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In ogni discussione sulla sorte del patrimonio storico e artistico della Nazione, e specie di quello meridionale, arriva sempre il momento in cui uno degli interlocutori tira fuori un argomento in apparenza definitivo: «Non ci sono soldi».

Da questa premessa si fanno discendere una serie di conseguenze, tra loro assai diverse ma unite da una caratteristica precisa: sono tutte contrarie alla funzione costituzionale del patrimonio stesso, che è quella di produrre conoscenza e cultura, e attraverso di esse, eguaglianza e cittadinanza.

Questi ‘rimedi’ alla mancanza di denaro pubblico sono: grandi mostre di cassetta (anzi Grandi Eventi), prestiti forsennati di opere delicatissime, iperrestauri a rotta di collo, cessioni di sovranità pubblica a sponsor privati che ‘marchiano’ i monumenti e molto altro ancora. L’opzione alternativa è spesso quella peggiore: non ci sono soldi, dunque che il patrimonio vada pure in rovina.

Il mantra del «non ci sono soldi» era già difficile da sostenere prima, visto che nel Paese con l’evasione fiscale più grande dell’Occidente è un po’ dura pensare davvero che ‘non ci siano soldi’: il problema, semmai, è il fatto che preferiamo lasciare quei soldi nella disponibilità dei privati. Gli stessi privati a cui, poi, chiediamo l’elemosina della beneficenza al patrimonio.

Ma ora – dopo le feste in costume romano della Regione Lazio, dopo la notizia che il Ponte sullo Stretto ci è costato 300 milioni di euro solo per non esistere, dopo che si apprende che agli incliti consiglieri regionali campani viene distribuito un milione l’anno –, beh, ora è un po difficile pensare che il problema sia davvero che i soldi non ci siano. Semmai, il punto è cosa vogliamo farne, di questi benedetti soldi pubblici.

Ma niente paura: quando avremo definitivamente perduto Pompei, potremo sempre nascondere la nostra vergogna calzando una maschera. Naturalmente, una maschera da maiale.

La prima impressione dell’Aquila, a mille giorni dal terremoto, è che sia perduta per sempre. Una fitta all’anima pensando quanto era bella, quante altre volte ci saresti potuto tornare. Le macerie che l’illusionismo di Berlusconi aveva fatto sparire dalla vista degli italiani pochi giorni dopo il sisma, sono ancora là dove le aveva lasciate la scossa del 6 aprile 2009. Dello splendore di una città è rimasto il fantasma e quasi nulla d’altro, non le antiche strade e i palazzi, chiusi dai lucchetti, non gli archi e i portici, l’armonia medievale che ogni anno gli orgogliosi cittadini accarezzavano con il corteo della Perdonanza. C’è ancora soltanto questo di vivo, il desiderio della città. Verso sera decine, centinaia di giovani popolano i corsi, la piazza, si addensano nei pochi bar e ristoranti aperti, bevono, discutono, suonano, cantano, come se la città intorno esistesse ancora. Molti sono studenti, L’Aquila ne aveva trentamila prima del terremoto, su settantamila abitanti, ora sono ventimila. Da domenica avranno un altro luogo dove incontrarsi, il primo sorto nel cuore della città, fra la zona rossa e il Castello, il nuovo auditorium di Renzo Piano. «Una sera in corso Vittorio passeggiavo e gli studentimi hanno riconosciuto», racconta l’architetto «Mi hanno chiesto aiuto, perché li volevano cacciare di nuovo, chiudere il centro. Ho capito che dovevo fare qualcosa. La presenza di questi ragazzi è l’unica speranza di veder risorgere L’Aquila. I vecchi ormai sono rassegnati a non tornarci più, ma i giovani ci credono, vigilano e lottano».

La prima ipotesi di intervento a L’Aquila di Renzo Piano era di offrirsi per il restauro della città, sotto l’egida dell’Unesco, di cui l’architetto è ambasciatore. «L’idea era di ricostruire il centro storico come avevo fatto negli anni Ottanta, sempre per l’Unesco, con Otranto. Un restauro tollerante, come si dice, cercando di non demolire gli edifici pericolanti, ma di metterli in sicurezza e consentire nel frattempo una vita cittadina. Costa molto meno e mantiene viva la città. Molti palazzi dell’Aquila chiusi sono in realtà meno lesionati di quanto abbiano stabilito. Il restauro è come la medicina, se sbagli la diagnosi poi rischi di sbagliare l’operazione. A parte questo, un centro storico è fatto di pietre e di persone. Non puoi restaurare le pietre mandando via le persone, con lo sfollamento una città la ammazzi per decenni». Naturalmente l’offerta di uno dei maggiori architetti del mondo, per giunta gratuita, fu respinta al volo dalla banda Bertolaso e

Balducci e Anemone, che avevano ben altri progetti e interessi, come testimoniano le intercettazioni con le risate degli sciacalli al telefono.

«Allora Bertolaso era dio in terra, un eroe nazionale. Gli aquilani si alzavano in piedi ad applaudire quando entrava in un cinema. Vinse la sua idea di mandare via tutti dalla zona rossa e militarizzare la ricostruzione. Non si poteva avvicinare nessuno. Poi arrivò Berlusconi con le sue trovate, il G8, una bella vetrina, e le new town che spostavano l’attenzione dell’audience televisiva dalle macerie del centro ai cantieri delle casette. Una cosa pazzesca. La reinvenzione della periferia. In tutto il mondo stiamo cercando di cancellarla, di rimediare a errori e orrori del recente passato. E qui si è pensato a trasformare una città bellissima in una brutta periferia.

«Avevo mandato sul posto Paolo Colonna del mio studio e ne era venuto fuori che gli unici con cui si poteva fare un discorso serio erano quelli della provincia di Trento. Avevano fatto la sola cosa decente, regalare delle case in legno, al costo di 700 euro al metro quadro, un quarto delle casette di Berlusconi pagate coi soldi pubblici, in modo da poter essere smontate dopo la rico-

struzione. Nel frattempo Claudio Abbado, era tornato dall’Aquila con l’idea di fare un nuovo auditorium temporaneo, vista l’impraticabilità della vecchia sala da concerti del Castello. E da quello siamo partiti».

Ed eccolo l’auditoriumdi Piano, in cima al corso, sulla strada del Castello.Una macchia di colore nel buio di una città lasciata morire, un luogo allegro nella tristezza diuna storia sbagliata. Domenica ci sarà anche il presidente Napolitano al concerto di Abbado, per inaugurare il primo luogo aquilano tornato alla vita. Ma costruirlo non è stato facile, fra mille intralci burocrati, le solite polemiche. «Ci si è messa anche Italia Nostra, con tutto quello che succede all’ambiente all’Aquila e nel resto d’Italia, ma poi ci si è capiti. Poi altri a dire che prima

dell’auditorium alla città serviva ben altro. Come se fosse colpa nostra aver finito prima di altri. E poi in tutto il mondo investono in luoghi di cultura, costruisco musei e auditorium da Oslo a Los Angeles, perché mai nella terra per eccellenza della cultura e del turismo, l’Italia, ogni volta bisogna fare le battaglie?»

Dell’Auditorium di Roma è stato scritto che sarebbe stato inutile, uno spreco. È il secondo centro culturale per incassi d’Europa. «L’Aquila è una città della musica, ha un conservatorio prestigioso, orchestre e gruppi, tre o quattro società musicali di livello, a partire dalla Barattelli, una tradizione di concerti favolosa. Qui sono venuti tutti, da Rubinstein a Benedetti Michelangeli, da Oistrack a Pollini».

La cosa più bella dell’auditorium è l’interno della sala, sembra di entrare in una cassa armonica. «Abbiamo usato l’abete rosso della Val di Fiemme nel Trentino, il legno preferito dai grandi liutai dai tempi degli Stradivari. Tutti e tre i blocchi dell’auditorium, sala concerto, sala prove e ristorante, sono in legno. In modo da poter essere smontati e ricostruiti altrove. non Mi sono ispirato ai molti edifici e templi in legno costruiti in Giappone, il paese più sismico del mondo ». Qualcuno l’ha trovato troppo bello e si è domandato quanto è costato ai contribuenti. «Niente, Non abbiamo usato un euro dei soldi della ricostruzione, che per inciso stanno per arrivare a montagne. L’auditorium è interamente finanziato dalla Provincia di Trento ed è costato 4,8 milioni, molto poco per un edificio di questo genere. Claudio Abbado si è impegnato gratis e così pure il mio studio e i venti giovani ingegneri dell’università dell’Aquila che ci hanno messo una passione straordinaria. Senza la loro voglia di fare, di combattere la burocrazia, saremmo mai riusciti. È insomma un regalo alla città. E se posso

dirlo, è venuto bene».

Ti abbiamo dato la bicicletta e adesso pedala. Peccato che chi anche potesse e volesse proprio pedalare con tutto il cuore, scopra abbastanza in fretta che quella bicicletta è legata a una catena invisibile che ne impedisce i movimenti. Lo sapevano benissimo coloro che un paio di giorni fa si sono trovati travolti dall’ecatombe dei trasporti milanesi, di cui le cronache continuano a riferirci particolari sotterranei profondi. Non ci riferiscono invece delle ripercussioni superficiali dell’ecatombe sotterranea, come quell’elegante servizio di bike-sharing rimasto lì a fare il suo mestiere di gioiellino per i quattro gatti abbonati dell’area centrale. Eppure, in un caso di emergenza assoluta come il tracollo dei mezzi pubblici e la gridlock dei veicoli privati, la bici pareva la scialuppa ideale almeno in tantissimi casi. E invece (magari qualche indagine sociologica campionaria ce lo racconterà più avanti in cifre e tabelle, chissà) i naufraghi hanno preferito telefonare a casa come E.T. chiamando i parenti in auto a recuperarli, con relativo contributo ulteriore al grande ingorgo.

Perché era perfettamente funzionante quella catenella invisibile ma infrangibile che lega le bici alla circoscrizione municipale. Se provate a prendere quel tratto di metropolitana che va extra moenia più o meno parallelo al naviglio Martesana, tra quartieri sempre più verdi fino a sbucare in una discreta imitazione di parco agricolo, vedrete vicino a qualche stazione parcheggiate delle biciclette bike-sharing. Ma basta provare a inforcarle per capire subito che qui ahimè il vostro abbonamento milanese non funziona. C’è una comodissima pista ciclabile quasi tutta immersa tra parchi e piacevolezze, costruita col denaro del contribuente e dal contribuente assai apprezzata. Quel percorso specifico parte giusto ai piedi dei nuovi grattacieli fallici di downtown Porta Nuova e attraverso il multietnico settore di via Padova e dintorni si inoltra sotto la tangenziale e verso quella “milandia” in cui - come ci spiegano da decenni tutti i possibili studi - abitano e si identificano alcuni milioni di persone. Ma se provate ad attraversarla, questa milandia, le frontiere saltano subito all’occhio: dalla bici che non va più in là di tanto, all’autobus che fa un giro stravagante, agli incredibili salti mortali delle destinazioni urbanistiche di zona, o alle barriere incomprensibili e insuperabili.

Questo lo riconoscono anche le istituzioni, che da quasi cent’anni in qualche modo raccomandano nei loro piani e programmi di riconoscere un contesto unitario, in cui non ci sono barriere ma eventualmente solo delle specie di fluide soluzioni di continuità. Ma le stesse istituzioni, quando invece si tratta degli uomini che ci stanno seduti dentro, paiono ascoltare invece sirene incantatrici piuttosto diverse, magari con l’idea mal posta di socialismo in un solo pianerottolo, o simili. Ad esempio dopo anni e anni di giusta e sacrosanta opposizione a un’idea localista e strapaesana di circoscrizioni amministrative e rappresentanza, anche le forze di centrosinistra (dopo la caduta del Muro evidentemente c’è stata anche quella meno fragorosa del Buon Senso) si sono lanciate nel sostegno intemerato della Provincia della Brianza. La quale provincia, dietro le montagne di chiacchiere e pure benintenzionati contributi storico-scientifici-democratici, nasconde malamente un fatto ineludibile: sia il capoluogo che una bella fetta del territorio afferiscono dal punto di vista insediativo e socioeconomico all’area milanese. Come del resto capisce anche un idiota guardando GoogleEarth o facendosi un giretto attorno (con mezzi propri, quelli pubblici risentono del dibattito diciamo politico). E verificando ad esempio che anche passeggiare sul marciapiede dal Duomo di Milano al Duomo di Monza è sicuramente una bella scarpinata da affrontare con calzature adatte, ma si tratta di impresa alla portata di moltissimi, che richiede una mattinata o un pomeriggio, e soprattutto si svolge in ambiente strettamente e continuamente urbano.

Adesso col riordino contabile delle circoscrizioni provinciali qualcuno vuol far diventare Monza capitale neoimperiale di un territorio strampalato, arrampicato all’infinito sulle colline ex verdi e oggi in parte svillettate e capannonizzate, territorio che interessi misteriosi a parte ha assai poco da spartire col central core metropolitano, a cui invece Monza afferisce per i motivi terra terra di cui sopra. E si scopre anche uno dei perché: le norme vigenti sulla creazione delle Città Metropolitane non prevedono cambiamenti di confini. Se in passato certa politica localistica e miope ha combinato delle sciocchezze, i tecnici contabili bocconiani non hanno proprio pensato di rimediarvi, limitandosi a dire tagliamo le spese, col solito stile liberal-marziano che abbiamo cominciato a conoscere. Ora, qualche formigoniano o Formigoni stesso, chissà, se ne esce con l’idea giusta. Dal letame nascono i fior, diceva quel mio famoso omonimo. Ma perché non cambiamo la legge sulle Città Metropolitane nel pezzettino che impedisce di aggregare e disgregare territori, così da rendere più razionale la circoscrizione? Ecco: fatelo! Anche le altre Città Metropolitane del paese ve ne saranno grate. Anche i giornalisti dei supplementi domenicali che ci raccontano di quanto sia bella fricchettona ecologica e vivibile l’americana Portland, Oregon, ma si dimenticano di dirci che uno dei principali motivi per cui ci si sta tanto bene è che lì – caso unico o quasi negli Usa - esiste Metro Portland, ente elettivo di area vasta.

Se non vogliamo proprio diventare improvvisamente intelligenti, imitiamo almeno simpaticamente Alberto Sordi, e facciamo per una santa volta gli americani, cambiando il codicillo. Tanto per poter andare, che so, dal Ponte delle Gabelle all’ex Casa del fascio di Lissone senza mostrare il passaporto, e magari fermarsi in piazza a chiacchierare su quel Mayor Metropolitano che aveva promesso di rifare la pista ciclabile, ma ha preso in giro tutti, dalla Barona a San Fruttuoso e oltre, e la prossima volta se li scorda i nostri voti.

MILANO — Rinnovabili e pulite. Di fonti di energia alternativa se ne parla da decenni, in Italia, ma forse non è ancora arrivato il loro tempo. Perché nel Paese non sì è mai fermata la ricerca e l'estrazione del petrolio. E, in Lombardia, la caccia all'oro nero addirittura si sta intensificando: nella Pianura Padana, dove è ancora attiva una delle raffinerie Eni più efficienti d'Europa, quella di Sannazzaro de' Burgondi (Pavia), l'attività è intensa, mentre compagnie italiane e straniere si stanno mettendo in fila per chiedere le autorizzazioni al ministero dello Sviluppo economico.

Ultime tra queste la Exploenergy, che a marzo scorso ha chiesto il via libera all'operazione Lograto per esplorare un'area di 290 chilometri quadrati tra Bergamo, Brescia e Cremona; la Compagnia generale idrocarburi, con il progetto Momperone, e il colosso nazionale Enel Longanesi con Rocca Susella, che si stanno contendendo 360 chilometri tra Varzi e Voghera, nel Pavese, e Tortona, nell'Alessandrino, tutta terra di vigneti doc, per cercare idrocarburi, soprattutto gas; ma c'è anche l'americana Mac Oil, sede in Oklahoma e uffici italiani a Roma, che ha già avuto il via libera dal Pirellone per il progetto San Grato e ora sta aspettando quello del ministero per avviare un'indagine sismica non soggetta a verifica di impatto ambientale per individuare eventuali giacimenti e poi perforare qualche pozzo esplorativo tra Cremona, Lodi, Milano e Pavia.

A conferma dei nuovi piani di sviluppo e ricerca ci sono i numeri della Direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche, che fa capo al ministero dello Sviluppo economico. A oggi in Lombardia sono 17 le concessioni vigenti di coltivazione idrocarburi e 7 quelle di stoccaggio gas. Ma altrettante sono le nuove richieste: 14 i permessi di ricerca già concessi, mentre 11 in oltre 40 comuni sono quelli in fase di valutazione, quasi una richiesta per provincia lombarda, tutte coinvolte tranne Lecco e Sondrio. I petrolieri stessi, tramite Assomineraria, hanno già fatto sapere di essere pronti a estrarre tutto il nostro oro nero, investendo nell'arco dei prossimi quattro anni 12 miliardi di euro per nuovi impianti produttivi in tutta Italia. «Da un impegno finanziario così rilevante — sostiene Assomineraria — potrebbero derivare almeno 70 mila nuovi posti di lavoro, oltre 40 miliardi di euro di nuove entrate per lo Stato in 20 anni e un risparmio sulla bolletta energetica di 120 miliardi di euro nello stesso periodo».

