ROMA — Via le bancarelle da Ponte di Rialto a Venezia, legittime o abusive che siano. Via i camion bar dal Colosseo, centurioni compresi, via i banchi del mercato di San Lorenzo a Firenze che asfissiano la basilica e nascondono le Cappelle medicee, via i tavolini e i dehor di via Toledo a Napoli. E già che ci siamo sloggino pure gli ‘gnuri’, le carrozze con cavallo di Palermo, “odorosa” presenza fissa davanti al Teatro Massimo. Via tutto, l’operazione “piazza pulita” del ministro Lorenzo Ornaghi non risparmierà nessuno.
Se anche solo un quarto della direttiva appena emanata dal ministero per i Beni culturali sarà realizzato, le città d’arte cambieranno faccia e i monumenti “respireranno”. L’obiettivo del provvedimento è «contrastare l’esercizio di qualsiasi attività commerciale e artigianale su aree pubbliche di particolare valore archeologico, storico e artistico, non compatibile con la tutela del decoro ». Aggiungendo all’elenco anche le strade, le piazze e gli spazi urbani pubblici realizzati da oltre settant’anni. In pratica, tutti i centri storici d’Italia.
Attenzione, non si tratta di una direttiva che riguarda solo venditori abusivi di chincaglieria varia e i titolari di bar e ristoranti che piazzano tavolini dove vogliono. È indirizzata anche a chi ha concessioni storiche («non danno mai luogo a diritti intangibili», scrive il ministro) o regolare permesso per l’occupazione di suolo pubblico. Se le direzioni regionali del Mibac, sentite le soprintendenze, riterranno quelle attività lesive della bellezza artistica della zona, perché antiestetiche o «pregiudicanti la visuale dei beni vincolati», inviteranno gli enti locali a prendere provvedimenti per chiuderle o, nel caso dei mercati, per spostarle. Perché «la tutela del patrimonio culturale è preminente agli interessi privati». Già da tempo alcuni comuni hanno messo divieti a salvaguardia del decoro. Per esempio l’ordinanza di Milano “anti-movida” per la chiusura dei dehor alle 23. E a Roma ieri sono stati presentati i nuovi minibus color crema per i venditori di gelati, con un look più “integrabile alle aree di pregio”.
Ma appena il sindaco Alemanno ha provato a ridisegnare gli spazi concessi a bar, ristoranti e locali nelle “cartoline” della città, subito si è sentito aria di serrata. La profezia è facile, succederà anche con la direttiva Ornaghi. Giacomo Errico, presidente Fiva (ambu-lanti) della Confcommercio non ci gira intorno: «È una follia — dice — un tentativo maldestro di uccidere i mercatini, con l’unico risultato di favorire abusivi e grandi marchi. Se Ornaghi pensa che ci adegueremo, si sbaglia. Sentirà la nostra protesta. Come nel 1995, quando in 80 mila andammo a Roma per l’aumento della Tosap». E però oggi per vedere la basilica di San Lorenzo a Firenze tocca salire sui tendoni delle bancarelle, e non si riesce quasi a fotografare il Castello Sforzesco di Milano senza immortalare anche un venditore di gelati. «Ma chi lo dice che siamo troppi? — sbotta Errico — Roma ha 2 milioni di turisti al giorno, spostare gli ambulanti in periferia significa ucciderli».
C’è anche chi prova a stimare il danno economico. «Perderemo la metà dei 26 miliardi attuali di introito — dice Mauro Bussoni, vice direttore generale di Confesercenti — 200 mila persone rischiano di perdere il posto. Il ministro ha perso il cervello». I “tavolini selvaggi”, però, non sono un’invenzione. «Le autorizzazioni le danno i Comuni — chiosa Bussoni — possibile che oggi il problema del nostro patrimonio artistico siano i commercianti?».
Postilla
Al solito, sarebbe utile vedere (come probabilmente già sa chi è coinvolto) i particolari delle intenzioni ministeriali, e come si mescolano ai poteri degli altri livelli di governo coinvolto. Quello che è certo, è che così come posta dall’articolo la questione rischia di cadere nel trito calderone degli interessi di bottega contro altri contrastanti interessi di bottega. Che immagine di città ne esce? Da un lato la cosiddetta vitalità economica locale e spontanea, che dà vita a quartieri e monumenti, evoca certe foto Alinari con gli atri muscosi e i fori cadenti che l’iniziativa modesta dei commercianti trasforma in polmoni di vita urbana, in qualche modo contribuendo alla loro grandezza. Ma l’uso vuol dire usura, e allora interviene l’altra idea più aulica di città, quella che immagina un mondo bellissimo modellato sulle sublimi vedute dei quadri di De Chirico, o di certi affascinanti plastici sfornati dagli studi di architettura o restauro. Spazi dove ci si muove con il rispetto dovuto al valore culturale, simbolico, e perché no anche sociale degli ambiti e degli oggetti che li compongono. Peccato che da questa specie di contrapposizione dialettica manchi il contenitore sociale per eccellenza, ovvero la città che la società abita: tutta, non i vasi incomunicanti della segregazione funzionale che tanti danni ha già fatto e continua a fare ovunque. La domanda da porsi forse sarebbe: sino a che punto possono convivere la conservazione e la valorizzazione (non quella puramente mercificata naturalmente) di alcune porzioni urbane, con il tipo di vitalità che trasforma dei potenziali cimiteri in poli di vitalità e interazione, stimolando nuove idee, inseriti nel contesto, tali da produrre identità e rispetto per nulla timoroso da parte di tutti i cittadini? L’alternativa, guerra fra botteghe a parte, è una specie di mosaico fatto da gated communities che si guardano in cagnesco l’una con l’altra, da sopra le recinzioni fisiche o elettroniche, in uno scenario che magari non ricorda più certo degrado commerciale da improvvisazione, ma di sicuro non ha nulla a che vedere con la città, storica o non storica che sia (f.b.)
Ecco un esempio pisano di come l'accrescimento della rendita urbana, derivante dalle decisioni pubbliche, si traduca in ricchezza privata. Il Fatto quotidiano, 7 novembre 2012
Pisa. Ikea sbarca a Pisa con un super store da 33 mila metri quadrati. I lavori sono già iniziati e la multinazionale del mobile ha in programma di terminarli a fine 2013. Ma il primo affare l’ha compiuto la società che le ha venduto l’area, sulla via Aurelia sud, tra l’aeroporto “Galilei” e l’uscita della superstrada Firenze-Pisa-Livorno, la Navicelli spa, con una semplice variante al piano urbanistico ottenuta dall’amministrazione comunale ha quadruplicato il valore dei terreni avuti pochi mesi prima dello stesso municipio. Da circa 50 euro a 200 euro al metro quadrato. Una plusvalenza gigantesca, da 765mila euro a oltre tre milioni per ottenere quei 15 mila metri quadrati necessari per costruire il nuovo grande magazzino. La Navicelli ha pagato i denari dovuti all’amministrazione comunale con grave ritardo e solo dopo la variante urbanistica che consentiva il nuovo insediamento commerciale e dopo aver incassato la prima tranche dei soldi da Ikea. E dire che la società era nata per favorire il settore nautico.
L'arrivo di Ikea a Pisa è storia lunga. La multinazionale svedese aveva messo gli occhi su un’altra area, nel comune di Vecchiano. La struttura doveva sorgere a ridosso del casello autostradale ma l’amministrazione locale, a pochi giorni dalle elezioni, non se la sentì di dare il via ad un progetto che prevedeva anche un grande centro commerciale e un villaggio turistico. Una colata di cemento. Stoppata a Vecchiano, Ikea trova il sindaco di Pisa Marco Filippeschi pronto a cogliere l’occasione di un investimento da 70 milioni di euro che dovrà dare un posto di lavoro a circa 300 dipendenti diretti. Tanto più che a Pisa la società del mobile ha rinunciato alla colata di cemento che voleva r
Sulla carta l’operazione mette tutti d’accordo. Le aree erano state vendute per creare posti di lavoro e nuova occupazione la porterà l’Ikea e poco importa se non sarà l’industria delle barche da diporto. La multinazionale del mobile realizzerà il suo progetto, anche se deve rinunciare alla speculazione edilizia, il Comune ha incassato i soldi che gli doveva Navicelli. Maurizio Bini, capogruppo di Rifondazione comunista in Comune, teme gli effetti della nuova Ikea su una zona già gravata da traffico e pesanti infrastrutture e critica anche la plusvalenza che la Navicelli ha realizzato nell’acquisto e l’immediata rivendita delle aree di Porta a Mare. Dietro Navicelli ci sono personaggi che hanno molti legami con l’amministrazione comunale, dall’ex vice sindaco Stefano Bottai ad alcuni costruttori edili che hanno reso possibile l’operazione Ikea vendendo i loro terreni e che in molti casi sono tra coloro che hanno le mani su tutto quello che si muove sul litorale pisano, dal porto di Marina alla Cosmopolitan di Tirrenia, dal resort del Mary alla società Boccadarno. Due milioni e trecentomila euro di guadagno, senza alcun margine di plusvalenza per le casse comunali, con un paio di atti notarili.
L'Unità, 6 novembre 2012
«Bersani ha avuto coraggio e va appoggiato. Se vince c’è la possibilità di salvare il Paese e persino di ridare un ruolo alla sinistra, rilanciandone radicamento e valori». Si schiera Alberto Asor Rosa, provocando polemiche sul Manifesto. Ma lo fa “sperimentalmente”, senza dare per scontata la fine delle «due sinistre», come Mario Tronti sul nostro giornale. Su un punto è chiarissimo però: Bersani e Vendola devono marciare insieme.
Professor Asor Rosa, anche per lei le due sinistre, rifrormista e radicale, non hanno più senso? «La tesi secca della fine delle due sinistra è di Tronti. La mia posizione è più pragmatica. E cioè: malgrado la persistenza di una differenza quasi fisiologica tra le due realtà, oggi è necessario riunificarle in un solo aggregato. Per far fronte a un’emergenza drammatica.
«Necessario interloquire con i moderati. Vendola aiuti la riaggregazione dei progressisti
Che cosa c’entra la Fiom con il grillismo?»
Del resto la parte più estrema della sinistra si va frantumando, e ciò spinge verso un’aggregazione con il Pd». E i motivi «forti» di questa posizione? «Non solo c’è crisi e disgregazione del Paese, ma sulle macerie del berlusconismo si profila la formazione di un polo moderato. Si tratta di fronteggiare, con una diversa offerta, questo polo di interessi. Sia per farci i conti, sia per interloquire, magari all’indomani di un risultato elettorale incerto. Vendola perciò deve dare una mano alla riaggregazione dei progressisti».
Dunque un giudizio positivo su Bersani e la sua politica: unità a sinistra e apertura al centro. Giusto? «Bersani è un politico stagionato, figlio della migliore tradizione emiliana del Pci. È privo di oltranze ideologiche e ha una serietà di fondo. È stato lui a inventare l’alleanza con Vendola e a tener duro sul punto. Se il risultato elettorale lo premierà, anche il discorso strategico di Tronti sulla fine delle due sinistre po- trebbe realizzarsi».
Veniamo a Monti, esperienza onerosa imposta dai mercati e che comporta molti bocconi amari per la sinistra. Che giudizio ne dà?
«Una parentesi, che deve lasciare il posto a una soluzione politica, nel quadro della democrazia rappresentativa. Il mix di liberismo e moderatismo incarnato da Monti è transitorio, ma ha reso possibile la liquidazione di Berlusconi. E fa bene il centrosinistra rappresentato da Bersani a immaginare il dopo. E il dopo sta in Europa, una realtà dominata da tecnocrati e monetaristi. Qualsiasi prospettiva riformista non può che passare dal superamento di questa Europa. Decisivo quindi il rapporto con le socialdemocrazie europee. La riapertura di orizzonti e speranze ricomincia di qui».
Nel “secolo scorso”, fu tra i primi a denunciare il populismo in letteratura. Che effetto le fa l’idea di un asse tra la Fiom, Di Pietro, Travaglio e Grillo, contro i partiti?
«Posso dire di averlo “inventato” il populismo... e trovo inverosimile che la Fiom possa andare a braccetto con certe compagnie. La Fiom difende salario, operai e rappresentanza in fabbrica. Non c’entra con il grillismo, che esprime un trionfo mai visto del populismo e dell’antipolitica più reazionari. Certo, una volta in Parlamento, i grillini dovranno misurarsi con cose concrete e magari si ribelleranno al loro conducator. Il che già accade di continuo sotto i nostri occhi».
Ha fatto bene Bersani ad accettare le primarie e a modificare lo statuto,mettendosi in gioco?
«Non credo nelle primarie e le considero una perdita di tempo, destinata ad accrescere il frastagliamento generale. Credo altresì che Bersani non potesse rifiutarle, in questo Pd. Nondimeno ha mostrato coraggio e decisione. E se la sua sfida risulterà vittoriosa potrà finalmente porre le basi per qualcosa di diverso. Sia per il governo del paese, che per il futuro di un Pd in grado di unirsi con Vendola. Ne deduco che occorre appoggiare Bersani».
Sempre in tema di «tanto peggio tanto meglio», che ne pensa dell’idea di Flores d’Arcais: votiamo Renzi alle primarie e Grillo alle politiche?
«Conosco da anni Flores. Uomo intelligente, ma dominato da un super ego smisurato e onnipotente. La sua è una logica dissolutoria e autodistruttiva, che avrebbe l’effetto di distruggere le sue stesse idealità “rigeneratrici”. Un Pd renziano e diviso, e Grillo in maggioranza relativa, produrrebbero il caos. E il commissariamento permanente dell’Italia da parte dell’Europa».
Amaro declino del sito archeologico più famoso al mondo. Le cause sono sempre quelle, da troppi anni a questa parte: incuria, mala gestione, arretratezza culturale. L’Espresso, 8 novembre 2012 (m.p.g.)
I lavori annunciati dal governo non sono ancora partiti. I conti restano in rosso. E il sito archeologico rimane a rischio
No. Crolli no: non cominciate a farne un caso. Al massimo, qualche pezzetto di intonaco scrostato». Uno degli addetti al controllo ha appena finito il suo giro di ricognizione tra le Domus di Pompei: negativo, recita il suo rapporto. Nessun danno, almeno in superficie. Come se bastasse: «I media si accorgono di Pompei solo quando crolla qualcosa», chiosa nervoso. Su Napoli e provincia ha piovuto tutta la notte, un nubifragio. Quando piove, nella città antica piove sul bagnato: il rischio che quell'acqua produca danni è più alto che altrove. Due anni fa, il crollo della Schola Armaturarum fu provocato dallo smottamento di un terrapieno proprio a causa delle abbondanti piogge. Non c'era un sistema per veicolare l'acqua piovana, nel sito archeologico più grande al mondo. E non c'è nemmeno ora: a Pompei l'anno zero non è ancora arrivato.
Full Monti
«E' necessario che il sito rimanga in piedi con lavori di qualità e in sicurezza per i lavoratori, aveva dichiarato ad aprile il presidente del Consiglio, Mario Monti, presentando al mondo il "Grande progetto Pompei": 105 milioni di euro, 63 milioni nazionali e 42 di risorse europee, investiti nei prossimi te anni per la manutenzione del sito archeologico. Uno studio del 2005, commissionato dalla Soprintendenza, stimava in 260 milioni di euro il costo degli interventi necessari per la messa in sicurezza di tutta l'area degli scavi. Gli obiettivi, ha aggiunto Monti,«sono due: la messa in sicurezza di tutto il sito e che ciò avvenga attraverso lavoratori capaci e onesti, tenendo fuori la criminalità organizzata che è forte nel territorio. Sono trascorsi sette mesi e, ancora, nessun cantiere è stato aperto. I primi interventi tra l'altro non saranno di manutenzione e messa in sicurezza delle zone già accessibili ai visitatori ma riguarderanno il restauro e l'apertura di cinque nuove domus - la Casa del Criptoportico, la Casa di Sirico, quella del Marinaio, quella delle Pareti rosse e la Casa dei Dioscuri - con un costo di cinque milioni di euro. Per la scorsa estate era attesa la pubblicazione del bando per la "mitigazione del rischio idrogeologico", cioè proprio quello che serve per evitare infiltrazioni d'acqua e crolli: ad autunno inoltrato non c'è ancora traccia. Eppure, per velocizzare le operazioni sono state effettuate negli ultimi mesi pure ventidue nuove assunzioni di architetti e professionisti. «Da come agiremo sul sito archeologico, dipenderà molto della reputazione che potremo avere come Paese.
Ci giochiamo la faccia, ha dichiarato il ministro della Coesione territoriale, Fabrizio Barca. La figura ce l'ha. La faccia, in verità, Pompei se l'era già giocata con la gestione commissariale che Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso avevano affidato a Marcello Fiori. In due anni, sono state dilapidati 80 milioni di euro: poco per i restauri e tanto sperpero di denaro tra stipendi da record, consulenze, bottiglie di vino e operazioni di marketing. Dopo le denunce dettagliate de "l'Espresso", la Procura della Repubblica di Torre Annunziata aprì un fascicolo e la Guardia di Finanza più volte è stata a Pompei per acquisire la documentazione di gare e affidamenti. Sono passati due anni, come per il crollo della Schola Armaturarum: le macerie sono ancora lì coperte da un telo di nylon, l'inchiesta pure. Bel quadretto». Una volta, qui, c'erano squadrette di manutentori: pioveva lo stesso, eppure crolli così clamorosi non li ricordo, racconta un anziano custode, aggirando una grande pozzanghera nel Foro della città antica. Ogni giorno, restauratori e artigiani che lavoravano stabilmente nel sito archeologico, intervenivano ai primi segnali di degrado. Bastava una crepa, un muro un po' scrostato e,con azioni mirate e pochi spiccioli, si preveniva il peggio.
Oggi, se non si attende il crollo poco ci manca. E si interviene, quasi sistematicamente, affidando lavori a ditte esterne con la pratica della "somma urgenza" con nomi che, spesso, si ripetono. Aumentano i costi, cresce il rischio per il patrimonio artistico e culturale. Mentre a Pompei spariscono i manutentori, ormai in via di estinzione come i panda: ne sono rimasti in servizio sette, ma solo due hanno ancora forza e competenza per intervenire. Due per quarantaquattro ettari di patrimonio archeologico fruibile, dove intanto il degrado continua la sua inesorabile marcia. Sette i crolli negli ultimi due anni. A febbraio, si era staccato l'intonaco della Domus di Venere in Conchiglia, uno degli affreschi più noti al mondo. L'ultimo crollo, a settembre, nella famosa Villa dei Misteri: una trave di castagno, lunga cinque metri, si è staccata dal soffitto, da un'altezza di otto metri, e si è schiantata sul pavimento della Domus più visitata. Era marcia, come deteriorate appaiono alcune che ancora sono fissate nel sottotetto della Villa. E' successo di notte: fosse caduta di giorno, a Pompei ci sarebbe pure potuto scappare il morto. La causa? Un'infiltrazione d'acqua, a quanto pare.
Conti in rosso
Per ripristinare le "squadrette" basterebbe assumere una cinquantina di persone: costo medio 39 mila euro all'anno. Meno di due milioni di euro,che garantirehbero più sicurezza e maggiore salvaguardia del patrimonio.E posti di lavoro. Soldi che, in parte, verrebbero recuperati dagli affidamenti diretti alle ditte chiamate d'urgenza quando c'è qualche cedimento. Oggi, negli Scavi di Pompei lavorano in 213: i loro stipendi, circa 8,3 milioni di euro, li paga il Mibac, il ministero dei Beni culturali. Per il funzionamento e la manutenzione ordinaria viene utilizzato l'incasso: circa 19 milioni per 1,7 milioni di visitatori paganti. Se Pompei fosse un'azienda privata, tra costi di gestione e personale, sarebbe già fallita. Eppure, secondo un vecchio studio del Mibac, servirebbero almeno altri 500 addetti per far funzionare al meglio il sito. Prevalentemente custodi. Garantirebbero la fruizione di tutti o quasi i 67 ettari del sito, l'apertura serale per almeno quattro mesi all'anno, un aumento di almeno il 50 per cento dei visitatori. Per raggiungere il pareggio, bisognerebbe aumentare il costo dei biglietto dagli attuali 11 euro a 15,50 euro, la stessa cifra che si paga per l'ingresso al Moma di New York. Il paradosso è che in cassa, oggi a Pompei, ci sono circa 57 milioni di curo non spesi. Sembra un contrappasso, dopo l'era Fiori in cui si registrarono 54 voci di spesa negli ultimi due giorni di commissariamento: 15 milioni di euro tra il 29 e il 30 luglio 2010, proprio mentre si preparavano gli scatoloni per andar via.
Amaro declino del sito archeologico più famoso al mondo. Le cause sono sempre quelle, da troppi anni a questa parte: incuria, mala gestione, arretratezza culturale. L’Espresso, 8 novembre 2012 (m.p.g.)
