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Il manifesto, 10 maggio 2013 (f.b.)

SASSARI - Per i contadini della Nurra, nel nord ovest della Sardegna, l'identità di una persona e di una comunità proviene dalla terra. La terra ci dice chi siamo, nutrendoci materialmente e culturalmente. Negli ultimi anni questa relazione è stata stravolta da decine e decine di progetti che puntano a rendere l'isola la regione campione della green economy, l'ultima frontiera del capitalismo verde. Zio Giacomo difende questa terra da anni, con la passione forte e dignitosa di un popolo antico. Insieme a suo nipote Giuseppe ha messo su una fattoria didattica e recuperato un antico pozzo Nuragico, testimonianza di un'antica civiltà. Come tutti i contadini della zona sta lottando contro chi vorrebbe fargli piantare solo il cardo per soddisfare la domanda di biomasse della centrale dell'Eni. Il cane a sei zampe sostiene che la chimica verde segnerà la rivoluzione agricola sarda.

Il progetto di Matrica spa e di Polimeri Europa prevede la riconversione degli impianti dell'ex petrolchimico di Porto Torres nel «polo per la chimica verde». Secondo l'Eni il futuro è nel cardo, anzi in una particolare specie chiamata Cynara cardunculus. Così per assecondarne le necessità i contadini della Nurra dovrebbero abbandonare qualsiasi altra produzione agricola, destinando quelle che sono le terre più fertili di Sardegna alla crescita esclusiva della materia prima necessaria agli impianti chimici. A sentire gli esperti ci vorrebbero 100.000 ettari di terreni e 500.000 tonnellate di materia per sostenere la quantità di biomasse necessarie alla centrale dell'Eni, come ci racconta C.A.P.S.A. - il comitato di azione, protezione e sostenibilità ambientale - No Chimica Verde.

Non solo tutta questa terra non c'è, ma la coltivazione del cardo per l'estrazione dell'olio da utilizzare come combustibile stravolgerebbe l'intera economia della zona e servirebbe per nascondere la combustione di altri materiali assimilati, estremamente nocivi per la salute. I 22 mila ettari della Nurra sarebbero quindi riconverti per una produzione inutile alle economie del territorio, che tra le altre cose richiede molta acqua e rischia di danneggiarne la biodiversità. Nonostante gli evidenti limiti, l'obiettivo rivoluzione verde va avanti, con il consenso delle forze politiche di centrodestra e centrosinistra. Ai contadini ed ai pastori, organizzati nell'associazione «Nurra dentro- riprendiamoci l'agro», non rimane che lottare per salvare economie locali, posti di lavoro, tradizioni, relazioni e cultura.

Ma qui in Sardegna non sono solo i contadini della Nurra, i comitati a Porto Torres, Sassari ed Alghero a resistere all'avanzata della nuova frontiera della speculazione energetica. Sono tante le comunità ed i settori coinvolti. Al moltiplicarsi dei progetti di grandi aziende energetiche private, imprese di Stato e banche interessate al nuovo business verde si contrappongono in ogni luogo comitati di cittadini/e che smentiscono con dati alla mano l'idea secondo la quale sia sufficiente la parola «green» a garantire nuove opportunità per coniugare profitto e lavoro con il rispetto dell'ambiente.

Qui lo chiamano «il grande inganno verde», al cui generalismo sono culturalmente piegate le forze politiche in regione ed a Roma. Il Centro Sociale Pangea, a pochi metri dalla mancata bonifica tra le più grandi d'Italia, i 23 Kmq dell'ex petrolchimico dell'Eni di Porto Torres, ricorda i disastri di un modello che in realtà riproduce la stessa vecchia idea del passato: i vantaggi dello sfruttamento sono privati e di pochi, mentre i costi sociali ed ambientali restano pubblici e di tanti. Politiche industriali sbagliate che, come denuncia l'ISDE- associazione italiana medici per l'ambiente, hanno trasformato la Sardegna nella regione più inquinata d'Italia. Alla faccia della redistribuzione della ricchezza, della salute, della crisi ecologica e della credibilità della democrazia rappresentativa. La speranza è nella riconversione ecologica partecipata delle attività produttive e della filiera energetica, da organizzare insieme a lavoratori, comunità e amministrazioni locali. Un metodo diverso, che si fonda sulla democrazia partecipata e della ricerca della giustizia ambientale.

Per avere un'idea della vitalità di questi nuovi soggetti basterebbe visitare il portale che da voce ai territori in movimento, www.arexxini.info . Nonostante il silenzio che circonda l'argomento, sono moltissimi i conflitti aperti. Oltre a quelli di Sassari, Porto Torres, Alghero, ci sono Cossoine, Guspini, Narbolia, Vallermosa, Gonnosfanadiga, Isili, Nurallao, Arborea, Narblia, sono per citarne alcuni. Tutti impegnati a denunciare i falsi miti sui cui fonda la sua retorica la green economy, dove il rispetto del territorio ed il lavoro lasciano spazio ad una realtà fatta di grandi impianti, sprechi, corruzione, disoccupazione, inquinamento, mancate bonifiche ed intrecci finanziari pericolosi. Come quello che vede al centro il presidente sardo di confindustria Alberto Scanu nel progetto di una centrale solare termodinamica a torre centrale a sali fusi, presentato proprio dalla sua Sardinia Green Island nel territorio di Villaermosa.

Il comitato «Sa Nuxedda Free» appena costituito ha da subito messo in luce i limiti del progetto, a partire dalla localizzazione dell'impianto previsto in una zona agricola di 130 ettari che verrà ricoperta da 3500 specchi eliostatici necessari a riflettere i raggi solari su una torre alta 200 mt. Per supportare l'impianto è previsto un sistema di riscaldamento a biomasse capace di portare i sali ad una temperatura superiore ai 260°. Il comitato denuncia la depredazione del terreno agricolo, la vicinanza al centro abitato e ad altri nuclei agricoli, l'impatto ambientale per il quale ancora non è prevista la valutazione e l'utilizzo di prodotti non vegetali per far funzionare la centrale a biomasse, così come già affermato da molti esperti. Stesso discorso a Guspini e Gonnosfanadiga, dove la Energogreen, controllata Fintel, vuole realizzare una megacentrale termodinamica, un parco eolico e due centrali a biogas. Il Comitato No Megacentrale denuncia come per realizzare l'impianto sarà necessario livellare più di 200 ettari di terra fertile, spianando e distruggendo le aree boschive.

Una landa di specchi sostituirà un paesaggio fatto di uliveti e pascoli. Senza contare l'impatto sulle riserve di acqua, circa 50.000 metri cubi al mese. I geologi sostengono che la ricerca di acqua comprometterebbe le falde, innalzando il rischio siccità e razionamento idrico per gli abitanti della zona. Del resto le centrali a biomasse continuano a cadere a pioggia sul territorio con l'obiettivo di sfruttare gli incentivi di Stato, anche quando non vi sono campi esistenti di mais o simili che dovrebbero essere adiacenti alle centrali per garantirne il funzionamento. Nonostante non vi siano piani agronomici la compravendita di terreni per aziende intenzionate a produrre biomasse sta segnando un'impennata, con gravi ripercussioni sul tessuto socioeconomico. Sono molti a dar via terreni e bestiame, dove tra le altre cose l'aumento della richiesta di biomasse spinge in alto i prezzi dei mangimi.

Altri impianti termodinamici della Energogreen sono al centro dei conflitti nella zona di Cossoine, dove il 17 marzo i cittadini si sono pronunciati per l'88% dei voti contro la centrale con un referendum indetto dallo stesso sindaco. Una lotta che ha visto vincere un'intera comunità nella difesa del proprio territorio e nel recupero della sua vocazione agricola. La centrale a regime avrebbe portato nelle casse della Energogreen 40 milioni di euro grazie agli incentive sulle tariffe del Quinto conto energia. Soldi facili, garantiti da chi paga in bolletta gli incentivi sia per produrre energia da rinnovabili sia da fonti "assimilate", cioè rifiuti e scarti di raffineria. La liquidità garantita dagli utenti dell'energia elettrica viene qualificata come "incentivi" e destinata agli speculatori, alla faccia della crisi economica. Su questo hanno le idee molto chiare i comitati S'Arrieddu e No Furtovoltaico, impegnati a liberare Narbolia dai pannelli della Enervitabio, controllata dalla cinese Winsun Luxembourg.

Un progetto approvato illegittimamente e privo di efficacia per la comunità, con enormi impatti ambientali e sociali. Anche qui il ricatto occupazionale non regge. A fronte di qualche decina di occupati i comitati denunciano la scomparsa nell'isola di 97.000 posti di lavoro per la chiusura di moltissime aziende del comparto agro pastorale. Le cause sono da imputarsi alla corsa ad accaparrarsi terreni per accedere ad ulteriori incentivi, così da mandare avanti il ciclo di produzione dell'energia da parte di grandi imprese come la Winsun, che fanno a loro volta lievitare i prezzi spingendo i piccoli proprietari a vendere ed altri a corrispondere un affitto troppo elevato causato dagli aumenti della rendita fondiaria. Allo stesso modo la crescita della domanda di cereali causata dalla bolla speculativa avviata con il business dei biocarburanti fa aumentare il prezzo dei mangimi per animali, rendendo insostenibile economicamente portare avanti attività legate all'agro ed alla pastorizia per i piccoli produttori.

La pratica del "land grabbing", l'accaparramento massiccio delle terre, sta trasformando la Sardegna per l'ennesima volta in una terra di conquista, attraversata da predoni. Una regione che oggi è costretta ad importare l'80% dei suoi consumi alimentari, mentre produce una quantità di energia superiore rispetto al suo fabbisogno energetico. «Questa è una battaglia per la sovranità, contro la speculazione energetica», ci ripetono infatti i cittadini del Comitato No al progetto Eleonora durante la marcia della terra che si è tenuta il 20 aprile scorso ad Arborea. Qui la Saras, impresa della famiglia Moratti, ha intenzione di trivellare il territorio per la ricerca di gas metano attraverso il «fracking», la fratturazione idraulica delle rocce, una tecnica pericolosissima e vietata da molti paesi. Scienziati degli Stati uniti imputano al fracking la nuova ondata di terremoti in zone non sismiche come il Midwest, dove le continue fratture e le sostanza utilizzate come riempitive per tenerle aperte sarebbero all'origine della nuova ondata sismica.

Secondo l'UNMIG, ufficio nazionale minerario idrocarburi, in Italia sono 39 i pozzi di reiniezione, di cui ben 26 dell'Eni. I cittadini di Arborea vogliono evitare questo scempio e gli enormi rischi che il progetto arrecherebbe, a fronte di vantaggi immediati molto piccoli in termini occupazionali e di danni enormi nelle filiere lattearia, casearia e agroalimentare. Un inganno verde svelato dalle tante soggettività nuove che in Sardegna, come nel resto del paese, a partire dalla difesa dei beni comuni mettono al centro la dignità della persona ed una relazione nuova con la natura non umana, dalla quale partire per coniugare diritti, lavoro e difesa dell'ambiente.

«È di fronte agli eventi straordinari (come il sisma) che si mettono alla prova le regole del vivere civile: perciò abbandonare L’Aquila sarebbe il sinistro prologo della morte della tutela in Italia». La Repubblica, 10 maggio 2013

L’Aquila è ancora in Italia? Il sindaco Cialente ha ammainato la bandiera italiana dalla sua città in rovina e riconsegnato la fascia tricolore al capo dello Stato per esprimere «preoccupazione, rammarico e mortificazione» per l’abbandono in cui giace la città deserta, dove da ottobre, nonostante il (buon) provvedimento Barca, non arriva un centesimo per la ricostruzione, paralizzando i cantieri e consegnando i cittadini a una condizione di «scoramento, sfiducia, rabbia, disperazione, povertà». «Lo Stato ci ha abbandonati», scrive il sindaco; «nella nostra Costituzione si respira la responsabilità istituzionale e democratica che si esprime nei diritti e nei doveri delle istituzioni e dei cittadini. Questo spirito non lo vedo nel comportamento dello Stato». Domenica 5 maggio, più di mille storici dell’arte di ogni età (università, soprintendenze, licei...), auto-convocati per un’idea di Tomaso Montanari, si sono raccolti all’Aquila da tutta Italia per vedere con i propri occhi, e denunciare al Paese, il colpevole abbandono del centro storico a oltre quattro anni dal sisma.

