I rischi riguardanti la cappella Scrovegni sono almeno sei e in questo articolo affronterò solo i primi tre (il terzo in maniera incompleta): quanto influiscano sulla sua staticità le differenti fondamenta di abside e navata, con conseguenti crepe e fessure, la mancanza di messa in sicurezza sismica, l’allagamento della cripta. Rimangono da affrontare: la mancanza di sicurezza anti-attentati; la mancanza della messa a norma dell’impianto elettrico con le possibili conseguenze sugli affreschi, il dissesto che la costruzione in atto di due torri vicine alla cappella, con scavi profondi più di 30 metri potrebbe creare alla falda idrica che è in connessione con quella della cappella stessa.
Il terremoto che ha colpito e continua a colpire così duramente la regione emiliana non bada a confini geografici ed è giunto anche a Padova dove è crollato un pezzo di una vela della Basilica del Santo.
Una toppa bianca spicca in mezzo al fondo blu decorato. Anche l’ala destra della chiesa è stata transennata. E la cappella Scrovegni? Le autorità il 30 maggio hanno assicurato che “la cappella è ok”, basandosi come sempre sul loro infallibile occhio o in alternativa, buon senso.
La cappella, terminata nel 1305, era in origine saldamente integrata nel palazzo Scrovegni. Dopo l’abbattimento di quest’ultimo nel 1827, voluto dagli sciagurati ultimi proprietari, i nobili Gradenigo, per farne materiale edilizio, la cappella subì un primo dissesto, a cui concorse anche un ulteriore limite intrinseco all’edificio. La navata poggia infatti sulla cripta, che è ancorata sull’anfiteatro romano; l’abside, aggiunta dopo, poggia invece direttamente sul terreno. Abbattuto il palazzo, la cappella non più sostenuta dal palazzo, risentì delle differenti fondamenta. La crepa fra la navata e l’abside, segnalata fin dal 1835, ne è la prova. Per contrastare questa e altre crepe prodottesi nel tempo, nel 1967 si procedette a: sostituire “il tetto in legno con una nuova copertura in acciaio”, alla realizzazione di “un cordolo in cemento armato alla sommità delle pareti della navata” e alla sostituzione delle catene, spezzate e/o malandate.
Così scrivevano nel 1998 il professore Claudio Modena e gli ingegneri Giovanni Lazzaro e Carlo Bettio dell’Università di Padova nel loro “Aggiornamento sulla statica della cappella degli Scrovegni”. Alla luce del terremoto di Assisi, dove proprio le capriate in cemento sostituite a quelle originarie in legno hanno provocato il tragico crollo delle vele, il rimedio dovrebbe indurre ad un riesame urgente della sua validità. Nel 1998 il prof. Modena posizionò sull’estradosso della volta 6 basi di misura per distanziometri, semplici apparecchi per misurare le variazioni di ampiezza delle fessure stesse ed eventuali scorrimenti. Fatte alcune prove il professore Modena concludeva per indicazioni in generale confortanti, “ma che lasciano aperti aspetti di dettaglio del comportamento statico che possono avere notevole importanza sulla conservazione degli intonaci affrescati, e che devono quindi essere approfonditi”.
Quali furono gli approfondimenti? I distanziometri furono tolti e a tutt’oggi nessuno monitora le fessure e le crepe.
In assenza di qualsiasi altro strumento di valutazione del comportamento della cappella nei terremoti; in assenza di opere per la messa in sicurezza sismica della Cappella e di caratterizzazione sismica del sito, costerebbe poco il ripristino dei distanziometri e il loro sistematico controllo, che dovrebbero comunque coinvolgere l’intera cappella, cripta compresa.
La cripta, chiusa al pubblico, ha il pavimento – una gettata di cemento coperta di fango – costantemente invaso dall’acqua che emerge dalla falda sottostante. Per risolvere il problema del compromesso assetto idrogeologico è stato installato un rozzo vascone appoggiato alla parete ovest della cripta, all’interno del quale è collocata un’ulteriore vaschetta con due pompe che succhiano l’acqua in eccesso del pavimento. Attraverso un condotto la riversano nei condotti di smaltimento esterni, che comunque la rimettono nella falda in un giro senza sosta. I rigagnoli che scorrono sull’impiantito giungono a inumidire la base dei muri perimetrali con quale conseguenza sull’assetto strutturale della cappella, non si sa. O meglio, sempre le solite autorità dicono che non c’è alcuna conseguenza. Su quali dati? Mistero.
Ma chi di noi, se avesse una casa il cui garage immediatamente sottostante fosse sempre allagato, starebbe tranquillo? Certo lo Scrovegni non aveva progettato di scender con gli stivali nella cripta dove nella volta si vedono le stelle dipinte da Giotto. È impossibile però apprezzare la bellezza della cripta perché sono rimasti in piedi i set-ti murari in mattoni che a intervalli ravvicinati, dovevano, durante l’ultima guerra, evitare che le onde d’urto delle bombe facessero crollare la cappella. (La Cappella era infatti segnalata sul tetto affinché i piloti dei bombardieri non la colpissero). Sempre il professor Modena nel 1998 scriveva che occorreva affrontare il problema dei “massicci setti murari presenti nella cripta, addossati alle pareti laterali e alle volte, e con esse ormai probabilmente interagenti”. Una possibilità molto pericolosa e che andrebbe esaminata nelle sue implicazioni. In questi giorni funzionari dell’Unesco stanno censendo i monumenti, sollecitati dal terremoto: a Padova trascureranno obbligatoriamente la cappella che a non è stata ancora dichiarata patrimonio dell’umanità: povero Giotto, che credeva di essere un grande pittore!
postilla
C’è un aspetto della “sicurezza di Giotto” necessariamente sottovalutato da questa pur sistematica lettura: il contesto urbanistico in cui si colloca il complesso degli Scrovegni, e di cui non a caso altri articoli sul tema hanno messo in rilievo la scarsa chiarezza e definizione. Accade infatti che prima la storia e la geografica abbiano scaricato il classico “viale della Stazione” giusto lì davanti, e poi che i vari piani urbanistici per la città non abbiano mai risolto definitivamente il ruolo del quartiere, lasciando aperte fin troppe possibilità di intervenire per singoli progetti. Che per lo stesso motivo si ammucchiano, a volte contraddittori, a volte autoreferenziali come certe proposte di trasformazione che corrono il rischio di compromettere il delicato equilibrio idrogeologico che poi interessa la cappella, e gli affreschi. Forse mai come in casi del genere si dovrebbe capire che ruolo ha l’approccio di metodo urbanistico, contrapposto a quello puramente progettuale (per quanto su una superficie notevole), e come abbia ragione chi preferisce una tutela diversa da quella dei soli vincoli. Almeno quando lo fa in buona fede. Un approccio che di sicuro costa molto meno, salvo che in termini di spremitura meningi (f.b.)
Titolo originale: Rooftop fish farms to feed Germany's sprawling urban population – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
L’itticoltura si è dimostrata un’attività quantomeno discutibile negli estuari del nord Atlantico di fiumi da salmoni, o nel Mediterraneo, coi pescatori sportivi e gli ambientalisti a lamentarne gli effetti collaterali e gravi danni agli habitat naturali. C’è invece un programma in Germania che mira all’alimentazione degli abitanti urbani portandoci direttamente gli allevamenti, con serbatoi installati su tetti delle case e parcheggi, e sfruttando scarti per far crescere verdure. Un’idea abbastanza semplice. Ci sono dei pesci persico che nuotano in serbatoi metallici, l’ammoniaca che producono si sfrutta per fertilizzare pomodori, insalate, erbe aromatiche che crescono in un a serra installata immediatamente sopra. Itticoltura e orticoltura idroponica realizzano un sistema integrato che offre agli abitanti delle città una produzione biologica, locale, sostenibile.
“Dobbiamo realizzare sistemi che ci consentano una produzione alimentare con uso molto efficiente delle risorse” spiega il cofondatore di Efficient City Farming, Nicolas Leschke, guidando i visitatori nel piccolo prototipo in un’ex impianto per il malto nel quartiere Schöneberg a Berlino. Spinti dal problema dell’eccesso di prelievo nella pesca oceanica, dalle lunghe distanze percorse da ciò che mangiamo, da quello che definiscono “una generale mancanza di trasparenza” del settore alimentare, Leschke e i suoi colleghi propongono il prototipo di un possibile sistema esteso a tutte le città tedesche, e sono due oggi gli impianti in progetto. I lavori inizieranno dall’anno prossimo in una installazione acquaponica su 7.000 metri quadrati di tetto in una fabbrica dismessa della capitale, la più grande del mondo.
“Negli oceani si pesca troppo, e non occorre essere profeti per sapere che le cose non cambieranno” commenta Leschke. “E poi con tutti i pesticidi, antibiotici, modificazioni genetiche, non si sa più cosa mangiamo”. Montati su sottili piloni, i contenitori Efficient City Farming si possono installare ovunque, secondo Leschke, e tutto quello che devono fare gli operatori è mantenere il livello dell’acqua e alimentare il pesce. ‘è anche bisogno di un piccolo flusso di corrente elettrica per pompare l’acqua ricca di nitrati verso la coltura idroponica sovrastante con le verdure. “Con questi pochi interventi il sistema funziona indefinitamente”.
Il sistema si chiama Astaf Pro, è stato sviluppato dagli scienziati dell’istituto Leibniz di Berlino per conto di Efficient, e consente di controllare le quantità di azoto per una migliore produzione di pesci e verdure. Le popolazioni urbane aumenteranno n ei prossimi decenni, e ci saranno tante bocche da sfamare: metà della popolazione del mondo urbana, e secondo l’ONU il 70% nel 2050. Anche se per adesso l’idea non salva ancora il mondo, perché la tecnologia –35.000 euro a contenitore – significa sostenibilità economica solo con grandi impianti e grosse rese. “Non facciamo prodotti a buon mercato, non stiamo salvando il mondo, ma di sicuro è un passo nella direzione giusta” conclude Leschke.
Nota: ovviamente questa tedesca è una delle tantissime sperimentazioni (che speriamo escano presto da quello stato sperimentale) di produzione alimentare urbana. Solo per fare un esempio, ho provato tempo fa raccoglierne alcune secondo lo slogan Mangiare la città; ce ne sono a disposizione centinaia nella cartella Ambiente di Mall (f.b.)
Una nuova violenta scossa di terremoto del 5.8 grado della scala Richter ha colpito stamani l’Emilia, con epicentro tra Carpi, Midolla e Mirandola nel modenese.
Subito sono tate pubblicate dichiarazioni dei membri del Governo dello Stato:
La dichiarazione del Presidente del Consiglio Monti: lo Stato “farà tutto quello che deve fare, che è possibile fare, nei tempi più brevi, per garantire la ripresa della vita normale in questa terra così speciale, importante e produttiva per l’Italia” (cfr. La Stampa web del 29/5/2012 ore 12:45)
La dichiarazione del Ministro Forenro: “E’ innaturale che i palazzi crollino ad ogni nuova scossa” (cfr. Repubblica web del 29/5/2012 ore 12:45).
Inoltre, dal Corriere della Sera web del 29/5/2012 ore 12:47: “… Ripartono le polemiche che investono le autorità per aver dato l'ok a rientrare in scuole e abitazioni. (…)”.
E della vicinanza alle popolazioni colpite il capo dello Stato ricorda di averne già parlato ieri “prima che accadesse questa nuova grave scossa. So che da qui a poco il presidente della Regione Emilia Romagna Vasco Errani e il presidente del Consiglio Mario Monti si rivolgeranno attraverso la tv alle popolazioni colpite e al Paese per riaffermare l’impegno forte di solidarietà, assistenza, vicinanza e impegno per la ricostruzione” (da La Stampa web del 29/5/2012 ore 12:50).
La prevenzione sismica non importa a nessuno perché, a differenza della ricostruzione, non fa PIL, a meno che non vengano imputati i costi delle opere di prevenzione a investimenti.
Nelle dichiarazioni istituzionali non si può non notare una sorta di ipocrisia istituzionale.
Vorrei ricordare, senza andare tanto lontano nella memoria, che il 22/12/2011 le Agenzie di Stampa divulgavano un comunicato della Conferenza Unificata Regioni – Province autonome (presieduta dal Presidente della Giunta Regionale della Basilicata, che tante vittime ha dato al terremoto) nel quale veniva reso noto che – tutti raggianti – i Presidenti, all’unanimità, avevano deciso di proporre allo Stato la modifica dell’art. 94 del D.P.R. n. 380/2001 al fine di abrogare l’istituto della preventiva autorizzazione del Genio Civile per iniziare i lavori in zona sismica.
Siccome i nostri Amministratori non provano alcuna vergogna, possiamo tranquillamente rendere noto per extenso il testo del comunicato stampa, sicuri che non offendiamo nessuno:
“Snellire le procedure relative all’autorizzazione per l’inizio dei lavori nelle località sismiche, in modo da ridurre i tempi necessari per l'adeguamento antisismico degli edifici. E’ questo l'obiettivo della proposta di modifica di alcuni articoli (art. 94 e 104) del Testo Unico per l'Edilizia, approvata all'unanimità dalla Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome.
Controlli a campione al posto dell'autorizzazione preventiva.
Le nuove norme, presentate dall’assessore alle Infrastrutture della Regione Basilicata (che presiede la relativa commissione della Conferenza), Rosa Gentile, contemplano la possibilità per le Regioni di prevedere al posto dell’autorizzazione preventiva per l’inizio dei lavori, modalità di controllo a campione.
Norme più leggere.
Le Regioni, stando alla proposta licenziata, potranno derogare alle norme che disciplinano i vincoli per il reclutamento del personale al fine di costituire efficaci reti tecniche di controllo. In caso di cambiamento della classificazione sismica dei territori o delle norme tecniche, chi abbia già iniziato una costruzione non avrà l’obbligo di adeguarsi alle nuove previsioni se concluderà i lavori entro 18 mesi. Diversamente, per tempi più lunghi, sarà necessario presentare una valutazione della sicurezza al fine di stabilire se è possibile proseguire con la costruzione o sia necessario un progetto di adeguamento.
Obiettivo la celerità della prevenzione sismica.
“Il nostro obiettivo – ha spiegato l’assessore lucano Gentile – è quello di rendere la celerità una materia ordinaria e non straordinaria legata all’emergenza. In un settore delicato come la prevenzione sismica è fondamentale potersi muovere celermente nell’adeguamento degli edifici per giungere ad un abbattimento del rischio legato al territorio. E piuttosto che derogare a tutte le norme quando i problemi e i lutti si sono già verificati, è bene rendere le normative più leggere prima ed evitare eventi catastrofici”.
L’obiettivo, in realtà e come è evidente nei carteggi ministeriali scambiatisi tra l’ex Ministro On. Di Pietro e l’ex Ministro On. Lanzillotta all’indomani della sentenza n. 182/2006 della Corte Costituzionale, è sempre stato quello di affrancare le Regioni dalle connesse responsabilità derivanti dall’esercizio della funzione di controllo sismico (ex ante, mediante il rilascio della preventiva autorizzazione, ex post mediante il rilascio dei certificati di rispondenza). Per la precisione, Vasco Errani è stato colui il quale ha sempre richiesto (nella sua qualità di Presidente pro tempore della Conferenza Regioni-Province), talora con veemenza, allo Stato la completa liberalizzazione dell’attività edilizia nelle zone sismiche.
A quest’ultimo proposito vorrei ricordare che è dal 1982 che le Regioni in asserita applicazione della Legge n. 741/1981 hanno eliminato la preventiva autorizzazione sismica richiesta dalla Legge n. 64/1974 per edificare in zona sismica. Ciò ha comportato la pressoché totale elusione di controlli.
Dico elusione perché, in realtà, le leggi regionali non potevano – in attuazione della Legge n. 741/1981 – eliminare l’obbligo della preventiva autorizzazione per l’edilizia privata, bensì la loro sfera di azione legislativa delegata era rivolta unicamente verso le opere pubbliche (è evidente la ratio del legislatore che riteneva un inutile defatigamento dell’azione di governo l’approvazione di un’opera pubblica da parte di un soggetto pubblico, visto che ab origine la progettazione deve essere stringente ed assicurare la massima tutela possibile contro i fattori di rischio connessi all’utilizzazione del suolo).
Invero, la Legge n. 741/1981 già nel titolo “Ulteriori norme per l'accelerazione delle procedure per l'esecuzione di opere pubbliche” delinea il campo applicativo.
La delega legislativa concessa dallo Stato alle Regioni mediante le disposizioni di cui all’art. 20 è strettamente eccezionale in materia la cui potestà legislativa esclusiva è statale.
