convinzioni recenti del Presidente del Consiglio.

Cominciamo dall´Europa. Anche qui la discontinuità è palese: la nostra voce non è screditata come ai tempi di Berlusconi. Ma la politica estera non è solo quella descritta dal ministro Giulio Terzi: «promuovere l´immagine dell´Italia credibile sulla scena internazionale». Urgente, oggi, è scoprire le radici politiche della crisi europea, e fabbricare un´unione sovranazionale: con la Commissione che sia governo federale, un Parlamento che rappresenti l´agorà europea, un Consiglio dei ministri che diventi Consiglio degli Stati, come quando gli Stati Uniti passarono dalla fallimentare Confederazione alla Federazione (tra i suoi primi atti ci fu la messa in comune dei debiti). È la proposta fatta il 7 febbraio da Angela Merkel, e l´intento è serio se Guido Westerwelle l´ha ripresa, sabato in una riunione di ministri degli Esteri a Copenhagen: prospettando una revisione della carta costituzionale europea e l´elezione diretta dei futuri Presidenti dalla Commissione.

A quest´iniziativa il governo italiano risponde per ora con un no. Ha cominciato Monti, l´11 gennaio sulla Welt, proclamando che degli Stati Uniti d´Europa «non c´è bisogno». Il no opposto da Terzi a Copenhagen è ancor più pesante, alla luce delle proposte tedesche: l´Italia comprende «l´esigenza, posta da diversi Stati membri, che superata la fase più critica della crisi finanziaria si riprenda una riflessione sulla visione dell´Europa». Ma ritiene «estremamente prematura» una nuova Carta costituzionale: « Non mi spingerei a dire che c´è una prospettiva di rilancio». Da chi e perché il ministro ha avuto il mandato così poco ardito?

Nell´ambito della giustizia è avvenuto qualcosa di non meno grave, che concerne non il governo ma i magistrati e la maggioranza parlamentare. Al centro dello scontro: non tanto la sentenza della Corte di Cassazione che ordina di rifare il processo d´appello a Dell´Utri, ma la spiegazione data dal procuratore generale della Cassazione Iacoviello («Nessuno crede più, oggi, al concorso esterno in associazione mafiosa»). Sotto attacco, la figura giuridica escogitata tra gli anni ´80 e ´90 da Falcone e Borsellino con un proposito preciso: far luce sulle collusioni dei politici, dei partiti, dei colletti bianchi che, pur non essendo affiliati alla mafia, la favoriscono e l´innalzano a interlocutore dello Stato. Il «concorso» è complicato da individuare – Carlo Federico Grosso lo spiega bene su La Stampa – perché bisognoso di prove stringenti. Ma è «utile per incidere nella zona grigia di chi aiuta dall´esterno la mafia».

Anche in questo caso, i poteri insediatisi al posto della politica hanno reagito presidiando le leggi ferree dell´oligarchia. Il secondo partito della maggioranza, il Pdl, è saltato sull´occasione con fare vendicativo. La sentenza non scagiona Dell´Utri, ma è interpretata come sconfessione dei magistrati, se non come assoluzione. Permette di fronteggiare, soprattutto, un´incombente minaccia: il disvelarsi di patti Stato-mafia che forse condussero all´uccisione di Falcone e Borsellino. Il disvelamento rischia di denudare la nostra malata politica democratica.

Il potere oligarchico, corrotto o no, fatica a lasciar posto al nuovo, a reinventare la politica. Si arrocca, in casa e in Europa (lo Stato sovrano ha analoghe strutture oligarchiche). Fa parte dell´uscita dalla crisi anche questa restituzione alla politica di spazi, di iniziative libere da pressioni. La politica fa schifo solo a chi non la vuol fare. Solo a chi combatte lo status quo molto tiepidamente, come nelle parole di Machiavelli: «La quale tepidezza nasce, parte per paura delli avversarii, che hanno le leggi dal canto loro, parte dalla incredulità delli uomini; li quali non credono in verità le cose nuove, se non ne veggono nata una ferma esperienza». Una ferma esperienza dell´europeismo dei governanti, e della volontà della politica di combattere le corruzioni: i cittadini ancora non la vedono nascere. Ma di sicuro l´aspettano. La sperano dal primo giorno del governo Monti.

Solo due democratici fuori dal coro: “Si sono scordati la parola Ambiente

Il Tav: “Sì, lo vogliamo”. Il Terzo Valico: “Sì”. La Gronda di Genova: “Sì”. La Livorno-Civitavecchia: “Sì”. E l’autostrada Mestre-Civitavecchia: “Sì, sì, sì”. Pd e Cgil su molte delle più grandi opere, anche quelle più contestate da cittadini e comitati, non sembrano avere dubbi: s’hanno da fare. Autostrade, porti, porticcioli, trafori, nel centrosinistra navigano con il vento in poppa. Il Tav è l’ultimo di una lunga serie di capitoli: “È un investimento strategico fondamentale per lo sviluppo e la crescita”, è sicuro Piero Fassino, sindaco di Torino. Anche Susanna Camusso, segretario Cgil, non ha dubbi: “Siamo favorevoli al Tav: il Paese ha un disperato bisogno di investimenti”.

Tutto bene. Anzi, no. Nei vertici del partito e del sindacato le voci dissonanti sono poche, ma cominciano a farsi sentire. Ricordano l’epoca in cui la parola “ambiente” era uno dei pilastri del centrosinistra. Roberto Della Seta e Francesco Ferrante non hanno mandato giù le parole del leader Cgil: “L’opinione di merito sul Tav non c’entra, ma sostenere come fa Camusso che una grande opera va realizzata non perché serve come infrastruttura, ma perché porta lavoro significa attestarsi su una posizione archeologica”, esordiscono i due parlamentari ecodem (Pd). Aggiungono: “Il lavoro si costruisce promuovendo l’innovazione, liberando l’economia dal peso di lobby e immobilismi, puntando su ricerca, scuola e ambiente che per un Paese come il nostro sono le principali materie prime. Invece le infrastrutture, almeno nei Paesi avanzati, si fanno se sono utili a migliorare la qualità dei servizi per cittadini e imprese. Questo è l’unico criterio per decidere del Tav Torino-Lione”. Della Seta e Ferrante non usano giri di parole: “In Italia sono stati sperperati miliardi pubblici per opere inutili giustificate col fatto che ‘portavano lavoro’: così ci ritroviamo con poli industriali senza senso e senza futuro, con molte autostrade e poco trasporto pubblico. Ma i posti di lavoro, più numerosi e duraturi, si creano con la nuova economia che in Germania offre occupazione a milioni di persone. È preoccupante che il più grande sindacato italiano difenda invece logiche superate”.