Echeggia, in questa presenza civile e nelle parole del sindaco, un aspro contrasto fra i principi della Costituzione e il comportamento dei governi. In nessun luogo come all’Aquila è evidente il nesso fra le rovine materiali di un centro storico e la rovina morale e sociale che minaccia la nostra società. Qui il degrado civile si rispecchia in un doppio disastro, il terremoto e la pessima gestione del dopo-terremoto, che ha privilegiato la costruzione delle cosiddette new towns abbandonando il centro storico, deportando gli abitanti non nelle ridenti città-giardino promesse da Berlusconi, ma in quartieri-ghetto privi di spazi per la vita sociale. Pensava già a questo il costruttore Piscicelli, quando la stessa notte del sisma se la rideva con un suo compare progettando cemento e affari? E perché il deputato Pdl Stracquadanio dichiarò alla Camera che «L'Aquila era una città che stava morendo indipendentemente dal terremoto, e il terremoto ne ha certificato la morte civile», se non per giustificare la deliberata distruzione del tessuto sociale? Dobbiamo dimenticare queste infamie in nome di una umiliante “pacificazione” che ci costringa all’amnesia?

È di fronte agli eventi straordinari (come il sisma) che si mettono alla prova le regole del vivere civile: perciò abbandonare L’Aquila sarebbe il sinistro prologo della morte della tutela in Italia. Almeno due volte, in un’Italia assai meno prospera di questa, L’Aquila fu abbattuta da un terremoto, e prontamente ricostruita. Il suo centro storico, tra i più preziosi d’Italia, è il frutto di un atto di fondazione, l’aggregazione di comunità di cittadini che dai “99 castelli” del territorio confluirono nel Duecento in una sola città: un gesto di sinecismo, diremo con parola greca (
synoikismos, “darsi una casa comune”). La stessa parola che per i Greci descriveva l’origine di città come Rodi o Atene. Il sinecismo dell’Aquila è il massimo esempio medievale di un processo aggregativo di natura economica, etica e civile: le singole comunità mantennero il nucleo identitario d’origine nelle chiese e nei nomi dei quartieri, così contribuendo a definire l’idea italiana di città-comunità.

Perciò svuotare il centro per disseminare gli aquilani nelle campagne è un gesto violento quanto il terremoto, capovolge il sinecismo nel suo rovescio, la deportazione. Inutilmente la formula inglese new towns tenta di dare una patina colta a questa operazione brutale. Le New Towns furono un esperimento urbanistico iniziato nel 1947 a Londra, per controllarne la crescita. Furono accuratamente pianificate a partire dagli spazi sociali, dai trasporti, da un calibrato rapporto città-campagna: l’esatto opposto di quel che offrono le bugiarde new towns di Berlusconi, che hanno devastato i suoli agricoli senza creare spazi per la vita sociale. E questo all’Aquila, dove gli Statuti medievali prescrissero agli abitanti di realizzare collettivamente, gli spazi pubblici (la piazza, la fontana, la chiesa), prima di insediarsi nelle loro case! Ma la scelta perversa di quel governo resiste alla prova degli anni, e le rovine della città si sommano a quelle della società, alla crescita dei disagi, della disoccupazione, delle malattie mentali.

L’Aquila si allontana dall’Italia e dal mondo. Con gli aquilani, vien messa al bando dalla città la maestà della legge, la verità della Costituzione. I nostri centri storici «sono vita, non si possono perdere senza sentirsi mutilati, menomati nello spirito; le rovine sono come cicatrici dello spirito, dove rimane la cecità e l’amnesia, irrimediabile» (Calamandrei). Perché non è stata fatta una legge speciale per L’Aquila? Perché non si possono dirottare su questa città-martire i soldi che bastano per acquistare un aereo militare, per costruire un chilometro di Tav? Le promesse di aiuto dei paesi del G8 hanno prodotto finora ben poco: ma perché non si può lanciare la ricostruzione dell’Aquila (necessaria comunque) all’insegna di un grande centro di ricerca e formazione specializzato in interventi in aree sismiche, dalla prevenzione al restauro?

Un centro come questo avrebbe da subito un ruolo internazionale, contribuendo alla ricostruzione di quella che rischia di restare una Pompei del XXI secolo, ma senza trasformarla in un theme park, in una Disneyland che ne offenda la storia. Il ministro dei Beni culturali, Massimo Bray, ha dato un gran bel segnale con la sua visita all’Aquila domenica; il nuovo governo vorrà, salvando questa città in ginocchio, riaffermare la priorità costituzionale della tutela? «Non c’è più tempo per aspettare domani», dicevano (anzi gridavano) decine di cartelli nelle mani degli studenti, domenica 5 maggio.

«La nave Divina è lunga 333 metri cioè il doppio di piazza San Marco e alta 66 metri cioè il doppio del Palazzo Ducale. Se un motore si rompe? Se scoppia un incendio? Se c'è un dirottamento? Se il pilota sbaglia o impazzisce?» Corriere della Sera, 9 maggio 2013

E se succedesse a Venezia? Se la tragedia di Genova si ripetesse nel cuore fragile della città serenissima e una nave carica di passeggeri enormemente più grande della petroliera Jolly Nero andasse a sbattere contro gli edifici dello scenario architettonico più famoso del pianeta? Diranno: è praticamente impossibile. Anche a Genova era praticamente impossibile. Ma è successo. «Il piccolo rovescio della medaglia di un grande successo da gestire»: così lo chiama Paolo Costa, che dopo essere stato il sindaco della città è oggi il presidente dell'Autorità portuale, nella prefazione al libro A Venezia dal mare, le crociere. E irride alle «paure» (le virgolette ironiche sono sue) di chi paventa il rischio che un giorno qualcosa possa andare storto e confonde «l'irresponsabile fuori rotta» della Costa Concordia al Giglio con «l'avvicinamento in piena sicurezza» delle grandi navi al bacino di San Marco. Cosa significa «piena sicurezza»?
Rileggiamo le parole dette poche ore prima della catastrofe dall'ammiraglio Felicio Angrisano che dava il benvenuto al successore al vertice della Capitaneria di Porto genovese: «Lascio uno scalo sicuro, affidabile, funzionale». Il più possibile, si capisce: «L'unica sicurezza a prova di bomba, per un porto, è non fare entrare nessuna nave...». Una sintesi perfetta: garantire ai veneziani e al mondo la «piena sicurezza» dell'ingresso davanti a San Marco di navi spropositate come la «Divina», lunga 333 metri cioè il doppio di piazza San Marco e alta 66 metri cioè il doppio del Palazzo Ducale vuol dire tutto e niente. E se un motore si rompe? Se scoppia un incendio? Se c'è un dirottamento? Se il pilota sbaglia o impazzisce? Conosciamo l'obiezione: le corna scaramantiche. «Dio santo! Perché mai dovrebbe succedere?». Il guaio è che cose simili sono già successe. E talvolta dentro la stessa laguna veneziana che coi suoi 110 centimetri di profondità media è un mondo delicatissimo.
Negli ultimi anni la «Mona Lisa» si è incagliata davanti Riva degli Schiavoni, la «Haci Emine Ana» è finita in avaria contro i cantieri del Mose a Malamocco, la «Celebrity Solstice» e la «Carnival Breeze» hanno rotto gli ormeggi in Marittima per il vento... Sono così grandi, alcuni dei nuovi bestioni da crociera, che il comandante Checco Baradel, il quale dopo aver navigato tutta la vita vive alla Giudecca, sostiene di riconoscere la stazza delle navi che passano «da quanti quadri si spostano alla parete della sala da pranzo». E ne passano una dopo l'altra. Nel 2011 erano state 654, nel 2012 sono cresciute ancora: 663. Più gli oltre trecento traghetti. Per un totale di un migliaio di giganti l'anno. Andata e ritorno davanti a San Marco perché l'altro percorso (canale dei Petroli fino a Marghera e poi lungo il canale Vittorio Emanuele) è meno romantico: vuoi mettere? Media: sei passaggi al giorno, con punte record di 11 navi e 35 mila crocieristi.
Dicono: tranquilli, arrivano, se ne vanno trainate da un rimorchiatore davanti e uno dietro. Il comitato «No grandi navi» e gli avversari del via-vai, però, non si tranquillizzano affatto. E spiegano che nel caso di un guasto ai motori (e si è visto tragicamente come possa capitare) quegli immensi albergoni viaggianti che arrivano a pesare oltre 50 mila tonnellate e cioè quanto un migliaio di autotreni a pieno carico, hanno una forza d'inerzia spaventosa: «Se avanza a due nodi, circa quattro chilometri l'ora, una nave così grande può essere fermata solo da un rimorchiatore in grado di «tirare» 60 tonnellate. A quattro nodi l'inerzia è già quattro volte superiore e, ammesso che basti, il rimorchiatore dovrebbe poter tirare almeno 240 tonnellate. A 6 nodi, con l'inerzia moltiplicata per nove, una bestia così non la tiene neanche l'«Abeille Fiandre» che sulla Manica tira da solo 200 tonnellate. Bene: i «portolani» degli Anni 30, quando i «transatlantici» che approdavano a Venezia erano quasi «barchette» e arrivavano una volta al mese, stabilivano che il limite massimo di velocità ammesso in bacino e nei canali portuali, «in via eccezionale», era di sei nodi. Lo stesso limite fissato oggi per navi spropositatamente grandi.
Di più: «Dalle tracce trasmesse dall'AIS, l'Automatic Information System installato sulle navi e leggibili perfino sul web, nel canale della Giudecca la velocità di solito è di 7, a volte 8 nodi, con rallentamenti a 6 per l'inchino a San Marco: i turisti devono scattare le foto». Certo, sono navi moderne, dotate di sistemi di sicurezza avveniristici, spinte da motori affidabili. Ma restano, sullo sfondo, quegli incubi sospesi: il guasto, l'errore umano, l'incendio... E prima di fermarsi quei bestioni in manovra in uno spazio ristretto potrebbero travolgere la punta della dogana, San Giorgio, le due colonne di «San Marco in forma de leon» e di San Teodoro. Per carità, Dio sa quanto abbiamo bisogno del turismo. Ma val la pena di mettere a rischio Venezia? Tanto, se vogliono vederla, sempre qui devono venire... Perché dovremmo pagare quel pedaggio alle compagnie che pretendono il passaggio a San Marco?

Si riapre il dibattito sul tema dell'abusivismo, in un modo che peggio non si può; naturalmente, all'insegna della "solidarietà nazionale". Corriere del Mezzogiorno online, 8 agosto 2013, con postilla (a.d.g.)

«Eventuali interventi normativi sulla vicenda delle costruzioni abusive in Campania «non possono assolutamente prescindere da una sinergica, congiunta e preliminare attività di ricognizione e valutazione, da parte di tutte le componenti istituzionali interessate, in ordine alle concrete situazioni abusive poste in essere ed al danno effettivamente arrecato al territorio e all'ambiente». Lo ha detto il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, nel corso del question time. Secondo il ministro «il fenomeno del'abusivismo edilizio, determinato, in alcune realtà locali come quella campana, anche da ragioni di necessità abitative, va inquadrato nel necessario bilanciamento di diversi valori di rilevo costituzionale, quali, accanto a quelli di natura sociale, quelli connessi alla tutela della equilibrata programmazione e del rispetto del patrimonio archeologico, naturalistico ed ambientale».

REVOCA DEMOLIZIONE - In tale contesto, ha aggiunto, «si inserisce la sanzione accessoria che impone la demolizione del manufatto abusivo e, se del caso, il ripristino dello stato dei luoghi, rispetto all'oggetto dell'abuso, acquisito «ope legis» al patrimonio del Comune». «Ciò - ha sottolineato Cancellieri - non esclude la possibilità che il giudice dell'esecuzione revochi l'ordine di demolizione qualora sopravvenga un atto amministrativo del tutto incompatibile con lo stesso, quale la destinazione, da parte del Comune, del manufatto abusivo a fini di utilità sociale

IL PD - «Quella dell'abusivismo edilizio in Campania è una materia molto delicata». Così, in una nota, Enzo Amendola, deputato e segretario regionale del Pd campano, e Lello Topo, capogruppo Pd al Consiglio regionale Campania. «Le annose questioni delle costruzioni illegali e degli abbattimenti non possono essere risolte con degli articoli inseriti nella finanziaria come ha fatto l'attuale governo regionale di centrodestra guidato da Stefano Caldoro - aggiungono - ma c'è bisogno di cautela, dialogo e confronto». «Concordiamo con il ministro Cancellieri, la situazione è drammatica, per questo anche da parte del governo nazionale occorra cautela - spiegano - il rischio è quello di aprire conflitti di competenza tra gli Enti che allungherebbero i tempi della risoluzione dei problemi, aumentando anche le incertezze e i timori di numerose famiglie».