Il motivo di questa nuova stagione «texana»? Per Assomineraria l'attività petrolifera deve ripartire, anche in Lombardia, a causa dei prezzi alti dei barili stranieri e delle frequenti difficoltà di approvvigionamento. Tanto più che, nel nostro Paese — l'ha rivelato Pietro Dommarco nel suo saggio «Trivelle d'Italia. Perché il nostro Paese è un paradiso per i petrolieri», appena uscito per Altreconomia —, è sempre stato conveniente produrre petrolio: le royalties, cioè il corrispettivo che le compagnie petrolifere versano a Stato ed enti locali come compensazione per lo sfruttamento del territorio, sono bassissime, il 10% per le estrazioni in terraferma contro, per esempio, l'80% della Russia e il 60% dell'Alaska. Con esenzioni dal pagamento delle royalties sulle prime 20 mila tonnellate di greggio e sui primi 25 milioni di metri cubi di gas estratti in terraferma.

Ma i nuovi permessi di ricerca richiesti in Lombardia arriveranno? Corrado Passera, ministro dello Sviluppo economico, ha già tracciato la linea: obiettivo del governo è raddoppiare nel giro di pochi anni la produzione italiana di idrocarburi, cercando di raggiungere per via interna il 20% dei consumi contro il 10% attuale. E allora, anche vicino al Po, aspettiamoci nuove trivelle.

Titolo originale: Plan for Charter City to Fight Honduras Poverty Loses Its Initiator – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

CITTÁ DEL MESSICO — Paul Romer è uno stimato economista con idee controcorrente per sollevare la gente dalla povertà. In Honduras credeva di aver trovato un governo seriamente pronto a mettere in pratica queste idee. Basterebbe spazzar via la corruzione, certe élite che fanno solo i propri interessi, le regole economiche che ostacolano la crescita di tanti paesi poveri, creando città dotate di proprie leggi e forme di governo. La Città Franca ( charter city), come la chiama Romer, risponde a solidi principi di garantiti da uno stato estero, come nel caso di Hong Kong. In Honduras, una volta che il parlamento ha approvato la necessaria legge all’inizio del 2011, l’idea è passata dal concetto astratto a possibilità concreta. Vari articoli l’hanno raccontata sull’ Economist, il Wall Street Journal e il New York Times Magazine. (in Italia il Corriere della Sera)

Ma adesso Romer, economista esperto di crescita, è escluso dal suo progetto, ha inciampato nel genere di decisioni poco trasparenti che voleva superare con la sua idea. Una contraddizione interna alla teoria: per fondare una nuova città dotata di nuove regole, prima bisogna trattare con governi immersi in quelle tradizionali. “Sono a dir poco perplesso e deluso, di fronte alla gente a cui mi rivolgevo” commenta Romer, responsabile del Progetto Urbanizzazione alla Stern School of Business della New York University. “e cioè gli honduregni che speravano si trattasse di una possibilità di uscita dalla logica del business as usual”.

Il punto di svolta è stato l’annuncio, qualche settimana fa, che l’agenzia incaricata dal governo di coordinare il programma aveva siglato un accordo con un gruppo di investitori. Una notizia arrivata a sorpresa per Romer. Il quale era convinto che ci sarebbe voluta anche l’approvazione della commissione per la trasparenza che aveva costituito insieme a un gruppo di esperti. Così ha abbandonato il progetto.

La legge che vara l’esperimento delle città franche in Honduras, aree speciali di sviluppo, RED nella sigla in spagnolo, introduce flessibilità per promuovere innovazione, ma richiede assoluta apertura e trasparenza nei processi decisionali, precisa Romer. “L’unico principio assoluto è proprio l’impegno alla trasparenza”.

Octavio Sánchez, responsabile del gruppo di lavoro del presidente Porfirio Lobo e riferimento governativo per il progetto, concorda sul fatto che la commissione per la trasparenza è essenziale una volta approvate e in corso di attuazione tutte le leggi necessarie. “Lo vogliamo con noi” conferma a proposito di Romer. “Perché ci crede davvero”.

Il gruppo di investimento è guidato da Michael Strong, attivista già in collegamento con esponenti libertari [ il termine libertario negli Usa si riferisce a posizioni anarco-liberiste n.d.t.] come John Mackey, il fondatore di Whole Foods. Promette di coinvolgere anche imprese della Silicon Valley e capitali del Centro America, ma alla richiesta di ulteriori particolari fa solo il nome di un uomo d’affari del Guatemala.

A partire da una disponibilità di 15 milioni di dollari, spiega, si inizia da un piccolo progetto pilota di costruzioni infrastrutturali, e dai contatti con potenziali occupanti degli spazi.

Strong aggiunge di avere dei progetti future per abitazioni low-cost e scuole, ma ammette anche come “tantissime cose non le sapremo finché il governo non istituirà la RED”.

Con queste pochissime indicazioni pratiche, anche la stampa honduregna di solito piuttosto filogovernativa ha cominciato a chiedersi se ci siano davvero dei capitali, dietro a questo piano.

Chi si oppone al progetto da sinistra aveva già inoltrato ricorsi alla Corte Suprema dell’Honduras contro le città nuove. Altri ne sono arrivati dopo le notizie sugli investimenti.

Secondo Strong e altri coinvolti nel programma, ad esempio il consulente americano Mark Klugmann che collabora con Sánchez, la commissione per la trasparenza non è mai stata formalmente istituita. Dello stesso parere Sánchez, che però non ne ha mai messa in discussione l’esistenza in passato.

Romer sostiene che il Presidente Lobo ha firmato il decreto in sua presenza a dicembre. Ma riconosce quanto la commissione avesse basi legali vaghe, per via di problemi con la Corte Suprema. Quel decreto non è mai stato pubblicato.

A ben vedere ci sono problemi anche in altri aspetti del piano, come il progetto di legge del Congresso che doveva determinare l localizzazione della città (Strong va avanti comunque con le possibilità di acquisto di terreni sulla costa caraibica nell’area di Puerto Cortés).

nessuno discute il fatto che il povero violento Honduras abbia un gran bisogno di qualche genere di terapia d’urto. “Facciamo un elenco generale delle cose da cambiare, e poi proviamo a realizzarle tutte insieme in un piccolo caso” spiega Sánchez. “Dobbiamo costruire le condizioni adeguate anche nel mezzo di turbolenze politiche”.

Sánchez ha 37 anni, è laureato in legge a Harvard, da dieci anni coltiva idee simili a quelle di Romer, e stava lavorando insieme a Klugmann a uno schema di zone economicamente autonome, quando un amico gli ha mostrato un video di una conferenza di Romer. “Certo non valeva la possibilità di intromissione di uno stato estero. Ma tutto il resto sì” ricorda.

Sánchez intervistato al telefono spiega come si debbano adottare idee che hanno già funzionato altrove. Un gruppo di nomina governativa ha già visitato la Corea del Sud e Singapore. Poi in Georgia si è scoperto il modello della instant city a Lazika, in corso di realizzazione e ispirata al concetto di città franca.

Strong ha una sua particolare idea sul rapporto di Romer col progetto. “Quando poi Sánchez ha visto quel video della conferenza di Romer, ha capito che poteva essere una forma di validazione di alto profile a sostegno della sua idea – ci scrive via email – e il progetto di Romer è stato davvero un catalizzatore promozionale”.

Ma Romer adesso sta guardando altrove. “Se le riforme sociali fossero tanto facili le avrebbero già fatte. Bisogna continuare a provarci”.

A titolo di riferimento, quasi ovviamente, aggiungo qui il sito Charter Cities che racconta almeno le intenzioni politico-accademiche di Romer (f.b.)

C’è un’idea diffusa, di massa, secondo cui non deve andare perduta la discontinuità che questa esperienza ha marcato rispetto al berlusconismo. E c’è invece un’idea di élite che l’appoggia. Ed è il sospetto verso la politica dei poteri forti, che fa pensare come sia meglio lasciare al comando chi ha le “competenze”

Se da vivi, mentre si gode ottima salute, e dopo un’ancor breve esperienza di potere, dal proprio cognome nasce una corrente di pensiero, o una tendenza politica — un “ismo” — significa che si è entrati nella storia. Non si parla di leninismo o di stalinismo, evidentemente, e neppure di andreottismo — per dare vita al quale Andreotti ha però speso quasi tutta una carriera — , ma dell’assai meno inquietante “montismo”: l’ultimo contributo italiano alla storia del pensiero politico — dopo il machiavellismo, il futurismo, il gramscismo, il fascismo — .

Di per sé, il montismo vuol essere la trasformazione dell’eccezione in normalità, e quasi in destino (non solo Montibis, ma Montifor ever);è la prosecuzione di Monti — dello stile di Monti, delle finalità di Monti — con altri mezzi o addirittura con lo stesso mezzo: con Monti stesso, cioè; il quale dopo le elezioni dovrebbe essere a capo, o ricoprirvi una posizione dominante, di un governo non più tecnico ma politico (un esecutivo di larghe intese, oppure di maggioranza più limitata).

Montismo si dice in molti modi. Esiste un montismo maggioritario, di massa, che si fonda sull’idea che non deve andare perduta la discontinuità che esso marca rispetto al berlusconismo. Una discontinuità di stili e di tipi umani: da una parte l’industriale brianzolo divenuto tycoon— conservando i tratti plebei del parvenu— ; dall’altra il rappresentante quasi idealtipico della borghesia lombarda dei buoni studi, dei solidi matrimoni, delle vacanze signorili e poco appariscenti, delle professioni liberali, della cultura comehabitus.

Una discontinuità che è stata accolta in patria e all’estero con stupore e favore, che è divenuta simbolo positivo di un’altra Italia, credibile e non più pittoresca; lontana dalla prima come ilburlesque

da un concerto per pianoforte e archi, come la buona educazione dalla cafonaggine, come il loden dallepaillettes. Una discontinuità fraélitese populismo; non solo fra due stili, quindi, ma fra idee etico-estetiche della politica e della società.

Alla radice di questa discontinuità agisce però una continuità; l’archetipo della politica come autorità, non come mero potere. L’idea, cioè, che la politica sia affare serio, che deve essere gestito da persone serie, autorevoli, che incutono perfino un po’ di soggezione per il loro sapere e per la loro superiorità fondata sulla competenza e sulla saggezza; un’idea elitaria, certo, ma antidemocratica solo se per democrazia si intende la politica che asseconda o provoca la sguaiataggine e la devastazione del costume e del discorso pubblico, che per aderire al “popolo” fa dell’incapacità ad articolare un argomento la propria cifra.

Il montismo è la politica come distanza, come autorevolezza — il contrario del potere populista e carismatico, che si propone come “uguale” alla “gente”, che ne esprime le pulsioni più profonde — ; ed è la soddisfazione per l’arrivo di“quello che mette le cose a posto”, del leader severo che rovescia il mondo rovesciato. E’ insomma la sobrietà che (col relativo mal di testa) succede all’ebbrezza e ai suoi disastri; la medicina propinata, con piglio professorale, all’Italia, il “malato d’Europa”, perché guarisca senza tanti capricci.

Montismo è quindi la rivoluzionaria restaurazione di un’immagine della politica da tempo perduta; dell’idea che è bene essere governati da uno migliore di noi che non da uno come noi o peggiore di noi. E quindi il montismo esprime anche il desiderio diffuso di un vero e credibile “uomo del fare”, dopo che colui che si era presentato come tale si è rivelato invece l’uomo dell’apparire e dell’affabulare.

Ma c’è anche un altro montismo, questa volta d’élite. Per la destra Monti è di sinistra, mentre al contrario si tratta del ritorno della borghesia moderata — da tempo assente dalla politica in senso stretto, perché l’aveva appaltata all’homo novus, Berlusconi, rivelatosi fallimentare — , che ora vuole riprendersi il controllo dei processi economici, delle spese e delle entrate, dei debiti e dei crediti. E lo fa attraverso un suo esponente — un professore d’economia,

grand commiseuropeo — che sa parlare (anche in inglese) ma non sa “comunicare”, e che non vuole “piacere”; e che anzi col suo “fare” procura qualche robusto dispiacere ai cittadini (senza guardare tanto per il sottile).

Una borghesia che però alla politica è ancora riluttante, e cerca di riprendersela, certo, ma sotto la forma della tecnica. Nel montismo quindi non c’è solo la nostalgia per la politica autorevole, e il plauso verso una politica fattiva: c’è anche il sospetto verso la politica da parte dei cosiddetti “poteri forti”. C’è l’idea che dopo tutto sia meglio lasciar governare chi è non politico, ma ha le competenze tecniche per affrontare il problema centrale del nostro tempo, cioè l’economia. E che quindi sia opportuno installare ai posti di comando i tecnici, che rispondono agli input dell’economia internazionale — cose serie — , piuttosto che i politici che rispondono a elezioni politiche nazionali. La politica, come Napoleone diceva dell’intendenza, seguirà. E allora si capisce perché il montismo sia anche la bandiera di modeste forze politiche di centro, che dei “poteri forti” (finanza, imprese, mondo economico cattolico) sono l’espressione, e che appoggiando Monti si collocano alla sua grande ombra, per trarne piccoli vantaggi.

Il montismo contiene quindi speranze e diffidenze, rischi e possibilità. Può essere un sinonimo di buona politica, oppure può essere rubricato come una forma insidiosa di tecnocrazia e di plutocrazia, suscitatrice, per reazione, di un altro “ismo”: il grillismo. E può quindi essere ascrivibile all’eccezione, alla perdurante crisi politica della Seconda repubblica, alle incertezze di un Paese la cui classe politica è ancora una volta tentata di affidarsi a un uomo della provvidenza — liberale e capace, questa volta — ; oppure può fungere da ostetrica nel parto doloroso ma fausto che darà vita alla Terza repubblica, a una politica finalmente normale.

C’è un’idea diffusa, di massa, secondo cui non deve andare perduta la discontinuità che questa esperienza ha marcato rispetto al berlusconismo. E c’è invece un’idea di élite che l’appoggia. Ed è il sospetto verso la politica dei poteri forti, che fa pensare come sia meglio lasciare al comando chi ha le “competenze”

Donne a Paestum, archeologia del futuro

Ida Dominijanni



Il femminismo radicale si incontra a Paestum per rilanciare la sfida delle origini nella crisi di civiltà di oggi. Sessualità, vita, lavoro, politica: la «rivoluzione necessaria» per riscrivere il patto sociale e la convivenza fra donne e uomini.

Le battute sulle streghe che ritornano si sprecheranno, e già volano, autoironicamente, sui siti del movimento. Eppure non è stata la nostalgia del passato, ma al contrario la scommessa sul futuro, a motivare la scelta di Paestum, già sede di uno storico raduno femminista del 1976, per l'incontro nazionale del femminismo radicale convocato per sabato e domenica prossimi. La tuffatrice, citazione femminilizzata del celebre reperto magnogreco conservato a Paestum, si slancia, dice il logo dell'incontro, nel XXI secolo.

Com'è andata lo racconta Lea Melandri in un'intervista sul sito che ha preparato l'iniziativa. L'idea di un incontro nazionale del femminismo radicale maturava da tempo, in controcanto alla piega paritaria, rivendicativa e moraleggiante che il discorso sulle donne (e talvolta delle donne) non smette di prendere sulla scena politica e mediatica mainstream, e si era meglio profilata dopo un seminario sul rapporto fra lavoro e cura di svariati mesi fa a Milano. Ma sono state le giovani dell'associazione Artemide di Paestum a suggerire il ritorno nella loro città, perché del raduno "storico" del '76 avevano sentito parlare le loro madri, e volevano riattraversare in qualche modo il mito dell'origine. Alla faccia dei rottamatori che imperversano ovunque di questi tempi.

Si va a Paestum dunque a discutere di rappresentazione lavoro e sessualità, trentasei anni fa a incontrarsi, in piena esplosione del movimento, erano un migliaio e stavolta, in piena implosione della politica e dell'economia, le prenotazioni ne promettono altrettante.

Tutto è cambiato da allora, il patriarcato allora trionfante oggi morente, la democrazia allora carica di promesse oggi assoggettata al mercato, l'idea di futuro allora trascinante oggi ammaccata dalla crisi, la condizione femminile stessa allora ai margini oggi al centro della sfera pubblica e del mercato del lavoro, e soprattutto la soggettività femminile, allora in piena maturazione oggi ricca di sedimentazione. Ma proprio per questo il ritorno all'origine, alla radicalità dell'origine, ha il senso, contemporaneamente, di una verifica e di una scommessa. Come scrive la lettera di convocazione dell'incontro - titolo Primum vivere anche nella crisi, firme (l'elenco qui sotto) rappresentative di tutto il femminismo radicale - «tante cose sono cambiate ma le istanze radicali del femminismo sono vive e vegete. E sono da rimettere in gioco oggi», per guardare alla crisi della politica, dell'economia, della democrazia con «un orientamento sensato».

Il richiamo alla radicalità dell'origine - Radicalità si intitola non per caso l'ultimo numero di Via Dogana, la rivista della Libreria delle donne di Milano, largamente dedicato a Paestum - per interpretare il presente, rilanciare «la rivoluzione necessaria» e «la sfida femminista nel cuore della politica» è visibilmente tutt'altra cosa dal rivendicare l'inclusione paritaria, «50 e 50», delle donne nel quadro politico e sociale dato. All'inclusione femminile nella sfera pubblica e nel mercato del lavoro Paestum guarda, piuttosto, come a un dato di fatto, tanto dispiegato quanto ambivalente. Non si tratta più di confrontarsi con l'esclusione femminile, ma con una inclusione che si presenta in parte come conquista delle donne, in parte come «risorsa salvifica» di un sistema in crisi. E che produce per un verso protagonismo femminile e desiderio di contare, per l'altro verso nuove forme di assoggettamento e di omologazione.