Ne consegue che dovendo essere interpretata in senso restrittivo, la delega legislativa – conformemente al campo di applicazione della Legge n. 741/1981 e cioè le opere pubbliche – non poteva inferire le opere private.
Di talché, in assenza di un intervento statale che impugnava le leggi regionali manifestamente incostituzionali nella parte che consentivano di poter ovviare alla preventiva autorizzazione sismica per la realizzazione delle opere private, è legittimo pensare che lo Stato e le Regioni abbiano – violando la Costituzione – un concorso di colpa nei delittuosi eventi sismici succedutesi dal 1982 ad oggi ?
Può essere, questa ricostruzione, un recondito motivo che ha portato, recentemente, il Governo ad emanare un decreto legge con il quale non viene più assicurato l’intervento risarcitorio dello Stato in caso di eventi sismici o, più in generale, di calamità naturali (compreso inondazioni) ?
Oggi l’importante è la produttività, l’efficientismo, la liberalizzazione delle attività economiche.
Seppoi ciò si traduce in pericolo per i Cittadini non importa niente a nessuno, anzi ci guadagna pure l’impresa funeraria (anche loro fanno PIL).
Sarà che il progresso è fare due passi indietro, finché siamo a tempo ?
Creare la nuova Torino, come capitale europea della terza rivoluzione industriale europea. A proporre questo progetto che interessa il capoluogo e tutta la provincia sono un gruppo di sindaci, capeggiati dal primo cittadino di Settimo, Aldo Corgiat, che ha elaborato un documento attraverso cui intraprendere un confronto istituzionale, con le forze economiche e sociali e definire insieme un iter condiviso per avviare la fase costituente della nuova Città Metropolitana di Torino.
«Pensiamo che a questa iniziativa sia necessario contribuiscano fin dall’inizio attivamente – spiega Corgiat - non solo le istituzioni elettive, ma anche e soprattutto i rappresentanti di interessi economici, le università e il mondo della ricerca, della formazione, della cultura, l’associazionismo e le organizzazioni del no profit e del terzo settore, i sindacati, le categorie professionali e in generale tutta la società civile».
Il documento, inviato a tutti i sindaci della provincia torinese, una tra le più estese d’Italia (315 Comuni con oltre 2,3 milioni di abitanti), è il manifesto che invita tutti ad un incontro il 23 giugno alle 9,30 a Venaria, presso il Centro del Restauro, per un approfondimento e per dar vita al comitato costituente che porterà, almeno questa è l’intenzione dei promotori, alla convocazione degli Stati Generali della nuova Città metropolitana, già in autunno.
«Il quesito cui dobbiamo dare risposta è – prosegue Corgiat – se la Città metropolitana sia utile o no. Noi crediamo sia importante. Torino e la sua provincia è da sempre una città laboratorio che, insieme al ruolo di città industriale e al contributo fondamentale fornito al Paese e alla Regione in termini di ricchezza prodotta, costituisce con Genova e Milano un sistema territoriale tra i più attivi e dinamici d’Europa, un luogo di innovazione, di formazione e di ricerca capace di competere su scala globale». Innovazione, economia digitale, sostenibilità ambientale e non solo, ricerca e conoscenza sono, infatti, le parole chiave della proposta dei sindaci, per costruire un ambito metropolitano più credibile, più forte e capace di sostenere la sfida imposta dalla crisi economica. «L’obiettivo è unire le potenzialità, le buone pratiche, le energie e le sinergie – chiarisce ancora Corgiat, promotore tra l’altro della prima Unione dei Comuni in ambito metropolitano - capaci di competere su scala europea con gli altri sistemi urbani».
Alla domanda, retorica, se «sia lecito stuprare Venezia lasciando che venga penetrata da immense navi Disneyland» ogni persona di buon senso non può rispondere altro che no. Lo stesso buon senso che deve guidarci nel trovare una soluzione che, retorica per retorica, non butti il bambino con l’acqua sporca. Il bambino – l’eccellenza crocieristica veneziana – del quale vale la pena preoccuparsi non è l’aggiunta di turisti, molto modesta anche se molto qualificata, che le crociere portano a Venezia, ma il ruolo speciale di porto capolinea che Venezia oggi svolge. Nel porto capolinea la nave viene sottopost a regolari manutenzioni e rifornita di tutto per l’intero viaggio. Questo attiva un’economia di fornitura del valore di svariate centinaia di milioni di euro l’anno che coinvolge imprese sparse in tutto l’hinterland veneziano ed oltre.
È questa l’economia di fornitura che verrebbe cancellata qualora il mondo delle crociere fosse costretto a spostare da Venezia il capolinea del Mediterraneo orientale, ricollocandolo in uno degli altri capisaldi storici, Atene o Istanbul. Oggi l’accoppiata aeroporto internazionale-Stazione Marittima (gioiello di efficienza ottenuto dalla trasformazione del vecchio porto commerciale) Per fortuna per raggiungere la Stazione Marittima non è necessario passare davanti San Marco. Fatto che non mi esime dal correggere dati non veri: le navi passeggeri non attraccano già più in riva dei Sette Martiri; l’inquinamento da fumi è già stato reso insignificante in navigazione fin dalla bocca di Lido e sarà reso nullo durante la sosta con l’alimentazione energetica da terra; le onde provocate dalle grandi navi sono comparabili ai movimenti di marea, al contrario delle sberle rifilate giorno e notte da motoscafi, vaporetti, ecc.; lo Schettino di turno avrebbe difficoltà a far danni perché a Venezia la nave è controllata anche da due piloti e da due rimorchiatori; il canale davanti San Marco è una rotaia sottomarina larga solo 80 m. che impedisce qualsiasi avvicinamento alle rive.
Tutti fatti che ci rendono tranquilli per le navi più piccole, quelle di stazza lorda inferiore alle 40.000 tonn, le sole autorizzate dal decreto Clini-Passera a passare davanti San Marco. Le navi più grandi, quelle che oggi ci turbano, potranno raggiungere la Stazione Marittima solo entrando dalla bocca di Malamocco. Qui, per non mettere in crisi il porto commerciale — il secondo bambino da non buttare con l’acqua sporca — che, grazie al cielo, ha ripreso suo ruolo di base portuale per la logistica del Nord Est, occorre approfondire con un intervento di ricostruzione ambientale un tratto di canale, il Contorta-Sant'Angelo, scelto perché, trovandosi nella zona di partiacque lagunare, ha effetti nulli sullo scambio d'acqua laguna-mare.
Paolo Costa - Presidente dell’Autorità Portuale di Venezia
Che «per raggiungere la Stazione Marittima non è necessario passare davanti San Marco» ci renderebbe più sereni se non si dovesse precisare che questo «sarebbe» possibile solo scavando quel nuovo canale contestato. Fino ad allora, a dispetto delle rassicurazioni, continueranno a passare davanti a San Marco anche bestioni come la Divina che supera di 97.000 tonnellate il tetto massimo di 40.000 fissato dal decreto Clini-Passera. Capiamo tutte le ragioni del presidente del porto Paolo Costa, ma la pensiamo come il sindaco di Venezia del 2004 che dopo l'incidente della «Mona Lisa» incagliatasi nel bacino di San Marco disse: «È la goccia che fa traboccare il vaso. Va impedito il passaggio di queste navi da crociera nel tratto d'acqua la tra piazza San Marco e l'isola di San Giorgio». Sono passati da allora, inutilmente, otto anni. Quel sindaco, che plaudiamo, era Paolo Costa.
Gian Antonio Stella
qui l'articolo di G.A. Stella a cui fa riferimento la lettera di Costa
Davanti alle immagini dell’Emilia terremotata e alla civiltà dei comportamenti di tutti, ripenso fra i brividi al Cavaliere che va a visitare impettito l’Aquila diroccata, con trecento morti tutt’intorno, e proclama che lui la ricostruirà in pochi mesi, edificherà le “new towns” (senza sapere di cosa stia parlando) e tutto tornerà “più grande e più bello che pria”. Specie dopo la gran parata spettacolare del G8 scippato alla Maddalena e le solenni promesse di adozioni da parte straniera di questo o quel monumento. Un delirio allucinato che pure tanta parte dell’Italia applaudì al canto “meno male che Silvio c’è”. Un incubo fosco per noi che avevamo in vario modo partecipato alle tragedie di Tuscania, del Friuli, di Umbria e Marche, con centri storici colpiti a morte, chiese rase al suolo o comunque crollanti a partire dalla basilica-simbolo di San Francesco in Assisi riconsegnata invece in piena salute in un biennio, ricavando da quelle ricostruzioni una cura “italiana” apprezzata nel mondo. Non disperdere le comunità locali, far sentire subito il calore della solidarietà, creare condizioni di abitabilità in nuclei vicini a case, casolari, fabbriche e stalle, lavorare sulla coesione sociale, puntare, d’intesa con gli abitanti, sulla ricostruzione com’era dov’era. Anche in Irpinia - dove il “cratere” era stato enorme, tremila i morti, novemila i feriti nel gelo dell’autunno inoltrato - per i beni culturali l’intervento della Soprintendenza speciale di Napoli e di quelle regionali fu efficace e senza “code” giudiziarie, senza “cricche” di mezzo. Nella stessa Napoli - commissario alla casa, Maurizio Valenzi, responsabile degli uffici, Vezio De Lucia - furono risanati e redistribuiti circa 10 mila alloggi senza ombre di sorta.
Perché tutto questo non è stato ricordato abbastanza nei giorni tragici dell’Aquila trasformata in un crudele set televisivo per un presidente che l’“Economist” chiamava “the jester”, il giocoliere, il buffone? Uno che si vantava di seguire un suo modello originale che avrebbe ridato all’Aquila e all’Abruzzo una rinascita pronta e radiosa. L’abbiamo veduta quella rinascita, e l’inquinamento sottoculturale è stato così profondo che anche adesso in loco si favoleggia di archistar, di smart-city, senza avvedersi di altri atroci inganni.
Per quest’area vasta dell’Emilia-Romagna colpita a più riprese dal terremoto la rinascita ha da essere quella evocata dal presidente Napolitano per il Friuli, a cominciare dai beni culturali che sono segni forti di identità collettiva, fondamenta di una intensa storia comunitaria. Citerò un caso che ben conosco: Pieve di Cento, al di là del Reno, verso Bologna, uno dei centri storici che l’intesa fra Soprintendenze ed enti locali aveva restaurato e recuperato nel modo più generale e rigoroso. La sua chiesa maggiore è ora scoperchiata dal sisma, le tele di Guercino, Guido Reni, Albani, Lavinia Fontana sono coperte di polvere, il suo bel teatrino comunale è segnato da crepe profonde. Decenni di sforzi vanificati o sfregiati in una notte? Ho saputo che gli abitanti si mostrano riluttanti persino al necessario trasferimento in laboratorio di quelle grandi tele con l’argomento: “Non le abbiamo lasciate portar via nemmeno a Napoleone, neanche ai Tedeschi…”. Mi sono sentito rassicurato. Anche su questo, come sulle case, sulle fabbriche, sulle stalle del parmigiano-reggiano, la gente di qui non vuol mollare e non mollerà. E se qualcuno – come si dice – vorrà demolire più di quanto serve per scongiurare il pericolo di altre morti, scatterà, credo, con l’opposizione, la molla del recupero, del restauro, del ripristino fedele. L’ha già scritto qui Vezio De Lucia: per decenni l’Emilia-Romagna è stata all’avanguardia in Italia (e quindi in Europa) nella politica di restauro e di riuso dei centri storici, col piano Cervellati-Fanti, preceduto dai censimenti di un grande fotografo, Paolo Monti. Così come fu davanti nella pianificazione territoriale, poi più volte tradita. Sono pagine di ieri che bisogna far tornare in onore. Ora che l’Italia non ha più Arcore come capitale. Ora che essa guarda agli esempi migliori e mostra il dignitoso, paziente coraggio di tante altre occasioni.
È un Paese sospeso, quello che emerge dal sondaggio dell´Atlante Politico di Demos. Un Paese spaesato, in cerca di prospettive politiche ancora incerte. E per ora, comunque, insoddisfacenti. Il governo, dopo il sensibile calo di fiducia subìto fra marzo e aprile (circa 20 punti in meno), sembra aver recuperato consenso, fra i cittadini. Oggi il 45 per cento degli italiani ne valuta positivamente l´operato. Una quota elevata, se si pensa alle difficoltà economiche e sociali del periodo. E al malessere suscitato dalle politiche fiscali, in particolare dall´Imu, giudicata negativamente dal 70 per cento degli intervistati.
Se si pensa, inoltre, che quasi il 50% degli italiani giustifica le proteste - talora clamorose - contro Equitalia. Nonostante tutto ciò, una consistente maggioranza della popolazione (60%) continua a credere che, alla fine, il governo "ce la farà" a condurci fuori dalla crisi. E per questo, probabilmente, ne sopporta le scelte, per quanto con insofferenza. D´altronde, Monti stesso, personalmente, è giudicato positivamente da oltre il 50% degli intervistati. E si conferma, quindi, il leader "politico" più affidabile, presso gli italiani. Molto più di qualunque altro leader di partito o aspirante tale. Da Bersani a Di Pietro, passando per Fini, Casini e Montezemolo. Mentre la popolarità di coloro che avevano guidato la maggioranza di governo per circa un decennio, Berlusconi e Bossi, è scesa ai minimi storici. La perdita di credibilità personale - e familiare - di Bossi ha coinvolto tutta la Lega. Compreso Maroni. Da ciò la crisi che ha affondato il centrodestra, attualmente privo di leadership ma anche di riferimenti politici.
Gli orientamenti di voto riflettono questo senso di spaesamento, rivelato - e accentuato - dalle recenti amministrative. Segnalano, in particolare: a) lo sfaldamento del Pdl, ormai dimezzato, rispetto alle elezioni politiche del 2008; b) la frana della Lega scivolata poco sopra il 4%, come 10 anni fa; c) Mentre il Pd e l´Idv tengono bene, anche se non riescono a intercettare lo sfarinamento dei partiti di centrodestra. Il Pd, in particolare, si conferma primo partito in Italia. D´altronde, secondo gli intervistati, è la formazione politica che si è rafforzata maggiormente, in seguito alle elezioni amministrative. d) Insieme, ovviamente, al Movimento 5 Stelle (M5S), promosso e ispirato da Beppe Grillo. Il quale, dal punto di vista elettorale, è stimato oltre il 16%, poco al di sotto del Pdl. Il successo alle recenti amministrative ha contribuito ad allargare ulteriormente la sua base elettorale. Il M5S è divenuto, infatti, il collettore privilegiato dell´insoddisfazione sociale verso il sistema partitico. Un sentimento generalizzato, che non dà segni di rallentamento.
Oltre il 40% degli intervistati, infatti, vede nella "protesta contro i partiti" la principale ragione di successo del Movimento. Una valutazione condivisa anche dal 27% degli elettori del M5S, i quali, però, danno maggiore importanza ad altri argomenti: l´estraneità dei candidati alle logiche di potere e la concretezza dei programmi proposti ai cittadini. Resta, comunque, l´incognita sulla capacità del Movimento di "tenere" la scena politica, oltre a quella elettorale. Soprattutto, oltre i confini locali. Infatti, quasi metà degli italiani (la maggioranza) ritiene il M5S in grado di "amministrare" le città e il territorio. Ma quasi 7 persone (e 4 elettori del M5S) su 10 non lo considerano capace di governare, a livello nazionale.
Da ciò l´impressione di un Paese sospeso. In attesa di un cambiamento ancora incompiuto. A cui Grillo e il M5S hanno offerto una risposta, uno sbocco. Sfruttato da molti elettori che, in un primo tempo, non li avevano presi in considerazione. Non è un caso se, rispetto a un mese fa, l´elettorato del M5S ha modificato sensibilmente il profilo sociopolitico. In particolare, al suo interno sono aumentati: a) gli elettori dei comuni medio-piccoli; b) le persone di età medio-alta; c) le componenti di centro-destra; d) gli elettori provenienti dalla Lega e dal Pdl. In altri termini: il M5S ha intercettato il disagio diffuso fra gli elettori. L´ha canalizzato, dandogli visibilità. Ma senza risolverlo.
La domanda di cambiamento politico, infatti, resta molto estesa, al punto che circa un terzo degli elettori sostiene che, se si presentasse un partito "nuovo", guidato da un leader "nuovo" e "vicino alla gente": lo voterebbe "sicuramente". Si tratta di un orientamento trasversale. Particolarmente accentuato nella base elettorale dei soggetti politici che in precedenza detenevano il monopolio della rappresentanza del "nuovo", come la Lega. Ma anche l´Idv e Sel. Tuttavia, questo orientamento appare ampio anche fra gli elettori dell´Udc, alla ricerca, da tempo, di un modo - e di uno sbocco - per uscire dal "centro", che rischia di trasformarsi in un ghetto. Schiacciato da destra, sinistra e, ora, anche dal M5S.
