Servi degli interessi degli affaristi urbani, promotori della mercificazione della città e distruttori del patrimonio culturale operano nelle amministrazioni di moltissime città italiane, alimentando il disgusto per la “politica”. Il Fatto Quotidiano, 9 marzo 2013
La più bella delle strade dell’antichità (l'Appia, regina viarum) fu a stento salvata dal grande Antonio Cederna, in una battaglia contro il cemento culminata vent'anni fa con la creazione del Parco. Oggi la partita si gioca sulla regina delle strade dell'età moderna, quella Via Giulia che corre parallela al Tevere nel cuore di Roma, un’“utopia urbanistica del ’500”. In qualunque paese una strada immaginata e voluta da un papa come Giulio II Della Rovere (quello che commissionò a Michelangelo gli affreschi della volta della Cappella Sistina, per intenderci), e progettata e costruita, nei secoli, da architetti come Bramante, Michelangelo e Borromini sarebbe considerata un testo prezioso come la Divina Commedia o il Furioso, essendo in più una cosa viva e traboccante di esseri umani: e dunque sarebbe sacra e intoccabile.
E invece no. Alcuni anni fa il Comune di Roma ha deciso di “riempire” il vuoto che fu creato alla metà di Via Giulia dai dissennati sventramenti fascisti. Ma invece di farlo nel più ovvio e civile dei modi (e cioè con un discreto e funzionalissimo parco pubblico), si è pensato bene di realizzare un cosiddetto “urban center” da 1.900 metri quadrati, un auditorium, un albergo con ristorante di lusso e 28 appartamenti, non meno esclusivi, contenuti in un cubo di cemento di quattro piani destinato a deturpare per sempre la strada di papa Giulio. Senza contare i parcheggi (circa 350 posti auto, su tre livelli), che non potranno essere tutti sotterranei a causa del ritrovamento delle stalle dei gladiatori di età augustea, e che dunque deborderanno anche nelle vie contigue. La notizia incredibile è che le soprintendenze hanno detto di sì a questo scempio. E l'hanno fatto nonostante che il 20 febbraio Italia Nostra di Roma sia arrivata a compiere l'inaudito (ma sacrosanto) passo di diffidare il tramontante ministro Lorenzo Ornaghi dal “concedere qualsiasi parere favorevole al rilascio dell’autorizzazione”, perché il progetto attuale è “un inaccettabile baratto tra affari e tutela delle aree storiche ed archeologiche”. Le pressioni erano così forti che si è tirato diritto nonostante che l'integerrimo funzionario della Soprintendenza architettonica di Roma a cui è stato ordinato di predisporre il parere favorevole si sia categoricamente rifiutato di controfirmare quello stesso parere. Siamo ridotti al punto in cui chi dovrebbe difendere il bene comune è costretto all'obiezione di coscienza. E non è un caso isolato. A Padova il sindaco Zanonato non recede dal progetto di costruire un auditorium e due grattacieli che, oltre a cambiare l'aspetto della città affogandola in ulteriore cemento, rischiano di alterare la circolazione delle acque sotterranee e conseguentemente di far crollare la Cappella degli Scrovegni affrescata da Giotto. A Milano solo la perseveranza di una parte di Italia Nostra ha ottenuto finalmente che un tribunale disponesse nuovi e accurati studi che dicano se è possibile aprire piazza Sant'Ambrogio (con le sue tombe di varia epoca) per trasformarla nel coperchio di un gigantesco parcheggio interrato. In una L’Aquila ancora distrutta si è proposto di scavare un centro commerciale sotto la piazza del Duomo. E a Firenze una partecipata del Comune governata da uno dei più stretti sodali di Matteo Renzi (la Firenze Parcheggi) pensa di sventrare Piazza del Carmine per realizzare un parcheggio sotterraneo che rischia di “gentrificare” il quartiere ancora popolare dell'Oltrarno (cioè di espellerne i cittadini residenti), e di mettere a rischio gli affreschi di Masaccio nella Cappella Brancacci che si affaccia sulla piazza.
Un unico filo lega questi episodi, in male e in bene: da una parte un’oscura decadenza intellettuale spinge le amministrazioni comunali a cannibalizzare e distruggere i luoghi più belli e importanti delle loro stesse città, dall'altra si creano e si consolidano reti e comitati di cittadini che studiano, manifestano, si espongono per difendere i luoghi che danno forma e senso alla loro vita quotidiana. Nell'analisi del voto che due settimane fa ha (forse felicemente) sconquassato la geografia politica italiana non ci si può limitare ad un'analisi nazionale: è anche il tradimento della politica locale, dei poteri che dovrebbero essere vicini ai cittadini, a motivare un violento desiderio di fare tabula rasa. Perché è evidente che quando i cittadini di Via Giulia traditi dal Comune e dalle soprintendenze andranno a votare, vorranno affermare con forza che il potere pubblico deve realizzare i progetti e i desideri dei cittadini stessi, e non curare gli interessi già fortissimi del mercato e della speculazione immobiliare. È questa non è antipolitica, è Politica con la “p” maiuscola. Cioè, letteralmente, arte di costruire armonicamente le città, e dunque il Paese.
L’amara morale della favola: se si dovesse vincere e, come speriamo, il Fòntego dei tedeschi non si trasformasse nella “Rinascente” non sarà perché è una vergogna trasformare in un affare privato un prestigioso edificio pubblico di uso pubblico, ma perché il prezzo del mercimonio era troppo basso. La Nuova Venezia, 10 marzo 2013
Le opposizioni e Italia Nostra scoprono le carte alla vigilia del voto in consiglio comunale «Mai eseguita dalla giunta una valutazione, l’immobile vale 38 milioni di euro e non 6 come pattuito»
Fontego dei Tedeschi, fermate, per autotutela, per ridiscuterla completamente, quella convenzione con il gruppo Benetton per la trasformazione dell’edificio cinquecentesco in grande magazzino “targato” La Rinascente - secondo il progetto di Rem Koolhaas – perché l’accordo attuale è stato stipulato illegittimamente dal sindaco, vincolando anche il sì del preventivo del Consiglio comunale, ed è gravemente penalizzante per la città sul piano dell’uso degli spazi pubblici e della “monetizzazione” del cambio di destinazione commerciale. Varrebbe infatti oltre 38 milioni di euro per la città - 24,5 milioni, pur scontando, come ha fatto Ca’Farsetti, 15 milioni di euro di nuovi lavori del committente - e non i «miseri» 6 milioni di euro concordati da sindaco e Giunta.
È quanto chiedono Italia Nostra e le opposizioni - in vista del Consiglio comunale di domani, che dovrebbe dare il via libera alla convenzione e al permesso in deroga di costruire per Edizione Property, la società del gruppo di Ponzano proprietaria dell’edificio - che ieri hanno mostrato le carte che «inchioderebbero» la Giunta, mostrando, a loro avviso, una gestione fin troppo disinvolta dell’accordo con il gruppo Benetton. Presenti i consiglieri comunali del Pdl Sebastiano Costalonga e Marta Locatelli, quelli del Gruppo Misto Renzo Scarpa e Nicola Funari, del Gruppo Cinque Stelle Alfonso Placella e l’architetto Cristiano Gasparetto, vicepresidente della sezione veneziana di Italia Nostra. Gli addebiti mossi sono pesanti. «Il Comune non ha mai redatto una stima ufficiale e certificata del valore del Fontego dei Tedeschi e dell’incremento derivante dal cambio di destinazione d’uso commerciale - hanno spiegato - e la valutazione è stata fatta al ribasso.
La valutazione richiesta all’Agenzia del Territorio stimava nel 2011 un immobile nella zona di San Marco come il Fontego tra gli 8 e i 20 mila euro al metro e il Comune non ha fatto una media, ma ha applicato il valore minimo, 8 mila euro, poi aumentato a 9 mila». In effetti, la nota prodotta al tempo della trattativa dalla Direzione Patrimonio del Comune per l’assessore ai Lavori Pubblici Alessandro Maggioni, recita testualmente: «Preme sottolineare che non sono state prodotte valutazioni di stima, ma solo ipotesi di lavoro propedeutiche ad una trattativa con la controparte». Ma quelle «ipotesi di lavoro», mai protocollate, sono poi diventate la stima finale, su cui è stato calcolato anche il beneficio pubblico per il Comune. Il ricalcolo fatto da Gasparetto, partendo da una valutazione del Fontego di 14 mila euro al metro quadrato - la media tra il minimo di 8 mila euro e il massimo di 20 mila stimato dall’Agenzia del Territorio - dà esiti clamorosi. Con la variazione della destinazione da pubblica a commerciale, l’incremento di valore sarebbe di poco meno di 7 mila euro al metro quadro e il valore complessivo salirebbe dai circa 60 milioni di euro dell’acquisto a oltre 124 milioni di euro. Cioè - sulla base di una ripartizione tra pubblico e privato del 60 e del 40 per cento del beneficio pubblico - al Comune andrebbero appunto circa 38 milioni e mezzo di euro, che scenderebbero a 24 e mezzo pur «scontando» 15 milioni di euro di lavori di Benetton, già calcolati nella stima da Ca’ Farsetti. In più, ci sono gli standard urbanistici, che ilComune ha in pratica “regalato” a Edizione, comprendendoli nei 6 milioni di euro di indennizzo complessivo. Secondo i calcoli di Italia Nostra e opposizioni, oltre 9200 metri quadri di superficie commerciale del Fontego, andrebbero bilanciati con circa 7400 metri quadri di aree a standard pubblico. Per questo il piano terra e il primo piano del Fontego - poco meno di 4 mila metri quadrati - dovrebbero restare pubblici (per farci magari un centro culturale e un asilo nido) lasciando gli oltre 5500 metri quadrati restanti alla Rinascente, riducendo in questo caso a 19 milioni di euro la monetizzazione a favore della città. Ma se Giunta e maggioranza - come è probabile - domani diranno sì all’accordo con Benetton, è possibile che qualcuno sposti l’affare Fontego su altri tavoli: quelli del Tar o della Corte dei Conti, per il teorico danno erariale.
Urbanizzazione del pianeta e impatti ambientali da un lato, qualità urbana e abitabilità dall'altro: un possibile ruolo della progettazione per una metropoli più sostenibile. Articoli di Luca Molinari Marco Vinelli, Corriere della Sera, 9 marzo 2013 (f.b.)
Le mode e i desideri della Natura tra noi
di Luca Molinari
Da quando il botanico francese Patrick Blanc dalla seconda metà degli anni Novanta ha lanciato il brevetto (poi diventato rapidamente di moda) del giardino verticale è cominciata l'irresistibile colonizzazione verde di molti spazi anonimi e istituzionali delle metropoli. Il nostro malcelato senso di colpa verso Madre Natura, unito alla costante voglia di meraviglia e a una reale necessità di ripensare la presenza del verde nelle città che affolliamo, hanno rapidamente sancito il successo di questa intuizione tecnica, che consente a una serie importante di vegetali di abitare le nostre pareti grazie a un semplice supporto metallico, a due strati di materiale fibroso e a un potente sistema di irrigazione permanente.
Poi, come per tutte le mode, la meraviglia di una foresta verticale ha mostrato i suoi limiti strutturali: molto costosa nell'investimento e nella manutenzione permanente, assetata d'acqua in maniera a volte eccessiva, fragile nel suo rapporto con l'ecosistema circostante. Ma questo non deve farci recedere dal considerare quello che questi primi interventi possono rappresentare. La possibilità realistica di colonizzare spazi urbani senza identità con porzioni naturali inattese e il suo successo popolare interpreta il desiderio crescente di dare forma a una relazione diversa con la Natura e quello che ci può offrire. Bellezza, senso di pace e quiete, qualità ambientale, mutabilità stagionale, sono solo alcuni dei benefici che questi progetti verdi ci offrono.
Anche l'idea che grazie agli elementi naturali si possano risolvere frammenti di metropoli abbandonati, attivando quei fenomeni virtuosi di agricoltura urbana che stanno cambiando il volto delle città occidentali, mostrano una straordinaria voglia di comunità, di cultura del cibo sano e di immagine diversa del nostro ambiente. Partire da queste esperienze vuol dire ascoltare il desiderio profondo delle comunità metropolitane di riportare radicalmente la Natura tra di noi, indicando visioni e strumenti che andranno sempre più diffusi e democratizzati.
Ritorno a Babilonia
di Marco Vinelli
Probabilmente tutto è cominciato a Babilonia, intorno al 500 a.C., con i suoi famosi giardini pensili che erano considerati una delle sette meraviglie del Mondo. Perché da sempre gli uomini hanno cercato di piegare la natura alle proprie esigenze. A partire dal XVI secolo si sono spinti a modellare le siepi con realizzazioni di ars topiaria e la fantasiosa progettazione dei giardini all'italiana. E poi, proseguendo, con la creazione dei grandi parchi urbani, come il Bois de Boulogne o Central Park, in una continua e sempre più stretta integrazione tra verde e città, tra dimora e giardino. Ma nessun architetto è mai arrivato a ricoprire con la vegetazione le proprie realizzazioni. A meno di non dichiarare un proprio grossolano errore, come recita il famoso detto che «se a un medico è consentito seppellire i propri errori, un architetto li può solo ricoprire con l'edera». Da qualche tempo tutto questo è cambiato e alcuni progettisti, infischiandosene dei vecchi proverbi, puntano proprio sulla vegetazione per rendere le proprie architetture ancora più espressive e meglio integrate nell'ambiente.
Tra i primi a credere in questa «formula», Emilio Ambasz, che ha «seppellito» le proprie ville sotto terra o ha rivestito di verde alcuni edifici, come il palazzo sede della Prefettura di Fukuoka, in Giappone, dove la facciata sud è stata risolta come un giardino terrazzato, quale naturale prolungamento dell'esistente parco urbano. Ma anche il progetto per la banca dell'occhio a Mestre, del 2008, si inserisce in questo filone, così come il palazzo Eni, a Metanopoli, di Gabetti e Isola. Va precisato che queste scelte progettuali complicano enormemente la vita agli architetti, che devono mettere in campo tutta la loro bravura e le loro conoscenze nella scelta dei materiali e delle soluzioni tecnologiche per evitare che la vegetazione muoia dopo poco tempo e la manutenzione raggiunga costi astronomici.
Qualcuno, come Jean Nouvel per il suo museo Quai Branly a Parigi, aperto nel 2006 e caratterizzato da una facciata interamente ricoperta di vegetazione, si è rivolto ad un «artista botanico» come Patrick Blanc. Il risultato? Un muro verde di 800 mq con 15 mila piante di 150 specie diverse. Dice l'artista: «Per realizzare questo muro vegetale, non ho avuto particolari difficoltà ed è stato installato contemporaneamente alla facciata. Nonostante siano passati già diversi anni, si mantiene molto bene».
Da un po' di tempo a questa parte, l'immagine-simbolo di questa sfida è il «Bosco verticale», le due torri milanesi in via di completamento degli architetti Stefano Boeri, Gianandrea Barreca e Giovanni La Varra. Il progetto è ambizioso: due edifici alti 110 e 76 metri con appartamenti di lusso, che accolgono 480 alberi di grande e media altezza, 250 alberi di dimensioni piccole, 11.000 fra perenni e tappezzanti e 5.000 arbusti, modulati in funzione della fioritura. Il Bosco verticale, che equivale a una superficie boschiva di circa 10.000 mq, nelle intenzioni di Boeri aiuta a costruire un microclima e a filtrare le polveri sottili nell'ambiente urbano. La diversità delle piante e le loro caratteristiche producono umidità, assorbono CO2 e polveri, producono ossigeno, proteggono dall'irraggiamento e dalla polluzione acustica. Ma le due torri di Boeri, sono «verdi» dappertutto: grazie a sistemi centralizzati si punta all'ottimizzazione della produzione energetica, attraverso impianti a pompe di calore si utilizza acqua di falda. E ancora, pannelli solari fotovoltaici, la produzione del 100% dell'acqua calda mediante fonti rinnovabili, la massimizzazione dell'illuminazione e della ventilazione naturale.
A Torino, invece, l'architetto Luciano Pia con il complesso «25 Verde» ha sperimentato un'altra soluzione forse meno ambiziosa di quella milanese ma sicuramente più espressiva, dal momento che le forme degli alberi si «integrano» con quelle dell'edificio, grazie anche all'acciaio Cor-Ten per gli elementi strutturali alberiformi che sostengono i grandi terrazzi in doghe di legno. «In questo edificio abbiamo realizzato terrazzi molto profondi, anche 6-8 metri, con una superficie pari al 50% dell'appartamento — spiega l'architetto Pia —. Questo ci ha permesso di alloggiare 150 alberi "grandi" in facciata e altri 50 nel giardino condominiale. In pratica ogni appartamento ha almeno 3 alberi grandi. Che vivono in fioriere con un diametro da 1,8 fino a 4 metri».
In questi edifici il costo di gestione non deve essere sottovalutato: «La manutenzione della parete del Quai Branly viene effettuata due o tre volte l'anno, nel giro di tre/quattro giorni, con un elevatore dalla strada — precisa Blanc —. Il pubblico resta impressionato da questa "falesia vegetale" nel cuore di Parigi». Discorso analogo per il palazzo torinese: «I primi occupanti, entrati negli alloggi circa sei mesi fa, sono entusiasti — precisa Pia —. Il verde in facciata è considerato "condominiale" per beneficiare di una gestione unitaria pur se collocato su terrazzi di proprietà. E il comune di Torino ha vincolato la vegetazione in facciata, in modo che non si possa intervenire su di essa in maniera autonoma ed arbitraria». Anche per «25 Verde» un sistema permette il recupero delle acque piovane; al posto della caldaia tradizionale è stato installato un sistema a pompa di calore geotermica ad acqua di falda; i tetti piani sono trasformati in giardini e possono essere coltivati come orti e le facciate sono rivestite con una scandolatura di legno di larice. Forse sta cominciando una nuova primavera per l'architettura urbana.
La Repubblica Milano, 9 marzo 2013, postilla (f.b.)