I lavori annunciati dal governo non sono ancora partiti. I conti restano in rosso. E il sito archeologico rimane a rischio
No. Crolli no: non cominciate a farne un caso. Al massimo, qualche pezzetto di intonaco scrostato». Uno degli addetti al controllo ha appena finito il suo giro di ricognizione tra le Domus di Pompei: negativo, recita il suo rapporto. Nessun danno, almeno in superficie. Come se bastasse: «I media si accorgono di Pompei solo quando crolla qualcosa», chiosa nervoso. Su Napoli e provincia ha piovuto tutta la notte, un nubifragio. Quando piove, nella città antica piove sul bagnato: il rischio che quell'acqua produca danni è più alto che altrove. Due anni fa, il crollo della Schola Armaturarum fu provocato dallo smottamento di un terrapieno proprio a causa delle abbondanti piogge. Non c'era un sistema per veicolare l'acqua piovana, nel sito archeologico più grande al mondo. E non c'è nemmeno ora: a Pompei l'anno zero non è ancora arrivato.
Full Monti
«E' necessario che il sito rimanga in piedi con lavori di qualità e in sicurezza per i lavoratori, aveva dichiarato ad aprile il presidente del Consiglio, Mario Monti, presentando al mondo il "Grande progetto Pompei": 105 milioni di euro, 63 milioni nazionali e 42 di risorse europee, investiti nei prossimi te anni per la manutenzione del sito archeologico. Uno studio del 2005, commissionato dalla Soprintendenza, stimava in 260 milioni di euro il costo degli interventi necessari per la messa in sicurezza di tutta l'area degli scavi. Gli obiettivi, ha aggiunto Monti,«sono due: la messa in sicurezza di tutto il sito e che ciò avvenga attraverso lavoratori capaci e onesti, tenendo fuori la criminalità organizzata che è forte nel territorio. Sono trascorsi sette mesi e, ancora, nessun cantiere è stato aperto. I primi interventi tra l'altro non saranno di manutenzione e messa in sicurezza delle zone già accessibili ai visitatori ma riguarderanno il restauro e l'apertura di cinque nuove domus - la Casa del Criptoportico, la Casa di Sirico, quella del Marinaio, quella delle Pareti rosse e la Casa dei Dioscuri - con un costo di cinque milioni di euro. Per la scorsa estate era attesa la pubblicazione del bando per la "mitigazione del rischio idrogeologico", cioè proprio quello che serve per evitare infiltrazioni d'acqua e crolli: ad autunno inoltrato non c'è ancora traccia. Eppure, per velocizzare le operazioni sono state effettuate negli ultimi mesi pure ventidue nuove assunzioni di architetti e professionisti. «Da come agiremo sul sito archeologico, dipenderà molto della reputazione che potremo avere come Paese.
Ci giochiamo la faccia, ha dichiarato il ministro della Coesione territoriale, Fabrizio Barca. La figura ce l'ha. La faccia, in verità, Pompei se l'era già giocata con la gestione commissariale che Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso avevano affidato a Marcello Fiori. In due anni, sono state dilapidati 80 milioni di euro: poco per i restauri e tanto sperpero di denaro tra stipendi da record, consulenze, bottiglie di vino e operazioni di marketing. Dopo le denunce dettagliate de "l'Espresso", la Procura della Repubblica di Torre Annunziata aprì un fascicolo e la Guardia di Finanza più volte è stata a Pompei per acquisire la documentazione di gare e affidamenti. Sono passati due anni, come per il crollo della Schola Armaturarum: le macerie sono ancora lì coperte da un telo di nylon, l'inchiesta pure. Bel quadretto». Una volta, qui, c'erano squadrette di manutentori: pioveva lo stesso, eppure crolli così clamorosi non li ricordo, racconta un anziano custode, aggirando una grande pozzanghera nel Foro della città antica. Ogni giorno, restauratori e artigiani che lavoravano stabilmente nel sito archeologico, intervenivano ai primi segnali di degrado. Bastava una crepa, un muro un po' scrostato e,con azioni mirate e pochi spiccioli, si preveniva il peggio.
Oggi, se non si attende il crollo poco ci manca. E si interviene, quasi sistematicamente, affidando lavori a ditte esterne con la pratica della "somma urgenza" con nomi che, spesso, si ripetono. Aumentano i costi, cresce il rischio per il patrimonio artistico e culturale. Mentre a Pompei spariscono i manutentori, ormai in via di estinzione come i panda: ne sono rimasti in servizio sette, ma solo due hanno ancora forza e competenza per intervenire. Due per quarantaquattro ettari di patrimonio archeologico fruibile, dove intanto il degrado continua la sua inesorabile marcia. Sette i crolli negli ultimi due anni. A febbraio, si era staccato l'intonaco della Domus di Venere in Conchiglia, uno degli affreschi più noti al mondo. L'ultimo crollo, a settembre, nella famosa Villa dei Misteri: una trave di castagno, lunga cinque metri, si è staccata dal soffitto, da un'altezza di otto metri, e si è schiantata sul pavimento della Domus più visitata. Era marcia, come deteriorate appaiono alcune che ancora sono fissate nel sottotetto della Villa. E' successo di notte: fosse caduta di giorno, a Pompei ci sarebbe pure potuto scappare il morto. La causa? Un'infiltrazione d'acqua, a quanto pare.
Conti in rosso
Per ripristinare le "squadrette" basterebbe assumere una cinquantina di persone: costo medio 39 mila euro all'anno. Meno di due milioni di euro,che garantirehbero più sicurezza e maggiore salvaguardia del patrimonio.E posti di lavoro. Soldi che, in parte, verrebbero recuperati dagli affidamenti diretti alle ditte chiamate d'urgenza quando c'è qualche cedimento. Oggi, negli Scavi di Pompei lavorano in 213: i loro stipendi, circa 8,3 milioni di euro, li paga il Mibac, il ministero dei Beni culturali. Per il funzionamento e la manutenzione ordinaria viene utilizzato l'incasso: circa 19 milioni per 1,7 milioni di visitatori paganti. Se Pompei fosse un'azienda privata, tra costi di gestione e personale, sarebbe già fallita. Eppure, secondo un vecchio studio del Mibac, servirebbero almeno altri 500 addetti per far funzionare al meglio il sito. Prevalentemente custodi. Garantirebbero la fruizione di tutti o quasi i 67 ettari del sito, l'apertura serale per almeno quattro mesi all'anno, un aumento di almeno il 50 per cento dei visitatori. Per raggiungere il pareggio, bisognerebbe aumentare il costo dei biglietto dagli attuali 11 euro a 15,50 euro, la stessa cifra che si paga per l'ingresso al Moma di New York. Il paradosso è che in cassa, oggi a Pompei, ci sono circa 57 milioni di curo non spesi. Sembra un contrappasso, dopo l'era Fiori in cui si registrarono 54 voci di spesa negli ultimi due giorni di commissariamento: 15 milioni di euro tra il 29 e il 30 luglio 2010, proprio mentre si preparavano gli scatoloni per andar via.
| Autore: Pappaianni, Claudio |
| Amaro declino del sito archeologico più famoso al mondo. Le cause sono sempre quelle, da troppi anni a questa parte: incuria, mala gestione, arretratezza culturale. L’Espresso, 8 novembre 2012 (m.p.g.) |
| I lavori annunciati dal governo non sono ancora partiti. I conti restano in rosso. E il sito archeologico rimane a rischio
No. Crolli no: non cominciate a farne un caso. Al massimo, qualche pezzetto di intonaco scrostato». Uno degli addetti al controllo ha appena finito il suo giro di ricognizione tra le Domus di Pompei: negativo, recita il suo rapporto. Nessun danno, almeno in superficie. Come se bastasse: «I media si accorgono di Pompei solo quando crolla qualcosa», chiosa nervoso. Su Napoli e provincia ha piovuto tutta la notte, un nubifragio. Quando piove, nella città antica piove sul bagnato: il rischio che quell'acqua produca danni è più alto che altrove. Due anni fa, il crollo della Schola Armaturarum fu provocato dallo smottamento di un terrapieno proprio a causa delle abbondanti piogge. Non c'era un sistema per veicolare l'acqua piovana, nel sito archeologico più grande al mondo. E non c'è nemmeno ora: a Pompei l'anno zero non è ancora arrivato. Full Monti Ci giochiamo la faccia, ha dichiarato il ministro della Coesione territoriale, Fabrizio Barca. La figura ce l'ha. La faccia, in verità, Pompei se l'era già giocata con la gestione commissariale che Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso avevano affidato a Marcello Fiori. In due anni, sono state dilapidati 80 milioni di euro: poco per i restauri e tanto sperpero di denaro tra stipendi da record, consulenze, bottiglie di vino e operazioni di marketing. Dopo le denunce dettagliate de "l'Espresso", la Procura della Repubblica di Torre Annunziata aprì un fascicolo e la Guardia di Finanza più volte è stata a Pompei per acquisire la documentazione di gare e affidamenti. Sono passati due anni, come per il crollo della Schola Armaturarum: le macerie sono ancora lì coperte da un telo di nylon, l'inchiesta pure. Bel quadretto». Una volta, qui, c'erano squadrette di manutentori: pioveva lo stesso, eppure crolli così clamorosi non li ricordo, racconta un anziano custode, aggirando una grande pozzanghera nel Foro della città antica. Ogni giorno, restauratori e artigiani che lavoravano stabilmente nel sito archeologico, intervenivano ai primi segnali di degrado. Bastava una crepa, un muro un po' scrostato e,con azioni mirate e pochi spiccioli, si preveniva il peggio. Oggi, se non si attende il crollo poco ci manca. E si interviene, quasi sistematicamente, affidando lavori a ditte esterne con la pratica della "somma urgenza" con nomi che, spesso, si ripetono. Aumentano i costi, cresce il rischio per il patrimonio artistico e culturale. Mentre a Pompei spariscono i manutentori, ormai in via di estinzione come i panda: ne sono rimasti in servizio sette, ma solo due hanno ancora forza e competenza per intervenire. Due per quarantaquattro ettari di patrimonio archeologico fruibile, dove intanto il degrado continua la sua inesorabile marcia. Sette i crolli negli ultimi due anni. A febbraio, si era staccato l'intonaco della Domus di Venere in Conchiglia, uno degli affreschi più noti al mondo. L'ultimo crollo, a settembre, nella famosa Villa dei Misteri: una trave di castagno, lunga cinque metri, si è staccata dal soffitto, da un'altezza di otto metri, e si è schiantata sul pavimento della Domus più visitata. Era marcia, come deteriorate appaiono alcune che ancora sono fissate nel sottotetto della Villa. E' successo di notte: fosse caduta di giorno, a Pompei ci sarebbe pure potuto scappare il morto. La causa? Un'infiltrazione d'acqua, a quanto pare. Conti in rosso |
| Amaro declino del sito archeologico più famoso al mondo. Le cause sono sempre quelle, da troppi anni a questa parte: incuria, mala gestione, arretratezza culturale. L’Espresso, 8 novembre 2012 (m.p.g.) |
| I lavori annunciati dal governo non sono ancora partiti. I conti restano in rosso. E il sito archeologico rimane a rischio
No. Crolli no: non cominciate a farne un caso. Al massimo, qualche pezzetto di intonaco scrostato». Uno degli addetti al controllo ha appena finito il suo giro di ricognizione tra le Domus di Pompei: negativo, recita il suo rapporto. Nessun danno, almeno in superficie. Come se bastasse: «I media si accorgono di Pompei solo quando crolla qualcosa», chiosa nervoso. Su Napoli e provincia ha piovuto tutta la notte, un nubifragio. Quando piove, nella città antica piove sul bagnato: il rischio che quell'acqua produca danni è più alto che altrove. Due anni fa, il crollo della Schola Armaturarum fu provocato dallo smottamento di un terrapieno proprio a causa delle abbondanti piogge. Non c'era un sistema per veicolare l'acqua piovana, nel sito archeologico più grande al mondo. E non c'è nemmeno ora: a Pompei l'anno zero non è ancora arrivato. Full Monti Ci giochiamo la faccia, ha dichiarato il ministro della Coesione territoriale, Fabrizio Barca. La figura ce l'ha. La faccia, in verità, Pompei se l'era già giocata con la gestione commissariale che Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso avevano affidato a Marcello Fiori. In due anni, sono state dilapidati 80 milioni di euro: poco per i restauri e tanto sperpero di denaro tra stipendi da record, consulenze, bottiglie di vino e operazioni di marketing. Dopo le denunce dettagliate de "l'Espresso", la Procura della Repubblica di Torre Annunziata aprì un fascicolo e la Guardia di Finanza più volte è stata a Pompei per acquisire la documentazione di gare e affidamenti. Sono passati due anni, come per il crollo della Schola Armaturarum: le macerie sono ancora lì coperte da un telo di nylon, l'inchiesta pure. Bel quadretto». Una volta, qui, c'erano squadrette di manutentori: pioveva lo stesso, eppure crolli così clamorosi non li ricordo, racconta un anziano custode, aggirando una grande pozzanghera nel Foro della città antica. Ogni giorno, restauratori e artigiani che lavoravano stabilmente nel sito archeologico, intervenivano ai primi segnali di degrado. Bastava una crepa, un muro un po' scrostato e,con azioni mirate e pochi spiccioli, si preveniva il peggio. Oggi, se non si attende il crollo poco ci manca. E si interviene, quasi sistematicamente, affidando lavori a ditte esterne con la pratica della "somma urgenza" con nomi che, spesso, si ripetono. Aumentano i costi, cresce il rischio per il patrimonio artistico e culturale. Mentre a Pompei spariscono i manutentori, ormai in via di estinzione come i panda: ne sono rimasti in servizio sette, ma solo due hanno ancora forza e competenza per intervenire. Due per quarantaquattro ettari di patrimonio archeologico fruibile, dove intanto il degrado continua la sua inesorabile marcia. Sette i crolli negli ultimi due anni. A febbraio, si era staccato l'intonaco della Domus di Venere in Conchiglia, uno degli affreschi più noti al mondo. L'ultimo crollo, a settembre, nella famosa Villa dei Misteri: una trave di castagno, lunga cinque metri, si è staccata dal soffitto, da un'altezza di otto metri, e si è schiantata sul pavimento della Domus più visitata. Era marcia, come deteriorate appaiono alcune che ancora sono fissate nel sottotetto della Villa. E' successo di notte: fosse caduta di giorno, a Pompei ci sarebbe pure potuto scappare il morto. La causa? Un'infiltrazione d'acqua, a quanto pare. Conti in rosso |
| Autore: Pappaianni, Claudio |
| Dimenticare Pompei |
| Data di pubblicazione: 04.11.2012 |
| Autore: Pappaianni, Claudio |
| Amaro declino del sito archeologico più famoso al mondo. Le cause sono sempre quelle, da troppi anni a questa parte: incuria, mala gestione, arretratezza culturale. L’Espresso, 8 novembre 2012 (m.p.g.) |
| I lavori annunciati dal governo non sono ancora partiti. I conti restano in rosso. E il sito archeologico rimane a rischio
No. Crolli no: non cominciate a farne un caso. Al massimo, qualche pezzetto di intonaco scrostato». Uno degli addetti al controllo ha appena finito il suo giro di ricognizione tra le Domus di Pompei: negativo, recita il suo rapporto. Nessun danno, almeno in superficie. Come se bastasse: «I media si accorgono di Pompei solo quando crolla qualcosa», chiosa nervoso. Su Napoli e provincia ha piovuto tutta la notte, un nubifragio. Quando piove, nella città antica piove sul bagnato: il rischio che quell'acqua produca danni è più alto che altrove. Due anni fa, il crollo della Schola Armaturarum fu provocato dallo smottamento di un terrapieno proprio a causa delle abbondanti piogge. Non c'era un sistema per veicolare l'acqua piovana, nel sito archeologico più grande al mondo. E non c'è nemmeno ora: a Pompei l'anno zero non è ancora arrivato. Full Monti Ci giochiamo la faccia, ha dichiarato il ministro della Coesione territoriale, Fabrizio Barca. La figura ce l'ha. La faccia, in verità, Pompei se l'era già giocata con la gestione commissariale che Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso avevano affidato a Marcello Fiori. In due anni, sono state dilapidati 80 milioni di euro: poco per i restauri e tanto sperpero di denaro tra stipendi da record, consulenze, bottiglie di vino e operazioni di marketing. Dopo le denunce dettagliate de "l'Espresso", la Procura della Repubblica di Torre Annunziata aprì un fascicolo e la Guardia di Finanza più volte è stata a Pompei per acquisire la documentazione di gare e affidamenti. Sono passati due anni, come per il crollo della Schola Armaturarum: le macerie sono ancora lì coperte da un telo di nylon, l'inchiesta pure. Bel quadretto». Una volta, qui, c'erano squadrette di manutentori: pioveva lo stesso, eppure crolli così clamorosi non li ricordo, racconta un anziano custode, aggirando una grande pozzanghera nel Foro della città antica. Ogni giorno, restauratori e artigiani che lavoravano stabilmente nel sito archeologico, intervenivano ai primi segnali di degrado. Bastava una crepa, un muro un po' scrostato e,con azioni mirate e pochi spiccioli, si preveniva il peggio. Oggi, se non si attende il crollo poco ci manca. E si interviene, quasi sistematicamente, affidando lavori a ditte esterne con la pratica della "somma urgenza" con nomi che, spesso, si ripetono. Aumentano i costi, cresce il rischio per il patrimonio artistico e culturale. Mentre a Pompei spariscono i manutentori, ormai in via di estinzione come i panda: ne sono rimasti in servizio sette, ma solo due hanno ancora forza e competenza per intervenire. Due per quarantaquattro ettari di patrimonio archeologico fruibile, dove intanto il degrado continua la sua inesorabile marcia. Sette i crolli negli ultimi due anni. A febbraio, si era staccato l'intonaco della Domus di Venere in Conchiglia, uno degli affreschi più noti al mondo. L'ultimo crollo, a settembre, nella famosa Villa dei Misteri: una trave di castagno, lunga cinque metri, si è staccata dal soffitto, da un'altezza di otto metri, e si è schiantata sul pavimento della Domus più visitata. Era marcia, come deteriorate appaiono alcune che ancora sono fissate nel sottotetto della Villa. E' successo di notte: fosse caduta di giorno, a Pompei ci sarebbe pure potuto scappare il morto. La causa? Un'infiltrazione d'acqua, a quanto pare. Conti in rosso |
| Amaro declino del sito archeologico più famoso al mondo. Le cause sono sempre quelle, da troppi anni a questa parte: incuria, mala gestione, arretratezza culturale. L’Espresso, 8 novembre 2012 (m.p.g.) |
| I lavori annunciati dal governo non sono ancora partiti. I conti restano in rosso. E il sito archeologico rimane a rischio
No. Crolli no: non cominciate a farne un caso. Al massimo, qualche pezzetto di intonaco scrostato». Uno degli addetti al controllo ha appena finito il suo giro di ricognizione tra le Domus di Pompei: negativo, recita il suo rapporto. Nessun danno, almeno in superficie. Come se bastasse: «I media si accorgono di Pompei solo quando crolla qualcosa», chiosa nervoso. Su Napoli e provincia ha piovuto tutta la notte, un nubifragio. Quando piove, nella città antica piove sul bagnato: il rischio che quell'acqua produca danni è più alto che altrove. Due anni fa, il crollo della Schola Armaturarum fu provocato dallo smottamento di un terrapieno proprio a causa delle abbondanti piogge. Non c'era un sistema per veicolare l'acqua piovana, nel sito archeologico più grande al mondo. E non c'è nemmeno ora: a Pompei l'anno zero non è ancora arrivato. Full Monti Ci giochiamo la faccia, ha dichiarato il ministro della Coesione territoriale, Fabrizio Barca. La figura ce l'ha. La faccia, in verità, Pompei se l'era già giocata con la gestione commissariale che Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso avevano affidato a Marcello Fiori. In due anni, sono state dilapidati 80 milioni di euro: poco per i restauri e tanto sperpero di denaro tra stipendi da record, consulenze, bottiglie di vino e operazioni di marketing. Dopo le denunce dettagliate de "l'Espresso", la Procura della Repubblica di Torre Annunziata aprì un fascicolo e la Guardia di Finanza più volte è stata a Pompei per acquisire la documentazione di gare e affidamenti. Sono passati due anni, come per il crollo della Schola Armaturarum: le macerie sono ancora lì coperte da un telo di nylon, l'inchiesta pure. Bel quadretto». Una volta, qui, c'erano squadrette di manutentori: pioveva lo stesso, eppure crolli così clamorosi non li ricordo, racconta un anziano custode, aggirando una grande pozzanghera nel Foro della città antica. Ogni giorno, restauratori e artigiani che lavoravano stabilmente nel sito archeologico, intervenivano ai primi segnali di degrado. Bastava una crepa, un muro un po' scrostato e,con azioni mirate e pochi spiccioli, si preveniva il peggio. Oggi, se non si attende il crollo poco ci manca. E si interviene, quasi sistematicamente, affidando lavori a ditte esterne con la pratica della "somma urgenza" con nomi che, spesso, si ripetono. Aumentano i costi, cresce il rischio per il patrimonio artistico e culturale. Mentre a Pompei spariscono i manutentori, ormai in via di estinzione come i panda: ne sono rimasti in servizio sette, ma solo due hanno ancora forza e competenza per intervenire. Due per quarantaquattro ettari di patrimonio archeologico fruibile, dove intanto il degrado continua la sua inesorabile marcia. Sette i crolli negli ultimi due anni. A febbraio, si era staccato l'intonaco della Domus di Venere in Conchiglia, uno degli affreschi più noti al mondo. L'ultimo crollo, a settembre, nella famosa Villa dei Misteri: una trave di castagno, lunga cinque metri, si è staccata dal soffitto, da un'altezza di otto metri, e si è schiantata sul pavimento della Domus più visitata. Era marcia, come deteriorate appaiono alcune che ancora sono fissate nel sottotetto della Villa. E' successo di notte: fosse caduta di giorno, a Pompei ci sarebbe pure potuto scappare il morto. La causa? Un'infiltrazione d'acqua, a quanto pare. Conti in rosso |
Come si tenta l'impossibile, cioè valutare le qualità con misure quantitative, in Italia e in Gran Bretagna. il manifesto, 6 novembre 2012
Le riforme della formazione hanno introdotto criteri economici nella valutazione della ricerca e della docenza. Un confronto tra l'esperienza inglese e quella italiana
Un'operazione «complicata ma necessaria, che deve essere messa in campo subito», prima che l'elettore progressivo, sfinito o imbufalito, si rassegni a scegliere tra «Monti e Monti, cioè tra i tecnocratici puri e i partiti che vorrebbero sostituire i tecnici senza segnare una netta discontinuità con la loro agenda, come propone la carta d'intenti della coalizione Pd-Sel-Psi; o votare il Movimento 5 stelle; o ritirarsi nell'astensione».