Siamo, dunque, in una fase fluida. Il "mercato elettorale" è instabile, in cerca di un´offerta politica adeguata. Che stenta a delinearsi. Così cresce la voglia di "nuovo". Anche se per gran parte degli elettori (quasi sette su dieci) il "nuovo" è il "vecchio" rivisto e ri-qualificato. Per cui si traduce, anzitutto, nella domanda di "rinnovamento" degli attuali partiti. Ma il "rinnovamento", per la grande maggioranza degli elettori (il 61%), significa "ricambio e svecchiamento" della classe dirigente.
D´altra parte, fra i motivi che hanno favorito il M5S alle recenti amministrative, un ruolo importante è stato sicuramente giocato dalla figura e dall´immagine dei candidati. Giovani e preparati. Estranei a lobby e interessi. In grado di esprimere opinioni competenti sulla realtà locale. Senza slogan e senza retorica.
Ciò suggerisce che, per rispondere all´insofferenza verso i partiti, che si respira nell´aria, non sarebbero necessarie grandi rivoluzioni - politiche e antipolitiche.
Basterebbe che i principali partiti attualmente presenti sulla scena politica fossero in grado di rinunciare alle logiche oligarchiche e centralizzatrici che li guidano. Ciò suggerisce che, per rispondere all´insofferenza verso i partiti, che si respira nell´aria, non sarebbero necessarie grandi rivoluzioni - politiche e antipolitiche. Basterebbe che i principali partiti attualmente presenti sulla scena politica fossero in grado di rinunciare alle logiche oligarchiche e centralizzatrici che li guidano. Basterebbe che offrissero maggiore spazio e ruolo ai dirigenti e ai militanti giovani, presenti e impegnati sul territorio. (Ce ne sono molti, nonostante tutto, ma vengono puntualmente scoraggiati.)
Basterebbe. Ma non ne sono capaci. Così, avanza la richiesta del Nuovo-a-ogni-costo. Ormai, un mito, più che una rivendicazione. Travolge tutto. E rende la "nostra" Democrazia: "provvisoria". La Politica e i partiti: inattuali.
Èlecito stuprare la fragile bellezza di Venezia lasciando che venga penetrata da immense navi Disneyland quattro volte più grandi del Palazzo Ducale?
È ora di fissare delle regole, contro questa violenza. Tanto più dopo aver visto l'arrivo, ieri, della gigantesca «Divina». Un lussuoso grand hotel viaggiante lungo 333 metri: il doppio di piazza San Marco.
Conosciamo l'obiezione: più le navi sono grandi, più passeggeri portano. E dunque più turisti fanno shopping in giro per la città lasciando giù soldi. Ossigeno, in questi anni di crisi. Vero. Nel 2009, spiega nel libro E le chiamano naviSilvio Testa, «i passeggeri che si sono imbarcati a Venezia per le crociere sono stati 1.420.490 e nel 2010 1.598.616 con un incremento del 12%». Saliti l'anno scorso a 1.786.416, con un altro 10,5% di aumento.
Fatti i conti, sono sfilate avanti e indietro di fronte a San Marco 654 grandi navi da crociera, cui vanno aggiunti 341 traghetti di collegamento con la Grecia per un totale di 995 bestioni. Pari a quasi sei passaggi al giorno nella media annuale, con impennate in certi weekend dalla primavera all'autunno da brivido.
Prendiamo il Gazzettinodel 24 luglio 2011. Titolo: «Venezia, lo sbarco dei 35 mila». Occhiello: «Invasione. In un solo giorno da undici navi scesi tanti crocieristi come mezza città». Una sintesi addirittura meno terrificante della realtà: la serenissima città (il «pesce» senza Murano, il Lido, Burano e Mestre) è ormai scesa in realtà sotto i 59 mila abitanti. E l'orda allegra, chiassosa e accalcata di turisti che sbarcano dagli enormi «vacanzifici» galleggianti non si sparpaglia da Dorsoduro a Sant'Elena. Vanno tutti ad allagare in massa le calli fra Rialto e San Marco.
Portano soldi? Sicuro. Come racconta Testa, il presidente della Venezia Terminal Passeggeri Sandro Trevisanato sostiene «che le navi da crociera arricchiscono tutta la città, che il porto garantisce un indotto diretto (230 milioni di euro spesi in città dai passeggeri) e indiretto (il complesso delle attività economiche innescate dal crocierismo) di quasi 500 milioni di euro l'anno».
Denaro benedetto, con l'aria che tira. Va da sé che appena il consigliere comunale Beppe Caccia ha proposto di imporre una «city tax» sottolineando mesi fa che il passaggio di navi in un certo giorno di gran traffico aveva prodotto «l'equivalente in emissioni di 20 mila auto nel canale della Giudecca», il presidente di Vtp è scattato come una molla: «Non sono contrario in via di principio a un contributo anche per i passeggeri delle navi, ma il Comune deve agire con prudenza o invece di mungere la vacca, la ammazza».
Il fatto è che questa vacca spropositata, mentre offre qualche consolazione all'Italia in crisi che certo non ci sogniamo di mettere a rischio, sta diventando sempre più invadente in un ambiente fragile come la laguna dove l'acqua ha una profondità media di un metro e 10 centimetri. Al punto che, siccome certi giorni gli immensi grand hotel galleggianti non riescono a starci tutti sulle banchine della «Marittima» alla fine delle Zattere, qualcuna è costretta ad attraccare in Riva dei Sette Martiri, «a un tiro di sasso dalle case, i motori accesi giorno e notte: vibrazione, fumi, un rumore incessante, inquinamento elettromagnetico che dirada sempre in funzione, televisioni oscurate, una delle passeggiate più belle del mondo chiusa da immense muraglie di ferro».
Di più: il business della crociera è talmente cresciuto negli anni che anche dopo il trasloco previsto nel 2013 dei traghetti in un nuovo terminal a Fusina, gli operatori chiedono ancora banchine e banchine e banchine. In un accumulo di progetti che prevede tra l'altro lo scavo di un nuovo canale, drittissimo, larghissimo, profondissimo, capace di accogliere quei bestioni sempre più grandi, più grandi, più grandi. A costo di creare un altro canalone che porterebbe dentro ancora più acqua dal mare.
Di più ancora: se anche i numeri restassero quelli di oggi (magari!) nei prossimi venti anni ci sarebbero nel bacino di San Marco 26.160 passaggi avanti e indietro di navi da crociera sempre più smisurate. Mettiamo anche che per 26.160 volte non ci sia mai un Francesco Schettino che voglia farsi bello sfiorando la riva più celebre del pianeta fino a schiantarsi. Mettiamo che per 26.160 volte non ci sia un errore di manovra come quello capitato alla nave passeggeri tedesca Mona Lisa (200 metri di lunghezza) che il 12 maggio 2004 si incagliò a pochi metri dalla Riva degli Schiavoni. Mettiamo che per 26.160 volte non ci sia un'avaria ai motori come quella che il 23 giugno dell'anno scorso fece finire la nave granaria turca Haci Emine Ana contro i cantieri del Mose alla bocca di Malamocco. Mettiamo insomma che vada tutto sempre bene: ne vale la pena?
Per niente, risponde il comitato «No grandi navi» che contesta il peso schiacciante di un certo tipo di turismo sulla città del Canaletto e di Vivaldi. Per niente, concordano tutti gli ambientalisti. Per niente, accusa il Fai che per bocca di Giulia Maria Mozzoni Crespi ha pronunciato ieri parole durissime contro «un tale crescendo di devastazione, che sfida in modo protervo le sorti di Venezia e della sua laguna, quando si potrebbe mantenere un crocierismo che rispettasse livelli di sostenibilità con navi non inquinanti, dalle stazze, pescaggi e dislocamenti compatibili con la delicatezza dell'ambiente lagunare».
Parole di fuoco, parole d'oro: davvero «tutti» hanno il «diritto» di alluvionare Venezia? Senza alcun limite? Anche se sono troppi? Anche se arrivano su navi esageratamente grandi? La città che da sempre tocca il cuore di ogni ospite («Scivolammo dolcemente dentro il Canal Grande e sotto i morbidi raggi della luna la Venezia della poesia e dei tanti racconti riapparve e ne fummo ammaliati...», scrisse Goethe) è fragile e delicata come un merletto. Che senso ha entrarci su terrificanti bestioni lunghi il doppio delle Procuratie Vecchie e più alti del Leone che svetta sulla colonna che domina il molo? Che senso ha per i visitatori guardare dai ponti più alti di quei bastimenti una città nata per andare a piedi o scivolando sull'acqua?
Nessuno al mondo si sogna di pretendere che centomila persone abbiano il «diritto», neppure pagando, di sedersi insieme per un concerto alla Scala: non ci stanno, punto. Né che un milione di tifosi abbiano il «diritto», neppure pagando, di assistere insieme dentro a uno stadio alla finale dei mondiali di calcio: non ci stanno, punto. Allora perché Venezia dovrebbe rassegnarsi a essere invasa, così, a capriccio, senza un tetto invalicabile, da milioni di turisti?
Quanto al terrore che «scappino da altre parti», ma per favore! Può andarsene in Cina un calzaturificio, andarsene in Romania una vetreria industriale, andarsene in India un'impresa metalmeccanica. Ma c'è una sola Venezia, al mondo. Una. E l'abbiamo noi. Anche se, forse, immeritatamente.
Ma che senso ha prendere un quadro degli Uffizi e spedirlo in una cittadina della provincia di Milano per ‘impreziosire’ la visita del papa, che vi si reca a celebrare la Giornata della Famiglia? Per la nostra classe politica (affetta da congenito e inguaribile analfabetismo figurativo) i musei sono ormai depositi di attrezzeria scenica di lusso, da tirar fuori a comando per abbellire i mitici ‘eventi’.
In un primo tempo era stato il celeste Formigoni a chiedere al pio Ornaghi di estrarre da Brera nientemeno che lo Sposalizio della Vergine di Raffaello. Ma una funzionaria coscienziosa aveva fatto notare all’ignaro ministro che si trattava di una tavola assai delicata, a cui forse non era il caso di far correre rischi inutili. Così il ministro aveva eroicamente ripiegato su un Correggio (nientemeno), che sarebbe dovuto andare alla Regione: poi lo yacht di Daccò deve aver fatto il miracolo che la Costituzione non era riuscita a fare, e nessuno aveva più osato attentare alla tutela dei quadri di Brera.
Ma lo spirito del tempo evidentemente esiste davvero, e qualche altro genio deve aver detto che era scandaloso accogliere il papa senza tirar fuori almeno una ‘chicca’. E qui (ma vado per congetture) immagino che il direttore degli Uffizi Antonio Natali (uno dei pochi funzionari Mibac con le idee chiare) sia riuscito ad evitare che partissero Giotto, Raffaello o Leonardo e abbia tirato fuori dal cappello la meravigliosa e da poco splendidamente restaurata Madonna della Gatta di Federico Barocci. Con una generosa lettura iconografica, dagli Uffizi spiegano che il tema del quadro è perfettamente consono al tema della giornata (“La famiglia, il lavoro, la festa”): Giuseppe che lascia gli strumenti del falegname per accogliere Elisabetta e Zaccaria che portano il piccolo Giovanni a trovare il cuginetto Gesù, nato da poco. Al centro del dipinto c’è poi la famosa gatta, intenta ad allattare i suoi piccoli. Sul web non si manca di far notare che Benedetto XVI ama particolarmente i gatti: e certo fargli trovare un quadro con San Paolo primo Eremita nutrito dal corvo sarebbe stata una vera cattiveria, vista la fauna attuale dei Sacri Palazzi.
In questo deprimente aneddoto dell’Italia della decadenza ci sono almeno due morali, una culturale e una costituzionale.
La prima è che i quadri non sono soprammobili. Pochi mesi fa uno storico della chiesa e un prelato hanno usato una Madonna di Giotto per «impreziosire l’anno Italia/Russia» (parole loro): in un incredibile misto di arroganza e ignoranza si trattano i testi sacri della storia culturale occidentale alla stregua di bigiotteria. Si suggerisce che forse Barocci dipinse la Madonna della Gatta in occasione della visita di Clemente VIII ad Urbino: e allora? Barocci era intimamente legato alla sua Urbino, che lasciava assai malvolentieri e il cui Palazzo Ducale ritrae in moltissimi dei suoi quadri. Che senso ha collegare quell’episodio (vero o falso che sia) all’idea di spedire oggi il quadro a Bresso? Quella storiella non avrebbe dovuto (semmai) suggerire che non bisognava spogliare gli Uffizi (che col papa a Bresso c’entrano come il cavolo a merenda), ma rivolgersi ad opere e tradizioni di quella terra (se proprio era necessario tirar fuori un quadro da un museo: e non lo era)?
La seconda è che, entrando nei musei, le opere del passato hanno perso la loro funzione originaria (politica, religiosa, familiare…) acquistandone una puramente culturale (forse più alta, forse più libera: certo diversa). Esse sono uscite dal flusso degli scambi economici: ora non sono più in vendita, e grazie alla Costituzione appartengono a tutti i cittadini italiani, e in maniera più lata a tutta l’umanità. Un cittadino italiano di fede musulmana, o semplicemente ateo, ha tutto il diritto di disapprovare il fatto che un ‘suo’ dipinto venga piegato e strumentalizzato nei rapporti tra il potere politico italiano attuale e il Vaticano. Oltre al fatto che avrebbe tutto il diritto di trovare quel quadro appeso al suo chiodo, agli Uffizi.
Lo giudicherei comunque culturalmente insensato, ma perché non è la Pinacoteca Vaticana a far dono ai cittadini italiani dell’esposizione di qualche sua poco visibile opera? Perché l’Italia non perde occasione per autorappresentarsi come una grande periferia della Città del Vaticano?
Come in questi giorni ci ricordano le tragiche immagini dell’Emilia, il nostro patrimonio è il tessuto vivo e indifeso della nostra identità: ed è su questo che dovrebbero concentrarsi le poche energie economiche e mentali. E invece preferiamo baloccarci con musei ridotti a location di sfilate di moda, o a forzieri da cui estrarre gemme per compiacere i piccoli e grandi potenti del momento.
'Coniugare ambiente e sviluppo': uno slogan ripetuto con enfasi da esponenti di partiti fuori tempo massimo – come ha scritto su queste pagine Flavio Soriga con la consueta efficacia. Un'espressione svuotata di senso, mistificante perché non esclude le peggiori scelte contro il disgraziato territorio italiano (molto vulnerabile e troppo maltrattato – come sappiamo bene). C'è spesso malafede dietro queste parole. O l'inadeguatezza di chi pensa di cavarsela con quel guizzo linguistico buono per prendere tempo.
Per 'coniugare ambiente e sviluppo' si programmano grandi opere inutili, si dà il via a piani-casa, si promuovono iniziative con titoli fantastici. La Sicilia di Lombardo annuncia una sfacciata speculazione edilizia nei litorali con titolo 'Progetto per la salvaguardia del sistema costiero' dentro un 'Piano straordinario per la conservazione dei beni culturali'.
Chi usa queste formule ambigue sa che passa per moderato. Piero Bevilacqua nel suo «Elogio della radicalità» ha scritto di moderatismo: virtù suprema della politica che spintona tutti al centro sconsigliando ogni altra collocazione («Esso si fonda interamente, malgrado i vari scongiuri di rito, sul ’senso comune’ neoliberista: un insieme di convinzioni dottrinarie fra le più estremiste») .
La battuta di Totò – «E poi dice che uno si butta a sinistra» – nel film anni Cinquanta, è la sintesi di un'Italia bigotta: chi si sposta dal centro lo fa perché costretto suo malgrado a lasciare la rassicurante postazione, dove si sta tutti assieme badando a non perdere nessuno.
La distanza tra parole e fatti è “antipolitica”, contribuisce ad accrescere quel sentimento di sfiducia o di avversione per i partiti. Sconveniente soprattutto per la sinistra incapace di suscitare passioni, per la propensione a rendere vaghe le differenze tra un progetto politico e un altro, che nelle scelte urbanistiche annuncia i peggiori patteggiamenti.