ROBERTO Maroni vara un piano per salvare i cantieri della grandi opere autostradali in vista di Expo 2015. La posizione della Regione è chiara: «I cantieri non possono fermarsi, le grandi opere vanno completate ». I costruttori di Tem, la nuova Tangenziale est esterna, Pizzarotti, Impregilo e Coopsette sono disponibili a discutere il versamento di una parte della quota dell’aumento di capitale necessario per completare la realizzazione dell’opera. Pari ai restanti 34 milioni di euro che dovranno essere sottoscritti entro il 15 marzo. Tem ha già infatti sottoscritto 72 dei circa cento milioni del totale del nuovo finanziamento previsto. Banca Intesa si è detta disponibile a fare la sua parte, successivamente. Asam, la holding delle partecipazioni societarie che fanno capo alla Provincia, al contrario, ha ribadito di non essere in grado di dare il suo contributo. Mentre la Cassa depositi e prestiti condivide l’operazione dell’aumento di capitale di Tem.
La svolta ieri durante un vertice in Regione tra il neogovernatore Maroni, l’assessore regionale alle Infrastrutture uscente Andrea Gilardoni, il presidente della Provincia Guido Podestà, l’amministratore delegato della Cassa depositi e prestiti Giovanni Gorno Tempini e i rappresentanti di Banca Intesa e dei costruttori di Tem e Brebemi. Del resto, Maroni lo aveva preannunciato due giorni fa. Quando al termine di un nuovo incontro con i dirigenti della Regione aveva precisato che le tre questioni più importanti di cui si sarebbe occupato sarebbero state: Expo, le grandi opere e la crisi economica. Tanto che martedì mattina ha già convocato i sindacati per discutere del rifinanzimento della cassa integrazione in deroga. E nel pomeriggio volerà a Roma per incontrare il ministro del Welfare Elsa Forneno, per tentare di sbloccare la situazione.
Sul tavolo dei vertice di ieri sulle infrastrutture anche il nodo della Pedemontana. La nuova autostrada che dovrà collegare tutte le province del Nord della Lombardia che rischia di fermarsi al primo lotto, la tratta tra le autostrade A8 e A9 da Cassano Magnago a Lomazzo in via di completamento. Quando mancano ancora 32 milioni di euro da aggiungere ai 64 già versati da Milano- Serravalle, la società autostradale che detiene il 68,36 per cento di Pedemontana spa. Nel frattempo, la quota di finanziamento del governo è ancora al vaglio dell’Authority sulle autostrade. Soddisfatto il presidente di Milano Serravalle Marzio Agnoloni presente alla riunione, che ha ribadito come la società stia compiendo un ulteriore sforzo per garantire la prosecuzione dei
lavori.
L’accelerazione di Maroni sulla realizzazione delle nuove autostrade, però, non convince l’opposizione di centrosinistra. «Ci vuole senso di responsabilità — osserva Andrea Di Stefano, ex candidato alle primarie per il Patto civico — Se la Tem non fosse completata sarebbe un disastro. Ma gli studi tecnici ci dicono che c’è stata una netta flessione sia del traffico civile che di quello commerciale. Siamo sicuri che il progetto originale della Pedemontana sia ancora valido»? Legambiente boccia senza appello lo sblocco delle grandi opere. «Da Maroni ci aspettiamo un segno di discontinuità rispetto al lasciar fare del passato sulla realizzazione delle grandi infrastrutture — attacca il presidente Damiano Di Simine — Se il nuovo governatore intende continuare nella missione suicida aperta dal precedente assessore regionale alle Infrastrutture Raffaele Cattaneo, sarà una sciagura per tutti i lombardi ».
postilla
Qualche ottimista, o frescaccione, chissà, nel corso della campagna elettorale tuonava da pulpiti di centrosinistra “La Città Infinita è Finita”. Come se bastassero gli slogan a vanvera per convincere un elettorato già scettico di suo: ci voleva un programma alternativo, che rilanciasse le economie del territorio, l'occupazione, l'abitabilità, in una prospettiva radicalmente diversa da quella dello sprawl. Il traballante schieramento che voleva opporsi a Lega, Pdl, 'ndrangheta e interessi affini non ha saputo esprimere niente del genere. Gli elettori, morsi alle chiappe dalla crisi, non se la sono proprio sentita di mettersi nelle mani di possibili rappresentanti del forse, mah, chissà. E adesso l'opposizione alla micidiale Città Infinita potranno farla solo soggetti extra-istituzionali, con tutti i limiti del caso, e col rischio di caricarsi dei contenuti sostanzialmente nimby-conservatori già emersi chiaramente (f.b.)

La ricostruzione della Città della Scienza, distrutta da un gesto criminoso, può essere occasione per realizzare finalmente uno dei migliori progetti del "Rinascimento napolitano": è la speranza non solo dell'assessore alla vivibilità della prima giunta Bassolino, ma di chiunque abbia seguito le vicende di quella felice stagione
Bagnoli è stato il punto d’avvio del cosiddetto rinascimento napoletano. Quando si insediò la prima amministrazione Bassolino era stato appena spento l'ultimo altoforno. In un incontro a Palazzo Chigi mi chiesero di sottoscrivere un’intesa fra governo, regione, Iri per affidare all’Italstat un progetto di “valorizzazione” dell’area. Rifiutai, spiegando che il futuro dell’ex Italsider doveva deciderlo il consiglio comunale di Napoli. Fu questa l’origine dei nuovi indirizzi urbanistici e poi della variante di Bagnoli che prevedeva, tra l’altro, un parco di centoventi ettari e il recupero della spiaggia di Coroglio. La filosofia era di sfruttare l’occasione fornita dalla dismissione dell’acciaieria per risarcire la città di tutto ciò di cui era stata privata a causa del mostruoso sviluppo del dopoguerra, tutto asfalto e cemento, senza un metro quadrato di verde. A Napoli, l’impatto dell’Italsider era lo stesso dell’Ilva su Taranto: un inferno. Volevamo trasformalo in un paradiso, restituendo alla città spazio aperto, ossigeno, il libero godimento di uno dei luoghi – senza retorica – più belli del mondo.
Fu molto faticoso far passare la nostra proposta. L'idea prevalente era che Bagnoli industria era e industria dovesse essere, anche se non più inquinante. Durante un convegno Bertinotti mi additò: “Compagno De Lucia, il bello non ci salverà”. Fu decisiva per far partire il progetto la credibilità di Antonio Bassolino. Ingraiano operaista, andò a parlare sulla spiaggia di Bagnoli ai cassintegrati Italsider, l'aristocrazia operaia napoletana a cui era devoto, e disse: “Lo spazio che sta alle vostre spalle sarà il parco pubblico più grande di Napoli”. Arrivò un'ovazione, mentre un sindacalista sconcertato commentò: “Vuole trasformare i metalmeccanici in boscaioli”.

Ma a Napoli il parco di Bagnoli continua a essere considerato un lusso che la città non può permettersi (quando Ferrara, con poco più di un decimo degli abitanti gestisce la cosiddetta addizione verde di mille duecento ettari). Detto questo mi pare importante chiarire che a Bagnoli – a differenza di altre grandi operazioni di trasformazione di aree ex industriali, come quelle, per esempio, dell’ex Falck di Sesto San Giovanni – non ci sono scandali. L’unico grande scandalo è l’immane ritardo rispetto ai tempi originariamente previsti. Un ritardo ingiustificabile, derivante dal fatto che la società di trasformazione urbana, istituita per rendere rapida ed efficiente l'attuazione del progetto, superando le difficoltà tradizionali della pubblica amministrazione, si è trasformata invece in un feudo autoreferenziale, una sinecura lottizzata dai partiti, dominata da una logica di piccolo cabotaggio. Come se bastasse la gestione pubblica a garantire buoni risultati. La gestione pubblica di Bagnoli è inadeguata e ha finito per scoraggiare l’intervento degli operatori privati.
La paralisi non è però irreversibile. Nulla è perduto: il progetto è ancora valido, a condizione che si sviluppi una coraggiosa ripresa dell’iniziativa istituzionale. Mi riferisco in primo luogo al sindaco e al comune. E mi piace sperare che proprio dalla tragedia della Città della Scienza, che è stata la prima e unica realizzazione del progetto Bagnoli, si tragga la forza per ricominciare. Contando anche sulla vasta e commovente solidarietà manifestata in questa circostanza dalla comunità nazionale. La Città della scienza bisogna ricostruirla, come e meglio di prima, allontanandola dalla spiaggia che il piano regolatore destina alla balneazione. A Bagnoli non mancano certo le aree adatte.
I nudi fatti di cronaca e le possibili interpretazioni e prospettive del disastro napoletano, in due articoli di Maurizio De Giovanni e Raffaele Nespoli. L'Unità, 7 marzo 2013
Una speculazione edilizia
di Raffaele Nespoli
Alle 21.40 un allarme scuote la centrale operativa dei vigili del fuoco. Sei minuti dopo le autobotti sono sul posto, ma è troppo tardi. Non c’è vento, non quanto ne servirebbe per creare un fronte di fuoco tanto vasto in soli sei minuti. Eppure l’incendio a Città della Scienza è già fuori controllo. Ecco perché, in attesa che dalla scientifica arrivino risposte certe, l’ipotesi più accreditata sul disastro che ha colpito il polo culturale di via Coroglio resta quella di un incendio doloso.
A ribadirlo è stato anche il procuratore della Repubblica Giovanni Colangelo, ieri con il ministro Paola Severino nei locali distrutti dalle fiamme. Il procuratore non ha escluso che con il passare delle ore si possano acquisire elementi più concreti. Prove «che consentano di indirizzare le indagini verso una direzione precisa». Al vaglio degli inquirenti anche alcune immagini che potrebbero rivelare dettagli importanti. Intanto, ieri, prima che la pioggia spazzasse via ogni possibile traccia, gli investigatori hanno acquisito una serie di campioni prelevati dall’area distrutta. E non si esclude affatto la possibilità di un coinvolgimento della camorra, anche perché è difficile credere che qualcuno possa aver agito senza ottenere prima il consenso dei clan che controllano la zona.
Quello che serve è un movente. A chi fa gioco la devastazione di Città della Scienza? Impossibile stabilirlo, ma diverse piste porterebbero ad un giro di affari di milioni di euro che ruota attorno alla bonifica di Bagnoli e alla vendita dei suoli. E come sempre, quando non ci sono indizi certi, la cosa migliore da fare è guardare alle «note stonate». Dettagli apparentemente irrilevanti che possono creare vere e proprie piste. Un primo elemento che non quadra è nella genesi dell’incendio. Dalle immagini che da subito hanno invaso internet e i social network sembrerebbe chiaro che le fiamme siano divampate contemporaneamente in diversi punti della struttura. La sensazione è quella di un vero e proprio blitz. Come se una squadra fosse entrata in azione dal mare, con le idee ben chiare sui punti da colpire.
Un’altra stranezza emerge poi dai racconti dei vigili del fuoco. Gli uomini impegnati sul posto hanno dovuto combattere per tredici ore prima di riuscire a domare la fiamme. Quasi che a contatto con l’acqua degli idranti il fuoco riprendesse vigore. Questo suggerirebbe la presenza di una sostanza accelerante. Non convince gli inquirenti, nella ricerca di un movente, l’idea di un legame con il premio assicurativo. Così come si esclude un collegamento tra le fiamme e la crisi che attanagliava la struttura, per la quale i dipendenti non ricevevano lo stipendio da undici mesi. Torna allora la pista degli appalti, degli interessi che ruotano attorno alla bonifica dell’area che un tempo ospitò l’Ilva di Bagnoli. Torna alla mente anche un indagine coordinata dal pm Michele Del Prete; tre anni fa si arrivò al sequestro di un appunto con i nomi di tutte le imprese interessate ai lavori di Bagnolifutura. La nota fu ritrovata nell’auto di un esponente di un clan locale.
Sospetti, ombre che si allungano su ciò che resta di un sogno, di una piccola città andata in fumo in una notte. Intanto, l’enorme risonanza dell’incendio ha dato origine a decine e decine di iniziative di solidarietà. Ma anche in questo caso le polemiche non mancano. Sulla rete si moltiplicano infatti gli avvertimenti alla cautela per «alcuni Iban “farlocchi”».
Accanto ad una raccolta ufficiale, organizzata grazie al sito di Città della Scienza, ce ne sono altre che in realtà nascondono delle truffe. Vere e proprie forme di sciacallaggio elettronico. Del tutto reale è invece il falsh mob in programma per il 10 marzo, alle 11, in via Coroglio. Una manifestazione che non avrà bandiere, nata dal passaparola virale creatosi sul web. In attesa che si faccia luce sulle cause dell’incendio è probabilmente il modo migliore per reagire alla distruzione di un simbolo. Sul posto ci saranno anche i dipendenti della struttura.
Per loro un piccolo segno di speranza già c’è, l’assessorato al Lavoro della Regione ha infatti autorizzato la cassa integrazione in deroga fino alla fine del 2013.
Quelle fiamme che non si spengono
di Maurizio De Giovanni
C’è ferita e ferita. I due colpi che hanno deturpato Napoli, nel terribile lunedì nero, corrono il rischio di lasciare un segno profondo, oltre che nel territorio, nella coscienza dei cittadini: e nella loro fiducia nella sopravvivenza della città.
Da qualche giorno era in corso un dibattito, sul principale giornale locale, avviato dalla lettera di un adolescente che a seguito di una rapina subita aveva dichiarato la propria intenzione di andare via per cercare migliori condizioni di vita. Asseriva, il ragazzo, di non voler nemmeno provare a rimanere a Napoli: che in questo luogo disperato non c’è modo di procurarsi un futuro accettabile. Molti personaggi appartenenti alla cultura, allo spettacolo, all’informazione sono intervenuti asserendo che le cose possono essere cambiate dall’interno, che le forze positive devono restare, per guarire col lavoro e l’onestà le malattie gravi di questa terra.
Il crollo del palazzo della Riviera di Chiaia, e l’incendio, a questo punto evidentemente doloso, della Città della Scienza a Bagnoli costituiscono il più violento e raccapricciante degli interventi nel dibattito. Sia chiaro: si tratta di avvenimenti radicalmente diversi nella genesi e negli effetti, che non hanno in comune che la tragica coincidenza temporale. Ma testimoniano dell’abbandono, dell’incuria e del mancato governo del territorio da parte degli stessi napoletani.
Il palazzo semicrollato appartiene al prospetto nobile che la città propone dal mare, ed era là dagli inizi dell’ottocento. Una delle immagini, per intenderci, che rimanevano negli occhi pieni di lacrime degli emigranti che partivano alla ricerca della speranza, come l’adolescente rapinato si propone di fare oggi. Una costruzione di valore, abitata da professionisti del massimo livello, che ospitava uffici di rappresentanza, a pochi metri dal Consolato statunitense e dal mare. Niente ignoranza, nessun degrado: niente povertà, nessuna mancanza di cultura a giustificare una ritardata segnalazione. A brevissima distanza, il perenne cantiere della linea sei della metropolitana, e la sua profonda camera stagna che impedisce la millenaria discesa a mare delle acque reflue delle colline sovrastanti. Ovvio, dite? Ovvio. Ma nessuno che si sia posto il problema. Ora si discute con preoccupazione dello stato dei palazzi confinanti, che da tempo emettono scricchiolii di avvertimento: come se annunciare una disgrazia fosse sufficiente a prevenirla. La risposta televisiva del vicesindaco Sodano, a un geologo che definiva i termini del problema, è stata: ma lei la vuole o no, la metropolitana? Come se fosse un’alternativa.
Il rogo della Città della Scienza, a quanto appurato sinora, è un’altra cosa. I responsabili sarebbero arrivati dal mare, come un commando della seconda guerra mondiale, e avrebbero completato con cura e precisione il proprio disegno attraverso ben sei inneschi, collocati con la massima attenzione. Colpendo al cuore la Cultura della città, distruggendo un simbolo della riacquisizione da parte della cittadinanza di un’area, quella della ex Italsider, che è un simbolo dello stupro subito dal territorio fin dagli inizi del secolo scorso. Un’area, Bagnoli, di una bellezza commovente nonostante la nuova, profonda ferita.
La Cultura colpita è la risorsa principale di un luogo che di risorse ne ha poche. Napoli è ricchissima di scrittura, teatro, musica, arte: in ogni settore dello spettacolo, del mondo accademico, della letteratura tra i personaggi più autorevoli numerosi sono quelli nati qui. E nella loro espressione, nei linguaggi, nelle luci e nelle ombre, molto deriva dalle peculiarità di una città che nel bene come nel male è profondamente diversa da qualsiasi altra. Sarebbe ora che, dopo aver tanto preso, si pensasse a restituire al territorio diventando finalmente, senza aspettare interventi dall’alto, parte integrante e nutritiva di questa terra.
Le fiamme che hanno divorato in poche ore una delle pochissime strutture culturali moderne corrono il rischio di continuare a bruciare, distruggendo i sogni e le speranze di migliaia di bambini che si sono accostati proprio là a una modalità divulgativa della scienza che altrove è la normalità. Sono fiamme che bruceranno finché non ci si renderà conto che Napoli è una città italiana, la terza per popolazione: che la distruzione della speranza di una generazione è un problema per tutto il Paese, non circoscritto a un territorio limitato. Fiamme che bisogna spegnere immediatamente, perché non distruggano il poco che rimane.
Ancora aperta la questione del futuro del Lido di Venezia; ancora speranze per di ci si batte contro la “città degli affari”: Intanto le nuvole giudiziarie si addensano su un altro tassello del puzzle veneziano: il ponte di Calatrava: domani vedremo. La Nuova Venezia, 6 marzo 2013
Dopo il clamoroso «stop» deciso dal Comune alle trattative con Est Capital, in municipio adesso si attendono gli sviluppi giudiziari e legali dell’intricata questione Lido. La delibera che prevedeva un accordo extragiudiziale tra le parti è stata ritirata dal sindaco Orsoni, dopo che gli uffici avevano lavorato fino a tarda sera per metterla a punto. Le proteste sempre più forti dei comitati e le tante perplessità espresse dai consiglieri comunali di maggioranza e opposizione hanno convinto il sindaco a fermare la procedura. Forse non è estranea a tutto questo l’inchiesta che ha portato in carcere Piergiorgio Baita, presidente della Mantovani, l’impresa del Mose tra i più importanti quotisti del fondo finanziario di Real Venice 2 (Est Capital). Il sindaco nega, come anche Gianfranco Mossetto, presidente di Est Capital. Ma la concatenazione degli eventi è chiara.