Si tratta dunque in primo luogo di interrogare la «voglia di esserci» delle donne per piegarla verso la politica della differenza e sottrarla alla neutralizzazione paritaria: non tanto dividendosi ideologicamente sul desiderio di potere, quanto attivando il racconto dell'esperienza di che cosa succede quando una donna si confronta con le regole del potere e della decisione, quali sono i conflitti, i risultati e le perdite che ne derivano, quali sono le misure di giudizio adeguate a questa condizione. In secondo luogo, nel campo del lavoro, bisogna di decodificare opportunità e trappole della "femminilizzazione" oggi richiesta e promossa dal mercato e dai media: qui l'elaborazione femminista sul rapporto fra lavoro e cura, produzione e riproduzione diventa il cuneo per rimettere la vita e l'interdipendenza al centro del discorso sulla crisi economica e di civiltà in cui viviamo. In terzo luogo, nel campo della politica, occorre uscire dalle secche della crisi della rappresentanza, per riportarla al nodo più profondo delle forme di autorappresentazione soggettiva che, come la storia del femminismo insegna, sono «la condizione minima per la pratica della libertà»: qui il cuneo è quello delle pratiche del partire da sé e della relazione, che non da oggi hanno ridisegnato il profilo di ciò che va sotto il nome di "soggetto politico".

Infine, ma primo per importanza, si tratta di aggiornare la sfida femminista delle origini sulla politicità del corpo e della sessualità, in un'epoca in cui «si esibisce lo scambio sesso/denaro/carriera/potere occultando il nesso sessualità/politica; si esalta il sesso mentre muore il desiderio; si idolatra il corpo ma lo si sottrae alle persone consegnandolo nelle mani degli specialisti e del business; si erotizza tutto, dal lavoro ai consumi, ma si cancella la necessità e il piacere dei corpi in relazione". Il tutto mentre «le relazioni fra donne e uomini sono cambiate, ma non abbastanza», e nella sordità della scena pubblica, dove «questo cambiamento non appare perché il rapporto uomo-donna non viene assunto come questione politica di primo piano». Ne sappiamo qualcosa dagli ultimi anni dell'era berlusconiana, e dalla scia tutt'altro che dissolta nel "decoro" montiano che ci hanno lasciato.

La forza e i problemi del femminismo

Norma Rangeri

Ripubblichiamo, con lo stesso titolo di allora, il commento di Norma Rangeri al convegno di Paestum 1976 uscito sul manifesto del 9/12 di quell'anno. Una citazione dalla memoria del femminismo, ma anche uno spunto per misurare tanto i temi ritornanti quanto le distanze, di contenuto e di linguaggio, fra allora e oggi.

Più di mille donne, di provenienze sociali e di età diverse si sono ritrovate e hanno discusso per quattro giorni nel convegno nazionale che il movimento femminista ha tenuto a Paestum. Da questo siamo state colpite; non dalle gonne fiorate, non dagli abbigliamenti eccentrici, non dalla presenza di «streghe», né dalla «rivolta delle giovani». Ed è proprio questa enorme partecipazione che ci sembra il primo stimolante dato su cui tutti dovrebbero riflettere.

Perché questa enorme affluenza nei convegni femministi? Cosa spinge ogni singola donna a mettersi su un treno lasciando figli e marito, o la famiglia, o il lavoro o la scuola? Cosa significa questa enorme crescita quantitativa del movimento che smentisce ogni voce che vede a ogni pié sospinto la sua crisi? Paestum a questo ha risposto con molta evidenza: le donne vogliono partecipare in prima persona, vogliono incontrarsi e capire insieme i problemi e i destini del movimento perché sentono che in discussione sono i problemi e i destini di ciascuna. Ed è per questo che l'incontro di questi giorni ha visto una grande partecipazione di tutte, non solo nelle sedi «specifiche» del dibattito, ma anche in tutti gli altri momenti (a pranzo, nelle stanze dei vari alberghi, per la strada) di queste giornate.

Questa salutare eterogeneità ha però anche significato una enorme difficoltà di comunicazione, anche in ciascuno dei gruppi. Come riportare all'interno di un confronto allargato i modi di parlare e di porsi l'una nei confronti dell'altra sperimentati e vissuti nei singoli collettivi, nelle proprie città, fra realtà cioè conosciute e «familiari»? Come evitare quel che succedeva nelle organizzazioni politiche oppure nella propria famiglia, che cioè a parlare fossero le più «esperte»? Come mantenere aperta la volontà, presente in tutte, di esprimersi? Come eliminare i ruoli?

Il movimento femminista che questi problemi sempre si è posto, ad esempio con la struttura del piccolo gruppo, ha affrontato di petto la questione. Il discorso del linguaggio, della comunicazione fra donne, è stato il filo che ha unito un po' tutti i gruppi in cui il convegno si è articolato; la presenza di realtà diverse per livelli di elaborazione, di pratica, ha creato infatti molto disagio. Chi prendeva la parola, in qualunque modo 1o facesse, (mettendo al primo posto la sua emotività o la volontà di razionalizzare) era scarsamente seguita da tutte le altre e le accuse reciproche di essere o solo «testa» o solo «corpo» rimbalzavano. Finché una compagna si alza e dice: «Siamo lo specchio della realtà che è fuori di qui, siamo diverse l'una dall'altra, prendiamo coscienza delle nostre differenze, non andiamo alla ricerca di linguaggi "taumaturgici", l'espressione verbale è ancora quella che più ci accomuna».

In realtà, affrontare il problema di come comunicare fra donne rimanda, ed è qui che si esprime la massima difficoltà, al rapporto con le donne che il movimento non riesce a raggiungere. Il dibattito ha approfondito il tema del rapporto tra movimento femminista e «esterno», tra emancipazione e liberazione. Cosa vuol dire che le donne che compongono il movimento femminista sono donne già «emancipate», cioè già inserite nel lavoro, nella scuola, nelle strutture pubbliche della società? Significa, come sostiene l'Udi, che vanno fatte battaglie per avere più occupazione femminile? E se a questo il movimento femminista non si associa, quali altri strumenti si dà per coinvolgere, ad esempio, le donne più emarginate, come le casalinghe? Sono i problemi su cui il movimento si confronterà con i suoi tempi nei mesi a venire.

Una riflessione importante si è concentrata sulla «spontaneità» del movimento. «La spontaneità si è trasformata spesso in puro spontaneismo; il Sessantotto prima e la risposta dei gruppi della nuova sinistra poi non hanno offerto alcuna soluzione alternativa», dice una compagna di Milano. «Mi viene in mente l'esperienza del parco Lambro e la nascita dei circoli del proletariato giovanile. Il movimento deve riflettere sulla spinta alla disgregazione dei soggetti sociali e quindi anche di quel particolare soggetto sociale che noi siamo per riconoscere le nostre differenze. E' un contributo alla comprensione profonda delle difficoltà che abbiamo».

ANCORA non è chiaro se il presidente del Consiglio Monti contempli oppure no la possibilità di restare a Palazzo Chigi dopo le elezioni. A New York ha detto di sì, il 27 settembreMa tornato a Roma è stato più vago: «Lascerò il governo ad altri, nei prossimi mesi». Di certo, però, l’idea di un Monti-bis occupa le menti di molti partiti, e anche degli elettori, e il fatto che sia un’idea avvolta di mistero la rende perfino più insinuante. Monti c’è e non c’è, ha bravure tecniche e una ritrosia istintiva a schierarsi che gli dà una forza peculiare. Una forza non necessariamente positiva: mistero, miracolo, autorità refrattaria alla politica sono attributi del cesarismo. L’altro ieri ha specificato che la classica divisione destra-sinistra va sostituita da quella tra evasori e non evasori: l’estraneità alla politica e al suo progettare pare evidente.

È opinione diffusa che la dichiarazione di New York sia una risposta ai mercati, di nuovo innervositi dall’instabilità italiana. È per rassicurarli che Monti ha detto: «State tranquilli, se opportuno riprendo le redini io». Se le cose stanno così, non stupisce che abbia scelto come platea gli Stati Uniti e non l’Italia. Non da oggi infatti sono due, gli uditori e gli àmbiti territoriali (leconstituency) cui gli aspiranti al comando devono rispondere: la constituencydei mercati e quella che democraticamente vota i candidati ai vertici degli Stati. Fin dal 1998, l’ex presidente della Bundesbank, Hans Tietmeyer, parlò del «plebiscito permanente» (permanentes Plebiszit),che i mercati esercitano minuto dopo minuto sulle politiche nazionali, disciplinandole. A questo elettorato non nazionale ma transnazionale si è rivolto Monti, giovedì, convinto forse che il plebiscito di investitori planetari sia determinante e prioritario.

È come se il secondo plebiscito, affidato dalle costituzioni alla sovranità popolare, sbiadisse sino a svanire, rimosso dal primo. L’epoca che viviamo è per molti versi postcostituzionale

(è il motivo per cui urge dare all’Unione una Costituzione vera, scritta dai parlamentari europei, non dai governi), e son simili epoche, secondo il filosofo Leo Strauss, che secernono fatalmente il cesarismo. D’altronde Monti lo disse in due occasioni, il 7 agosto e il 16 ottobre 2011 sul Corriere,nell’autunno di Berlusconi. La prima volta annunciò che il governo «aveva accettato, nella sostanza, un ‘governo tecnico’». Formalmente la primazia della politica era intatta, ma «le decisioni principali sono prese da ungoverno tecnico sopranazionale» (un «potestà forestiero»). Due mesi dopo, descrivendo l’ira dei mercati e di Bruxelles, scrisse che l’Italia era «già oggetto di ‘protettorato’». Europa, America, Asia erano persuase che a «far saltare l'eurozona» saremmo stati noi, non Atene. Grazie al proprio governo il pericolo sarebbe oggi sventato. Ogni giorno il ministro Grilli assicura che la nostra sovranità è ripristinata, che non dovremo chiedere aiuti all’Unione (che male ci sarebbe a chiederli, se l’Unione è solidale con Stati che comunque non sono più sovrani e se la sua ricetta è quella di Monti?).

L’indeterminatezza di Monti può nascere da un calcolo o da una ritrosia, come può nascere da calcolo o ritrosia il rifiuto di misurarsi con altri pretendenti nella competizione elettorale. Un rifiuto legittimo – il premier è senatore a vita – ma non del tutto congruo: un senatore a vita che governa deve poter essere giudicato dalle urne oltre che dai mercati. Il problema è che pochi gli ricordano che candidarsi e parlare di programmi e alleati è dovuto, in democrazia. Qui è il pericolo, ma anche il fascino, che il cesarismo postpolitico pare esercitare.

È una delle singolarità italiane su cui vale la pena riflettere. In Grecia, in Spagna, cittadini indignati denunciano con impeto quello che vivono come diktat non tanto esterno, quanto inconfutabile. In Italia le proteste si frammentano, i sindacati gridano, ma le piazze non si riempiono. Non è una sciagura, ma è una passività colma d’ira che ha qualcosa di malato ed è un’anomalia, nella cosiddetta periferia d’Europa. Sembra confermare quello che Luciano Canfora considerava, nel 2010, la questione cruciale dei nostri tempi: i governi europei hanno scelto la strada dell’abdicazione, per quanto attiene a poteri decisionali fondamentali, in favore degli “esperti”. Seguendo alla lettera Tietmeyer, prediligono di fatto il permanente plebiscito dei mercati (un senatore a vita che governa deve poter essere giudicato dalle urne oltre che dai mercati. (Critica della retorica democratica, Laterza).

Ma i primi responsabili del male non sono i mercati. Essi constatano il vuoto di politica, e lo riempiono con loro ansie, esigenze. Responsabili della diserzione sono i partiti, i politici che antepongono la sete di potere alla competenza. E responsabile è il popolo italiano, che a questo andazzo ventennale s’è assuefatto se non affezionato.

L’abdicazione dei partiti è ricorrente, palese. Se davvero volessero governare, se non fossero anch’essi attratti dalla passività, riconoscerebbero che i poteri dei mercati tendono a espandersi nat uralmente (vale anche per i mercati quel che dice Mont esquieu: “Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti. Perché non si possa abusare del potere occorre che il potere arresti il potere”. Solo il politico può frenare l’abuso, correggere la vista corta di chi giudica solo il minuto, e contrapporre un potere legittimato democraticamente che duri un po’ più lungo di una seduta di borsa).

Ma i partiti vogliono veramente governare? Vogliono essere protagonisti, o preferiscono assegnare il compito a esperti e tecnici, pur di evitare il difficile o l’impopolare? Tutto fa pensare che un potere così rischioso non lo desiderino, né a destra né a sinistra. Se davvero ambissero a governare, e non solo a espugnare un ben remunerato spazietto, predisporrebbero alleanze durature. Ma soprattutto, approverebbero presto una legge elettorale che non distribuisca ai partiti poteri proporzionalmente spezzettati e quindi privi di responsabilità, ma che permetta la nascita di coalizioni dotate sia di potere sia di responsabilità. Difficile rintracciare questa volontà, debole in Bersani e ancor più in Renzi. Quest’ultimo vuol rifondare il Pd, e la volontà è meritoria e popolare, ma anch’egli s’inviluppa nell’indeterminatezza. Non dicendo con chi governerà, e ripetendo che Monti è il suo faro, cade nella trappola come i concorrenti o avversari. Ogni partito ha lo sguardo fisso su se stesso, pur sapendo perfettamente che da soli si naufraga. Se la legge elettorale non produrrà governi forti, ricadremo nellastrana maggioranzadi oggi: non una grande coalizione, ma un’accozzaglia di partiti che in solitudine insuperbiscono e in solitudine si corrompono tanto più facilmente.

Anche il popolo elettore tuttavia ha le sue responsabilità. Non dai tempi di Berlusconi, più volte rieletto, ma da molto prima, nutre sfiducia nella politica, nei propri rappresentanti, nello Stato. Non mancano le ragioni, e Grillo non cade dal cielo. A tal punto inaffidabili si sono rivelati i partiti e la politica italiana, inviluppata non nel mistero soltanto ma nella corruzione. Il Movimento 5 stelle misura le febbri italiane, le diffidenze degli elettori, la sfiducia che essi hanno in se stessi, la delusione accesa da alternanze e alternative mancate. Da questo punto di vista è vero che l’Italia è più debole della Grecia. Anche Atene è appesantita da ruberie e lobby, ma almeno dopo un governo tecnico è tornata alla politica, ha potuto scegliere tra visioni opposte della crisi e delle terapie. In Italia no, tutte le istituzioni vacillano, e nell’inerzia si continua a implorare un Cesare postcostituzionale. È così da quando è finita la prima Repubblica. La seconda non è mai cominciata. Tutti questi anni sono passati nell’inane, fallito tentativo di uscire dalla prima.

Il ponte di Calatrava colpisce ancora. Dopo una storia infinita di costi ballerini (lievitati da 2 a 23 milioni di euro), di varianti in corso d’opera, di costosissime manutenzioni, il quarto ponte sul Canal Grande è diventato il passaporto per un nuovo intruso nel cuore di Venezia: l’indecente alberghetto in vetro, ferro e cemento già in costruzione a un passo dal ponte. Per soprammercato, un garage a due piani, sotterraneo come a Venezia proprio non si fa. Dopo un contenzioso durato cinquant’anni, il proprietario dell’albergo Santa Chiara (su piazzale Roma) ha ottenuto il permesso di edificare in cambio di una piccola area verde che serviva per la base del nuovo ponte. Unponte di debole Costituzione:così lo ha chiamato la storica veneziana Nelli-Elena Vanzan Marchini, in un prezioso libretto della collanaOcchi aperti su Venezia (editore Corte del Fontego).

Calatrava è un celebrato architetto, che però ha calato sul Canal Grande un ponte pensato senza alcun rapporto, né stilistico né statico, con le caratteristiche del luogo: unsignature bridge chepotrebbe stare a Brasilia o a Shanghai. Ma Venezia non è una città qualsiasi: bello o brutto che sia, il ponte è inadatto alla città, al punto che la Corte dei Conti ha chiesto a Calatrava e ai responsabili del progetto 3,4 milioni di danni «in quanto l’opera è affetta da una patologia cronica caratterizzata dalla necessità di un costante monitoraggio e dal continuo ricorso a interventi non riconducibili alla ordinaria manutenzione».Riconosciamo in questa vicenda un virus che appesta le nostre città: il pregiudizio che una firma prestigiosa basti a giustificare qualsiasi inserzione di nuove architetture nelle città storiche (così Benetton ricorre a un grande architetto, Rem Koolhaas, per legittimare un’operazione speculativa sul cinquecentesco Fondaco dei Tedeschi:Repubblica,13 febbraio).

Viene in mente l’amara riflessione di Giancarlo De Carlo sul “fenomeno della copertura professionale” di grandi architetti, assoldati per coprire col loro nome guasti d’ogni sorta. Nessun luogo al mondo è più sensibile di Venezia a tali manovre. Occhi aperti su Venezia, dunque, ma anche sull’Italia: perché quel che si è messo in movimento è una sorta di missile a tre stadi. Prima fase, si manda avanti, come un rompighiaccio, il progetto di una qualche Grande Firma. Se, in nome della fama dell’archistar di turno, si riesce a farlo passare in barba alla storia e alla legalità, si può passare alla Fase Due: qualsiasi architetto, anche se ignoto ai più, potrà seminare per Venezia le sue piccole o grandi infamie. Segue, inevitabile, la Fase Tre: se tutto questo può accadere nel centro storico più delicato e più famoso del mondo, a maggior ragione le altre città italiane potranno popolarsi di intrusi in nome della modernità. È sotto quest’insegna, infatti, che una casta di costruttori senza fantasia, dopo aver deturpato le città italiane con architetture di pessima qua-lità, ha ora l’arroganza di proporre l’invasione dei centri storici. Ma anziché desertificare quel che resta delle nostre città, perché non usare le vere o presunte architetture di qualità per riscattare lo squallore delle nostre deformi periferie?