PROPOSTA DI LEGGE - «Il Pd campano da tempo ha predisposto una proposta di legge equilibrata e rigorosa, per costruire e dare risposte alle domande di condono in atto ormai, in alcuni casi da più di venti anni, e per realizzare un piano serio di recupero ambientale e sociale», continuano. «Bisogna assumersi la responsabilità di dare risposte. In diversi casi con opere di mitigazione ambientale e paesaggistica sarà possibile recuperare i manufatti e le aree di costruzione abusiva - concludono - nelle situazioni particolarmente gravi bisognerà dire 'nò, soprattutto contro le speculazioni fatte dalla camorra che ha distrutto e mortificato il nostro territorio».

Postilla

Il ministro Cancellieri dovrebbe evitare di fare confusione. Il problema in Campania sono le 80.000 pratiche di condono ancora non evase. L’incapacità di applicare le leggi dello stato genera questo limbo oscuro, una sorta di “stato di eccezione” che non finisce mai. In questo ingorgo malsano dell’attività amministrativa, le sentenze di demolizione passate in giudicato riguardano manufatti abusivi che la legge non consente di sanare, perché si trovano in aree ad elevato grado di tutela o rischio. Fa specie che una persona delle istituzioni come il ministro Cancellieri anche solo ipotizzi la possibilità di sanatorie, con provvedimenti legislativi ad hoc, con la scusa di motivazioni “sociali” (il cosiddetto “abuso di necessità”). L’unica è applicare la legge. Attrezzando regioni e comuni affinché possano svolgere le funzioni istituzionali di prevenzione, controllo, sanzione, ripristino. Senza tutto questo, l’industria dell’abusivismo, in Campania e nel Sud, continuerà a prosperare. E l’eventuale sanatoria, all’ombra delle grandi intese, sarà solo un altro doloroso passo verso la definitiva decomposizione territoriale e sociale di una parte importante del paese (a.d.g.).

Corriere della Sera, 8 maggio 2013

Un altro inverno così e delle meravigliose Cascine di Tavola resteranno solo macerie. Sulla tenuta modello di Lorenzo il Magnifico scoperchiata nel lontano 2008 dai barbari palazzinari che volevano trasformarla in un condominio di lusso, si sono accaniti i mesi più piovosi da decenni a questa parte, con precipitazioni di almeno un terzo superiore alla media e «filotti» di pioggia anche di undici giorni consecutivi.

Va da sé che a metà marzo il giornale online Notizie di Prato titolava: «Ancora crolli alla Fattoria Medicea». Un delitto. Tanto più che il fallimento della società proprietaria del complesso potrebbe aprire, almeno sulla carta, opportunità insperate. Dato per scontato che la prima asta vada deserta, è possibile che le Cascine possano finire per una somma non astronomica in mano pubblica. Certo, il Comune di Prato che deve farsi perdonare il permesso dato a suo tempo ai costruttori per stuprare la straordinaria tenuta agricola rinascimentale, non potrebbe farcela da solo. Troppi soldi per l'acquisto, probabilmente non meno di 11 o 12 milioni di euro. Troppi per i restauri, che saranno lunghi e complessi. Ma se si mettessero insieme il Comune, la Provincia, la Regione, il Ministero dell'Agricoltura e quello dei Beni culturali che potrebbero studiare insieme un progetto per recuperare nella loro integrità gli orti, i campi coltivati, i canali della rete di irrigazione così com'erano mezzo millennio fa? Magari anche l'Europa, davanti a un progetto serio, potrebbe scucire un po' di soldi...

«Il guaio è che la Regione, finora, non ci sente», spiega Mariarita Signorini, vicepresidente di Italia Nostra in Toscana e appassionata sostenitrice della battaglia per salvare le Cascine. «È arrivata a spendere quattrocento milioni di euro per tappare i buchi finanziari pazzeschi dell'ospedale di Massa ma su questi bisogni culturali è assai meno sensibile». Riuscirà a far qualcosa di nuovo il ministro dei Beni culturali sulla cui groppa sono caduti tutti i problemi lasciati irrisolti da un sacco di tempo?

Certo, non è solo il Comune di Prato ad avere il dovere di farsi perdonare dai cittadini italiani. Il progetto per stravolgere l'antica fattoria medicea, un «insolito edificio quadrato a corte centrale e torri angolari, attribuito a Giuliano da Sangallo» trasformandola in un complesso immobiliare di 160 bilocali (alcuni col giardinetto privato) più un hotel a quattro stelle più un ristorante e negozi e parcheggi e campi da tennis e centri benessere con saune, fitness e palestre, infatti, aveva avuto il via libera perfino di una dirigente della Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici. Dirigente poi messa sotto inchiesta dalla magistratura insieme coi responsabili della società «Agrifina» che, coinvolti anche in una brutta storia di fatture false, avevano venduto tutto a loro volta «chiavi in mano» all'immobiliare Fattoria Medicea, costituita al 60% dalla Re Sole e al 40% da Pirelli Real Estate che da allora ripetono: «Noi non c'entriamo». Ecco, se dai loro sensi di colpa potessero rinascere le Cascine...

eddyburg. I temi trattati (il concetto di bene comune, multiscalarità nel processo delle decisioni, rapporto tra dimensione "verticale" e "orizzontale" della democrazia, o tra città e lotta di classe) ci sembrano di particolare interesse per il dibattito, anche in Italia

Estratto da Rebel Cities: from the right to the city to the urban revolution, London-New York, Verso 2012 (cap. 3) – Traduzione di Fabrizio Bottini

La città è il luogo in cui persone di ogni tipo e classe si mescolano, per quanto in modo conflittuale e con riluttanza, per produrre un’esistenza comune, anche se in continuo cambiamento e transitoria. La comunitarietà di questa vita è stata da molto tempo oggetto di osservazione da parte degli urbanisti di ogni provenienza, e l’ avvincente soggetto di scritti e altre forme di comunicazione assai evocative (romanzi, film, quadri, video ecc.) che cercano di fissarne i caratteri (o quelli particolari di una certa città, in un determinato contesto ed epoca) e il suo significato più profondo. E nella lunga storia delle utopie urbane troviamo traccia di ogni genere di aspirazione umana a costruire una certa città, per usare le parole di Park “più vicina al nostro cuore”. La recente ripresa di interesse per la ipotizzata scomparsa dei beni comuni urbani corrisponde a quelli che appaiono come profondi effetti dell’ondata di privatizzazioni, costruzione di barriere all’accesso, controlli spaziali e di polizia, e di sorveglianza sulla qualità generale della vita urbana, specie sulla possibilità di costruire o ostacolare nuove forme di relazione sociale (un nuovo spazio comune) all’interno di processi fortemente influenzati, per non dire dominati, dagli interessi della classe capitalista.

Quando Hardt e Negri, ad esempio, sostengono che dovremmo considerare “la metropoli in quanto fattore di produzione di beni comuni” intendono indicare il punto di inizio di una critica anticapitalista per l’azione politica. Allo stesso modo del diritto alla città, questa idea appare coinvolgente e intrigante, ma cosa significa davvero? E come entra in rapporto con la lunga vicenda di discussione e contrasti sulla creazione e uso di risorse di proprietà comune?

Ho perso il conto di quante volte ho visto citare il classico articolo di Garret Hardin sulla tragedia dei beni comuni (The Tragedy of the Commons), come prova indiscutibile dell’efficienza superiore dei diritti della proprietà privata quando si tratta dell’uso di terreni e risorse, quindi di motivo indiscutibile per la privatizzazione. Questa lettura errata in parte deriva dall’uso della metafora, da parte di Hardin, del bestiame di proprietà di singoli che vogliono massimizzarne il proprio vantaggio individuale, e che pascola su terreno di proprietà comune. I singoli proprietari guadagnano aumentando i capi, mentre la perdita di fertilità che da ciò deriva pesa sull’insieme dei proprietari di bestiame. I singoli proprietari continuano ad accrescere il numero dei capi, finché il terreno comune perde ogni produttività.

Ovviamente, se il bestiame fosse di proprietà comune, la metafora non funzionerebbe. Ciò mostra che al cuore del problema ci sono la proprietà privata del bestiame e il comportamento teso alla massima utilità individuale, anziché l’aspetto di proprietà comune della risorsa. Ma a Hardin fondamentalmente non interessava davvero nessuno dei due aspetti. La sua preoccupazione riguardava la crescita di popolazione. Decidere di avere dei figli, era il suo timore, avrebbe alla fine condotto alla distruzione di tutti i beni comuni del mondo, e all’esaurimento di tutte le risorse (come sosteneva anche Malthus). L’unica soluzione, secondo Malthus, era un controllo regolativo autoritario della popolazione.

Cito questo esempio per sottolineare in che modo la riflessione sui beni comuni sia stata troppo spesso racchiusa entro presupposti troppo limitati, condizionata dall’esempio delle enclosures britanniche dal tardo medioevo in poi. Di conseguenza ci si è spesso polarizzati fra soluzioni tutte orientate alla proprietà privata, o all’ intervento statale autoritario. In una prospettiva politica, l’intera tematica è stata resa meno chiara dalla reazione istintiva (strettamente legata a una buona dose di nostalgia per una supposta economia morale dell’azione comune del bel tempo andato) vuoi a favore, vuoi – come accade di solito a sinistra – contro ogni tipo di sbarramento all’accesso.

Elinor Ostrom tenta di eliminare alcuni di questi limiti nel suo libro Governing the Commons. Sistematizzando le evidenze antropologiche, sociologiche, storiche che hanno da lungo tempo dimostrato che se i proprietari di quel bestiame si fossero parlati l’un l’altro (o avessero avuto una cultura delle regole condivisa), avrebbero potuto facilmente risolvere qualunque problema di beni comuni. La Ostrom ci mostra attraverso innumerevoli esempi che gli individui possono spesso trovare, e di fatto trovano, metodi ingegnosi e molto adeguati per gestire risorse di proprietà comune, a vantaggio dei singoli così come della collettività. Il suo obiettivo era di capire perché in alcuni casi ci riescono, e in quali circostanze invece no. I casi studio fanno a “pezzi le convinzioni di tanti analisti politici, secondo cui l’unico modo di risolvere i problemi di proprietà comune delle risorse è attraverso l’intervento di autorità esterne che impongono o un regime di totale proprietà privata, o una regolamentazione centralizzata”. I suoi casi studio mostrano invece “una ricca mescolanza di strumenti sia pubblici che privati”. Sulla scorta di questa conclusione, l’Autrice porta il suo attacco all’ortodossia economica che vede tutte le scelte semplicemente in termini di dicotomia fra stato e mercato.

Però gran parte dei suoi esempi coinvolgono solo qualche centinaio di proprietari. Su quantità maggiori ( il suo caso più numeroso riguardava 15.000 persone) era necessaria una struttura decisionale per “fasi successive”, poiché diventava impossibile una negoziazione diretta fra tutti gli individui. Ciò comporta che diventano necessarie forme di organizzazione strutturate per fasi, e quindi in qualche modo “gerarchiche”, per affrontare problemi di grande scala, come ad esempio il riscaldamento globale. Purtroppo la stessa parola “gerarchico” suona come una maledizione nel pensiero corrente (la Ostrom la evita del tutto) ed è oggi violentemente avversata da gran parte della sinistra. L’unica forma politicamente corretta di organizzazione, in molti ambienti radicali, è quella non statale, non gerarchica, e orizzontale. Per evitare che in qualche modo si debba giudicare necessaria una qualche forma di organizzazione strutturata per fasi, si tende a trascurare la questione di come debbano essere gestiti i beni comuni alla grande scala invece che alla piccola scala locale (per esempio, il problema della popolazione globale che interessava Hardin).

Chiaramente esiste qui un “problema di scala” difficile da analizzare che deve (ma non lo si fa) essere attentamente valutato. Le possibilità di una attenta gestione delle risorse di proprietà comune a una determinata scala (come condividere le acque fra un centinaio di agricoltori in un piccolo bacino fluviale) non si possono applicare a problemi come il riscaldamento globale, e neppure alla diffusione territoriale delle piogge acide da centrali elettriche. Quando si “salta di scala” (come amano dire i geografi), cambia drasticamente la natura del problema beni comuni, e cambiano le prospettive di trovare una soluzione. Quello che appare un buon metodo per risolvere problemi a una scala non vale per un’altra. Cosa anche peggiore, soluzioni dimostratesi assolutamente valide a una determinata scala (diciamo quella “locale”) non necessariamente si sommano ascendendo (o a cascata discendendo) traducendosi in buone soluzioni per una scala diversa (ad esempio, quella globale). Ecco perché la metafora di Hardin è tanto fuorviante: egli usa un esempio di piccola scala, di capitale privato operante su un pascolo comune, per spiegare un problema globale, come se non esistesse alcun problema di salto di scala.