Che succederà adesso? Si attende intanto la sentenza del giudice civile Liliana Guzzo, che dovrà decidere se sbloccare i 31,6 milioni di euro già versati da Est Capital al Comune e depositati alla Carive sul conto di Ca’ Farsetti per l’aqcuisto dell’ex Ospedale al mare. Il blocco d’urgenza era stato richiesto dal Comune dopo l’annuncio di Est Capital di voler annullare il contratto per «inadempienze da parte del Comune». Si dovrà poi chiarire bene l’aspetto patrimoniale, con una richiesta di danni già annunciata dalla finanziaria al Comune – di cui peraltro gestisce il patrimonio immobiliare – ma anche il risarcimento annunciato dal Comune verso la «gestione precedente dell’operazione» (vedi commissario governativo, durato in carica fino al 2011). Intanto i comitati del Lido salutano con favore la decisione. «Occasione per riprenderci il Lido», dicono.(a.v.)
Prosegue imperterrito, nel sostanziale silenzio della politica di quasi tutti gli schieramenti, il modello di sviluppo che ha al centro indiscusso l'edilizia speculativa coi suoi “valori” del tutto artificiosi. Articoli di Paolo Berdini e Enzo Scandurra, il manifesto 6 marzo 2013
L'ultimo regalo alla speculazione
di Paolo Berdini
L'amministrazione Alemanno sta cercando disperatamente di far approvare dal consiglio comunale di Roma 62 deliberazioni in materia urbanistica. Decine di milioni di metri cubi di cemento che sfigureranno - se approvate - per sempre la città. Contro queste approvazioni è nato un forte movimento di opposizioni da parte di molte associazioni e comitati di quartiere che presiedono da molte settimane il consiglio comunale per scongiurare il disastro. Il clima contrario alle deliberazioni sta crescendo e quanto contenuto in una delle proposte che si vorrebbe imporre alla città ha la possibilità di creare un salutare scandalo, perché dimostra il verminaio che si nasconde dietro allo "sviluppo" di nuovi quartieri e - nel caso particolare - dimostra anche che la popolazione di Roma rischia di pagare a caro prezzo (250 mila metri cubi di cemento, Antonio Cederna avrebbe detto 2 hotel Hilton e mezzo) la crisi che attraversa il Monte dei Paschi di Siena.
La prima pietra
Iniziamo con ordine perché la vicenda inizia alla fine degli anni '80. Il piano regolatore di Roma destinava un'area di 14 ettari localizzata a nord, in via di casal Boccone a servizi privati: i proprietari potevano costruirci uffici privati. Il 4 dicembre 1993 il commissario governativo Aldo Camporota che guidava la città dopo l'azzeramento dovuto a Tangentopoli, autorizza la stipula della convenzione urbanistica. Il giorno successivo sarebbe entrato nei pieni poteri Francesco Rutelli. Non c'era gran fretta e sarebbe stato più giusto lasciare alla nuova amministrazione la decisione sul futuro della città, ma il Commissario straordinario decide diversamente. Il progetto sembra così entrare nella sua fase conclusiva. Nel 2005 viene sottoscritta la convenzione per costruire 220 mila metri cubi: 80 mila per uffici; 90 mila per commercio; 50 mila per un non meglio precisate "case albergo". Il promotore del progetto era la Imco, società che faceva parte attraverso Sinergia del gruppo Ligresti.
Anche il nuovo piano regolatore di Valter Veltroni approvato nel 2008 conferma le cubature previste dalla convenzione del 2005, ma la proprietà non si mette ancora in moto. È una questione decisiva ad impedire l'attuazione: l'area permette infatti di costruire uffici privati e la crisi immobiliare inizia a mietere vittime anche nella pregiata offerta di uffici nel centro di Roma, figuriamoci in quel lembo di estrema periferia circondato da campagna e con un'unica stradina di accesso.
E poi c'è la crisi del gruppo Ligresti che ha forti indebitamenti con il sistema creditizio italiano e in particolare con il Monte dei Paschi di Siena. Nel 2008 subentra nell'operazione immobiliare la Sansedoni srl (67% Fondazione, 21,8% MPS, 11,2% Unieco) che mette in piedi una nuova società e acquista tutto per 110 milioni più il debito pregresso al fine di recuperare il gigantesco credito con Ligresti. Ma la società controllata dal Monte dei Paschi comprende immediatamente che costruire uffici in periferia è un pessimo affare e bisogna ottenere a tutti i costi una variante urbanistica più favorevole alla proprietà. Elaborano un nuovo progetto e iniziano l'assedio al Campidoglio. E, miracolo, il sindaco Alemanno va in soccorso del Monte dei Paschi. Il 9 marzo del 2012 la Giunta comunale da lui presieduta approva la deliberazione n. 33 denominata «Approvazione del Programma di intervento urbanistico residenziale denominato casal Boccone».
Gli uffici scomparsi per incanto
Avete letto bene, si parla di intervento urbanistico residenziale. Gli uffici sono scomparsi come per incanto. La deliberazione di giunta è molto pudica nel merito: afferma soltanto che «la (nuova) proposta progettuale trae origine da un lato dalla diminuzione della domanda riferita all'edilizia privata non residenziale, dall'altro dalla necessità di una sempre più crescente domanda di abitazioni facenti parte di una cosiddetta "edilizia sociale"» L'amministrazione pubblica afferma senza pudore che visto che è diminuita la domanda di uffici privati, si straccia la precedente convenzione del 2005 e se ne stipula un'altra per la felicità della proprietà fondiaria. Le volumetrie ad uffici valevano poco, quasi nulla, quelle residenziali configurano un volume di vendita potenziale vicina ai 400 milioni di euro. Un bel regalo e l'ennesima gigantesca colata di cemento. L'urbanistica non esiste più: è la valorizzazione immobiliare a farla da padrona.
Subito dopo, la deliberazione di giunta n. 33 fa un ulteriore piccolo regalo alla proprietà, così da non fare la parte degli avari. Il regalo, per la verità, non è proprio di Alemanno, ma proviene dal piano regolatore di Veltroni che in un articolo finale delle norme stabilisce che tutte le cubature del vecchio piano si trasformano in superficie edificabile dividendole per un'altezza di 3, 20 metri, e cioè l'altezza di un'abitazione. Ma, come si ricorderà, nella convenzione del 2005 si potevano costruire 90 mila metri cubi di attività commerciali la cui altezza media, si pensi ad un supermercato, è molto di più di 3,20 metri. Insomma, l'articolo 108 delle norme è un meraviglioso regalo fatto ai tanti proprietari di volumetrie non residenziali del vecchio piano regolatore. Così la giunta Alemanno approva la costruzione di circa 69 mila metri cubi di edilizia residenziale. Si costruiranno - se non ci sarà un sussulto di sdegno- circa 250 mila metri cubi di residenze per una popolazione di 2.000 abitanti. Come se non bastassero i 140 mila alloggi vuoti oggi esistenti si da il via ad un altro scempio in aree paesaggisticamente pregiate. Monte dei Paschi diventerà felice: con i mattoni e con il cemento si ripiana il debito. E si può cambiare nome in Monte dei Pascoli di cemento.
Il volo del gabbiano sulla città corrotta
di Enzo Scandurra
Non so quand'è che a Roma, improvvisamente, sono arrivati i gabbiani. Nessuno se lo ricorda più nella città smemorata. Un turista di passaggio per la prima volta in questa città potrebbe, al ritorno nel suo paese, raccontare che a Roma gli uccelli più comuni e frequenti sono proprio loro: i gabbiani. In compenso questi grandi uccelli marini che ormai marcano i territori aerei che sovrastano le discariche, hanno sostituito una ben più nota specie di volatili che annunciavano l'arrivo della primavera romana: le rondini.
Rondini e storni hanno per anni sorvolato incontrastati i cieli romani; le prime sfrecciando ad alta velocità sui cieli della capitale e appollaiandosi nei sottotetti dei palazzi da dove spiccare nuovamente il loro temerario e gioioso volo; i secondi tracciando nel cielo fantastici e geometrici arabeschi alla luce del tramonto, lasciando senza fiato non solo i turisti, ma anche i pigri romani che pure da sempre praticano poco il sentimento dello stupore (anvedi 'oh). Le rondini sono ormai uno spettacolo raro. Come le lucciole di Pierpaolo Pasolini morte con l'avvento della modernità, esse sono diventate una specie in via di estinzione. Non perché minacciate da altre e più aggressive specie di uccelli, piuttosto per i cambiamenti dovuti all'intensificazione dell'attività agricola che ha fatto scomparire siepi, fossi, prati e canneti, luoghi a loro cari dove vivono insetti e altri piccoli animali di cui le rondini si cibavano. Colpa anche dei cambiamenti climatici che hanno modificato le loro traversate, fatto perdere loro l'antico orientamento, e perfino della ristrutturazione di casali agricoli nei cui vecchi tetti le rondini facevano nidi.
Uscito dal portone di casa molto presto una mattina, vidi uno spettacolo impressionante: in mezzo alla strada (una strada poco frequentata da auto) c'era un gabbiano che dritto sulle sue gambe mi guardava fisso. Ai suoi piedi giaceva un piccione morto. Mi sono allora ricordato di una ricerca fatta sul perché malgrado i piccioni siano così numerosi, mai se ne vedono esemplari morti in città. I risultati di quella ricerca sostenevano che i piccioni, quando giunge la loro ora, si sottraggono alla vista cercando luoghi nascosti per non essere attaccati dai predatori. Quel piccione, dunque, steso morto nel bel mezzo della strada, doveva essere stato assalito dal gabbiano che sovrastava sopra di lui con piglio spavaldo, perfino sprezzante della presenza degli umani. Ricordava, quella scena, il celebre film di Hitchcock quando uomini, donne e bambini diventano oggetto di aggressione e vittime innocenti degli uccelli urlanti impazziti. Perché ora i gabbiani non si limitano più a sorvolare i cieli della capitale; sostano nel prato nel bel mezzo di Piazza Venezia, si ergono a sentinelle nei punti più alti dei monumentali ruderi romani, si accampano sull'altare della Patria come in attesa di una loro rivincita, incattiviti dai cambiamenti climatici provocati dalla specie umana.
A me è sembrato un triste presagio: come se questa disgraziata città non fosse solo oggetto di scempio da parte di una amministrazione cialtrona, arrogante e incapace, come se non bastassero le sciagurate avventure urbanistiche che succhiano sangue dal suo corpo già ferito, come se non bastassero i regolari allagamenti di strade e reti fognanti ogni volta che piove, il livello assordante dei rumori del traffico impazzito a tutte le ore, lo sfrecciare pericoloso delle macchine blu sulle corsie riservate ai tram e ai taxi, le deroghe edilizie, i condoni, le compensazioni, le perequazioni, lo sfratto agli immigrati, il riconoscimento di cittadinanza negato ai gay, ai barboni, ai diversi di tutti i generi. Ora alle truppe di occupazione dei professionisti della politica che questa città nemmeno conoscono, vengono in soccorso quelli che un tempo erano nobili pennuti che, bianchi d'innocenza, sorvolavano i mari, come nella poesia di Vincenzo Cardarelli: «Non so dove i gabbiani abbiano il nido/ ove trovino pace./ Io son come loro/ in perpetuo volo./ La vita la sfioro/ com'essi l'acqua ad acciuffare il cibo/». Anche i nobili gabbiani si sono imbarbariti al contatto con questa città corrotta da una classe dirigente che non si merita; anziché sfiorare l'acqua ora i gabbiani sorvolano discariche in attesa che tutta la città vada in putrefazione.
Nota: visibile sul sito della RAI l'interessante documentario Roma Città Infinita propone un punto di vista se possibile ancora più inquietante
Piccolo è bello oltre gli slogan significa una maggiore integrazione sul territorio fra gli aspetti produttivi, sociali, ambientali: un appello perché anche le politiche comunitarie lo recepiscano. La Repubblica, 6 marzo 2013 (f.b.)
Mentre l’Italia si agita in un vuoto di governo, dalla difficile soluzione, ogni giorno le persone e i loro bisogni autentici bussano alle porte della politica, con sempre maggiore fermezza e obiettivi
chiari. Duecentosettantasei organizzazioni non governative hanno posto forte e chiara, nei giorni scorsi, una questione fondamentale al governo dell’Europa: non siamo più disposti ad accettare che il denaro pubblico della Politica agricola comune (la famosa Pac) vada a finanziare pratiche agricole insensibili ai valori dell’ambiente, dei beni comuni, della protezione delle risorse irriproducibili, come le falde acquifere e la fertilità dei suoli.
Non è più ammissibile che i soldi di tutti gli europei sostengano la produzione agricola in quanto tale, senza che si prenda atto che è semplicemente immorale incassare denaro per inquinare, impoverire la Terra Madre e agire in modo insensibile a quanto, non dei semplici consumatori,
ma molti cittadini, legittimi titolari dell’erario, affermano. Perché non accetteremo oltre che la Pac aiuti chi può scegliere se adottare o meno pratiche ecocompatibili: la sostenibilità non è (più) un optional. I firmatari, con pacata sicurezza, dimostrano di saper distinguere il grano dal loglio e di non trascurare che la produzione del cibo per un continente con mezzo miliardo di abitanti non è un problema che si affronta con leggerezza. Ma questa agricoltura non può più vivere incurante degli effetti che i pagamenti diretti (la parte più consistente delle sovvenzioni, finora tutta determinata dalla dimensione della superficie aziendale) hanno determinato sull’ambiente, sul paesaggio, sui mercati mondiali, afflitti dalla concorrenza di derrate che, se non ci fossero i denari di Bruxelles, non si produrrebbero e non potrebbero essere vendute in giro per il Pianeta. Oltre il danno, una beffa per i paesi in via di sviluppo che devono competere con chi si vede una parte dei costi di produzione finanziati dalle istituzioni.
La nuova Pac non può semplicemente ridurre l’aiuto diretto. Deve collegarlo in modo inscindibile all’adozione di pratiche ecologicamente sostenibili: il percorso deve essere progressivo, ma a tappe certe e, se necessario, forzate. Un po’ di maquillage non accontenterà queste centinaia di sodalizi. E se a qualcuno tutti questi simboli e nomi possono sembrare i mille rivoli di una frammentazione, beh: si sbaglia. Questo è un virtuoso, colossale esempio di unità nella molteplicità, per l’affermazione del valore assoluto che attribuiamo alla terra che calpestiamo. Un po’ di pratiche «verdi», un po’ di greenwashing, come la chiamano gli Inglesi, non servirà a blandirci: esattamente come per la polmonite non serve l’aspirina.
Per questo, accanto alle misure di aiuto allo sviluppo rurale, che dovrebbero essere preferite sempre all’aiuto diretto e fra le quali sono presenti elementi positivi — come quelle che aiutano i giovani ad iniziare un’impresa agricola o i contadini a lavorare meglio, rispettando criteri di sostenibilità, incentivando la scelta preziosa del biologico — ci sono almeno due ottime misure che devono essere adottate se, come appare ovvio, non sarà possibile, di punto in bianco, prosciugare i finanziamenti «un tanto all’ettaro».
La prima riguarda la rotazione delle culture. Uno strumento semplice ed efficientissimo per mantenere la fertilità dei suoli è coltivare specie vegetali diverse, sullo stesso terreno, alternandole di anno in anno. Si riducono le malattie (che richiedono chimica per essere curate o prevenute) e il fabbisogno di certi elementi nutritivi (la stessa specie, infatti, richiede sempre gli stessi elementi, che vanno apportati concimando intensivamente), ma soprattutto si aumentano le rese e la qualità ambientale. Sembra l’uovo di Colombo e invece l’agroindustria intensiva, con aziende che anno dopo anno seminano sempre le stesse cose sugli stessi suoli, vede la rotazione delle colture come la peste: non si sviluppa il modello di business vincente diversificando, ci dicono, come se la terra fosse solo una grande catena di montaggio.
E allora, per darci il contentino, chi ha steso la bozza della Pac ha considerato ugualmente verde la «diversificazione», vale a dire: non la buona rotazione, ma la coltivazione in azienda di più cose, anche se magari, ciascuna di esse sempre sugli stessi appezzamenti, anno dopo anno. Non ci siamo.
La seconda proposta riguarda la taglia dei contributi. Non tutti gli ettari sono uguali, infatti!
La piccola agricoltura è più sostenibile, più attenta ai bisogni del territorio, spesso portata avanti in territori marginali e geologicamente fragili, più preziosa per conservare valori che vanno al di là del prezzo delle derrate. La piccola agricoltura, dal tempo dei Gracchi che lo capirono per primi, è la salute di una società sviluppata, mentre il latifondo è la degenerazione del rapporto con la Terra, che da madre diventa commodity.
Oggi si parla di porre un tetto: nessuno potrà avere più di 300mila euro di contributo, anche se gli ettari della sua azienda gli darebbero teoricamente diritto a più soldi ancora. Ma non basta.
Chiediamo che con l’aiuto diretto sia pagato «a scalare» un premio extra: il 100% della misura stabilita per i primi 5 o 10 ettari e poi a decrescere fino allo 0%, oltre una certa estensione. Naturalmente questo è un esempio e misure differenti potrebbero essere valutate per produzioni diverse, in diversi Paesi, ma il principio dovrebbe essere chiaro: ci fidiamo di più di una moltitudine di piccoli agricoltori che un pugno di latifondisti. Due idee semplici, che condividiamo con chi ha a cuore il futuro agricolo vero del Vecchio Continente, come le associazioni riunite in Arc2020: non voliamo alto, ma proponiamo misure concrete per fare sì che solo l’agricoltura che piace e serve alla vita di tutti riceva i soldi che sono di tutti. Di questi tempi, ci pare una necessità rivoluzionaria!
La mamma dello sprawl è sempre incinta se non si sta attenti: l'ingresso della grande distribuzione nel mercato oggi coperto dal bed & breakfast familiare e i rischi impliciti di dispersione. Corriere della Sera, 6 marzo 2013, postilla (f.b.)
La notizia è stata lanciata addirittura dalle colonne del Wall Street Journal: gli americani della Marriott e gli svedesi dell'InterIkea hanno deciso di lanciare insieme una nuova catena di hotel economici. L'obiettivo è di aprirne in Europa 50 in cinque anni (che potrebbero diventare 150 in 10 anni) e il primo ad essere inaugurato sarà quello di Milano, già nel corso del 2014. La catena si chiamerà Moxy e l'investimento di InterIkea — che fa capo alla famiglia Kamprad, quelli di Ikea, attraverso la Interlogo Foundation — sarà di 500 milioni di dollari. I nuovi alberghi non avranno mobili o design della compagnia svedese ma usufruiranno di nuove tecniche di costruzione (camere prefabbricate) con l'intenzione di abbassare i costi
Non si punterà ai centri storici ma Marriott e InterIkea dicono di preferire per la loro nuova creatura siti vicini ad aeroporti e stazioni. Il costo al cliente per la camera dovrebbe aggirarsi attorno ai 60 euro. Nell'anticipazione di stampa non si usa il termine low cost ma di fatto il formato alberghiero che si vuole lanciare assomiglia a una Ryanair degli hotel. «Vediamo grandi opportunità di espandere la nostra quota di mercato in Europa» ha commentato Amy McPherson, presidente di Marriott Europe.