Il disagio sull’approccio ai temi infrastrutturali e ambientali dei vertici Pd e Cgil comincia così a montare, soprattutto tra militanti ed elettori. C’è chi punta il dito sull’ombra di un conflitto di interessi: partiti e sindacati sponsorizzano cemento e asfalto, mentre imprese e cooperative una volta chiamate “rosse” fanno affari con i grandi progetti. Gli esempi in tutta Italia non mancano: a cominciare dal Tav (la galleria esplorativa è stata affidata alla Cmc, Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna), per andare a porticcioli come quello della Marinella (mille posti barca tra Liguria e Toscana, operazione sponsorizzata dal centrosinistra che vede tra i realizzatori cooperative e società del Monte dei Paschi di Siena), passando per Motorcity, mega-autodromo da un miliardo nel cuore della pianura veneta che dopo essere stato lanciato da Chicco Gnutti – sì, proprio quello delle scalate bancarie – ha visto l’ingresso delle cooperative. Niente di illecito, ma un motivo di disagio per la base. Della Seta sottolinea: “Nel centrosinistra c’è un rapporto con gli interessi economici che non è sempre trasparente. Ci sono scelte, che dovrebbero essere compiute pensando al bene comune, in cui emergono interessi particolari e non sempre chiari”. Ma intanto si va avanti. Soprattutto con il Tav.

Ieri il vertice con Roberto Cota, Fassino e i sindaci della Val di Susa. Il governatore del Piemonte ha presentato “un pacchetto di proposte concrete”: compensazioni fiscali per la Val di Susa (Irap, Irpef, Imu e benzina) e un presidio dell’Istituto Superiore di Sanità, per monitorare quello che succede nella Valle. Fassino ha parlato di una riunione “positiva e utile che permetterà di superare le contrapposizioni frontali dei mesi scorsi”.

L’opera comunque, sottolinea Cota, “andrà avanti nei tempi previsti”. Sandro Plano, presidente della Comunità Montana e uno dei leader No Tav, è più cauto: “Vedremo il nuovo progetto low cost. È un primo passo. Poi chiederemo un tavolo con un rappresentante del governo. Non mettiamo pregiudiziali sul proseguimento del dialogo, ma chiediamo la sospensione dei lavori per motivi di ordine pubblico”.

Ecco i veri quesiti che la popolazione della Valle si pone sulla costruzione della Tav e ai quali il governo Monti dovrebbe rispondere, se davvero vuole accettare un confronto circostanziato e documentato. Perché o si assume il metodo (giusto) usato per bocciare le Olimpiadi di Roma o quello (sbagliato) dell'alta velocità in Val di Susa

Il governo ha pubblicato in Internet e dato alla stampa un documento con cui spiega le sue ragioni sul treno ad alta velocità Torino-Lione. Ne ha tutto il diritto. Anzi, si tratta di una uscita attesa. Peccato solo che abbia scelto una strana forma di comunicazione "non tecnica", ammiccante e di comodo. La formula, infatti, vorrebbe assomigliare a quella spesso usata nella comunicazione aziendale: le "Faq", Frequently asked questions. È un modo svelto ed efficace per facilitare l'uso di un prodotto tenendo conto delle capacità di comprensione dei clienti/utenti. Una sorta di istruzioni guidate per l'uso. Ma c'è un'etica deontologica anche nella comunicazione commerciale: per funzionare davvero le questions devono essere le domande che realmente si pongono i clienti alle prese con un nuovo prodotto, non quelle che l'azienda si immagina o preferirebbe le venissero rivolte. C'è una bella differenza! Nel primo caso - Faq davvero utili - l'azienda raccoglie in modo obiettivo i quesiti e si mette in relazione di ascolto con il cliente per cercare di adeguare la propria azione ai suoi bisogni, nel secondo caso - Faq farlocche - si tratta di un penoso tentativo di manipolazione da marketing: far credere che ogni problema sia superabile. Insomma, se davvero il governo avesse voluto avviare una operazione di verità e trasparenza avrebbe dovuto limitarsi a raccogliere in modo scientifico le domande vere più frequenti che si fanno gli abitanti della Val di Susa sul Tav da ventidue anni e, a queste, rispondere. Se ne è capace.

Le 14 sedicenti domande sono una brutta caduta di stile per un governo sedicente tecnico. O si è tecnici o si è imbonitori. O si accetta un confronto circostanziato e documentato, o "si fa politica" alla vecchia maniera. O si assume il metodo (giusto) usato per bocciare le Olimpiadi a Roma o quello (sbagliato) del Tav in Val di Susa.

Vi ricordate quando un bravo giornalista de la Repubblica incalzava quotidianamente Berlusconi con la stessa serie di domande (ovviamente rimaste inevase) sui suoi comportamenti? Bene, sarebbe una bella dimostrazione di obiettività e di servizio pubblico se lo stesso metodo venisse usato anche nel caso del Tav. Provo ad elencare alcune delle domande vere che si fa la popolazione della Valle.

1. Perché non è stata elaborata una analisi comparata preliminare tra varie ipotesi progettuali alternative (tra cui l'ammodernamento delle tratte esistenti che potrebbero assorbire una crescita da 4 a 8 volte i volumi di traffico attuali)? In tutta Europa si fa e si chiama Vas: Valutazione ambientale strategica. Perché il governo non la prevede?

2. Come fa il governo ad essere così sicuro che l'opera verrà comunque realizzata e che non avrà impatti ambientali negativi (ma è verosimile?) se ancora non esiste un Progetto definitivo e tantomeno vi è stata una procedura di Valutazione di impatto ambientale integrale (richiesta dalle Direttive europee) sull'intera opera?

3. Perché il progetto è stato approvato dal governo prima ancora di una analisi economica costi/ricavi?

4. Quali priorità si è dato il governo nell'opera di ammodernamento delle linee ferroviarie italiane, considerando che non si è dotato di un piano nazionale della mobilità?

5. Per quali ragioni tutte le tratte per Tav realizzate fino ad ora in Italia hanno totalizzato, a consuntivo, aumenti dei costi di sei, otto, dieci volte?

6. Per quale motivo è venuto meno il finanziamento inizialmente promesso dai privati per il 60 per cento, tant'è che ora nessuno più propone il project financing?

7. Di quanto tempo sarà abbreviato il percorso con il Tav sulla tratta Milano-Parigi e, di conseguenza, quale dovrà essere il costo reale del biglietto per passeggero trasportato per raggiungere il pareggio di bilancio della linea (ammortamenti e costi di gestione)?

8. Identico ragionamento va riproposto per quanto riguarda le merci: tempo risparmiato, costo per collo trasportato.

9. Per quale motivo sono state scelte procedure "semplificate" nell'esecuzione dei lavori che non rispettano le normali procedure di informazione della popolazione interessata e nemmeno la normale tutela degli interessi dei proprietari dei terreni espropriati (occupati manu militari), evadendo persino l'applicazione di idonee misure di sicurezza del cantiere?

10. Quali sono i piani e i costi dettagliati per le indagini epidemiologiche, il monitoraggio e lo smaltimento dell'"amianto sporadico" presente fino al 15 per cento nel materiale di scavo ("smarino")? E quali procedure verrebbero adottate nel caso ci si imbatta in una vena significativa di materiale uranifero?

11. Quali misure saranno adottate per abbattere a zero l'inaccettabile aumento dal 10 al 20 per cento (previsto negli stessi studi dei proponenti) delle malattie cardiovascolari e respiratorie dovute agli anni di cantiere (come è già stato accertato in casi di lavori analoghi, per esempio al Mugello)?

12. In forza a quali regole di trasparenza e buona amministrazione i lavori per realizzare la nuova galleria geognostica di Chiomonte non sono stati assegnati con regolare gara, preferendo invece il vecchio raggruppamento di imprese sorto per realizzare la galleria di Venaus cancellata dopo il 2005, che era profondamente diversa nel tracciato e molto meno costosa?