Di liste arancioni si parla da mesi. Ma, stavolta - giurano gli organizzatori - si parte sul serio. Ieri è stato presentato l'appello «Cambiare si può! Noi ci stiamo», promotori e primi firmatari i sociologi Luciano Gallino e Marco Revelli, e l'ex magistrato Livio Pepino (ora a capo delle Edizioni Abele di don Ciotti). Seguiti da una distesa di nomi dell'associazionismo (come don Marcello Cozzi, vicepresidente di Libera), intellettuali e giuristi (Paul Ginsborg, Tonino Perna, Alberto Lucarelli, Ugo Mattei), amministratori (anche della Val Susa), artisti e scrittori (Moni Ovadia, Massimo Carlotto, Sabina Guzzanti, Gianmaria Testa), delegati sindacali (come Antonio Di Luca, uno dei lavoratori di Pomigliano discriminati da Marchionne), giornalisti (Oliviero Beha, Gabriele Polo), e don Gallo, Haidi Giuliani, Riccardo Petrella, Guido Viale.
Stavolta, giurano, non è solo di un appello: è una concretissima «campagna» che porterà, un passo alla volta ma ormai di corsa, ad un'iniziativa il primo dicembre, dopo le primarie ma - non a caso - prima del ballottaggio: come per dire che ci sarà una «presenza arancione» nel 2013 chiunque vinca ai gazebo, qualunque legge elettorale venga apparecchiata. Che pure non è variabile irrilevante ai fini dell'organizzazione e quindi del rapporto - lista o coalizione - con i partiti come Prc e Idv. Intanto «i fatti richiedono un'iniziativa politica nuova e intransigente», dice l'appello (lo pubblichiamo per esteso a pag.14), «per non restare muti» e «rompere con la logica paralizzante delle compatibilità», «non la raccolta dei cocci di esperienze fallite, dei vecchi ceti politici, delle sigle di partito, della protesta populista» e che porti «alla costituzione di un polo alternativo agli attuali schieramenti, con uno sbocco immediato anche a livello elettorale» che convochi le migliaia di persone mobilitate «dalla pace ai referendum, movimenti, associazioni, singoli, amministratori di piccole e grandi città, lavoratrici e lavoratori, precari, disoccupati, studenti, insegnanti, intellettuali, pensionati, migranti in un progetto di rinnovamento». Parte delle firme provengono da Alba (alleanza lavoro benicomuni ambiente), ma stavolta «siamo ancora più ambiziosi», spiega Pepino: c'è un mondo che si sgretola e noi vogliamo far partire una palla di neve». Per far partire la valanga, sottinteso. Arriveranno nuove «pesanti» adesioni. Si guarda naturalmente anche a De Magistris, che intanto ieri ha battuto non uno ma molti colpi, intervistato un po' ovunque. Ha annunciato per dicembre il lancio di un «movimento arancione» che a tutta l'aria di convergere con l'appello dei 70 - sull'Huffington Post ha ipotizzato il nome «Partigiani» - per «mettere insieme quello che i partiti contro il sistema e quello che coloro che stanno fuori dai partiti hanno fatto di buono in questi anni». Forse ci sarà anche Di Pietro, a cui ha espresso solidarietà umana. E se ci fossero anche Landini e Ingroia «sarebbe da stappare una bottiglia di champagne». d.d.
Possibile che non si trovi una maggioranza capace di fare una politica diversa da quella di Craxi-Berlusconi- Monti, con l'appoggio di Di Pietro e Bersani? il manifesto, 2 novembre 2012
Il governo ha deciso: non chiude il progetto del Ponte sullo Stretto ma lo rinvia. La costosissima agonia del Ponte andrà avanti per almeno altri due anni, che serviranno «a verificare la fattibilità tecnica ed economico-finanziaria del progetto», prima della decisione definitiva. La società del Ponte (la Sdm), che spende circa mezzo milione di euro al mese solo per sopravvivere, potrà così continuare a sprecare risorse pubbliche nell'unica attività che porta avanti ormai da una quarantina d'anni: l'eterna progettazione. Ma c'è di peggio: le imprese consorziate per la realizzazione del Ponte, in attesa di un'opera che non si farà mai, potranno realizzare infrastrutture «collaterali, funzionalmente autonome rispetto al manufatto principale ma comprese nel programma». Siamo all'assurdo.
Siamo all'assurdo: una opera non si realizza ma si possono costruire le attrezzature di contorno. Eppure Monti e Passera sembravano avviati sulla strada giusta, la chiusura definitiva di un telenovela costata già moltissimo agli italiani, in una progettazione infinita che in 40 anni non ha dimostrato neppure la fattibilità del manufatto (a dispetto dei CettoQualunquistici annunci di Berlusconi), evidenziandone invece i gravissimi impatti ambientali e paesaggistici, la sostanziale inutilità trasportistica, i sempre crescenti ed esorbitanti costi di realizzazione(8,6 miliardi di euro il conto sintetico allegato all'ultima versione del progetto).
Nei mesi scorsi l'esecutivo aveva preso atto dell'esclusione del Ponte dai programmi di infrastrutture strategiche comunitarie e aveva definanziato completamente il programma (operazione peraltro già avviata prima da Tremonti e Berlusconi), dichiarando più volte che «il ponte non è una priorità» e che la questione sarebbe stata «definita compiutamente». Nelle ultime settimane si era chiarita anche la questione delle penali, inesistenti in caso di bocciatura del progetto definitivo: per cui una chiusura in questa fase comportava solo i rimborsi spese. Tutto faceva pensare ad una fine della storia. Invece è arrivato un rinvio, che sostanzialmente «sbologna» la decisione al nuovo governo. E soprattutto permette a società e imprese di continuare a sprecare soldi pubblici proprio nel giorno in cui l'esecutivo assume, tra l'altro, l'odiosa decisione di negare i contributi ai malati di Slòa.
Protestano gli ambientalisti (che hanno sempre contestato anche tecnicamente il progetto, smascherandone infattibilità e insostenibilità) insieme a buona parte del centrosinistra e ai Noponte. Si chiede l'intervento di Napolitano, sempre schierato contro gli sprechi, oggi più che mai inaccettabili.
Appena insediati, Passera e il suo vice Ciaccia, che da banchieri avevano fatto da consulenti ad Impregilo, l'impresa capocordata del ponte, avevano rassicurato chi si preoccupava di possibili conflitti d'interesse: «Da rappresentanti del governo adesso cambia tutto! Parleranno i fatti», rispondevano. Appunto.
I lavori annunciati dal governo non sono ancora partiti. I conti restano in rosso. E il sito archeologico rimane a rischio
No. Crolli no: non cominciate a farne un caso. Al massimo, qualche pezzetto di intonaco scrostato». Uno degli addetti al controllo ha appena finito il suo giro di ricognizione tra le Domus di Pompei: negativo, recita il suo rapporto. Nessun danno, almeno in superficie. Come se bastasse: «I media si accorgono di Pompei solo quando crolla qualcosa», chiosa nervoso. Su Napoli e provincia ha piovuto tutta la notte, un nubifragio. Quando piove, nella città antica piove sul bagnato: il rischio che quell'acqua produca danni è più alto che altrove. Due anni fa, il crollo della Schola Armaturarum fu provocato dallo smottamento di un terrapieno proprio a causa delle abbondanti piogge. Non c'era un sistema per veicolare l'acqua piovana, nel sito archeologico più grande al mondo. E non c'è nemmeno ora: a Pompei l'anno zero non è ancora arrivato.
Full Monti
«E' necessario che il sito rimanga in piedi con lavori di qualità e in sicurezza per i lavoratori, aveva dichiarato ad aprile il presidente del Consiglio, Mario Monti, presentando al mondo il "Grande progetto Pompei": 105 milioni di euro, 63 milioni nazionali e 42 di risorse europee, investiti nei prossimi te anni per la manutenzione del sito archeologico. Uno studio del 2005, commissionato dalla Soprintendenza, stimava in 260 milioni di euro il costo degli interventi necessari per la messa in sicurezza di tutta l'area degli scavi. Gli obiettivi, ha aggiunto Monti,«sono due: la messa in sicurezza di tutto il sito e che ciò avvenga attraverso lavoratori capaci e onesti, tenendo fuori la criminalità organizzata che è forte nel territorio. Sono trascorsi sette mesi e, ancora, nessun cantiere è stato aperto. I primi interventi tra l'altro non saranno di manutenzione e messa in sicurezza delle zone già accessibili ai visitatori ma riguarderanno il restauro e l'apertura di cinque nuove domus - la Casa del Criptoportico, la Casa di Sirico, quella del Marinaio, quella delle Pareti rosse e la Casa dei Dioscuri - con un costo di cinque milioni di euro. Per la scorsa estate era attesa la pubblicazione del bando per la "mitigazione del rischio idrogeologico", cioè proprio quello che serve per evitare infiltrazioni d'acqua e crolli: ad autunno inoltrato non c'è ancora traccia. Eppure, per velocizzare le operazioni sono state effettuate negli ultimi mesi pure ventidue nuove assunzioni di architetti e professionisti. «Da come agiremo sul sito archeologico, dipenderà molto della reputazione che potremo avere come Paese.
Ci giochiamo la faccia, ha dichiarato il ministro della Coesione territoriale, Fabrizio Barca. La figura ce l'ha. La faccia, in verità, Pompei se l'era già giocata con la gestione commissariale che Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso avevano affidato a Marcello Fiori. In due anni, sono state dilapidati 80 milioni di euro: poco per i restauri e tanto sperpero di denaro tra stipendi da record, consulenze, bottiglie di vino e operazioni di marketing. Dopo le denunce dettagliate de "l'Espresso", la Procura della Repubblica di Torre Annunziata aprì un fascicolo e la Guardia di Finanza più volte è stata a Pompei per acquisire la documentazione di gare e affidamenti. Sono passati due anni, come per il crollo della Schola Armaturarum: le macerie sono ancora lì coperte da un telo di nylon, l'inchiesta pure. Bel quadretto». Una volta, qui, c'erano squadrette di manutentori: pioveva lo stesso, eppure crolli così clamorosi non li ricordo, racconta un anziano custode, aggirando una grande pozzanghera nel Foro della città antica. Ogni giorno, restauratori e artigiani che lavoravano stabilmente nel sito archeologico, intervenivano ai primi segnali di degrado. Bastava una crepa, un muro un po' scrostato e,con azioni mirate e pochi spiccioli, si preveniva il peggio.
Oggi, se non si attende il crollo poco ci manca. E si interviene, quasi sistematicamente, affidando lavori a ditte esterne con la pratica della "somma urgenza" con nomi che, spesso, si ripetono. Aumentano i costi, cresce il rischio per il patrimonio artistico e culturale. Mentre a Pompei spariscono i manutentori, ormai in via di estinzione come i panda: ne sono rimasti in servizio sette, ma solo due hanno ancora forza e competenza per intervenire. Due per quarantaquattro ettari di patrimonio archeologico fruibile, dove intanto il degrado continua la sua inesorabile marcia. Sette i crolli negli ultimi due anni. A febbraio, si era staccato l'intonaco della Domus di Venere in Conchiglia, uno degli affreschi più noti al mondo. L'ultimo crollo, a settembre, nella famosa Villa dei Misteri: una trave di castagno, lunga cinque metri, si è staccata dal soffitto, da un'altezza di otto metri, e si è schiantata sul pavimento della Domus più visitata. Era marcia, come deteriorate appaiono alcune che ancora sono fissate nel sottotetto della Villa. E' successo di notte: fosse caduta di giorno, a Pompei ci sarebbe pure potuto scappare il morto. La causa? Un'infiltrazione d'acqua, a quanto pare.
Conti in rosso
Per ripristinare le "squadrette" basterebbe assumere una cinquantina di persone: costo medio 39 mila euro all'anno. Meno di due milioni di euro,che garantirehbero più sicurezza e maggiore salvaguardia del patrimonio.E posti di lavoro. Soldi che, in parte, verrebbero recuperati dagli affidamenti diretti alle ditte chiamate d'urgenza quando c'è qualche cedimento. Oggi, negli Scavi di Pompei lavorano in 213: i loro stipendi, circa 8,3 milioni di euro, li paga il Mibac, il ministero dei Beni culturali. Per il funzionamento e la manutenzione ordinaria viene utilizzato l'incasso: circa 19 milioni per 1,7 milioni di visitatori paganti. Se Pompei fosse un'azienda privata, tra costi di gestione e personale, sarebbe già fallita. Eppure, secondo un vecchio studio del Mibac, servirebbero almeno altri 500 addetti per far funzionare al meglio il sito. Prevalentemente custodi. Garantirebbero la fruizione di tutti o quasi i 67 ettari del sito, l'apertura serale per almeno quattro mesi all'anno, un aumento di almeno il 50 per cento dei visitatori. Per raggiungere il pareggio, bisognerebbe aumentare il costo dei biglietto dagli attuali 11 euro a 15,50 euro, la stessa cifra che si paga per l'ingresso al Moma di New York. Il paradosso è che in cassa, oggi a Pompei, ci sono circa 57 milioni di curo non spesi. Sembra un contrappasso, dopo l'era Fiori in cui si registrarono 54 voci di spesa negli ultimi due giorni di commissariamento: 15 milioni di euro tra il 29 e il 30 luglio 2010, proprio mentre si preparavano gli scatoloni per andar via.
. Basta pensare al lavoro come a un bene e non una merce, e cominciare a tirarne le conseguenze. La Repubblica, 3 novembre 2012
MENTRE le cifre della disoccupazione sono sempre più drammatiche, il governo non pare avere alcuna idea per creare d’urgenza un congruo numero di posti di lavoro. I rimedi proposti alla spicciolata, dalla riduzione del cuneo fiscale alle facilitazioni per creare nuove imprese, dagli sgravi di imposta per chi assume giovani alla semplificazione delle procedure per l’avvio di cantieri e grandi opere, non sfiorano nemmeno il problema.
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Per di più il governo sembra sottovalutare la gravità della situazione. La disoccupazione di massa rappresenta tutt’insieme un’enorme perdita economica, uno scandalo intollerabile dal punto di vista umano, e un minaccioso rischio politico. Sotto il profilo economico, quasi tre milioni di disoccupati comportano una riduzione del Pil potenziale dell’ordine di 70-80 miliardi l’anno. Anche se ricevono un modesto reddito dal sussidio di disoccupazione o dai piani di mobilità, i disoccupati sono lavoratori costretti loro malgrado alla passività. Non producono ricchezza sia perché non lavorano, sia perché i mezzi di produzione, cioè gli impianti e le macchine che potrebbero usare, giacciono inutilizzati. Un’altra perdita economica deriva dal fatto che lunghi periodi di disoccupazione comportano che le capacità professionali si logorano e sono difficili da recuperare.
Dal punto di vista umano la disoccupazione di massa, insieme con la povertà che diffonde, è uno scandalo perché i loro effetti, come ha scritto Amartya Sen, scardinano e sovvertono la vita personale e sociale. Elementi fondamentali di questa, dall’indipendenza personale alla possibilità di accedere per sé e i figli a una vita migliore, dalla realizzazione di sé alla sicurezza socio-economica della famiglia, sono strettamente legati alla disponibilità di un lavoro stabile, dignitosamente retribuito. Quando esso viene a mancare, anche tali elementi crollano, e la persona, la famiglia, la comunità sono ferite nel profondo delle loro strutture portanti.
Quanto al rischio politico, qualcuno dovrebbe ricordarsi che uno dei fattori alla base dell’ascesa del fascismo e ancor più del nazismo è stata la disoccupazione di massa. E la capacità di ridurla mostrata da tali regimi dopo la crisi del ’29 è una delle ragioni del sostegno popolare di cui hanno goduto fino alla guerra che li ha abbattuti. Di certo oggi né l’uno né l’altro dei due regimi avrebbero la stessa faccia. Ma i sintomi di autoritarismo che affiorano in Europa, e i movimenti di estrema destra dagli alti tassi elettorali in almeno dieci Paesi, non sono da sottovalutare. Sperando che qualche movimento non cominci a promettere “ridurrò la disoccupazione a zero”. La promessa che fece e poi mantenne Hitler, fra il 1933 e il ’38.
Poiché le austere ricette dei tecnici finora hanno aggravato il tasso di disoccupazione anziché ridurlo, sarebbe ora di pensare a qualcosa di più efficace, e magari sperimentarlo. Ho fatto riferimento altre volte all’idea che sia lo Stato a creare direttamente occupazione, in merito alla quale esistono solidi studi. Tempo fa si chiamavano schemi per un “datore di lavoro di ultima istanza”, ma oggi si preferisce chiamarli schemi di “garanzia di un posto di lavoro” (job guarantee,
JG); il che non significa affatto una garanzia per quel posto di lavoro, ma per un posto di lavoro dignitoso e ragionevolmente retribuito. Coloro che elaborano simili schemi sono economisti e giuristi americani, australiani, canadesi, argentini, indiani; i quali, diversamente dai nostri governanti di oggi e di ieri, sembrano tutti aver meditato sull’articolo 4 della nostra Costituzione, quello per cui “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro”: non del lavoro, si noti, di cui tratta invece l’articolo 35. Il primo mai attuato, il secondo in via di estinzione nella legislazione e nelle relazioni industriali.
Uno schema di JG prevede che in via di principio esso sia accessibile a chiunque, essendo disoccupato, vuole lavorare ed è in grado di farlo. Di fatto sarebbe inevitabile, visti i numeri in gioco, dare la preferenza a qualche strato di persone in peggiori condizioni di altre, quali, per dire, i disoccupati di lunga durata. L’attuazione di uno schema di JG richiede un’agenzia centrale che stabilisce le regole di assunzione e i livelli di retribuzione, e gran numero di imprese (o centri di servizio o cooperative) a livello locale che assumono, al caso addestrano e impiegano direttamente i lavoratori, oppure li assegnano a imprese locali in progetti di immediata e rilevante utilità collettiva. Dando la preferenza a settori ad alta intensità di lavoro e bassa intensità di capitale, dai beni culturali ai servizi alla persona, dal recupero di edifici e centri storici alla ristrutturazione di scuole e ospedali. I centri locali trattano con le imprese le condizioni a cui esse possono impiegare i lavoratori del programma, dalla partecipazione ai costi del lavoro fino all’eventuale passaggio del dipendente dal pubblico al privato.
Trovare le risorse per finanziare simili schemi è una questione complicata, nondimeno vari studi attestano che non è impossibile risolverla. Prima però di trattare tale tema c’è una premessa inderogabile: deve manifestarsi la volontà politica di affrontare con nuovi mezzi la catastrofe disoccupazione. Chiedere a un governo neoliberale di esprimere una simile volontà è forse troppo, ma le crisi sono sia uno stimolo, sia una buona giustificazione per cambiare idee e politiche.