Venezia è oggi il laboratorio e la cartina di tornasole di un processo nazionale di accelerato degrado della tutela dei centri storici. Il peggiore insulto degli ultimi mesi alla città, l’improvvisato grattacielo che Pierre Cardin vorrebbe innalzare a Marghera, non hanemmenopro forma lacopertura di un’archistar: il progetto è la tesi di laurea di un nipote dello stilista, sostenuta a Padova nel 2011 (Corriere del Veneto,28 agosto): quanto basta per assicurarsi l’entusiasmo del ministro dell’ambiente Clini, che nello sgangherato palazzaccio vede a colpo sicuro l’alba di un Nuovo Rinascimento, e garantisce (dice lui) il pieno appoggio del governo. Pazienza se, coi suoi 250 metri di altezza, il mausoleo Cardin sfregerà per sempre loskylinedi Venezia, e violerà di oltre 110 metri l’altezza massima consentita nelle vicinanze dell’aeroporto (Repubblica,31 luglio).

L’impropria espansione dell’albergo di Piazzale Roma può parere al confronto una piccola cosa, ma non è così. Sarebbe (anzi è, perché la costruzione è in corso) il primo nuovo edificio sulle sponde del Canal Grande da un secolo a questa parte, un precedente pericolosissimo per nuove intrusioni. Quanto al garage interrato, non è quel che ci si aspetta a Venezia; e se poi, come alcuni temono, dovesse accrescere l’instabilità del vicinissimo ponte di Calatrava? Gian Antonio Stella ha raccontato da par suo la catena di garbugli e cavilli con cui questo progetto, anche qui senza bisogno di archistar, ha preso forma (Corriere della Sera,22 settembre). Ma davvero la sorte di Venezia e della sua bellezza dev’essere decisa da cavilli burocratici, e non dalla fedeltà ai principi della tutela e all’immagine della città? Chi può mai prendere una decisione come questa in barba al buon senso? Circola in merito una strana leggenda: responsabile unica e ultima della decisione sarebbe la Commissione di Salvaguardia, istituita con la legge speciale su Venezia del 1973. Questo pletorico organismo, presieduto dal presidente della Regione, è composto da venti membri, prevalentemente di nomina politica (4 della Regione, uno della Provincia, 3 del Comune, 2 dei comuni di gronda...), e si presta dunque al consueto scaricabarile. Non giova alla trasparenza il fatto che il progettista dell’alberghetto-intruso sia Antonio Gatto, membro della Salvaguardia in rappresentanza del Comune.

Ma la Commissione non è l’ultima istanza, dato che ne fanno parte due soprintendenti, quello ai monumenti e quello alle gallerie, e la legge prevede espressamente che, quando vi sia il parere contrario di uno dei due soprintendenti, “le determinazioni della Commissione sono sospese e il presidente della Regione, entro venti giorni, rimette gli atti al parere del Consiglio superiore dei Beni culturali” (artt. 5 e 6). La domanda è dunque: ammesso che (si spera) il progettista sia almeno uscito dalla stanza quando la Commissione, il 27 luglio 2010, approvava il suo progetto, i Soprintendenti hanno espresso, come dovrebbero, parere negativo? E il presidente della Regione? Il ministro Ornaghi, ora che con soli dieci mesi di ritardo si è dimesso da rettore della Cattolica, troverà il tempo di rompere il suo ostinato mutismo per dirci quel che pensa in proposito? Vorrà convocare il Consiglio superiore, da lui nominato da poco, peraltro con netta prevalenza di psicologi, politologi e altri inesperti? Quali che siano i cavilli amministrativi, l’intruso va scacciato dal Canal Grande. Ma un vantaggio in questa storia c’è: sarà facile capire chi ha più a cuore Venezia, se il ministero dei Beni culturali, la Regione o il Comune: sarà chi per primo avvierà le procedure di demolizione, prima che sia troppo tardi.

Il governo Monti bis nonpuòdiventare l’obiettivo di un grande paese come l’Italia. Sarebbe anzi una sconfitta, un certificato di minorità, una dichiarazione di impotenza. E, si badi bene, la sconfitta non riguarderebbe soltanto il centrosinistra, come taluni sostengono, ma anche i cittadini, le istituzioni, gli uomini e le imprese che più di altri si trovano ad affrontare la competizione globale e che dell’Italia sono di fatto ambasciatori. Perché il nostro Paese non può avere un governo, nato da una competizione democratica tra alternative legittime ed europee? Perché non può scommettere su un nuovo progetto, per l’Italia e per il Continente, che cerchi di correggere l’inerzia (peraltro drammatica) delle politiche economiche e sociali e, al tempo stesso, dia garanzie sugli impegni assunti come nazione? Perché bisogna cancellare dall’orizzonte ogni speranza di cambiamento e vanificare la partecipazione (persino le elezioni) nel timore di recare fastidio al conducente? Mario Monti è molto più saggio dei suoi sostenitori, e nel dichiarare la propria disponibilità a restare premier oltre le elezioni del 2013, ha aggiunto: «Speriamo di no». Sa che quella previsione contiene il fallimento politico del suo governo tecnico, perché questo è nato esattamente per ricondurre l’Italia umiliata dai governi Berlusconi ad una normalità istituzionale. Sa che per lui sarebbe comunque molto più difficile, perché non si riprodurrebbero le condizioni eccezionali della «strana» intesa politica: non solo i conflitti aumenterebbero nella maggioranza, ma fuori da essa si ingrosserebbe l’area della sfiducia verso la politica, verso l’Europa, verso la stessa democrazia.

Non basta come lezione ciò che accaduto in Grecia? Se gli elettori si trovano di fronte ad una soluzione obbligata, preconfezionata, per di più priva di ogni autonomia rispetto a mandati e verifiche esterne, il loro potere democratico residuo viene spinto con forza verso opzioni populiste, proteste radicali, contestazioni di sistema.

È vero che l’Europa, come l’intero Occidente, oggi non può permettersi il fallimento neppure della più piccola banca spagnola (e pensare che da noi, qualche professore liberista addirittura esultò il giorno del crack di Lehman Brothers, proclamando la vittoria definitiva del mercato: ancora viene ascoltato come un vate, e ovviamente pontifica sul Monti bis). Ma il collasso democratico di un Paese non avrà un contagio minore sull’economia e la società: soffiare sul fuoco dei populismi vuol dire inceppare le opportunità di sviluppo e spezzare il circuito della fiducia, necessario per il mercato non meno che per la solidarietà sociale.

Siccome Monti sa di aver restituito all’Italia prestigio e credibilità, è consapevole anche che una paralisi post-elettorale sarebbe un pericoloso fattore involutivo. Anche Giorgio Squinzi, neopresidente di Confindustria, si mostra assai più attento e sensibile di molti campioni del capitalismo nostrano. Ieri ha detto di essere pronto a rinunciare agli incentivi alle imprese, in cambio di tagli fiscali a favore del lavoro e delle famiglie. E sul Monti bis ha aggiunto: «Mi auguro che un Paese di 60 milioni di persone, la settima-ottava economia al mondo, sia capace di esprimere con il voto popolare un governo capace di governare». Ancora: «Se Monti si presenta e raccoglie la maggioranza per me va benissimo». Parole normali di un democratico normale. Che però nel nostro dibattito pubblico appaiono quasi rivoluzionarie. Nella borghesia italiana prevale un’altra tendenza: seminare sfiducia nella democrazia, strizzare semmai l’occhio alla protesta di Grillo, trasformare la giusta indignazione per la dilagante corruzione in una opposizione assoluta, indistinta verso tutti i partiti. «Sono tutti uguali» è il motto del disimpegno che porta ad acclamare la soluzione tecnocratica e oligarchica.

Purtroppo, la cecità di parte della classe dirigente è uno degli handicap competitivi più gravi del nostro Paese. Non vogliono i partiti e i corpi intermedi, detestano le autonomie sociali perché pensano così di difendere meglio i loro interessi di fronte al mercato globale e alla progressiva cessione di sovranità verso l’Europa. Ma, così facendo, azzoppano ancor più l’Italia, accelerano il declino e sottraggono opportunità ai loro stessi figli. La partecipazione democratica, la competizione tra alternative è parte essenziale di un Paese che deve, anzitutto, dimostrare al mondo di essere vivo. Non malato, o moribondo.

C’è anche chi dice: se proprio volete fare le elezioni, almeno firmate davanti a Monti un patto che vincoli qualunque governo futuro. La chiamano Agenda Monti, giocando con le parole. Se per Agenda Monti si intende l’impegno europeista, la continuità della presenza italiana nelle sedi internazionali, la tenuta dei conti pubblici nelle condizioni di mercato, non si capisce cosa ci sia da firmare. È ovvio che qualunque alternativa politica parte da lì. E il centrosinistra ha già dimostrato altre volte la propria affidabilità, a cominciare dal primo governo Prodi, che salvò l’Italia agganciandola all’euro e che pagò un prezzo alto di consenso per mantenere la coerenza nelle politiche di bilancio. Semmai è il centrodestra a non essere mai stato capace di tenere insieme i conti pubblici con un minimo di respiro vitale dell’economia reale.

Ma purtroppo l’Agenda Monti è per i più un pretesto per dimostrare l’inevitabilità del Monti-bis. Dal Monti dell’emergenza al Monti dell’impotenza democratica. Evitare questo esito sarà una battaglia politica difficile, non meno di quella che ha portato alla nascita dell’attuale governo Monti. Una battaglia che per il centrosinistra comincia con le primarie.

Diciamo la verità: molti dubitano che siano davvero uno strumento utile. Portano acqua al mulino del dubbio sia coloro che si mostrano indifferenti al rischio di inquinamento del voto, sia coloro che ora declassano le primarie ad una sorta di scampagnata, propedeutica all’«inevitabile» Monti bis. Le primarie devono essere invece l’avvio della sfida per il governo, devono disegnare il profilo della proposta del centrosinistra al Paese e all’Europa. Abbiamo davanti scelte di portata storica. Il cambiamento deve essere una bandiera anzitutto per il Paese. Chi vuole fare delle primarie un congresso di partito, per favore, aspetti un turno perché altrimenti rischia di favorire i Berlusconi e i Grillo che pagherebbero oro per avere un Monti bis da occupare (pro quota) o da contrastare (indicando tutti i partiti come complici). La vera sfida delle primarie consiste in questo: dimostrare che il centrosinistra può offrire all’Italia un progetto di maggiore equità sociale, di maggiore sviluppo, di maggiore riforma rispetto al governo tecnico. E dimostrare al tempo stesso che lo si può fare assicurando i nostri partner europei, anzi consolidando le alleanze con i progressisti d’Europa.

L’INFRASTRUTTURA più cara a Silvio Berlusconi, che ne fece oggetto della sua campagna elettorale nel 2008, e che il governo Monti si affrettò a definanziare, poche settimane dopo l’insediamento, torna alla ribalta. A dispetto delle critiche che piovono da un decennio sul ponte sullo Stretto, il meccanismo amministrativo si è rimesso pericolosamente in moto. Meccanismo che potrebbe portare alla posa della prima pietra nel giro di pochi mesi. «Non c’è una scelta definitiva, io non lo considero tra le infrastrutture prioritare», disse il ministro per lo Sviluppo economico Corrado Passera nel giugno scorso. Dichiarazioni che arrivavano dopo due mosse cruciali volte a bloccare la mastodontica opera destinata ad unire Calabria e Sicilia: alla fine di ottobre del 2011 il piano di investimenti della Commissione europea, che indica i trenta progetti prioritari fino al 2020, ignorò smaccatamente il mega-ponte. Il governo Monti non perse tempo: la riunione del Cipe del 20 gennaio di quest’anno dispose il definanziamento per 1,6 miliardi del Ponte motivando la scelta proprio per l’assenza, dopo tanti anni, di un progetto definitivo. Sembrava che il sogno berlusconiano, coi suoi costi stratosferici (si parla di 8,5 miliardi) e le sue ambizioni da «meraviglia della terra», fosse destinato ad essere immolato sull’altare della nuova sobrietà montiana. Tanto più che il Def, il documento economico e finanziario dell’aprile di quest’anno, nell’allegato infrastrutture, ignora completamente l’opera.

Invece il Ponte torna alla ribalta. Fin dall’estate scorsa Pietro Ciucci, amministratore dell’Anas (società del Tesoro) e della Società Stretto di Messina, fondata negli anni Ottanta con il compito di progettare e realizzare l’opera, ha mosso all’attacco e ha annunciato un ricorso straordinario al Capo dello Stato (inviato nei giorni scorsi) in cui considera di fatto illegittimo il definanziamento del progetto operato dal Cipe nel gennaio scorso: sostanzialmente perché la società rimasta senza soldi non può rispettare la convenzione originaria firmata con Stato e che nessuno ha ancora abrogato.

Aperta la falla, l’iter del Ponte è ricominciato. Il ministero dell’Ambiente ha riattivato, il6 luglio scorso, la commissione per fornire il Ponte della Via, la cruciale valutazione di impatto ambientale. Inoltre, senza attendere il semaforoverde della Via (come avviene normalmente), nei giorni scorsi, il 27 settembre, il ministero per le Infrastrutture e Trasporti (retto da Corrado Passera) ha aperto la conferenza dei servizi, cioè l’organismo in grado di dare tutte le autorizzazioni necessarie sul progetto definitivo e far partire l’opera. Una circostanza che ha messo in allarme le associazioni ambientaliste — Fai, Italia Nostra, Legambiente, Man e Wwf — che annunciano clamorose proteste.

Se i due ministri Clini (Ambiente) e Passera (Sviluppo) hanno accettato di dar seguito all’esame di impatto ambientale e alla conferenza dei servizi, non altrettanto favorevole era sembrato in passato il ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca che in più occasioni aveva pubblicamente osservato che il limitato orizzonte temporale del governo non sembrava sufficiente ad esaurire le complesse procedure amministrative dell’opera.

Ma nonostante ciò la macchina del Ponte sullo Stretto rischia di rimettersi in moto.

Nel disperato tentativo di sfilarsi dal baratro morale che si era aperto sotto la sua ferrea regia, durante la rabbiosa conferenza stampa di commiato Renata Polverini aveva tentato di accreditare la favola di una giunta regionale efficiente e virtuosa danneggiata da consiglieri regionali crapuloni e corrotti. A 48 ore di distanza questa linea difensiva è diventata la disfatta di Caporetto.

Il governo ha infatti impugnato di fronte alla Corte costituzionale la riscrittura del «Piano casa» regionale. E non è, per sventura della ex presidente, la prima volta. Il 24 ottobre dello scorso anno un precedente articolato era stato impugnato da un governo «amico».  Era stato infatti l'ex ministro Galan a esprimere giudizi feroci sulla legge impugnandola e ottenendo la sua cancellazione.

La giunta regionale avrebbe dunque potuto fare tesoro dell'accaduto e invece nulla: ha licenziato un testo che era ancora più confuso e più derogatorio rispetto al precedente.

Sarà stato l'effetto delle feste o delle ostriche, ma la legge si beffava delle norme di tutela del paesaggio. Lo staff tecnico del ministro per i Beni culturali Ornaghi aveva censurato la legge perché ad esempio consentiva di costruire infrastrutture sciistiche anche in zone vincolate o di realizzare lungo i 360 chilometri di costa laziale tutte le 60 richieste di realizzazione di nuovi porti o di ampliamento di quelli esistenti, porti canale, turistici e marine presentate in questi ultimi anni. Consentiva cioè di realizzare un porto ogni sei chilometri di costa: uno scempio inaudito che non teneva conto che il Codice dei Beni culturali vincola le aree costiere italiane.

La regione Lazio attraverso il piano casa affidava a se stessa il potere di deroga: il federalismo fai da te, come l'abnorme rigonfiamento delle spese di rappresentanza votate a ripetizione. Ecco dunque la rotta di caporetto: non è vero che esisteva una giunta virtuosa e un consiglio di reprobi. Se i consiglieri regionali sperperavano il denaro pubblico nel modo che abbiamo conosciuto, i membri della giunta - pur potendo disporre di eccellenti giuristi in house - lo gettavano al vento per pagare profumatamente consulenti giuridici che, a giudicare dai risultati, forse non erano così brillanti. Si pensi che la precedente legge del 2011 era talmente confusa che la giunta regionale ha dovuto approvare dopo pochi mesi una «circolare esplicativa» di ben 20 pagine!

Ma al di là delle questioni istituzionali, i piani casa regionali dimostrano ancora una volta la loro incapacità ad affrontare le cause dalla crisi economica. Prendiamo i citati 60 porti su cui si voleva basare il rilancio degli investimenti. Era stato denunciato che non era attraverso la cementificazione delle coste che si poteva sperare in un futuro migliore, ma l'arroganza del potere ha voluto approvare lo stesso la norma. Il 25 settembre scorso, il Sole 24 Ore pubblica la denuncia effettuata da Assomarinas, e cioè l'associazione che raggruppa i porti italiani della nautica, che afferma che a causa delle crisi economica il quadro di riferimento è completamente cambiato. In una lettera al governo e ai presidenti della Regioni il presidente di Assomarinas dice che «la crisi del settore della nautica da diporto sta assumendo carattere strutturale con la tendenza a protrarsi per almeno 15 anni».