Si veda la pubblicità di Cappellacci a leggi incostituzionali, e quindi estremiste; si legga la rappresentazione che il suo assessore all'urbanistica dà dell'azione di governo. Un quadro capovolto, per cui la sua circolare sulle case in agro passa per intransigente, più severa del Ppr – gulp – e invece è volta ad abrogare norme di salvaguardia della fascia costiera interpretando allegramente una legge contro il Ppr .
Questo lessico ingannevole sta trionfando. In questa campagna elettorale, ovunque serva chiarezza sui programmi di governo del territorio trovi l' idea di conciliare tutto. Chiunque può passare per ecologista e ottenere consensi qua e là.
Sentite come risponde alla stampa un candidato sindaco alla domanda sulla pressione dei costruttori. «Mi batterò – premette – per la conservazione dell'esistente e la riqualificazione di vaste zone». E poi prosegue indicando il sito costiero per ubicarci volumi «... ma senza assalti alle coste» – esaltando il suo progetto per – «alberghi da costruire verso l'interno, nella pineta». Nella pineta? verso l'interno? Che si può immaginare chissà quanto lontano dal mare, e invece la pineta – vittima designata – confina con la spiaggia e si estende per 200 metri. Evidente che «senza assalti alle coste» vuol dire che non si metteranno i plinti dei palazzi sulla riva. (Non importa chi, dove, di che parte politica: conta la mancanza di adeguate reazioni).
Il Movimento Cinque Stelle ha certamente difetti, ampiamente segnalati dai commentatori, ma l'impressione è che abbia adottato un linguaggio chiaro e diretto, forse alla base del suo successo tra i più giovani elettori, meno disposti a farsi raggirare, e che sui temi delle trasformazioni dei luoghi sono molto attenti. Forse pure dal comico Grillo qualcosa da imparare c'è: per i partiti che dicono di volersi rinnovare.
Sotto il Vesuvio non ci vogliono pensare, agli scenari da incubo disegnati dagli esperti e a tutti i discorsi di questi giorni sulla prevenzione contro i disastri. Peggio: in Regione stanno discutendo su come rimuovere un po' di vincoli nella «zona rossa». Bollata da qualche sindaco come «una legge criminale che ha ucciso l'economia».È dal 19 marzo 1944 che il vulcano appare a riposo. Quando la statua di San Gennaro, racconta l'ufficiale inglese Norman Lewis nel libro «Napoli 1944», fu portata nella cittadina di San Sebastiano al Vesuvio nascosta sotto un lenzuolo, di riserva, pronta a fermare la lava, come avvenne, nel caso non fosse bastato l'intervento del santo patrono ufficiale, appunto San Sebastiano.
Fino ad allora, dall'Unità d'Italia il Vesuvio aveva già brontolato più o meno spaventosamente nel 1861, 1867, 1872 (quando era stato distrutto lo stesso paese di San Sebastiano), 1891-95, (quando si era formato il colle Margherita, 1895-99 (quando era nato il colle Umberto) e poi ancora nel 1906, quando era stata devastata Boscotrecase e infine nel 1929. Quelli che nel 1944 erano bambini, se lo ricordano bene, l'incubo. Ma lo hanno rimosso. E nonostante gli spaventi del sisma in Irpinia e del bradisismo a Pozzuoli, troppa gente vive da decenni il Vesuvio come se non fosse un vulcano, ma una montagna.
E vive dunque i vincoli imposti ai 18 comuni della «zona rossa» come un'angheria imposta alla povera gente dalla «politica». C'è un condono? Non si può usare. Ne arriva un altro? Non si può usare. Col risultato che un pò di politici ha individuato nella guerra alle regole antisismiche una strategia per andare a batter cassa dagli elettori. Come il sindaco di Sant'Anastasia, Carmine Esposito, che da anni si è auto-nominato nemico numero uno della «truffa confutabile a livello scientifico» e qualche settimana fa si è spinto ad affiggere manifesti che dicevano: «Zona rossa, finalmente si cambia». Posizione condivisa da qualche parlamentare come il senatore pidiellino Carlo Sarro che a fine marzo tuonò: «Quello che si sta consumando in Campania è un dramma culturale, una vicenda segnata da una profonda ingiustizia. Ci sono 67.000 sentenze di demolizione e questo fa capire come sia drammatica la situazione».
Tutte case abusive. Ma «le associazioni spesso continuano a diffondere l'idea che l'abusivismo è uguale a criminalità, ma è una mistificazione gigantesca. Dietro la scelta forzata di costruire case abusive ci sono sacrifici, investimenti frutto del lavoro di famiglie». Sono in zone ad altissimo rischio sismico? E vabbè… Ed ecco che proprio in questi giorni, come denuncia l'ex l'assessore Marco Di Lello, autore del progetto «Vesu-via» che dava 30mila euro a chi se ne andava comprando casa fuori dalla «zona rossa» e tolse tutti i benefici fiscali così da rendere più cari gli affitti e fare invecchiare il patrimonio edilizio e buttò giù qualcuna delle migliaia di opere abusive dentro il parco, in Regione discutono di un disegno di legge che spazzerebbe via una serie di vincoli.
Una leggina stupefacente. Soprattutto di questi tempi di lutti e macerie in Emilia. Non solo rimuove il vincolo di inedificabilità assoluta nella fascia di rispetto di un chilometro intorno all'antica Velia, nel parco del Cilento. Non solo stravolge il Piano Urbanistico Territoriale della penisola sorrentina limitando i vincoli alle spalle della Costiera Amalfitana nonostante sia un'area a forte rischio idrogeologico teatro di tragedie come qualche anno fa la frana di Nocera Inferiore. Ma, accusa Di Lello, deforma pesantemente «la legge regionale 21 del 2003 che sancisce il divieto assoluto di rilascio di titoli abilitativi (permessi a costruire, Scia e Dia) a fini abitativi nella zona rossa vesuviana così come perimetrata dalla Pianificazione d'emergenza della Protezione Civile». Per capirci, prendiamo le parole proprio di Carmine Esposito che si vanta del successo: «Non vogliamo aumentare il carico abitativo. Questo però non vieta la possibilità di fare nuove abitazioni nel rispetto idrogeologico del territorio» Sic… Di che genere di territorio si tratti lo lasciamo dire al vulcanologo Franco Barberi: «Non esiste al mondo una località a più alto rischio vulcanico, considerando l'abnorme concentrazione edilizia spintasi fino a poche centinaia di metri dal cratere».
Sostengono gli scienziati che da molti anni il vulcano è «tranquillissimo» ma «prima o poi dovremo fare i conti con una nuova eruzione». Il materiale incandescente se ne sta pressato a una profondità di otto chilometri. Questo sarebbe un bene e un male: prima di spingere forsennatamente verso l'alto per cercarsi una via d'uscita il magma dovrebbe dare dei segnali via via più chiari dando qualche tempo per l'evacuazione che, stando al piano della protezione civile del 2004, dovrebbe portar via 12 giorni. Basteranno? Erosa la spinta, lo strato di lava «salterebbe come un tappo di champagne».«Una volta aperto il condotto», scrive il vulcanologo Gianni Ricciardi dell'Osservatorio Vesuviano in un saggio che sta per essere pubblicato, «si formerà una colonna eruttiva che potrà raggiungere un'altezza di oltre dieci chilometri. La parte alta della colonna pliniana, meno densa, sarà spinta secondo la direzione dei venti prevalenti d'alta quota e da essa si avrà caduta di particelle al suolo. La parte bassa della colonna, più densa, collasserà generando correnti piroclastiche, che scorreranno, seguendo la morfologia, lungo i fianchi del vulcano, a grande velocità e con elevato potere distruttivo.
Probabili piogge indotte dalle perturbazioni delle condizioni atmosferiche causate dall'eruzione, potranno mobilizzare il materiale piroclastico depositato lungo le pendici del vulcano, provocando colate di fango e alluvionamenti durante e anche a eruzione finita».Un'apocalisse. La «zona rossa» dei 18 comuni circumvesuviani «è soggetta a distruzione pressoché totale, a causa dello scorrimento di correnti piroclastiche, colate di fango e alla ricaduta imponente di ceneri, bombe e lapilli». La «zona gialla», un migliaio di chilometri quadrati comprendenti 96 comuni di cui 34 della provincia di Napoli, 40 di quella di Avellino, 21 di quella di Salerno ed 1 della provincia di Benevento «potrebbe essere interessata da un'importante ricaduta di cenere e lapilli, con carichi superiori a 200 kg/m2». Da brividi.
Eppure, spiega lo scienziato nel suo lavoro intitolato «Le eruzioni del Vesuvio dal 1861 al 1944. Cosa ci aspetta?», quella «zona rossa» così pericolosa ha visto aumentare, incredibilmente, la sua popolazione. Lo scriveva già lo storico vesuviano Silvio Cola nel 1958: «Dopo l'ultima eruzione del 1944, il Vesuvio non ha dato più segno di attività, lasciando in una perfetta calma gli abitanti dei Paesi nascenti alle sue falde, i quali, per nulla preoccupati delle sorprese che potrebbe dare il terribile vulcano, quasi dappertutto, fanno sorgere, continuamente, grandi fabbricati e magnifiche ville».
Al primo censimento del 1861 la popolazione vesuviana era di 107.255 persone, concentrate quasi tutta sulla costa. Dieci anni fa, al censimento del 2001, erano 530.849. Oggi, secondo Ricciardi (anche se i dati provvisori dell'Istat non concordano) sarebbero 580.913. Hanno sotto gli occhi le rovine di Pompei, Ercolano, Oplontis. Hanno conosciuto dai nonni i racconti delle grandi paure di qualche decennio fa.Guardano il vulcano, sospirano e fanno spallucce.
Sul terremoto abbiamo alcune certezze.
La prima è che, purtroppo, tornerà. Quasi tutta l’Italia è, più o meno, sismica. E certo lo è il Mezzogiorno.
La seconda è che, quando tornerà un forte terremoto al Sud, i danni saranno terribili. E una delle vittime più massacrate sarà sicuramente il patrimonio storico e artistico monumentale.
La terza certezza è che questo si potrebbe evitare, almeno in misura significativa.
Se, nonostante tutto, abbiamo ancora il tessuto storico-architettonico che abbiamo, lo dobbiamo all’umile manutenzione assiduamente curata lungo i secoli. Una manutenzione che oggi è completamente trascurata: per mancanza di soldi, ma assai prima per mancanza di interesse per qualunque cosa non dia un immediato ritorno mediatico.
Oggi, anzi, il nostro patrimonio è ancora più esposto di cento o duecento anni fa. Perché è abbandonato, reso malsicuro dal dissesto dei suoli, non di rado appesantito e compromesso da ‘restauri’ moderni. Non è, per esempio, difficile immaginare che tutto il cemento improvvidamente iniettato nelle strutture delle chiese storiche di Napoli dopo il 1980 le condannerebbe a morte in caso di una nuova forte scossa sismica.
Dunque, che fare? Forse è venuto il tempo di dire che la vera Grande Opera che lo Stato dovrebbe mettere in campo per far ripartire l’economia meridionale è la messa in sicurezza del patrimonio storico e artistico. Sarebbe un investimento economico, sociale, intellettuale e morale.
E consentirebbe anche uno straordinario risparmio: di vite umane, di monumenti e di denaro. Il fiume di denaro che da decenni continuiamo a gettare per riparare ai gravissimi danni sismici che ci ostiniamo a non voler prevenire.
E, purtroppo, la quarta certezza è che nemmeno la lezione dell’Emilia servirà.
I «compiti a casa» il governo Monti li ha fatti, ma la crisi non si allontana. Visco parla al di sopra della mischia, ma pluade alla controriforma del mercato del lavoro La «prima» del governatore di Banca d'Italia. Mette in luce il deficit di Europa politica; approva il salvataggio delle banche; chiede di ridurre la pressione fiscale. Ma benedice la fine dello stato sociale
Bisogna saper stare all'altezza dei problemi, anche se la vertigine è a un passo dal prenderci. Bisogna capire e fare, non fuggire tornando a ciò che si conosce, al rassicurante piccolo mondo antico che non c'è più. E questo vale sia per chi - come il governatore della Banca d'Italia - dentro la realtà del mondo si muove per migliorarne l'efficienza, che per quanti, al contrario, si interrogano sui limiti, sulla caducità di questo «sistema», cercando di individuare i contorni del suo possibile esperimento.
La prima volta di Ignazio Visco in sede di presentazione delle «Considerazioni finali», da governatore, restituisce intanto questo invito a «mettersi all'altezza», fissando l'ostacolai sotto la quale non si «compete», ma si bofonchia. E viene da pensare che la scuola di Federico Caffè, scomparso 25 anni fa, rappresenta tuttora un esempio inegualiato di «eccellenza» scientifica (da lì sono usciti sia Visco che Mario Draghi; e tanti altri, anche tra «i nostri»).
Le Considerazioni hanno una struttura istituzionalizzata che per una volta ci sembra non utile rispettare. Il punto più alto è rappresentato infatti dal discorso sull'Europa, che nell'esposizione non è il primo.
L'Europa e l'Italia
L'eurozona, come «entità unitaria», sarebbe un colosso molto equilibrato: «ha conti con l'estero bilanciati, un disavanzo e un debito del settore pubblico poco sopra i limiti (3 e 90% del Pil); famiglie con una ricchezza finanziaria lorda 3 volte il reddito annuo disponibile, un debito delle imprese pari al prodotto di un anno». Ma è al centro dell'offensiva della «speculazione internazionale» per un solo motivo sistemico: «si avverte la mancanza di fondamentali caratteristiche di una federazione di Stati». C'è un mercato e una moneta unici, non c'è un potere politico centralizzato (e legittimato; ma questo Visco non può nemmeno lasciarlo pensare). I paesi più deboli, dunque, sono aggredibili come parti isolate da un tutto altrimenti potente.
Quei fondamentali sono ovvi: «processi decisionali che favoriscano l'adozione di politiche lungimirante», «risorse pubbliche comuni», «regole davvero condivise e azioni tempestive su sistema finanziario e banche». Prevale invece una «pericolosa tendenza alla rinazionalizzazione dei sistemi finanziari», che crea un doppio regime interno. «Questo rende alla lunga l'unione monetaria più difficile da sostenere».
Visco riconosce i tentativi fatti per «rafforzare la governance», ma «i processi decisionali» restano «condizionati dal metodo intergovernativo e dal principio dell'unanimità», che rende ogni scelta «lenta e farraginosa». E la Bce non può sostituirsi (troppo a lungo o troppo a fondo) alle istituzioni politiche. L'auspicato «cambio di passo» non si vede e quindi gli spread tra i rendimenti dei titoli dei diversi paesi possono divaricarsi in modo non corrispondente alla realtà davvero «unitaria» - sul piano dell'integrazione economica - della Ue. Al punto che gli spread «non sembrano tener conto di quanto è stato fatto», sia a livello comunitario che dei singoli paesi. Del resto, al centro della crisi vi sono i «dubbi crescenti degli investitori internazionali» su problemi più politici che economici, come «la coesione dei governi nell'orientare la riforma della governance europea». La «tenuta stessa dell'Unione monetaria» è in mano alla «politica», ai «governi», prima che alle istituzioni monetarie. La credibilità di un insieme malmesso è insomma un problema «non economico».
Il nodo, anche per Visco, è la «crescita che stenta». I suggerimenti, però, non vanno oltre «l'avvio immediato di progetti comuni e cofinanziati di investimento». Perché è vero che «sta ai paesi in difficoltà attuare le riforme strutturali», ma «sta ai paesi più forti aiutare questo processo, non ostacolando il riequilibrio». Un fendente educato a Bundesbank e fraü Merkel, probabilmente coordinato con i vertici della Bce.
Economia e politica monetaria
Sia chiaro: quelle «riforme» vengono benedette da via Nazionale, non ci sono incertezze. Il livello di blocco creditizio e produttivo, nello scorso autunno, era tale che «le condizioni per rinnovare il debito nei mesi invernali rischiavano di diventare proibitive». E quindi «dovevano» essere avviate sia le «incisive correzioni dei debiti pubblici» che le «riforme strutturali per la crescita». Su questo il nostro dissenso non può che restare radicale, perché non c'è nulla di «oggettivo» e «obbligato» nel modo di reperire risorse; anche il liberalissimo Einaudi, del resto, non avrebbea avuto problemi nel varare una «patrimoniale». Anziché strangolare i redditi più bassi.
E cancellare l'articolo 18 non produrrà un solo centesimo di Pil in più. Anzi, comprimendo di fatto salari e quindi i consumi (soprattutto quelli «necessari»), probabilmente contribuirà a ridurlo anche oltre quell'1,5% - per il 2012 - che anche Visco riconosce. Vuol dire recessione, per almeno altri tre trimestri oltre i tre già messi in cascina.