C’è una novità a livello europeo che dovrebbe indurre a discutere di simili schemi, e magari a sperimentarne qualcuno in singole regioni. Ai primi di settembre 2012 si è svolta a Bruxelles una conferenza internazionale sulle politiche del lavoro, organizzata dalla Commissione europea. Una sessione era dedicata a “La garanzia di un posto di lavoro – Concetto e realizzazione”. Hanno perfino invitato a parlare uno degli studiosi più noti e polemici in tema di JG, l’australiano Bill Mitchell. Posto che nei programmi di JG rivivono le teorie di Keynes in tema di politiche dell’occupazione, nonché la memoria del successo che gli interventi statali ebbero durante il New Deal rooseveltiano, aprire alla discussione di tali programmi uno dei templi della teologia neo-liberale, qual è la Commissione europea, è un segno che qualcosa sta cominciando a cambia-
re sul fronte ideologico delle politiche del lavoro.
Il documento base della sessione in parola formula varie domande: “Quali sono i maggiori ostacoli in Europa alla realizzazione di schemi di garanzia d’un posto di lavoro… volti ad affrontare la crisi della disoccupazione? Possono tali ostacoli venire superati? In quali aree potrebbero o dovrebbero essere sviluppati degli impieghi pubblici per disoccupati? Quanto tempo ci vorrebbe prima che a un disoccupato sia dato un lavoro nel settore pubblico?”. Sono domande a cui anche il nostro governo dovrebbe cercare di dare risposta, meglio se non soltanto in forma cartacea. Dopotutto, ce lo chiede l’Europa.
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Nella New York colpita dall’uragano Sandy si sovrappongono la crisi climatica e le contraddizioni di quella dell’energia, evidenziando problemi e forse prospettando soluzioni. Il manifesto, 3 novembre 2012 (f.b.)
NEW YORKHotdog, 6 dollari; 6 ravioli ripieni, 6.50; una fetta di pizza, 3 dollari; caffè, 1 dollaro; ma il riso al curry gratis e i fiammiferi, da sempre gratis, 10 centesimi.Questo il menu oggi pomeriggio nell'East village mentre camminiamo verso Alphabet City, la parte del quartiere più colpita dall'uragano Sandy, per andare a trovare i nostri amici. Non rispondono e siamo preoccupate. Ma nessuno risponde, tuttavia, se il telefono è un cellulare, le torri di controllo sono quasi tutte giù. Siamo arrivate da Brooklyn, abbiamo attraversato il ponte di Manhattan in autobus, una novità per noi che prenderemmo la metro per arrivare sull'isola ma il tunnel sotto l'acqua è inagibile, il treno si ferma nell'ultima stazione di Brooklyn. Le corse sono gratis, i cancelli sono aperti, nel microfono i conducenti continuano a ripetere le nuove, inusuali fermate. A Manhattan ci fermiamo sulla Bowery, appena passata Chinatown, e proseguiamo a piedi. Prima di prendere il treno abbiamo ritirato i soldi da un bancomat e io una tazza di caffè e un panzarotto agli spinaci dal giamaicano, perché sapevamo che dove stavamo andando la città era spenta.«Preparati» mi ha consigliato Stefania che c'era stata ieri. E infatti, una volta entrate sull'isola i cellulari smettono di funzionare. E la città è vuota, chiusa, spenta.Una pizza a 3 dollari non è proprio costosissima, ragioniamo ora, sedute nella pizzeria sulla Prima Avenue tra la Seconda e la Terza Strada. A luci spente, un solo forno in funzione, attivato dal gruppo elettrogeno.
Ma un hotdog a 6 dollari su Saint Mark's Place, nonostante sul menu ci sia scritto 2 dollari e 75. Ma questo è niente, scopriamo da fonti sicure che sciacalli in possesso di generatori chiedono mille dollari per l'uso dei loro macchinari per poter pompare l'acqua fuori dei seminterrati dei poveri disgraziati in preda alla disperazione.Eppure, all'angolo tra la decima strada e la Prima Avenue, al ristorante Sapporo, il gentiluomo giapponese dinanzi alla porta invita i passanti ad entrare per un piatto caldo di riso al curry. Gratis.«Riso al curry, accomodatevi, prego». E da fonti altrettanto sicure sappiamo di uomini e donne di buona volontà che vanno in giro per l'East Village con i loro generatori mettendoli a disposizione per i disperati con l'acqua alle ginocchia per pompare l'acqua fuori dei loro seminterrati. Tra gli altri, i gestori del NuBlu.Incoraggiate, proseguiamo. L'East Village è surreale, irriconoscibile nel silenzio e nell'immobilità.
East Village, l'altra Mela
Questo quartiere è conosciuto per il suo estremo dinamismo, la sua peculiare creatività, la sua gente spesso sui generis, e quel brulichio incessante ma senza fretta e senza stress, così tipico di ogni altro quartiere di Manhattan e così alieno in quest'area della città, domicilio da sempre della classe popolare tedesca, ebrea, ispanica, e poi, negli ultimi cinquant'anni, degli artisti. Incontriamo il bassista Melvin Gibbs in bicicletta. Anche lui è arrivato da Brooklyn, alla ricerca di amici latitanti. Scambiamo quattro parole, ci suggerisce di andarci a consolarci al MoRUS, il Museum of Reclaimed Urban Space, così svoltiamo l'angolo sull'Avenue C e la Decima. Il museo è al piano terra di un palazzo occupato da squatters. E di fronte si presenta effettivamente una scena interessante. Due biciclette adoperate da volontari sono collegate una ad un generatore di corrente che ricarica cellulari e computer e un'altra ad uno che pompa acqua dal seminterrato del palazzo e la riversa per la strada. Quest'ultima fa un po' fatica. È lo stesso progetto di Time's Up Bike Energy, formato dai giovani ingegneri dell'energia sostenibile che usarono le biciclette per sostituire i generatori a gas e gestire l'infrastruttura energetica durante Occupy Wall Street a Zuccotti Park l'anno scorso, per tenere in funzione computer, cellulari, cucine, stufe, luci, eccetera.
Il 17 novembre prossimo il Museo avrebbe aperto le sue porte al pubblico e le biciclette in azione sarebbero state parte dell'esposizione. «Il museo non aprirà per un po' di tempo ancora, i danni sono estesi. Siamo nella Zona A, una delle più disastrate, l'acqua è arrivata oltre i due metri, qui» mi spiega Laurie Mittelmann, una delle direttrici del museo. È seduta a terra, vicina ad un furgone di una stazione televisiva locale. Ha il computer acceso, attaccato alle prese alimentate dal generatore attivato dalla bicicletta. «Sei in rete?»«Sì, finalmente dopo due giorni» mi risponde, «prendo il segnale dalla stazione televisiva».Sul marciapiede di fronte al museo, gli squatters del palazzo cucinano su di un grill e mettono a disposizione del quartiere il cibo, gratis. Una lunga fila si forma in attesa delle salsicce, degli hot dog, degli spiedini di verdura e del riso. «Lo faccia sapere a chi può che noi continueremo a cucinare per tutti finché avremo cibo, e a caricare i cellulari e i computer di tutti, pedalando.
Questo quartiere si è sempre distinto per la responsabilità civile dei suoi abitanti e per il suo senso di comunità» mi dice Laurie prima di tornare allo schermo.Non si può dire che non sia vero. Ne sono testimoni i numerosi giardini recuperati dai lotti vacanti che gli abitanti del quartiere hanno coltivato negli anni, o una sorta di spirito indomito che contraddistingue quest'area della città da altre più cangianti, meno permanenti.
Nelle case senza acqua e luce
Non è facile arrivare a casa di ognuno degli amici che cerchiamo. I citofoni non funzionano e bisogna urlare dalla strada come si faceva una volta. Se i loro appartamenti sono situati nel retro delle piccole palazzine che contraddistinguono la graziosa architettura dell'East Village c'è poco da fare, bisogna aspettare che qualcuno sulla strada apra il portone con le chiavi e salire brancolando nel buio pesto delle scale bussando alla porta con il pugno, sperando siano in casa. Questo perché ci siamo scordate le pile tascabili a casa. A casa dei nostri ospiti, tè, offerta di condivisione del cibo portato dai vicini che prontamente rifiutiamo perché siamo i fortunati che torneranno a casa nella città "buona" stasera, e per riscaldarci acqua a bollire sul fornello e per illuminare una visita al bagno, una coroncina di luci a batteria. Mentre siamo seduti bussano alla porta, un'amica del nostro ospite viene a chiedere una coperta per un amico comune. Il nostro amico si alza e ne prende una molto calda. «Gliela regalo».
L'amica esce con l'involto sotto il braccio.Il nostro amico continua a riempirci le tazze di tè.Ci congediamo, invitiamo i nostri ospiti a raggiungerci a Brooklyn, spieghiamo come fare, dove prendere gli autobus che attraversano il ponte. «Non c'è bisogno di chiamare, la mia casa è la tua, ti aspetto». Camminando vediamo tante persone camminare con valigie. In un bar completamente vuoto ci fermiamo a parlare con il barman. «La gente se ne va, non si può vivere senza elettricità». Sul bancone quattro candele accese si riflettono nello specchio dietro la scansia piena di bottiglie. Non c'è musica dagli altoparlanti, dalla radio. La colonna sonora di questi giorni sono i passi per strada, il ronzio dei generatori, i canti della gente agli angoli della strada, le chitarre e i tamburi, le grida di chi si chiama da una finestra all'altra:«Come ti chiami?». «Jane». "Quanti anni hai?» «70». «Stai bene?». «Sì». «Io sono Mark. Grida se hai bisogno, che vengo». «Okay».Sarà stato così ai vecchi tempi, quando New York non ne aveva di elettricità, quando il mondo non ne aveva.
Ma di bar, questa parte della città ne era fornito come l'intero mondo. Per consolarsi della fatica dell'essere vivi. Non sono d'accordo con lui, si potrebbe in fondo vivere senza elettricità. È invece col freddo che non si può convivere. E a New York il freddo e l'umido possono essere feroci.
Dov'è il governo?
Perché la situazione infine è questa, da Canal Street alla 31esima strada: una città spenta, senza risorse, e lasciata per lo più a se stessa. Dov'è la Fema? Dov'è la Croce Rossa? E tranne che per le chiese, per le organizzazioni private, per i generosi uomini e donne che si alternano a pirati e sciacalli, dov'è il governo? Per raggiungere la luce, il cibo e il calore bisogna camminare chilometri e se si è malati, vecchi, obesi è impossibile. Ma rimane il fatto che procacciarsi il cibo rimane solo uno dei problemi da risolvere ogni giorno. Ritornare a stomaco pieno in una casa fredda a New York non è pensabile.Quanto può durare questa situazione? A un tratto Stefania, la fotografa che mi accompagna, e io ci rendiamo conto che si farà presto buio. Vogliamo arrivare alla Avenue D, la più vicina al fiume East, e ci avviamo. Ed ecco il mostro, all'altezza della dodicesima strada, la centrale elettrica che è scoppiata la sera di lunedì alle 8.30 dopo che la Con Edison aveva già tagliato l'elettricità a ben 6500 utenti nel tentativo di ridurre i danni causati dall'acqua salata al sistema della metropolitana e alla rete elettrica al sud del quartiere finanziario della città.
Le sue quattro colonne spente sembrano delle livide corna. Eppure è proprio a ridosso della centrale che in un grandissimo posteggio di automobili decine di volontari insieme a militari e poliziotti scaricano da camion dell'arma scatole di cibo che organizzano su lunghissimi tavoli. Potenti fari illuminano l'area protetta da poliziotti. Stefania si avvicina con la sua macchina fotografica e immediatamente un poliziotto grasso ma dall'aria ingenua, le si para di fronte per vietarle di fotografare.«Perché?» chiede Stefania, «finora ci è stato detto che eravate latitanti. E ora che siete qui non vi fate fotografare?»Il poliziotto sembra rabbonirsi.«Va bene, allora fotografi pure».Un soldato ci spiega che la Fema e una chiesa, ma non saprebbe dirci quale, hanno organizzato gli aiuti e che l'esercito è lì per consegnare i viveri. Saranno qui anche domani e nei giorni successivi.
«Ma allora l'elettricità non tornerà?» chiedo.«Indipendentemente. Noi saremo qui».Sulla via del ritorno incontriamo il musicista blues Francesco Pini e Wendi Oxenhorn, direttrice della Jazz Foundation. Sono stanchi e ci spiegano che stano girando per la città spenta alla ricerca di musicisti blues e jazz per recapitargli dei sacchetti di pronto soccorso: pollo fritto, verdura, mutandoni di lana, guanti, un gallone d'acqua, torcia elettrica.«Erano contenti, tutti. Molti sono vecchi o malati, altri semplicemente bloccati qui da giorni, come tutti. Non pensavano che qualcuno si ricordasse di loro. Abbiamo gridato il loro nome dalla strada e ci hanno aperto».
«Avete trovato tutti?»«Più o meno, solo James Blood Ulmer non c'era, sarà uscito».Ho abbracciato Wendy, delicata fata, sebbene sia poi una delle più feroci armoniciste d'America. Me la ricordo ancora suonare insieme al sommo Pete Cosey con Melvin Gibbs e J.T. Lewis, sollevare gli spiriti dei morti che erano seduti lì in prima fila, più di una volta, anni fa. E si faticava a star fermi e a mantenere gli occhi asciutti. Anche stasera, di fronte a tanta determinazione.Bene, è ora di tornare a casa.
Ritorno a Brooklyn
Non facile, nel buio pesto. Ed è in questo rientro fino al Bowery dove ci aspetta l'autobus per tornare a Brooklyn che ragioniamo che la situazione è esplosiva. Per la prima volta dopo tantissimi anni, la mia città adorata, e in essa il mio quartiere preferito, che ho amato tanto fino a celebrarlo in un mio romanzo, mi dà i brividi. Finora hanno prevalso il buon senso e la responsabilità civile dei miei concittadini. Ma se, aumentando il freddo e facendosi amaro il disagio dovesse montare la rabbia, chi può dire cosa accadrà? Manderanno allora centinaia di poliziotti? Quegli stessi che non persero un istante a riversare nelle strade per proteggere la cittadinanza l'anno scorso da un gruppo di giovani in un parchetto di pochi metri quadri a piazza Zuccotti nel mezzo del quartiere finanziario? Stamattina la benzina scarseggia. La maggior parte delle stazioni di benzina a New York sono chiuse. Il maggiore distributore della città, che si trova in New Jersey, è al buio.
Sebbene la città sia divisa a metà e a nord della trentesima strada Manhattan sembra essersi ripresa, almeno in superficie, è tutto difficile. Raggiungerci l'un l'altro un'odissea. Harlem, il Queens e il Bronx diventano Itaca per noi qui a Brooklyn. E noi per loro.Brooklyn. Nel quartiere di Red Hook alle 7.30 si è formata una lunghissima fila di persone in attesa del camion della Fema1, che aveva promesso di arrivare con un camion pieno di viveri e prodotti di pronto soccorso. Dopo ore di attesa nel freddo, alcuni dei residenti in fila che sono riusciti a ricevere il segnale avvalendosi della connessione wi-fi di un furgone parcheggiato poco lontano hanno ricevuto messaggi via testo in cui si annunciava l'arrivo dei camion nel pomeriggio.Mi sono ricordata di una donna ieri, in bicicletta, che commentava l'inettitudine della città di New York: «Certo una cosa così non sarebbe mai accaduta in Europa, vero? O in Australia! Queste cose succedono solo in un paese incivile come il nostro».
Ho aggrottato le sopracciglia. Vaglielo a spiegare. Queens. A Breezy Point, il quartiere nella penisola di Rockaway che si affaccia sull'oceano atlantico, ad un passo dall'aeroporto Kennedy, dove 111 case sono bruciate come fiammiferi in fila, mentre i pompieri remavano nell'acqua su piccole imbarcazioni, per arrivare alle case in fiamme e tiravano fuori ad uno ad uno i superstiti dall'inferno d'acqua e fuoco che si divorava in un batter d'occhio un'intera strada, la distruzione è totale. Anche lì, i volontari sono quasi eroici. Con camion, macchine, motociclette, individui arrivano da ogni parte della città portando alla gente del luogo quello che serve, in attesa che torni la luce. Forse ha ragione il barista su Avenue C, è impossibile vivere senza elettricità.
Obama surclassa Romney
Io penso che questa tempesta, catastrofica, orrenda ed essenzialmente fuori stagione, ha fatto tanto bene alla campagna di Obama. Intanto lui si è comportato da vero politico gentiluomo. Ha abbandonato di botto la campagna elettorale dedicandosi a noi. Nel New Jersey ha preso tanto a cuore l'orrenda situazione della bella costa distrutta da Sandy - che onestamente, come ha scritto su Facebook ieri il grande intellettuale e musicista Greg Tate, merita di chiamarsi Sandra e lasciarsi indietro il vezzeggiativo infantile che le è stato tanto incautamente dato, da guadagnarsi le lodi del governatore repubblicano Chris Christie, che ha naturalmente appoggiato Romney durante tutta la campagna elettorale. In un'intervista su Fox News, il canale televisivo più reazionario di New York, Christie ha rilevato quanto straordinaria fosse stata l'attenzione del Presidente degli Stati Uniti e immediato ogni intervento e ogni risposta alle richieste dello Stato del New Jersey.
Infine - e qui ha scioccato tutti - quando uno dei cronisti ha suggerito se non fosse il caso di invitare anche Romney a fare un giro delle zone devastate dall'uragano, il governatore ha risposto con un tono piuttosto seccato: «A me non me ne importa un fico secco delle elezioni in questo momento e se lei pensa altrimenti, non mi conosce» e ha aggiunto che il suo compito era quello di occuparsi del suo Stato, che era in uno stato d'emergenza.Che piacere, ogni tanto, risentire un po' dei toni graffianti del vecchio John Wayne incrinare l'ipocrisia nella nuova America patinata. Sarà l'assenza di elettricità. Ironia a parte, New York è in ginocchio. E non soltanto la parte al freddo e al buio. Tutta, anche quella calda e illuminata al centro di Brooklyn, in cui scrivo al computer, ascoltando Jimi Hendrix e Thelonious Monk e mandando questo reportage via e-mail. È un solo cielo livido che la copre tutta, come un ombrello. E come un ombrello, su di essa si apre e si richiude.
La Repubblica, 3 novembre 2012
La caduta delle barriere rigide, non esclude affatto, tuttavia, che ciascuna funzione mantenga il suo profilo differenziato; che chi si dedica e quando si dedica a una di esse, operando negli ambiti e nelle istituzioni corrispondenti, sia tenuto a un codice di comportamento specifico, vincolato ai dettami di una vocazione particolare. La confusione dei comportamenti determina situazioni percepite come improprie, inammissibili, corrotte. Le commistioni sono la spia della perdurante vitalità nella nostra coscienza civile di quell’antichissima visione tripartita delle funzioni sociali, in quanto non siano accettate ma siano squalificate come incompatibilità o conflitti d’interesse
La cultura, i suoi attori, i beni di cui essi dispongono, vivono, per così dire, assediati. La loro forza materiale è nulla, ma la forza spirituale può essere grande. Si comprende allora che le altre funzioni sociali, l’economia e la politica, la lusinghino per ottenerne i favori, la insidino. Dall’altra parte, poiché la cultura non produce né ricchezza né potere, si spiega la forza d’attrazione che economia e politica esercitano su chi opera nel campo della cultura. Qui, nascono i tradimenti.
C’è un’evidente asimmetria: le seduzioni sono a senso unico. Non si è mai visto che la cultura abbia seriamente tratto a sé uomini dell’economia e della politica, distraendoli dalla ricchezza e dal potere. Non esistono “stati di cultura”, se non nell’immaginario regno platonico dei filosofi. Invece, esistono “Stati di politica”, dove il momento politico pretende il monopolio della legittimità; ed esistono Stati di economia, dove è il momento economico, travestito da tecnico, a pretendere il monopolio della legittimità. Né l’uno né l’altro, tuttavia, potrebbero esistere senza la legittimazione, la copertura, offerta dalla cultura. Ma, quale cultura?
Poiché la ricerca del potere e della ricchezza, come prodotti della libertà e dell’uguaglianza, ha di per sé effetti distruttivi della compagine sociale, la cultura che si limita a seguire pedissequamente gli interessi di chi opera in quegli altri ambiti moltiplica la distruzione e contraddice il suo compito di “terzo” unificatore. Il mondo della cultura ha il diritto al rispetto della sua autonomia e gli uomini di cultura hanno il dovere di difenderla.