Con la scelta dell'Italia come debutto Ikea va a battere di nuovo «dove il dente duole». Gli scandinavi sono stati, infatti, i protagonisti dello più straordinario contropiede commerciale che si sia visto dalla nostre parti. Il Belpaese è fiero dei mobili che costruisce in Brianza e in tanti altri distretti ma ha completamente sottovalutato il tema della grande distribuzione, gli svedesi hanno fatto il contrario e hanno costruito una multinazionale delle vendite al dettaglio che ci ha dato la paga. Noi italiani abbiamo dei prestigiosi negozi monomarca ma le nostre catene, come Mondo Convenienza, faticano, per dirla con eufemismo, a reggere l'urto dell'Ikea. Che, adesso, ci vuole insegnare anche come si aprono alberghi per i giovani. Si ripeterebbe per certi versi quello che è successo dopo i mobili anche nel caffè, dove gli italiani vanno famosi per la qualità della bevanda nera ma gli americani hanno creato una grande catena come Starbucks.
Eppure anche nella specialità delle vacanze a basso costo l'Italia ha una tradizione nobilissima, che riporta agli anni '60 e al miracolo della Riviera romagnola capace di vendere all'estero (ai tedeschi) pacchetti vacanze a prezzi competitivi con standard di buona qualità. Non c'era nessuna multinazionale dietro quel miracolo ma solo tante imprese familiari che agivano come una rete sistemico-organizzativa e riuscivano in questo modo a collegarsi con tutti i servizi aggiuntivi (dal posto in spiaggia alla balera).
Oggi l'Italia conta 34 mila alberghi, il doppio della Spagna, ma molti di essi sono, per dirla con il linguaggio degli economisti, «marginali». Ovvero non sono in grado di rivolgere al mercato un'offerta competitiva per prezzo e soprattutto moderna. «Detto che l'Italia deve puntare strategicamente a un turismo di fascia alta come ha fatto la Francia — commenta Massimo Bergami, coordinatore del piano strategico elaborato dal ministero del Turismo — si possono tranquillamente fare delle operazioni intelligenti per coprire gli altri segmenti di mercato, proprio a partire dall'ampio patrimonio di strutture alberghiere di cui disponiamo». In sostanza si tratterebbe di favorire l'uscita/rottamazione dei piccoli operatori, ammodernare il format e aggregare a rete nuovi soggetti imprenditoriali aiutati da una dotazione comune di strumenti (a cominciare da un unico centro prenotazioni).
«Penso alla Puglia — continua Bergami —. Fatta eccezione per alcune masserie di extralusso tutte le altre potrebbero organizzarsi come rete di imprese capace di fare al mercato un'offerta combinata». E i bed and breakfast? Non dovevano rappresentare proprio loro quell'offerta «democratica» rivolta ai giovani che oggi manca? «Lo sviluppo di questa formula dimostra una vivacità imprenditoriale nel settore — spiega Bergami —. Ma c'è troppa frammentazione, come dimostra l'assenza di un rating (le stelle, ndr) comune a tutte le Regioni. Il risultato è che il sistema dei nostri bed and breakfast oggi non si presenta sul mercato internazionale come un'offerta competitiva».
Postilla
Allora, un breve riassunto per chi si fosse perso le puntate precedenti: entra un nuovo operatore, grande e potente e organizzato, in un settore finora dominio di imprese a dimensione locale, micro, familiari ecc. Cos'è successo sinora? Che la pura contrapposizione tra vecchio e nuovo abbia prodotto da un lato una simpatia per i deboli, che chiedono vantaggi competitivi in varie politiche pubbliche (pensiamo ai NO anche violenti dei commercianti alle pedonalizzazioni nei centri storici), dall'altro un relativo degrado del territorio con le localizzazioni in luoghi non presidiati da una concentrazione sufficiente di questi piccoli operatori, ovvero nello sprawl mertropolitano. Dato che prevenire è meglio che curare, le amministrazioni pubbliche prima di accettare come gran novità o respingere per lo stesso motivo il modello albergo low cost dovrebbero valutarne appunto i non troppi low costs sociali, economici, ambientali, insediativi. Speriamo in una non-riedizione delle battaglie di retroguardia (perché quelle avevano un segno di fatto reazionario) contro i fast food solo perché facevano concorrenza alle pizzerie (f.b.)

In un libro di Roberto Della Seta ed Edoardo Zanchini, "La sinistra e la città", un utile contributo alla riflessione sul cuore antico di un possibile futuro. “Città e città”, blog de l’Unità on line, 1 marzo 2013
C’è chi dice: territorio bene comune. Paesaggio, centri storici, edilizia dignitosa, diritto all’abitare, ambiente e trasporti “fanno” la qualità delle città italiane. Dopo anni di deregulation selvaggia – complice buona parte della classe dirigente italiana – è il momento di invertire rotta. Lo suggerisce il libro di Roberto Della Seta e Edoardo Zanchini La sinistra e la città. Dalle lotte contro il sacco urbanistico ai patti con il partito del cemento (Donzelli, gennaio 2013, pp. 97, 16 euro). Che rimette a fuoco parole e idee dimenticate. L’urbanistica, ad esempio: se negli anni 50 è stata il cuore dello scontro politico, oggi sembra solo il campo di battaglia di corruzione e tangenti. Di semplificazione in semplificazione, l’idea della pianificazione sembra un inutile orpello se non addirittura il mezzo attraverso cui far passare le mazzette. Invece no: scardinati i piani regolatori, consentiti abusivismi e speculazioni, le tangenti hanno ripreso a correre più vispe che mai. E per forza, nascono dall’abitudine “di tanti che amministrano l’urbanistica a vedere le proprie scelte come il frutto obbligato ed esclusivo di trattative opache, quasi segrete, con i grandi interessi privati”.
Non è una deriva inesorabile. Tra i protagonisti della battaglia contro le speculazioni su Roma (prima attrice l’Immobiliare del Vaticano) fu Aldo Natoli, allora autorevole dirigente del Pci, in alleanza con i migliori uomini dell’azionismo, capaci di raccogliere l’eredità culturale di Leonardo Borgese: Antonio Cederna e Leone Cattani, Adriano Olivetti e Antonio Iannello, Elena Croce e Umberto Zanotti Bianco, Pietro Bucalossi e Giuseppe Galasso. A rileggere oggi il Sacco di Roma di Natoli, compaiono tutti i protagonisti delle speculazioni fino al nostro secolo, dall’arroganza dei costruttori alla centralità delle banche, all’impudenza degli speculatori fondiari. Perché lì, nell’uso del suolo, è il problema, e mica solo a Roma. In quelle battaglie – che ebbero gran eco nella base del Pci ma non furono troppo apprezzate ai suoi vertici – c’erano tutti gli elementi per una moderna visione urbana. Il diritto alla casa, che allora portava in piazza masse di esclusi, oggi rintanati nei ghetti o nel sovraffollamento indecoroso. La proprietà dei suoli e la commistione tra proprietà fondiaria e costruttori che indirizza il costruire, e non certo nell’interesse comune. La morsa delle banche, il cui protagonismo era ieri diretto e oggi agisce con la finanziarizzazione dell’edilizia. Ultimo, ma non per importanza, lo sfruttamento selvaggio nei cantieri, anche se oggi ha cambiato nazionalità: ieri erano edili gli immigrati dal sud d’Italia, oggi vengono dal sud del mondo.
L’opposizione, allora, vinse alcune battaglie: lo sventramento del cuore di Roma, la salvaguardia del verde. Fu invece sconfitta l’”illusione riformista” che ebbe a protagonisti i ministri Sullo, Mancini, Bucalossi e poi anche Galasso. Clamorosa quella di Sullo, che proponeva ai comuni l’esproprio di tutte le aree edificabili e la messa all’asta una volta eseguite le urbanizzazioni primarie, consegnando così alla mano pubblica la decisione di dove e cosa costruire. Una campagna violenta, intollerante e omofoba fece uscire di scena lui e una legge moderna e civile. Tra le altre leggi innovative dell’epoca – alla cui stesura contribuirono persone come Vezio De Lucia, Fabrizio Giovenale, Antonio Iannello, Edoardo Salzano – purtroppo disinnescate, la Bucalossi (che separava nettamente il diritto alla proprietà da quello a costruire), la legge sulla casa e quella sull’esproprio delle aree per l’edilizia popolare.
Poi la rottura. La questione dell’abusivismo, cavalcata da una parte del Pci (Lucio Libertini e il sindaco di Vittoria) e avversata da un’altra, capeggiata da Piero Della Seta. Segnale, scrivono gli autori, di una transizione postideologica: tanto più si indeboliva il “valore della propria diversità non solo politico e ideologica ma etica, tanto più si andava strutturando un rapporto più pragmatico e spregiudicato con la società e l’economia: un rapporto nel quale assumevano uno spazio e un peso crescenti legami di scambio politico-elettorali con gli interessi sociali ed economici, fossero gli abusivi siciliani o i poteri economici coinvolti nel business immobiliare”. Difficile non ricordare, appunto, la Fiat Fondiaria, a Firenze.
E oggi? Oggi che la deregulation è cosa fatta, grazie agli anni berlusconiani ma anche agli errori del campo riformista, le città restano preda di contraddizioni evidenti: l’eredità dei condoni, un forte bisogno di abitazioni popolari, un forte stock di case invendute, lo sgonfiamento della bolla immobiliare. In più, la sciagurata abolizione dell’obbligo di reinvestire i proventi delle concessioni edilizie in urbanizzazioni ha spinto i comuni, nell’era dei tagli generalizzati, a usarle per far cassa, con ulteriore e evitabile consumo di territorio. A Roma si fa il peggio destinando all’housing sociale addirittura le aree agricole, e finanziando con un’ulteriore pioggia di cemento le metropolitane.
Non si tratta solo di ordine urbanistico. La questione è di giustizia, se non si vuole escludere in ghetti insicuri e precari una buona fetta di società. Ecco le proposte di Della Seta e Zanchini: fare delle città cantieri di riqualificazione, spezzare il legame identitario tra oligopolisti delle aree e autori della trasformazione. Mettere in sicurezza idrogeologica e antisismica il territorio, con al centro di ogni trasformazione la qualità architettonica e l’efficienza energetica. Prendere in mano le orrende periferie di questi anni, ristrutturandone servizi e trasporti pubblici. Ripensare al valore della bellezza. Basterà?
Dal presidente del FAI un appello proposta che probabilmente stride con la sostanza degli interessi territoriali che sostengono il nuovo governo regionale, ma tentar non nuoce. Corriere della Sera, 4 marzo 2013 (f.b.)
Roberto Maroni è stato eletto governatore della Lombardia. In quanto nuovo presidente del Fai (Fondo ambiente italiano), mi auguro che il legame che da sempre lega la Regione alla Fondazione possa perdurare e rinforzarsi, sviluppando costruttivamente la dialettica tra le istituzioni. Nell'augurare a Maroni un ottimo lavoro, ricordo alcuni temi che il Fai considera di importanza principale.
Nel programma di Maroni spicca la necessità di limitare il consumo del suolo nella Regione e per ciò ci complimentiamo con lui. È necessario intervenire prontamente e con decisione, cogliendo l'occasione dei piani urbanistici (Pgt) ancora da approvare in circa un terzo dei Comuni lombardi. Dati allarmanti emergono dai primi 753 piani regolatori approvati, secondo i quali nei prossimi anni si consumerebbe il 112% di suolo in più rispetto a quanto consumato nel periodo 1999-2007 da tutti i 1546 Comuni. Possiamo continuare così?
Quando l'Italia era un Paese fondamentalmente agricolo non esisteva il dissesto idrogeologico, che si è manifestato la prima volta con l'alluvione di Firenze. Per mettere in sicurezza il territorio, l'agricoltura deve riprendere a svolgere un ruolo decisivo, soprattutto nelle zone montuose, sovente abbandonate. L'identità lombarda ha radici profonde nell'agricoltura, eppure le terre di questa Regione, tra le più fertili d'Europa, sono occupate progressivamente dal cemento, invase dal bosco, oppure vengono abbandonate. La nutrizione è il tema dell'Expo 2015. La nuova economia della Regione dovrebbe partire proprio da un rilancio dell'agricoltura, secondo una strategia da reinventare.
Il programma elettorale di Maroni tratta anche della mobilità sostenibile. Per raggiungere un tale lodevole obiettivo è necessario impedire alcune autostrade non ancora attuate, come quella Broni-Mortara, che divorerebbe, da sola, almeno 1500 ettari di ottimi terreni. Vanno incrementate le mobilità su ferro e ciclopedonale, mentre va ridotta quella su gomma, anche per migliorare l'aria che respiriamo. Il sistema dei parchi e delle aree protette è un vanto della Lombardia. È necessario garantirne l'integrità ma anche fare di più. Elevando, per esempio, il Parco del Ticino (riconosciuto dall'Unesco nel programma Mab, The Man and the Biosphere) alla dignità di primo parco transnazionale d'Europa. Perché ciò possa avvenire è necessario rinunciare alla costruzione della Terza pista alla Malpensa, che divorerebbe, insieme alle costruzioni annesse, la più grande brughiera del Sud d'Europa. Piuttosto è da rendere utilizzabile la seconda pista, allontanandola quanto è necessario dalla prima.
Per presentare al mondo la Lombardia durante l'Expo, bisogna puntare sul suo splendido patrimonio culturale: dalla Villa Reale di Monza al Sacro Monte di Varese. Il Fai, nato per servire il bene comune, è a disposizione della Regione per contribuire a dare valore e a comunicare questa ricchezza paesaggistica, storica e artistica, tutta da dispiegare e raccontare al Globo, riconoscendone il sistema. Sarebbe di straordinaria importanza se gli assessori, in questo caso quelli che si occuperanno di territorio, agricoltura e cultura, potessero essere scelti in base al merito e all'amore per le ricchezze della Regione accumulatesi nei secoli, abbandonando il metodo triste della spartizione politica.
Infine una raccomandazione di carattere più generale. La nostra Costituzione presuppone il rispetto del Codice per i beni culturali e la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione riservata alle Soprintendenze. Qualsiasi attentato a tale legge e a questa organizzazione, che l'Europa ci invidia, sarebbe un vulnus ai principi primi della nostra convivenza civile e un piegare l'interesse generale a interessi particolarissimi. Su ciò il Fai sarà inflessibile.
Un po' penalizzata dall'approccio limitatamente ricreativo, comunque buona l'idea di rivitalizzare il rapporto organico fra mobilità e territorio. Corriere della Sera, 2 marzo 2013 (f.b.)
Mentre l'alta velocità impazza nel mondo, chi si ricorda più delle vecchie ferrovie locali, quelle dove sovrana era la bassa velocità? Oggi nella penisola sono seimila i chilometri di binari dimenticati. Alcune di quelle linee non hanno mai visto il passaggio di un treno, altre sono state attive solo per pochi anni, altre ancora hanno prestato a lungo il loro dignitoso servizio prima di essere messe in pensione. Ai binari del tempo perduto è dedicata la sesta Giornata delle Ferrovie dimenticate, che si celebra domani in tutta Italia. A promuoverla Co.Mo.Do., una confederazione di associazioni che si battono per la mobilità alternativa, il tempo libero e l'outdoor.
Il reticolo ferroviario dismesso, quasi sempre con la logica poco lungimirante di favorire il mezzo privato a motore, è ormai entrato a far parte del paesaggio, disegnandovi, viadotti, gallerie, binari, caselli, stazioni. Se meno probabile, soprattutto in tempi di crisi, appare la riapertura della rete secondaria, che potrebbe costituire l'indispensabile complemento dell'alta velocità, le associazioni aderenti a Co.Mo.Do., fra cui il Touring, il Club Alpino, Legambiente, Italia nostra e Wwf, chiedono la difesa e la valorizzazione delle linee dismesse. La ferrovia costituisce infatti un'importante testimonianza dell'impegno infrastrutturale per l'unificazione nazionale seguito al 1861. Si può dire che il Paese si sia unificato viaggiando in treno e tanto spesso lo abbia fatto proprio lungo quelle sonnolente linee locali, con i riti di incontri, la contemplazione del paesaggio, la vita di provincia descritti da tanti scrittori, a partire dal Cassola di Ferrovia locale. Una locomotiva, un vecchio viadotto, un binario abbandonato diventano così i segni di quella cultura materiale che ha accompagnato la vita della gente e che non deve andare perduta.
Con un paziente lavoro di schedatura, le decine di associazioni che afferiscono a Co.Mo.Do hanno censito questi manufatti, che si trovano di solito in zone periferiche risparmiate dal degrado ambientale che ha infierito sui centri maggiori, talvolta perfino all'interno di riserve naturali o di aree protette. Queste linee dismesse possono oggi trasformarsi in percorsi ciclistici o in itinerari escursionistici, consentendo di percorrere il paesaggio lontano dalle grandi arterie, immersi in una pace d'altri tempi, incontrando via via le testimonianze di una civiltà del trasporto che non c'è più. E proprio la loro collocazione periferica le rende occasioni di rilancio e occupazione per realtà spesso tagliate fuori dai flussi del turismo tradizionale.
Fra le proposte messe a punto dalle varie associazioni che aderiscono a Co.Mo.Do. per questa sesta Giornata delle Ferrovie dimenticate c'è solo l'imbarazzo della scelta. Vaca Mora era il nome con cui il popolo indicava il trenino a vapore, che si arrampicava dalla pianura veneta fino sull'Altipiano di Asiago. Il tratto tra le stazioni di Cogollo e di Campiello della Rocchette-Asiago era provvisto di cremagliera per far superare al treno un dislivello di quasi 700 metri in poco più di 6 chilometri. Si viaggiava a dieci chilometri all'ora. Oggi nei tratti Rocchette-Arsiero e Campiello-Asiago sull'antico sedime ferroviario sono state ricavate delle piste ciclabili, su cui domani si avventureranno gli escursionisti. Si sale fra paesaggi di montagna, mentre la vista si allarga sulla pianura sottostante. Sulla linea si disputa la Cicloturistica Vaca Mora, un tuffo nel passato, che quest'anno è programmata per il 7-8 settembre.