E così anche i validi insegnamenti che ci arrivano dall’organizzazione collettiva delle economie solidali su piccola scala, secondo criteri di proprietà comune, non possono tradursi in soluzioni globali senza ricorrere a forme organizzative “per fasi” e di conseguenza gerarchiche. Purtroppo, come già sottolineato, il concetto di gerarchia suona come una maledizione in tanti ambienti della sinistra di opposizione al giorno d’oggi. Troppo pesso si erge, a ostacolo della riflessione sulle soluzioni più adeguate ed efficaci, una sorta di feticismo della preferenza organizzativa (ad esempio, l’orizzontalità pura). Per essere chiari, io non sostengo che l’orizzontalità non vada bene – anzi, la ritengo un ottimo obiettivo – ma che se ne debbano riconoscere i limiti come principio organizzativo egemone, ed essere pronti quando necessario ad andare molto oltre.

Esiste anche una gran confusione sul rapporto fra beni comuni e i supposti mali dello sbarramento all’accesso [enclosure]. Di fronte a problemi imponenti (e in maniera particolare alla scala globale) qualche sorta di sbarramento spesso è il modo migliore di conservare certi beni comuni di grande valore. Forse può suonare, e forse è, una affermazione contraddittoria, ma rispecchia una situazione davvero contraddittoria. Occorrono provvedimenti di sbarramento draconiano all’accesso in Amazzonia, per esempio, per tutelare sia la biodiversità che la cultura delle popolazioni indigene, nel quadro dei nostri beni comuni globali culturali e naturali. Sarà quasi certamente necessario l’intervento statale per proteggere quei beni comuni contro la filistea democrazia di corto respiro degli interessi economici che devastano le terre con le colture estensive di soia o gli allevamenti di bestiame. Dunque non tutte le forme di sbarramento all’accesso si possono per definizione liquidare come cattive. Produrre e proteggere spazi non mercificati, in un mondo invece spietatamente mercificato, è di sicuro una buona cosa. Ma qui si può verificare un altro problema: potrebbe essere necessario (come sostiene spesso il WWF) espellere la popolazione indigena dalle sue foreste per salvare la biodiversità. Un bene comune può essere protetto a scapito di un altro. Quando si recinta una riserva naturale, si nega l’accesso al pubblico. È comunque rischioso pensare che il modo migliore per conservare un bene comune sia negarne un altro. Ci sono validi motivi per ritenere che ad esempio politiche forestali congiunte di tutela degli habitat e di accessibilità da parte delle popolazioni tradizionali possano giovare ad entrambi. Non è comunque facile affrontare l’idea di proteggere beni comuni attraverso uno sbarramento all’accesso, quando si tratta di prenderla in considerazione come una strategia anti-capitalista. Infatti, da sinistra la domanda di “autonomia locale” di fatto altro non è che una richiesta di un qualche tipo di sbarramento all’accesso.

Dobbiamo concludere che tutti i problemi relativi ai beni comuni sono contraddittori, e oggetto costante di scontro. Dietro alla contestazione stanno interessi sociali e politici in conflitto. Come ha osservato Jacques Rancière “la politica è la sfera di attività di un bene comune che non può essere altro che oggetto di contenzioso”. Alla fin fine, l’analista è spesso lasciato con una semplice decisione: da che parte stiamo? Quali interessi comuni intendiamo tutelare, e con quali mezzi?

Oggigiorno i ricchi hanno preso l’abitudine di chiudersi dentro a quartieri recintati, all’interno dei quali si individua un bene comune che te3nde a escludere. In linea di principio ciò non è diverso da una cinquantina di persone che attingono insieme a una risorsa di acqua comune, senza badare agli altri. I ricchi hanno anche l’impudenza di pubblicizzare il loro spazio urbano esclusivo come villaggio comunitario tradizionale, come nel caso del Kierland Commons a Phoenix, Arizona, descritto come un “villaggio urbano con spazi commerciali, ristoranti, uffici” e via dicendo. Anche i gruppi radicali possono appropriarsi di spazi (a volte in regime di proprietà privata, come quando si acquista collettivamente un edificio da utilizzare per qualche scopo progressista) da cui approfondire politiche di azione comune. Oppure fondare una comune o un soviet, all’interno di qualche genere di spazio protetto. Le Case del Popolo, descritte da Margaret Kohn come cruciali per l’azione politica nell’Italia all’inizio del XX secolo, erano esattamente esperienze di questo genere.

Non tutte le forme di bene comune comportano accesso aperto. Alcune (l’aria che si respira per esempio) sì, altre (come le vie delle città) sono aperte in linea di principio, ma regolamentate, controllate dalla polizia, o a volte addirittura gestite privatamente sotto forma di Business Improvement District [sulla questione specifica in questo sito si vedano almeno i saggi di Lorlene Hoyt e Anna Minton n.d.t.]. Altre ancora (come una risorsa idrica comune controllata da cinquanta agricoltori) sono esclusive sin dall’inizio, limitate ad un gruppo sociale particolare. Gran parte degli esempi usati dalla Ostrom nel suo primo libro erano di quest’ultimo genere. Inoltre, nei suoi primi studi limitava l’analisi alle cosiddette risorse “naturali”, quali terra, boschi, acque, pesca, e simili. (Dico “cosiddette” perché qualunque risorsa discende da una valutazione tecnologica, economica, culturale, e quindi si tratta di una definizione sociale).

La Ostrom, insieme a molti suoi colleghi e collaboratori, più tardi si è occupata di altre forme di bene comune, come materiale genetico, conoscenza, beni culturali e simili. Tutti aspetti oggigiorno molto presi d’assalto attraverso mercificazione e sbarramento all’accesso. Lo sfruttamento ad esempio mercifica (spesso svuotandoli di senso) i beni culturali disneyficandoli. Proprietà intellettuale e brevetti registrati su materiale genetico e conoscenza scientifica sono oggi una delle questioni più scottanti. Gli editori che fanno pagare per leggere gli articoli sui periodici scientifici e tecnici che pubblicano, il problema di accedere a quanto dovrebbe essere patrimonio comune, sono temi ben noti a tutti. Negli ultimi vent’anni c’è stata una vera esplosione di studi e proposte operative, oltre ad aspre battaglie legali, sulla creazione di uno spazio comune di libero accesso alla conoscenza.

I beni culturali e intellettuali di quest’ultimo tipo spesso non rispondono alla logica della scarsità, o all’uso esclusivo che si può applicare alle risorse naturali. Tutti possiamo ascoltare il medesimo programma radiofonico, guardare quello televisivo, senza intaccarlo in alcun modo. Il bene comune culturale, scrivono Hardt e Negri, “è dinamico, fatto sia di lavoro che di mezzi di produzione futura. Non si tratta solo della terra che condividiamo, ma anche del linguaggio che creiamo, delle pratiche sociali che mettiamo in atto, dei modi di socialità che formano le nostre relazioni, e via dicendo”. Tutti questi beni comuni si costruiscono col tempo, e in linea di principio sono aperti a tutti.

Le qualità umane della città emergono dalle nostre pratiche all’interno dei vari spazi della città, anche se quegli spazi sono soggetti a qualche tipo di sbarramento all’accesso, a controllo sociale, all’appropriazione da parte di interessi privati e/o della pubblica amministrazione. Esiste un’importante distinzione fra spazio pubblico e bene pubblico, da un lato, e beni comuni dall’altro. Spazi pubblici e beni pubblici nella città sono da sempre questione gestita dal potere statale e dalla pubblica amministrazione, ma si tratta di spazi e beni non necessariamente comuni. Per tutta la storia dell’urbanizzazione, la loro realizzazione (pensiamo alle fognature, alla sanità, all’istruzione ecc.) sia con capitali pubblici che privati è stata essenziale allo sviluppo capitalistico. Nella misura in cui le città sono state il luogo di vigorosi conflitti e lotte di classe, le amministrazioni urbane sono state obbligate a mettere a disposizione beni pubblici (case economiche, assistenza sanitaria, istruzione, vie asfaltate, reti idriche e fognarie) per la classe operaia urbanizzata. Sequesti spazi e beni pubblici possono contribuire enormemente alla qualità degli ambiti comuni, occorre una iniziativa politica da parte dei cittadini e della popolazione per appropriarsene, per renderli tali. L’istruzione pubblica diventa bene comune quando le forze sociali se ne appropriano, la tutelano, la estendono per un vantaggio comune (viva gli organismi collegiali genitori-insegnanti!). Le piazze Syntagma a Atene, Tahrir al Cairo, de Catalunya a Barcellona, sono spazi pubblici diventati beni comuni urbani nel momento in cui le persone vi si sono riunite per esprimere le loro idee politiche e porre domande. La strada è uno spazio pubblico che storicamente si è trasformata tramite l’azione sociale nello spazio comune del movimento rivoluzionario, oltre che in un luogo di sanguinaria repressione. Esiste sempre uno scontro sui modi in cui produzione e accesso allo spazio pubblico e ai beni pubblici debbano essere regolamentati, da chi, per quali interessi. La lotta per appropriarsi degli spazi pubblici e dei beni pubblici per uno scopo comune è costantemente in corso. Ma per proteggere il bene comune spesso è vitale proteggere il flusso dei beni pubblici che ne definiscono la qualità. Le politiche neoliberiste tagliano i finanziamenti ai beni pubblici, diminuendo la disponibilità di beni comuni, e obbligando i gruppi sociali a trovare altre vie per conservarli (l’istruzione, ad esempio).

Il bene comune non si costruisce quindi come qualcosa di particolare, un oggetto e neppure processo sociale, ma come una instabile e plasmabile relazione tra un auto-definito gruppo sociale, e quegli aspetti (già esistenti, o ancora da creare) di ambiente fisico o di rapporti considerati essenziali per la sua vitalità. Esiste, in realtà, una pratica sociale di commoning. Questa pratica produce o impone una relazione sociale con un bene comune i cui usi sono esclusivi di un determinato gruppo, oppure in tutto o in parte aperti a tutti. Al centro di tale pratica di commoning sta il principio che la relazione fra quel gruppo sociale e quell’aspetto dell’ambiente considerato bene comune debba essere al tempo stesso collettiva e non mercificata: completamente estranea alla logica del mercato e dei suoi valori. Quest’ultimo punto è cruciale, perché aiuta a distinguere fra beni pubblici realizzati in quanto spesa pubblica produttiva, e un bene comune creato o fruito in modo e per un fine totalmente diverso, anche nel caso in cui finisca indirettamente per accrescere ricchezza e benessere del gruppo sociale che lo rivendica. Così anche un orto di quartiere diventa cosa buona, indipendentemente dalle verdure che si producono. Il che non impedisce di venderle, quelle verdure.

Molti gruppi sociali si possono impegnare in pratiche di commoning per molte diverse ragioni. Il che ci riporta alla questione fondamentale di quali gruppi sostenere e quali no, nel conflitto per i beni comuni. A ben vedere i super-ricchi sono ferocemente protettivi tanto quanto altri del loro spazio residenziale recintato comune, e hanno molte più armi e influenza per costruirlo e difenderlo.

Il bene comune, anche (e particolarmente) quando non lo si può sbarrare all’accesso, lo si può comunque scambiare pur non trattandolo come merce. Il contesto e l’attrattività di una città, ad esempio, è un prodotto collettivo dei cittadini, ma è il settore turistico che fa un uso commerciale di quel bene comune e ne estrae una rendita monopolistica [approfondita nel cap. 4 non compreso in questo estratto n.d.t.]. Con le loro attività e conflitti quotidiani, singoli e gruppi creano il mondo sociale della città, e di conseguenza un bene comune entro cui tutto quanto si inscrive. Certo è impossibile che tale bene comune culturalmente creato venga distrutto dall’uso, ma lo si può degradare, banalizzare con l’abuso. Le strade che si intasano di traffico rendono questo particolare spazio pubblico quasi inutilizzabile anche per gli stessi automobilisti (figuriamoci per i pedoni o i manifestanti), sino a far imporre una tassa di accesso sulla congestione per cercare di arginarne l’uso e migliorarne l’efficienza. Un tipo di strada del genere non è un bene comune. Prima dell’avvento dell’automobile, le strade spesso lo erano un bene comune, - un apprezzato luogo di socialità, uno spazio di gioco per ragazzi (ho una certa età e mi ricordo ancora che ci si giocava sempre). Ma questo tipo di uso comune è finito, trasformandola in spazio pubblico dominato dall’automobile (spingendo tante città a cercare un recupero di ambiti “più civili” come erano in passato quelli comuni, realizzando zone pedonali, caffè all’aperto, piste ciclabili, i cosiddetti parchi tascabili, spazi da gioco e simili). Ma tutti questi tentativi di ricostruire beni comuni urbani sono fin troppo facilmente sfruttabili, e anzi spesso vengono realizzati esattamente con questo scopo. I parchi urbani finiscono per aumentare il valore e i prezzi delle case circostanti (sempre che quel verde sia mantenuto, e pattugliato per tener lontano teppistelli e spacciatori). Il nuovo progetto della High Line a New York ha avuto un impatto enorme sui valori immobiliari delle proprietà residenziali, impedendo in tal modo la presenza di case economiche alla portata della maggioranza dei cittadini, con l’impennarsi degli affitti. Creare questo genere di spazi pubblici anziché aumentarlo fa diminuire il potenziale del commoning, salvo che per i ricchi.