Bene ha fatto dunque il ministro Ornaghi ad impugnare una legge inutile e devastante: insieme alla Polverini e al consiglio regionale bisogna mandare in soffitta anche il piano casa regionale perchè era basato su una filosofia rozza e

Piano casa per le aree degradate: ondata di ritocchi dalle Regioni

Maria Chiara Voci

In attesa della nuova raffica di leggi con cui le Regioni dovrebbero recepire le novità introdotte dal decreto sviluppo sul «piano casa per le aree degradate» - per il quale da oggi i proprietari possono far domanda, ammesso che siano chiari a tutti i contenuti del Dl 70 -, non si arresta nei territori locali l'ondata di riforma delle vecchie leggi, quelle che scaturiscono dall'accordo Stato-Regioni del 1° aprile 2009 e che consentono ampliamenti o sostituzioni di edifici, in deroga ai piani regolatori e con premi volumetrici.

I ritocchi derivano in parte da promesse di campagna elettorale: la revisione del piano casa è stata per il centrodestra una delle teste d'ariete usate per convincere gli elettori. Quasi ovunque è stata inoltre forte la necessità di dare un senso, tardivo, a un provvedimento che è andato spesso “deserto” (pochissime le domande presentate dai cittadini, con le sole eccezioni di Veneto, Sardegna e Valle d'Aosta). Le modifiche però hanno come effetto quello di pasticciare testi normativi che, già per loro natura, contenevano e contengono diversi punti controversi.

Le uniche Regioni che, esaurita la prima legge, hanno deciso di non rinnovare sono state Lombardia ed Emilia Romagna. Qui i termini per presentare domanda di ampliamento o sostituzione sono da tempo scaduti senza proroghe o modifiche. Diversa la scelta degli altri governatori.

In alcune Regioni, come la Calabria, il Piemonte, l'Umbria e la Campania, la revisione del piano casa, più che a piccole modifiche, ha portato alla riscrittura di intere porzioni di legge. A seconda dei casi, si è estesa la possibilità di intervenire anche sugli immobili industriali e produttivi (i grandi esclusi nelle prime versioni legislative), è arrivato il semaforo verde per agire in zone agricole o su porzioni dei centri storici, sono aumentate le percentuali dei bonus di cubatura o sono decaduti alcuni paletti, che limitavano la possibilità di mettere mano al patrimonio edilizio esistente.

Di grande sostanza anche la riforma del Lazio, dove è arrivato il via libera agli interventi in zona agricola, su edifici oltre i mille metri cubi, sulle ville a schiera e nei centri storici, purché ci sia il via libera della Soprintendenza.

L'amministrazione Polverini, però, è già dovuta intervenire con una rettifica quando la nuova legge non era ancora pubblicata in Bur (è sul supplemento n. 160 al Bollettino 30 del 27 agosto) e ha inserito nell'assestamento di bilancio la possibilità di autorizzare da subito i piccoli interventi di ampliamento degli edifici, in attesa che i Comuni si esprimano sul resto della legge (per delimitarne gli ambiti di applicazione) entro il 31 gennaio del 2012.

Prima dell'estate è arrivato l'atteso restyling della disciplina del Veneto: forte di uno dei rari casi di successo della norma, con oltre 23mila domande depositate, la Giunta Zaia ha prorogato la legge 14/2009 fino al 30 novembre 2013, ha aperto alla possibilità di intervenire su immobili inseriti nei centri storici e ha inserito un bonus aggiuntivo del 15% (in aggiunta al 20% di base + 10% per utilizzo di fonti rinnovabili) per chi, nell'ampliare, consegue la certificazione in classe B.

Già modificate da tempo le norme della Liguria (che pur è rimasta restrittiva) e delle Marche. Altre Regioni, come lo stesso Lazio, ma anche Puglia, Toscana, Valle d'Aosta e Molise hanno agganciato ai provvedimenti di revisione del vecchio piano casa, tutti approvati a ridosso dell'estate, il recepimento delle previsioni del nuovo piano casa del Dl sviluppo, per il recupero delle aree degradate.

Via libera al cambio di destinazione d'uso

Guido A. Inzaghi

L'ultima versione del piano casa punta sulla «riqualificazione incentivata delle aree urbane». La legge 106/2011 di conversione del Dl Sviluppo(70/2011) consente infatti la realizzazione di volumetrie aggiuntive in deroga al piano regolatore, il mutamento delle destinazioni d'uso in atto, la demolizione e la ricostruzione degli edifici dismessi anche con modifica della sagoma.

Le disposizioni trovano tendenzialmente applicazione diretta qualora le Regioni non provvedano ad assumere le norme che il decreto riserva alla loro competenza.

L'articolo 5, comma 9, del decreto sviluppo assegna così alle regioni il termine fisso di 60 giorni dalla sua conversione (vale a dire fino a ieri, domenica 11 settembre) per approvare leggi che agevolino la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti, nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione o da rilocalizzare. Il tutto attraverso:

a) il riconoscimento di una volumetria aggiuntiva rispetto a quella preesistente come misura premiale;

b) la delocalizzazione delle relative volumetrie in area o aree diverse;

c) l'ammissibilità delle modifiche di destinazione d'uso, purché si tratti di destinazioni tra loro compatibili o complementari;

d) le modifiche della sagoma necessarie per l'armonizzazione architettonica con gli organismi edilizi esistenti.

Resta fermo che tutti gli interventi non possono riferirsi ad edifici abusivi (salvo che oggetto di sanatoria) o siti nei centri storici o in aree a inedificabilità assoluta.

A partire di fatto da oggi - lunedì 12 settembre - e fino all'entrata in vigore della normativa regionale, agli interventi descritti in precedenza si applica l'articolo 14 del Dpr 380/2001, anche per il mutamento delle destinazioni d'uso. Quindi la realizzazione degli interventi di riqualificazione potrà avvenire in deroga alla strumentazione urbanistica ed edilizia locale (ma non alla leggi statali e regionali di settore), con un meccanismo però tutt'altro che spedito e che prevede il passaggio in consiglio comunale per raccogliere l'assenso politico, e dunque discrezionale, al superamento della disciplina del Prg e del regolamento edilizio. Il consiglio comunale dovrà determinare anche la percentuale di ampliamento consentita.

Resta inoltre fermo il rispetto degli standard urbanistici, delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e in particolare delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all'efficienza energetica, di quelle relative alla tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio.

Dal prossimo 10 novembre, gli interventi di ampliamento - sempre nei limiti finora individuati - potranno essere realizzati anche senza avvalersi del permesso di costruire in deroga e, quindi, anche attraverso Dia o Scia a seconda dei casi e della legge regionale applicabile. Fino all'approvazione delle leggi regionali, la volumetria aggiuntiva è realizzata in misura non superiore complessivamente al 20% del volume dell'edificio se destinato a uso residenziale, o al 10% della superficie coperta per gli altri usi.

TORNANO a volare gli elicotteri a Palazzo Lombardia. Nonostante una sentenza del Tar, datata 27 luglio, che ha revocato alla piattaforma del nuovo Pirellone l’autorizzazione come elisuperficie rilasciata dall’Enac, i residenti della zona negli ultimi due giorni hanno avvistato almeno tre elicotteri atterrare e poi ripartire: due giovedì (uno alle 12.40, l’altro alle 19.30) e uno ieri mattina, intorno alle 9.40. Il tutto corredato dai vari disagi che gli abitanti della zona denunciano ormai da anni: finestre che vibrano, rumore insopportabile, odore di carburante che entra nelle case. Ma com’è possibile che gli elicotteri siano tornati nonostante la sentenza del Tribunale amministrativo? Il Pirellone si appoggia a un cavillo, rivendicando il fatto che — sebbene l’autorizzazione come elisuperficie sia stata revocata — la piattaforma ha ottenuto anche un’altra autorizzazione, quella di eliporto.

Equindi, secondo la Regione, i voli possono continuare. «La sentenza nei fatti non produce uno stop — è la posizione dell’assessore regionale ai trasporti Raffaele Cattaneo — dal 1° giugno Enac ha rilasciato alla piazzola di Palazzo Lombardia anche la ben più complessa e restrittiva certificazione di eliporto che consente agli elicotteri di atterrare edecollare indipendentemente dall’autorizzazione come elisuperficie ». Una differenza tecnica e terminologica (l’eliporto ha delle strutture di supporto alla piazzola di atterraggio, l’elisuperficie no), che però ha poco a che fare con il merito della sentenza, che aveva bocciato i voli in mezzo alle case perché il rumore era eccessivo.

«Vogliamo capirecome mai il Pirellone continui a far finta di niente — dice Anna Fabris del comitato quartiere modello che raccoglie i residenti della zona — . Chi è dalla parte del torto? Sbaglia il tribunale oppure è la Regione a fregarsene di una sentenza?».La seconda certificazione, comunque, è probabilmente destinata ad avere vita breve. Gliavvocati dei residenti infatti hanno già annunciato di voler proseguire la battaglia legale: «Non è cambiato niente, se non in peggio — spiega l’avvocato Stefano Soncini — per legge l’eliporto dovrebbe fare come minimo sei voli al giorno. Si tratta quindi di qualcosa di ancora più impattante rispetto all’elisuperficie. Per questo motivo noi abbiamo notificato giovedì un altro ricorso contro la nuova autorizzazione».

Con i residenti c’è anche il Pd in consiglio regionale. «L’eliporto non solo è più impattante, ma anche più preoccupante — spiega Franco Mirabelli, consigliere regionale del Partito Democratico — perché significa che si prevede di utilizzare quello spazio anche come ricovero dei mezzi. Il che vorrebbe dire fare della piattaforma il centro del progetto di linee elicotteristiche che Cattaneo ha in mente. Adesso è importante che il Comune, nel piano di zonizzazione acustica, stabilisca dei parametri per quell’area che non consentano l’uso di elicotteri, se non per le emergenze».

Si inaugurano i parcheggi sotterranei di via Ampère a Città Studi. Quando era stato aperto il cantiere dieci anni fa (10!), si pensava a poco più di un anno di disagio per avere poi una situazione di maggiore ordine in una zona dove ogni giorno si riversano 35.000 studenti e 5.000 addetti dell'università. Molti di loro si affacciano qui dalla stazione del metrò Piola, di fatto di fronte al parcheggio. Gli studenti che nel 2002 uscivano dal liceo e si presentavano tremanti al Politecnico o alla Statale hanno concluso i loro studi da molti anni. Sono stati costretti per tutto il periodo ad attraversare un cantiere fangoso e per la gran parte del tempo abbandonato. A Shanghai nel 2002 non avevano ancora vinto l'assegnazione di Expo 2010 e nello stesso periodo hanno realizzato, tra l'altro, 190 nuove stazioni sotterranee collegate da 490 km di nuove linee metropolitane.

Sappiamo che il parcheggio, deciso dall'amministrazione Albertini, ha incontrato diverse difficoltà: imprese fallite, ricorsi degli abitanti per le case lesionate. Ma è la storia di molti progetti dei parcheggi interrati, realizzati sulla base di un atteggiamento acriticamente favorevole alla realizzazione di interventi destinati ad infliggere ferite profonde nel tessuto urbano per far posto alle auto. La pretesa era che si trattasse di una scelta pragmatica senza costi per la collettività. I costi sono stati ben più rilevanti dei paventati oneri economici: per dieci anni le automobili si sono accatastate ancor più disordinatamente nella zona, si è persa una piccola piazza alberata, oggi sostituita da una spianata di cemento poco accogliente, in gran parte occupata dalle rampe di accesso a box privati che difficilmente porteranno benefici alla vivibilità della zona. Rimarginata la ferita c'è da chiedersi cosa possiamo imparare da questa vicenda.

Provo ad elencare alcune possibili cose:

1) è tramontata l'epoca del «a costo zero», molti costi non sono economici ma impongono alla comunità oneri ancor più gravosi;

2) nessun progetto può essere approvato senza considerare come affrontare gli imprevisti. Negli anni abbiamo sentito parlare di commissari straordinari, di commissioni: nulla che possa sostituire una quotidiana attività di controllo;

3) non è ammissibile che una città come Milano accetti di far durare il cantiere di un parcheggio per poche auto più a lungo del cantiere per 500 km di metropolitana in Cina;

4) dobbiamo interrogarci a fondo sul senso di progetti di parcheggi che incoraggiano l'uso dell'auto in una città già ingessata dal traffico quando tutte le società avanzate lavorano sulla limitazione dell'uso urbano dell'auto;

5) vorremmo infine anche poter considerare possibile la realizzazione di un parcheggio interrato, quando serve davvero, come un progetto «normale» se fattibile, mentre oggi, grazie alle esperienze disastrose degli ultimi 10 anni questo è diventato un tabù.

Solo se potremo dire di aver imparato queste cose Milano potrà festeggiare l'inaugurazione tardiva del parcheggio di via Ampère. Altrimenti si tratterebbe solo della sospirata scritta «Fine» di un brutto film che non vorremmo più rivedere.

Titolo originale: Concrete Jungles – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

SAVDA GHEVRA è una espansione periferica di minuscole povere case di mattoni con le porte di latta ammaccata, a ovest di Delhi. Sciami di mosche su fogne a cielo aperto. In assenza di rete idrica, ogni giorno arrivano 55 autobotti. Solo una minoranza delle case, quelle “ pukka”, ha i gabinetti. Si sono piantati degli alberi, ma complessivamente la sensazione non è molto diversa da quella di essere in una baraccopoli.

In teoria Savda Ghevra rappresenta un progresso: un progresso minimo, e del tutto insufficiente. L’area era stata destinata a presunti 500.000 abitanti dello slum sgombrati da Delhi per i giochi del Commonwealth del 2010: pescivendoli del puzzolente fiume Yamuna, sarti, chi trascina il rickshaw, venditori ambulanti a cui erano state rase al suolo le baracche. In alcuni casi erano stati accompagnati a Savda Ghevra, con un lotto assegnato su cui potevano costruire.

Adesso hanno casa e luce elettrica, ma si sono separate tante famiglie: il padre che dorme da qualche parte a Delhi, e gli altri nella nuova casa. Qualcuno si è venduto illegalmente il lotto, cedendolo a speculatori poco raccomandabili. All’angolo si vede una casa in vendita per la cifra improbabile di 2,7 milioni di rupie.

Le città dell’India, quasi tutte, sono prive di identità e rabberciate. Ed è uno dei motivi per cui il paese resta in gran parte rurale. Due terzi della popolazione (833 milioni di abitanti) vive sparsa in 640.000 villaggi. Ci sono politici come A.P.J. Abdul Kalam, ex presidente, o Narendra Modi, primo ministro del Gujarat (che parla di modello “ rurbano”), che vogliono tenere la gente lontano dalle città, e preferirebbero invece portare internet, elettricità, scuole e posti di lavoro verso le zone rurali.

Dato il peso complessivo del voto rurale, va in quella direzione molta spesa pubblica. Si sostiene il carburante diesel che i contadini usano per le pompe. Il programma NREGA crea posti di lavoro assistenziali a basso salario. Il governo paga a prezzi maggiorati grano e riso, per poi rivenderlo a prezzo politico agli abitanti dei villaggi. Così si evitano migrazioni, e in alcuni stati si sostiene la corruzione. Un esponente del governo calcola che il 44% delle razioni alimentari governative svanisca in qualche “buco”.

Certi stati,come il Kerala e Tamil Nadu, hanno servizi pubblici discreti e indicatori sociali accettabili nonostante la lenta urbanizzazione, ma questa resistenza ha un prezzo. La vita nei villaggi è dura per le caste inferiori, per le donne, per le minoranze religiose e di altro genere. Nei villaggi ci sono le peggiori scuole, la peggiore sanità, il lavoro meno produttivo.

Ritardare l’urbanizzazione può significare ritardare il benessere. Quando i contadini abbandonano la terra per le fabbriche, i call centre o altro, crescono il loro reddito e consumi, migliorano tutti i vari indicatori di sviluppo. In Cina oggi è urbana più di metà della popolazione.

Aromar Revi, direttore dell’Indian Institute for Human Settlements (IIHS), racconta che le 100 grandi città del paese, col 16% della popolazione totale, contribuiscono per il 43% al reddito nazionale. Anche chi abita lo slum produce e commercia. Ma sono frequentissimi i casi come Savda Ghevra, che ereditano pessima progettazione e gestione.

Gurgaon, zona terziaria vicina a Delhi, è piena di grattacieli di cristallo ma povera di condotti fognari e fili elettrici, solo ora sta cominciando ad avere mezzi di trasporto pubblici. La Mumbai sempre bloccata in un ingorgo cade a pezzi, specie quando piove.

La popolazione urbana, oggi 377 milioni, cresce di circa 5 milioni l’anno. Storicamente le città crescono per incremento naturale, non per immigrazione. Le cose stanno cambiando man mano le popolazioni delle campagne capiscono l’occasione. Dunque in futuro l’India urbana crescerà molto più in fretta, raddoppiando verso la metà di questo secolo.