In Umbria è di scena la Spoleto-Norcia, chiusa nel 1968, che metteva in collegamento la Roma-Ancona con la Valnerina. La chiamavano «la ferrovia svizzera», perché superava i contrafforti appenninici con vertiginosi tratti elicoidali, arditi ponti e gallerie. L'escursione di domani si svolge lungo la prima parte del sedime in fase di recupero, visitando la galleria di Caprareccia, la più lunga del percorso. In Sicilia ancora la mountain bike è protagonista sulla ex-tratta a scartamento ridotto Ciccio Pecora, che va da Giarratana a Chiaramonte Gulfi. Siamo in una zona tra le più remote dell'isola e il percorso si svolge con frequenti passaggi in galleria. Le grandi città sono lontane, il mare si staglia all'orizzonte e i silenzi sono quelli verghiani di Jeli il pastore.

La Repubblica, 22 febbraio 2013
In una campagna elettorale quasi completamente appaltata alla “scienza triste” (l’economia, così definita da Thomas Carlyle), e percorsa da agende talora improponibili, si è in questi giorni concretamente manifestata un’altra proposta programmatica, segno tangibile di una società vitale, capace di indicare con precisione e rigore i modi per affrontare questioni che altrimenti rischiano di rimanere sullo sfondo. Quel che va segnalato, tuttavia, non è soltanto l’esistenza di molte proposte, ma il modo in cui sono state elaborate. Migliaia di persone, centinaia di associazioni si sono impegnate nella preparazione di specifiche proposte di legge, intorno alle quali sono state poi sollecitate l’attenzione e la partecipazione dei cittadini. Più di cinquantamila firme accompagnano una proposta di legge d’iniziativa popolare sul reddito minimo garantito, più di un milione di firme sono state già raccolte in Europa perché l’accesso all’acqua sia riconosciuto come diritto fondamentale della persona.
Non siamo di fronte all’improvvisa emersione di una “cittadinanza attiva”. Scopriamo piuttosto che non è scomparso quel risveglio della società suscitato, tra la fine del 2010 e la prima parte del 2011, da grandi manifestazioni pubbliche che hanno creato le condizioni propizie ai successi della sinistra nelle elezioni amministrative della primavera del 2011 e al risultato strepitoso del referendum del giugno di quell’anno, quando ventisette milioni di persone dissero no al profitto nella gestione dei servizi idrici. Quello spirito è ancora vitale. Ignorato dalle forze politiche ufficiali, produce nuovi frutti e si rivolge fiduciosamente al nuovo Parlamento, mettendo a sua disposizione disegni di legge definiti in ogni dettaglio, che possono essere immediatamente presentati e che possono alimentare discussioni diverse da quelle monocordi e approssimative che ci hanno afflitto negli ultimi anni.
Lo spettro delle proposte è largo, come lo è il mondo dal quale provengono. Non hanno la pretesa della completezza, ma identificano temi ineludibili quando si vogliono affrontare le grandi questioni che abbiamo di fronte. Non nascono da un lavoro coordinato, ma dall’operosa iniziativa di molte reti informali che hanno via via trovato punti di convergenza. Presentate in una conferenza stampa, hanno rivelato un grado sorprendente di coerenza, che nasce dalla consapevolezza che stiamo vivendo un mutamento strutturale profondo, che esige un rinnovamento altrettanto profondo delle categorie politiche e giuridiche. Ed è importante sottolineare che questo lavoro è stato possibile grazie ad una collaborazione stretta tra studiosi e movimenti, che hanno riaperto l’indispensabile canale di comunicazione tra politica e cultura.
Si manifestano così i nessi nuovi tra lavoro e vita, tra diritti delle persone e beni che li rendono effettivi. Si scopre la dimensione del “comune”, che obbliga a ripensare il rapporto tra pubblico e privato. Si guarda a Internet non solo come a una opportunità tecnologica.
Non è un caso che il tema ormai drammatico del lavoro sia affrontato dal punto di vista del reddito minimo garantito. Di questo si parla in modo assai fumoso in alcune tra le “agende” in circolazione. Ora è disponibile una proposta di legge realistica, attenta ai dettagli, frutto di un lavoro che ha coinvolto 170 associazioni e che è stato coordinato dal Bin Italia (Basic economic network).
Vale la pena di aggiungere che l’Italia, in questa come in troppe altre materie, è inadempiente rispetto ad una direttiva europea del 1992, che prevedeva appunto che i paesi dell’Unione si dotassero di meccanismi idonei ad offrire garanzie a chi si trovi in situazioni di disoccupazione o di estrema precarietà. Un principio, questo, ribadito dall’articolo 34 della Carta europea dei diritti fondamentali, dove si parla della necessità di garantire una “esistenza dignitosa”. “Ce lo chiede l’Europa”, dunque. Una espressione, questa, che assume forza normativa quando si tratta di vincoli economici, ma che viene del tutto ignorata quando si tratta di diritti. Si sta consolidando una vera schizofrenia istituzionale, che fa crescere uno “spread” di civiltà che ormai affligge il nostro paese.
Sono proprio i diritti il cuore delle proposte appena illustrate. E dalla loro considerazione si muove per individuare i beni necessari perché l’esistenza, nel suo complesso, sia davvero dignitosa. L’esistenza materiale ci porta all’acqua, all’uso non predatorio del territorio, alla tutela del paesaggio; la costruzione libera della personalità evoca la conoscenza. Si stabilisce così una connessione profonda tra la condizione umana e i diritti fondamentali, che è poi un tratto essenziale della stessa democrazia. Il diritto all’esistenza libera e dignitosa è tutto questo. Reddito, certamente. Ma, insieme e talora soprattutto, condizioni del vivere, dove l’immateriale dà il tono a tutto il resto, determina la qualità stessa della vita.
Si dà così la giusta prospettiva ad una elaborazione che deve uscire dalle strettoie del breve periodo, dalle grettezze culturali. Ma non si perde la concretezza. Per la ricostruzione complessiva del sistema della proprietà – articolato intorno a pubblico, privato, comune – è disponibile un disegno di legge preparato da una Commissione ministeriale, già presentato senza fortuna al Senato nella passata legislatura, ma che ha dato l’avvio a nuove pratiche sociali nell’uso dei beni. E sempre al Senato era presente la proposta di affrontare la questione del rapporto tra diritti e nuove tecnologie, integrando l’articolo 21 della Costituzione con le parole “tutti hanno eguale diritto di accedere alla rete Internet, in condizioni di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale”, ponendo così la premessa per regolare la conoscenza in rete come bene comune. Una linea, questa, già seguita da molti Paesi e adottata in diversi documenti internazionali. A queste si aggiunge un’altra proposta analitica sul testamento biologico, che consentirebbe di affrontare un tema “eticamente sensibile” al riparo da furori ideologici e sgrammaticature giuridiche. Inoltre, subito dopo il voto verrà diffusa una ipotesi di nuova disciplina dell’iniziativa legislativa popolare, che prevede l’obbligo delle Camere di prendere in considerazione le proposte dei cittadini, consentendo a rappresentanti dei firmatari di essere presenti ai lavori nelle commissioni parlamentari.
Volendo azzardare una battuta, o dare un suggerimento, si potrebbe dire che i futuri parlamentari dispongono già di una dote programmatica, o di un pacchetto di proposte “chiavi in mano”, da sfruttare immediatamente. E infatti i promotori dell’iniziativa, simbolicamente riuniti nel Teatro Valle occupato, hanno deciso di inviare per posta elettronica ai nuovi eletti tutti i documenti disponibili.
Ma è avvenuto qualcosa di più. Non vi è stato solo il sommarsi di iniziative diverse. Si sono poste le premesse per continuare un lavoro comune di elaborazione che possa colmare molti vuoti aperti dalla crisi della rappresentanza e dalla perdita di legittimazione derivante dal fatto che stiamo andando a votare con una legge la cui incostituzionalità era stata segnalata dai giudici della Consulta senza che i parlamentari seguissero una indicazione così importante. Sta nascendo una “rete delle reti”, una struttura sociale capace non solo di produrre proposte, ma di scoprire le strade che possono renderle effettive.
Piccola vittoria locale oppure “effetto Shard” che potrebbe estendersi a macchia d'olio su progetti e norme urbanistiche? Un caso da non perdere di vista. Corriere della Sera Milano, 24 febbraio 2013, postilla (f.b.)
Bocciati i parcheggi per il futuro Pala Armani. Tutti, quelli per vip, sportivi, giornalisti, all'interno dell'impianto sottoposto a ricostruzione, e i microparcheggi ipotizzati attorno all'impianto a macchia di leopardo. La zona 8 ha votato all'unanimità la richiesta del Comune di mettere mano al progetto di MilanoSport. C'è da chiedersi come potrà mai il nuovo palazzetto dello sport ottenere senza posti auto l'omologazione per gare di una certa rilevanza (Gold). Il regolamento della federazione di pallacanestro, infatti, richiede parcheggi e percorsi separati per le varie categorie.
L'assessore allo Sport, Chiara Bisconti, che domani incontrerà i cittadini, chiarisce: «Il lavoro non si ferma, ci sono ragioni giuste per rimodernare il palazzetto. Ma il progetto va totalmente cambiato. Ho già fatto una riunione. Non ci saranno macchine nel Lido. Sarà rivisto. Mai nella vita metterò le auto dentro ai vialetti. Iniziamo a studiare ipotesi alternative». Nuovo progetto ma non si torna indietro. Nonostante i residenti propongano «una piscina nelle fondamenta del palazzetto smantellato, come probabilmente era in origine».
Di vero c'è che «il progetto non era mai stato visto in zona e pare neppure dal Comune», spiegano i cittadini dei quartieri Fiera e Qt8. A metterli sul chi vive era stato un blitz datato 27 dicembre 2011. Quando il verde di piazza Stuparich era stato recintato e raso al suolo. «In tre giorni, senza cartelli né spiegazioni, era stato predisposto il cantiere per realizzare una maxi rotonda in piazza Stuparich, hanno abbattuto dodici alberi ad alto fusto, sradicato arbusti, tolto panchine, decorticato terreno coltivo — spiega Alda Damiani —. Tre mesi fa, poi, i lavori sono stati sospesi». E si scopre così che c'è una porzione di cantiere destinata alla maxi rotonda «contesa» dal vicino cantiere del Palalido.
Un fazzolettino di terra che ospita cedri del Libano maestosi che nel progetto viabilistico del Comune ospiterebbe percorsi ciclopedonali ma che è incompatibile con l'altro progetto di studio della viabilità annesso a quello del nuovo Palalido che indica questa stessa area come «in fase di acquisizione». Insomma, un pasticciaccio. Enrico Fedrighini, il verde che ha portato in zona 8 la proposta di delibera contro i grandi e piccoli nuovi parcheggi al Palalido, spiega: «I posti per vip richiedono la demolizione di camerini, spogliatoi e della terrazza della piscina. Il nuovo Palalido è nato male e progettato peggio».
Postilla
Quello dell'accessibilità in auto alle funzioni di qualche rilevanza economica è un tema che, almeno dagli anni '60 del '900, ha finito per determinare localizzazioni, trasformazioni di interi quartieri, processi di degrado incredibili o di dispersione insediativa, di fronte al dogma del veicolo privato come motore immobile dell'organizzazione del territorio. Poi a qualcuno, di fronte al cappio di svincoli piazzali bretelle deserti d'asfalto magari vuoti per settimane, è venuto in mente di gridare: il re è nudo! Ovvero, che accessibilità non significa diritto a andarci con le sacre quattro ruote di famiglia.. Adesso vediamo se, come per l'altro diritto di famiglia, la costituzione formale (le regole) saprà incorporare in fretta l'innovazione: a questo servono i casi singoli locali, a diventare un caso (f.b.)
Su un giornale di centrodestra, una recensione abbastanza comprensibilmente acritica a un importante studio, di area sostanzialmente neo liberista sulla città contemporanea, da leggere con le molle. Il Giornale, 23 febbraio 2013, postilla (f.b.)
Uno dei mantra della post-modernità è stato ben riassunto dal cantautore Giovanni Lindo Ferretti. Nella sua canzone Barbaro salmodia con voce inquietante: «La civiltà-città si insinua in me... La civiltà-città mi allergica...». È infatti dai tempi di Henry David Thoreau e il suo Walden, ovvero La vita nei boschi (dato alle stampe nel lontano 1854) che una fetta sempre più larga del ceto intellettuale tuona contro l'urbanesimo. Non parliamo poi degli ultimi decenni, in cui impazzano utopie piene di decrescite felici e di precognizioni terroristiche degli eco-disastri a venire. La città è divenuta il simbolo del male/inquinamento da cui fuggire a gambe levate. Allora è con un certo sollievo che ci si imbatte nel saggio di Edward Glaeser Il trionfo della città (Bompiani, pagg. 586, euro 23).
Infatti questo economista della Harvard University, specializzato nello studio e nello sviluppo dei poli urbani, prova a riportare il dibattito e la questione ai fatti, e ai numeri. E i fatti e i numeri, tanto per cambiare, non assomigliano affatto a quelli propagandati dalla vulgata. Il punto di partenza alla fine è semplice. Riferito nella formulazione più terra terra, non ce ne voglia Glaeser, potrebbe ridursi a questo: «Ma possibile che milioni e milioni di esseri umani che per secoli e secoli hanno costruito città e spazi urbani fossero degli imbecilli animati dal solo scopo di vivere male e distruggere il pianeta?».
La risposta grazie al cielo è no. Glaeser esamina tutti i difetti delle città antiche e moderne a partire dai loro quartieri più degradati, ma dati alla mano dimostra che, come milioni di uomini hanno sempre intuito, si sta meglio intra moenia che extra moenia. Esistono slum orribili? È vero, ma «La povertà urbana non dovrebbe essere giudicata in rapporto alla ricchezza urbana, ma in rapporto alla povertà rurale. Le bindonville di Rio de Janeiro possono sembrare terribili se confrontate con i prosperi sobborghi di Chicago, ma il tasso di povertà di Rio è di gran lunga inferiore a quello presente nel nord est brasiliano rurale».
Altro dato statistico inoppugnabile è che nelle nazioni dove più della metà della popolazione vive in aree urbane, il 30% degli individui sostiene di essere molto contento. Nelle nazioni prevalentemente agricole il tasso di felicità scende al 25%. Un dato che diventa ancor più forte nei Paesi in via di sviluppo. Alla faccia di Gandhi - il quale sosteneva che «la vera India si trova non nelle poche città, ma nei suoi 700mila villaggi» - Glaeser ha studiato con attenzione lo sviluppo di Bangalore, polo creativo che esattamente come le città italiane del Rinascimento riunisce un numero di cervelli e una creatività senza pari, tutta dedicata al software. Persino nel mondo senza distanze dei bit e della rete la vicinanza fisica delle persone in luoghi come Bangalore resta un dato indispensabile: «La vicinanza degli individui nella realtà urbana favorisce il contatto infraculturale riducendo la drammaticità della comunicazione»
Vabbè direte, però le città in generale restano brutte e sporche... O per citare Henry Monnier: «Le città dovrebbero essere costruite in campagna, dove l'aria è più salubre». I dati scientifici sulla salute della popolazione ci dicono però che i newyorkesi sono i più sani tra gli americani. E che il tasso di suicidi tra i giovani che vivono nei centri urbani sono molto più bassi dei casi di suicidio dei loro coetanei che abitano nelle aree rurali. E poi si arriva alla famosa fingerprint della Co2. E qui, dati alla mano, chi vive in campagna e si sposta molto con l'auto per andare al lavoro, o deve riscaldare la sua vecchia casa colonica, finisce per impattare molto di più rispetto a chi sta in un appartamento sopra la fermata del tram. «Il consumo annuale di carburante per famiglia scende di 400 litri quando il numero di residenti per chilometro quadrato raddoppia». Alla fin fine, niente sembra essere più verde del manto di asfalto di una metropoli.
Certo la metropoli richiede anche progettualità e sforzo comune, non cresce da sola. E anche in questo campo Glaeser, che è anche capace di una prosa davvero accattivante, ha le idee chiare. «A fare le città sono le persone». Conta di più sostenere i cittadini e i loro bisogni che costruire costosi edifici pubblici. Conta più una buona rete idrica di una piazza monumentale. Funziona meglio una buona rete viaria che la costruzione di troppi edifici residenziali col giardinetto... Tanto da sentenziare: «Io prevedo che nel lungo periodo il tentativo novecentesco di creare un modello di vita suburbana apparirà più un'aberrazione che un nuovo inizio». Insomma aveva ragione il filosofo italiano Giovanni Botero: «Città s'addimanda una radunanza d'uomini per vivere insieme felicemente. E grandezza di città si chiama non lo spazio del sito o il giro delle mura ma la fortuna degli abitanti e la potenza loro». È il caso che gli urbanisti e i politici ci meditino, che lo facciano gli ecologisti radicali forse è troppo.
Postilla
Il vero problema è che Edward Glaeser si avvicina al tema della città con una prospettiva che più conservatrice non si può, da economista liberale qual'è, e per giunta giovane miracolato, con quel più di arroganza e sbrigatività che li caratterizza. Ovvero dotato di strumenti metodologicamente solidi e assai più legittimati della media per sviluppare i propri ragionamenti, ma sulla base di categorie assai schematiche per chi si occupa “davvero” di città in quanto forma complessa di aggregazione umana/ambientale. Per fare un piccolissimo esempio: quando Glaeser compila alcune schede significative di casi di città globali vincenti, concede questo privilegio anche alla nostra Milano, ma guardando ai suoi riferimenti bibliografici si scopre che ha ripreso tutto quanto da un'intervista di un operatore della moda rilasciata a un periodico di New York. Ma non voglio farla lunga, e il riferimento è al sito Mall, sia con una quantità di critiche a Glaeser, che con parecchi testi suoi tra cui proprio un estratto dal libro recensito, dedicato al grattacielo, che avevo tradotto a suo tempo (f.b.)
Davvero surreale a modo suo, che quasi tutta la politica tanto attenta ai “mercati” sia così praticamente sorda a una palese indicazione di mercato. La Repubblica, 23 febbraio 2013, postilla (f.b.)