13. Con quali risorse sarà possibile tenere aperta la ferrovia in quota (che serve i paesi e le località turistiche dell'alta valle) quando dovesse venire aperta la galleria di base (come dimostra ampiamente la sorte di treni pendolari, intercity e notturni cancellati dalla rete ordinaria per dare ossigeno all'attuale dorsale Tav)?

14. Perché il governo non adotta processi di democrazia partecipativa, sul modello del débat public francese o analogo public hearing anglosassone, e si rifiuta di istituire un tavolo di valutazione tecnico super partes (per esempio, composto da persone estratte a sorte, sul modello delle giurie popolari) a cui cedere il potere decisionale?

Fino a che il governo e i suoi sostenitori non vorranno rispondere a queste domande, i valsusini - e noi con loro - saremo autorizzati a pensare che le uniche vere ragioni per realizzare l'opera siano quelle delle lobby della movimentazione terra e del cemento.

Quasi un plebiscito sul corso Buenos Aires. Crescono i sì alla chiusura al traffico domenicale della strada commerciale, una volta al mese, in via sperimentale. E anche l'apertura domenicale dei negozi. Ma sale anche lo scontro con chi rimane fortemente contrario. Intanto è pronta la trasformazione dell'intera area commerciale in Duc, Distretto urbano del commercio, come già sono Navigli e Sarpi. Quella sarà la sede, spiegano a Confcommercio, dove prendere le decisioni, con Regione, Comune, associazioni commercianti e Zona.L'ultimo sondaggio è quello fatto in prima persona dal presidente di Zona 3, Renato Sacristani, il quale in due settimane ha bussato porta a porta a 206 negozi. In 101 hanno firmato, scrive nel rapportino conclusivo, «prendendo una posizione»: 78 sì alla sperimentazione, 15 contrari, 8 astenuti.

Mancano ancora all'appello le posizioni di 105 esercizi che dipendono dalle grandi catene distributive. Arriveranno nei prossimi giorni, via email. Sacristani, però, ha una certezza: «Già risulta che l'atteggiamento generale di firme come Feltrinelli, Zara, Chicco, Oviesse, Camicissima, H&M, Mango, Benetton, Geox sia orientato verso la posizione di favore della chiusura al traffico privato». Il principale oppositore all'iniziativa, Gabriel Meghnagi, dell'associazione Ascobaires, non fa passi indietro: «Questo non è un referendum politico. Sarà il Duc a decidere. Lì contano i voti. Potrei rimanere da solo io, viceversa potrebbe perdere Sacristani. Rimango della mia idea. E sono anche convinto che qualche commerciante abbia detto sì al presidente di Zona e sì a me, abbia voluto accontentare tutti». La chiusura al traffico, insiste Meghnagi, si dimostrerà un disastro.

Se qualcosa i due distinti sondaggi, Zona e Confcommercio, doveva certificare è la spaccatura della via. Luigi Ferrario, che rappresenta l'associazione ultima nata, «Buenos Aires Futura», invita a una riflessione: «Noi gli affitti dobbiamo pagarli e dobbiamo per questo fare gli incassi. Anche se l'arcivescovo Scola e ora pure il sindaco Pisapia si sono espressi contro il lavoro domenicale, per noi è evidente che la domenica è un giorno di forte shopping. La gente viene con piacere in Buenos Aires. Siamo convinti che arriverà anche se dovrà spostarsi con il metrò, in bici, a piedi».

Un problema, però, la spaccatura in due del corso, rischia di causarlo. E lo sottolinea proprio Sacristani: chi rappresenterà i commercianti nel Distretto urbano del commercio: «Tra poco si dovrà eleggere un Duc per Corso Buenos Aires e vie limitrofe. È legittimo chiedersi chi rappresenterà i commercianti, visto che Ascobaires, su una questione così importante, è difficile che ottenga più del 15% dei consensi. La storia curiosa è che alcuni di coloro, che in un primo momento avevano seguito le indicazioni di Ascobaires, dopo aver letto la delibera del Cdz 3, hanno deciso di votare a favore». Si deciderà tutti assieme, taglia corto Meghnagi. «Quel che è certo è che non potrà decidere Sacristani da solo. La Zona 3 avrà solo il suo voto».

postilla

Il caso locale di una singola arteria commerciale di Milano (che è però anche uno dei principali casi europei di questo tipo, anche senza contare il “prolungamento” ideale fino alle zone della moda e oltre) vale probabilmente come modello di metodo per tutta la regolamentazione nazionale: ha senso ideologizzare, come si fa in sostanza da qualche giorno, così tanto la discussione? Si e no.

Un buon punto di partenza per capire meglio è il concetto di DUC richiamato dall’articolo, variante locale dell’internazionale BID, Business Improvement District, a sua volta strumento di metabolizzazione urbana della struttura (vincente ormai da generazioni, non va scordato) dello shopping mall suburbano, e portatrice di una idea di fondo elaborata già da Victor Gruen negli anni ’50. In sostanza: è possibile invertire la tendenza del commercio moderno a diventare spazialmente segregato, organizzativamente autoritario, socialmente distruttivo? La risposta dipende dai metodi di governo del fenomeno, dalla mescolanza di mercato e intervento pubblico, di spazi e tempi. E mescolare invece – come pare si stia facendo un po' confusamente ora - un diritto come la qualità del lavoro e i tempi di riposo, con cose onestamente inquietanti come la Giornata del Signore, della Famiglia, eccetera, è solo pura reazione. Su questo sito sono stati esposti non da oggi pregi e difetti del Business Improvement District, sia nella versione di percorso del commercio “verso la città” studiata da Lorlene Hoyt nelle sue ricerche al MIT, sia nella distorsione ideologica e segregante di privatizzazione degli spazi, come suggerisce Anna Minton. Siccome la verità sta sempre nel mezzo di qualcosa, evitiamo in questo come in altri casi di schierarci coi predicatori. Fa solo male (f.b.)

Il sindaco di Firenze Renzi ha annunciato magnum cum gaudio che alcuni ricercatori avrebbero dimostrato inoppugnabilmmente che dietro l’affresco del Vasari si nasconde una versione leonardesca della Battaglia d’Anghiari. Tra le riserve scientifiche all’operazione quella di Salvatore Settis

Si è capovolta la gerarchia naturale dei valori». Salvatore Settis, storico, archeologo, ex direttore della Normale di Pisa, ha presieduto fino al 2009 il Consiglio superiore dei beni culturali. Sè anche primo firmatario dell´appello di 101 studiosi, intellettuali e storici dell´arte che nei mesi scorsi ha chiesto di interrompere le ricerche della Battaglia di Anghiari, fortemente voluta, invece, da Palazzo Vecchio. E non usa cautele nell´esprimere il suo giudizio su un´operazione che definisce «soltanto mediatica»: «Invece di salvaguardare al massimo un´opera d´arte certa quale è la Battaglia di Scannagallo del Vasari», spiega Settis, «cioè di cercare di non farle correre alcun rischio, si va alla ricerca di un´opera soltanto ipotizzata, con possibilità secondo me minime di trovarla davvero, trattando quella certa come se fosse un incomodo di cui quasi non si vede l´ora di liberarsi. Fino a giungere addirittura ad ipotizzare di poter togliere qualche pezzetto rifatto nell´Ottocento, ammesso che ci sia...».