Certe città diventeranno mega-città. Secondo alcune previsioni, l’intera costa occidentale potrebbe trasformarsi in un’unica conurbazione, estesa da Ahmedabad in Gujarat al nord, attraverso Mumbai e verso sud fino a Thiruvananthapuram in Kerala. Nell’entroterra Delhi e la regione che la circonda sarebbe un nodo da 60-70 milioni di abitanti people, sempre che ci sia acqua a sufficienza. Entro vent’anni l’India avrà probabilmente dieci città più grandi di New York, ciascuna da almeno dieci milioni di persone: Ahmedabad, Bangalore, Delhi, Mumbai, Hyderabad e Chennai.

Delhi dispone in abbondanza di fondi pubblici, e anche di donazioni giapponesi, che hanno contribuito a finanziare la nuova metropolitana. Anche altre città come Bangalore e Ahmedabad, stanno costruendo metropolitane. Ogni grande centro può attingere a risorse centrali, quelle del Jawaharlal Nehru National Urban Renewal Mission, per nuove infrastrutture. Ma crescono molto anche centri più piccoli. Sono già 53 le città con almeno un milione di abitanti. In alcuni casi sono migliorate, ma tante sono sporche e mal governate.

Gorakhpur è una grande città vicino al confine col Nepal nell’Uttar Pradesh orientale, famigerata per la politica religiosa, la criminalità e il contrabbando. Ha 670.000 abitanti, una pessima situazione sanitaria e strade a pezzi. Ai margini estremi della città c’è un campo da cricket così ricoperto di rifiuti che risulta quasi impossibile vedere il terreno che ci sta sotto. Nelle vie le vacche brucano sacchetti di plastica.

L’India è mal attrezzata per rendere questi luoghi più efficienti in termini sia di sviluppo che di qualità della vita. “Non vedo progressi nella riflessione sulle città” commenta un alto esponente del mondo immobiliare e commerciale. Gran parte dei terreni è di proprietà privata, ma i meccanismi di mercato restano opachi, troppo dipendenti da rapporti familiari e politici.

Particolarmente grave la situazione di Mumbai. “Sull’edilizia in città si innescano delle rivolte” commenta Guzder, uomo d’affari di etnia parsi. Spuntano grattacieli, specie attorno a Sea Link, il ponte che college la parte meridionale a quella settentrionale della città. “Mancano del tutto le infrastrutture fondamentali urbane, non si allargano le strade, non ci sono servizi di polizia”. Prithviraj Chavan, primo ministro dello stato del Maharashtra, dà la colpa di tutti i problemi ai “profondi intrecci tra interessi immobiliari e discrezionalità politica nei finanziamenti”.

Anche nei comuni c’è bisogno di maggiore professionalità. Guzder racconta che a sovrintendere l’intera regione metropolitana di Mumbai c’è un solo urbanista (“e presto andrà in pensione”). Revi calcola che nel 2031 l’India mancherà di almeno 100.000 tecnici — tra urbanisti, ingeneri ecc. —per la gestione urbana. È a capo di una nuova struttura universitaria che cercherà di riempire il vuoto.

Per i ricchi dotati di risorse si prova ad aggirare il problema fondando città nuove. Come Lavasa, in corso di realizzazione su un’area di circa 10.000 ettari di collina affacciati su un lago artificiale vicino a Pune in Maharashtra. Pare bella: quartieri dove si può camminare, buone strutture, una specie di oasi per 300.000 abitanti. Ma è piena di contraddizioni, e sicuramente non può essere un modello per le città destinate ad ospitare un sesto della popolazione mondiale.

Molto più interessante da questo punto di vista l’esempio che troviamo risalendo la costa. Surat, nel Gujarat, 4,5 milioni di persone, fiorente nodo commerciale che non molto tempo fa era una specie di discarica come Gorakhpur. Nel 1994, dopo un dichiarato (mai confermato) scoppio di un’epidemia di polmonite, divenne simbolo di squallore, ingorghi, slum e pessimo governo. Da allora è cambiata. Un’amministrazione efficiente l’ha ripulita. Rifiuti raccolti, trasporti migliorati, strade spazzate, servizi attivati. E, miracolo, si è trattato di riforme durature. Il 96% degli abitanti paga le imposte locali entro i termini. Manoj Kumar Das, oggi sindaco, racconta come negli utlimi dieci anni la popolazione di Surat sia cresciuta in media del 5% l’anno, percentuale tra le più alte del mondo. Secondo i tecnici, nel 2031 potrebbe avere 9,3 milioni di persone, più di Londra.

Aiuta il fatto che l’economia locale prospera, lavorazione dei diamanti, tessili e petrolifere in particolare. Il capo di una delle imprese dei diamanti racconta come quella sua città natale abbia cambiato volto e sia orgogliosa. Gli investitori apprezzano l’energia elettrica senza interruzioni, un traffico che scorre, la mentalità concreta. Migliorano anche le più estreme periferie. In una giornata del torrenziale monsone colpisce per stranezza l’assenza di puzza, sciami di mosche, fango, baccano, anche ala discarica municipale. Funziona, gestita in appalto privato, un modello che le altre città potrebbero imitare anche da subito. E anche la spazzatura si può sfruttare: presto se ne bruceranno 1.200 tonnellate al giorno nell’inceneritore di fabbricazione tedesca.

Impressiona anche il sistema fognario: efficiente, computerizzato, alimentato dall’elettricità di un impianto a biomasse e metano. Sono allacciate alle fogne il 90% delle case. L’ingegnere municipale spiega come le reti idriche siano estese a tutta la città. Si demoliscono gli slum e si realizzano parchi lungo il fiume. Il prossimo progetto è di un sistema di autobus veloci, passerelle di attraversamento sopraelevate, e un parco a tema stile Bollywood ispirato a Disneyland. Si vedono saloni di automobili molto alla moda, marchi commerciali come Jimmy Choo, Burberry, Armani o Gucci arriveranno presto.

Cosa funziona a Surat? Tanti uomini d’affari, il rappresentante dell’associazione gioiellieri, la camera di commercio, un importante giornalista locale, tutti danno la medesima risposta: una buona amministrazione. Quando gli abitanti possono fidarsi di chi li amministra e dei progetti, contribuiscono volentieri al successo della città. Quest’anno i privati hanno piantato 200.000 alberi per migliorare la situazione del verde.

Secondo Das se si dà la giusta motivazione agli enti pubblici e a chi ci lavora, altre città possono fare lo stesso. Per esempio, oggi a Patna, la capital del Bihar dove è nato, tutti hanno la luce elettrica. Quando era un ragazzo ha dovuto studiare con una lanterna.

Nota: questo articolo dell’Economist, che ovviamente sostiene una propria tesi diciamo “liberale” come si addice agli orientamenti della testata, dal punto di vista dei dati proposti è praticamente identico ad altri già pubblicati sulla stampa internazionale, che probabilmente corrispondono a qualche tipo di informazioni standard rese note dal governo indiano in forma aggregata, mai citate. Posso rinviare qui, per una prospettiva forse diversa e ad altre dichiarazioni dei protagonisti, a quello dal Bangkok Post che ho tradotto su Mall alcuni giorni fa (f.b.)

"Le mani bucate delle Regioni" è il titolo di un recente editoriale di Sergio Rizzo sul Corriere della sera. Il tema è tutto nel titolo. Le Regioni - scrive Rizzo – , nei dieci anni tra il 2000 e il 2009, hanno speso dai 119 iniziali sino ai 209 miliardi, in gran parte buttati nel buco nero della sanità (il 75.6% della spesa). Tre volte e mezzo l'inflazione. Il doppio rispetto alla crescita registrata dalla spesa pubblica italiana nel suo complesso (37.8%). E ciononostante la sanità, con poche eccezioni, fa acqua. Quindi – è la conclusione – la spesa non solo è stata eccessiva ma anche male indirizzata. Morale? Bisogna tornare a una finanza pubblica centralizzata nello Stato. Al potere supremo della Ragioneria generale. Il Titolo V è stata una sciagura, perché ha impedito al Tesoro di controllare la finanza regionale.

Domando a Rizzo: ma come mai in Germania la finanza federale è virtuosa? Non sarà, qui in Italia, un problema tutto nostro, non risolubile tanto rafforzando i gendarmi centrali, quanto introducendo seri controlli preventivi, un sistema efficace di avvisatori che valga a ricondurre le Regioni sulla via di una finanza controllata, senza però togliere loro la possibilità di spendere responsabilmente e avvedutamente?

E’ stato Sabino Cassese il primo ad avvertire che quando le funzioni pubbliche vengono trasferite dal centro alla periferia aumenta quasi per un automatismo oggettivo il rischio della corruzione, anzitutto perché cresce la “prossimità” tra l’amministrazione e gli interessi e poi perché (per lo meno in Italia) le burocrazie regionali, reclutate con minori garanzie, sono più “permeabili” dalla politica di quanto non accada a livello centrale. Ma, soprattutto – ed è questo il punto fondamentale –, i controlli sull’amministrazione periferica (Regioni, province, comuni) sono pressoché interamente lasciati alla autodisciplina interna, essendo inefficace l’azione delle sezioni regionali della Corte dei conti (controlli legalistici e a posteriori) e praticamente inesistenti altre eventuali forme di vigilanza sui conti degli enti locali. Il Coreco, istituto certo da non rimpiangere (anche per la allora già elevata commistione con la politica), costituiva però anni fa quanto meno un paletto esterno. Il segretario comunale di carriera, di fatto dipendente dal Ministero dell’interno, sarà pure stato un odioso residuo di invadenza centralistica, ma per lo meno rappresentava in molti casi una remora alla totale discrezionalità delle politiche di spesa degli enti locali. Oggi la sostanziale scomparsa di questa rete di controlli ha generato il mostro del quale solo adesso si accorge la grande stampa d’opinione (ma vorrei dire a Rizzo che se ci studia un po’ scoprirà che il mostro era stato individuato e denunciato – ahimé invano – già molti anni fa).

Sappiamo qual è il disastro, ne conosciamo le cause. La disorganizzazione degli apparati, innanzitutto, ideale perché la corruzione alligni e detti legge. La scarsa separazione politica-amministrazione (quanto male ha fatto nei ministeri la sciagurata legge sullo spoil system…). Poi la mala gestione degli appalti, con la consuetudine diffusa degli affidamenti diretti al posto delle gare. Poi ancora la pessima politica del personale, basata su concorsi ad personam o addirittura sulla prassi dell’assunzione fuori sacco, degli ope legis, delle promozioni, retribuzioni, trattamenti aggiuntivi privi dei presupposti di legge. E ancora l’uso senza regole dei fondi europei (il grande business degli ultimi anni), sicché non si contano le “incompiute”, iniziate solo per attingere ai fondi e poi lasciate a metà, e la svendita al ribasso del patrimonio pubblico a privati interessati senza le necessarie avvertenze, oppure – come denunciano diverse sezioni regionali della Corte dei conti – la prassi corrente per cui, da parte pubblica, si sceglie spesso di soccombere nei giudizi promossi da terzi, anche “quando le prime fasi di giudizio, hanno dato piena ragione all'amministrazione” (la citazione è da una recente denuncia del viceprocuratore della Corte dell’Aquila).

Il resto (a cominciare dalle feste del Lazio) è solo la conseguenza: i costi senza controllo delle istituzioni, l’artificiosa moltiplicazione delle strutture a scopo di distribuire danaro, l’arricchimento di una classe politica avida e senza scrupoli. Del resto non è diverso nel sistema-Paese: l’Italia, non dimentichiamolo, è, secondo il Corruption perception index (la misurazione internazionale più autorevole) sessantanovesima nel 2011 nella classifica dei paesi più corrotti del mondo (la Germania è quindicesima, il Belgio diciannovesimo, la Francia venticinquesima, la Spagna trentunesima).

Un quadro desolante. Al quale però si può e si deve porre rimedio. Basterebbe applicare la ricetta che il disegno di legge del governo appena licenziato alla Camera e poi bloccato dal Pdl al Senato introduce con determinazione: quella della prevenzione. E la prevenzione consta di tre capitoli essenziali, direi decisivi, e di una indicazione finale. Primo: ripristinare in tutte le amministrazioni, anche quelle periferiche, i controlli esterni. Ma non quelli formalistici, che verificano solo il rispetto astratto della norma, quanto piuttosto quelli economici e di gestione (il che implica, ad esempio, avere organi diversi dalla Corte dei conti, formata in maggioranza da giuristi). Secondo: ripristinare i corpi ispettivi, sistematicamente smantellati nei decenni scorsi. Terzo: dotare le amministrazioni, al centro come alla periferia, di adeguati apparati tecnici, in grado se non di progettare le opere almeno di seguirne l’esecuzione, competenti nei singoli campi dell’attività pubblica, capaci di fronteggiare e arginare la oggi preponderante expertise dei contraenti privati.

Infine la raccomandazione: curare di più l’etica pubblica, adottare e far valere codici etici rigorosi, introdurre criteri trasparenti e rigidi nella selezione e formazione del personale. E invitare i cittadini a scrutare dentro l’amministrazione e a denunciarne le magagne. L’apparato pubblico – si diceva un tempo – dev’essere una casa di vetro.

Nelle autonomie si sono devitalizzati i rapporti

fra governi e opposizioni e i controlli esterni

“Vuol dire che con le Regioni si decentreranno anche le bustarelle…” Mai previsione di uno dei pionieri del regionalismo (non sto a far nomi, sono passati decenni) fu più azzeccata. “Ma vedrai che gli esempi virtuosi di certe Regioni finiranno per contagiare le altre…” Mai previsione fu meno azzeccata, purtroppo. C’è una furente indignazione attorno ai protagonisti dello scandalo alla Regione Lazio, dove il presidente sostiene di non aver neppure percepito l’odore di quella fiumana di soldi finita ai gruppi consiliari e da qualcuno – come Francesco Fiorito – utilizzata nel modo più insultante per i cittadini. E c’è subito chi propone: torniamo allo Stato centralista e ai suoi controlli.

Lo Stato delle Regioni (lasciamo perdere quello federale che non è mai nato, concepito dalla Lega per rompere l’unità del Paese) non ha fatto molto perché ora, nel pieno dell’indignazione, non si butti via, assieme all’acqua sporca (parecchia), la creatura partorita nel 1970. Sarebbe una assurdità. Ma perché tutto ciò è successo? Come ha scritto lucidamente lo studioso dell’amministrazione (ora deputato del Pd) Guido Melis sulla Rassegna sindacale, perché il sonno dei controlli genera mostri. Si sono devitalizzati, nelle autonomie, il rapporto governo-opposizioni e i controlli esterni su Regioni ed Enti locali. L'elezione diretta di sindaci, presidenti, governatori, ha certo rafforzato la governabilità, ma ha pressoché sterilizzato il ruolo delle assemblee elettive, il cui palese e impotente scontento è stato placato a suon di euro. Si sono scissi Giunte e Consigli spegnendo ogni vera opposizione, anche individuale. Siamo dunque passati da un assemblearismo a volte eccessivo (consentito peraltro da leggi che rimontavano a Giolitti) all'afasia dei Consigli. Le decisioni significative sono diventate atti di Giunta. Sovente anche quelle sulla “torta” fondiaria, immobiliare.

Mentre fondi e poteri venivano decentrati (e si avvicinavano agli appetiti locali), sono stati depotenziati i controlli effettivi, gli apparati ispettivi, i quadri tecnici, per esempio sugli appalti, con un lassismo urbanistico senza fine. Tanto più col Titolo V della Costituzione, pieno di buchi in materia. Oggi ci stupiamo che i materiali sanitari di base possano costare 10 in una Regione e 80-100 in un’altra, ma chi poteva fissare dei parametri nazionali nel clima che spingeva verso i magnifici “risparmi” del federalismo? Non rimpiango i Coreco, e però i Coreco.co – come si è sottolineato l’altra sera a “Ballarò” - impersonati non da tecnici qualificati (in economia prima che in diritto), ma da politici dell'opposizione, portano al coinvolgimento di tutti in un'unica giostra. Ed è sbagliato. E’ la stessa malattia che ha fatto diventare le nostre Authority la caricatura di quelle vere.

I partiti, purtroppo, si sono o liquefatti davanti ad un “padrone”, oppure arroccati su posizioni burocratico-oligarchiche facendo muro, in tutt’e due i casi, alle critiche interne, ai gruppi di opinione, “nominando” personaggi "mediocri purché fedeli" (lo scrivemmo Nando Tasciotti ed io in un libro lontano uscito da Laterza prima di Tangentopoli, "La crisi dei Comuni"). Tutto ciò ha spinto i movimenti, numerosi e generosi, ad essere tanto radicali quanto estemporanei, tanto “indignatos” quanto poveri di proposte. Ma cos’è rimasto ai cittadini, dopo leggi elettorali come il Porcellum, col totale permissivismo in materia di spese elettorali personali, con l’uso distorto (anche malavitoso) del nobile istituto delle preferenze? Poco o nulla. Aggiungiamoci i guasti provocati nella dirigenza pubblica di carriera dallo spoil system, dal non aver attrezzato sezioni regionali della Corte dei conti, dall’aver promosso burocrati locali “più permeabili”, ecc., e avremo un primo quadro delle tante cose da fare, da ricostruire per rendere meritocratica e trasparente la politica, per ridare alcuni strumenti di controllo ai cittadini (tramite gli eletti dal popolo) e altri ad organismi “terzi” di grande qualificazione. Nella cui nomina i partiti non devono neppur provare ad entrare. Insomma, una spending review delle Regioni non basta proprio. E’ soltanto un inizio. Ci vuole ben altro. Una ricostruzione.