«Ogni volta che vedo un adulto in bicicletta penso che per il genere umano ci sia ancora speranza », diceva lo scrittore inglese Herbert George Wells. E forse un po’ di speranza c’è davvero. In bilico tra hobby e sport, è adatta a tutte le età, a ogni livello fisico e si usa con la frequenza che si preferisce. Ecologica, pratica e soprattutto economica. Sarà per il prezzo impossibile della benzina, sarà per un maggiore rispetto verso madre natura, fatto sta la bici ha superato l’auto. Stando ai dati del Censis, infatti, nel 2011 sono state 1.748.143 le vetture immatricolate, contro le 1.750.000 bici vendute.
Uno scarto minimo, ma significativo. Qualcosa sta cambiando. C’è una rivoluzione positiva. Le più acquistate sono le “city bike”, perfette per gli spostamenti urbani. Soprattutto nella versione pieghevole. Facili, leggere (dai 9 ai 12,5 chili), le bici formato tascabile sono il must del momento. Le marche sono tante. Ma la sfida è tra le due regine del mercato, la Brompton e la Dahon, che solo da noi vende più di 2500 pezzi l’anno. Piacciono perché permettono di spostarsi rapidamente. Si aprono e chiudono in pochi gesti. E si trasportano in una comoda borsa. Entrano in macchina e sui mezzi pubblici, non ingombrano in ufficio o a casa. Una vera mania.
Ora però a fargli concorrenza c’è l’ultimo fenomeno su due ruote: la bici “a scatto fisso”. Arrivata in Italia dagli Stati Uniti, non ha freni al manubrio, si rallenta pedalando all’indietro. Tra i giovani è di gran tendenza perché costa poco, e per l’allettante possibilità di farsene una riciclando la vecchia bici abbandonata in cantina. Con un restyling creativo e i pezzi giusti, rinasce come mezzo di design dal fascino d’antan. Tutti in sella insomma. Si pedala per andare al lavoro, per fare una gita e spostarsi in città. I produttori ne fanno di elettriche, a tre ruote, dal look rétro, griffate dalle case di moda o hi-tech. Per farsi un’idea sulle ultime novità, c’è il Florence Bike Festival (Bicifi, 1-3 marzo, bicifi.it) alla Fortezza da Basso, un viaggio tra accessori, associazioni, volti e modelli, con la possibilità di provare le ultime bike su sentieri particolari. E il 2 marzo ci si mette alla prova con il Granfondo, su quella che sarà la pista dei Mondiali: si pedala dalla Fortezza, attraverso il centro storico e poi sulle colline fino a Radda in Chianti, per tornare a Firenze. Due i percorsi: 130 chilometri per i più allenati e 80 per gli altri.
Troppa fatica? Con il motto “Il ciclismo siamo noi”, in tv è appena nato Bike Channel (canale 237 di Sky) il primo canale dedicato agli appassionati di ciclismo. Trasmette filmati storici, gare, documentari e tendenze dal mondo della bicicletta. “Simbolo”, per dirla con Marc Augè, “di un futuro ecologico per la città di domani e di un’utopia urbana in grado di riconciliare la società con se stessa”. Peccato però che quel futuro non sia ancora arrivato. E che la carenza di piste ciclabili trasformi le città italiane in un inferno per i ciclisti.
Postilla
Ricapitoliamo: c'è una gigantesca spinta di consumo, che potrebbe spingere innovazione, stimolarla in tantissimi altri settori (le nuove tecnologie della cosiddetta smart city tanto per fare un esempio), ed è così solida da affrontare quotidianamente un vero e proprio inferno metropolitano, oltre che un piccolo salasso di portafoglio in termini di rapporto reale fra spesa e livello dei prodotti/servizi complessivi. E la domanda è: perché nessuno neppure prova a sfruttare questa spinta in modo intelligente, come fondamento di una politica urbana, che poi è politica tout court? Ormai lo dicono anche i costruttori che bisogna passare dalle grandi opere alla rete delle piccole, al coordinamento, insomma implicitamente dal progetto al piano. Invece, tutti zitti, a imprecare contro l'antipolitica che monta: non è che ci si perde qualcosa per strada? (f.b.)

L'Iniziativa dei cittadini europei (Ice) sull'acqua pubblica - presentata alcuni mesi fa dal sindacato europeo dei servizi pubblici (Epsu) - è in dirittura d'arrivo. È stata infatti superata la soglia di un milione e 100 mila firme raccolte in Europa. Ma l'Ice non è ancora valida, in quanto la maggior parte delle firme, più di 900 mila, sono state raccolte nella sola Germania ed è necessario, oltre a raccogliere almeno un milione di firme, superare soglie minime, rapportate alla popolazione di ciascun Paese, in almeno sette Paesi europei. Finora questa soglia è stata passata in Germania, Austria e Belgio, mentre mancano a quest'appuntamento gli altri Paesi, compreso il nostro. In Italia finora sono state raccolte circa 25 mila firme complessivamente, sommando sia quelle on-line che le cartacee, e ci manca ancora un buon pezzo di strada per arrivare alla nostra soglia minima, fissata in 55 mila adesioni e, ancor più, alle 130 mila che abbiamo individuato come nostro obiettivo per contribuire al risultato da raggiungere in Europa.
Abbiamo ancora tempo davanti a noi, perché si può firmare fino alla fine del mese di ottobre: ciò non toglie che occorre dare una svolta al nostro impegno, mettersi alle spalle una certa sottovalutazione che abbiamo avuto rispetto a quest'iniziativa e alla sua efficacia e darsi il traguardo, più che ragionevole, di arrivare a passare le 55 mila firme, primo nostro obiettivo, entro la fine del mese di marzo. Sarebbe un bel modo di festeggiare la Giornata mondiale dell'acqua, che, come tutti gli anni, si svolgerà il 22 marzo.
Un bene comune continentale
Il primo punto di valore dell'iniziativa dell'Ice per l'acqua pubblica in Europa sta - insieme agli effetti concreti che essa può produrre - nel fatto che con essa si può cominciare a costruire un vero movimento per l'acqua pubblica su base continentale. In Europa, infatti, negli ultimi anni ci sono state molte iniziative attorno all'idea che l'acqua sia un bene comune da sottrarre alle logiche del mercato e che la gestione del servizio idrico debba rimanere in mano pubblica: basta pensare alla vittoria referendaria nel nostro Paese nel giugno 2011, alla ripubblicizzazione del servizio idrico a Parigi nel 2010 o ai referendum svoltosi a Berlino nel 2011 e a quello autogestito di Madrid del 2012, entrambi in direzione della ripubblicizzazione del servizio idrico. Ma non c'è dubbio che si avverte la mancanza di un soggetto unitario, capace di mettere insieme tutte le realtà che lavorano per l'acqua pubblica e in grado di farsi portatore di queste istanze nei confronti delle istituzioni e degli organi di governo dell'Unione europea, in un quadro in cui - soprattutto da parte di questi ultimi - continuano ad essere forti le intenzioni di privatizzazione dei servizi pubblici, e anche di quello idrico. Ebbene, la buona riuscita dell'Ice, a partire dal fatto di raccogliere ben di più del milione di firme necessarie, significa anche costruire le gambe per costruire effettivamente la "Rete europea dei movimenti per l'acqua", ipotesi avanzata già da tempo e a più riprese (da ultimo a Firenze nel novembre scorso), ma che finora è stata più confinata nel campo delle buone intenzioni che in quello della realizzazione concreta. Penso alla Rete europea dei movimenti per l'acqua come ad un luogo reale di discussione, ma anche di iniziativa e mobilitazione che abbia come orizzonte la possibilità di produrre un'inversione di tendenza nelle politiche europee sull'acqua e sul servizio idrico, anche in termini paradigmatici rispetto all'insieme dei servizi pubblici. Da questo punto di vista, fa ben sperare il grande successo che ha avuto la raccolta delle firme sull'Ice per l'acqua pubblica in Germania e in Austria: come ci raccontavano i sindacalisti tedeschi alcuni giorni fa, lì la raccolta delle firme è stata sul serio il prodotto di una mobilitazione popolare, che è andata al di là della stessa iniziativa sindacale, e ha coinvolto un gran numero di organizzazioni e associazioni, nonché l'attivazione di forze ed energie presenti nella società. Un po', insomma, com'è stato per i referendum del 2011 qui da noi.
Il modello sociale europeo
Ci sono poi almeno altre due questioni rilevanti che l'iniziativa dell'Ice sull'acqua pubblica evoca. La prima si riferisce al tema per cui parlare di acqua pubblica significa parlare del modello sociale europeo, contribuire a mettere in campo un'idea alternativa alle politiche recessive e liberiste che hanno dominato gli orientamenti dell'Unione europea a trazione tedesca che abbiamo conosciuto negli ultimi anni. Si fa un gran parlare, anche nella campagna elettorale nel nostro Paese, di quella che sarebbe una distinzione fondamentale delle forze in campo tra europeisti e populisti, ma ci si dimentica troppo facilmente che, anche in Europa, dentro la crisi, è in corso una scontro tra chi propone le ricette liberiste, basate su un'inesistente capacità autoregolatoria del mercato, e chi avanza una prospettiva per cui definanziarizzazione dell'economia e affermazione dei beni comuni, dei diritti sociali e del lavoro costituiscono gli assi di riferimento per confermare e aggiornare il modello sociale europeo. La battaglia per l'acqua bene comune e per la gestione pubblica del servizio idrico si inscrive in questo secondo campo e può dare un impulso significativo a farlo avanzare, anche innovandone i contenuti. L'altro tema è quello della democrazia: per quanto imperfetto, lo strumento dell'Ice è l'unico attualmente esistente che può far sentire direttamente la voce dei lavoratori e dei cittadini in Europa, che consente la promozione di un'iniziativa "dal basso" in una realtà - quella europea - in cui, per usare un eufemismo, c'è un grave problema di legittimazione democratica delle scelte che vengono prese dagli organi di governo dell'Unione europea. Anche da questo punto di vista, non si può non vedere come la questione della democrazia, e di sue forme nuove e più avanzate, si lega strettamente ed è parte essenziale di un progetto che vuole sconfiggere le impostazioni neoliberiste e costruire un'idea alternativa di Europa per uscire dalla crisi in cui queste ultime l'hanno cacciata.
Il referendum annacquato
Infine, non mi è possibile chiudere queste brevi riflessioni senza accennare ad altre due questioni assolutamente rilevanti e che hanno a che fare anche con la raccolta delle firme per l'Ice sull'acqua pubblica. Intanto, continua ad essere molto aspro lo scontro nel nostro Paese relativamente al rispetto dell'esito referendario sull'acqua pubblica del giugno 2011. Siamo in presenza di un nuovo pesante attacco, che vorrebbe completamente stravolgere il secondo referendum sull'acqua, quello che ha abrogato la possibilità di far profitti sul servizio idrico, proveniente dall'Authority dell'energia elettrica e del gas, che, con l'approvazione del nuovo metodo tariffario, rende evidente il fatto di essere sostanzialmente portatrice degli interessi dei soggetti gestori (del resto, sono loro che ne finanziano il funzionamento!). È evidente che questa questione non riguarda solo il movimento per l'acqua, ma investe tutto quell'ampio schieramento sociale e politico che ha sostenuto i referendum del 2011, così come è chiaro che un forte risultato di raccolta delle firme per l'Ice nel nostro Paese significa, anche per questa via, riaffermare che la volontà popolare non può essere messa in discussione.
Un sindacato transnazionale
Da ultimo, una buona riuscita della raccolta delle firme per l'Ice significa anche rafforzare un processo per cui il movimento sindacale possa iniziare a pensarsi e a lavorare come reale soggetto sovranazionale e in grado di intervenire realmente nella dimensione europea. Dopo l'iniziativa del sindacato europeo del 14 novembre scorso contro le politiche di austerità, che ha visto una mobilitazione comune e diffusa nei vari Paesi europei, c'è bisogno di compiere un ulteriore salto di qualità e la costruzione di iniziative comuni e di dimensione europea, com'è l'Ice promossa dal sindacato europeo dei servizi pubblici, può essere un ulteriore utile passo avanti in quella direzione.
Insomma, ci sono tante buone ragioni per sostenere e firmare l'Ice per l'acqua pubblica: facciamolo rapidamente e moltiplichiamo l'impegno per raggiungere anche in Italia il risultato che ci siamo prefissi.
La protagonista delle iniziative di "perUnaltracittà – lista di cittadinanza" ci invia il suo intervento all'assemblea di ReTe (Rete dei Comitati per la difesa del territorio del 3 febbraio a Firenze. Una utile ed essenziale analisi di una città mal governata
Molte sono le vertenze nate negli ultimi tempi a Firenze in difesa del territorio, inteso come bene collettivo e non come proprietà su cui ha voce in capitolo solo il governo di turno e i grandi portatori di interessi che a lui fanno riferimento. Si tratta di realtà di base che contrastano per lo più progetti di trasformazione calati dall'alto e non rispondenti ai bisogni della popolazione, e che quasi sempre propongono alternative nate dalle esigenze - e perché no dai desideri - di chi quel territorio lo abita. Tutte queste vertenze nascono all'interno di un quadro generale che corrisponde a una modalità di governo del territorio. E ci sono precisi passaggi anche procedurali che rivelano più di altri questa impostazione.
Uno è
Il Piano strutturale, approvato in grande fretta nel giugno del 2011, poi sbandierato in tutta Italia nella campagna elettorale per le primarie come l'unico “a volumi zero”. Su questo il gruppo urbanistica di perUnaltracittà ha animato un dibattito cittadino e prodotto anche un opuscolo (qualche copia ancora la abbiamo) e qui non mi addentro nei rilievi specifici. Basti dire che il caposaldo della narrazione ufficiale del PS fiorentino si svuota di significato quando vediamo che i famosi volumi zero si devono intendere rispetto al residuo del vecchio P.R.G. e anche alle aree già convenzionate e non ancora costruite, come Castello e Novoli, per un totale di circa 2 milioni di metri cubi. Che non è zero.
Ma, si aggiunga, se anche fosse rispettato questo lodevole principio, coi volumi zero non si fa pianificazione urbanistica. Ci vuole un'idea di città le cui trasformazioni devono partire dai bisogni e fors'anche dalla vocazione di un territorio. Il che è esattamente quello che manca.
Il Piano eredita le carentissime indagini conoscitive dal vecchio Piano di Domenici mai approvato e le cui insufficienze erano state sottolineate dalla stessa RT; su questa base deficitaria si fonda, per poi non assolvere al suo principale compito: non esprime un'idea di città, non indica una direzione in cui la Firenze di domani debba muoversi. Rinuncia a dare indicazioni per la localizzazione delle funzioni da insediare, non tratta nodi essenziali come il centro storico o le colline, glissa su definizioni che sarebbero essenziali come quelle di invarianti e statuto del territorio, rimandando le decisioni al Regolamento Urbanistico. E invece di nuovo c'è molto bisogno, in una città in cui si è costruito tanto e male e che ha sacrificato altre funzioni al solo turismo e alla moda.
Il Regolamento Urbanistico, a cui quasi tutto è demandato, lo attendiamo ancora dalla fine del 2010. Proprio in questi giorni l'argomento è balzato all'attenzione delle cronache cittadine con anticipazioni fatte alla stampa dall'assessore all'urbanistica. Quel che abbiamo letto ci lascia esterrefatti. L'assessorato ha intenzione di chiedere ai privati che possiedono superfici di 2000 o più mq di fare proposte per una nuova destinazione. Da notare che esistono altre modalità - messe a punto dalla Regione – per "rigenerare" il tessuto urbano degradato, che garantiscono trasparenza, qualità ed efficacia (a LR 40/2011)
Invece si arriva al paradosso che per i volumi privati si chiedono suggerimenti ai proprietari, mentre per i volumi pubblici non c'è neanche uno staccio di proposta. Nessun progetto per il recupero di quel milione di mq dei famosi contenitori dismessi o in dismissione, cioè edifici da recuperare come il vecchio Tribunale, il Panificio militare, l'area ex Gover alle Piagge, le varie caserme dismesse per i quali sarebbe stato invece essenziale capire l'uso e la destinazione, perché il riuso ci piace molto, ma si dovrebbe partire dall'analisi dei bisogni di una città, e non dalle proposte di riutilizzo di contenitori prestigiosi per collocare funzioni remunerative, ma di cui la città non ha alcuna necessità, come le due torri di 14 piani adibite a appartamenti previste alla ex manifattura Tabacchi.
3. Caratteristica del governo di questo territorio è l'assenza di Piani piani di settore e particolareggiati entro cui inserire scelte specifiche. Manca un Piano del Centro storico, un Piano generale del traffico urbano, un Piano della sosta, un Piano turistico aggiornato della città dove ancora vige quello del 1999, tanto per fare qualche esempio.
Così è possibile in piena zona storica concedere all'Hotel Baglioni una deroga e far aggiungere una parte che supera di 6 metri il limite dell' altezza massima prescritta (20 metri). E anche una sistemazione delle piazze che non tiene presente l'assetto storico culturale e ripete tristi moduli ripetuti da S.M. Novella a piazza Annigoni.
E' possibile procede a pedonalizzare zone specifiche senza studiare gli effetti che queste scelte avranno sulla mobilità pubblica e privata. E' possibile progettare parcheggi magari interrati e non destinati ai residenti a macchia di leopardo senza un'analisi complessiva della funzionalità della mobilità complessiva. E' possibile permettere, come è avvenuto nel giugno 2012, l'allargamento degli alberghi anche a locali ad uso residenziale, cacciando sempre di più la residenza originaria dal centro storico di una città pervicacemente votata al solo turismo. Una città frammentata.
5. Nel frattempo, l'Amministrazione ha continuato, come la precedente, a procedere a colpi di varianti urbanistiche al vecchio Piano Regolatore Generale.
E sono addirittura 13 le varianti che la Giunta ha proposto al Consiglio di approvare con un unico atto deliberativo nel maggio del 2012, molte delle quali di grande rilievo urbanistico e sociale.
Con tanti saluti al concetto stesso di pianificazione. Inserire immobili di proprietà comunale in bilancio, con contestuale cambio di destinazione d'uso grazie a varianti urbanistiche che sono una pronta applicazione del decreto "Salva Italia", sottrae a qualsiasi valutazione complessiva una parte importante di pianificazione del territorio. Ogni operazione viene considerata a sé, senza che si tenga conto di equilibri urbani e distribuzione complessiva di funzioni, attivando scorciatoie che rappresentano la negazione del concetto stesso di urbanistica.