Il vero problema qui, come nella favoletta morale di Hardin, non è il bene comune in sé, ma il fallimento dei diritti di proprietà individualizzati nel realizzare interessi comuni, come ci si potrebbe attendere. Perché non ci concentriamo, dunque, sulla questione della proprietà privata del bestiame e del comportamento tendente alla massima utilità individuale, anziché sul vero problema che è il pascolo comune? La giustificazione dei diritti della proprietà privata nella teoria liberale, dopo tutto, è che essi servirebbero per massimizzare il bene comune quando socialmente integrata attraverso istituzioni di libero e giusto scambio di mercato. Un commonwealth (dice Hobbes) si costruisce inquadrando interessi privati in concorrenza entro una cornice di forte potere dello stato. Questa opinione, sviluppata da altri teorici liberali come John Locke e Adam Smith, a tutt’oggi continua ad essere predicata. Ai nostri giorni c’è naturalmente il trucco di sottovalutare la necessità di un intervento di uno stato forte, mente il realtà lo si usa, e a volte in modo brutale.

La soluzione al problema della povertà globale, come ci continua ad assicurare la Banca Mondiale (fortemente condizionata dalle teorie di de Soto), è il diritto alla proprietà privata per tutti gli abitanti dello slum e l’accesso alla micro-finanza (che però ha i tassi più elevati al mondo e talora spinge al suicidio molti braccianti schiavi del debito). Ma il mito imperversa: basta che emerga l’istinto imprenditoriale che dovrebbe essere insito in tutti, liberato come una forza della natura, ed ecco infranta la povertà cronica, e realizzato il benessere comune. Si tratta a ben vedere del medesimo argomento a favore delle enclosures storiche britanniche dal tardo medioevo in poi. E non era del tutto sbagliato.

Secondo Locke, la proprietà individuale è un diritto naturale che sorge nel momento in cui si crea valore unendo il lavoro alla terra. Il frutto di questo lavoro appartiene a quell’individuo, e solo a lui. È l’essenza della teoria del valore del lavoro secondo Locke. Gli scambi di mercato socializzano quel diritto, quando ciascun individuo recupera il valore creato scambiandolo con un valore equivalente creato da un altro. In effetti, gli individui conservano, accrescono, e socializzano il loro diritto alla proprietà privata creando valore e scambiandolo in un mercato supposto libero e corretto. È così, dice Adam Smith, che si costruiscono la ricchezza delle nazioni e il bene comune. Non aveva tutti i torti.

Ma si presuppone però che i mercati siano liberi e corretti, e nell’economia politica classica si assume che lo stato intervenga perché ciò si realizzi (almeno lo consiglia Adam Smith agli uomini di stato). Ma la teoria di Locke ha un corollario tremendo: chi non produce valore non ha diritto alla proprietà. L’esproprio delle popolazioni indigene del Nord America da parte dei coloni “produttivi” si giustificava proprio perché le popolazioni indigene non producevano valore.

Come si confronta Marx con tutto questo? Marx accetta la narrazione di Locke nei primi capitoli del Capitale (anche se lo fa con una certa ironia, ad esempio usando mito di Robinson Crusoe nella riflessione politico-economica, nel quale un individuo scaraventato in uno stato di natura si comporta da perfetto libero imprenditore britannico). Però quando Marx affronta il modo in cui la forza lavoro si trasforma in merce comprata e venduta su un giusto libero mercato, possiamo vedere smascherata la finzione di Locke, che ci appare per quello che è in realtà: un sistema fondato sulla parità nello scambio di valore produce un surplus di valore per il capitalista che possiede i mezzi di produzione attraverso lo sfruttamento del lavoro vivo nella produzione (non nel mercato, dove possono prevalere i diritti borghesi e costituzionali).

La formulazione di Locke viene ancor più drasticamente confutata quando Marx affronta la questione del lavoro collettivo. In un mondo in cui i singoli produttori artigiani che controllano i propri mezzi di produzione potessero scambiare liberamente entro mercati relativamente liberi, la finzione lockiana potrebbe anche aver senso. Ma con l’ascesa del sistema della fabbrica, a partire dalla fine del diciottesimo secolo, osserva Marx, le formulazioni teoriche di Locke sono diventate superflue (mentre non lo erano affatto in precedenza). Nella fabbrica, il lavoro è organizzato collettivamente. Se esiste qualche diritto alla proprietà che deriva da questa forma di organizzazione del lavoro, dovrebbe sicuramente essere collettivo o associato, non di tipo individuale. La definizione di lavoro che produce valore, alla base della teoria di Locke sulla proprietà privata, non vale più per l’individuo, ma si sposta verso l’operaio collettivo. Il comunismo dovrebbe nascere da “una associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione posseduti in comune spendendo coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-Iavoro sociale”. Marx non auspica la proprietà statale, ma qualche forma di proprietà affidata all’operaio collettivo che produce per il bene comune.

Il modo in cui questa forma di proprietà può attuarsi è definito ribaltando il ragionamento di Locke sulla produzione di valore. Supponiamo, argomenta Marx, che un capitalista inizi a produrre con un capitale di 1.000 dollari e che nel primo anno riesca a guadagnare un surplus di 200 dollari grazie a lavoro e terra, usando poi quel surplus per consumi personali. Allora, dopo cinque anni, quei mille dollari dovrebbero tornare ai lavoratori collettivamente, perché sono loro che hanno unito il proprio lavoro alla terra. Il capitalista ha invece consumato tutta la ricchezza. Secondo questa logica i capitalisti si meritano di perdere ogni diritto alla proprietà, esattamente come accaduto alle popolazioni indigene del Nord America, poiché non hanno prodotto valore.

E’ un’idea che parrebbe del tutto stravagante, ma che è alla base del piano svedese Meidner proposto a fine anni ’60. I proventi di una tassa sui profitti delle imprese, in cambio di un contenimento dei salari concordato coi sindacati, dovevano essere destinati a un fondo controllato dai lavoratori che potranno investirli ed eventualmente rilevare la stessa impresa, prendendone il controllo in quanto lavoratori associati. Il capitale si è opposto a questa idea con ogni forza, impedendone l’applicazione. Ma sarebbe un’idea da riconsiderare. La conclusione più importante è che il lavoro collettivo che oggi produce valore deve produrre diritti di proprietà collettivi, e non individuali. Il valore – il tempo di lavoro socialmente necessario – è il common capitalista, ed è rappresentato dal denaro, equivalente universale di misurazione della ricchezza collettiva. Pertanto, il common non è qualcosa che esisteva nel passato e che è andato perduto, ma qualcosa che viene continuamente prodotto, proprio come i beni comuni urbani. Il problema è che ne viene altrettanto continuamente sbarrato l’accesso, e che se ne appropria il capitale nella sua forma mercificata e monetizzata, nonostante derivi da un lavoro collettivo.

Nei contesti urbani il metodo principale di appropriazione è attraverso la rendita da terreni e immobili. Un comitato di cittadini in lotta per salvaguardare la composizione etnica nel proprio quartiere opponendosi a processi di gentrification a volte scopre all’improvviso quanto crescano prezzi delle case (e le tasse locali) grazie all’azione dei promotori che ne sottolineano esattamente i “caratteri tipici” multiculturali, di vivacità delle strade, di varietà. Alla fine di questa azione distruttiva del mercato, non solo gli abitanti originali vengono espropriati del bene comune da essi creato (sfrattandoli con affitti troppo elevati e imposte troppo cresciute), ma lo stesso bene comune appare ormai imbastardito al punto da risultare irriconoscibile.

Il recupero di quartieri attraverso la gentrification nell’area di Baltimora Sud ha del tutto cancellato la vita di strada, la gente seduta sui gradini nelle sere d’estate a chiacchierare coi vicini, sostituiti oggi da case blindate antifurto con aria condizionata, le Bmw parcheggiate davanti, il solarium sul tetto, ma con le strade spopolate. La rivitalizzazione, secondo molta opinione locale, è stata in realtà una devitalizzazione. Ed è il destino di tanti altri luoghi, come per Christiania a Copenhagen, per la zona di St. Pauli a Amburgo, o di Williamsburg e DUMBO a New York, come già successo nella stessa città con la distruzione di SoHo.

Questo è un racconto molto più convincente per spiegare la vera tragedia dei beni comuni urbani della nostra epoca. Chi crea una vita quotidiana di quartiere interessante e stimolante la deve cedere per forza alle pratiche predatorie di immobiliaristi, finanzieri, consumatori agiati privi di qualunque immaginazione sociale urbana. Migliori le qualità dello spazio comune costruito da un gruppo sociale, più alta la probabilità che venga depredato e appropriato da parte di chi è interessato ai massimi profitti individuali.

Ma c’è un ulteriore aspetto analitico che vale la pena di sottolineare. Il lavoro collettivo considerato da Marx risultava in gran parte confinato dentro la fabbrica. Cosa accade se ampliamo il concetto sino ad arrivare, come suggeriscono Hardt e Negri, alla metropoli considerata in quanto grande common prodotto dal lavoro collettivo dentro la città e per la città? Certamente il diritto a usare di quel bene comune sarà di chi ha partecipato alla sua produzione. È questa naturalmente la base della rivendicazione al diritto alla città da parte del lavoro collettivo che l’ha prodotta. La lotta per il diritto alla città avviene contro il potere del capitale che spietatamente si nutre della rendita estratta dalla vita comune prodotta da altri. Tutto questo ci ricorda come il vero problema stia nel carattere privato del diritto alla proprietà, e nel potere che tale diritto conferisce non solo ad appropriarsi del lavoro, ma anche del prodotto collettivo di altri. Detto in altre parole, il problema non sta nel common in sé, ma nei rapporti fra chi lo produce e lo acquisisce alle varie scale, e chi se ne appropria per vantaggio privato. Gran parte della corruzione che caratterizza le politiche urbane deriva dai modi di allocazione degli investimenti pubblici per produrre qualcosa che sembrerebbe un bene comune, ma produce invece vantaggi per i proprietari privilegiati. La distinzione fra beni pubblici urbani e beni urbani comuni è al tempo stesso fluida quanto pericolosamente porosa. Quanto spesso accade che progetti di trasformazione ampiamente sussidiati dallo stato nel nome dell’interesse comune abbiano poi come beneficiari reali pochi proprietari di terreni, finanzieri e developer?

Chiediamoci quindi in che modo i beni comuni urbani vengono prodotti, organizzati, usati e appropriati a scala metropolitana. È sufficientemente chiaro come l’atto del commoning potrebbe operare al livello di quartiere. Esso comporta un insieme di iniziative private individuali che organizzano e catturano esternalità sottraendo al tempo stesso al mercato alcuni aspetti dell’ambiente che si costruisce. La amministrazione locale viene coinvolta per le norme, gli standard e gli investimenti pubblici, insieme alle associazioni più o meno formalizzate di quartiere (ad esempio, un’associazione di cittadini che può avere o non avere connotati di militanza politica, a seconda delle circostanze). In molti casi strategie territoriali e limitazioni all’accesso nel milieu urbano possono diventare veicoli di affermazione della politica di sinistra. I dirigenti dei gruppi di lavoratori precari e a basso reddito di Baltimora hanno dichiarato l’intera area dell’Inner Harbor “zona dei diritti umani” – una sorta di bene comune – all’interno della quale ogni lavoratore dovrebbe ricevere un salario sufficiente a sopravvivere. A El Alto, la locale Federation of Neighborhood Associations è stata uno degli elementi portanti delle rivolte nel 2003 e 2005, quando l’intera città si è mobilitata collettivamente contro le forme dominanti del potere politico. L’atto della enclosure quindi è strumento politico temporaneo per perseguire un fine comune.