Esempi? Non c’è rispetto, quando i beni culturali e i beni ambientali, che sono “culturali” anch’essi, sono usati e abusati, ceduti, cementificati, per ottenere consenso da spendere nella competizione per il potere. I“beni culturali”, conformemente alla loro natura e funzione, hanno da essere collocati in una sfera immunizzata dalla politica. Se esiste un ministero che si occupa di cultura, questo non dovrebbe essere concepito come appannaggio di partiti in funzione di non si sa quali “politiche culturali”, che non spetta loro progettare e mettere in opera. Ma, devono anche essere immuni dagli interessi commerciali. Non c’è rispetto quando sono sfruttati in campagne commerciali, per promuovere marchi e pubblicizzare prodotti. Possono, certamente, procurare e produrre denaro. La cultura – per parafrasare un’espressione triviale – non si mangia, ma può dare da mangiare a molti e in molti modi, soprattutto quando, com’è auspicabile, si rivolge al pubblico dei grandi numeri. Ma, deve trattarsi, per così dire, di una conseguenza, o di un effetto collaterale e indotto, non dell’obiettivo primario, prevalente sul rispetto della cultura. La quale non esiste per dar da mangiare ai corpi, ma per alimentare le forze spirituali dell’auto- coscienza individuale e collettiva.Non c’è rispetto per la cultura quando il Ministero, questa volta dell’istruzione, formula programmi scolastici come quello noto “delle tre I” (inglese, internet, impresa) che esprimono un’idea puramente aziendalistico- esecutiva della scuola, idea resa concreta nella programmazione degli studi
L’imbarazzo del governo nel colossale pasticcio del ponte sullo Stretto di Messina si spiega con l’esistenza di un accordo segreto con il quale tre anni fa la società statale Stretto di Messina spa ha garantito ai costruttori del consorzio Eurolink (Impregilo, Condotte, Cmc) il pagamento della ormai famosa penale che il contratto originario escludeva. L’accordo è stato firmato il 17 aprile 2009 dal presidente della Stretto di Messina, Giuseppe Zamberletti, e dal presidente di Eurolink, Carlo Silva, e siglato per assenso da Pietro Ciucci, nella veste di commissario governativo per la realizzazione dell’opera, una delle sue tre parti in commedia: è anche amministratore delegato della Stretto di Messina, nonché presidente dell’Anas, azionista di maggioranza della medesima società realizzatrice del ponte.
Prima di entrare nel dettaglio del contratto segreto, val la pena ricordare che mercoledì sera il Consiglio dei ministri si è arenato proprio su questo misterioso documento. Corrado Passera, come ministro delle Infrastrutture, lo conosce. Fabrizio Barca, ministro della Coesione sociale e soprattutto segretario del Cipe, l’organo di governo che decide sul ponte, ha detto di non disporne neppure in copia. E su questo è passata la sua linea del rinvio di due anni, utili per Barca a trovare il modo di non pagare a Eurolink le penali per centinaia di milioni che Passera era pronto a pagare sull’unghia.
Per capire il contenuto esplosivo dell’accordo segreto del 2009 bisogna fare un ulteriore passo indietro, all’11 ottobre 2006. Quel giorno alla Camera dei Deputati la maggioranza dell’Unione votò la mozione con cui si dava al governo Prodi il segnale di stop per il ponte sullo Stretto. Solo sei mesi prima, esattamente il 27 marzo, la Stretto di Messina aveva firmato il contratto per l’affidamento dell’opera con Eurolink, che aveva vinto la gara internazionale. E subito si cominciò a parlare di penali. Il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro, come al solito, parlò chiaro: “Perché dovremmo pagare una penale? Non gli abbiamo tolto nulla, la società Stretto di Messina sta lì, Impregilo sta lì, cosa vuole, vuole pure una penale per una cosa che non ha fatto?”. Sì, Impregilo voleva proprio la penale per una cosa che non avrebbe fatto. La cosa era chiara fin dal giorno della gara, vinta con un ribasso pazzesco (17 per cento) per un’opera senza precedenti.
E infatti, sollecitato da una senatrice dei Verdi, nonché dirigente del Wwf, Anna Donati, Ciucci aveva scritto una lettera molto chiara, datata 9 novembre 2005, in cui escludeva l’esistenza di penali. Testualmente: “Fino all’approvazione del progetto definitivo ed esecutivo da parte del Cipe Stretto di Messina spa può dunque esercitare recesso senza pagare alcuna penale”.
Siccome a tutt’oggi il Cipe non ha approvato il progetto, perché si parla invece di penali? Proprio perché nel 2009 Ciucci e Zamberletti hanno avuto una pensata notevole. In seguito allo stop decretato dal governo Prodi nel 2006, tutta l’operazione si è fermata, ma Eurolink, ancora titolare di un contratto, ha deciso di aprire un contenzioso, dicendo che la dilatazione dei tempi le aveva procurato danni per 134 milioni di euro. E fu subito transazione, ma segreta, che non è un bel vedere quando si parla di denaro pubblico. “Il presente accordo transattivo ha carattere riservato”, firmano Zamberletti e Ciucci. E non a caso.
Con un esempio di "diritto creativo", infatti, hanno modificato un contratto derivante da gara pubblica, cosa che anche il profano troverebbe strana. Per esempio, le condizioni della gara dicevano che il costruttore doveva garantire un “prefinanziamento” pari al 10 per cento dell’opera, Eurolink ha offerto di portarlo al 15 per cento, e a gara vinta, con l’accordo del 2009, si è tornati al 10 per cento.
Ma il colpo del maestro è l’articolo 6. La penale del 10 per cento, che scattava solo dopo approvazione del progetto definitivo da parte del Cipe, è ridotta al 5 per cento, ma scatta se l’opera non è partita 540 giorni dopo l’approvazione del progetto da parte della Stretto di Messina. La quale il progetto l’ha approvato all’inizio dell’estate 2011. Contate quando scadono i 540 giorni, e vedrete che manca poco. Il governo nel suo comunicato di mercoledì sera ha scritto che il rinvio delle scadenze per un paio d’anni “dovrà essere accettato dal contraente generale tramite la sottoscrizione di un atto aggiuntivo al contratto vigente”. A Eurolink basta un cortese “no grazie!”, e le penali scatteranno: proprio quei 300 milioni quantificati da Passera nelle bozze della legge di Stabilità. Come disse Woody Allen (La dea dell’amore, 1995): "Prevedo disastri, prevedo catastrofi... Peggio: prevedo avvocati”.
La giusta indignazione per una politica che per tanti anni ha sostenuto e alimentato l'abusivismo edilizio, e un'idea diversa di sviluppo. Il Fatto quotidiano, 2 novembre 2012 (f.b.)
Sono indignata, si mi indigno perché pare non esserci limite al peggio.
L’ultimo colpo di coda tentato dal Pdl in fatto di condono edilizio ha dell’incredibile, dell’irrimediabile. Nonostante il caos in cui versa il partito e il fatto che il suo consenso in Italia stia segnando un’emorragia costante pure il Pdl con rinuncia ad essere il tutore dell’illegittimità, dell’illegalità.
O forse è proprio per recuperare qualche consenso che sprezzante e a muso duro il Senatore Francesco Nitto Palma ha provato ancora una volta, la diciassettesima, a riproporre lo strumento tombale di ogni scempio: il condono edilizio.
Condoni fiscali, edilizi, scudi…. Quante ne abbiamo viste e deglutite dal ’94 ad oggi di queste trovate? Tutte leggi urgenti, inserite in contesti improbabili come finanziarie o altre norme, solo utili a sanare situazioni incresciose promosse da cittadini disonesti.
Leggi per loro, per quella parte di Italia che non rinuncia a sperare nella politica come rimedio a posteriore ad un danno prodotto. Leggi per furbi e disonesti. Leggi coperta, leggi tutela….
Il Pdl in questi vent’anni si è specializzato in colpi di spugna, al punto da renderli parte integrante, anzi caratterizzante del suo programma elettorale, proponendo a ritmi costanti ora l’uno ora l’altro.
Un’immobiliare costruiva in riva la mare o nel cuore verde di un’area protetta… qualcuno gli garantiva che prima o poi “Papi” avrebbe sanato per ricominciare altrove. Come si spiegherebbero altrimenti i milioni di tonnellate di cemento frutto del lavoro delle fiorenti ecomafie ripuliti nei decenni scorsi? Come si spiegano i numeri da capogiro che interessano la sola Campania oggi:70mila possibili demolizioni, con ripercussioni per circa 300mila, a volte solo sprovvedute, persone?
L’ex ministro della Giustizia Nitto Palma ha spiegato che il provvedimento, cancellato grazie all’azione di Pd, Udc, Idv e Lega, mirava “a riaprire i termini del condono del 2003 non per l’intero territorio nazionale ma soltanto per la Campania, che non ne ha potuto usufruire a seguito delle leggi regionali dell’allora giunta Bassolino, poi dichiarate incostituzionali dalla Consulta”. La verità è un altra, che una norma come questa non poteva essere “ad regionem” e sarebbe stata estesa a tutto il territorio nazionale.
Di fatto quest’azione dei senatori campani, che oggi minacciano di togliere la fiducia al governo, si configura come un bel regalo all’illegalità e all’ecomafia, fortunatamente respinto a pochi mesi dalle elezioni.
In questi anni i cittadini onesti che regolarmente chiedono i permessi per fare le case, pagano le relative imposte, si assoggettano ai tempi lunghi della burocrazia, non importano cemento abusivo ed esportano capitali e così via hanno subito fin troppo e troppo a lungo. L’Italia non può continuare ad essere il Paese dei furbi.
A spiegare che accade quando si governa così sono i numeri che Legambiente ha messo in fila nelrapporto Ecomafia 2012: 25.800 gli abusi edilizi nel 2011 mentre il solo “effetto annuncio” ha prodotto, nel caso del condono del 2003, 40 mila nuovi edifici illegali. Sappiamo cosa hanno prodotto gli interventi in aree a rischio o inadeguate.
Ci ricordiamo del dissesto idro-geologico in cui versa la penisola solo quando frana una montagna o straripa un fiume. Ma sono le azioni fatte a monte di quei tristi eventi a generarli e lacementificazione è uno di questi ed è forse la maggiore responsabile di morti e danni. Come denunciato dalla CIA ( confederazione italiana agricoltori) , in occasione della discussione in Cdm della bozza del ddl contro il consumo di suolo agricolo presentato dal ministro alle Politiche agricole Mario Catania, il settore primario ha dovuto rinunciare solo negli ultimi dieci anni a quasi 2 milioni di ettari, una superficie pari all’intera regione del Veneto. Terra che assorbiva acqua piovana che oggi scivola invece veloce su km di asfalto e cemento, per poi fermarsi da qualche parte con un urto tremendo e produrre disastri.
Se si continua a costruire ai ritmi odierni tra vent’anni faremo i conti con un consumo di suolo superiore ai 70 ettari al giorno, mettendo a rischio un patrimonio paesaggistico di inestimabile valore e rischiando la non autosufficienza alimentare.
E’ tempo di invertire la rotta e non concepire più il condono come via d’uscita postuma al disprezzo di piani regolatori e leggi.
E’ ora di dire basta a tutto questo.
” Zero metri cubi” questa e’ la nostra proposta, c’è tanto patrimonio da recuperare e da restaurare ed è bene che si inizi a farlo, ora, è tempo di salvare l’Italia, il brand più famoso al mondo.
Stop al Ponte sullo Stretto di Messina. Anzi no. Il governo fa una repentina marcia indietro sulla già annunciata messa in soffitta del progetto del ponte che dovrebbe collegare la Sicilia alla Calabria. L'addio all'opera pubblica era stato dato con l'accantonamento nella legge di stabilità di 300 milioni di euro per il pagamento della penale dovuta al Consorzio che avrebbe dovuto realizzarlo, ma nel consiglio dei ministri della scorsa notte il governo ci ha ripensato. Se davvero ci sarà, lo stop al Ponte non verrà dato prima di due anni, tempo necessario - spiega una nota di palazzo Chigi - per «verificarne la fattibilità tecnica e la sussistenza delle effettive condizioni di bancabilità». Nel frattempo non si starà però con le mani in mano, anzi si potrà continuare a cementificare: «In ogni caso - prosegue infatti Palazzo Chigi - durante il periodo di proroga, previa deliberazione del Cipe, potranno comunque essere assicurati sui territori interessati interventi infrastrutturali immediatamente cantierabili, a patto che presentino una funzionalità autonoma e siano già compresi nel progetto generale». Il sospetto è che la decisione sia frutto sia delle pressioni fatte in questi giorni dalla lobby del Ponte, sia della scelta di non spendere oggi, in piena crisi economica e con il governo che taglia i fondi anche ai malati di Sla, i 300 milioni già stanziati. Rimandando la patata bollente al prossimo governo, Monti/bis o no che sia.
Comunque stiano le cose, la retromarcia non è piaciuta a opposizione e associazioni ambientaliste, che nei giorni scorsi avevano salutato come un successo la decisione di mettere finalmente la parola fine a una storia decennale. Nella notte, invece, la brutta sorpresa del rinvio. «E' una decisione sbagliata, anzi è una non-decisione» scrive su Facebook Nichi Vendola. «Pensavamo fosse un capitolo finito - prosegue il leader di Sel e governatore della Puglia - pensavamo fosse chiaro che il progetto è insostenibile e irrealizzabile. Invece no. Il centrosinistra ha un'altra decisione da prendere con urgenza non appena sarà al governo del Paese».
In effetti l'addio al Ponte sembrava essere davvero definitivo. Lo stesso ministro dell'Ambiente Corrado Clini, nelle scorse settimane, aveva spiegato la contrarietà del governo alla realizzazione dell'opera, al punto da definanziarne la costruzione. Invece, complice la notte, l'ultimo consiglio dei ministri ha fatto slittare tutto di altri due anni. Motivando perdipiù la scelta come se le spiegazioni date solo qualche giorno prima non fossero mai state dette: «Tale decisione - spiega infatti palazzo Chigi - è motivata dalla necessità di contenimento della spesa pubblica, vista anche la sfavorevole congiuntura economica internazionale. Ed è in linea con la proposta della Commissione europea dell'ottobre 2011 di non includere più questo progetto nelle linee strategiche sui corridoi trans-europei». «Qualora in questo periodo di tempo non si giungesse a una soluzione tecnico-finanziaria sostenibile - prosegue la nota - scatterà la revoca ex lege dell'efficacia di tutti i contratti in corso tra la concessionaria Stretto di Messina spa e il contraente generale, con il pagamento delle sole spese effettuate e con una maggiorazione limitata al 10%».
Due anni durante i quali non è detto che non si continuino a spendere soldi. «Tenere in piedi il progetto del Ponte - denuncia infatti il vicepresidente di Legambiente Edoardo Zanchini - significa continuare a pagare studi e magari costruire inutili opere di collegamento a un'opera che mai verrà costruita». L'associazione chiede quindi al governo di bocciare il progetto e procedere, subito dopo, a «sciogliere la Società Stretto di Messina». Critico anche il Wwf, che parla di «decisione pilatesca». «Il governo, dopo ben nove anni di studi, visto che il progetto preliminare è stato presentato nel 2003 ha già oggi tutti gli elementi per chiudere con il progetto, con il General Contractor, senza pagare penali, e con quell'ente inutile che è la Stretto di Messina spa», scrive l'associazione. Di «schiaffo all'Italia onesta» parla invece Angelo Bonelli. «Com'è possibile - si chiede il presidente dei Verdi - che un governo che taglia i fondi per l'assistenza ai malati di Sla non cancelli immediatamente un'opera che costerà più di 8,5 miliardi di euro e che rappresenta la sagra dello spreco e dell'inutilità».
Dal centrodestra si leva invece la voce soddisfatta dell'ex ministro alle Infrastrutture Altero Matteoli: «E' certo - dice - che se il centrodestra tornasse a guidare il paese il Ponte sarebbe realizzato perché è un'opera che serve alla Sicilia, al Sud, all'Europa».
la Repubblica ed. nazionale
Province, la scure del governo: da 86 a 51
di Silvio Buzzanca
ROMA — Il governo ha deciso con un decreto legge: dal primo gennaio le province delle regioni a statuto ordinario passano da 86 a 51. Comprese 10 aree metropolitane costruite intorno alle grandi città. Restano in piedi, per il momento, gli organismi delle regioni a statuto speciale. Ma il governo ricorda che ha ancora sei mesi di tempo per intervenire. Arriva così una novità epocale. «È una scelta irreversibile », spiega il ministro della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi. E con buona pace dei ricorsi che sono arrivati e quelli che arriveranno, commenta il ministro, perché «noi andiamo avanti con il nostro timing». Un decreto che fa tirare un sospiro di sollievo a pochi. Come quelli di Arezzo e di Sondrio che si salvano. O getta nello sconforto pisani e livornesi, accorpati con Lucca e Massa Carrara. Con un patema enorme: non si sa ancora se il capoluogo sarà sul mare o sotto la Torre pendente. Intanto da Teramo minacciano la marcia su Roma. Sindaci e amministratori di Crotone erano già ieri davanti al Quirinale. E Roberto Cenni, sindaco di Prato che non vuol saperne di andare con Firenze, ha protestato ricevendo i giornalisti seduto su un water. Proteste arrivano anche dal Veneto e dal Piemonte. Monza non vuole andare con Milano, preferirebbe Lecco, Varese e Como. Benevento protesta con vigore perché non vuole essere congiunta ad Avellino.
Lo scadenzario preparato dal governo prevede infatti l’azzeramento delle giunte provinciale il primo gennaio. Da quel momento il presidente potrà nominare solo tre consiglieri per gestire la fase di transizione. Gli organi elettivi restano in piedi, ma nel caso qualcuno non volesse adeguarsi scatterà la nomina di un commissario ad acta. Nel frattempo entra in vigore subito l’impossibilità di sommare emolumenti provinciali e comunali. Il prossimo step prevede elezioni provinciali di secondo livello, nel novembre del 2013 e l’entrata in vigore delle nuove norme nel gennaio del 2014. In parallelo inizierà anche la cancellazione degli enti territoriali dello Stato: prefetture, questure, motorizzazione civile e così via. Risparmi previsti? Il governo non anticipa cifre e dice che si vedrà quando tutto il progetto andrà in porto. La domanda che aleggia intorno al provvedimento è proprio questa: andrà mai in porto? Domanda lecita visto il tam tam della protesta. I parlamentarti lucani del Pdl, per esempio, non vogliono più votare la fiducia al governo Monti. Ma forti dubbi esprimono il deputato piemontese del Pd Giorgio Merlo o quella toscana Susanna Cenni. Molti presidenti di provincia scrivono all’Upi, l’Unione delle province che annuncia mobilitazione. Peccato che il suo presidente, il catanese Giuseppe Castiglione, proprio ieri si sia dimesso per correre alle prossime politiche.
Di seguito un articolo che espone in bella vista vari casi locali di colpi di coda: ad esempio Monza, che ci fa un capoluogo provinciale a qualche centinaio di metri dal capoluogo della più importante area metropolitana del paese? E tra l’altro vorrebbe essere capoluogo di un territorio pedemontano col quale non ha nulla da spartire? Rattrista che a sostenere l’insostenibile ci siano i sedicenti progressisti del Pd, spinti da logiche in fondo non molto diverse da quelle che ci hanno portato alle inefficienze attuali, e che evidentemente vorrebbero riproporre (f.b.)
la Repubblica ed. Milano
Via cinque Province su dodici e a Monza è già ribellione contro l’annessione a Milano
di Franco Vanni
UN MESE di tempo non è servito per “salvare” Monza e Brianza, che ora si ribellano. Come annunciato a inizio ottobre, quando al Pirellone arrivò la bozza del governo sul riordino amministrativo, la Provincia brianzola nata nel 2004 e operativa dal 2009 scompare, aggregata alla città metropolitana milanese. Le critiche più dure, nell’ora della conferma, sono per Roberto Formigoni: «L'iniziativa del presidente di Regione Lombardia di includere Monza e Brianza nella città metropolitana, escludendola dalla provincia con Como e Varese, non incontra consenso » scrivono al governatore il sindaco varesino Attilio Fontana e quello di Monza Roberto Scanagatti.
L’accusa a Formigoni, che la respinge come «del tutto infondata », punta sul fatto che fra scandali e crollo del Consiglio regionale il Pirellone non avrebbe avuto la forza per ottenere le deroghe che avrebbero salvato la Provincia monzese, troppo piccola, e quella di Mantova, troppo poco popolosa, e per questo aggregata a quelle di Lodi e Cremona, che diviene capoluogo. E ancora: l’annessione di Lodi alla nuova entità del sud-ovest lombardo deve essere stata decisa all’ultimo se è vero, come denuncia il presidente della Provincia lodigiana Pietro Foroni, che «nella cartina mostrata dai ministri era visibile una scandalosa correzione a penna».