Invece di affannarsi a svendere immobili per far cassa, si dovrebbe completare l'analisi di quello che c'è e di quello di cui c'è bisogno, approfittare per correggere e mettere meglio a fuoco molte scelte, come legittimamente richiesto da molteplici componenti della città. E soprattutto non si dovrebbe depauperare il patrimonio della collettività per un presunto guadagno effimero, riducendo gli spazi a uso pubblico e impoverendo il tessuto cittadino di valori ambientali e sociali.
A nulla sono valse le proteste di cittadini, comitati e realtà sociali perché si stralciasse dalla delibera collegata al bilancio la villa di Rusciano, l'ex scuola via Villamagna, il Meccanotessile, la Mercafir, Villa Demidoff e Sant'Agnese.
6. Sulla mobilità brilla l'affaire tramvia: dopo le promesse di cambiamento dei tracciati tramviari rilasciate in campagna elettorale dal candidato Renzi e dopo due anni e mezzo trascorsi inutilmente, vengono oggi riesumati gli stessi tracciati tramviari con gli stessi errori del progetto iniziale degli anni '90.
Eppure i cittadini si sono fatti molto sentire anche su questo e i punti critici delle linee 2 e 3 della tramvia sono ammessi anche dall'amministrazione comunale. Le alternative per una mobilità pubblica sempre su ferro sono state indicate: la tramvia 2 è sostituibile con la linea di metrotreno da Porta a Prato/Leopolda-Puccini-Cascine fino alle Piagge. La linea 3 è evitabile, con grande risparmio di risorse e di consumo di suolo, progettando il metrotreno con le fermate Rifredi-Dalmazia-Macelli-Santa Maria Novella sull'attuale sede ferroviaria. Ma nessun ascolto è stato dato.
7. Del resto, va sottolineato l'uso che viene fatto del concetto di partecipazione. A partire dal presunto percorso partecipativo sul Piano strutturale, ai focus group su interventi specifici (si veda piazza del Carmine e piazza Brunelleschi) che non hanno prodotto modifiche al progetto originario dell'Amministrazione.
Da processi partecipativi, veri o presunti, sono comunque stati esclusi tutti temi più caldi e le decisioni di fondo per il futuro ambientale della città. Si è forse potuto avere un confronto sull'apertura di un inceneritore a San Donnino? O sul famigerato tunnel Tav sotto Firenze? Sulla ripubblicizzazione del servizio idrico? Sulla vendita di Ataf ? Sul futuro di San Salvi? Sull'emergenza abitativa che riguarda fasce deboli di cittadini che non potranno certo comprarsi gli appartamenti di pregio che si ipotizzano alla Manifattura Tabacchi? E il futuro di Castello e della Piana chi lo decide e come?
Insomma i nodi cruciali della città o sono già stati decisi e non messi in discussione anche se c'è un forte dissenso, o sono rimasti nel vago.
8. E invece cosa succede realmente in questa città? Oltre i tecnicismi e al di là delle retoriche renziane, quale impronta si sta lasciando nella storia di Firenze? Succede che le logiche liberiste ne disegnano giorno per giorno contorni e prospettive.
Da una parte c'è la negazione della città pubblica, luogo delle dinamiche sociali della cittadinanza, delle relazioni, dei sogni e dei bisogni di fiorentini, visitatori, migranti, di nuove/i e vecchi/e cittadine/i Dall'altra l'enfasi (e l'investimento) sulla città vetrina, cartolina patinata di un prodotto da offrire sul mercato del turismo ricco. Ecco allora la selvaggia privatizzazione del servizio di trasporto pubblico con 200 "esuberi", la conferma acritica della gestione dell'acqua con ACEA ecc.e del progetto di tunnel dell'AV. Ecco la svendita del patrimonio pubblico, in nome della ricerca di liquidità, ma anche dell'assunto ormai clamorosamente smentito che privato è bello, e così parallelamente si sgomberano le esperienze dal basso più interessanti e innovative come i Conciatori. O si ignorano le problematiche delle periferie, le emergenze della casa o dei richiedenti asilo, mentre si aumenta l'indebitamento per un'urbanistica di lusso (come per via Tornabuoni). E si riduce la scena culturale a un affare per fondazioni e consigli di amministrazione.
Mentre le esperienze più vive delle città contemporanee europee, pur non senza difficoltà e contraddizioni, vanno nella direzione della valorizzazione delle diversità e delle esperienze, della vivacità culturale e del protagonismo sociale, la città del sindaco giovane e brillante si sta incamminando nella sterile direzione della città-prodotto, omologata a standard che stanno alla modernità come McDonald sta al cibo, una città che si troverà domani impoverita delle sue risorse più vitali.
L'hanno capito bene le realtà sociali che si stanno impegnando per una città diversa e che hanno cominciato a connettersi in battaglie comuni a dispetto della diversa origine e natura. Ben 17 di queste realtà attive in città e nella Piana Firenze-Prato-Pistoia si sono collegate in un laboratorio territoriale che abbiamo chiamato “Spazi liberati”. La proposta di Spazi liberati si fonda sulla pratica diretta sul territorio, ovvero sulle lotte e sulle campagne che negli ultimi anni hanno visto “fare politica” dal basso milioni di persone stanche di un sistema politico forte con i deboli e debole con i forti: dalle campagne referendarie per l’acqua pubblica e contro il nucleare a quelle sui rifiuti zero; dalla finanza al servizio della persona, al contrasto alla privatizzazione di sanità, trasporto pubblico locale e servizi pubblici; dal rispetto dei diritti dei lavoratori, dei detenuti, dei migranti; dalla manutenzione del territorio contro la cementificazione e il contrasto alle grandi opere; le occupazioni di case e palazzi abbandonati in mano alla speculazione; la denuncia degli sprechi, del clientelismo e della corruzione. Tutte campagne che hanno come orizzonte comune, in una pratica militante, la costruzione di un' alternativa alla città liberista, e i cui protagonisti ci paice qui riportare: Abitanti a piede libero (PT), Associazione Pantagruel (FI), Comitato No Tunnel Tav (FI), Comitato contro la terza corsia Firenze-Mare, Comitato contro la privatizzazione di Ataf (FI), Comitato San Salvi chi può (FI), Comunità delle Piagge (FI), Coordinamento comitati Ato Toscana centro, Fondo etico e sociale delle Piagge (FI), Forum toscano dei movimenti dell’acqua, Fuori binario (FI), l’Altracittà – giornale della periferia (FI), Lo Sbertoliano (PT), Mag Firenze, Medicina democratica (FI), Movimento lotta per la casa (FI), perUnaltracittà – lista di cittadinanza (FI).
Incultura, speculazione, malgoverno dei più preziosi beni culturali collaborano per tagliare a fettine e divorare storia e bellezza. Il Fatto quotidiano online, 18 febbraio 2013
“La morte dell’Appia Antica è lenta e graduale. Come quella di un verme che un bambino crudele taglia a fette, cominciando dalla coda”. Così scriveva Antonio Cederna, archeologo, urbanista, ambientalista e giornalista. Che fece della tutela dell’Appia antica, che gli valsero l’appellativo di “appiomane”, uno dei suoi cavalli di battaglia. Una battaglia a lungo se non solitaria, certamente non pienamente condivisa con la schiera di tutti gli amministratori dei territori attraversati dal passaggio della strada.
Una battaglia che sembrerebbe avere, almeno parzialmente, fine con esiti positivi, dopo l’accordo tra l’Assessorato all’Urbanistica del Comune di Roma, la Soprintendenza speciale ai beni archeologici di Roma e quella ai beni architettonici e paesaggistici. Almeno per quanto riguarda il settore compreso nel comune di Roma. A partire da ora ogni richiesta di condono dopo essere giunta all’ufficio abusivismo edilizio, sarà inviata in doppia copia ai due uffici del Mibac. I quali avranno 60 giorni per valutare ed esprimere un parere. Vincolante. Così le 438 richieste di condono in attesa di essere evase dovranno passare per questi controlli. Insomma si dà avvio ad un’iniziativa, istituzionale, che dovrebbe assicurare una vita nuova alla strada romana. Un’iniziativa felice. Ma che tardivamente affronta una questione antica. Che sana solo in esigua parte i guasti recenti. Non intervenendo sul pregresso.
Uscendo da Roma il disastro si evidenzia. La vista di quel che è accaduto ai diversi tratti il miglior modo per rendersi conto dell’irragionevole disinteresse. Prolungato, per decenni. L’Appia antica ha subito infinite manomissioni, di diversa entità. Inimmaginabili per un monumento della sua importanza. Il simbolo di una ricchissima casistica di infrastrutture che hanno consentito di collegare città e territori. Dell’Italia e del mondo antico. L’Appia antica costituisce (o dovrebbe costituire) per il Lazio e la Campania quel che la Tour Eiffel significa per Parigi (e la Francia). Oppure la Porta di Brandeburgo per Berlino. Ancora, il Partenone per Atene. In quali di questi casi ci si è così tenacemente disinteressati alla tutela e valorizzazione di quelle strutture? In quali di questi casi si è provveduto a derubricare a questioni sostanzialmente marginali quei simboli?
Mai, altrove, è accaduto quel che in Italia ha travolto la via Appia antica. Tratti obliterati da capannoni e abitazioni private. Ancora più che disconnessi dalle lavorazioni agricole. Nella campagna romana. Nei dintorni di Lanuvio. Come in quelli di Genzano e di Velletri. Ponti di attraversamento di corsi d’acqua che sono in gran parte sommersi da terra e immondizie. Come accade a quelli sul Fosso di Mele e a quelli sui Fossi di Civitana e delle Mole, a Velletri. Una via di penetrazione che avrebbe potuto (e potrebbe) essere trasformata in un asse per raggiungere e visitare i resti antichi che ancora si conservano. La via Appia, la bisettrice di un grande parco diffuso. L’occasione per coniugare sport e turismo culturale. Evidentemente un’occasione mancata.
Come dimostrano i tratti superstiti. Pochi e, spesso, abbastanza maltenuti. Come quello immediatamente a sud dell’abitato di Genzano, che dall’altezza della via Appia Nuova raggiunge il ponte della Ferrovia. Accessibile. Oppure quello nella campagna di Lanuvio, all’altezza del Ponte di Fosso Oscuro. Di più difficile accesso, perché all’interno di una proprietà privata. Ancora, quello ormai in territorio di Velletri, a Colle Ottone. Coincidente con la strada moderna. Come lasciano immaginare i tratti nei quali rimangono le opere di sostruzione alla strada. Alla discesa di via della Stella ad Ariccia o a San Gennaro, tra Lanuvio e Genzano. In entrambi i casi coincidenti con la via moderna. Senza contare il grande viadotto aricino sul quale transitano ancora i mezzi di ogni tipo. Casi differenti uniti da un’unica sorte. Quella di rimanere, di esserci, quasi loro malgrado. Quasi sempre privi di qualsiasi indicazione. Senza alcuna manutenzione. Spesso d’intralcio a quanti non interessati alle antichità, preferirebbero magari dei manti asfaltati ai basoli in stradali. Nella campagna di Lanuvio si è arrivati a costruire un edificio sul basolato. Nel territorio di Velletri a stupirsi di ritrovare parti della via e dei suoi annessi, procedendo ai lavori per l’allargamento di una scuola nella località Sole Luna.
Altri pezzi, tagliati, asportati. Proprio come scriveva Cederna. Gli abusi edilizi troveranno una loro soluzione. Forse. Ma intanto la strada rimane lì. Senza in fondo prospettive. Senza più ambizioni. Ridotta ad una strada chiusa. Che non porta più da nessuna parte. Insomma, un altro simbolo dismesso.
In pieno centro storico, tra Piazza Farnese e le sponde del Tevere un nuovo grande albergo con parcheggio e altre utilities, naturalmente con il passepartout del project financing all’italiana. La Repubblica, ed. Roma, 17 febbraio 2013
PER qualcuno erano solo voci che si rincorrevano tra i vicoli di via Giulia. «Ne avevamo sentito parlare. Non credevano fosse vero. Siamo senza parole: avevamo sostenuto l’idea di realizzare dei parcheggi interrati anche per ridare lustro alla strada e farla tornare vivibile. Non vogliamo creare difficoltà a chi dà lavoro in un momento storico come questo, ci mancherebbe, ma non possiamo neanche accettare l’idea che la zona venga stravolta da un progetto simile. Piani del genere vanno indetti attraverso concorsi internazionali perché si tratta di una zona dove è stato fatto un importante ritrovamento grande archeologico», commenta Viviana Di Capua, presidente dell’associazione Abitanti del centro storico. L’idea che sul lungotevere dei Tebaldi, tra via Giulia, largo Perosi e via Bravaria, nel cuore di Roma, potrebbero esser realizzati un albergo di lusso con annesso ristorante, parcheggio, appartamenti e posti auto, scatena polemiche non solo degli abitanti della zona ma anche di urbanisti, Legambiente e politici. Una rivoluzione nel cuore della città, così come prevede il nuovo project financing dalla società Cam, sbarcato venerdì in conferenza dei servizi: un piano di recupero, in sostituzione di quello per i parcheggi interrati ormai archiviato dopo il ritrovamento di alcuni importanti reperti storici, ovvero le scuderie dell’antica Roma.
Ma a smorzare le polemiche non ci riesce neppure la prevista musealizzazione dei reperti venuti alla luce durante i sondaggi archeologici. «Gli unici lavori ammissibili per me restano quelli di restauro. Del resto il centro è unaporzione minima del territorio urbanistico della città: solo il 5 per cento. Credo fermamente che ci sia bisogno di innovazione e creazione, di qualità architettonica, ma ci sono talmente tanti spazi disponibili fuori dal perimetro storico che non capisco che senso abbia questo progetto», fa notare l’urbanista Vezio De Lucia.
E un “no” «al palazzone di Via Giulia», arriva anche da Lorenzo Parlati, presidente di Legambiente Lazio. «La procedura va fermata subito — aggiunge — è impensabile proporre uno scambio tra la musealizzazione degli importanti reperti rinvenuti e una mega costruzione con funzioni commerciali in un’area così pregiata della città. E poi siamo alle solite: il Comune non impara mai, nonostante le proteste dei cittadini anche stavolta comitati e associazioni si ritrovano il progetto bello e fatto», conclude. Anche per Umberto Croppi, candidato alla poltrona di primo cittadino, «l’idea di realizzare una struttura alberghiera nel varco di via Giulia, senza peraltro aver coinvolto la città e gli addetti ai lavori nel processo di valutazione, è l’ennesimo segnale di decadimento in cui versano le istituzioni. Peraltro di tratta di luogo caratterizzato da due elementi straordinari: la più elegante strada della Roma papale e un ritrovamento archeologico di eccezionale interesse. L’attuale configurazione dell’area non può subire interventi che ne stravolgano le caratteristiche architettoniche. Speriamo ci siano margini per un radicale ravvedimento da parte del Comune e delle soprintendenze».
E un appello al sindaco di «bloccare ‘l'opera monster’ che si vuole realizzare a via Giulia. Il centro va tutelato», arriva anche da Massimiliano Valeriani, consigliere comunale del Pd. Così come fa il suo collega Paolo Masini che aggiunge: «Speriamo che Alemanno intervenga immediatamente per fermare questo scandaloso scempio lottizzatorio».
La forzatura della sicurezza aeroportuale e lo sfruttamento dell'emergenza fanno emergere le distorsioni del modello shopping mall chiuso. Le Monde Diplomatique – il manifesto, febbraio 2013 (f.b.)
A metà degli anni 2000, nel sud della Norvegia. L’aeroporto di Kristiansand è appena stato rinnovato. Il volo è in ritardo: il tempo di bere un bicchiere con i miei accompagnatori? «Non è più possibile: bar, tavoli e sedie si trovano ormai dall’altro lato dei controlli di sicurezza...». Passa un’ora. Niente aereo, nessuna notizia né il bancone di un bar. Per ottenere delle informazioni, bisogna raggiungere la porta di imbarco ma l’accesso è scomparso. Toh, il duty free è controllato da un agente: «Accedere alle porte di imbarco? Da qui, attraverso il negozio. È dopo le casse!» Buffo. Ma perché no? «È giusto per avere qual- che informazione? Torno subito, si ricorderà di me?» L’agente risponde premuroso: «Certo, ma non potrà tornare indietro. Dovrà ripassare dalla dogana...»
Preparare i passeggeri all'atto dell'acquisto
Così, invece di imboccare il corridoio pubblico di accesso, si attraversava un negozio pieno di giochi, di profumi, di scatole di cioccolatini e di bottiglie di gin. Il terminal che una volta consisteva in un’unica grande sala, in occasione della sua «modernizzazione», viene frammentato in tre parti il passaggio tra le quali risulta ormai rigidamente controllato. Il mese seguente, nello stesso aeroporto, mio figlio di 2 anni e mezzo ciondolava verso l’aereo, con la sua giacca appesantita da alcuni pacchetti di caramelle e da una boccetta di Chanel N° 5, discretamente prelevati nel duty free, diventato passaggio obbligato per tutti i viaggiatori diretti all’imbarco.
Così nasce il progetto «Duty free shop», presentato in queste pagine. Strategie inedite di organizzazione dello spazio, nuovo orienta- mento del flusso delle persone: mani invisibili avevano trasformato radicalmente la natura e l’uso di un luogo pubblico. Hanno avuto inizio lunghe settimane di osservazione negli aero- porti europei, trascorse a scrutare i movimen- ti, gli oggetti, gli atteggiamenti del personale, l’arredamento, le luci, il design e la segnaletica, per carpire il significato dei cambiamenti, di- segnarli in mappe destinate a far comprendere quello che è in gioco qui. Cosa, o chi, c’è all’origine di queste trasformazioni? Le autorità aeroportuali, i ministeri dei tra- sporti e le società a cui hanno delegato la gestione degli spazi commerciali, o forse si dovrebbe dire di servizio. Tutti lavorano di concerto per modellare il paesaggio interno dei terminal.