L’esito generale descritto da Marx è ancora valido, comunque: il capitale, spinto dalle leggi coercitive della concorrenza a massimizzare l’utilità (profittabilità) – così come gli allevatori di bestiame di Hardin – “è diventato in grado, non solo di derubare l’operaio, ma anche la terra. La fertilizzazione del suolo è un progresso momentaneo, perché rovina le fonti più durature di questa fertilità. Più un paese si industrializza a grande scala, come negli Stati Uniti, più questo processo di distruzione sarà veloce. La produzione capitalistica, dunque, sviluppa le tecniche e il grado di combinazione del processo sociale di produzione, mentre allo stesso tempo mina le fonti originali di tutta la ricchezza — il suolo e l’operaio.”

L’urbanizzazione capitalistica tende in modo perpetuo a distruggere la città in quanto bene comune sociale, politico, abitabile.

Questa “tragedia” è simile a quella che ci descrive Hardin, ma nasce da una logica del tutto diversa. Lasciata priva di regole, l’accumulazione capitalistica individuale minaccia costantemente di distruggere le due risorse di proprietà comune che sostengono ogni forme di produzione: il lavoratore e la terra. Ma la terra che oggi abitiamo è un prodotto del lavoro collettivo dell’uomo. L’urbanizzazione è la produzione continua di un bene comune urbano (anche nella sua forma ombra di spazi pubblici e beni pubblici) e la sua perpetua appropriazione e distruzione da parte di interessi privati. E con l’accumulazione di capitale che avviene a un tasso di crescita composto (di solito a un minimo del 3% considerato soddisfacente), nello stesso modo cresce di intensità nel tempo la duplice minaccia all’ambiente (sia “naturale” che costruito) e al lavoro. Basta guardare al relitto di Detroit per avere un’idea di quanto possa essere devastante questo processo.

Ciò che è davvero interessante nell’idea di bene comune urbano è che propone tutte le contraddizioni politiche dei common in forma altamente concentrata. Consideriamo ad esempio la questione della scala entro cui ci spostiamo passando dalle organizzazioni politiche locali e dai quartieri alla regione metropolitana nel suo insieme. Tradizionalmente, i problemi dei beni comuni alla dimensione metropolitana vengono affrontati attraverso gli strumenti della pianificazione urbana e territoriale, riconoscendo il fatto che le risorse comuni necessarie ad un’esistenza efficiente delle popolazioni urbane, dall’acqua, ai trasporti, alla gestione dei rifiuti, agli spazi aperti per il tempo libero, devono essere pensate a questa scala. Ma quando si tratta di tenere assieme tutti questi aspetti, ecco che le analisi della sinistra diventano vaghe, indicando speranzose qualche magica convergenza di azioni locali che diventeranno efficaci alla dimensione regionale o globale, oppure sottolineando quanto sia importante questo problema prima di tornare alla scala – in genere micro e locale – in cui ci si sente più a proprio agio.

Possiamo imparare molto dalla recente vicenda delle riflessioni negli ambienti più convenzionali a proposito dei beni comuni. Ad esempio la Ostrom, mentre si ferma nella sua lezione da Premio Nobel sui casi di piccola dimensione, cerca rifugio nel sottotitolo “Governance policentrica dei sistemi economici complessi” per indicare come esistano alcune soluzioni ai problemi dei beni comuni passando attraverso varie scale. In realtà, non fa altro che riporre ogni speranza nell’idea che “quando una risorsa comune è strettamente legata a un più ampio sistema ecologico-sociale, le attività di governance si organizzano su livelli multipli per fasi successive”, ma senza ricorrere, ribadisce, ad alcuna struttura gerarchica monocentrica.

Il problema cruciale in questo caso è capire come possa funzionare un sistema di governance policentrico (o qualcosa di analogo, come la confederazione delle municipalità libertarie di Murray), verificando se non nasconda invece qualcos’altro di molto diverso. Questo interrogativo assilla non solo le argomentazioni della Ostrom, ma una vasta schiera di proposte emerse dal pensiero della sinistra sul problema dei beni comuni. Per questo motivo, è molto importante chiarire la critica.

Nella relazione preparata per un convegno sul Cambiamento Climatico Globale, la Ostrom ha ulteriormente riflettuto sulla natura del tema, appoggiandosi (cosa che ci fa molto comodo) sugli esiti di una analisi di lungo termine a proposito della distribuzione di beni pubblici nelle regioni municipali. Si ritiene da molto tempo che concentrare l’erogazione dei servizi pubblici in un governo a scala metropolitana, contrapposto all’organizzazione per numerose e apparentemente caotiche amministrazioni locali, migliori efficacia ed efficienza. Ma le ricerche dimostrano in modo convincente che non è così. Le ragioni alla fine si riducono a quanto sia più semplice organizzare e attuare un’azione collettiva e cooperativa con una fortepartecipazione degli abitanti in circoscrizioni più piccole, nonché al fatto che la partecipazione cala rapidamente passando a dimensioni amministrative più ampie.

La Ostrom conclude citando Andrew Sancton secondo cui “le municipalità sono molto più che semplici erogatrici di servizi. Sono meccanismi democratici attraverso i quali comunità a base territoriale si autogovernano localmente … chi vuole obbligare le municipalità a fondersi l’una con l’altra invariabilmente afferma di agire allo scopo di renderle più forti. Un approccio simile – del tutto benintenzionato – intacca le fondamenta della nostra democrazia liberale, perché indebolisce l’idea secondo la quale ci possono essere forme di autogoverno al di fuori delle istituzioni del governo centrale”.

Oltre all’efficacia ed efficienza del mercato, esiste anche un motivo non mercificabile per passare a una dimensione minore. “Mentre entità più vaste si sono inserite in un processo di efficace governo delle regioni metropolitane – conclude la Ostrom – sono componenti necessarie anche quelle di scala media e piccola”. Il ruolo costruttivo di tali entità minori “deve essere attentamente riconsiderato”. Sorge allora il problema di come strutturare i rapporti fra queste piccole entità. La risposta, afferma Vincent Ostrom, è “un ordine policentrico” nel quale “molti diversi elementi sono in grado di adeguarsi mutualmente ordinando i rapporti reciproci in un sistema di regole dove ciascun elemento agisce con indipendenza”.

Cosa c’è di sbagliato in questa immagine? L’intera questione ha le sue radici nella cosiddetta “ipotesi di Tiebout”. Ciò che Tiebout ha proposto è una metropoli frammentata nella quale numerose giurisdizioni offrirebbero ciascuna un regime fiscale locale particolare, e un insieme particolare di beni pubblici ai potenziali residenti, che “voterebbero coi piedi” scegliendo quella specifica composizione di tasse e servizi che meglio si adatta ai loro bisogni e preferenze. A un primo sguardo sembra una proposta molto interessante. Il problema è che più si è ricchi più risulta facile votare coi piedi, pagando un prezzo di ingresso in termini di costi dei terreni e degli immobili. Una migliore istruzione pubblica si può offrire con valori e tasse sugli immobili più elevate, ma ai poveri viene sbarrato l’accesso alle scuole migliori, e li si condanna ad abitare in circoscrizioni povere con cattive scuole. Attraverso la governance policentrica si riproducono privilegi e potere di classe, inserendosi perfettamente nelle strategie di riproduzione sociale neoliberiste.

Insieme a molte altre più radicali proposte di autonomia decentrata, anche quella della Ostrom rischia di cadere esattamente in questa trappola. Le politiche neoliberiste in realtà favoriscono sia il decentramento amministrativo che la più ampia autonomia locale. Se da un lato ciò apre uno spazio alle forze radicali per piantare più facilmente i semi di una agenda più rivoluzionaria, la conquista controrivoluzionaria di Cochabamba, da parte delle forze della reazione nel 2007 nel nome dell’autonomia (sino a quando non furono scacciate dalla ribellione popolare), indica come adottare strategicamente localismo e autonomia possa essere davvero un problema per la sinistra. Negli Stati Uniti, i dirigenti della “Cleveland initiative” celebrati come un esempio di comunitarismo autonomista all’opera, hanno finito per sostenere l’elezione a governatore di un repubblicano di estrema destra e antisindacale.

Decentramento e autonomia sono i veicoli principali per produrre maggiori diseguaglianze, attraverso il neo-liberismo. Al punto che nello Stato di New York l’offerta diseguale di servizi di istruzione pubblica nelle varie circoscrizioni che hanno risorse finanziarie radicalmente diverse è stata giudicata incostituzionale, e lo stato, per sentenza del tribunale, dovrà garantire una maggiore eguaglianza del sistema di istruzione. Non lo si è comunque fatto, e oggi si sfrutta l’emergenza fiscale per rinviare ulteriormente. Ma si noti bene come sia la posizione gerarchica sovradeterminata del tribunale statale a consentire di deliberare sull’eguaglianza di trattamento come diritto costituzionale. La Ostrom non lo esclude questo ruolo delle regole sovraordinate. I rapporti fra circoscrizioni indipendenti e autonome devono in qualche modo essere fissati e regolamentati (Vincent Ostrom in questo caso parla di “regole consolidate”). Ma restiamo comunque nel buio più totale su come queste regole sovraordinate possano essere stabilite, da chi, e su come possano essere sottoposte a un controllo democratico. Per la regione metropolitana nel suo insieme alcune di tali regole (o pratiche correnti) sono sia necessarie che essenziali. Inoltre, le regole non devono solo essere stabilite ed enunciate. Vanno anche applicate con un controllo attivo (come accade nel caso di qualsiasi bene comune). Per trovare un esempio catastrofico di tipo “policentrico” basta guardare all’Eurozona per comprendere cosa può non funzionare: tutti i paesi membri dovrebbero rispettare le regole contenendo i deficit di bilancio, ma quando la gran parte non le ha rispettate non si è trovato il modo di obbligarli a farlo e ad affrontare lo squilibrio fiscale emerso fra gli stati. Obbligare gli stati a rispettare gli obiettivi di riduzione delle emissioni di carbonio pare un altro obiettivo senza speranza. La risposta alla classica domanda “Chi mette il “bene comune” nel Mercato Comune?” possiamo considerarla un riassunto di tutto quanto non funziona nelle forme gerarchiche di governance, ma non per questo appare particolarmente affascinante l’immagine alternativa di migliaia e migliaia di municipalità autonome che difendono strenuamente questa loro autonomia, il loro territorio locale, negoziando senza fine (e senza dubbio con acrimonia) la propria posizione nel quadro europeo di divisione del lavoro.

Come può funzionare un decentramento radicale – che è certamente un obiettivo valido – senza la costruzione di qualche genere di autorità gerarchica superiore? È semplicemente naïf credere che il policentrismo, o qualunque altro modello di decentramento, possa funzionare senza forti limiti gerarchici e strumenti di imposizione attiva. Gran parte della sinistra radicale – specie quella di convincimenti anarchici e autonomisti – non ha risposte a questo problema. L’intervento statale (per non parlare dei controlli statali e del potere di costrizione) appare inaccettabile, e in genere si respinge la legittimità del costituzionalismo borghese. C’è invece una vaga e ingenua speranza che i gruppi sociali che hanno organizzato in modo soddisfacente il proprio rapporto coi common locali, faranno la cosa giusta o potranno convergere verso pratiche inter-gruppo soddisfacenti attraverso la negoziazione e l’interazione. Perché questo accada, i gruppi locali non dovrebbero essere disturbati da qualsiasi esternalità prodotta dalle loro azioni sul resto del mondo, e dovrebbero rinunciare a qualunque tipo di vantaggio accumulato, democraticamente distribuito all’interno del gruppo sociale, per dare aiuto o incremento di benessere da parte di altri gruppi vicini (figuriamoci quelli distanti) che, in seguito a decisioni sbagliate o a cattiva sorte, sono scivolati in una condizione di fame e miseria. La storia non ci fornisce molti esempi del fatto che un tipo di redistribuzione del genere possa funzionare, salvo casi sporadici o eccezionali. Non c’è dunque nulla in grado di prevenire un incremento della diseguaglianza sociale fra le varie comunità. Il che si adatta sin troppo bene al progetto neoliberista non solo di proteggere, ma anche di accordare ulteriori privilegi alle strutture del potere di classe (come appare evidente nella disfatta del sistema di finanziamento delle scuole nello Stato di New York).

Murray Bookchin è fortemente consapevole di questi pericoli: “un programma di municipalismo libertario può diventare facilmente vacuo, nei casi migliori, o in quelli peggiori essere usato per obiettivi miseramente localistici”, scrive. La sua risposta è il “confederalismo”. Mentre le assemblee municipali attraverso la democrazia diretta formano la base deliberante, lo stato viene sostituito “da una rete confederata di assemblee municipali; l’economia delle grandi imprese viene ridotta a un’autentica economia politica nella quale le municipalità, interagendo economicamente e politicamente l’una con l’altra, risolvono i loro problemi materiali come rappresentanti dei cittadini nelle libere assemblee”. Queste assemblee confederali saranno dedicate alla amministrazione e alla governance delle politiche deliberate nelle assemblee municipali, e i delegati potranno essere consultati da queste ultime in qualunque momento.