Professor Settis, ammetterà che anche la sola ipotesi che si possano trovare delle tracce di un´opera di Leonardo sottostante quella del Vasari, possa valere quantomeno la curiosità di una indagine...

«Il dramma di questo paese, che si sta replicando in modo esemplare in questo caso, è che occuparsi di beni culturali sembra ormai risolversi in una continua spettacolarizzazione, mirata su singole opere d´arte, o singoli interventi di restauro. Un fatto di costume che io giudico altamente negativo, perché orienta l´attenzione soltanto su operazioni di immagine, che riguardano dieci o venti monumenti di grande richiamo, lasciando che tutto il resto vada in malora».

D´altra parte esistono dei risultati scientifici, che Comune e Soprintendenza hanno sempre sostenuto di considerare sufficienti a procedere.

«Ma è mai possibile che in un luogo di straordinaria importanza come il Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, e avendo a che fare con opere di un Leonardo e di un Vasari, si considerino sufficienti le analisi di un laboratorio privato di Pontedera? E´ mai possibile che non valesse la pena, in un caso del genere, di ricorrere, prima di qualsiasi dichiarazione e di qualsivoglia annuncio, quantomeno a un controllo incrociato di dati, prodotti da laboratori di altissimo livello, diversi e indipendenti, cioè che non sapessero niente l´uno dell´altro, in modo da essere supercerti di quello che si sarebbe detto? Tutto questo non è stato fatto e mi chiedo perché. Tanto più che almeno una funzionaria dell´Opificio delle pietre dure, da tutti riconosciuta come molto seria, ha chiaramente detto che i dati a disposizione non le sembravano attendibili. E´ ovvio che anche solo questi dubbi avrebbero dovuto obbligare alla massima prudenza».

Non la convince nemmeno l´ultima novità, e cioè l´accertata «compatibilità» fra i pigmenti rilevati sotto l´affresco del Vasari, e quelli repertati e certificati dal Museo del Louvre nel 2010 e relativi alla Gioconda e al San Giovanni Battista di Leonardo?

«Ripeto, qui si trattava di fare confronti secondo un metodo ben più rigoroso, come quello, per esempio, che abbiamo adottato in occasione degli studi sulla pendenza della Torre di Pisa. Ogni volta che abbiamo dovuto fare analisi di qualche tipo, geologico, statico, prima di prendere una decisione tecnica le abbiamo ripetute due o tre volte affidandole ogni volta a laboratori diversi, e che laboratori: dall´Università di Harvard al Politecnico di Milano, ad altri ancora sparsi per il mondo. Insisto: un Vasari e un Leonardo non avrebbero meritato altrettanto impegno? Del resto ad ammettere un errore non c´è niente di male, capita a tutti, si guardi il caso dei neutrini che sembravano più veloci della luce, un errore non a caso venuto fuori proprio grazie al controllo incrociato di dati elaborati da laboratori diversi».

Si può sempre obiettare che l´indagine è partita con lo stimolo di uno sponsor privato, che se ne è accollato tutti gli oneri e ha anzi dotato il Comune di fondi utilissimi al suo disastrato bilancio.

«Proprio perché si ha avuto la fortuna di trovare uno sponsor del genere, in tempi come questi, mi si deve spiegare perché non lo si sia utilizzato per la priorità delle priorità, e cioè la tutela e la conservazione del patrimonio storico artistico, che come tutti sanno sta andando in malora. E di cui, diciamo la verità, non importa davvero niente a nessuno, perché quel che importa è di fare, ogni tanto, cose spettacolari, anziché, giorno dopo giorno, investire sulla conservazione capillare di tanti beni diffusi su tutto il territorio nazionale. Ma mi meraviglio che da una regione come la Toscana, e da una città come Firenze, non solo non venga questo esempio, ma arrivi quello contrario».

Il rapporto Whatever happened to Africa's rapid urbanisation? dell'Africa research institute, un think tank indipendente britannico, è passato praticamente inosservato, eppure rimette in discussione uno dei "miti" e dei limiti dello sviluppo africano: «E' 'opinione diffusa che l'urbanizzazione stia avvenendo più velocemente nell'Africa sub-sahariana che in qualsiasi altra parte del mondo, poiché gli immigrati si spostano dalle zone rurali agli insediamenti urbani. Questo è un errore. Mentre le popolazioni di numerose aree urbane sono in rapida crescita, i livelli di urbanizzazione di molti Paesi stanno aumentando lentamente, se non per niente. L'incremento naturale, al netto della migrazione, è il fattore di crescita predominante nella maggior parte delle popolazioni urbane. I governi africani, i politici ed i donatori internazionali devono riconoscere i cambiamenti fondamentali nelle tendenze di urbanizzazione e rispondere ai messaggi inconfutabili che questi danno circa l'occupazione urbana, il reddito e lo sviluppo economico».

Lo studio è frutto delle ricerche di Deborah Potts, un'esperta di geografia umana del King's College London, che dice di aver cominciato ad avere dei dubbi già a metà degli anni'80, quando lavorava nello Zimbabwe. «Allora abbiamo intervistato 1.000 migranti - ha spiegato all'agenzia stampa umanitaria dell'Onu Irin - e la maggioranza ci diceva che sarebbero rimasti qualche tempo in città, ma che sarebbero ripartiti presto, perché non si potevano permettere di restare. In effetti non esiste una rete di sicurezza in città: se cadono malati , se diventano vecchio se perdono il loro lavoro, bisogna che ritornino nella loro campagna».

La Potts poi ha analizzato le cifre del censimento del 1990 in Zambia, dove il crollo del prezzo del rame aveva portato ad una riduzione delle persone che vivevano in città, un calo confermato nel 2000. Intanto dei ricercatori francesi che lavoravano in Costa d'Avorio avevano osservato lo stesso fenomeno: «I redditi reali urbani fondono come neve al sole a causa della crisi petrolifera e dei programmi di aggiustamento strutturale - spiega la Potts - E' quel che succede in Grecia in questo momento, salve che quello non è nulla a paragone con quel che è successo in Africa».

Ma questa evoluzione delle dinamiche della popolazione sono poco indagate perché pongono problemi: «L'Onu raccoglie e pubblica dati demografici, ma la crisi economica ha colpito anche la realizzazione e la pubblicazione dei censimenti nazionali, che diventano molto cari - sottolinea Irin - Quando i dati del censimento non erano disponibili, l'Onu si è servito di proiezioni ed ha basato il suo modello sui primi decenni seguiti all'indipendenza, un'epoca in cui le popolazioni urbane in Africa crescevano in effetti in maniera molto rapida. Quando le cifre corrette sono state disponibili, si è scoperto che alcuni dei dati riguardanti la popolazione urbana erano largamente sovrastimati».

La Potts analizza le cifre dell'United Nations Human settlements programme (Un-Habitat) sul livello di urbanizzazione, secondo le quali nel 2001 il 34% della popolazione del Kenya era urbana, nel 2010 questa stima è stata rivista al 22%. Secondo la ricercatrice britannica «I tassi di urbanizzazione erano minori in 11 Paesi dell''Africa sub-sahariana e in Tanzania, in Mauritania e Senegal il calo era particolarmente sensibile».