Banche e sistema finanziario
La crisi rischiava di accentuare oltre misura la «segmentazione del mercato interbancario lungo linee nazionali», anticipando e sollecitando risposte «populiste» nella stessa direzione. È stata tamponata quasi soltanto dalla Bce, prima con gli acquisti irrituali di titoli di stato dei paesi in difficoltà e poi con due maxi-operazioni di rifinanziamento che hanno portato 1.000 miliardi nelle casse della banche private. L'effetto è stato positivo, dice Visco, perché ha stabilizzato le attese dei mercati, per un po'. Ma ora «le tensioni sono riprese», e le banche rispondono riducendo il credito erogato a imprese e famiglie.
Pesa indirettamente anche la normativa di Basilea 3, che obbliga a requisiti di «riserva» molto più stringenti. La «chiave» per riprendere ad aumentare «le attività» viene quindi vista - anche qui - nella riduzione del «costo del lavoro, difficilmente compatibile con le prospettive di crescita» del sistema bancario.
Riforme e fisco
In definitiva, Bankitalia appoggia esplicitamente sia le scelte del governo Monti che quelle della Bce, perché «era urgente mettere il bilancio pubblico su una dinamica sostenibile» e «rianimare la capacità di crescita attraverso riforme strutturali». Ma è ormai ora di «rivedere le priorità di spesa a parità di saldo di bilancio, ad esempio a favore dell'istruzione e della ricerca». Anche perché «si è pagato il prezzo di un innalzamento della pressione fiscale a livelli non compatibili con una crescita sostenuta». E quindi «la sfida si sposta: occorre trovare, oltre a più ampi recuperi dell'evasione, tagli di spesa che compensino il necessario ridimensionamento del peso fiscale». La «logica tedesca» del rigore ha ormai toccato un limite oltre cui sta diventando un danno evidente. Ma le condizioni di vita della popolazione in tutti questi calcoli, costituiscono solo una variabile ininfluente. Il che non può essere accettato da nessuno.
L'Emilia Romagna è stata un mito per la mia generazione. L'aspetto più triste è ora constatare l'abbandono del territorio in una regione che ha avuto meriti immensi e un ruolo di avanguardia nella salvaguardia. In Italia, dal dopoguerra, è mancata una adeguata cultura del territorio, però c'erano le eccezioni. C’erano l'urbanistica di Bologna, l'urbanistica di Modena, le scuole di Reggio Emilia davano speranza, e si pensava: «dobbiamo assumere l'Emilia Romagna come un modello». Purtroppo anche l'Emilia Romagna si è normalizzata, è diventata come il resto d'Italia. Eppure, lo studio di Silvio Casucci e Paolo Liberatore pubblicato da Eddyburg mostra quanto ci è costata la mancanza di prevenzione: dal 1950 al 2009 il danno alle cose provocato dai terremoti è di 147 miliardi, quasi 3700 milioni di euro l'anno e le morti causate dai terremoti nello stesso periodo sono 4665.
Negli ultimi venti anni alluvioni e frane ci sono costate un miliardo e 200 milioni l’anno. Casucci e Liberatore calcolano che il costo delle catastrofi è in media ogni anno di cinque miliardi. L'Emilia Romagna ha un altro merito straordinario: fondò l'Istituto dei Beni culturali (Ibc). Per la prima volta si dimostrò con una azione pratica la dimensione culturale del territorio, l'importanza del patrimonio artistico minore. L'Istituto dei beni culturali fece un immane censimento del patrimonio storico artistico nei centri minori, concretizzando l'idea larga del bene culturale incardinato nel territorio, del legame profondo del bene culturale con il territorio che lo ha prodotto. Nel 1983 l'Istituto dei beni culturali organizzò una grande mostra dal titolo «I confini perduti»: le fotografie storiche della Raf (la Royal Air Force) scattate nel 1942 erano messe a confronto con fotografie dell'epoca. Quella mostra fece una impressione drammatica, era in assoluto la prima denuncia dello sprawl, del consumo di territorio determinato dallo sparpagliamento degli insediamenti.
Oggi l'Emilia Romagna non esprime più questa leadership culturale, eppure nella prima metà degli anni Settanta l’aver posto il tema della salvaguardia dei centri storici è stato un merito indiscusso della amministrazione bolognese. Il piano per il recupero del centro di Bologna di Pier Luigi Cervellati del 1973 fece il giro del mondo, Bologna diventò la capitale del recupero: era nata la moderna cultura del recupero ed era nata a Bologna, era italiana. Ora, purtroppo, anche questo è in discussione e nel centro storico di Bologna si ammettono le sostituzioni edilizie, rinnegando una pagina fra le più belle della nostra storia recente.
Ma l'Emilia non è L'Aquila. A L'Aquila il disastro è stato probabilmente l'acceleratore di un declino irreversibile. Dopo tre anni si discute come se fossimo a tre settimane dal sisma e, probabilmente, la città - è doloroso dirlo - non si risolleverà. In Emilia, all'opposto, c'è un grande dinamica sociale, economica e produttiva, c'è un tessuto civile che è il migliore d'Italia. Gli stessi lutti di due giorni fa sono stati provocati dalla straordinaria spinta a ricominciare. In questo caso la catastrofe potrebbe, come altre volte è avvenuto nella storia, essere occasione di un grande scatto di orgoglio e di dignità per riprendere l'iniziativa da tutti i punti di vista. Forse è azzardato, è fuori scala, fare paragoni con la ricostruzione del dopoguerra, però se c'è un posto dal quale ci si può aspettare un'impennata, questo è l'Emilia. È rincuorante sentire gli amministratori dichiarare «ce la faremo», «ci rimetteremo in piedi». Il riscatto sarà possibile se lo sforzo delle popolazioni terremotate sarà fortemente sostenuto dalle autorità locali (da parte delle quali un po' di autocritica non sarebbe male), dall'azione del governo nazionale, dall'opinione pubblica. E
dall’impennata dell’Emilia potrà partire il riscatto di tutto il paese.
C'è chi si è reinventato la filiera della carne per trattare meglio gli animali, nutrirli in maniera più naturale, vendere tutta la bestia per evitare gli sprechi da macello e fare al contempo un prodotto più sano e più buono: ora gli allevatori fanno la fila per entrare in questo circuito virtuoso. C´è chi ha messo su un gruppo d'acquisto. C´è chi ha lasciato la città, un lavoro "sicuro", ed è andato a fare il pastore transumante o il coltivatore di antiche varietà di frutta e di verdura. C´è chi nell´azienda agricola dei suoi genitori ha convertito tutto al biologico e vi ha inaugurato un asilo nido rurale. Ci sono giovani e meno giovani che hanno aperto ristoranti dove si servono quasi esclusivamente prodotti locali, comprati da fornitori amici; altri ristoratori che hanno fatto un orto per avere prodotti freschissimi e di stagione: hanno tutti reinventato la propria cucina in base a questi ingredienti. Abbiamo chi vende i propri prodotti su Internet o direttamente in azienda per saltare troppi viaggi poco sostenibili e troppe mediazioni sconvenienti. Intanto sono migliaia i cittadini che tengono corsi nelle scuole, che fanno informazione come volontari durante le manifestazioni, alcuni hanno scritto manuali di educazione alimentare ed ecologica molto innovativi. E sono milioni quelli che nel mondo hanno cambiato anche soltanto una piccola abitudine insostenibile che avevano nel fare la spesa.
L'elenco potrebbe continuare e occupare tutto il giornale, tanto più se lo allargo agli altri Paesi: non faccio nomi per non fare torti, ma i protagonisti si riconosceranno, e li ringrazio. Li conosco perché fanno parte di reti e associazioni, e agiscono individualmente tramite piccole aziende familiari o quando acquistano il cibo. Sono tutti collegati in qualche modo tra di loro, anche in maniera invisibile. Sono tantissimi quelli che negli ultimi anni si sono dedicati alle buone pratiche agricole e alimentari, ciò che gioco-forza rappresenterà il nostro futuro. Hanno messo al centro delle loro vite quello che mangiano e stanno dimostrando che con il cibo si può fare buona economia, produrre e consumare in maniera sostenibile, ridare fiato a un Pianeta sempre più alle corde. Chi crede che tutto questo faccia parte di una bella utopia presto si dovrà ricredere.
In occasione della Giornata Mondiale dell'Ambiente del 5 giugno, e a maggior ragione mentre la comunità internazionale si appresta a riunirsi a Rio de Janeiro per la conferenza "Rio + 20" sullo sviluppo sostenibile (20-22 giugno), queste persone rappresentano già il cambiamento, qualcosa di forse ancora un po´ sommerso ma molto concreto: anticorpi che si stanno diffondendo contro i virus della crisi. Sono a pieno titolo parte di quella che si vuole chiamare "Green Economy". Io non ho simpatia per queste definizioni perché spesso sono limitative o fuorvianti, con la Green Economy si rischia di pensare soltanto a chi installa pannelli fotovoltaici e pale eoliche, a chi lavora con le energie alternative, fa innovazione per mettere a disposizione delle aziende e dei cittadini nuove tecnologie "verdi". Tutto eccezionale, tutto benvenuto, ma non facciamo l'errore della vecchia economia che pensa a compartimenti stagni e li tiene separati. La Green Economy sarà tale soltanto se riferita a un sistema complesso, che parte dal cibo e che ha implicazioni non solo ecologiche ma anche sociali, culturali; arrivo a dire esistenziali.
Per me, e per tanti altri nel mondo, Green Economy è per esempio ricostruire quei sistemi locali fatti anche di piccoli esercizi commerciali, di panettieri e salumai, di gente che re-impara il savoir-faire del cibo e lo mette a disposizione della comunità. Nuove filiere del cibo, ri-educazione alimentare. Gente che ritrova un senso in un mestiere, che rimette in piedi la socialità attorno al suo laboratorio, negozio, fattoria, mercato, osteria. Non è nostalgia del passato: per esempio mi chiedo che Green Economy sarà se non si recuperano i borghi, li si ripopola e li si fornisce dei servizi essenziali, dei negozi, di una nuova ruralità. Senza che s´investa nelle ristrutturazioni e nel riparare o prevenire i danni di disastri naturali sempre più frequenti. Che ne sarà del cibo senza che si fermi il consumo di suolo libero, delle nostre città senza il verde, anche un verde produttivo, o senza gli esercizi commerciali di quartiere, i mercati contadini, l'agricoltura di prossimità. Non si fa Green Economy solo con il solare e l´eolico o solo con il biologico; non si fa Green Economy solo con la "chimica verde" o con un mercato contadino. Si fa Green Economy con un nuovo paradigma che ci riguarda tutti e che può diventare un´opportunità di fronte ai dati allarmanti sul cambiamento climatico e alle tremende crisi economico-finanziarie.
Ma bisogna educarsi, avere memoria del passato, imparare cose nuove, avere coraggio e creatività. Bisogna ricostruire un sistema intero e lo si può fare soltanto se si guarda oltre al proprio ambito, se si capisce per esempio che il cibo è la rappresentazione principale di questo sistema e che anche con un piccolo cambio di dieta, con un semplice acquisto, si può davvero cambiare il mondo e fare un´economia diversa, "new" o "green" che sia. Proprio per cambiare dieta segnalo la nuova guida al consumo responsabile di Slow Food, "Fulmini e Polpette", con tema il cambiamento climatico. È gratis e si può scaricare dal sito www.slowfood.it/slowfoodday. Al suo interno ci sono tante facili buone pratiche che possiamo fare nostre, con piacere e per fortuna senza essere soli, ma molto ben accompagnati.
C'è chi si è reinventato la filiera della carne per trattare meglio gli animali, nutrirli in maniera più naturale, vendere tutta la bestia per evitare gli sprechi da macello e fare al contempo un prodotto più sano e più buono: ora gli allevatori fanno la fila per entrare in questo circuito virtuoso. C'è chi ha messo su un gruppo d'acquisto. C'è chi ha lasciato la città, un lavoro "sicuro", ed è andato a fare il pastore transumante o il coltivatore di antiche varietà di frutta e di verdura. C'è chi nell'azienda agricola dei suoi genitori ha convertito tutto al biologico e vi ha inaugurato un asilo nido rurale. Ci sono giovani e meno giovani che hanno aperto ristoranti dove si servono quasi esclusivamente prodotti locali, comprati da fornitori amici; altri ristoratori che hanno fatto un orto per avere prodotti freschissimi e di stagione: hanno tutti reinventato la propria cucina in base a questi ingredienti. Abbiamo chi vende i propri prodotti su Internet o direttamente in azienda per saltare troppi viaggi poco sostenibili e troppe mediazioni sconvenienti. Intanto sono migliaia i cittadini che tengono corsi nelle scuole, che fanno informazione come volontari durante le manifestazioni, alcuni hanno scritto manuali di educazione alimentare ed ecologica molto innovativi. E sono milioni quelli che nel mondo hanno cambiato anche soltanto una piccola abitudine insostenibile che avevano nel fare la spesa.
L'elenco potrebbe continuare e occupare tutto il giornale, tanto più se lo allargo agli altri Paesi: non faccio nomi per non fare torti, ma i protagonisti si riconosceranno, e li ringrazio. Li conosco perché fanno parte di reti e associazioni, e agiscono individualmente tramite piccole aziende familiari o quando acquistano il cibo. Sono tutti collegati in qualche modo tra di loro, anche in maniera invisibile. Sono tantissimi quelli che negli ultimi anni si sono dedicati alle buone pratiche agricole e alimentari, ciò che gioco-forza rappresenterà il nostro futuro. Hanno messo al centro delle loro vite quello che mangiano e stanno dimostrando che con il cibo si può fare buona economia, produrre e consumare in maniera sostenibile, ridare fiato a un Pianeta sempre più alle corde. Chi crede che tutto questo faccia parte di una bella utopia presto si dovrà ricredere.
In occasione della Giornata Mondiale dell'Ambiente del 5 giugno, e a maggior ragione mentre la comunità internazionale si appresta a riunirsi a Rio de Janeiro per la conferenza "Rio + 20" sullo sviluppo sostenibile (20-22 giugno), queste persone rappresentano già il cambiamento, qualcosa di forse ancora un po´ sommerso ma molto concreto: anticorpi che si stanno diffondendo contro i virus della crisi. Sono a pieno titolo parte di quella che si vuole chiamare "Green Economy". Io non ho simpatia per queste definizioni perché spesso sono limitative o fuorvianti, con la Green Economy si rischia di pensare soltanto a chi installa pannelli fotovoltaici e pale eoliche, a chi lavora con le energie alternative, fa innovazione per mettere a disposizione delle aziende e dei cittadini nuove tecnologie "verdi". Tutto eccezionale, tutto benvenuto, ma non facciamo l'errore della vecchia economia che pensa a compartimenti stagni e li tiene separati. La Green Economy sarà tale soltanto se riferita a un sistema complesso, che parte dal cibo e che ha implicazioni non solo ecologiche ma anche sociali, culturali; arrivo a dire esistenziali.
Per me, e per tanti altri nel mondo, Green Economy è per esempio ricostruire quei sistemi locali fatti anche di piccoli esercizi commerciali, di panettieri e salumai, di gente che re-impara il savoir-faire del cibo e lo mette a disposizione della comunità. Nuove filiere del cibo, ri-educazione alimentare. Gente che ritrova un senso in un mestiere, che rimette in piedi la socialità attorno al suo laboratorio, negozio, fattoria, mercato, osteria. Non è nostalgia del passato: per esempio mi chiedo che Green Economy sarà se non si recuperano i borghi, li si ripopola e li si fornisce dei servizi essenziali, dei negozi, di una nuova ruralità. Senza che s´investa nelle ristrutturazioni e nel riparare o prevenire i danni di disastri naturali sempre più frequenti. Che ne sarà del cibo senza che si fermi il consumo di suolo libero, delle nostre città senza il verde, anche un verde produttivo, o senza gli esercizi commerciali di quartiere, i mercati contadini, l'agricoltura di prossimità. Non si fa Green Economy solo con il solare e l'eolico o solo con il biologico; non si fa Green Economy solo con la "chimica verde" o con un mercato contadino. Si fa Green Economy con un nuovo paradigma che ci riguarda tutti e che può diventare un´opportunità di fronte ai dati allarmanti sul cambiamento climatico e alle tremende crisi economico-finanziarie.