I consigli confederali “diventano lo strumento di collegamento di villaggi, paesi, quartieri, città, in una rete confederata. In questo modo il potere emana dalla base anziché dal vertice, e nelle varie confederazioni il flusso di potere dal basso diminuisce man mano gli obiettivi del consiglio federale si allargano territorialmente dal locale, al regionale, e da qui verso dimensioni sempre più ampie”.

La proposta di Bookchin è di gran lunga la più raffinata e radicale fra quelle che si confrontano con la creazione e l’uso collettivo dei beni comuni alle varie scale, e vale la pena di elaborarla in una agenda radicale anticapitalistica. Si tratta di un problema ancor più urgente a causa del violento attacco neoliberista contro la realizzazione pubblica di beni sociali negli ultimi trent’anni. Esso ha corrisposto all’attacco a tutto campo al potere e ai diritti del lavoro organizzato sferrato a partire dagli anni ’70 (dal Cile alla Gran Bretagna), ma si è focalizzato direttamente sui costi di riproduzione sociale del lavoro. Il capitale preferisce da sempre considerare come una esternalità i costi di riproduzione sociale – un costo sul quale non vi è alcuna responsabilità di mercato – ma il movimento socialdemocratico e la concreta minaccia di un’alternativa comunista lo hanno obbligato a internalizzare alcuni di questi costi, insieme ad alcune esternalità attribuibili al degrado ambientale, fino dagli anni ’70 nel mondo capitalistico avanzato.

A partire dagli anni 80, l’obiettivo delle politiche neoliberiste è stato quello di scaricare questi costi sui common globali della riproduzione sociale e dell’ambiente, creando così common negativi con i quali oggi è costretta a convivere tutta la popolazione. I problemi della riproduzione sociale, di genere, e dei common sono interconnessi.

La risposta del capitale alle condizioni di crisi globale dopo il 2007 è stata di imporre un drastico programma di austerity globale che riduce l’offerta di beni pubblici rivolti alla riproduzione sociale e al miglioramento ambientale, in entrambi i casi intaccando la qualità dei beni comuni. La crisi è anche stata usata per facilitare attività ancor più predatorie di appropriazione privata dei beni comuni, in quanto precondizione necessaria alla ripresa della crescita. L’uso del diritto di esproprio, ad esempio, per acquisire spazi per scopi privati (contrario al concetto di “pubblica utilità” per cui sono state originariamente intese queste leggi) è un esempio classico di ridefinizione degli obiettivi pubblici nel quadro di un sostegno statale allo sviluppo privato.

Dalla California alla Grecia, la crisi produce perdita di valore dei patrimoni urbani, dei diritti, dell’accessibilità per la più parte della popolazione, insieme all’accrescersi del potere del capitalismo predatorio su chi ha redditi più bassi ed è già marginalizzato. Si è trattato in breve di un attacco su tutti i fronti ai beni comuni riproduttivi e ambientali. C’è una popolazione globale che vive con meno di due dollari al giorno e che viene coinvolta nella micro finanza “la più subprime fra tutte le forme di prestito subprime”, per prelevare ricchezza (esattamente come accaduto col mercato della casa americano coi prestiti predatori subprime che hanno portato ai pignoramenti) e usarla per indorare le grandi case suburbane dei ricchi. Altrettanto minacciati i beni comuni ambientali, e le risposte che si propongono in questo campo (dal commercio delle emissioni alle nuove tecnologie ambientali) si limitano alla ricerca di un’uscita dall’impasse usando proprio i medesimi strumenti di accumulazione del capitale e gli scambi sui mercati speculativi che ci hanno condotto nelle attuali difficoltà.

Non sorprende, quindi, che non solo i poveri esistano ancora, ma che nel tempo il loro numero cresca anziché diminuire. Mentre l’India ha conseguito un più che rispettabile record di crescita in questo periodo di crisi, ad esempio, il suo numero di miliardari negli ultimi tre anni è balzato da 26 a 69, ma quello degli abitanti nello slum in un decennio è quasi raddoppiato. Gli effetti urbani sono sconvolgenti, coi condomini di lusso ad aria condizionata che spuntano nel mezzo del più abbandonato squallore metropolitano, dentro cui una popolazione impoverita lotta con tutte le proprie forze per conquistarsi qualche tipo di vita sopportabile.

Smantellare tutti i sistemi di regolamentazione e controllo che provavano, per quanto in modo non ancora adeguato, ad arginare gli istinti predatori dell’accumulazione, ha condotto a una logica sfrenata di accumulazione e speculazione finanziaria da aprés moi le deluge, oggi divenuta davvero un diluvio di distruzione creativa, in cui si inserisce appieno l’urbanizzazione capitalista. Il danno è contenibile e reversibile solo socializzando il surplus di produzione e distribuzione, e istituendo un nuovo bene comune di benessere accessibile a tutti.

È in questo contesto che la ripresa delle teorie e del dibattito sui beni comuni assume nuovi significati. Se i beni pubblici erogati dallo stato diminuiscono, o diventano semplici veicoli di accumulazione privata (come sta accadendo all’istruzione), e se lo stato via via si ritrae dal metterli a disposizione, allora c’è solo una risposta possibile, ed è che la popolazione si auto organizzi per procurarsi i propri beni comuni ( come è successo in Bolivia). Il riconoscimento politico del fatto che i beni comuni possono essere prodotti, protetti, e usati per un vantaggio sociale diventa così un quadro di riferimento per resistere al potere del capitale e ripensare le politiche di una transizione anticapitalistica.

Ma quello che conta di più qui non è la particolare composizione degli assetti istituzionali – un processo strumentale di enclosure in qualche caso, l’ampliamento delle forme di proprietà collettiva e comune in altri – ma che l’effetto dell’azione politica affronti la spirale del degrado del lavoro e delle risorse territoriali (ivi comprese quelle insite nella “natura seconda” che è l’ambiente costruito) oggi nelle mani del capitale. In tale processo, quella che Elinor Ostrom inizia a individuare come “ricca composizione di strumentalità” – non solo pubblica o privata, ma anche collettiva e associativa, stratificata, gerarchica e orizzontale, esclusiva e aperta – potrà giocare un ruolo chiave nella ricerca dei modi per organizzare produzione, distribuzione, scambio e consumo, così da soddisfare desideri e bisogni degli uomini su una base anticapitalista. Questa ricca composizione non è certo cosa data, ma deve essere costruita.

Il punto fondamentale è di non rispondere alle esigenze dell’accumulazione per l’accumulazione, per conto della classe che si appropria della ricchezza comune contro quella che la produce. Il ritorno dei beni comuni come problema politico si deve integrare pienamente nella lotta anticapitalistica in modi molto specifici. Purtroppo l’idea del beni comuni (così come del diritto alla città) può essere altrettanto facilmente fatta propria dal potere politico attuale, così come avviene con il valore oggi estratto dal bene comune urbano da parte degli interessi immobiliari. Quindi, occorre cambiare tutto questo trovando modi creativi per usare il potere del lavoro collettivo per il bene comune, mantenendo il valore prodotto sotto il controllo dei lavoratori che l’hanno prodotto.

Ciò richiede un attacco politico su due fronti, attraverso il quale da un lato lo stato venga obbligato a fornire sempre di più in termini di beni pubblici a scopi pubblici, e insieme l’autorganizzazione di intere popolazioni che si appropriano, usano, incrementano questi beni accrescendone e articolandone le qualità di beni comuni non mercificati, riproduttivi e ambientali. La produzione, protezione e uso di beni pubblici e gli urban commons in città come Mumbai, San Paolo, Johannesburg, Los Angeles, Shanghai e Tokyo diventa una questione centrale per i movimenti sociali democratici. E sarà necessaria molta più creatività e raffinatezza di quante ce ne siano oggi in circolazione nelle teorie radicali egemoni sui beni comuni, specie perchè questi beni vengono continuamente creati e appropriati attraverso la forma capitalistica di urbanizzazione.

Il ruolo dei beni comuni nella formazione della città e nelle politiche urbane inizia solo ora ad essere riconosciuto e studiato, sia dal punto di vista teorico che nelle pratiche radicali. C’è molto lavoro da fare, ma ci sono anche abbondanti segnali nei movimenti sociali urbani di tutto il mondo che ci sono molte persone e una massa critica di energia politica per farlo.

Il diavolo insegna a fare le pentole, non i coperchi: a proposito della Giunta Pisapia e dell’approvazione “obbligata” del PGT

Una delle ragioni ripetutamente sbandierate dalla Giunta milanese per portare ad approvazione in tutta fretta un PGT, che è la fotocopia blandamente edulcorata del precedente piano di governo del territorio Masseroli/Moratti, è stata l’inesorabile scadenza del 31 dicembre 2012, prescritta ai Comuni dalla legge urbanistica lombarda (12/2005) come termine ultimo per l’approvazione dei nuovi strumenti urbanistici. Si paventavano altrimenti accadimenti drammatici; addirittura un rischio di ‘commissariamento’ da parte di una Regione in cui i Comuni sono afflitti da ben altri tipi di commissariamento…

Ma questo rischio lo sapevamo tutti che non lo si correva. Infatti, alla scadenza prevista, su 1544 Comuni della Lombardia soltanto 988 risultavano avere PGT approvati (meno di due terzi), ma ben 337 risultavano con PGT soltanto adottati e ben 219 solo avviati. La neonata Giunta Regionale Maroni sta provvedendo a tranquillizzare i ritardatari: infatti ha approvato il 16 aprile un progetto di legge che ripristina l’efficacia dei previgenti PRG, rinviando la data fatidica al 30 giugno 2014. E anche l’opposizione ha presentato un suo progetto di legge che accorcia di poco i dilatati tempi di consegna.

Eddyburg ha espresso critiche molto puntuali nel merito del ‘nuovo’ PGT milanese: in particolare l’eccessiva fretta, la scarsa trasparenza, l’approvazione unanime in Consiglio Comunale.
Già durante e subito dopo la campagna elettorale che ha visto la vittoria a Milano della sinistra, ascoltando molti esponenti del PD proporre di non modificare il Piano delle Regole (le regole di Masseroli, compresa la perequazione estesa) erano sorti dubbi sulla volontà di vera riforma.

Che dire oggi? Che si è persa una grande occasione di ripensare Milano ‘daccapo’; di ripensare al futuro di una grande metropoli in una dimensione davvero europea, e non inseguendo con compiacente adattatività i grandi interessi immobiliari che ne comprometteranno ulteriormente attrattività, qualità e vivibilità.

Forse non si è trattato soltanto di fretta, ma di una ulteriore conferma della incapacità di ‘questa sinistra’ (direbbe Nanni Moretti) di amministrare e pianificare per il bene comune e, soprattutto, con una visione.

Suggeriamo a chi non ha condiviso le critiche al PGT avanzate su eddyburg, e soprattutto agli amministratori milanesi e ai loro consulenti, di rileggersi, senza fretta appunto, l’Eddytoriale n. 155 e di guardarsi attentamente allo specchio.

Corriere della Sera Milano, 7 maggio 2013 (f.b.)

Partiamo da un dato di fatto: se c'è una metropoli in Italia che può aspirare a diventare una smart city, una cosiddetta città intelligente, questa è Milano. Senza sollevare antagonismi, né conflitti. Non è una gara, ma un impegno collettivo che trova le sue radici nel senso stesso dell'aggregazione cittadina: mettere insieme arti, mestieri, servizi e solidarietà per creare un ecosistema vivibile. A Milano molto è stato fatto fino ad oggi. Il codice genetico di base — fatto di una storica voglia di fare, una cultura a tratti aspra ma sempre liberista e aperta, una banda larga ampia e competitiva e una geografia comoda e «pianeggiante» — è ben predisposto all'azione. Ma molto c'è ancora da fare. Una città intelligente, al di là dei mantra tecnologici, è una città che funziona meglio per tutti, una città più efficiente in cui i servizi inseguono i cittadini e non il contrario. I trasporti pubblici si adattano ai flussi e alle esigenze delle persone e non il contrario (come troppo spesso accade).

Il servizio BikeMi delle biciclette pubbliche è un esempio banale ma efficace di come una città possa essere flessibile, attuale, moderna. Talvolta con poco. Ma pensiamo a cosa potrebbe accadere con una gestione integrata dei dati della popolazione meneghina, da quelli sulla sanità a quelli sui rifiuti e sugli spostamenti quotidiani. Immaginiamo di mescolarli insieme ai flussi periodici di «immigrazione» — un capitolo che con l'Expo entrerà nella vita di tutti i cittadini diventando fonte di guadagni monetari e culturali per la città ma anche origine di stress.