San Lorenzo non abita più qui

di Eleonora Martini

La notizia, riportata sulle cronache romane dei quotidiani qualche giorno fa, e rimbalzata sui siti di movimento, ha avuto l'effetto di uno schiaffo che risveglia da un sonno narcotico. «San Lorenzo, aggressione razzista di un centro sociale contro i rifugiati». Ma come? San Lorenzo, il quartiere rosso per eccellenza della capitale. E perdipiù i brutti ceffi in questione - due o tre, armati, secondo quanto riportato dalle cronache, di coltellacci -, che avrebbero insultato i rifugiati del Darfur al grido di «negro di merda torna a vendere banane nel tuo paese», sarebbero frequentatori del «32» di Via dei Volsci. Un centro sociale che in Italia e non solo è sinonimo di estrema sinistra: dall'Autonomia operaia in poi, in quelle stanze - chiuse negli anni '80 e riaperte nell'attuale veste solo negli anni '90 - sono passate almeno due o tre generazioni di militanti comunisti. Da lì e da Radio Onda Rossa, a cento metri sulla stessa via, il germe della militanza si è diffuso negli anni a raggera. Sono figli di quella storia molti dei centri sociali romani e tante esperienze movimentiste degli ultimi decenni. «Il centro storico del movimento, un centro sociale diffuso», come lo definisce Nunzio D'Erme, ex consigliere comunale e tra i portavoce del «32». E allora, come è possibile un attacco razzista in piena via dei Volsci?

L'evento di per sé non è degno di particolare nota: sono volati insulti razzisti e nient'altro, ma soprattutto i rifugiati sudanesi si sono trovati solo nel posto sbagliato al momento sbagliato. La bega privata, tra i protagonisti della lite, non ha alcun interesse di cronaca e si è risolta con l'incontro tra gli avvocati di parte. Rimane un solo dato di fatto: gli attuali frequentatori del «32» e di via dei Volsci - ma il ragionamento si potrebbe estendere a molti se non a tutti i centri sociali, almeno quelli romani - si nutrono del buon cibo prodotto dalle cucine dell'osteria ma molto raramente della sua cultura fondativa. Il razzismo, anche solo quello delle parole, è un'onta che loro stessi, i «compagni del 32», non vogliono rimuovere. Si interrogano come forse non avevano mai fatto prima - e gliene va dato atto -, indicono riunioni, costringono alle scuse chi ha offeso, incontrano i rifugiati vittime del brutale episodio invitandoli, domani, a un'iniziativa nei locali del centro sociale e sabato ad una trasmissione dai microfoni di Radio Onda Rossa.

Basta? «No - scrivono in un comunicato diffuso on line - Perché l'intervento sul tessuto sociale più disagiato, con le problematiche anche gravi annesse, rappresenta una delle ragioni stesse dell'esistenza del centro sociale, fuori dalle logiche assistenziali e di carità, che negli anni ha prodotto centinaia di iniziative di denuncia e di lotta per i diritti di tutti, ma anche di solidarietà concreta». Non solo immigrati, rom o rifugiati. Vent'anni fa, dopo l'uccisione di Auro Bruni, attivista del centro sociale Corto Circuito, morto in un rogo appiccato da estremisti di destra, i militanti romani fecero una scelta ben precisa: lavorare soprattutto nel proprio territorio; nel caso di San Lorenzo in un quartiere proletario che allora non era ancora il divertificio smodato e a tratti ributtante che è oggi.

La «gentrification» era solo agli inizi, la camorra non aveva ancora interessi locali, la legge Fini-Giovanardi sulle droghe non esisteva, mentre oggi è tra quelle vie che si possono misurare gli effetti nefasti di un mercato senza scrupoli e uno spaccio senza separazioni tra sostanze leggere e droghe pesanti. Solo più tardi la legge Bossi-Fini relegherà all'ultimo gradino della scala sociale profughi e immigrati, senza via di fuga. La sfida allora era soprattutto quella di sottrarre i giovani borgatari alle organizzazioni neofasciste, alle curve ideologizzate dall'estrema destra, allo spaccio, alle palestre «nere». «Non a caso decidemmo di ripartire dai corpi - racconta Rino Fabiano, consigliere comunale di Action nel III Municipio - aprimmo una palestra popolare nel quartiere che fu la prima di una serie di iniziative di questo tipo e che oggi raccoglie giovani di qualunque provenienza etnica e culturale, perfino giovani fascistelli».

«Ci assumiamo la responsabilità che ci compete», ammettono nel comunicato dopo l'aggressione razzista. Ma prima di tirare le somme e di verificare fallimenti e errori, vale la pena approfondire il contesto. All'angolo tra Via dei Volsci e via degli Equi, fino a qualche anno fa c'era una sede della tifoseria romanista dove campeggiava una grande croce celtica. Ma i militanti del «32» riuscirono a intessere rapporti personali con gli ultrà di destra, neutralizzandone di fatto l'aggressività. Oggi San Lorenzo, inglobato nel centro storico capitolino, è però uno strano quartiere, che soffre di un degrado culturale forse peggiore di quello precedente alla gentrificazione. Qui, a differenza di Harlem o di Berlino, non c'è stata alcuna integrazione tra i tanti benestanti - artisti, professionisti, universitari - che vi sono trasferiti e i poveri locali, che pure resistono in alcune enclave. Le narcomafie, con la loro manovalanza locale immigrata e italiana, la fanno ormai da padrone. La spartizione delle piazze garantisce la pax mafiosa. Difficile, se non impossibile, oggi, tenere fede a quella regola ferrea che voleva spacciatori e droghe pesanti fuori dal «32» e da via dei Volsci. «Non l'abbiamo mica inventata noi Scampia, dove una dose di eroina o di cocaina costa pochi euro di più di una di marjuana - dice Nunzio D'Erme - E Scampia ora è arrivata fino qui».

Dunque, «l'idea che il lavoro politico sul territorio produca luoghi immuni alla violenza, al razzismo o al sessismo è una favola che non ci possiamo raccontare», fa notare Rino Fabiano. «Quello che è successo qui l'altro giorno accade purtroppo con frequenza nei condomini di case occupate. Stiamo parlando di persone che hanno conosciuto i riformatori giovanili o la galera, la violenza in famiglia o l'eroina». Ma a volte succede anche nelle palestre o nelle iniziative politiche, dovunque si intercetti il disagio delle periferie, ovunque si tenti di introdurre elementi di novità culturale in contesti proletari e marginali. Può succedere perfino in una partita di calcetto amatoriale tra squadre di diverse etnie, raccontano Fabiano e Nunzio D'Erme, seduti a ora di pranzo ad un tavolo del centro sociale insieme ad alcuni dei militanti del «32», prima di correre al lavoro. D'altronde, loro stessi sono «figli della strada». Rivendicano però con orgoglio, malgrado tutto - «malgrado il mercato, la spoliazione dei diritti e della cultura popolare» - le tante lotte di cui sono stati protagonisti e che senza il loro «controllo del territorio» non avrebbero potuto vedere la luce: dall'asilo nido ai campi estivi fino all'ultima occupazione, quella del Cinema Palazzo, sottratto a interessi speculativi che lo avrebbero voluto trasformare in un casinò. «Non solo antirazzismo di maniera».

Però, se il bicchiere è mezzo pieno, è pur sempre mezzo vuoto: «Se guardiamo ai militanti più giovani, è indubbio comunque un certo fallimento su cui dobbiamo interrogarci», riconoscono. «Oggi - continua Rino - la proposta culturale dei centri sociali è fruibile in qualsiasi locale, non c'è differenza tra chi frequenta un pub qui o al Pigneto e chi frequenta un centro sociale. Il fallimento è non aver cresciuto una nuova generazione politica; bisogna invece ristabilire il primato dell'impegno politico, rigenerare principi e idee, avvicinare le persone che sono alla ricerca di una vita migliore e più giusta». A cominciare dalle droghe, da quella legge Fini-Giovanardi di cui avevano previsto gli effetti ma a cui non hanno saputo far fronte. «Dobbiamo ricominciare a parlare di sostanze, di uso e abuso, senza scadere nel lassismo e nella ideologizzazione della cultura antiproibizionista che a volte degenera in esaltazione», conferma Nunzio.

«L'autogestione non è la panacea di tutti i mali - continua l'ex consigliere comunale - porta con sé i limiti e le contraddizioni dell'intera società». Senza dubbio, il loro lavoro «soffre di solitudine». Politica e culturale. Ma prendere atto del fallimento è già ricominciare. «È successo a tutti i movimenti di avanguardia, anche alle Black Panther, di accorgersi che a lavorare nella merda, la merda ti può fagocitare», commenta un giovane scrittore emergente molto vicino al «32» che non cerca protagonismi. Da discutere, però hanno ragione quando dicono che la storia del «32» non è molto differente da quella di altre esperienze della sinistra. «Se veniamo sconfitti noi, venite travolti tutti».

Paul Connett a San Lorenzo

«Nella città che cambia sempre più velocemente, dove gli effetti del malgoverno cittadino si sommano alle ordinarie dinamiche sociali di sfruttamento e alienazione, cambiano altrettanto velocemente le reti di relazione e il tessuto sociale delle comunità e dei singoli quartieri. In Via dei Volsci troppe attività hanno chiuso e quelle rimaste, a fronte di quotidiane difficoltà economiche e inutili vessazioni amministrative, conservano elementi di qualità nella proposta e di correttezza non formale nei rapporti di lavoro che ci spingono verso la loro tutela e salvaguardia». Per questo lo Spazio sociale Ondarossa Trentadue ha indetto una giornata di discussione. Mentre, per discutere un piano rifiuti adeguato alla città, l'appuntamento è per sabato 29 settembre presso la scuola Saffi di via dei Sabelli. Interverranno, tra gli altri, il presidente del municipio Roma 3, Dario Marcucci, e Paul Connett, docente della St. Lawrence University di New York.

Nel quartiere della fabbrica dei sogni

di Ylenia Sina

Fermare i licenziamenti, la speculazione ai danni del territorio e i tagli ai servizi sociali. Con queste idee ieri pomeriggio almeno mille e cinquecento persone hanno manifestato per le strade del Decimo Municipio di Roma. Dai lavoratori alle prese con delocalizzazioni, cassa integrazione e licenziamenti alle cooperative sociali, dai precari della scuola alle insegnanti dei nidi fino ad arrivare alle realtà sociali del territorio sostenute dall'amministrazione municipale rappresentata da Sandro Medici, il presidente che ha camminato a fianco dei manifestanti con la fascia da minisindaco.

Sono queste le diverse espressioni che hanno animato la giornata di "sciopero cittadino del X Municipio", con le adesioni di sindacati (Cgil, Camera del lavoro Roma Sud, Fiom, Unione sindacale di base e Cobas a cui si aggiungono le Rsu delle aziende locali) e una parte del mondo politico attivo nei circoli del territorio (Pd, Ecodem, Sel e Fds). «La scommessa è quella di declinare le questioni lavorative come elementi inseriti all'interno di un territorio che da un lato viene coinvolto e travolto da quanto accade al suo tessuto produttivo e dall'altro è sempre più indebolito dai tagli alla spesa sociale e dalla speculazione» spiega Cristiana Cortesi, consigliere municipale di Roma in Action.

La giornata di «sciopero territoriale» inizia la mattina con un'azione davanti alla Deutsche Bank, chiusa simbolicamente «contro il potere delle banche nel definire i destini dei nostri territori». Anche se l'appuntamento del pomeriggio è alle 17.30, due ore prima i manifestanti già iniziano a radunarsi in Piazza di Cinecittà, davanti alla sede del X Municipio, a ridosso di via Tuscolana. Ci sono le insegnanti dei nidi che denunciano «continui tagli che peggiorano condizioni di lavoro e il servizio alle famiglie». La Rete Roma Social pride e gli operatori delle cooperative sociali, alcune delle quali, fin dalla mattina hanno protestato «con uno sciopero bianco: abbiamo lavorato per un quarto d'ora in più» racconta un'operatrice che si occupa di assistenza agli anziani. Ci sono i precari della scuola che mercoledì sera hanno «occupato simbolicamente» la sede del municipio «non per opporci a questa amministrazione ma per chiedere di esprimere una posizione di netta contrarietà rispetto al concorso indetto dal ministro Profumo».

Quando i lavoratori di Cinecittà Studios, che proprio in questi giorni toccano da vicino l'avvio del piano industriale di «spacchettamento e delocalizzazione in diverse società» del presidente Luigi Abete, si uniscono ai manifestanti con un corteo nutrito e rumoroso, vengono accolti da un caloroso applauso. Per loro, dopo oltre tre mesi di occupazione e sciopero, proprio oggi «ci sarà un incontro tra la proprietà e i sindacati, motivo per cui abbiamo sospeso lo sciopero». Ci sono loro, i lavoratori degli studi cinematografici , quelli del call center di Almaviva al «nostro primo giorno di cassa integrazione avviata per 632 lavoratori perché l'azienda si sposta in Calabria» come spiega Andrea. Il corteo cammina su via Tuscolana (una delle principali arterie stradali della città). Il traffico si blocca, ma al passaggio dei manifestanti i balconi dei palazzoni da otto piani che chiudono ai lati la via, si riempiono di gente che ascolta e applaude alle parole che escono dalgli altorpalanti. E così accade per il resto del tragitto che continua all'interno del quartiere, fino alla conclusione in quella via Lamaro «che su un lato ha il muro della Fabbrica dei sogni romana e sull'altro la sede del call center di Almaviva». E proprio qui, quando ormai si è fatto buio, la manifestazione termina e inizia un'assemblea pubblica.

La Campania rischia una nuova cementificazione selvaggia. Mentre dal Lazio alla Lombardia, dal Molise alla Sicilia, un'ondata di scandali riconferma la degenerazione affaristico-clientelare del regionalismo, a Napoli la maggioranza di centro-destra che fa capo al governatore Stefano Caldoro e all'ex sottosegretario Nicola Cosentino (inquisito per camorra) ha tentato proprio oggi di varare una legge regionale che prevede l'abolizione delle più importanti norme per la difesa dell'ambiente e del paesaggio: con le nuove regole, basterebbe il via libera dei politici di un singolo comune per autorizzare, in deroga a tutte le leggi nazionali, nuove speculazioni edilizie perfino nelle aree più pericolose, come la zona rossa a rischio di eruzione che circonda il Vesuvio.

Contro questa deregulation del cemento in Campania si sono mobilitati i vertici nazionali di Italia Nostra, Fai, Legambiente e altre associazioni, con un documento unitario, mentre continua la raccolta di firme tra i cittadini in calce a un appello già sottoscritto da decine tra i più prestigiosi urbanisti e intellettuali italiani, come Settis, Salzano, De Lucia, Asor Rosa, Bevilacqua, Emiliani e molti altri.

L'approvazione della nuova legge, già saltata il 18 settembre, è stata rimessa in calendario a sorpresa nella seduta di oggi del consiglio regionale, dove è stata rinviata solo per problemi di tempo: la discussione infatti è stata interamente assorbita dal tema dei costi della politica, diventato scottante dopo le dimissioni della giunta Polverini e l'apertura di indagini anche in Campania.

Il varo della legge-scandalo sul paesaggio sembrava scongiurata dopo l'ultimo infortunio politico: l'assessore regionale all'urbanistica aveva parlato di un'intesa raggiunta con lo Stato, in particolare con i tecnici dei Beni Culturali, ma è stato platealmente sconfessato dal ministro Lorenzo Ornaghi, appoggiato anche dai colleghi Passera e Catania. Con una nota ufficiale, diffusa attraverso la direzione ai beni paesaggistici guidata da Gregorio Angelini, il ministro Ornaghi ha infatti contestato severamente il disegno di legge della Campania e ha avvertito la giunta regionale che, in caso di approvazione, le nuove norme verrebbero impugnate dal governo Monti davanti alla Corte Costituzionale.

Oltre ad autorizzare una specie di piano casa nella zona di massimo rischio attorno al Vesuvio, la nuova legge campana sul paesaggio prevede l'abolizione dei vincoli che hanno finora salvato dal cemento ciò che resta di territori fragili e bellissimi come la Costiera Amalfitana e autorizzerebbe nuove speculazioni edilizie perfino nelle zone archeologiche delle antiche città greche e romane come Elea (oggi Velia). "L'Espresso" aveva denunciato la pericolosità della nuova legge già con un articolo del 29 marzo scorso.

Oltre al Pd e alla sinistra, contro la nuova legge si è schierata anche una parte dell'Udc. Ma in Campania la maggioranza di centro-destra ha i numeri per approvarla, salvo ripensamenti, già al prossimo consiglio.

Sul sito dell'Espresso on line, è possibile lasciare commenti su questa vicenda, invitiamo i lettori di eddyburg a farlo.

L'appello delle Associazioni lo trovate qui.

Chi da piazza Cavour vada per via Palestro in corso Venezia, vedrà di fronte un palazzo con un grande colonnato e sul cornicione una schiera di statue: è il palazzo progettato verso il 1812 da Giovanni Perego per l'allora sovrintendente della Scala, il Barbaja, l'inventore dellabarbajata, la cioccolata con la panna ormai dimenticata. Il palazzo del Perego, ispirato dal palazzo Chiericati a Vicenza e dal colonnato del Louvre, verrà considerato un vero scandalo architettonico, perché i milanesi erano affezionati alle facciate delicate del Piermarini — palazzo Reale e la stessa Scala — dove le colonne sporgono dal muro soltanto per metà, tagliate verticalmente in due.