Ma bisogna educarsi, avere memoria del passato, imparare cose nuove, avere coraggio e creatività. Bisogna ricostruire un sistema intero e lo si può fare soltanto se si guarda oltre al proprio ambito, se si capisce per esempio che il cibo è la rappresentazione principale di questo sistema e che anche con un piccolo cambio di dieta, con un semplice acquisto, si può davvero cambiare il mondo e fare un´economia diversa, "new" o "green" che sia. Proprio per cambiare dieta segnalo la nuova guida al consumo responsabile di Slow Food, "Fulmini e Polpette", con tema il cambiamento climatico. È gratis e si può scaricare dal sito www.slowfood.it/slowfoodday. Al suo interno ci sono tante facili buone pratiche che possiamo fare nostre, con piacere e per fortuna senza essere soli, ma molto ben accompagnati.
Anche stavolta, pur di non fare i conti con lo sviluppo dissennato del territorio italiano e delle conseguenze che paghiamo in termini di perdita di vite umane, di distruzione di patrimonio storico e produttivo, si è messa in moto la gigantesca macchina della fuga dalle responsabilità. Di fronte al crollo di interi capannoni industriali con pochi anni di vita alle spalle ecco la scappatoia: si è saputo che l'area era sismica soltanto da un decennio e i capannoni crollati erano precedenti a quella data. Le colpe, dunque, sono di tutti e di nessuno. Non è così. È noto che chi progetta strutture impegnative, come i grandi capannoni industriali, usa ogni prudenza a prescindere dalla sussistenza del rischio sismico. Se il rischio sismico esiste si usano certo cautele e verifiche più complesse e sofisticate, ma è inspiegabile che ci siano stati crolli. Potevano esserci lesioni, cedimenti, ma crolli no perché l'intensità dell'evento non è stata enorme.
Ma la furbesca attribuzione di ogni evento che devasta l'Italia a «tragiche fatalità» una volta tanto ritorna a sfavore dei corifei del tutti responsabili, nessun colpevole.
Se è vero quanto hanno incautamente affermato, e cioè che i capannoni sono crollati perché calcolati sulla base di assenza di terremoto che poi si è verificato, è anche vero che un paese che guarda al proprio futuro doveva porre in essere un piano sistematico di messa in sicurezza dell'esistente. Si è fermata una parte importante del motore produttivo italiano e non si è fatto nulla in via preventiva per proteggerlo. Ancora più grave, se possibile, la questione dell'edilizia storica e abitativa. In questo caso è scontato che essa sia stata prevalentemente realizzata con concezioni e tecnologie inadatte a sopportare i terremoti. Sono decenni che la miglior cultura italiana, le grandi associazioni di difesa del territorio e ambientaliste chiedono, proprio sulla base di questa constatazione, di metterlo in sicurezza. E invece nulla, si continua a espandere le città, a sciupare prezioso territorio agricolo. Poi tutto va a terra e «non ci sono i soldi per risanare e ricostruire».
Non c'è una sola voce - a eccezione forse del ministro Clini - che affermi con la forza necessaria che l'unico modo per far uscire il paese dalla crisi economica in cui lo ha cacciato il liberismo senza regole, è quello di avviare un gigantesco processo di piccole opere che recuperino e mettano in sicurezza città e territori.
Pochi giorni fa, invece, è stato dato il via al piano (l'ennesimo) per le grandi opere per un importo di 100 miliardi. Dietro ognuna di queste opere ci sono le stesse fameliche imprese - tipo Ponzellini-Impregilo, per capirci - che posseggono giornali che strillano su un paese fermo a causa della burocrazia. Tra le opere finanziate, manco a dirlo, ci sono opere inutili come l'autostrada Roma-Latina, la nona tranche di finanziamento al grande scempio ambientale del Mose di Venezia e tante altre. Si continua con le stesse politiche che hanno portato all'attuale disastro. L'assetto anarchico del territorio non è stato causato dall'eccesso di regole: è figlio della cancellazione delle regole e della cultura dello sviluppo senza limiti e delle grandi opere.
È ora di prendere atto che i limiti esistono. Due anni fa il Centro studi dei geologi e il Cresme avevano stimato in sette milioni gli edifici a rischio. Da allora non è stato fatto nulla e il governo continua ad annunciare il «piano città». Per essere efficace questo piano dovrà prevedere sostanziali prerogative pubbliche perché ci vogliono risorse vere per avviare la ripresa. E dovrà affermare due semplici verità: è finita la fase della crescita urbana perché non la possiamo sostenere economicamente e bisogna mettere in sicurezza e innovare dal punto di vista energetico quello che già esiste.
«Avvezza la popolazione di Reggio e della provincia alle scosse di tremuoti, sembra ad ognuno che avrebbe dovuto pensare ad un modo onde formare le case in guisa che le parti avessero la massima coesione e il minimo peso. Or qui si vedeva precisamente il contrario...». Sono trascorsi oltre due secoli da quel 1783 in cui la Commissione Accademica napoletana stese quel rapporto denunciando che in Calabria, nonostante tanti terremoti, si continuava a costruire senza alcun criterio. E altri due secoli erano già passati allora dalla catastrofe di Ferrara del 1570-1574 e dal progetto della prima casa antisismica disegnato da Pirro Ligorio. Eppure, gran parte delle polemiche di oggi ruota intorno alla scelta di non cancellare la cerimonia del 2 Giugno, scelta difesa da Giorgio Napolitano con una motivazione sensata: «Non possiamo piangerci addosso, dobbiamo dare messaggi di fiducia». Ogni dissenso, si capisce, è legittimo. Ma l'esaltazione online di Arnaldo Forlani, benedetto per avere lui sì sospeso la celebrazione dopo il terremoto in Friuli, è così pelosa e strumentale da gettare un'ombra perfino sulle migliori buone intenzioni. E rischia di fare chiasso mettendo in secondo piano il tema vero: non ne possiamo più di piangere i lutti causati da «fatalità» talvolta imprevedibili (non sempre: talvolta), ma i cui danni vengono moltiplicati da un vuoto inaccettabile nella cultura della prevenzione.
Che dei ladri possano rubare un chilometro di fili di rame isolando l'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia nei giorni della crisi sismica in Emilia manda il sangue alla testa. Ma lì siamo nell'ambito della criminalità più stolta. Molto più gravi sono le responsabilità di chi negli anni si è opposto a ogni irrigidimento (norme più facili ma rigide) sulla sicurezza. Nella convinzione che non valesse la pena di infastidire i cittadini e le aziende, obbligati a spendere di più senza essere mai stati informati dei rischi che correvano. Un errore suicida. Per decenni, finché la natura non tornava a ricordare con nuove distruzioni come le catastrofi del passato possano ripetersi, la grande maggioranza degli amministratori nazionali e locali ha preferito costantemente derubricare i rischi sismici, geologici, ambientali di questo e quel territorio piuttosto che affrontare la realtà. C'è un saggio («La classificazione e la normativa sismica italiana dal 1909 al 1984» di autori vari) che spiega tutto: la mappa delle aree pericolose è stata composta di scossa in scossa. Con l'aggiunta via via di Messina e Reggio nel 1908, di Avezzano e della Marsica nel 1915, del Riminese nel 1916, della Val Tiberina nel 1917, del Mugello nel 1919, della Garfagnana nel 1920 e avanti così... Come se lo Stato si rassegnasse a riconoscere man mano, quando era ormai impossibile continuare a negarlo, ciò che non solo gli studiosi ma i vecchi abitanti dei luoghi sapevano.
E questo processo, con il rattoppo continuo delle mappe delle zone a rischio, è proseguito fino ai nostri giorni. Senza che mai venisse definita una mappa finale che non fosse una pura accumulazione di variegate mappe precedenti. E una seccatura, finché non crollano il campanile, le case e i capannoni, accettare la definizione di area sismica più o meno esposta al pericolo. E più facile scacciare il pensiero confidando nella buona sorte. Valga per tutti il manifesto affisso nel 2010 a Ischia, dove chi ricorda il terremoto di Casamicciola del 1883 è considerato nemico del turismo: «Sulla scheda elettorale scrivi: voto abusivo». E come dimenticare l'ospedale di Agrigento costruito con materiali di scarsa qualità senza rispettare le regole? La scuola di San Giuliano di Puglia o la Casa dello studente dell'Aquila collassate perché erano state tirate su in modo scriteriato? La polemica contro Bassolino del sindaco di San Sebastiano al Vesuvio furente perché il «Piano casa» della destra con le sue abolizioni di lacci e lacciuoli non era esteso alla «zona rossa» sotto il vulcano per la quale invocava «almeno di realizzare i sottotetti a copertura degli immobili esistenti»? O ancora quel comma dello stesso «Piano casa» che prevedeva, prima di essere abolito la mattina stessa del terremoto abruzzese, «semplificazioni in materia antisismica» che fissavano solo «modalità di controllo successivo anche come metodi a campione»?
È come se decine di disastri non ci avessero insegnato niente. Spiega lo studio «Societal landslide and flood risk in Italy» pubblicato nel 2010 sul «Natural Hazard and Earth System Sciences» da Salvati, Bianchi, Rossi e Guzzetti e ripreso da Silvio Casucci e Paolo Liberatore del «Cles», che «nel corso degli ultimi 60 anni circa (1950-2008) sono stati rilevati in Italia rispettivamente 967 eventi franosi e 613 eventi alluvionali» con danni alla popolazione. In media, ogni frana «ha causato oltre 4 fatalities (morti e dispersi), mentre un'alluvione circa 2». Facciamo due conti? Oltre cinquemila morti. Più quelli causati dai terremoti e da altri disastri naturali che la studiosa Emanuela Guidoboni (cui è stato chiesto finalmente dalle autorità fino a ieri sorde come mai avesse scritto l'anno scorso il libro «Terremoti a Ferrara e nel suo territorio: un rischio sottovalutato») ha calcolato in almeno 200 mila dall'unità d'Italia ad oggi. Quanto ai danni patrimoniali, prendiamo i dati (per qualcuno sottostimati) di un rapporto della Protezione civile del settembre 2010: «I terremoti che hanno colpito la Penisola hanno causato danni economici consistenti, valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro (a prezzi 2005), che sono stati impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale. (...).
Attualizzando tale valore, si ottiene un valore orientativo complessivo dei danni causati da eventi sismici in Italia pari a circa 147 miliardi e, di conseguenza, un valore medio annuo pari a 3.672 milioni di euro». Una montagna di soldi. Soprattutto se messi a confronto con quanto stimò un giorno Guido Bertolaso: «Per mettere in sicurezza tutto il nostro Paese occorrerebbero tra i 20 e i 25 miliardi di euro». Quante vite, quanti strazi, quante rovine ci saremmo risparmiati affrontando la vera grande emergenza di questo Paese, e cioè uscire dalla cultura dell'emergenza? Certo, la mazzata di questi giorni colpisce duro un Paese già in difficoltà. La storia del Friuli, che seppe reagire al terremoto del 1976 e non si lasciò demoralizzare e ricostruì le fabbriche e insieme, mattone su mattone, il duomo di Venzone e tutti i centri storici devastati, è però di luminoso incoraggiamento. I friulani non si limitarono a rimettere a posto le pietre delle chiese e far ripartire i macchinari delle fabbriche. Approfittarono della catastrofe per darsi nuove regole nell'edilizia, far rivivere i centri storici, rilanciare le loro imprese, allargare la loro economia. E chissà che un giorno non possiamo ricordare il dolore di queste settimane come punto di partenza di una rinascita.
La storia del trasloco dell'Istituto dei Tumori e del neurologico Besta è un'odissea lunga dodici anni scandita da annunci politici, plastici finiti chissà dove e progetti finanziati con soldi pubblici e mai decollati.È una domenica pomeriggio del 2 luglio del Duemila quando gli allora ministro della Salute (Umberto Veronesi), assessore alla Sanità (Carlo Borsani) e sindaco (Gabriele Albertini) si vedono in via Ripamonti per una riunione riservata. L'esito dell'incontro fa decollare per la prima volta il trasloco dell'Istituto dei Tumori — destinato a trasferirsi nell'ex Maserati di Lambrate — e del neurologico Besta — che doveva (ri)sorgere entro il 2009 alla Bicocca su un'area ex Pirelli —. Dodici anni e innumerevoli conferenze stampa dopo, i due istituti sono ancora in cerca di una (nuova) casa.
Eppure. È sempre il luglio del Duemila quando Borsani lancia l'allarme: «L'Istituto dei Tumori in via Venezian rischia di soffocare»; e lo stesso vale per il neurologico Besta che — a colpi di slogan del tipo «Valorizzare questo istituto è un dovere per l'Italia» — viene addirittura riprodotto nella nuova sede in un plastico, presentato nel 2005 davanti a due ministri (Girolamo Sirchia e Roberto Maroni) e svariate altre autorità. Di anno in anno, la frase «il progetto è ormai esecutivo» è stata pronunciata troppe volte per riuscire a contarle. Così succede anche nel settembre 2010 quando — con la firma dell'atto esecutivo su quella che nel frattempo è diventata la «Città della Salute di Vialba» — viene detto: «È stata imboccata la strada del non ritorno».
E i soldi pubblici spesi per i progetti abbandonati? È Alessandro Moneta, ai tempi della sua presidenza al Besta ad assicurare: «Il progetto già pronto per la Bicocca potrà essere clonato per la nuova destinazione del neurologico Besta. È come una bella scatola che può essere posizionata in qualsiasi luogo». Il concetto è stato ripetuto, poi, per lo studio realizzato dal consorzio creato per realizzare la Città della Salute, guidato da Luigi Roth e sciolto dopo essere costato un milione e mezzo di euro: «Il documento elaborato resta, comunque, utile», viene assicurato lo scorso dicembre.
A gennaio, dopo che anche l'idea di unire Tumori, Besta e Sacco in Vialba finisce affossata sotto il peso di costi troppo alti e collegamenti viabilistici scarsi, si ritorna al punto di partenza: dove fare sorgere la Città della Salute (dalla quale nel frattempo è stato depennato il Sacco)?Di qui il balletto delle aree degli ultimi sei mesi: con il comune di Milano che propone la caserma Perrucchetti di piazza d'Armi e il sindaco di Sesto San Giovanni che offre l'ex area Falck.
Arriva, poi, un altro colpo di scena. Mentre la politica non decide, una lettera firmata da operatori della sanità, tra cui Alessandra Kustermann e Giuseppe Landonio, insidia addirittura dubbi sull'utilità stessa della realizzazione della Città della Salute: «Con il trasferimento solo dei due istituti scientifici, c'è da domandarsi se una simile fusione valga davvero la candela e risponda alle esigenze dei malati e degli operatori — scrivono i medici —. Le consonanze tra Istituto Tumori e Neurologico sono del tutto marginali, e la loro fusione non otterrebbe reali miglioramenti degli assetti di base dei due presidi. L'uno non risolverebbe i problemi dell'altro, e anche le prospettive di ricerca comuni riguardano campi solo marginali. È proprio la mancanza di un grande ospedale, con tutte le strutture di base e i supporti necessari, a rendere discutibile l'operazione». Di ieri lo strappo del sindaco Pisapia che fa sorgere l'ennesima domanda: il 13 giugno il governatore Roberto Formigoni riuscirà davvero — come annunciato — a chiudere la partita?
postilla
Premessa: la notizia (che ovviamente campeggia con evidenza sulle edizioni locali dei giornali) è che a Milano il sindaco Pisapia manda al diavolo il presidente della Regione Formigoni dicendo che sul polo sanitario non si può decidere come se si trattasse solo di una questione urbanistica. Il che sarebbe una non-notizia in un paese civile, e neppure su questo sito, che ormai da qualche anno ribadisce la stessa cosa: un quartiere dedicato alla ricerca medica e alla salute parte da obiettivi scientifici, organizzativi, di servizio, e poi si inserisce adeguatamente (con tutti gli adattamenti del caso) nel contesto spaziale locale. La garbatamente spietata cronologia proposta in un angolino di pagina da Simona Ravizza sul Corriere, ribadisce invece l’esatto contrario, e scorrendo i nomi dei protagonisti forse si intuisce anche un po’ perché. Oggi, per fortuna, uno dei vari poteri coinvolti dice per la prima volta che il re è nudo. A un anno esatto dall’insediamento della nuova giunta di centrosinistra a Milano, con tutte le riserve del caso, è uno dei segnali di cambiamento: forse non si torna ancora in Europa, ma almeno si prova a uscire dal letamaio surreale dei signori della guerra tra bande (f.b.)