Questo non vuol certo dire che la popolazione urbana sia in contrazione, anzi, continua a crescere ma la stessa cosa avviene nelle zone rurali. «La tendenza generale resta un movimento verso le città, ma è un'evoluzione lenta e non un'ondata di marea», dice Potts che però si lamenta perché «Anche se le cifre sono oggi disponibili, gli analisti, compresi quelli di Un-Habitat, modificano solo molto lentamente le loro ipotesi. E' un messaggio che non è sempre ben compreso. Le persone a volte sono molto pigre. Dicono che non è possibile, che sono le autorità urbane che le hanno date. Ma secondo la mia esperienza, le autorità urbane non dispongono di solito di statistiche corrette in 9 casi su 10, sovrastimano largamente la loro popolazione per ragioni politiche».

Claire Melamed, direttrice del Growth, poverty and inequality programme dell'Overseas development institute britannico, ha detto all'Irin: «Per una ragione o per l'altra, investire nei dati non è mai una priorità essenziale. Ma questo non è un lusso, è il principio fondamentale della buona politica. Tutto questo ha delle conseguenze concrete sulla maniera di distribuire i servizi dei quali le persone hanno bisogno e che richiedono. Se la maggioranza è urbana, la distribuzione sarà differente da quella che sarebbe per una maggioranza rurale e dispersa».

Eduardo Moreno, responsabile del Cities programme di Un-Habitat, ribatte che rivedere le proiezioni precedenti fa parte del suo lavoro ma che l'Africa continua ad urbanizzarsi: «Se prendiamo solo l'Africa, è chiaro che l'urbanizzazione rallentare che le grandi città africane non crescono così rapidamente come 10 o 15 anni fa. Ma se si paragona con l'Asia o l'America latina, è ancora l'Africa che conosce il tasso di urbanizzazione più forte di tutto il mondo in via di sviluppo. Un tasso di urbanizzazione più graduale non è necessariamente la benedizione che i governi possono immaginare. Diversi paesi africani non hanno ancora compreso che l'urbanizzazione è una cosa molto positiva. Alcuni può darsi che vogliano lasciare la loro popolazione nelle zone rurali, perché associano l'urbanizzazione alla povertà e ad altri aspetti negativi. Ma la storia ci dimostra che nessun Paese è uscito dalla povertà restando rurale. Abbiamo chiesto a dei governi africani se vogliono mettere fine all'urbanizzazione e la maggioranza tra loro hanno detto di sì. Ma se pensate alla Cina, i suoi piani quinquennali considerano l'urbanizzazione come il motore dello sviluppo. Quindi, se alcuni Paesi pensano deliberatamente di ridurre il loro tasso di urbanizzazione, adottano una cattiva politica».

La Melamed non è convinta: «Per quel che ne so, l'Africa rimane una società a predominanza rurale. Ma questo rimette in questione le idee sul modo in cui la società sta cambiando, perché queste sono fondate sull'idea di un'urbanizzazione molto rapida. Senza dimenticare gli aspetti politici, come abbiamo visto in Africa del Nord ed in Medio Oriente, delle popolazioni urbane giovani, meglio istruite, hanno un comportamento differente da quello delle popolazioni rurali. Quando le persone si urbanizzano, non dar loro quel che vogliono rischia di avere delle conseguenze politiche molto più serie».

postilla

Forse migliorare la condizione urbana in Africa richiede approcci diversi da quelli imposti dall’ONU e promossi dalla Banca mondiale e dalle multinazionali. Forse esportare il modello europeo e quello americano (o i derivati asiatici) non è la strada giusta. Questioni sulle quali bisognerà ragionare, magari cominciando dal domandarsi che cosa significa “condizione urbana” in regioni caratterizzate da storie diverse e da diverse culture. Si scoprirà forse che la soluzione giusta non è quella di imporre l’ “urbanizzazione” che abbiamo applicato e stiamo applicando nel Nord del mondo

Lo stillicidio delle informazioni sui fatti di corruzione, quasi un quotidiano bollettino di guerra, rende sempre più insopportabile l´attesa di qualche nuova norma che consenta di opporsi in modo un po’ più efficace ad un fenomeno dilagante. Le cronache confermano che la corruzione è ormai una struttura della società italiana, è penetrata ovunque, come testimonia la presenza tra i corrotti di politici e amministratori, imprenditori e primari medici, poliziotti e vigili urbani. Ogni ritardo del Parlamento diventa un aiuto a questo nuovo ceto sociale. E proprio la "disattenzione" politica spiega perché, a vent´anni da Mani pulite e dalle speranze allora suscitate, la corruzione sia divenuta sempre più diffusa.

Ricordiamo quel che disse il cardinale Tettamanzi, lasciando la diocesi di Milano: "Gli anni della cosiddetta Tangentopoli pare che qui non abbiano insegnato nulla, visto che purtroppo la questione morale è sempre d´attualità". Ma vi è un documento recentissimo che descrive con spudoratezza una condizione della politica. È la memoria difensiva di un politico calabrese accusato di rapporti con ambienti criminali, dov´è scritto: "La mentalità elettoralistico-clientelare è diventata cultura, costume e inevitabilmente anche modo di governare" e quindi, per il politico che "vive ed opera in questo difficilissimo ambiente, mettersi a disposizione è quasi d´obbligo, senza grandi possibilità di crearsi una difesa che lo garantisca da immorali e infedeli strumentalizzazioni. Il mettersi a disposizione è condizione quali fisiologica dell´attività politica svolta in Calabria, con la conseguenza di affidarsi supinamente alla lealtà dell´interlocutore". Questa richiesta di una "assoluzione sociologica" riguarda i rapporti con ambienti criminali, ma descrive una più generale regola di comportamento dove il "mettersi a disposizione" s´intreccia con le pratiche corruttive alle quali, peraltro, proprio i poteri criminali ricorrono sempre più ampiamente.

Siamo oltre il "mostruoso connubio" tra politica e amministrazione denunciato nell´Ottocento da Silvio Spaventa. Conosciamo altri connubi: tra politica e affari, tra politica e criminalità, che tutti insieme hanno provocato un connubio obbligato tra politica e malapolitica, con quest´ultima che corrode l´intera società. Proprio per questo è necessario guardare alla dimensione politica, pur sapendo, ovviamente, che non è soltanto questa ad essere il luogo della corruzione e che i politici corrotti sono una minoranza. Ma quando la corruzione si insedia nel ceto politico, e da questo non è adeguatamente contrastata, essa finisce con l´assumere una particolare natura, diventa fatto istituzionale, modo di governo della cosa pubblica. Proprio per questo è grandissima la responsabilità dei politici onesti, che non possono chiamarsi fuori in nome della loro personale integrità, poiché hanno l´obbligo di ricostruire le condizioni anche istituzionali per il ritorno dell´etica pubblica.