Come in una messinscena teatrale, inseriscono anche attori e comparse: agenti di sicurezza, personale dei duty free e delle compagnie aeree, doganieri, poliziotti e... passeggeri. Stabiliscono gli arreda- menti, le luci e i campi visivi, le «aperture» o le «chiusure». Il tutto con un solo obiettivo: preparare i passeggeri all’atto dell’acquisto. Le autorità aeroportuali, interrogate su queste trasformazioni, giurano di non averci nulla a che fare. «I direttori dei negozi decidono da soli le loro strategie commerciali», affermava (distogliendo lo sguardo) Jo Kobro, ex direttore dell’ufficio stampa dell’aeroporto di Oslo. In realtà, gli uni fanno soldi, gli altri ottengono delle percentuali.
Il conforto dopo la prova dei controlli di sicurezza
Dagli anni '50, la sicurezza del trasporto aereo è oggetto di particolare attenzione dopo che nel 1949, e poi nel 1955, delle bombe nella stiva avevano fatto esplodere in volo due aerei in nord America. All’epoca si era trattato di lugubri storie di adulterio e di assicurazione sulla vita... Ma quei primi attentati avevano mostrato la vulnerabilità dell’aviazione civile. Nonostante tutto, per circa mezzo secolo, gli aeroporti sono rimasti dei luoghi relativamente aperti, in cui recarsi con la famiglia per passeggiare, sperimentare la magia del mito aeronautico, ammirare i passeg- geri per i quali le compagnie stendevano il tappeto rosso, sognare davanti ai manifesti di destinazioni esotiche.
«Città nelle città» con supermercati, duty free, parcheggi
Se gli spettacolari attentati contro il Boeing della Pan american airlines (1989) e contro il Dc-10 dell’Union de transports aériens (Uta, 1988) hanno segnato l’inizio del rafforzamento dei sistemi di controllo e di sicurezza, quelli dell’11 settembre 2001 aprono una nuova era. Il traffico subisce un crollo durevole (solo nel 2005 recupererà il livello precedente agli attentati); le compagnie aeree e gli aeroporti affrontano una crisi senza precedenti.
In un primo tempo, molte basi aeroportuali e compagnie aeree hanno ricevuto massicci aiuti pubblici, soprattutto in nord America. Ma, rapidamente, gli aeroporti hanno dovuto farsi carico delle spese di funzionamento. Equazione ancor più difficile da quando le tasse pagate dai passeggeri insieme al biglietto sono state sensibilmente ridotte, a volte temporaneamente soppresse, per tentare di rilanciare il traffico. Gli stati recedono dal loro coinvolgimento diretto: la gestione degli aeroporti viene esternalizzata e affidata a delle società società (private, pubbliche o miste).
Questi nuovi gestori trovano «la» soluzione : trasformare le zone aeroportuali in spazi commerciali. Alcuni diventano delle «città nella città», con supermercati, duty free, parcheggi, alberghi, centri d’affari e di conferenze. Sull’insieme di queste attività, l’aeroporto percepisce degli utili – il cui importo rimane segreto – calcolati sulla base del giro d’affari.
Parallelamente, dopo lo shock dell’11 settembre, viene rivoluzionato l’approccio al controllo e alla sicurezza. Ormai, il «mondo esterno» si contrappone al «mondo interno». Per varcare il confine che separa le due realtà, bisogna accettare di esser sottoposti al metal detector, per- quisiti, palpati ed eventualmente privati di qualsi- asi oggetto «minaccioso», compresa la bottiglietta di acqua minerale...
Così, il terminal si trasforma in uno spazio al contempo ipercommerciale e ipercontrollato, di cui i viaggiatori diventano prigionieri. Chi gestisce gli spazi progetta una diversa organizzazione dei flussi; creano un sistema di circolazione forzata che converte gli aeroporti in laboratori. Vengono testati sottili piani di riorganizzazione spaziale per determinare quale strategia permetta di spremere meglio il passeggero. Quest’ultimo è manipolato come un burattino, condotto attraverso un per- corso predisposto in suo onore: una caverna di Ali Baba in cui scintillano merci e tentazioni.
In questo spazio «interno», tutto è limitato, dalla libertà di raggrupparsi a quella di fotografare o filmare. Non ci si può lamentare né scegliere i propri itinerari. È un’economia capitalista (far la maggiore quantità possibile di soldi) e monopolistica: alcune società multinazionali gestiscono le centinaia di negozi, di ristoranti, di bar e i servizi aerei a terra, affidati a subappaltatori. Il diritto all’informazione è spesso ridicolizzato: i manifesti che elencano i «diritti del passeggero» sono posti dove si vedono meno, in punti scuri, negli angoli morti, dietro le colonne, o in senso opposto al flusso generale. Le pubblicità sui temi del sogno, del viaggio, della donna o dell’uomo perfetti, del viso perfetto, della sensualità, del sesso... mimetizzano una strategia di assimilazione e di appropriazione dei luoghi pubblici.
Prima tappa: spiazzare il passeggero sovvertendo i suoi punti di riferimento. Gli agenti di sicurezza e i commessi dei duty free sono vestiti praticamente nello stesso modo. Gli addetti alle vendite sono inoltre pregati di assicurare il mantenimento dell’ordine nei negozi e nelle loro vicinanze, e gli agenti di sicurezza assumono il ruolo di procacciatori di clienti per i punti vendita. A Kristiansand Kjevik, la guardia indica con autorità una delle due porte situate dietro di lui: «Di là!». I passeggeri del volo proveniente da Copenhagen, ossia ottanta persone, sono condotti verso il duty free. Nessuno ha visto né oltrepassato la porta adiacente che con- duce direttamente all’area preposta alla riconsegna dei bagagli.
Il passeggero crede di iniziare un viaggio ma in realtà consuma
La segnaletica utilizza gli stessi codici grafici per indirizzarvi verso la porta d’imbarco e per vantare la qualità dei prodotti venduti nei negozi. Il passeggero pensa di ricevere delle informazioni invece legge una pubblicità; crede di iniziare un viaggio ma in realtà consuma. All’aeroporto di Londra-Gatwick, i bagni principali sono stati installati all’interno del duty free – clientela redditizia. Per imbarcarsi a Bruxelles, bisogna passare per i negozi di cioccolata, di gioielli, di gadget elettronici. Un modo per trovare conforto dopo uno sgradevole passaggio all’accettazione prima e al metaldetector dopo...
Meno di dieci anni prima, gli spazi commercia- li (in cui tutto è a pagamento) erano separati dagli pazi pubblici (in cui tutto è gratuito). Ormai, la sfera del consumo e la sfera del pubblico si sono fuse. A Londra, Oslo, Bergen o Milano, i passaggi pubblici «liberi» sono semplicemente scomparsi.
Due spazi che coabitano nello stesso ambiente
In alcuni casi, i due spazi coabitano. Nel primo trionfa un mondo artificiale dalle luci abbaglianti, dal design ricercato, con la sua massa di merci ben ordinate. Bianco accecante, giallo e rosso acceso dominano. Nel secondo, grigio verdastro, il passeggero, dopo esser stato condotto attraverso il primo, può infine sedersi, sempre se trova ancora una sedia: molte sono state eliminate per far posto a ristoranti e negozi, come all’aeroporto di Copenhagen. Nelle scomode zone di pre-imbarco non ci sono lustrini, perché per ora sono considerate «inutili»...
Questi cambiamenti preannunciano quelli di altri spazi pubblici ben più frequentati (solo il 10%-15% della popolazione europea infatti viaggia regolarmente in aereo): stazioni, centri città, metropolita- ne, ma anche strade e isolati. In Francia, la stazione Saint-Lazare si è trasformata in centro commerciale; a Bodø, nel centro della Norvegia, la strada principale è stata interamente privatizzata.
In dirittura d'arrivo la battaglia legale sulla realizzazione del ‘mostro’ paragonato dagli ambientalisti a Punta Perotti. Le perplessità del tecnico del Genio Civile in 122 pagine di relazione
Il Fatto quotidiano online, 13 febbraio 2013
In dirittura d'arrivo la battaglia legale sulla realizzazione del ‘mostro’ paragonato dagli ambientalisti a Punta Perotti. Le perplessità del tecnico del Genio Civile in 122 pagine di relA proposito del rispetto delle norme sismiche, il progetto del Crescent di Salerno fa emergere “alcune carenze”. Carenze che però “è bene precisare, non denotano una manifesta deficienza delle opere, sia sotto il profilo della sicurezza che delle prestazioni, in quanto alcuna deficienza emerge dai risultati delle verifiche strutturali e geotecniche, come documentate nel progetto. Tuttavia, tali carenze – si afferma nel documento – non consentono un accertamento pieno di rispondenza del progetto alla normativa sismica vigente”.
Quando ci si dimentica di distinguere, e al tempo stesso governare insieme, l'urbs e la polis, succedono dei grossi guai in città. Recensione a L'altra New York, di Sharon Zukin. Il manifesto, 14 febbraio 2013 (f.b.)
Martin Heidegger affidava alla chiacchiera e alla curiosità, tipiche manifestazioni della socialità urbana, il ruolo di esempi eloquenti di «vita inautentica», del si (man) conformistico contrapposto all'autenticità dell'essere-per-la-morte o della cura che, vertigini teoretiche a parte, sembravano trovare un luogo privilegiato di esercizio nella baita della Foresta nera e in quel Kitsch montano-agreste su cui il Thomas Bernhard di Antichi maestri avrebbe riversato pagine di condivisibile acredine. Su un registro alquanto diverso, il crepuscolare Levi-Strauss di Tristi tropici individuava nell'autenticità una sorta di Sacro graal alla cui spasmodica ricerca, destinata a risolversi inesorabilmente in uno scacco, si dedicava una figura come quella del viaggiatore o della sua versione secolarizzata, il turista.
Il concetto di autenticità si trova al centro di L'altra New York. Alla ricerca della metropoli autentica (il Mulino, pgg 280, euro 23) della sociologa urbana Sharon Zukin. Nel volume, incentrato sull'analisi dei processi di gentrification in alcuni quartieri di New York, i nomi di Heidegger e Levi-Strauss non compaiono. Ricorrente e costante, invece, è il riferimento a Jane Jacobs, nella doppia veste di sociologa urbana sui generis, a partire dal fondamentale Vita e morte della grande città su cui si ricalca il sottotitolo originale del libro di Zukin (The Death and Life of Authentic Urban Places), e di attivista e community organizer impegnata a promuovere politiche urbane volte a favorire la conservazione di un habitat «a misura d'uomo» incentrato su unità residenziali di piccole dimensioni, l'eterogeneità sociale ed etnica, il controllo endogeno, lo sviluppo di relazioni di prossimità.
Nel lessico di Jane Jacobs, tuttavia, il termine autenticità non svolge alcuna funzione decisiva. E questo Zukin non manca di rimarcarlo, aggiungendo però come gli elementi qualificanti di quell'urban village, che costituiva l'ideale normativo proposto da Jacobs, da qualche decennio convergano nel costituire i tratti di una percezione, quella appunto dell'«autenticità», alla quale si deve attribuire il ruolo di potente vettore dei processi di ridefinizione delle funzioni e modifica della composizione demografico-economica di parti della città. In una formula: «La nostra ricerca dell'autenticità - la nostra accumulazione di questo tipo di capitale culturale - contribuisce all'incremento del valore immobiliare, la nostra retorica dell'autenticità implicitamente avvalla la nuova retorica della crescita in direzione di una maggiore esclusività». A parere di Zukin, Jacobs elaborerebbe un'«estetica dell'autenticità urbana», senza però coglierne le conseguenze pratiche in termini di aumento dell'appetibilità delle aree che così vengono definite. Ma la percezione di autenticità di uno spazio urbano proviene sempre dall'esterno.
Pionieri o investitori?
Si genera così un paradosso: le zone definite autentiche per caratteristiche urbanistiche, storia e, soprattutto, composizione sociale divengono oggetto di interesse per una platea di residenti a più alto reddito. Ciò determina un incremento dei valori e della rendita immobiliari che contribuisce ad allontanare sia le popolazioni sia le attività economiche su cui l'estetica dell'autenticità si fondava. Il volume di Zukin ricostruisce tale sequenza in riferimento a differenti vicende di gentrification, quella strana parola che Dylan, il protagonista del romanzo La fortezza della solitudine di Jonatham Lethem, sente pronunciare per la prima volta negli anni Settanta, è un bambino, e nella Brooklyn in cui vive viene associata al «ritorno dei bianchi».
E proprio in quell'area della città si trova Williamsburg, dove l'insediamento di gallerie d'arte, locali musicali, studi o ristoranti negli edifici in mattoni di fabbriche dismesse ha fatto transitare il quartiere dal gritty dell'archeologia industriale al cool della zona di insediamento della creative class, con le inevitabili conseguenze non solo per i «nativi», sospinti in altre parti della città dall'aumento degli affitti e dalla crescente estraneità nei confronti della nuova realtà del quartiere, ma anche dai pionieri del «nuovo inizio», a cui tocca la stessa sorte nel momento in cui il real estate decide di investire massicciamente nell'area e i prezzi iniziano a schizzare alle stelle.
L'estetica della rinascita
Differenti sono le vicende di Harlem, dove la rinascita, peraltro decisamente più precaria, viene ambiguamente, e selettivamente, posta all'insegna delle potenzialità evocative dell'Harlem Renaissance e un ruolo decisivo, nel promuovere un upgrade del quartiere, lo si deve all'intervento di fondazioni, sul crinale ambiguo fra profit e non-profit, che propongono l'insediamento delle grandi catene commerciali come viatico per sottrarre l'area alla dimensione del ghetto e avviarla a un'integrazione incentrata sui consumi. In tale contesto, come peraltro in quello dell'East Village, altro caso dettagliatamente considerato, emerge come la definizione legittima dell'autenticità, oltre che un potente strumento di azione sulla realtà, si presenti come un terreno di scontro fra attori collettivi, ciascuno dei quali portatore di proprie specifiche narrazioni.
Il volume di Sharon Zukin ricostruisce in maniera ricca e articolata, in relazione a New York, i complessi processi spesso collocati all'insegna di una generica gentrification. In proposito, l'autrice si sofferma in dettaglio sull'analisi delle dinamiche strutturali, come quelle riguardanti i cambiamenti delle politiche pubbliche, i meccanismi fiscali, le strategie dei soggetti privati, sul versante finanziario, commerciale e del real estate. Tale livello è integrato con l'osservazione diretta e il vaglio di testimonianze e resoconti di attori coinvolti, a vario titolo e da diverse posizioni, nelle dinamiche in atto. Paradossalmente, si potrebbe però ritorcere contro Zukin il rilievo che lei stessa muoveva a Jacobs, riguardante un'insufficiente presa in conto delle implicazioni di un concetto sfuggente come quello di «autenticità».
Certo, nel volume si mostra come essa operi concretamente, contribuendo a determinare le scelte degli agenti e si specifica come non abbia a che fare con le pietre della città quanto con lo sguardo che a esse si rivolge, manifestando un carattere di rappresentazione collettiva, diversa a seconda dei contesti culturali e delle cerchie di socializzazione. E tuttavia poco viene detto circa sui suoi meccanismi di costruzione, sulle narrative a cui ricorre, sulle opposizione strutturali che la informano, sui criteri di legittimazione e delegittimazione a cui fanno riferimento le varie «tribù».
Luoghi della quotidianità
Zukin, per approcciare il tema dell'autenticità, fa riferimento più volte alla nozione di «capitale culturale» proposta da Pierre Bourdieu. Se quella è la prospettiva, tuttavia, il concetto di capitale sociale dovrebbe essere affiancato ad altri strumenti analitici, come l'habitus e il campo e le singole prese di posizione riguardo all'autenticità collocate nella dimensione relazionale e diacronica di uno «spazio delle posizioni» che si modifica nel corso del tempo. Un approccio del genere all'autenticità è rinvenibile, per fare un esempio, in un volume che ha profondamente rinnovato i quadri degli studi sulle sottoculture giovanili, Dai club ai rave. Musica, media e capitale sottoculturale di Sarah Thornton (Feltrinelli).
Ma le prospettive di indagine potrebbero anche essere altre. E allora anche i nomi che si citavano in apertura possono fornire, in proposito, alcune interessanti suggestioni, se non altro in termini negativi, segnalando significative discontinuità rispetto al passato nei termini in cui si pone oggi la questione dell'autenticità. Ritornando su Levi-Strauss, balza subito agli occhi il significativo dislocamento, in base al quale l'autenticità non è proiettata nell'altrove dell'esotismo ma ricondotta alla normalità del «luogo in cui vivere». Riguardo a Heidegger, poi, si potrebbe rilevare come l'autenticità urbana si costruisca in riferimento a modalità di socializzazione e consumo riconducibili a quella dimensione della chiacchiera e della curiosità che il filosofo tedesco marchiava con lo stigma dell'inautentico.
Venendo all'oggi, non si può evitare di sottolineare come il libro di Zukin pur uscito nel 2010, ossia un paio di anni dopo l'esplosione della crisi dei mutui subprime, non incorpori nel suo impianto il mutamento di scenario introdotto, nei processi di valorizzazione, dell'esplosione della bolla immobiliare. Si potrebbe osservare che il radicale crollo dei prezzi di case e terreni ha riguardato non le aree di pregio delle metropoli globali, come New York, ma i nuovi margini della Rust Belt o dell'America suburbana.
Tra invenduto e pignorato
In parte è così. E tuttavia, le storie della gentrification newyorkese, che fino a qualche anno fa evocavano figure sovrapponibili con le vicende di aree urbane disseminate ai quattro canti del pianeta, sembrano oggi perdere di universalità. A incepparsi è stato quel meccanismo C-M-C (credito-mattone-credito) in base al quale si otteneva credito per costruire e quanto costruito era utilizzato come collaterale per accedere a ulteriore credito. È a partire da tale dispositivo di valorizzazione che i vuoti aperti nelle città europee e americane dalla deindustrializzazione sono stati riempiti da piogge di vetrocemento.
Oggi, a fronte di una massa imponente di edifici invenduti, invendibili, pignorati, cartolarizzati, rimbalzati da una proprietà all'altra, sembra spalancarsi un vuoto di valore che potrebbe essere riempito da nuove politiche dello spazio, articolate dal basso, in grado di rivendicare un orizzonte irriducibile a quello di semplici avanguardie, più o meno involontarie, del marketing dell'autenticità al servizio del real estate. I segnali in tal senso non mancano, dagli scenari steam punk dei rinaturalizzati downtown di alcune città statunitensi fino alle forme sempre più complesse ed eterogenee di occupazione di spazi privati e pubblici che si susseguono alle più diverse latitudini.