Titolo originale: Social mobility - on the spot – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Le attuali discussioni sulla mobilità sociale sembrano non coglierne un aspetto essenziale. Viene definita in quanto possibilità e capacità di uscire da uno stato di povertà, per entrare in una fascia sociale “più alta”. In altre parole siamo ancora all’idea di meritocrazia secondo cui, per usare una frase rivelatrice di Peter Hain: “Facciamo dei buchi nella società attraverso cui qualcuno riesce a sgattaiolare, e lo consideriamo un successo”.Una definizione angusta di mobilità sociale, e pericolosa. Concentrandoci su quel 20% che “sta in cima”, come spesso succede, alimentiamo sempre più delusione e frustrazione nel rimanente 80%, con effetti potenzialmente disastrosi. Una delle conseguenze inattese delle scelte progressiste del dopoguerra è stata di consentire ai giovani con più capacità e iniziativa di abbandonare I quartieri “difficili” dei centri città del paese. Che si tratti della legge del 1944 coi criteri di valutazione scolastica per gli assegnatari, delle trasformazioni urbane, della vendita di case pubbliche, tutte le varie scelte hanno spinto ad aumentare gli squilibri.
Il che è andato bene per pochissimi, che se ne sono andati dalle loro zone lasciandole senza una classe dirigente e sempre più senza speranza di trasformazione: ed entrambi gli aspetti sono possenti catalizzatori di comportamento antisociale. Abbiamo così enormi zone urbane nelle quali chi potrebbe operare per un miglioramento mira invece ad andarsene. Pochi insegnanti che abitano vicino alle scuole centrali in cui insegnano, nessun avvocato accanto ai suoi clienti poveri, i pochi preziosi dottori a cui capita di abitare nei pressi degli ambulatori, praticamente nessun poliziotto con la casa nelle zone difficili che pattuglia, addirittura parroci e predicatori che oggi tendono a stare lontani dalle comunità delle proprie chiese. Fanno parte della medesima tendenza anche gli amministratori. Basta dare un’occhiata ai collegi con popolazioni a basso reddito di Leeds per vedere che oltre la metà degli eletti laburisti risiede in lontani verdeggianti suburbi, e non nelle zone che rappresentano (in cinque casi sul sito del comune non ci sono neppure gli indirizzi). Per dimostrare che non sono di parte, anche due dei tre consiglieri liberaldemocratici che rappresentavano le circoscrizioni di Burmantofts e Richmond Hill abitavano nei verdeggianti lontani suburbi.
Nel 1981 ai tempi delle rivolte nei quartieri di Brixton, Bristol e altri luoghi, la più incisiva analisi delle motivazioni fu pubblicata dall ’Economist. L’articolo era di Nick Harmon, residente a Brixton,e sottolineava come le aree delle rivolte avessero avuto le quote maggiori di investimenti pubblici in servizi vari rispetto al resto del paese. Era invece mancata una leadership locale. Ovvero chi poteva andarsene lo faceva di corsa. Letteralmente:
“ Uno degli aspetti comuni fra le zone delle rivolte è che tutte hanno sofferto per decenni l’assenza totale della politica e della cultura, sparite insieme alle persone più preparate dei quartieri. Le amministrazioni locali hanno usato le risorse del governo centrale per comprarsi gli spazi, a volte anche con l’esproprio, di chiunque avesse interessi economici nelle zone – proprietari di case, gestori di negozi, affittuari, piccoli imprenditori – e tutto andava ad alimentare i grandi progetti di trasformazione urbana. Sono queste persone ad essere le prime a cui vengono offerti dei soldi, e trattamenti di favore per un nuovo alloggio, se escono da un’area, magari proprio perché sono i cittadini più indipendenti e mobili. Con l’effetto di spezzare legami sociali ed economici che tengono unita la comunità, e fungono anche da strumenti di autocontrollo”.
Le scelte attuali confermano quel genere di impostazione. L’immagine proposta è che successo corrisponde a trasferimento, anziché partecipare attivamente a cambiare. Finché le nostre politiche non saranno concepite per aiutare e sostenere lo sviluppo di quartieri diversificati, solidi, inclusivi, la mobilità sociale sarà una contraddizione. Lo si può fare attraverso scelte economiche, per la casa, l’istruzione, l’urbanistica, in grado di sostenere i potenziali leaders a restare. La nostra società ha bisogno di consapevolezza, oltre che di mobilità.
Michael Meadowcroftè stato amministratore a Leeds e parlamentare liberale negli anni ’80.
Il sisma ha ucciso altri quattro lavoratori. I capannoni industriali sono crollati di nuovo in Emilia, dopo il secondoforte terremoto di stamane, dopo quello del 20 maggio, con epicentro stavolta nel modenese, a Medollae aMirandola, cittadina che proprio ieri aveva accolto le parole del capo dello StatoGiorgio Napolitano("Nessuno sarà lasciato solo").
Ad oggi, infatti, nella cittadina modenese, che diede in natali al celebre filosofo Pico, cento anni prima del più grande terremoto (nel 1.570) che si ricordi da queste parti, i danni stimati per 150 aziende dalle scosse di nemmeno dieci giorni fa superano i 600.000 euro, mentre 4.000 persone sono state messe in cassa integrazione. Tanti, troppi lavoratori lasciati a casa, in uno dei distretti più attivi nella regione e in Italia, cuore nazionale del biomedicale, assieme al ceramico.
Ma la natura non ascolta. E le nuove scosse di stamattina hanno fatto cedere altri capannoni come un castello di carta, provocando danni a molte strutture dell’area che saranno valutati con una maggiore puntualità solo nei prossimi giorni. Intanto la produzione di molte aziende è stata fermata e i lavoratori lasciati, precauzionalmente, a casa. A rischio i rifornimenti di prodotti ai pazienti per alcune patologie, in particolare la dialisi, secondo Stefano Rimondi, presidente di Assobiomedica.
Eppure il presidente di Confidustria,Giorgio Squinzi, oggi ha ricordato che questi capannoni non sono affatto di carta velina. Anzi. "Quelli nel settore della ceramica erano signori capannoni, costruiti con tutti i crismi. Quindi mi sembra che i crolli siano da attribuire alla fatalità", ha aggiunto.
Ma prendersela con il fato a volte non basta. Bisogna guardare alle leggi che lo Stato si è dotato per fare in modo che le case e le aziende resistano alle avversità della natura, come i terremoti e alluvioni. "Dal terremoto di San Giuliano di Puglia nel 2002, in cui crollò una scuola elementare, la legislazione si è evoluta divenendo estremamente rigida e più severa dal punto di vista antisismico per chi vuole costruire nuovi edifici", spiega a Panorama.itStefano Calzolari, ingegnere strutturista e presidente dell’ordine degli ingegneri di Milano.
"Ad oggi, insomma, se i capannoni sono tirati su rispettando le norme è quasi impossibile che crollino: ci sono precise indicazioni progettuali non solo per i capannoni, ma anche per le scaffalature, si pensi al caso delle forme di parmigiano andate rovinate nei giorni scorsi, che, se fatte bene e rispettando i criteri normativi, possono reggere alle scosse. Ma spesso molte imprese non lo fanno per ragioni di costi, senza contare che in Italia manca ancora una cultura della performance degli edifici”, aggiunge.
Dal decreto ministeriale del gennaio 2008, infatti, le strutture che ospitano attività industriali e artigianali devono essere costruite in tutta Italia, e non solo nelle aree considerate a rischio terremoto (l'Italia Peninsulare) rispettando precise norme antisismiche. “Il problema, quindi, è per le strutture precedenti, perché - conclude - sono fatte secondo valutazioni sismiche differenti e spesso non vengono ristrutturate, sempre per ragioni di costo. Ma se i crolli riguardano, invece, edifici più recenti, post 2008, allora significa che c’è stata una lacuna sia nell'esecuzione lavori sia nei successivi controlli da parte delle autorità".
Il ministro Corrado Passera ha annunciato che, con l’intervento dei privati, si potrà arrivare a investimenti di 100 miliardi nei prossimi anni. Tantissimi soldi, ma ricordano quelli per le “grandi opere” di Berlusconi, mai concretizzatisi. Tuttavia un certo numero di “grandi opere”, oltre la Torino-Lione, stanno per davvero per essere avviate dal governo Monti. L’attenzione si è spesso concentrata sul tunnel della Val di Susa, ma è forte il rischio che questi altri investimenti possano rivelarsi, nel complesso, un affare anche peggiore per il Paese. Alcune sono già finanziate in parte, altre hanno passato la cruciale soglia dell’approvazione del Cipe.
SI TRATTA DEL TUNNEL ferroviario del Brennero, della linea ferroviaria Milano-Genova (nota come “terzo valico”, essendocene già due, sottoutilizzati), la linea Alta velocità Treviglio-Brescia-Padova, le nuove linee ferroviarie Napoli-Bari e Palermo-Catania, che non sono ad alta velocità ma costano come se lo fossero, e il miglioramento della linea ferro-viaria Salerno-Reggio Calabria (forse, tra queste, la più sensata). Vi è anche un’intesa politica “bipartisan” per la nuova linea Av Venezia-Trieste, mentre non è chiaro al momento il destino del Ponte sullo Stretto di Messina. Il costo totale preventivato supera i 27 miliardi di euro (e chissà poi il consuntivo). Circa l’auspicato e generoso intervento dei privati, in questo settore in generale si tratta di “prestiti mascherati”, in cui i privati, forse anche a ragione, in realtà non rischiano nulla. L’esperienza dell’Alta velocità dovrebbe insegnare: la Commissione europea costrinse lo Stato a versare 11 miliardi “cash” alle Fs, perché non riconobbe alcun reale rischio privato nell’operazione. Ma la memoria è labile quando si tratta dei soldi dei contribuenti.
Quali caratteristiche hanno in comune le opere sopra elencate? Non sono stati resi pubblici i piani finanziari: cioè non è noto quanto sarà a carico dei contribuenti e quanto a carico degli utenti. La cosa sembra inquietante in un periodo di grande scarsità di soldi pubblici. Non sono in generale note nemmeno analisi costi-benefici comparative di tali opere, per determinarne la priorità in funzione del benessere sociale che creano (o distruggono). I finanziamenti non sono “blindati” fino a garantire il termine dell’opera. La normativa recente che consente di realizzarle “per lotti costruttivi”, invece che “per lotti funzionali” rende possibili cantieri di durata infinita. 4) Sono tutte opere ferroviarie, ed è noto che la “disponibilità a pagare” degli utenti per la ferrovia è molto bassa, tanto che se si impongono tariffe che prevedano un recupero anche parziale dell’investimento, il traffico tende a scomparire, al contrario che per le autostrade. Questo aspetto rende discutibile la scelta di privilegiare le ferrovie, quando i soldi sono così scarsi. In effetti, i benefici ambientali delle ferrovie sono indiscutibili. Ma non è più così in caso di linee nuove: le emissioni “da cantiere” rendono il risultato ambientale molto dubbio. Il contenuto occupazionale e anticiclico di tali opere appare modesto: si tratta di tecnologie “ad alta intensità di capitale” (in media, solo il 25% dei costi sono di lavoro).
Vediamo ora i pochi aspetti specifici che sono noti di alcune di queste opere. La debolezza delle informazioni di cui si dispone è un problema politico in sé: investimenti pubblici di questa portata dovrebbero essere documentati in modo trasparente. Sul “terzo valico” l’Ing. Mauro Moretti, ad di Fs, si è espresso più volte mettendone in dubbio la priorità, tanto da dover essere ripreso con una lettera al Sole 24 Ore dall’ex ministro Lunardi. L’analisi costi-benefici della linea Av Milano-Venezia, è stata dimostrata inconsistente su lavoce.info. Per il tunnel del Brennero, gli austriaci da tempo esprimono dubbi sulle proprie disponibilità finanziarie. Certo, se l’Italia costruisse la propria metà, vi sarebbero molti problemi per i treni, senza l’altra metà del tunnel. L’analisi costi-benefici, presentata da Fs per la linea Napoli-Bari, è stata dimostrata del tutto indifendibile, sempre sulavoce.info. Anche in questo caso, nessuna smentita è pervenuta.
È una leggenda che le infrastrutture generino nel tempo la domanda che le giustifica: la linea di Alta velocità Milano-Torino, costata 8 miliardi e con una capacità di 330 treni/giorno, ne porta, dopo tre anni dall’entrata in servizio, appena 20. Né la realizzazione del collegamento Torino-Lione ne genererebbe molti di più: le stime ufficiali (ma quelle del progetto completo, non di quello attuale, molto più modesto) parlano di neanche 20 treni aggiuntivi. Ma il problema maggiore non è la debolezza della domanda ferroviaria quanto i cantieri infiniti, consentiti dall’attuale normativa. Per ragioni di consenso si rischia di avere moltissime opere non finite in tempi ragionevoli, con costi economici stratosferici. Non sembra il momento di perseverare con queste logiche, proprie di una diversa fase politica ed economica. Ma chi avrà il coraggio di dire di no a tanti “sogni nel cassetto” di politici, banche e costruttori locali, soprattutto in vicinanza di elezioni?
L’Agro Romano– la vasta area a vocazione agricola intorno allaCapitale– rischia di scomparire definitivamente. A preoccupare sono i risultati di un bando promulgato dal sindacoGianni Alemannoad inizio legislatura per la selezione “di nuovi Ambiti di riserva a trasformabilità vincolata, finalizzati al reperimento di aree per l’attuazione del Piano Comunale di housing sociale e di altri interventi di interesse pubblico”. In poche parole: nuovi terreni da rendere edificabili. Delle 334 proposte pervenute – numerosi i proprietari di terreni agricoli che hanno partecipato – ben 160 sono ammissibili. Queste le valutazioni della Commissione istituita ad hoc nel 2008 (composta dal direttore dell’Ufficio per le Politiche Abitative e dai direttori dei Dipartimenti Urbanistica, Patrimonio, Mobilità, Ambiente e Riqualificazione delle periferie).
Sommando le 160 aree ritenute compatibili con i requisiti fissati dall’invito pubblico, sono complessivamente 2.381 gli ettari di campagna romana (già in parte fagocitata negli anni da grandi capannoni industriali, ville e palazzoni) che presto potrebbero essere cancellati da una nuova colata di cemento. Aree bellissime sottoposte a vincoli, adiacenti allaRiserva del Litorale, a quella Marcigliana, ai parchi dell’Appia Antica, diVeioe tanti altri.
Legambiente Lazio commenta sconcertata la cartografia dei nuovi insediamenti proposti,diffusa dal Dipartimento Urbanistica di Roma Capitale: “Il progetto di Alemanno va fermato subito – lancia l’allarmeLorenzo Parlati, presidente dell’associazione ambientalista – la giunta non può approvare questo scempio, l’assemblea capitolina tanto meno”. Entro l’estate infatti la giunta potrebbe dare il via alla maxi variante del piano regolatore (i tecnici sono già a lavoro per la stesura della delibera). Perché l’emergenza abitativa va affrontata: “Servono 25.700 alloggi – spiegava qualche mese fa il sindaco – di cui 6mila in edilizia agevolata e 19.700 in housing sociale.
In questo modo potremmo offrire abitazioni con mutui e affitti a prezzi molto più bassi di quelli che si sono mai potuti vedere in questa citta”. Quelle fasce deboli, a cui si riferisce il sindaco, la possibilità di accendere un mutuo (ancorché piccolo) non ce l’hanno di certo. Ma sarebbe comunque uno spreco, se si considera che a Roma gli immobili non utilizzati, vuoti, sfitti, sono 245mila (ultimo dato disponibile, riferito al 2009). A tal proposito va segnalato l’invito del forum “Salviamo il Paesaggio, Difendiamo i Territori” al sindaco di Roma (così come ai sindaci degli altri 8100 Comuni d’Italia) a partecipare alla campagna per il nuovo censimento degli edifici sfitti o non utilizzati. Manco a dirlo, nessuna risposta.
Su 2.381 ettari, però, si possono costruire quasi 23 milioni di metri cubi di superficie edilizia. Corrispondenti non a 25.700 alloggi, ma ad oltre 66mila (il dato è fornito dalla stessa commissione). “Bisogna offrire ai privati terreni edificabili in cambio di nuove metropolitane – spiega l’assessore all’ Urbanistica,Marco Corsini– e poi ci sono delle compensazioni edificatorie ancora da riconoscere”. Cioè tutte quelle cubature che sono state sottratte dal Comune ai privati, in presenza di aree di pregio ambientale, e che vengono compensate dando la possibilità di costruire altrove. Non a parità di metri cubi bensì di valore immobiliare. “E comunque quelle 160 aree sono state selezionate – sottolinea Corsini – non scelte. Ciò vuol dire che alla fine saranno di meno”.