Finora non è avvenuto. Si è ceduto al patriottismo di partito, si sono cercate misere scorciatoie, si sono coltivate illusioni politico-istituzionali. Spicca, tra queste ultime, la tesi secondo la quale la corruzione era figlia di un sistema bloccato sì che, una volta approdati ad una democrazia dell´alternanza, la corruzione si sarebbe automaticamente ridotta. Non è andata così. L´alternanza tra diverse forze politiche nel governo centrale e in quelli locali ha coinciso con l´espansione della corruzione. Questa, da modalità di esercizio del potere, si è fatta potere essa stessa, ha prodotto le sue istituzioni, le sue reti formali e informali, le sue aree di influenza, una sua economia. Non più fenomeno selvaggio, ma forte e autonomo potere corruttivo.

Non lo scopriamo oggi, nessun politico può invocare l´attenuante della mancanza di informazione. Da anni in Italia sono state prodotte eccellenti ricerche sul tema, sono state fatte proposte dettagliate. Se questa buona cultura è rimasta senza echi, è perché era stata imboccata una diversa via istituzionale.

Discutendo delle differenze tra il tempo di Mani pulite e il tempo nostro, bisogna ricordare le diverse linee istituzionali che proprio in Tangentopoli trovarono il loro spartiacque. Per anni la politica difese le pratiche corruttive senza toccare sostanzialmente il sistema generale delle regole, alle quali ci si sottraeva attraverso una robusta rete di protezione. Si negava la messa in stato d´accusa di ministri (unica eccezione il caso Lockheed, ma questa falla fu prontamente chiusa). Si negavano le autorizzazioni a procedere contro i parlamentari sospetti di corruzione. Si portavano inchieste scottanti nel "porto delle nebbie" della Procura di Roma, che provvedeva ad insabbiarle. Si rifiutava di prendere atto di clamorose responsabilità politiche, con l´argomento che qualsiasi sanzione poteva scattare solo dopo una definitiva sentenza di condanna (e così si allontanava nel tempo ogni iniziativa).

Questa rete si smaglia con l´arrivo delle inchieste del febbraio 1992. Si cancella una immunità parlamentare di cui si era abusato. La magistratura, che aveva assicurato protezione, ritrova il suo ruolo di garante della legalità. Questo provoca sconcerto, e per qualche tempo si spera che un tempo nuovo sia davvero cominciato. Ma le vecchie resistenze erano tutt´altro che sconfitte, come subito dimostrarono le difficoltà nel riformare la legge sugli appalti.

Una nuova strategia era alle porte, e trovò nel berlusconismo il clima propizio. Una diversa rete di protezione è stata costruita, cambiando le stesse regole di base. È storia nota, quella delle leggi sulla prescrizione e sul falso in bilancio, delle norme sulla Protezione civile. Il mutamento è radicale. L´intero sistema istituzionale viene configurato come "contenitore" della corruzione.

Di fronte a questa reale emergenza è pura ipocrisia rifiutare interventi immediati dicendo che si tratta di materia estranea al programma di governo e che nuove norme sulla corruzione devono far parte di un più largo "pacchetto" di riforme della giustizia. La questione morale, evocata dal cardinale Tettamanzi e che richiama l´intuizione lungimirante di Enrico Berlinguer, è tema ineludibile della politica di oggi.

Ma non è solo affare di leggi. Bisogna tornare alla responsabilità politica, rifiutando la scappatoia del "non è un comportamento penalmente rilevante". L´etica pubblica non ha il suo fondamento solo nel codice penale. Lo dice bene l´articolo 54 della Costituzione, affermando che le funzioni pubbliche devono essere adempiute con "onore" e "disciplina". Questo significa che, anche se verranno nuove norme, la partita non è chiusa. Oltre le leggi vi è la ricostruzione della moralità pubblica, il dovere della politica d´essere inflessibile con se stessa, se vuole riconquistare la fiducia dei cittadini. Una domanda, per intenderci. Le frequentazioni mafiose possono essere considerate penalmente non rilevanti e consentire a Dell´Utri l´assoluzione. Ma sono compatibili con l´onore e la disciplina richiesti dalla Costituzione?

Per i candidati alle future elezioni dovrebbe essere obbligatoria la lettura del Viaggio elettorale raccontato da Francesco De Sanctis nel 1875, che così parlava ai cittadini: "Avete intorno al mio nome inalberata la bandiera della moralità. Siate benedetti!".

MILANO — Il popolo svizzero ha messo un limite alla costruzione di case vacanza: non potranno superare il 20% del totale delle abitazioni e non potranno occupare più di un quinto dell'intera superficie abitata. Il referendum, lanciato dall'ecologista Franz Weber, è passato per poco: i «sì» hanno raggiunto il 50,6% delle preferenze, 15 i Cantoni favorevoli. Tra questi non c'è però il pezzo di Svizzera a noi più vicino, il Canton Ticino, dove anche tanti italiani hanno investito nel mattone.

I numeri elvetici ci dicono che le seconde case ai piedi del Gottardo sono il 40%, nelle valli più turistiche sfiorano il 60. Ma soprattutto, quei numeri, ci spingono a riflettere sul mercato nostrano dove si arriva a contare anche l'80% di case vacanza. La fotografia scattata nel 2011 dall'Agenzia del Territorio e dal Dipartimento delle Finanze ci dice che l'Italia è il Paese delle seconde case: sono 5 milioni e 782 mila, pertinenze incluse; rappresentano il 10,5% di tutte le abitazioni (al Sud il doppio, secondo Legambiente). Il 5% di tutte le transazioni. E ci dice anche che il numero di case rispetto a quello delle famiglie «è nettamente crescente passando dal Nord al Sud». Effetto del «maggior numero di seconde case per villeggiatura nel Sud e nelle Isole» ma anche dei «fenomeni di spopolamento delle aree depresse».

Di cinque milioni di seconde case parla pure Assoedilizia che mettendo in fila i numeri del rapporto case-abitanti stila la classifica delle regioni con più case vacanza: «Valle d'Aosta, Liguria e Puglia». Il presidente Achille Colombo Clerici commenta: «Un tetto serve. Ma da noi non si può pensare a un limite fisso: in certi casi non serve, in altri il 20 è già troppo. Attenzione però: le seconde case creano ricchezza. Con beni culturali e paesaggi rappresentano la forza della nostra attrattiva turistica. Case vacanze e... alberghi, certo».

In Svizzera il tetto è stato posto proprio per tutelare alberghi e territorio. «Lì già non è possibile trasformare un albergo in appartamenti, da noi succede anche a vecchi hotel fine '800», dice Oliviero Tronconi, responsabile del laboratorio Gesti.Tec del Politecnico. «Il comparto delle seconde case ristagna non tanto per crisi e Imu, quanto per il diverso modo di fare vacanza. In ogni caso la promozione del turismo non passa da lì: così non si crea ricchezza ma deserto sociale». Ne sa qualcosa Roberto De Marchi, sindaco di Santa Margherita Ligure: «Su 8000 abitazioni, 4000 seconde case (800 appartengono a 80 famiglie): per la maggior parte dell'anno vuote. Bisogna fermarle con politiche fiscali».