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| Città Giardino - i Tre Magneti |
Slow cities: a tutti gli effetti un movimento nel solco delle utopie urbane, è adeguato alle esigenze attuali di sostenibilità? Il manifesto, 1 novembre 2012 (f.b.)
A Novellara il raduno delle slow cities. Requisiti: non avere più di 25 mila abitanti, essere ricche di piazze, teatri, caffè, paesaggi originari. E gente che riconosce la lentezza del vivere
Comunità. L'essere umano al centro. Andare verso il basso. Ricominciare dal basso. Fiducia - nell'altro e in se stessi. Connettersi all'interno di una società frammentaria. Questi sono solo alcuni dei concetti chiave sentiti in quasi tutti gli interventi teorici - e non - nel corso dell'edizione 2012 di Uguali_Diversi, festival delle culture inventato nel 2009 dal sindaco di Novellara, Raul Daoli, assieme a un gruppo di intellettuali e studiosi per fronteggiare i tanti problemi emersi in una zona con un tasso di immigrazione altissimo, e soprattutto con tante etnie diverse da tutto il mondo. A cominciare dagli indiani arrivati dal Punjab per allevare le mucche che producono il latte per le tonnellate di parmigiano-reggiano, dai marocchini attivi soprattutto nel settore edile, i cinesi nella ristorazione, gli albanesi, i pakistani, i russi, ecc.
Di seguito riportiamo l’editoriale e un’intervista ad Elena Besussi dell’inchiesta, consultabile, con altri articoli e video, all’indirizzo: http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2012/10/29/news/roma_in_vendita-45511244/
L'Atac vende i preziosi vecchi depositi, ma tra i cittadini è rivolta anticemento
L'azienda del trasporto pubblico della capitale vuole far cassa liberandosi di edifici di archeologia industriale situati in zone centrali e semicentrali. Nasceranno nuovi palazzi in una città affamata di verde? Per vedere come si vendono pezzi di città, bisogna andare a Roma, in piazza Bainsizza, piazza Ragusa e via Alessandro Severo. Quartiere Prati, quartiere Tuscolano, quartiere Ostiense. Tre zone della città storica, molto abitate, tanto trafficate. Qui l'Atac, l'azienda del trasporto pubblico, possiede depositi da anni in disuso. Non sa che farsene e dato che affoga nei debiti (210 milioni nel 2011 oltre a 179 di deficit) ha pensato di venderli. Ma prima di venderli e soprattutto per incassare tanti quattrini non basta un annuncio sul giornale. Occorre una complessa procedura avviata già nel 2004 e proseguita negli anni. Si chiama valorizzazione: quei depositi vanno arricchiti di previsioni edificatorie che, grazie anche a varianti urbanistiche approvate dal Comune, li rendano attraenti, altrimenti nessuno li compra. Sono edifici sorti nei primi decenni del secolo passato, archeologia industriale di pregio, delicate architetture. Devono però diventare piccoli quartieri, palazzi alti anche sette, otto piani, molto commercio, parcheggi, e, se avanzano spazio e soldi, qualche servizio. Cambieranno forma e sostanza. Se era proprio di questo che il tessuto urbano circostante aveva bisogno è un altro discorso.
All'Atac speravano che l'affare scorresse liscio come l'olio. E invece si sono organizzati comitati di cittadini, alcuni depositi sono stati occupati, presidenti di Municipi (le ex circoscrizioni) si sono opposti. E non poche contestazioni hanno fatto leva sulle storie giudiziarie in cui è impelagato il vertice dell'azienda e che attestano l'allegra e familistica gestione dell'Atac (49 assunzioni sospette su 850 avvenute nel solo 2009 - la moglie di un assessore, la cubista, il figlio del caposcorta di Gianni Alemanno... - per le quali sono indagati l'ex amministratore delegato, Adalberto Bertucci e altri dirigenti. E inoltre quattro amministratori delegati cambiati in cinque anni. Superminini di stipendio assicurati a discrezione. Un parco di autobus invecchiato. Una diffusa impopolarità del servizio, nonostante, a causa della crisi, siano più che raddoppiate, fra 2011 e 2012, le tessere di abbonamento annuale.
La vendita dei depositi Atac è un affare da parecchie centinaia di milioni. Riguarda 15 aree edificate e non (depositi, ex rimesse, sottostazioni elettriche, uffici). Tranne un paio, sono tutte in zone centrali o semicentrali (oltre quelle già citate: Portonaccio, Trastevere, Garbatella, Nomentana, Ardeatina) per un totale di 165 mila metri quadrati. Su di esse verranno edificati 540 mila metri cubi. Stando ai calcoli, su ogni metro quadrato di suolo ci saranno 1,08 metri quadrati di costruzione, vale a dire una densità molto alta. Sorgeranno insediamenti massicci, che si svilupperanno anche in altezza, sorpassando gli indici di edificabilità previsti dal Piano regolatore approvato nel 2008 (0,5 metri quadrati su ogni metro quadrato), considerati già abbastanza generosi.
La vendita dei depositi, sulla quale il Dipartimento di studi urbani della Facoltà di Architettura di Roma 3 ha avviato uno studio e organizzato una mostra (curata da Giovanni Caudo, Lorenzo Caiazza, Sofia Sebastianelli e Francesca Romana Stabile), sta dentro una vicenda più ampia: la progressiva dismissione del patrimonio immobiliare pubblico per fronteggiare la montagna del debito. Una vicenda a scala europea. In Italia se ne parla da un decennio almeno, quando Giulio Tremonti inventò la Patrimonio s. p. a., ma sempre a corrente alternata e con successi scadenti. La legge finanziaria del 2008 - governo Berlusconi - ne fece un perno concettuale. E si avviarono una serie di procedure. Intanto partiva il progetto federalista che fra tante altre cose prevedeva il trasferimento ai Comuni di beni dello Stato con il fine, appunto, di essere valorizzati e venduti. Con il governo Monti la questione è stata rilanciata. E il Comune di Roma ha stilato una nutrita lista delle proprietà che vuol mettere in vendita.
L'obiettivo primario, sostiene chi è favorevole alla cessione, è quello di incassare danaro fresco. D'altronde, si aggiunge, vanno sul mercato beni che non hanno più una funzione e la cui manutenzione, da sola, è già un onere insopportabile per aziende o amministrazioni pubbliche vicine al collasso finanziario. Il problema, si sente però ribattere, è più serio quando si cedono pezzi di città, che cambiano la loro destinazione: vengono calcolati gli effetti urbanistici, per esempio, di un sovraccarico di residenza in quartieri già affollati? Sono prese in considerazione le accresciute esigenze di trasporto pubblico? E perché non si procede in altra direzione, utilizzando alcuni di questi luoghi dismessi, invece che per farci appartamenti a caro prezzo o centri commerciali, per offrire ai quartieri in cui essi sorgono le attrezzature, i servizi di cui c'è bisogno (verde, biblioteche, presidi sanitari), sedi di associazioni o anche abitazioni a costi contenuti?
Il dibattito è acceso. Ma gli uffici dell'Atac, azienda pubblica che agisce con logiche da immobiliaristi, vanno avanti con il loro piano. Una parte consistente degli interventi riguarda i tre depositi di piazza Bainsizza, piazza Ragusa e San Paolo. In questi ultimi due gli indici di edificabilità sono ancora più alti della media cittadina (2,05 metri quadrati di costruzioni su ogni metro quadrato, nel primo caso, 1,85 nel secondo). Il deposito di San Paolo è stato costruito nel 1928. Serviva come ricovero dei tram e le foto dell'Archivio storico dell'Atac, esposte alla mostra dell'università, lo ritraggono non molto lontano dalla basilica di San Paolo, in mezzo ad allevamenti di mucche. Fu un avamposto urbanistico. Lì intorno sorsero le prime case di tranvieri e nei decenni crebbe un quartiere, che oggi è affollato di enormi palazzi. L'edificio è stato inserito nella Carta della Qualità allegata al Piano regolatore di Roma, considerato dunque meritevole di tutela, rappresentativo dell'architettura industriale del Novecento. Lo stesso Piano regolatore lo classifica poi come "servizio pubblico di livello urbano", attribuendogli come destinazione quella di ospitare attrezzature utili al quartiere. Nel progetto dell'Atac, che nel frattempo ha concesso all'Ama, l'azienda dei rifiuti, di parcheggiarvi file di cassonetti, sono invece previste costruzioni per 18 mila metri quadrati (la superficie complessiva dell'area non supera i 10 mila). Che per metà sono appartamenti in cui abiteranno 240 persone. L'altra metà sono negozi e non meglio identificati servizi.
Una procedura simile è adottata per piazza Ragusa e piazza Bainsizza. Il primo deposito è di poco successivo a quello di San Paolo. "Rilevante" viene giudicato il suo interesse architettonico nella Carta della Qualità del Piano regolatore. Si programmano costruzioni per 20 mila metri quadrati. 180 persone andranno negli appartamenti che occuperanno il 30 per cento dell'area. Il 70 è destinato a commercio e servizi. Il deposito di piazza Bainsizza venne realizzato nel 1920 e anche intorno ad esso crebbe il quartiere delle Vittorie, allora prevalentemente riempito di villini, poi sostituiti da alti edifici. Fu un grande sforzo della società dei trasporti, che allora si chiamava Atm e che un decennio prima era stata costituita come azienda municipalizzata - azienda pubblica in concorrenza con i privati - per volontà del sindaco Ernesto Nathan e dell'assessore Giovanni Montemartini. Roma cresceva dove la trascinavano le rotaie dei tram, come non avrebbe più fatto in seguito, quando il trasporto pubblico fu costretto a tener dietro alla città che andava in tutte le direzioni. E i depositi dell'Atm, poi diventata Atac, testimoniano questa stagione mai più ripetuta della capitale. L'edificio è vincolato dalla Soprintendenza e, come quello di San Paolo, figura nella Carta della Qualità. Qui, dove ora stazionano i camioncini dell'Ama, si costruiranno superfici per oltre 15 mila metri quadrati, il 60 per cento degli edifici saranno appartamenti in cui abiteranno 240 persone. Il resto saranno negozi. Verrà salvata la sede del Dipartimento di salute mentale che occupa una parte dell'ex deposito, ma tutto il resto sarà stravolto, dicono gli esponenti di un comitato di cittadini che, sostenuti dal Municipio XVII (che ha votato contro il piano dell'Atac), hanno prodotto una progettazione alternativa, che prevede spazi pubblici per il quartiere, "un quartiere affamato di verde e con un grande fabbisogno di servizi che si troverà un insediamento che quel fabbisogno lo aggraverà".
"La crisi economica è un grimaldello per togliere spazio al settore pubblico"
Elena Besussi insegna Plan Making all'University College London. Da anni segue le vicende nel Regno Unito dove, dice, si seguono principi diversi da quelli in voga in Italia.ROMA - Come ci si comporta in altri paesi quando c'è da trasformare parti di città? Elena Besussi insegna Plan Making all'University College London. Da anni segue queste vicende in Gran Bretagna dove, dice, si seguono principi apparentemente diversi da quelli in voga in Italia. "Nel Regno Unito mancano piani urbanistici vincolanti come in Italia in termini di quantità del costruito e di destinazioni. Il piano c'è ma agisce da guida e nel caso di proposte di trasformazione che divergano dalle indicazioni di piano, l'amministrazione pubblica locale può decidere caso per caso quali benefici e quali svantaggi porta la proposta in sé. Il piano fornisce obiettivi generali, ma quello che si realizza è esito di negoziazioni tra privato e pubblico".
Ma nel negoziato chi esercita più forza, il pubblico o il privato?
"Dipende dai casi. A Clay Farm, periferia di Cambridge, l'amministrazione locale si è rifiutata di accettare la richiesta dell'operatore privato di ridurre drasticamente la quota di residenza pubblica adducendo a giustificazione che il crollo del mercato immobiliare avvenuto nel frattempo avrebbe ridotto il margine di profitti, rendendo l'intervento irrealizzabile. Il privato ha fatto ricorso, ma la sentenza è stata a favore dell'amministrazione di Cambridge. In essa c'era scritto che non si possono scaricare sul pubblico i rischi di investimento del privato".
Quindi le istanze pubbliche prevalgono?
"Non è detto. Alcuni provvedimenti introdotti dal governo conservatore di Cameron indeboliscono la capacità di negoziazione del pubblico. Si preferisce la fattibilità sulla qualità o sostenibilità di un progetto, dove per fattibilità s'intende il vantaggio economico dell'operatore privato, anche a scapito della realizzazione di quelle componenti sociali di un intervento che sono viste, in questa logica, solo come costi. Rimane sempre la discrezionalità ma in un momento di crisi, con previsioni di profitto ridotte, l'ago della bilancia non è a favore di residenza pubblica o infrastrutture sociali. Fino al 2010 esisteva un'unità governativa dedicata all'elaborazione di politiche per la gestione del patrimonio immobiliare pubblico. Oggi non esiste più".
La crisi penalizza soprattutto la città pubblica.
"L'esito di queste vicende non è sempre scontato. Nell'area di Elephant and Castle, ex-quartiere di residenza pubblica ora dismessa, l'amministrazione locale di Southwark, uno dei 33 boroughs (quartieri) di Londra, ha rinunciato a negoziare con il privato che ha acquisito l'area per costruire alloggi da affittare a canone sociale. La preferenza è andata verso infrastrutture sociali capaci di giustificare il prezzo a cui dovranno essere vendute unità residenziali e commerciali: verde protetto e modelli di spazio pubblico che favoriscono le attività di consumo (negozi, ristoranti, impianti sportivi) piuttosto che attività di socializzazione".
Cambia qualcosa se il proprietario dei suoli è pubblico o privato?
"Non molto. A volte il settore pubblico agisce come operatore immobiliare attraverso società private o a gestione privata. Nella riqualificazione di Kings Cross (nel borough di Camden), per esempio, in cui si stanno costruendo 750 mila metri quadri su 30 ettari dismessi dalla ferrovia, il proprietario è una società del Ministero dei Trasporti, ma è l'operatore immobiliare e gli investitori che rappresenta ad aver deciso cosa e come si realizza. La maggior parte delle aree ad uso pubblico sono diventate di proprietà privata. L'amministrazione si giustifica dicendo che così ottiene spazi pubblici di qualità a costo zero, ma la logica è che le infrastrutture sociali sono considerate un lusso ingiustificato. Ma c'è un altro motivo che diminuisce le differenze fra pubblico e privato".
Quale?
"È l'imposizione del ministero del Tesoro di regole sulla valutazione e vendita del patrimonio pubblico. Questo deve essere dismesso al valore massimo di mercato. In caso contrario, l'ente pubblico proprietario dovrà fare fronte al mancato guadagno con tagli di bilancio".
In tutta Europa si sta andando verso un sistema in cui è sempre più al privato che spetta di decidere che cosa costruire, come, dove e per chi? Oppure esistono paesi in cui prevale il punto di vista del pubblico?
"Dal mio punto di osservazione, il governo pubblico locale non è sempre il migliore alleato della città pubblica. Però anche quando si devono ridurre le spese in infrastrutture o servizi sociali, si possono fare delle scelte a favore di una città per tutti piuttosto che per pochi: a Clays Farm si è difesa la residenza sociale mentre a Elephant and Castle si eliminano pioppi secolari per far posto a un parco che sta dentro le logiche immobiliari del privato. La crisi economica è il grimaldello per avvalorare la tesi che un settore pubblico più ridotto porti benefici sociali. In Grecia, come a Roma, come a Kings Cross. Non vedo paese europeo, dove la riduzione della spesa pubblica da sola abbia dato questi risultati".
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| Millet, l'Angelus, 1857 |
Iniziativa europea per sostenere tutte le pratiche di coltura rispettose del territorio dell'ambiente e della salute. Corriere della Sera 30 ottobre 2012 (f.b.)
ROMA — Ci vuole un'altra agricoltura per l'Europa. E bisogna far presto perché il consumo del suolo, alle attuali condizioni, «non è più sostenibile». Anche in tempo di crisi, bisogna puntare non più sulle colture intensive ma su quelle piccole, di qualità, e comunque rispettose dell'ambiente. Insomma, sul cosiddetto greening. E su quegli imprenditori agricoli, anche piccoli, che, per fare un esempio, «lasciano la siepe — dice Patrizia Rossi, responsabile agricoltura Lipu Birdlife Italia —, che non la tagliano per ottenere più fondi dall'Europa, e che proprio per questo vanno ricompensati in quanto agricoltori virtuosi».
È la politica agricola che va cambiata, aggiunge la presidente onoraria del Fai, Giulia Maria Crespi. «L'agricoltura sostenibile — dice — è cibo buono per gli uomini ma è anche filiera corta, blocco del dissesto idrogeologico, difesa del paesaggio che porta sviluppo turistico, salvaguardia dell'ambiente per ridurre la portata dei cambiamenti climatici negativi per la stessa agricoltura. L'Europa deve premiare le imprese agricole multifunzionali e il biologico deve poter accedere di più ai finanziamenti comunitari». È proprio per cambiare la politica agricola che tredici associazioni ambientaliste e animaliste, dal Fai al Wwf, da Italia nostra alla Lipu, da Federbio a Legambiente, hanno scritto tutte insieme al presidente Monti e alle Regioni e chiesto apertamente al Parlamento europeo, in vista dell'importante riforma della Politica agricola comune (Pac) per il 2014-2020, di puntare alla qualità e alla sostenibilità ambientale.
Il nuovo condono edilizio rischia di diventare una realtà nove anni dopo l’ultima maxi sanatoria degli abusi varata da Berlusconi. Domani l’aula del Senato, in seguito ad una procedura insolitamente veloce, ha posto all’ordine del giorno il disegno di legge di iniziativa parlamentare che porta la firma di Francesco Nitto Palma del Popolo della libertà. Il testo è, singolarmente e in modo un po’ oscuro, intitolato «Disposizioni volte a garantire la parità di trattamento dei cittadini della Repubblica in ordine ai benefici» del condono edilizio del 2004.
Il progetto, un solo scarno articolo, prevede la riapertura dei termini del condono edilizio Berlusconi- Tremonti del 2003-2004 che consentì di incassare più di 3 miliardi. La vecchia sanatoria edilizia stabiliva che si potesse aderire entro il 10 dicembre del 2004 e che i «manufatti» condonabili dovevano essere stati realizzati prima del 31 marzo del 2003. Il nuovo testo proposto da Nitto Palma lascia inalterata la data entro la quale è stato effettuato l’abuso sanabile, anche seriesce difficile verificare il mese o all’anno di una costruzione o di una modifica ad una abitazione o ad una villetta allargando a dismisura la platea dei possibili beneficiari della sanatoria. Ma il punto centrale è che il ddl riapre per circa otto anni i termini per aderire alla sanatoria portandoli fino al 31 dicembre del 2012.
Il richiamo del titolo della legge alla «parità di trattamento» è un riferimento agli abusivi della Campania che, dopo una serie di pronunciamenti della Corte costituzionale, hanno visto negate o ridotte le possibilità di aderire al condono del 2003-2004. Ma sebbene l’involucro normativo prenda spunto dalla Campania il ddl Nitto Palma vale per tutto il territorio nazionale.
Protestano le associazioni ambientaliste e anche Repubblica.it ha promosso una raccolta di firme per bloccare la pericolosa sanatoria. Gli ecodem Della Seta e Ferrante parlano di «intento criminogeno », Realacci (Pd) invita a «bloccare il condono». Qualunque sarà l’esito dell’esame che parte domani al Senato, a Montecitorio sono già pronte le barricate: «Penso che si stia tentando di rimettere in movimento il ciclo dell’edilizia di natura abusiva. D’altra parte il condono è un qualcosa che ha un ciclo quasi matematico di nove anni: primo condono nel 1985, secondo nel 1994, terzo nel 2003 e ora siamo nel 2012», osserva Roberto Morassut, responsabile urbanistica del Pd.
Sorpresa anche per l’iter-fantasma del provvedimento: fu presentato
il 2 febbraio di quest’anno, sommariamente esaminato in tre sedute in Commissione Ambiente al Senato, annunciato a sorpresa il 23 ottobre dopo un blitz della conferenza dei capigruppo che lo ha posto all’ordinedel giorno dell’aula per domani.
Infine c’è il rischio del tana libera tutti per i tre vecchi condoni, oltre che il nuovo. Solo nel Comune di Roma ci sono dal 1985 giacenti 300 mila domande e di queste circa 3.000 sono al vaglio delle Soprintendenze. Nitto Palma tende a depotenziare il ruolo delle Soprintendenze, anche se non traduce questo atteggiamento in legge, ma le nuove norme proposte dal ddl del governo sulle semplificazioni, che introducono il silenzio-assenso di 45 giorni, potrebbero combinarsi negativamente con il nuovo condono 2012 e portare ad una approvazione indiscriminata di tutte
le domande.