Esprime però le sue “perplessità” anche l’Istituto Nazionale di Urbanistica: “Già nel 2008 avevamo criticato i criteri del bando, in particolare il fatto che si rendessero disponibili aree agricole, che fosse stabilita una distanza troppo grande dalle fermate del trasporto pubblico. E sul perché non venivano utilizzate le aree edificabili messe a disposizione dal Piano regolatore, né venivano attuati i ben 35 piani di zona per l’edilizia residenziale pubblica già approvati”. E Legambiente rincara la dose: “Utilizzare la scusa dell’ housing è ridicolo e patetico. La verità è che Alemanno,dopo l’acqua, vorrebbe cedere ai privati anche l’Agro Romano”. Insomma una strumentalizzazione per dar vita a nuove anonime periferie senza servizi. L’ennesimo regalo – dopo quelli diRutellie Veltroni– a chi muove voti. D’altronde, come dice il presidente di Legambiente Lazio, “la campagna elettorale è già aperta”.
la Repubblica
Cascine, via al piano recupero Palazzo Marino apre l’asta
di Alessia Gallione
Qualcuna è ancora immersa nel verde di un parco o ai margini della città. Altre, ormai, sono circondate dalle case. Mura abbandonate o dal futuro amministrativo incerto, in alcuni casi poco più che ruderi a dispetto della loro storia. E qualche indirizzo noto come quello del centro sociale Torchiera o della Monluè. Che, adesso, però, il Comune vuole riportare a nuova vita. Perché, nella Milano del Parco Sud e dell’Expo dedicato all’alimentazione, Palazzo Marino fa partire un piano per recuperare le sue cascine. In tempi di casse vuote e risorse scarse, per un gruppo di sedici stabili apre la caccia a privati, associazioni o enti, che possano prenderli in gestione e recuperarli. Con nuovi criteri che, d’ora in poi, prevederanno assegnazioni in diritto di superficie lunghe fino a 90 anni e, in alcuni casi, la vendita.
Ancora la crisi, fa partire la ricerca di sponsor anche per il restauro di una ventina di monumenti: dai 500mila euro per l’Arco di Porta Ticinese e i 600mila per quello di piazza Cavour ai 105mila del Leonardo di piazza Scala, dalla statua di Napoleone III nel Parco Sempione (360mila euro) a Palazzo Moriggia, la sede del museo del Risorgimento che ha bisogno di 750mila euro fino alle lapidi della Loggia dei Mercanti. Anche questo progetto fa parte del bilancio: tra le pieghe del documento, è stata inserita la possibilità per sedici delle trenta cascine che l’amministrazione vuole recuperare, di fare bandi - saranno lanciati dopo l’approvazione in Consiglio comunale - per gestioni molto lunghe: dalla Carliona alla Cottica in via Natta, dalla San Bernando nel parco della Vettabbia per cui era andata deserta una gara pochi mesi fa, alla Campazzino. Segni di un passato agricolo da reinventare. L’obiettivo, spiegano in Comune, non è tanto fare cassa, ma fare in modo che pezzi del patrimonio non vadano in malora. Chi presenterà un’offerta - sono previsti anche project financing - dovrà finanziare i lavori di ristrutturazione e presentare piani tecnici ed economici. È anche per dare la possibilità di rientrare dei costi, che la gestione si è allungata e che saranno previste anche funzioni private come ristoranti o, magari, ostelli. Nelle linee guida, però, il Comune immaginerà soprattutto un futuro pubblico. Con punteggi maggiori per le attività agricole, l’alimentazione, la residenza sociale e temporanea, le attività per la città.
Per la cascina Brusada e per la Cottica, descritte come «inserite in contesti residenziali», è prevista la vendita. C’è già un caso, però, che diventa politico. È quello della cascina Torchiera, occupata dagli anni Novanta. Il bando, chiariscono da Palazzo Marino, sarà «aperto a tutti». Se vorranno partecipare, gli occupanti dovranno comunque costituirsi in un’associazione. Il capogruppo del Pdl Carlo Masseroli parte già all’attacco: «Prima si sgombera e poi si pensa alla gara». Il presidente del Consiglio comunale Basilio Rizzo non vede ostacoli alla partecipazione del centro sociale, anche senza bisogno di liberare gli spazi: «Senza di loro sarebbe già caduta a pezzi». Il consigliere di Sel Luca Gibillini si augura «un tavolo» sul modello del Leoncavallo.
Corriere della Sera
Il Comune vende le cascine, ma è scontro sul Torchiera
di Elisabetta Soglio
Mica solo la Sea e la Galleria. Il Comune ha definito anche un piano di cessione di alcune delle proprie cascine: 16, per la precisione, destinate ad essere assegnate in diritto di superficie fino a 90 anni, attraverso un bando pubblico «sulla base degli esiti di gara e con valutazione di offerta tecnico-economica». La decisione è già formalizzata e inserita all'interno del bilancio 2012 e del pluriennale 2012-2014. «Obiettivo principale — garantisce l'assessore all'Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris — non è tanto quello di fare cassa, quanto di evitare che si disperda un patrimonio, dando allo stesso tempo la possibilità di attivare all'interno delle strutture una serie di iniziative utili per la città».
Ma c'è già una polemica, perché l'elenco comprende anche la Cascina Torchiera da anni occupata da un gruppo di giovani e da qualche famiglia (per il primo giugno è tra l'altro organizzato un happening: «Venite a ballare a Cascina Torchiera per coprire il nostro buco di bilancio, perché non abbiamo né Lusi né Belsito a darci una mano».Se ne è discusso in commissione consiliare, quando il capogruppo del Pdl, Carlo Masseroli, ha tagliato corto: «Prima di mettere a gara questa struttura è chiaro che va liberata. Come è chiaro che non può partecipare a una gara chi ha occupato». Pronta la replica di Basilio Rizzo, della Federazione delle Sinistre: «Va bene la gara e va bene non concedere privilegi a nessuno. Ma non possiamo neppure tagliar fuori chi in tanti anni ha comunque tenuto in piedi un pezzo del patrimonio del Comune, evitando che cadesse a pezzi come altrimenti sarebbe accaduto». Ancora Masseroli: «Rischiamo di creare un precedente pericoloso. Occupo e tengo in ordine, così dopo quel pezzo di città diventa mio. Così si esce dalle regole e senza regole Milano diventa fuori controllo». Dal Comune non sono giunte ancora risposte ufficiali al quesito posto dall'opposizione, anche se pare che l'orientamento sia quello di consentire ai chiunque voglia di partecipare al bando. Poi, si vedrà.
Il progetto del Comune prevede che i bandi partano appena approvato il bilancio, quindi entro l'estate. Le cascine Brusada e Cotica sono le uniche che verranno messe in vendita: per le altre si procederà con il diritto di superficie e qualche concessione d'uso, sulla base dei progetti che errano presentati. I vincitori dei bandi dovranno impegnarsi al recupero degli immobili e all'insediamento «di specifiche funzioni pubbliche individuate in sede di bando, da affiancare a quelle di carattere privato capaci di generare reddito, che dovranno garantire la sostenibilità economica del recupero».Nel bilancio si lancia anche una ricerca di sponsor per salvare venti monumenti cittadini: da Palazzo Moriggia, sede del Museo del Risorgimento (spesa prevista di 750 milioni, divisi in due interventi), all'Arco di Porta Nuova (600 milioni) e a quello di Porta Ticinese 850 milioni); dalla statua di Napoleone III al Parco Sempione (360 milioni) a quelle di Leonardo da Vinci (105 milioni) e di Giuseppe Missori (90 milioni).
la Repubblica
Fiumi e canali soffocati dai rifiuti resta il mistero su chi deve salvarli
di Franco Vanni
Il canale Vettabbia, che attraversa il Sud milanese, è una discarica per batterie d’auto e latte di vernice. Dal Seveso, che pure è interrato, la polizia provinciale recupera almeno due volte l’anno carcasse d’auto, bombole del gas e intere cucine. La Martesana, in cui ancora si scaricano acque sporche, all’altezza di via Idro viene periodicamente riempita di pneumatici di auto esausti che nella maggior parte dei casi recuperano i vigili urbani pur senza averne competenza. E c’è il caso eterno del cosiddetto Lambro meridionale, il tratto del fiume Olona che incrocia senza mischiarsi il Naviglio Pavese all’altezza di via Chiesa Rossa, sempre intasato di plastica e rifiuti pesanti. Le prime interrogazioni al Comune sullo «scempio ambientale» dei corsi d’acqua milanesi le fece il Pci negli Anni Ottanta e da allora poco è cambiato. I fiumi e i canali di Milano soffrono: nonostante gli allarmi periodici di Legambiente e delle guardie ecologiche volontarie, le Gev, le istituzioni sembrano lontane dal trovare una risposta a una domanda apparentemente semplice: a chi spetta la pulizia?
Minimo comune denominatore delle situazioni di degrado nei corsi d’acqua cittadini è la contesa fra Comune, Provincia, Amsa e consorzi di gestione sulle competenze per la cura e il recupero di alveo e acque. «A noi spetta la pulizia delle sponde, non dei corsi, e solo nel caso gli argini costeggino strade comunali - spiega Sonia Cantoni, presidente di Amsa - Non mi pronuncio sulla razionalità di questa situazione, ma il nostro contratto è chiaro». La convenzione fra Amsa e Comune sarà rinnovata a giugno 2013. «L’augurio è che si renda più razionale il sistema delle competenze - dice Lorenzo Baio, del settore acqua di Legambiente Lombardia - si decida finalmente a chi spetta fare cosa». Cantoni pone una condizione: «Sarebbe bene che il soggetto incaricato delle bonifiche e della pulizia fosse unico».
Nella giungla delle competenze non riconosciute succede che nelle "teste" dei fontanili del parco delle Cave, alla periferia ovest cittadina, siano rimasti immersi per anni quintali di pannelli di eternit da 60 centimetri per 80, rimossi poi dalla polizia provinciale grazie alla buona volontà di una pattuglia di agenti. E la Roggia Vettabbia, che raccoglie acqua di falda pompata per evitare l’allagamento delle fermate della metropolitana, è inquinata al punto che si preferisce non bonificare il fondo. «Smuovendo il limo - dice un perito a cui Palazzo Marino si rivolse nel 2010 - si rischierebbe di disperdere nell’acqua le sostanze pesanti imprigionati nel fango». Ma il problema non è solo la contaminazione chimica. Il consigliere di Zona 5 Piermario Sarina ha consegnato al parlamentino di quartiere un dossier fotografico sulle condizioni «vergognose e indecenti» del canale all’altezza di via dell’Assunta: sacchi dell’immondizia, copertoni e arredi da ufficio riempiono il canale. «Si decida chi pulisce, punto e basta», dice Sarina. Ma non è così facile.
Della cura dei 38,9 chilometri della Martesana per statuto si occupa il Comitato per il restauro delle chiuse dell’Adda, «con la Provincia di Milano» e «con il sostegno della Regione Lombardia». Ma a nessuno dei tre enti spetta la pulizia dell’alveo. La «manutenzione strutturale» dei Navigli maggiori, Grande e Pavese, è disciplinata da una convenzione fra Scarl (società regionale) e consorzio Villoresi: anche in questo caso non c’è chiarezza su chi debba pulire acqua e fondo, da cui ogni anno vengono recuperati quasi 250 quintali di rifiuti. Per il tratto cittadino del Lambro - dalle cui rogge Legambiente periodicamente tira fuori tonnellate di televisori, materassi e cartelli - la competenza è formalmente distribuita fra Comune, Provincia e Regione. Peccato che a pulire alla fine siano i volontari.
Titolo originale: Detroit: From Urban Blight to Tech Might – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
La tecnologia per rispondere al degrado urbano?
A Detroit di sicuro ci credono imprenditori, amministratori, cittadini.
Sono ben noti, i problemi della città. Il declino dell’industria automobilistica e la fuga di cervelli ha fatto di Detroit uno dei simboli più solidi della Grande Recessione.
Nel luglio 2009, la disoccupazione ha raggiunto il 18%.
E oggi?
Siamo ancora a un bel 10,5%, però si migliora, e c’è un motive per questa tendenza positiva: i posti di lavoro nel settore tecnologie.
“L’energia della città, le cose che succedono, gli spazi che si riempiono, sembra che non siamo più in bilico, forse siamo già oltre” commenta il trentottenne Scott Aberle, che è venuto da San Francisco, dalla Silicon Valley, qui a Detroit per lavorare da Quicken Loans. “Siamo davvero nel mezzo di un Rinascimento”.
Avete capito giusto: ha detto Rinascimento.
Magari la mette un po’ giù pesante … o magari no.
A Detroit però ci è nato il presidente di Quick Loans, Dan Gilbert, e sta comprando più o meno tutti gli edifici commerciali abbastanza in ordine che riesce a trovare. Quando non lavora a risistemarli, Gilbert sfrutta l’altra sua compagnia di investimento, la Detroit Venture Partners, per seminare quello che sta diventando un mini-boom di nuove imprese tecnologiche.
“Le tecnologie creano valore e ricchezza molto rapidamente” spiega Gilbert. “Con l’industria, ci vogliono cinque-sette anni dall’idea alla costruzione dell’impianto. Nel settore tecnologico l’arco di tempo è ridotto e ridotto anche l’investimento di capitale”.
Ad esempio, la stessa compagnia, in sigla DVP, poco tempo fa a ha rilevato un vecchio edificio di uffici teatrali risistemato come incubatore di nuove attività. Battezzato
“M@dison”, cosa curiosa un po’ con quel nome ha funzionato visto che Twitter si è affittata un pochino di spazi.
Un edificio particolare anche al di là del nome. C’è anche la sede di chi ha investito i capitali, insieme alle altre imprese su cui si è investito. Spazio aperto, con grandi travi industriali sopra a tutto. Pareti di cartongesso, e dappertutto idee di nuove applicazioni per cellulari, appiccicate coi post-it o sui vetri delle finestre.
Una delle imprese è “ UpTo”. Nato nel Michigan, Greg Schwartz si è trasferito da New York a Detroit solo l’anno scorso. Sta già sull’iPhone e arriverà poi su Android e iPad. Schwartz considera UpTo il passo successivo nel percorso tracciato da Facebook-Twitter. Un social media app che consente a certe persone di comunicare con certe altre a costruire insieme ciò che sta OLTRE. Se si vuole aggiornarsi su un amico della stessa rete, basta verificare i suoi programmi, e vedere se magari c’è tempo per prendersi un caffè insieme tra una riunione e l’altra.
Si propone come la cornice della nuova era di comunicazione: Facebookracconta il passato, Twittersi occupa del presente, UpTo gestisce il FUTURO.
Un’ottima metafora se si parla di questa città, visto che Schwartz e i suoi pochi colleghi puntano proprio al futuro di Detroit.
“Solo dopo che ci siamo trasferiti qui a Detroit ho capito che si tratta di qualcosa non assolutamente esagerato” commenta Schwartz. “Si tratta di energia imprenditariale. Aprono nuovi ristoranti ogni giorno. Fuori dal guscio dell’ufficio basta spostarsi pochissimo per vedere la straordinaria quantità di cose innovative che accadono qui”.
Naturalmente non sono tutte solo rose e fiori.
Certo, in centro esiste molta più energia di quanta non ce ne fosse quattro anni fa. Ma l’area di Detroit in genere resta in gran parte in pessimo stato, la città deve ancora scoprire un modo per raddrizzarsi e tornare a prosperare nel suo insieme.
Per capire meglio, Detroit sei anni fa aveva due milioni di abitanti. Oggi sono circa 700.000.
Ma anche questi aspetti sembrano avere un lato positivo per chi lavora al
M@dison.
“Credo che Detroit possa essere letta come una specie di tabula rasa” commenta Dan Ward, co-fondatore di Detroit Labs, che pure sviluppa nuove applicazioni e finanziariamente sostenuta … da DVP. “Anche una persona individualmente può avere effetti sulla ricostruzione della città, collaborare in positivo a un risultato finale”. Che secondo Dan Gilbert potrebbe chiamarsi “ Detroit 2.0”.
Magari dalla Silicon Valley possono non essere così entusiasti del nuovo high-tech, ma a Gilbert non pare importar molto.
“Ci hanno chiamato da Filadelfia, New York, Chicago, dalla California. Vogliono partecipare a quello che succede qui a Detroit”.
Non c’è Kool Aid da bere a sufficienza per tutti, e quindi c’è qualcosa di vero. Anche se solo il tempo ci dirà se basta a reinventare l’ex città industriale dominante. “Questo edificio si presenta da solo” commenta Dan Ward di Detroit Labs. “La città di Detroit si presenta da sola”.
È comunque una cosa che non avremmo sicuramente sentito dire pochi anni fa da un ventottenne della tecnologica Generazione Y.