Ma anche Andora, nata con le seconde case, ha deciso di dire basta: «Vincolando le aree agricole», spiega il sindaco Franco Floris. Alberto Fiorillo, di Legambiente, distingue tra vecchie abitazioni trasformate in case vacanza e nuovi immobili: «Questi limitano la qualità del turismo, danneggiano il suolo, spersonalizzano i luoghi: paesi fantasma d'inverno diventano città ingovernabili d'estate con servizi (dai rifiuti alla depurazione, fino alle strade) sottodimensionati». Fin qui i problemi legati a quell'11,5% di seconde case legali: «Al quale va aggiunto un numero imprecisato di abusive (troppi pure gli affitti abusivi): ogni anno ne sorgono tra i 30 e i 40 mila. Molte le seconde case».

postilla

Visto che il Corriere si diffonde in percentuali, e i suoi interlocutori pure, vorrei ricordare qui un caso trattato anni fa, quello di Piazzatorre nelle valle bergamasche, dove quella percentuale si aggirava oltre la quota dell’80% e l’amministrazione (del resto imitando i comuni confinanti) aveva deciso di risolvere il problema … costruendo nuove seconde case al posto di obsoleti boschi di conifere e colonie vacanze per bambini. Proprio in questi giorni il blog Salviamo Piazzatorre ha reso disponibile online un bello studio di Emanuela Gussoni, che ho avuto il piacere di seguire come relatore per la tesi di laurea al Politecnico di Milano, dove si indica un possibile percorso alternativo di sviluppo urbanistico e socioeconomico locale. Percorso possibile naturalmente dopo aver intrapreso quello preliminare di trattamento psichiatrico obbligatorio degli sviluppisti a oltranza, senza se e senza ma (f.b.)

Il primo marzo scorso sono passati 40 anni dalla presentazione de I limiti dello sviluppo. Anche se negli Stati Uniti, a Washington, vi è stata una celebrazione ufficiale e negli altri Paesi occidentali alcuni giornali hanno pubblicato articoli rievocativi e commenti, la ricorrenza è passata in un generale inquietante silenzio dei media e in una scarsissima attenzione persino della rete e dei social networks.

I limiti dello sviluppo, ma sarebbe meglio usare la traduzione letterale del titolo originale: “I limiti della crescita” (Limits to growth, in inglese), è frutto di un lavoro di ricerca sul futuro del pianeta commissionato e poi presentato dal Club di Roma (dal luogo in cui si riunì per la prima volta nel 1968) e realizzato da un gruppo di ricercatori del Massachussets Institute of Technology (MIT) di Boston. Aurelio Peccei, un imprenditore “illuminato” italiano, Alexander King uno scienziato scozzese consulente di diverse agenzie governative, Elisabeth Mann Borgese intellettuale tedesca figlia dello scrittore Thomas Mann, erano stati fondatori del Club assieme ad un nutrito gruppo di premi Nobel, intellettuali e leader politici e ne erano i più noti rappresentanti.

Il gruppo di ricerca del MIT era coordinato da Donella Meadows, chimica e biofisica. Per la realizzazione del rapporto i ricercatori misero a punto un modello interamente computerizzato in grado di elaborare grandi quantità di dati per produrre scenari che consentissero di prevedere a quale futuro andavano incontro l'umanità e il pianeta. Per inciso, quel modello (World 3) che accrebbe ulteriormente il prestigio scientifico, già alto, del MIT, è arrivato fino ai giorni nostri ed è stato impiegato con poche successive modifiche per produrre aggiornamenti degli scenari originali a distanza di uno, due, tre decenni.

Il modello fu costruito sulla base del concetto, oggi acquisito ma allora non così scontato, di fare interagire tra loro i i diversi “sistemi” di riferimento utilizzati per rappresentare la realtà e la sua dinamica temporale: il sistema “agricolo e della produzione di cibo”; il sistema “industriale”, il sistema “popolazione”, il sistema “risorse non rinnovabili”, il sistema “inquinamento”.

Il “limite” nel titolo del rapporto sintetizzava molto efficacemente le conclusioni della ricerca in cui, detto molto in breve, si sosteneva che, senza modificazioni drastiche all'esistente dinamica (reference run() demografica, industriale, agricola, di sfruttamento delle risorse, di inquinamento, la crescita economica avrebbe incontrato, o per meglio dire generato, un rapido declino entro i cento anni (lo scenario temporale prescelto) successivi, manifestandosi sensibilmente a partire dal 2015-2030.

Il grafico dello scenario “reference run” de “I limiti dello sviluppo”.

Gli autori, tuttavia, comparando i diversi scenari, sostenevano che un'alternativa a tale esito era possibile, modificando profondamente il “modello di sviluppo” per renderlo più “sostenibile” (diremmo oggi) ambientalmente e socialmente. Devono essere proprio queste “fosche” previsioni sulla crescita che, al tempo d'oggi in cui la parola è evocata da ogni parte con identici accenti di venerazione e desiderio passionale, ha fatto sì che l'anniversario sia passato per molti sotto silenzio.

Del resto anche nel 1972 il Rapporto non incontrò che un favore limitato. Da un lato veniva criticata la fonte del Rapporto: il Club di Roma, una élite aristocratica per alcuni, un intreccio sospetto fra scienza e politica sotto l'ombrello di Associazioni semisegrete come la Massoneria per altri. Dall'altro si tentava di screditarlo come scenario apocalittico più vicino ad un romanzo di Asimov (lo scrittore di fantascienza in gran voga al tempo) che come serio e fondato prodotto scientifico. Infine le sue conclusioni parevano, ad alcuni, o conveniva loro considerarle, un cedimento alla “controcoltura” che da un quindicennio stava percorrendo tutto il mondo occidentale.

Già dalla fine degli anni '50, infatti, maturava in America, sulla scia della Beat Generation, la cultura Hippie. Gli Hippies, più che un “movimento” formavano (anche questo è un tratto che li rende attuali) una “comunità” tenuta insieme da valori che ogni individuo sentiva propri e praticava nella sua esistenza. Oltre ad uno spiritualismo mistico di origine orientale, forte era il rifiuto dell'industrialismo e delle convenzioni fondato sull'insegnamento e l'esempio di Henry David Thoreau e di San Francesco che portava gli Hippies a praticare un ecologismo anarchico di profonda matrice etica sostanziato in modelli di vita naturisti e comunitari, liberi costumi sessuali, pacifismo, alimentazione sana (biologica) e vegetariana, rispetto della terra e della natura. Molti di questi valori influenzarono profondamente i movimenti studenteschi dei college e delle università americane e poi anche parte di quelli europei culminati nel '68.

Esattamente dieci anni prima del 1972, Rachel Carson una biologa marina e scrittrice (aveva già pubblicato nel 1951 un libro di successo: (Il mare intorno a noi() diede alle stampe “Primavera silenziosa” nel quale, sulla base di evidenze scientifiche ed epidemiologiche, raccolte in un lungo lavoro di preparazione, si denunciava la morte di ogni forma di vita nelle campagne e di lì nei fiumi, nei laghi e fino al mare, provocata dai pesticidi e in special modo dal DDT (para dicloro difenil tricloroetano), utilizzati indiscriminatamente e fuori di ogni controllo per le colture agricole. Si evidenziava quale incombente minaccia la presenza di tali composti chimici persistenti nella catena alimentare esercitasse sulla salute umana. La Carson fu minacciata e derisa in campagne di discredito scientifico (definita una birdwatcher dilettante) e umano (accusata di isteria) orchestrate dalle potenti lobbies chimiche, agricole e anche accademiche americane, ma il libro diventò un best seller non solo negli Stati Uniti e influenzò profondamente l'opinione pubblica americana e mondiale.