Quello scandalo nessuno lo ricorda: il fatto è che il fascino della città europea consiste anche nella libertà espressiva di ogni cittadino nella facciata della propria casa, ed è la loro varietà ad incuriosirci, e dunque il progetto di Herzog de Meuron sul viale Pasubio — e la sua estensione simmetrica in viale Montello — con la facciata inclinata come un tetto spiovente per parecchi piani, così evidente imitazione delle case nordeuropee tuttora caratteristiche del paesaggio di Strasburgo, farà forse scandalo ora ma nessuno ci farà più caso di qui a qualche anno.

Tuttavia un guaio c'è. Quando nel tardo Ottocento al posto delle mura costruite tre secoli prima in tutte le città europee sono stati tracciati ampi boulevard, all'incrocio con le strade più importanti che venivano dal centro, dove c'erano spesso porte e archi trionfali o caselli daziari, sono state progettate piazze che ne esaltavano la presenza — quando ancora esistevano — o quanto meno ne sottolineavano la memoria: nella vicina porta Garibaldi l'arco sta al centro di una vera piazza, con il teatro Smeraldo a renderla solenne, mentre a Porta Venezia i caselli restano isolati all'incrocio dei due boulevard: chiunque, se volesse percorrere l'intera cerchia di quei boulevard, non farebbe fatica a riconoscere sempre l'ambizione di sottolineare le antiche porte.

A Porta Volta invece nel progetto oggi sul tappeto attorno ai due caselli daziari non c'è né la continuità dei boulevard né una piazza costituita da due facciate progettate per dar loro un quadro nobile ma soltanto l'esito dai due risvolti dei lunghi fabbricati su via Pasubio e su via Montello: in sostanza nella buona pratica seguita finora in questa città consisteva nel progettare prima di tutto la piazza e in seguito lascare ai privati di costruire liberamente lungo le strade dietro agli edifici progettati per fare una bella piazza, mentre qui i privati hanno progettato per prima cosa i loro edifici e la piazza è il risultato secondario dei loro risvolti: e si vede proprio. Ma ormai questo è soltanto uno dei sintomi della modestia di una prassi urbanistica che affida il disegno della città all'iniziativa dei privati cui delega anche quello che da secoli è il compito del Comune, disegnare il quadro di insieme, fatto dalle piazze e dalle strade che costituiscono la città, un compito di interesse collettivo che non può venire delegato a i privati.

È vero che i dibattiti sull'università italiana sono spesso astrusi e poco invitanti. E tuttavia l'Anvur - l'Agenzia nazionale di valutazione dell'università e della ricerca - riserva sempre sorprese e vere e proprie chicche. Se uno si annoia, mettiamo, una domenica pomeriggio piovosa, quando le ore non sembrano passare mai e aspetta tra gli sbadigli l'ora di cena, gli basta visitare il sito dell'Anvur ed ecco che per incanto gli torna il buon umore. Salvo poi, riflettere seriamente su questa bizzarra agenzia che costa 7 milioni di euro all'anno, mentre ai membri del consiglio direttivo vengono erogati compensi di 180 mila euro, nonché 210 mila al Presidente. Solo nel 2012 l'Anvur gestirà un colossale processo di valutazione che costerà 301,9 milioni di euro: 276,2 milioni per i 450 valutatori, 18,7 milioni a carico delle 1700 strutture universitarie. Ci sarebbe da gridare per la rabbia, considerando che il taglio agli atenei previsto per quest'anno ammonta a 407 milioni di euro.

Già la pubblicazione delle mediane dei titoli necessari sia per essere ammessi al ruolo di commissari, sia per accedere all'abilitazione, hanno suscitato diffusa ilarità e seri dubbi sulla competenza dell'Anvur nella matematica elementare. L'ultima perla in ordine di tempo è la pubblicazione delle riviste considerate scientifiche ai fini dell'abilitazione nazionale degli aspiranti professori universitari. I vari gruppi di valutatori nominati arbitrariamente dal direttivo dell'Anvur, senza alcun processo trasparente, né gara pubblica, avevano già individuato le cosiddette riviste di fascia A, quelle cioè più scientificamente prestigiose, innescando un mare di polemiche. In alcuni casi, nei settori scientifici meno soggetti a vincoli e controlli, come quegli umanistici, è apparso subito evidente che erano entrati in gioco fattori molto poco scientifici e universalistici. Forse l'appartenenza a cordate accademiche, a gruppi confessionali, a reti di amicizie?

Ma ora, con la pubblicazione delle riviste meno prestigiose, ma pur sempre considerate «scientifiche», la comicità ha cominciato a dilagare. Nei settori «non bibliometrici» - non soggetti cioè al calcolo preventivo dell'impatto scientifico - vengono considerate ammissibili per l'idoneità nazionale pubblicazioni locali come Etruria oggi o Abruzzo contemporaneo, periodici patinati (Airone), organi che diffondono la passione dei ricchi per le barche (Yacht club, Barche), riviste dal nome minaccioso e comunque poco credibile in ambito umanistico (Acta herpetologica), che alludono a sfuggenti condizioni esistenziali (Adultità), bollettini di informazione bibliografica (Aib news), riviste che hanno cessato le pubblicazioni (Problemi del socialismo), periodici politici come Fare futuro web magazine (dei finiani), la rivista di suinicoltura, per non parlare della significativa presenza di organi cattolici come La rivista del clero italiano, Vita cattolica , e di settimanali di informazione come Diario della settimana (che oltretutto non esce più) e persino quotidiani (Il Sole 24 ore).

Questa lista è stata immediatamente segnalata e analizzata dal sito www.roars.it, il combattivo gruppo di docenti e ricercatori che fa le pulci sia alle storture dell'università italiana, sia alle riforme insensate e centralistiche che la stanno distruggendo. E, in poco tempo, è divenuta l'occasione di una caccia alle riviste più incongrue e fuori luogo in una classificazione scientifica. Ma, al di là del divertimento, qui si possono fare due osservazioni. La prima è che in linea di principio non c'è nulla di male se un accademico, come un ricercatore precario, che operano in un settore umanistico scrivano su Etruria oggi o Il Mattino. La seconda riguarda il rischio della moltiplicazione dei ricorsi che sommergerà l'abilitazione nazionale per i docenti universitari. Ad oggi c'è quello degli storici della matematica contro l'uso dei criteri bibliometrici o quello di 130 docenti contro il criterio delle mediane. Altri sono in gestazione. Il vero problema è che l'Anvur abbia preso per buone tutte queste riviste, senza controlli, scremature ed esclusioni, dando prova di una leggerezza e una superficialità che renderebbero necessarie le dimissioni del comitato direttivo.

postilla

Immaginiamo che questo sito, eddyburg.it , svolgesse tutte le pratiche necessarie ad accreditarsi come pubblicazione scientifica, et voilà ecco servito caldo caldo un nuovo sbocco alle alte riflessioni di giovani e meno giovani esploratori del sapere. Gli unici ostacoli sarebbero di ordine burocratico, visto che quello scientifico principale (l’articolo del manifesto per qualche motivo spero in buona fede non lo cita) non esiste: è infatti sufficiente che la testata abbia tra i suoi garanti esponenti della comunità accademica. Fauna non proprio difficile da snidare in questi paraggi, anche col solo uso del motore di ricerca interno. Ed è proprio lì la questione: la garanzia di essere in qualche modo una pubblicazione scientifica deve stare nel COME, non nel CHI garantisce. Criteri, presumibilmente semplici visto il genere di testate divulgative, ma criteri, non l’ennesima discrezionalità assoluta quella del “garantisco io” classica dei sistemi di cooptazione cronica. Se invece la cooptazione piace, il sistema delle famiglie, dei feudi, delle relazioni amicali, politiche o (perché no?) di classe deve continuare imperterrito, allora stiamo pure a ridacchiare su quanto sia scientifico l’organo ufficiale della Confindustria, o una copertina patinata dal sorriso di Briatore. Poi, è vero, ovunque (anche in campo internazionale) spesso basta mettere in fila ordinata note e riferimenti per guadagnarsi la patente scientifica, anche se si butta giù un percorso logico senza senso, o ripetitivo, ma qui c’è il trucco, la mano invisibile: il percorso c’è, e lo si può risalire alla ricerca delle sciocchezze. Criteri, appunto, quelli che non piacciono a cooptati e cooptatori (f.b.)

Lo scandalo della regione Lazio non può essere derubricato all’ennesimo caso di ruberie guidate da un comodo mariolo. E’ anche questo, ma il motore vero che provoca l’ascesa dei tanti Franco Fiorito sta nell’assenza di regole cui sono state abbandonate le città. Egli inizia infatti il suo percorso come sindaco di Anagni e trae evidentemente profitto (27 mila voti di preferenza alle recenti elezioni regionali sono un consenso enorme) dall’immensa opacità con cui -senza violare alcuna legge- si possono governare le città d’Italia.

La prima causa del crollo della pubblica moralità sta nella cancellazione di qualsiasi norma urbanistica. Da due decenni vige come noto una zona franca sconosciuta nell’Europa civile in cui un sindaco può variare a proprio piacimento le destinazioni urbanistiche senza essere ostacolato da nessuno. Per realizzare una lottizzazione in una zona agricola occorre andare dal sindaco: sarà lui a portare a buon fine l’affare. E di grandi affari si tratta: dieci ettari di terreno agricolo valgono poco sul mercato immobiliare: se diventano edificabili salgono anche a centinaia di milioni. Senza pensare che non avvengono dazioni di denaro (e a leggere le cronache di questi giorni si fa fatica) i sindaci stringono legami economici e controllano posti di lavoro.

La seconda causa sta nella legislazione degli appalti pubblici. Le ultime norme imposte dal duo Berlusconi-Tremonti e lasciate in vita dagli attuali “tecnici”, hanno portato a 500 mila euro il limite con cui si può procedere all’affidamento mediante trattativa privata. Anche in un periodo di ristrettezze economiche, un sindaco appalta molti lavori pubblici: consentirgli di affidarli a proprio piacimento è indegno di un paese civile. E in questo modo il legame con il mondo economico si rafforza ulteriormente e si continua a disporre di posti di lavoro.

La terza causa sta nella cultura dell’esternalizzazione dei servizi urbani. Affermatosi negli anni in cui sono state privatizzate alcune importanti aziende pubbliche, il morbo riguarda ormai tutti i servizi: dal ciclo dei rifiuti alla gestione dei depuratori. Invece di rimuovere le cause delle inefficienze che esistevano è stata percorsa una comoda scorciatoia: i sindaci possono affidare a imprese amiche la gestione di servizi pubblici, tanto le procedure di controllo sono inesistenti e pressoché impossibile per la magistratura contabile risalire ai bilanci.

E non si pensi che si tratta di un fenomeno che riguarda esclusivamente i comuni piccoli o le piccole imprese. Nelle maggiori città, si pensi al caso da antologia di Parma, la mala politica aveva creato 35 società di settore per gestire i servizi. Altri posti di lavoro e altro vertiginoso debito pubblico. Nelle grandi opere sono state allentate o cancellate le regole ambientali e paesaggistiche. Insomma, il caso Fiorito è il frutto del ventennio del liberismo selvaggio che ha cancellato ogni regola.

Le città non sono più i luoghi del governo della cosa pubblica. Sono le palestre per costruirsi un consenso elettorale ed economico da utilizzare nella scalata verso i vertici dello Stato. Il più urgente compito di chiunque vuole salvare il paese dalla sfiducia è dunque quello di ricostruire regole semplici quanto inflessibili. Guido Rossi (tra i firmatari dell’appello “ Furto d’informazione” apparso su queste pagine il 30 luglio scorso) notava nel suo editoriale di domenica sul Sole 24 Ore che a parole non c’è nessuno che non si definisca “liberale” e fautore di regole. Salvo scorrazzare a piacere nelle praterie di un paese senza leggi che ha svenduto le sue città.

DAVANTI al rovinoso crollo di una delle più famose passeggiate d’Italia, la “via dell’amore” alle Cinque Terre, vedremo dispiegarsi il consueto rituale, identico a quanto accadde più o meno un anno fa a Vernazza. Ministri e assessori deplorano le impensate fatalità, accusano la sfortuna, il caso, la siccità, un acquazzone, le alluvioni, frane a sorpresa, divinità ostili.E naturalmente pronunciano le più solenni promesse.

«Presto un piano contro il dissesto idrogeologico», proclama pensoso il ministro dell’Ambiente Clini. Evidentemente, essendo stato Direttore Generale di quel Ministero per soli dieci anni prima di diventare ministro, non ha avuto il tempo di pensarci prima. Questa ed altre sceneggiate somigliano (come due gocce d’acqua) a quel che accade quando crolla a Roma la Domus Aurea o il Colosseo, quando si sfarinano le case di Pompei, quando si scopre che ville e musei, parchi e chiese, sopravvivono per pura forza d’inerzia. Anche qui, grandi deprecazioni del ministro di turno, dichiarazioni solenni, promesse immarcescibili. Poi nulla. Fino alla prossima frana, al prossimo crollo, alla prossima “disgrazia” di cui incolpare la sorte maligna.

E allora proviamo a ricordarcelo, che cos’è questa Italia. È il Paese più franoso d’Europa (mezzo milione di frane in movimento censite nel 2007), il più soggetto al danno idrogeologico e all’erosione delle coste, anche per «interventi sull’ambiente invasivi e irreversibili» sui due terzi del territorio (dati Ispra). Per non dire del rischio sismico: negli ultimi cento anni, circa 150 terremoti di cui una quarantina gravissimi, 1600 Comuni colpiti, almeno 250.000 morti. Eppure a ogni terremoto ci sbalordiamo come davanti a un evento imprevisto.

Non sappiamo costruire, in questo Paese, una cultura della prevenzione, e le buone pratiche che ne conseguono. Dopo ciascuno di questa «serie di sfortunati eventi », ci ritroviamo a leccarci le ferite, specialmente quando ci siano di mezzo vite umane (anche nel crollo di ieri ci sono quattro feriti, di cui due gravi). Siamo bravissimi a dimostrare solidarietà, mobilitare protezione civile e volontari, raccogliere fondi via sms. Siamo veloci a fare i conti degli enormi danni, non solo in vite umane, ma in guasti all’ambiente, alle attività economiche, al patrimonio pubblico e privato, all’immagine dell’Italia (i feriti di Riomaggiore sono australiani), al paesaggio.

Una cosa sola non sappiamo fare: prevenire i disastri mediante la manutenzione del territorio. Ricordiamo un precedente significativo: nell’ottobre 2009, quando la frana di Giampilieri (presso Messina), uccise almeno 37 persone, la posizione di quel governo fu espressa icasticamente dalla sequenza di due dichiarazioni, a pochi giorni di distanza dalla frana: il sottosegretario Bertolaso dichiarò che era impossibile trovare due miliardi per mettere in sicurezza le franose sponde dello Stretto, per giunta soggette a sismi di massima violenza (l’ultimo, nel 1908, seguito da tsunami: 120.000 morti); il ministro dell’Ambiente Prestigiacomo (Clini era il suo direttore generale) dichiarò subito che il Ponte sullo Stretto andava fatto, e subito. Riassumendo: due miliardi per mettere in sicurezza il territorio non si trovano; dieci o venti miliardi per costruire un Ponte il cui costo esatto nessuno è in grado di indicare,

sì.

Fra il governo Berlusconi e il governo Monti c’è, da questo punto di vista, perfetta continuità. Sul fronte dell’ambiente, la promozione di Clini da direttore generale a ministro ha un solo significato possibile: gattopardescamente, «bisogna che tutto cambi perché tutto resti com’è». Si continuano a promuovere “grandi opere”, come l’inutile (se non dannosa) Tav in Val di Susa e sotto Firenze; si propugna l’idea di assediare le nostre coste con una cintura di piattaforme petrolifere. Si proclama, per ora senza molto credito, che si troveranno per queste imprese ottanta, novanta, cento miliardi. A quel che pare non viene in mente a nessuno che la vera prima “grande opera” di cui l’Italia ha bisogno è la messa in sicurezza dell’intero territorio, consegnato da decenni alla speculazione e cementificazione selvaggia. Mettere in sicurezza il territorio non vuol dire solo arginare le frane e prevenire i sismi. Vuol dire prima di tutto promuovere l’agricoltura, anziché mortificarla come costantemente si fa, e controllare il rapporto fra suoli edificati e suoli coperti da vegetazione. Dovrebbe voler dire, per questo governo, approvare con procedura d’urgenza l’ottimo disegno di legge del ministro Catania sui suoli agricoli, anziché immetterlo in una corsia lentissima, in modo che si arrivi alla fine della legislatura senza averlo approvato.

Stracciarsi le vesti non serve, e specialmente poco credibile è chi se le straccia, a ogni disgrazia, da più di dieci anni. Strutturare la prevenzione è (dovrebbe essere) il primo passo per gestire l’emergenza, e per ridurre il numero delle emergenze. Come scrisse molti anni fa Giovanni Urbani, grande direttore dell’Istituto Centrale per il Restauro, «ci vorrebbe assai poco, una volta saputo che quasi metà della nazione è esposta a gravi rischi, proiettare su questa scala le perdite subite a ogni evento [anche alle Cinque Terre], e calcolare il corrispettivo danno economico che incombe sulla penisola ove persistesse, come purtroppo certamente persisterà, l’assenza di ogni politica di difesa del suolo e di consolidamento preventivo dell’edilizia storica». O questa raccomandazione di un grandissimo tecnico è troppo complicata da capire per il nostro “governo tecnico”?

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