Colpa delle elezioni troppo vicine? Anche. Non è un caso che di questi tempi ogni iniziativa del governo tecnico di Mario Monti sia destinata a trasformarsi in un Calvario. Tanto più se tocca le Regioni, come si è visto con la clamorosa bocciatura del decreto sui costi della politica. Ma nel tentativo, ormai smaccato, di far arenare il disegno di legge presentato dal ministro Mario Catania per frenare lo scellerato consumo del suolo e la distruzione del paesaggio e dell'agricoltura, c'è qualcosa di più. Troppo grossi gli interessi in gioco per accontentarsi delle giustificazioni con cui le Regioni hanno trasformato il cammino di quel provvedimento in un percorso di guerra.
L'ultima mina: una telefonata di Vasco Errani, con la quale il presidente della conferenza delle Regioni ha comunicato al ministro dell'Agricoltura che senza il via libera degli urbanisti non si va avanti. La melina dunque ricomincia. Non stiamo affermando che manchi la sensibilità, sia chiaro. Errani è lo stesso che durante l'ultima campagna elettorale per le regionali proclamava nei suoi comizi: «Dobbiamo fare una scelta radicale, ma dobbiamo farla. Basta consumare territorio in questa regione, investire sulla qualificazione urbana, sul recupero degli spazi, ma il territorio è una risorsa finita». Salvo poi, qualche mese più tardi, sostenere pubblicamente: «Noi abbiamo detto che vogliamo fermare, e lo ribadisco, il consumo del territorio. Pensate che possiamo farlo, semplicemente con una legge? No, è impossibile farlo con una legge, dobbiamo essere realisti». Di quel «realismo» ne sa qualcosa. Da ben tredici anni Errani è governatore di una Regione, l'Emilia-Romagna, che secondo Legambiente ha conquistato il quinto posto nella poco invidiabile classifica della cementificazione dopo Lombardia, Veneto, Campania e Friuli-Venezia Giulia, con quasi il 9 per cento di territorio non più naturale. Una graduatoria scalata a morsi, invadendo la pianura padana di enormi e talvolta inutili capannoni industriali. Senza nemmeno troppe precauzioni, come ha dimostrato il terremoto di maggio.
E i numeri certo dicono più di tante parole.
Dicono, per esempio, che il Paese più fragile d'Europa, cioè il nostro, ha la minore crescita demografica del continente e il maggiore consumo di suolo. Dal 1950 la popolazione è aumentata del 28 per cento, mentre la cementificazione è progredita del 166 per cento. Ogni giorno, informa uno studio dell'Istituto superiore per la ricerca ambientale, vanno in fumo cento ettari, ovvero dieci metri quadrati al secondo. In un solo anno il cemento impermeabilizza una superficie pari al doppio della città di Milano. A scapito, sì, del nostro meraviglioso paesaggio, dell'ambiente, delle risorse turistiche e dell'assetto idrogeologico, ma anche dell'agricoltura, cui sono stati sottratti in quarant'anni cinque milioni di ettari, facendo dell'Italia una nazione in fortissimo deficit alimentare: se fossimo costretti per qualche ragione a chiudere improvvisamente le frontiere non avremmo di che sfamare un quarto della popolazione. E le palazzine orrende che dilagano nelle periferie e nelle campagne, restando spesso senza acquirenti né occupanti, non si possono certo mangiare.
I numeri dicono, ancora, che il 7,3 per cento del territorio italiano, una superficie grande come la Toscana, è ormai cementificato. Per giunta sono dati vecchi di due anni: di questo passo avremmo già quasi doppiato la media europea di consumo del suolo, pari al 4,3 per cento.
L'offensiva è particolarmente violenta al Nord. Il 16,4 per cento della pianura padana, una delle aree agricole un tempo più vaste e produttive del continente, è coperta da costruzioni. La Provincia più cementificata d'Italia è Monza, dove il 54 per cento del territorio è artificiale. Segue quella di Napoli, con il 43 per cento. Ma subito dietro c'è Milano, con il 37 per cento: quasi il doppio rispetto a Roma, attestata sul 20. E poi Varese (29), Trieste (28), Padova (23), Como (19), Treviso (19), Prato (18)...
Siamo un Paese popoloso con un Nord molto industrializzato, certo. Ma lo è anche la Germania, dove abitano 229 persone al chilometro quadrato contro le 200 dell'Italia e c'è una industria ancora più sviluppata. Di più: il 35,2 per cento del territorio tedesco non è, come quello italiano, di montagna. Eppure la Germania ha consumato il 6,8 per cento del suo territorio contro il nostro 7,3. Realizzando pure le infrastrutture che noi non abbiamo fatto.
Un processo guidato dalla speculazione, ancor più dell'abusivismo, le cui responsabilità maggiori ricadono proprio su chi detiene le competenze nella gestione del territorio. In primo luogo, proprio le Regioni.
Chi si meraviglia delle difficoltà che sta incontrando ora la legge proposta da Catania farebbe bene a ricordare quello che accadde a Fiorentino Sullo mezzo secolo fa. Quando l'allora astro nascente della Democrazia cristiana commise l'imprudenza di proporre una legge urbanistica che avrebbe reso più difficile la speculazione edilizia: il provvedimento non passò e lui scomparve dalla scena politica.
Altri tempi, naturalmente. Ma la storia sembra ripetersi.
Non appena Catania gli sottopone il testo, le Regioni eccepiscono: così non va. Da destra e da sinistra. Il coordinatore degli assessori regionali all'Agricoltura Dario Stefano, esponente di Sinistra, ecologia e libertà, dichiara che c'è «una montagna di problemi» che lo rende «inapplicabile». Primo: lo Stato non può prendere decisioni che invece spettano a Regioni ed enti locali, come appunto il consumo del suolo. Secondo: «la terminologia». La terminologia? Sì, le parole. Non sono quelle adatte.
Ecco allora che il 10 ottobre, tre settimane dopo il varo della legge da parte del consiglio dei ministri, Regioni, Province e Comuni si riuniscono ed emettono la sentenza: «il testo va completamente riscritto insieme a noi». Ci si mette al lavoro, con la promessa di rispettare tassativamente la scadenza del 18 ottobre per far approdare la legge in Parlamento. Anche perché il tempo stringe. Qualcuno arriva a ventilare perfino l'ipotesi di un decreto legge: non era stato forse lo stesso Mario Monti a dire «avremmo dovuto mettere queste norme nel decreto Salva Italia»? Ma è un gioco delle parti. Il 18 passa inutilmente, mentre si prepara la mossa successiva. Il 25 ottobre l'assessore all'urbanistica della rossissima Regione Toscana, Anna Marson, demolisce dalle fondamenta la legge sul Corriere Fiorentino. Argomenta che oltre a essere inutile e verticistico, il provvedimento potrebbe ottenere persino l'effetto contrario. Il giorno prima, mentre il suo intervento va in stampa, Errani telefona a Catania spiegando la novità. Ovvero, che adesso è necessario il placet degli urbanisti. E se il biglietto da visita è quell'articolo...
Nota: ho già espresso il mio punto di vista nella postilla all'articolo di Settis da la Repubblica Lo confermo. (es)
Anna Marson, Il Corriere Fiorentino, 24 ottobre 2012
La fretta (e l'errore) di Roma
Aveva ottenuto il plauso di tutti noi, il ministro delle politiche agricole Catania, quando nel luglio scorso lanciò l’iniziativa di un provvedimento capace di ridurre, se non bloccare, il “consumo” di suoli agricoli fertili a causa delle nuove urbanizzazioni.
Come dargli torto? I dati dei censimenti dell’agricoltura degli ultimi decenni parlano chiaro, registrando due grandi derive: da un lato l’abbandono dei terreni più impervi e la loro conquista da parte del bosco, dall’altro l’avanzata apparentemente inesorabile delle aree urbanizzate. Visto che continuando così le aree agricole sono destinate comunque a sparire, perché non promuovere una politica capace di affrontare il problema?
Altri paesi, prima del nostro, avevano affrontato la questione del consumo di suolo. La Germania ai tempi di Angela Merkel ministra dell’ambiente, dopo aver monitorato con precisione le quantità di suoli consumati quotidianamente nei diversi Laender, aveva definito obiettivi quantitativi specifici di riduzione del consumo in atto.
Il nostro ministro dell’agricoltura però vuole fare presto, non ha tempo per andare a vedere quali dati sul consumo di suolo siano effettivamente disponibili in Italia, e considerare le varie alternative d’azione utili e possibili rispetto alle conoscenze e procedure in atto. Apprendiamo così dalla stampa che il Consiglio dei ministri lo scorso 14 settembre ha approvato in via preliminare lo schema di Disegno di legge quadro. Il testo, trasmesso nei giorni successivi alla Conferenza delle regioni, ha contenuti radicalmente diversi da quelli a suo tempo annunciati alla stampa.
Il Disegno di legge prevede infatti che per decreto venga definita la quantità di suoli agricoli urbanizzabili a livello nazionale, da ripartirsi successivamente fra le regioni. Una sorta di ‘quote di nuove urbanizzazioni’ sul modello delle ‘quote latte’.
Anche a prescindere dal fatto che la materia in questione è quella del governo del territorio e non della sola agricoltura, con competenze quindi concorrenti fra Stato e regioni, un simile dispositivo rischia di produrre l’effetto opposto di quello dichiarato, ovvero la corsa alle urbanizzazioni già previste e fatte salve dal provvedimento, nonché a quelle nuove. Soprattutto con una legge urbanistica nazionale che risale al 1942, e con le diverse regioni che di fatto sono state le uniche istituzioni a legiferare in modo organico in materia negli ultimi trent’anni.
Prendiamo il caso della Regione Toscana. Con una legislazione regionale più volte rinnovata a partire dal 1995 che, almeno in linea di principio, scoraggia l’ulteriore consumo di suolo e richiede una valutazione puntuale di tutte le previsioni pregresse, e con le condizioni di mercato attuali che vedono gran parte degli investitori muoversi con grande cautela, che cosa potrebbe succedere se le fossero assegnate delle quote di nuovo consumo di suolo da distribuire? Un parapiglia fra Comuni per aggiudicarsele, senza dubbio. Con quali destinazioni d’uso? Con quali progetti?
Le scarse risorse pubbliche e private disponibili nel contesto attuale richiedono a mio avviso di essere impiegate nella manutenzione e nel recupero di ciò che già c’è, e ha necessità di essere rigenerato garantendo investimenti, funzioni e prestazioni nuove: nella riqualificazione delle periferie, dei volumi e delle aree dismesse, ottenendo maggior efficienza energetica, miglior qualità estetica e ambientale, trasporti e connessioni civili.
Il ruolo del governo nazionale nel sostenere la promozione di politiche più virtuose al riguardo sarebbe assai importante, ma richiede il riconoscimento dell’innovazione prodotta in questi anni dalle Regioni anche in campo legislativo, per poter compiere significativi passi avanti, non indietro.
La via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. Questo viene in mente leggendo il disegno di legge del ministro Catania sulle aree agricole. Le buone intenzioni dichiarate all’inizio sono state accolte con approvazione da Carlo Petrini e da altri (fra cui anch’io); ma il ddl, nella forma in cui è stato varato dal Consiglio dei ministri, porta dritto all’inferno.
Due gli intenti dichiarati: arginare il consumo dei suoli agricoli e abolire la norma che consente ai Comuni di dirottare sulla spesa corrente gli oneri di urbanizzazione anziché usarli per opere infrastrutturali, com’era invece nella legge Bucalossi. Belle idee, buoni principi. Ma il dispositivo della legge va in tutt’altra direzione. Proclamando di voler «contenere il consumo di suolo» e «tutelare i terreni agricoli», inciampa sin dall’art. 1 nell’infortunio di definire come terreni agricoli «quelli che sono qualificati tali in base a strumenti urbanistici vigenti».
Si consacrano in tal modo piani regolatori comunali spesso revisionati al ribasso per rendere edificabili le aree agricole, anzi si invitano i Comuni a intensificare l’urbanizzazione. La norma identifica la causa del guasto ma anziché sgominarla la consolida assecondando le decisioni di ogni Comune, come se non sapessimo che il maggior nemico del paesaggio non è più l’abusivismo, bensì una forma più cinica di devastazione, che segmenta all’infinito le norme subdelegando ai Comuni decisioni essenziali, e in tal modo rende “legittima” ogni nefandezza, anche contro la Costituzione.
Ancor più preoccupante è l’art. 2 del ddl, dove si prevede un meccanismo “a cascata” per cui il ministro dell’Agricoltura «determina l’estensione massima di superficie agricola edificabile sul territorio nazionale», che poi viene «ripartita tra le diverse Regioni», che a loro volta ripartiscono le quote fra i Comuni. In tal modo, anche un Comune dove nessuno avesse l’intenzione di edificare su suoli agricoli si vedrà recapitare il boccone avvelenato di un tot di suolo, con l’invito a renderlo edificabile anche se così non è nel piano regolatore né nelle intenzioni; anche una Regione virtuosa (se ce ne sono) si troverà sul piatto il dubbio regalo di una “quota” di terreni agricoli da edificare. La distribuzione di ulteriori quote di suolo edificabile verrà accolta dai peggiori Comuni come un dono impensato, ma creerà difficoltà e susciterà cupidigie anche nei Comuni più virtuosi. L’esito finale non fa dubbio: meno tutela dei suoli, più cementificazione.
Il «minor consumo di suolo» è già previsto dal Codice dei beni culturali (art. 135), che lo lega strettamente alla «salvaguardia delle caratteristiche paesaggistiche ». Il nuovo ddl invece, pur citando questo articolo, perverte la pianificazione paesaggistica, non più intesa come rilevazione tecnica delle vocazioni dei territori e loro difesa, ma come obiettivo politico-economico di redistribuzione dei suoli agricoli per uso edilizio, la cui preminenza è considerata quasi una legge di natura. Lo conferma l’art. 4, che concede aiuti e privilegi ai Comuni che vogliano procedere alla «ristrutturazione » dei fabbricati rurali, evidentemente considerati in blocco non meritevoli ditutela: poiché ristrutturare può comportare demolizioni e ricostruzioni a parità d’ingombro, questo è un durissimo colpo alla conservazione del patrimonio edilizio rurale minore in mattoni o pietra a vista che ancora (per poco?) punteggia il nostro paesaggio agricolo.
Quanto alla destinazione degli oneri di urbanizzazione, è da temere che il ddl resti lettera morta o abbia effetti opposti a quelli voluti. Infatti, se i Comuni stanno svendendo il proprio territorio pur di incassare gli oneri di urbanizzazione non è solo per questa norma, ma anche per la cronica mancanza di liquidità, dovuta al drastico taglio dei finanziamenti statali. Venendo a mancare gli oneri di urbanizzazione senza alcuna compensazione, a che cosa ricorreranno i Comuni? Sapranno resistere alla tentazione di utilizzare le “quote edificabili” di terreni agricoli ricevute in dono per spremerne qualche nuovo introito?
Per giunta, intervenendo a gamba tesa sul territorio, il ministro dell’Agricoltura avoca a sé funzioni che la Costituzione (art. 117) assegna alle Regioni. Il ddl accresce così il caos terminologico che risulta, per sommatoria delle norme, dal sovrapporsi di tre parole-chiave: “paesaggio”, “territorio”, “ambiente”. Nel nostro ordinamento, la tutela del “paesaggio” è affidata alla tutela dello Stato (art. 9 Cost.), e in particolare al ministero dei Beni culturali, mentre la gestione del “territorio” spetta alle Regioni e l’“ambiente” è di competenza mista, e comunque a livello dello Stato centrale se ne occupa il ministero dell’Ambiente. È come se l’Italia si fosse moltiplicata per tre, generando conflitti di competenza e un’incertezza della norma che contribuisce al degrado dei paesaggi e della cultura giuridica. A queste “tre Italie” il nuovo ddl ne aggiunge una quarta, quella dei suoli agricoli: un ulteriore moltiplicatore dei conflitti. Ma al di là di questa giungla di parole, può mai esistere un territorio senza paesaggio, senza agricoltura e senza ambiente? O un ambiente senza territorio, senza agricoltura e senza paesaggio? Un paesaggio senza territorio, senza agricoltura e senza ambiente? Un’agricoltura senza ambiente, senza paesaggio e senza territorio?
Nel nostro paese, terreno di caccia per gli speculatori e per gli investimenti in edilizia delle mafie (ne ha scritto in queste pagine Roberto Saviano), non serve moltiplicare le istanze e i conflitti, ma ricomporre in unità una normativa stratificata, dispersiva, incoerente. Nulla difende il paesaggio e l’ambiente quanto un’agricoltura di qualità. Una porzione vastissima del territorio nazionale è paesaggio agrario, segnato da una millenaria civiltà contadina, che si intreccia in modo inestricabile con la cultura delle élite: il paesaggio plasmato dalla vanga è lo stesso che fu rappresentato dai pittori ed esaltato nel Grand Tour. L’intima fusione di paesaggio e patrimonio storico-artistico ha proprio nell’uso agrario dei suoli il suo specifico punto di sutura, in un equilibrio armonico che fece dell’Italia il giardino d’Europa. Come ha scritto Andrea Zanzotto, «dopo i campi di sterminio stiamo assistendo allo sterminio dei campi». Non è questo che gli italiani si aspettano da chi ci governa.
Postilla
Altre valutazioni critiche (pur rispettose delle ottime intenzioni) le trovate in questa cartella. Ci limitiamo per conto nostro a tre considerazioni:
(1) Il territorio è una realtà complessa, impiegata dall’uomo per molteplici esigenze, spesso potenzialmente in conflitto tra loro: molte meritevoli di essere soddisfatte trovando un equilibrio tra loro (come quelle di alimentarsi, di abitare, di muoversi, di curarsi, di apprendere, di godere), altre discutibili e. secondo alcuni, meno o per nulla meritevoli (come quella di adoiperare il suolo come occasione per arricchirsi sfruttando un patrimonio costruito dalla natrura e dalla storia di tutti. Anche le prime possono essere soddisfatte in modo diverso, e divenire più compatibili con le altre. Una legge che vogli affrontare uno degli aspetti del territorio (e delle esigenze che esso deve soddisfare) non può prescindere delle interrelazioni con gli altri dispositivi che regolano l’uso del territorio.
(2) In particolare, in Italia è dominante (nell’attuale sistema economico e nel sistema giuridico) il peso della proprietà privata e la “propensione” del territorio a essere fonte di rendite private crescenti. Una legge che voglia privilegiare un aspetto ( ed esigenze) alternativi deve essere rigorosissima sul piano della forza giuridica della sua lettera. Perciò è giusto – come suggerisce Settis assumere come punto di forza e principale ancoraggio il principio della tutela del paesaggio come responsabilità nazionale, introdotto dalla costituzione e sviluppato nei suoi strumenti applicativi da Giuseppe Galasso, e poi dal Codice del paesaggio. Ricorderò che una proposta di Luigi Scano, ripresa nella cosiddetta “ legge di eddyburg”, era proprio quella di inserire, tra i beni pasaggistici vincolati ope legis, anche le aree rurali (oltre ai boschi e i fiumi, i laghi e le coste, le aree archeologiche e i vulcani).
(3) Occorre affermare con forza alcuni principi che dovrebbero assumere valore costituzionale: (a) la terra biologicamente attiva (non laterizzata) è un valore in sé; (b) ne può essere sottratta ai ritmi della natura un’ulteriore porzione solo se questo serve (e là dove serve)per altre esigenze socialmente rilevanti, non soddisfacibili in altro modo; (c) la sottrazione di terra libera al ciclo biologico deve comunque avvenire in modo trasparente e secondo criteri inoppugnabili, quindi mediante i metodi e gli strumenti della pianificazione della città e del territorio.
Demotorizzazione nelle scelte dei consumatori, forse ricerca di un rapporto diverso con la mobilità. Corriere della Sera 27 ottobre 2012, con postilla.
La Grande Crisi sta cambiando il rapporto tra gli italiani e l'autostrada. La causa prima è rintracciabile nell'abnorme aumento del prezzo della benzina (+17,7% dal settembre 2011 a quello 2012) ma più in generale il reddito disponibile cala e nelle strategie di adattamento rientra anche la mobilità. Il fenomeno riguarda sia il Nord sia il Sud con il divario che cresce ulteriormente perché la caduta nel Mezzogiorno è più larga di 2-3 punti.Una cartina di tornasole di questi mutamenti la si può rintracciare nelle gare bandite per aprire nuovi punti ristoro nelle aree di servizio. Nel 2012 sono state ben 8 quelle per le quali non è stata presentata nessun offerta. È vero che quattro aree sono in Sicilia e il Sud se la passa malissimo ma altrettante sono ubicate a Nord, tre in Piemonte sulla Asti-Cuneo e una sulla Brebemi a Caravaggio in Lombardia.