Un decennio, gli anni '60, in cui la riflessione sulle conseguenze di un modello di produzione e consumo portò tra le altre cose a nuove consapevolezze sul rapporto fra l'uomo e la natura sulle quali è largamente fondata l'attuale, seppure ancora poco diffusa, cultura scientifica ed etica dell'ambiente. Un decennio in cui maturano studi come, appunto, “I limiti dello sviluppo”, ma anche positive reazioni istituzionali come la costituzione (1970) della prima agenzia per la protezione dell'ambiente: l'Environmental Protection Agency(EPA) americana o la prima presa di posizione strutturata di un organismo politico: l'ONU con la “Conferenza” e la “Dichiarazione di Stoccolma sull'ambiente umano”, nel Giugno dello stesso 1972. Documento nel quale si pongono le basi dei diritti della natura, dei diritti dell'uomo ad un ambiente sano, dei doveri dei popoli e delle istituzioni per la conservazione del patrimonio naturale per il benessere proprio e delle future generazioni.

Quattro decenni dopo molte conoscenze sono evolute: basti pensare alla sistematizzazione del tema dei servizi ecosistemici e della biodiversità; molte nuove regole sono state introdotte per salvaguardare l'ambiente: il DDT è scomparso per divieto dalle colture agricole del primo mondo (ma non ancora da quelle dei paesi sottosviluppati); i diritti della natura sono stati scritti in convenzioni internazionali e persino in alcune costituzioni, etc. Cambiamenti che, però, non hanno sovvertito le dinamiche previste nel rapporto del Club di Roma.

Uno studio del 2008 di un ricercatore australiano G. Turner del CSIRO (istituto di ricerca per il Commonwealth) e un recentissimo lavoro pubblicato nel Gennaio di quest'anno su (New Scientist( e dovuto a D. McKenzie (solo per citare i lavori più recenti) convengono in buona sostanza sul fatto che lungi dall'avere fallito sia sul piano degli assunti (come molti pretendevano) che su quello delle previsioni, “I Limiti” si è rivelato capace di ritrarre con grandissima approssimazione il divenire della realtà da quarant'anni a questa parte. Basta peraltro osservare con attenzione il grafico originale delle curve che rappresentano i “servizi pro capite” o le “risorse alimentari pro capite”, l'”inquinamento” o la “produzione industriale” per capire che quelle drammatiche inversioni o cadute libere delle curve parlano di noi e di oggi. Di quanto servizi essenziali come la scuola, la sanità, l'assistenza ad anziani e disabili siano ogni giorno ridotti; di quanto l'aria delle città sia dannosa per la salute; di quanto la biodiversità, base di ogni servizio che l'ecosistema fornisce all'umanità sia sempre più compromessa (si vedano i recenti rapporti EU e UNEP); di quanto, ogni anno sempre più precocemente, venga superata la per uno sfruttamento eccessivo delle risorse la “biocapacità” del pianeta cioè la sua capacità di ricostituirle, come ci dice l'elaborazione dell'”impronta ecologica” il più accreditato indicatore di sostenibilità. La crescita, così come intesa dal modello di sviluppo esistente nel 1972 e con poche modifiche, molte delle quali peggiorative (si pensi alla finanziarizzazione senza regole dell'economia), anche oggi, è finita. Persino illustri economisti (Sen, Myrdal, Fitoussi) sostengono che l'identità del PIL (il Prodotto Interno Lordo, l'indicatore moloch della crescita) con la misura del benessere è sempre più falsa.

Che sia proprio la crescita, il problema? e non come preteso da molti-Monti la sua soluzione? Molti dati reali inducono a pensarlo. La semplice affermazione che anche nei paesi ricchi, una crescita, seppure bassa, sia nel tempo sostenibile usando meglio le risorse naturali o sostituendo sempre più le non-rinnovabili con le rinnovabili (la sostanza della Green Economy) non è per nulla convincente. Senza scomodare il secondo principio della termodinamica che ne svelerebbe l'inconsistenza teorica, va notato che nelle politiche di “sviluppo e crescita” che ci si appresta a varare, nel nostro o negli altri paesi, al massimo in modo marginale è presente il tema dei limiti o degli effetti che quelle politiche sono destinate ad avere sulle risorse, sulla natura, sui servizi ecosistemici e in definitiva sul benessere delle persone e della società (devo sottolineare l'attualità di tale aspetto relativamente alla questione della TAV?).

Fa discutere il sì della Camusso alla Tav – anche se è un sì che la stessa leader della Cgil ha precisato essere stato preso tempo fa durante il congresso del sindacato. Fa discutere soprattutto all'indomani della manifestazione della Fiom in cui sono state accolte le proteste del movimento anti alta velocità. E fa discutere anche a sinistra.

«L'opinione di merito sulla Tav non c'entra, ma sostenere come fa Susanna Camusso che una grande opera va realizzata non perché serve come infrastruttura ma perché porta lavoro significa attestarsi su una posizione archeologica». Lo affermano i senatori ecodem Roberto Della Seta e Francesco Ferrante. «Il lavoro si costruisce promuovendo l'innovazione, liberando l'economia dal peso di lobby e immobilismi, puntando su ricerca, scuola e ambiente che per un Paese come il nostro sono le principali materie prime - proseguono - Invece le infrastrutture almeno nei Paesi avanzati si fanno se sono utili a migliorare la qualità dei servizi, per esempio dei servizi di trasporto, nell'interesse dei cittadini e delle imprese. Questo è l'unico criterio accettabile su cui decidere anche nel caso della Tav Torino-Lione: va fatta se serve a rendere più moderno e sostenibile il trasporto delle merci, altrimenti è soltanto uno spreco».

«In Italia nel corso degli ultimi decenni sono stati sperperati miliardi e miliardi di soldi pubblici per fare opere inutili giustificate appunto con il fatto che 'portavano lavoro': così ci ritroviamo con poli industriali senza senso e senza futuro, con moltissime autostrade e pochissimo trasporto pubblico locale - concludono - È preoccupante che il più grande sindacato italiano difenda ancora questa logica».

postilla

Del tutto condivisibile la critica dei due parlamentari del PD alle dichiarazioni di Camusso. Una sola osservazione. Quando Della Seta e Ferrante definiscono “archeologica” la posizione del segretario della Cgil intendono “arcaica”, “superata”. Ma in realtà essa è davvero “archeologica”: come l’archeologia, aiuta a guardare indietro e a imparare dal passato, dalla nostra storia, nella storia del movimento sindacale italiano. E allora si scopre che in altri tempi il sindacato seppe cogliere l’occasione del lavoro per proporre una “modernizzazione” che era alternativa a quella che l’indirizzo liberal-liberista proponeva. Mi riferisco al “piano del lavoro” di Giuseppe Di Vittorio, il cui significato abbiamo ricordato in un eddytoriale, sollecitato da una posizione espress (quella volta da Rossana Rossanda) su un tema analogo a quello che ha sollecitato la dichiarazione della dirigente della Cgil. L’obiettivo della crescita indefinita di una produzione sempre più lontana dalle reali esigenze dell’umanità è una un mito al quale una parte troppo larga della sinistra rimane ancora subalterno. Ne è largamente permeato, del resto, lo stessa formazione politica in cui militano i due autori della critica a Camusso.

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