Gli italiani sono dunque meno disposti di ieri a viaggiare per tempo libero e consumare in autostrada. Le stime aggregate del traffico nelle regioni del Nord nei primi sette mesi del 2012 parlano di un calo tra il 6-7% e la novità è che diminuisce più il traffico leggero di quello pesante, la mobilità delle persone più dei Tir. Una novità assoluta perché finora aveva tenuto e comunque erano almeno 30 anni che il traffico leggero cresceva. Meno movimento vuol dire meno clienti nei ristoranti, si comprano meno sigarette, giornali, libri e persino biglietti della lotteria che pure avevano conosciuto fino al 2011 un piccolo boom. Quanto al carburante nel primo semestre 2012 le vendite di benzina sono crollate del 27,1% e di gasolio del 19,1%.
Gli storici si potranno sbizzarrire a tentare paragoni con il dopo-crisi petroliera del 1973 che comportò il fallimento di Motta, Alemagna e Pavesi e il loro passaggio all'Iri. I cronisti annotano l'andamento nelle singole tratte del Nord (dati Aiscat): sull'autostrada della Cisa da gennaio a luglio 2012 il traffico leggero è sceso del 10%, sulla Torino-Bardonecchia il calo è stato dell'11,9%, sulla Torino-Piacenza -9,5%, sull'Autostrada dei Fiori -8,4%, sulla Brescia-Padova -6,2% e sulla Piacenza-Brescia -7,1%. Secondo Carlo Carminucci, direttore per le ricerche sulla mobilità di Isfort, la discesa del traffico leggero era stata significativa già nel 2011 ma oggi siamo di fronte «a un rinserramento psicologico degli italiani» e la diminuzione per gli spostamenti del tempo libero accelera anche in regioni come al Nord che pure vantano un cartellone di iniziative (fiere, festival, partite di calcio, manifestazioni politiche) più che ampio. «È ancora troppo presto per dire che siamo di fronte a una modifica strutturale dei comportamenti ma l'inversione di tendenza c'è». Ci si sposta meno perché c'è meno disponibilità di reddito per il tempo libero e anche nei weekend il paesaggio automobilistico è cambiato di molto.
Le code non ci sono più o almeno sono circoscritte alla domenica pomeriggio e agli automobilisti pigri che si mettono in strada all'ora canonica per tornare a casa e vedere in tv il posticipo del calcio di serie A. È vero che la riduzione degli accodamenti è dovuta ad alcuni ampliamenti realizzati dai vari gestori ma complessivamente si stima che nei weekend il calo del traffico leggero sia più sensibile che nei giorni feriali con punte del 30% in meno. Se all'Isfort sono prudenti, il responsabile delle relazioni istituzionali della società Autogrill, Giuseppe Cerroni, è pessimista. Racconta come una volta si prendesse l'autostrada in automatico, senza pensieri, mentre oggi si entra e si esce. La rete seguiva l'orografia del Paese con un'offerta di servizi ravvicinati tra loro, un'area di servizio ogni venti chilometri. Ora invece tutto ciò vacilla. Per effetto del calo dei veicoli leggeri e di quelli pesanti le vendite di benzina sono crollate del 27% e lo scontrino medio negli autogrill, che era il più alto d'Europa, oggi è sceso di brutto.
L'acquisto di generi vari in autostrada è diminuito più del traffico: -10%. Ai ristoranti Ciao i clienti prendono o il primo o il secondo e non più entrambi. Contorno e dolce manco a parlarne. Solo i panini tengono, e anzi aumentano le vendite, ma la selezione è attenta. I clienti disposti a spendere di più si orientano verso il panino farcito con culatello mentre quelli più orientati al risparmio si accontentano del classico pane con mortadella. «La correlazione tra traffico autostradale e Pil è strettissima ma il calo del traffico leggero fa riflettere. Le famiglie stringono la cinghia più delle aziende. Cambiano il proprio modello di consumo e sostituiscono il percorso in autostrada magari con il treno o usando di più il telefono» commenta il professor Andrea Boitani, esperto di economia dei trasporti.
Per avere un'idea della discontinuità vale la pena ricordare come fino a qualche anno fa si discutesse di costruire nelle aree di servizio addirittura degli shopping mall dove trovare di tutto, dal divano al computer fino all'abito formale. Oggi le gare per nuovi spazi commerciali vanno deserte ma si parla di chiudere la notte o durante la settimana alcuni punti ristoro. Chi viaggerà dopo cena dovrà programmare le soste o accontentarsi dei distributori automatici. Chiuderanno i bar laddove in una sola area ce n'è più di uno. Contraddicendo il governo Monti che liberalizzando ha concesso ai benzinai di aprire bar e ristorante accanto alla pompa.
Ovviamente segna il passo anche il traffico pesante direttamente legato alla contrazione dell'economia reale e la cosa «si vede ad occhio nudo» sostiene Veniero Rosetti, imprenditore e dirigente della Cna-Fita, una delle organizzazioni dei padroncini. «Sulle autostrade del Nord ma persino sull'Appennino tosco-emiliano l'incolonnamento di Tir è diventato un'eccezione». Rosetti racconta come almeno il 60% dei viaggi oggi sia sottocosto («il mercato non ci riconosce l'aumento del gasolio») e come abbiano chiuso già 1.300 ditte. I padroncini, a suo dire, riescono a comprimere all'osso i margini di profitto e si accontentano di vivere con 16-17 mila euro l'anno, chi invece ha alle proprie dipendenze autisti contrattualizzati incontra maggiori difficoltà. Le piazzole che conoscevamo erano sempre intasate di Tir, ora accade all'ora di pranzo e alle 20 di sera quando gli autisti si concedono la meritata pausa pasto. Complessivamente il traffico di Tir nella rete di Autostrade per l'Italia è sceso nel periodo gennaio-luglio 2012 dell'8% ma ad aggravare il risultato pesa il calo (maggiore) del Sud. Comunque sulla Piacenza-Brescia si registra un -6,9%, sulla Brescia-Padova -5,6%, sull'Autostrada dei Fiori -7,6%, sull'Autostrada della Cisa -7,3% e sulla Torino-Piacenza -8,4%.
Dove ancora invece si incontra traffico è nei raccordi autostradali vicini alle grandi città del Nord. Il fenomeno è monitorato relativamente da poco e non ci sono dati attendibili ma le città più interessate sono Milano, Genova e Venezia e il segmento Milano-Bergamo è quello considerato maggiormente «complesso». Come mai? L'intensità del traffico nelle tangenziali è dovuta a trasformazioni sociali di lungo periodo: il lavoro si è frantumato e non segue più itinerari e orari della grande fabbrica, consistenti fette di popolazione urbana si sono trasferite nell'hinterland e ogni mattina tornano nella metropoli per lavorare. E l'offerta di servizicar poolingper ora non ha sfondato (nel Milanese lo usano solo 2.500 persone).
Con le autostrade meno frequentate anche il dibattito sulle infrastrutture è destinato a cambiare. La società Autostrade ha confermato i suoi piani di investimento ma secondo l'amministratore delegato Giovanni Castellucci, «non ha senso ragionare oggi in una logica keynesiana, non tutte le infrastrutture creano nuovo sviluppo». È fondamentale, invece, «la capacità di selezionare gli investimenti puntando su quelli che migliorano la competitività perché supportano il turismo internazionale e aiutano la mobilità nei centri urbani». Chiosa il professor Boitani: «In passato si ragionava di nuove infrastrutture quasi a prescindere dai flussi. Oggi finalmente i dati dettano legge».
Postilla
La vera e propria valanga di (utilissimi) dati forniti dall’articolo forse distoglie rapidamente dalla tesi implicita nell’incipit, dandola poi per scontata: tutto è un problema congiunturale legato alla crisi. Peccato che una grande quantità di altri segnali, diretti e indiretti, stia a significare l’esatto contrario. Piaccia o non piaccia al 99% dei commentatori economici, tutte le volte che si affronta il tema automobilistico in termini esclusivamente quantitativi, evitando accuratamente qualunque altra ipotesi, si finisce per lasciare il lettore sospeso nel nulla, forse in attesa, insieme al giornalista, che ricominci il flusso normale delle cose, compreso il petrolio, le automobili, le famigliole in gita eccetera eccetera. Mentre invece (lo possiamo leggere facilmente tutti i giorni su altre pagine dei quotidiani) parrebbe proprio il modello sotteso all’infinito sviluppo autostradale ad essere in discussione, per il lento ma inesorabile mutamento di paradigma indotto dalle crisi ambientale ed energetica, e di cui quella economica rappresenta solo una gigantesca cartina di tornasole. Per citare un Autore abbastanza riassuntivo del tema, anche se non troppo noto nel nostro paese, è il modello prospettato dallo scenografo designer Norman Bel Geddes verso la metà del ‘900, con lo straordinario libro Magic Motorways e il paralleloo padiglione Futurama all’Expo universale di New York. Ovvero di un intero pianeta dove le corsie asfaltate costituiscono la rete che alimenta tutta l’attività economica e sociale, finendo in un modo o nell’altro per costituirsi come mondo a parte che dà senso a tutto il resto. Da qui nascono poi (lo sponsor di Bel Geddes è la General Motors) miti e realtà dominanti in gran parte del secolo breve, dalla dispersione urbana ai modelli di consumo di prodotti, spazio, tempo che tutti abbiamo considerato del tutto scontati per decenni. Adesso non più, e ci sarebbe da riflettere, magari senza cadere in orizzonti paranoici o inconsapevolmente reazionari. Ma questa è un’altra storia (f.b.)
La spavalderia è la stessa che Bertolaso esibiva sulle macerie quando si vestiva da guerrigliero geologico, da capitano coraggioso, gloria e vanto del berlusconismo, con certificati ammiratori a sinistra. Ma i testi delle telefonate che, in rete su repubblica. it, ora tutti vedono e tutti giudicano, lo inchiodano al ruolo del mandante morale. Quel «nascondiamo la verità», quel «mi serve un’operazione mediatica», quel trattare gli scienziati, i massimi esperti italiani di terremoti, come fossero suoi famigli, «ho mandato i tecnici, non mi importa cosa dicono, l’importante è che tranquillizzino », e poi i verbali falsificati…: altro che processo a Galileo! E’ Bertolaso che ha reso serva la scienza italiana.
Più passano i giorni e più diventa chiara la natura della condanna dell’Aquila. Non è stato un processo alla scienza ma alla propaganda maligna e agli scienziati che ad essa si sono prestati. E innanzitutto perché dipendono dal governo. Sono infatti nominati dal presidente
del Consiglio come i direttori del Tg1 e come gli asserviti comitati scientifici dell’Unione sovietica. In Italia la scienza si è addirittura piegata al sottopotere, al sottosegretario Bertolaso nientemeno, la scienza come parastato, come l’Atac, come la gestione dei cimiteri. Dunque è solo per compiacere Guido Bertolaso, anzi per obbedirgli, che quei sette servizievoli scienziati sono corsi all’Aquila e hanno improvvisato una riunione, fatta apposta per narcotizzare.
Chiunque ha vissuto un terremoto sa che la prima precauzione è uscire di casa. Il sisma infatti terremota anche le nostre certezze. E dunque la casa diventa un agguato, è una trappola, può trasformarsi in una tomba fatta di macerie. In piazza invece sopra la nostra testa c’è il cielo che ci protegge. Ebbene all’Aquila, su più di trecento morti, ventinove, secondo il processo, rimasero in casa perché tranquillizzati dagli scienziati di Bertolaso. E morirono buggerati non dalla scienza ma dalla menzogna politica, dalla bugia rassicurante.
Purtroppo il nostro codice penale non prevede il mandante di un omicidio colposo plurimo e Bertolaso non era imputato perché le telefonate più compromettenti sono venute fuori solo adesso. E però noi non siamo giudici e non dobbiamo attenerci al codice. Secondo buon senso Bertolaso è moralmente l’istigatore dei condannati, è lui che li ha costretti a sporcarsi con la menzogna. Tanto più perché noi ora sappiamo che questi stessi scienziati avevano previsto l’arrivo di un’altra scossa mortale, nei limiti ovviamente in cui la scienza può prevedere le catastrofi. Ebbene, il dovere di Franco Barberi, Bernardo De Bernardinis, Enzo Boschi, Mauro Dolce, Giulio Selvaggi, Gian Michele Calvi, Claudio Eva era quello di dare l’allarme. Gli scienziati del sisma sono infatti le sentinelle nelle torri di avvistamento, sono addestrati a decifrare i movimenti sotterranei, sono come i pellerossa quando si accucciano sui binari. Nessuno si sogna di rimproverarli se non “sentono” arrivare il terremoto. Ma sono dei mascalzoni se, credendo di sentirlo, lo nascondono.
Il processo dell’Aquila dunque è stato parodiato. E quell’idea scema che i giudici dell’Aquila sono dei persecutori che si sono accaniti sulla scienza è stata usata addirittura dalla corporazione degli scienziati. Alcuni di loro, per solidarizzare con i colleghi, si sono dimessi, lasciando la Protezione Civile nel caos, proprio come Schettino ha lasciato la Concordia. Il terremoto in Italia è infatti una continua emergenza: giovedì notte ne abbiamo avuto uno in Calabria e ieri pomeriggio un altro più modesto a Siracusa. Ebbene gli scienziati che sguarniscono le difese per comparaggio con i colleghi sono come i chirurghi che scioperano quando devono ricucire la ferita. Ma diciamo la verità: è triste che gli scienziati italiani si comportino come i tassisti a Roma, forze d’urto, interessi organizzati, cecità davanti a una colpevolezza giudiziaria che può essere ovviamente rimessa in discussione, ma che non è però priva di senso, sicuramente non è robaccia intrusiva da inquisizione medievale. Insomma la sentenza di primo grado può essere riformata, ma noncerto perché il giudice oscurantista ha condannato i limiti della scienza nel fare previsioni e persino nel dare spiegazioni.
E il giudice dell’Aquila è stato sobrio. E’ raro in Italia trovare un magistrato che non ceda alla rabbia, alla vanità, al protagonismo. Ha letto il dispositivo della sentenza, ha inflitto le condanne e se n’è andato a casa sua come dovrebbero fare tutti i magistrati, a Palermo come all’Aquila. Pochi sanno che si chiama Marco Billi. Non è neppure andato a Porta a Porta per difendersi dall’irresponsabile travisamento che ai commentatori frettolosi può essere forse perdonato, ma che è invece imperdonabile al ministro dell’Ambiente Corrado Clini, il quale ha tirato in ballo Galileo e ci ha tutti coperti di ridicolo facendo credere che in Italia condanniamo i sismologi perché non prevedono i terremoti, che mettiamo in galera la scienza, che continuiamo a bruciare Giordano Bruno e neghiamo che la Terra gira intorno al Sole. Il ministro dell’Ambiente è lo stesso che appena eletto si mostrò subito inadeguato annunziando che l’Italia del referendumantinucleare doveva comunque tornare al nucleare. Poi pensammo che aveva dato il peggio di sé minimizzando i terribili guasti ambientali causati dall’Ilva di Taranto. Non lo avevamo ancora visto nell’opera brechtiana ridotta a battuta orecchiata, roba da conversazione al Rotary, da sciocchezzaio da caffè. E sono inadeguatezze praticate sempre con supponenza, a riprova che c’è differenza tra un tecnico e un burocrate. In Italia puoi scoprire che anche il direttore generale di un ministero non è un grand commis di Stato ma un impiegato di mezza manica.
So purtroppo che è inutile invitare personaggi e comparse di questa tragica farsa ad un atto di decenza intellettuale, a restituire l’onore alla ricerca, alla scienza e alla giustizia, e a risalire su quelle torri sguarnite della Protezione Civile senza mai più umiliarsi con la politica. A ciascuno di loro, tranne appunto al dimenticabile Bertolaso che intanto si è rintanato nel suo buco, bisognerebbe gridare come a Schettino: «Torni a bordo…
Ai Giovedì di Milano sta mancando l'attore principale: la città. La sperimentazione del ticket-corto, con lo spegnimento anticipato alle ore 18 delle telecamere sui Bastioni (anziché alle 19.30), è passata in silenzio, impalpabile e inosservata. «Non classificata», è il giudizio dell'assessore alle Attività produttive Franco D'Alfonso sui primi sei giovedì di prova: «Ma i cambiamenti non avvengono dalla sera alla mattina».
È stato un avvio minimal, dolce, precisa da Confcommercio Simonpaolo Buongiardino: «Stiamo definendo un palinsesto più ricco per le prossime settimane». I super-giovedì di Area C, al momento, hanno prodotto solo due effetti misurabili: un deciso aumento del traffico in centro a partire dalle sei del pomeriggio e la riorganizzazione dei calendari nei cinema, con il trasloco delleprimedal venerdì al giovedì sera.
Il più grande spettacolo prima del weekend? La riforma feriale di Area C era stata presentata alla vigilia come l'occasione per «prolungare il fine settimana» e trattenere in città il turismo mordi e fuggi. Al debutto, il 20 settembre, il Comune aveva sponsorizzato un programmino di eventi e manifestazioni: da allora, nessuna promozione. I negozianti dei Bastioni, invece, non hanno proposto un'offerta integrata ai clienti. D'Alfonso promette un «ampliamento progressivo» del provvedimento: ingressi gratis nei cinema per chi presenta alla cassa il biglietto dei mezzi pubblici; bonus culturali; accordi con i parcheggi. «La fase di costruzione avrà il suo punto più alto durante la "campagna di Natale" — garantisce l'assessore —. Ma se servirà tempo, riproporremo il progetto a gennaio». E comunque, conclude D'Alfonso, un risultato importante il Comune l'ha incassato: «È stata disinnescata la polemica con le categorie economiche».
Associazioni ambientaliste e referendari temevano che la «concessione» ai commercianti potesse aprire una breccia nell'impianto di regole e depotenziare le politiche ecologiche dell'amministrazione. Una prima risposta arriva dai dati. Nel primo mese di sperimentazione dei giovedì-corti è rimasto invariato il numero dei passaggi ai varchi tra le 7.30 e le 19.30, ma 2.500-3 mila veicoli anticipano l'accesso gratuito all'Area C: «Si è spostata la curva oraria degli ingressi, con la creazione di un primo picco di traffico serale a partire dalle 18 — si legge nel rapporto dell'Amat —. Si è determinato un aumento apparentemente significativo del traffico per tutta la fascia serale».
Oggi, infine, sarà definito in giunta il nuovo schema delle domeniche a spasso: lo stop alle auto potrebbe essere limitato all'Area C e ad alcune zone periferiche. La prossima domenica ecologica è fissata al 18 novembre, ma l'assessore al Tempo libero, Chiara Bisconti, ha già abbozzato la quota per il 2013: saranno almeno otto le giornate senz'auto, una ogni trenta giorni esclusi i mesi di gennaio, luglio, agosto e dicembre.
Postilla
Proviamo a leggere la notizia in una prospettiva del tutto diversa, saltando a piè pari tutte le questioni contingenti: le automobili non fanno la spesa e non fruiscono di servizi, punto e basta. Che altro significa, insomma, verificare con mano e certezza come effetto unico della riapertura serale alle auto, un forte incremento … delle auto e basta? Così si dimostra quanto sotto sotto era già abbastanza ovvio, ovvero come tutte le cosiddette strategie per rilanciare il ruolo degli esercizi centrali, a dir loro penalizzati dall’Area a Traffico Limitato, nulla c’entrano con quello che sostengono di essere, e fanno invece parte di un’altra, e assai più banale strategia. Ovvero quella di minare le basi a ogni tentativo di ripensare la città in forme un po’ meno auto-centriche.
È la stessa stanca storia di tutte le pedonalizzazioni e dintorni del nostro paese, con le urla di chi si sgola a denunciare il killeraggio di ambientalisti, comunisti e compagnia cantante, contro quelli che da secoli garantirebbero vitalità e sicurezza ai quartieri. E invece è solo conservatorismo, spesso bieca reazione, da parte di chi prima si lamenta per l’invasione dei grossi operatori extralocali, e poi adotta il medesimo modello coi paraocchi: per venire da me ci vuole la macchina, ergo spianate il mondo alle quattro ruote fino al mio ingresso. A nulla valgono tutti gli studi che dimostrano come siano accessibilità e abitabilità degli spazi pubblici, la chiave della vitalità urbana e quindi commerciale: il reazionario vociante che (pare scientificamente dimostrato) si annida nelle forme organizzate della protesta bottegaia non vede altro che la matrioska paleo-novecentesca, con le quattro ruote, dentro cui sta il cliente, dentro la cui tasca sta il portafoglio da svuotare alla cassa. Resta solo un dubbio: è possibile elaborare politiche urbane con valore aggiunto di terapia psichiatrica, o ci tocca aspettare l’estinzione della specie per selezione naturale? (f.b.)