La gestione digitale deve essere un mezzo per abbattere le inefficienze e non, come troppo spesso avviene per un malinteso senso del cambiamento, un obiettivo. Ora se sapientemente usati gli «open data», sulla falsariga di ciò che sta già accadendo in città come Londra e New York, possono darci un diagramma della vita pulsante di Milano. Gli «open data» sono quella massa enorme di dati che, grazie alla gestione affidata a instancabili server e computer, può farci vedere il problema da un'angolazione diversa, avvicinandoci a una soluzione. Ma — accettiamolo — è difficile che questa possa sempre giungere dall'alto.

La più grande lezione della stagione dei social network è l'impatto significativo che l'intelligenza «collettiva» può avere sull'individuo laddove la nostra storia, fino ad oggi, sembra fatta più di contributi di singoli geni — basti pensare a Leonardo da Vinci. Per questo un miglioramento della vita condivisa potrebbe venire dal contributo che i cittadini potranno dare sui dati aperti: la massa da sempre si oppone alla trasparenza. E gli «open data», senza un'applicazione che li renda utili, sono come una lampadina senza corrente elettrica (un esempio? A New York uno studente ha incrociato i nomi dei ristoranti con le segnalazioni dell'ufficio d'igiene permettendo al tuo smartphone di avvisarti se stai entrando in un locale a rischio). App4Mi, l'iniziativa che sarà annunciata oggi a Palazzo Marino, ideata dal Comune con il contributo del Corrieree di Rcs, nasce proprio da questo spirito. La smart city può prendere forma solo dall'unione delle forze di giovani, studenti, sviluppatori, designer, imprenditori. In una parola scontata ma piena di significato: da un ritrovato senso della «cittadinanza».

Nota: sulla smart city esiste anche la possibilità di Criteri di Valutazione, appunto per evitare la riduzione a gadget privatistico e fine a sé stesso (f.b.)

La coppia che esprime meglio il carattere bipartisan del governo Letta. Sarebbe bello se tutte le componenti della sinistra (dentro e fuori dal PD) lo comprendessero, e si comportassero in conseguenza. il manifesto, 7 maggio 2013, con postilla

Se è vero che la priorità programmatica del governo Letta è quella della creazione di nuovi posti di lavoro per i giovani, il ministero delle Infrastrutture è una delle chiavi fondamentali per tentare di riuscirci. Per tre motivi. Perché gestisce un pacchetto di finanziamenti consistente. Più di cento miliardi di euro finora destinati alle grandi opere spesso inutili, mentre al sistema delle città è stata assegnata la misera cifra di 2 miliardi. Il secondo motivo sta nella ricostruzione delle regole urbanistiche, unico modo per riportare legalità e trasparenza in un paese dove da venti anni ha trionfato la più oscura discrezionalità. Il terzo, il più importante, è quello di scongiurare la vendita del patrimonio immobiliare pubblico.
Il ministro è Maurizio Lupi, convinto sostenitore delle grandi opere. Egli è stato anche autore della famigerata legge che prese il suo nome. Nel precedente decennio quella proposta fu approvata dalla Camera dei Deputati e fu bloccata al Senato per un puro caso, altrimenti oggi l'Italia avrebbe abrogato addirittura il diritto di tutti i cittadini ad avere una quantità minima di servizi e verde, la storica conquista degli standard urbanistici del 1968. Mentre una sempre più ampia parte del paese discute della possibilità di ampliare il concetto di beni comuni, nel dicastero di Porta Pia siede un ministro che voleva abrogare uno dei pilastri della civiltà urbana italiana.
Ma evidentemente non bastava. Da Milano dobbiamo spostarci nel profondo sud e dal sistema Comunione e Liberazione dobbiamo passare al Pd. Il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, noto per la ferrea volontà di realizzare grandi opere tra le quali una mostruosa colata di cemento in atto sul lungomare occidentale della città, è stato nominato vice ministro.
Ecco, fresco di nomina, una dichiarazione di De Luca: «Cercheremo di portare a Roma le caratteristiche dell'esperienza fatta qui a Salerno, specialmente nella direzione della sburocratizzazione (...). A Salerno andrà avanti tutto il programma delle grandi opere, nella speranza che arrivino presto le risorse necessarie (...) perché a questo programma è legato il futuro economico della nostra città e, più, in generale dell'Italia».
È noto a tutti che la vera emergenza del paese è quella di ricostruire la pubblica amministrazione e arriva un viceministro che parla, come ai raduni di Pontida, di sburocratizzazione. Ancora non basta il disastro fin quì provocato? Non c'è poi persona normale che non sappia che la cultura delle grandi opere e della cancellazione delle regole hanno prodotto un solo risultato: che i comuni italiani sono sull'orlo del fallimento economico. Roma ha 15 miliardi di debito a causa del laissez faire urbanistico; Torino grazie alle grandi opere come le Olimpiadi invernali del 2006 ne ha 3; Parma grazie alla «sburocratizzazione» aveva creato oltre trenta società che hanno portato a 1 miliardo il deficit della città. E mentre cresce la richiesta di passare all'unica grande opera che serve, quella del rinnovo urbano, si guarda ancora al passato.
E veniamo alla terza leva, quella davvero fondamentale se si vuole salvare l'Italia. Grandi opere e deregulation non hanno portato soltanto al tracollo della finanza locale, ma anche prodotto un gigantesco arricchimento di pochi gruppi di proprietari e di immobiliaristi. Gli stessi che - insieme al sistema del credito fortemente esposto nei loro confronti: si pensi alla vicenda Ligresti - spingono oggi per acquistare a pochi soldi le proprietà pubbliche.
Siamo un paese in declino perché abbiamo i valori immobiliari più alti d'Europa: è questo il macigno che non permette l'apertura di nuove attività imprenditoriali, specie da parte di giovani che hanno competenze e voglia di fare ma non hanno i mezzi per accedere al mercato immobiliare privato. Il patrimonio immobiliare pubblico non deve dunque essere svenduto ai soliti noti: deve essere invece il volano che può rimettere in moto il paese. Per calmierare i prezzi immobiliari e salvare le città. E di fronte ai due dioscuri di Porta Pia, speriamo che siano le forze di opposizione presenti in Parlamento a scongiurare questo atto che affosserebbe definitivamente ogni ipotesi di futuro dell'Italia.
Postilla

Tutto sacrosanto. E purtroppo l'intesa bipartisan ha radici più profonde di quelle che appaiono oggi. vedi in proposito il documento conclusivo del governo Monti sulla questione urbana, cui abbiamo dedicato gran parte dell'eddytoriale 156. Una sola imprecisione: la Legge Lupi non «fu bloccata al Senato per un puro caso», ma perchè l'allora vicepresidente della commissione parlamentare, Sauro Turroni, riuscì a far udire alla commissione le voci critiche (a partire da quelle raccolte da eddyburg) che l'altro ramo del Parlamento aveva ignorato e che nella commissione senatoriale trovarono invece orecchie attente.

del Fatto Quotidiano, 6 maggio 2013), dedicato alla componente pricipale del nostro patrimonio: alla maggiore ricchezza d'Italia (se non ci si chiude nell'ottica distruttiva delle "merci" e dei "giacimenti cultural". Articoli su Napoli (Vincenzo Iurillo, Roma (intervista di Ferruccio Sansa a Vezio De Lucia), Enrico Fierro (Palermo), Michele Concina (Venezia), l'Aquila (Tomaso Montanari)

Tomaso Montanari

Il vero capolavoro della storia dell’arte italiana non è quella singola scultura di Michelangelo, o quel singolo Caravaggio: è ciò che oggi chiamiamo il “centro storico”. La Carta di Gubbio del 1960 lo definisce un “organismo urbano unitario cui va riconosciuta la qualità di bene culturale”. Un'opera d’arte abitata, insomma: come un corallo vivo. Di questi capolavori in Italia ne abbiamo circa 22.000: creati al tempo dei fenici, degli etruschi, dei greci, dei romani. Oppure medioevali, rinascimentali, barocchi e giù giù fino allo spartiacque della Grande Guerra. I nemici dei centri storici sono tanti. Il primo è lo spopolamento: nel 1971 il centro di Perugia aveva 15.000 abitanti, oggi 9.000; quello di Roma ne contava 358.291 nel 1951, 118.197 nel 2003. E poi la speculazione edilizia, le liberalizzazioni selvagge dei negozi, il turismo ossessivo (che umilia Venezia e prostituisce Firenze). L’abbandono della manutenzione ordinaria da parte delle amministrazioni, stroncate dalle leggi finanziarie degli ultimi vent'anni: il disastro è clamoroso a Napoli e a Palermo. La tragedia dell’Aquila è il culmine di uno sfascio diffuso. C’è un nesso tra il collasso della vita civile e politica e il collasso del patrimonio artistico. Per secoli, anzi per millenni, la forma dello Stato, la forma dell’etica, la forma della civiltà stessa si è definita e si è riconosciuta nella forma dei luoghi pubblici. È vero anche oggi, e questo è il problema: la sfida non è la ricostruzione materiale, è la ricostruzione civile.

Napoli, città chiusa per crolli
di Vincenzo Iurillo

Napoli. Il luogo simbolo dello scempio del patrimonio chiesastico napoletano è il perimetro murario del Chiostro di Santa Chiara. Imbrattato dai graffiti come una stazione della metropolitana. Con tanto di cuoricini e di improbabili “ti amo” verniciati sulle pareti. Impossibile non farci caso per i turisti, non molti, che si radunano all’ingresso, macchinetta fotografica rigorosamente al collo, costretti a brancolare a tentoni per la distruzione sistematica dei cartelli di segnalazione. Per fortuna l’attiguo Monastero di Santa Chiara gode ancora di discreta salute. Ma di fronte, la guglia dell’Immacolata di piazza del Gesù soffoca tra le sterpaglie che lesionano il marmo. Lo stesso problema del campanile della chiesa di S. Agostino alla Zecca e della chiesa del Gesù Nuovo.

Pochi sanno che il numero di chiese di Napoli è addirittura superiore a quello di Roma. Peccato che su 500, più di 200 risultino chiuse al pubblico, come la Chiesa di Sant’Aniello a Caponapoli, la Chiesa dell’Arciconfraternita di San Girolamo dei Ciechi, o la Chiesa di Santa Maria Vertecoeli. Diroccate come la Cappella di Sant’Antonio alla Vicaria o la Chiesa dei Santissimi Cosma e Damiano che si staglia tra i rifiuti di Largo Banchi Nuovi, un’opera del 1700 che John Turturro ha scelto per uno degli sfondi del film “Passione”. Sottoposte a lavori di restauro infiniti. Nel peggiore dei casi, saccheggiate dai ladri che si sono portati via altari, maioliche, candelabri, vasche sacre. È quel che è accaduto alla Chiesa di Santa Maria in Cosmedin in piazza Portanova, risalente ai tempi dell’Imperatore Costantino. Depredata di tutto. Persino delle reliquie di un cardinale.

Succede questo e altro a Napoli, capitale della convivenza tra bello e degrado, dove la medaglia del riconoscimento di patrimonio Unesco è appannata da decenni di incuria, e l’invito della nuova edizione del Maggio dei Monumenti a visitare “chiostri, cortili e sagrati” fa sorridere amaro Antonio Pariante e Vincenzo Giunta, tra gli animatori del Comitato di Portosalvo, presidio intellettuale di lotta per la riqualificazione delle bellezze culturali del centro storico. “Proviamo a visitare - dicono - il cortile medievale del complesso monastico di Sant’Anna dei Lombardi, che comprende la bellissima Chiesa dove sono custodite le opere del Vasari”. È una sollecitazione provocatoria. Quel cortile è inaccessibile, ora è il parcheggio delle auto dei carabinieri della caserma Pastrengo. L’ingresso è sbarrato da un cancello con lamiera “graffitata” per ostacolare lo sguardo dei curiosi. La scala di piperno antico, a sua volta, è divelta. Un orrore.

I monumenti e i palazzi “laici” non se la passano certo meglio. Due esempi per tutti. La celeberrima piazza del Plebiscito, la cui pedonalizzazione fu l’avvio del Rinascimento Napoletano degli anni ‘90, è stata letteralmente presa d’assalto dai graffitari. Che non hanno risparmiato neppure i leoni di pietra presso il colonnato e le statue equestri di Carlo III di Borbone e di suo figlio Ferdinando I. E il meno conosciuto Palazzo Penne, architettura durazzesca del 1400, nei pressi del Largo Banchi Nuovi, nel ventre di Napoli. Un rudere, ormai. Mortificato da brutti e mal eseguiti lavori di ristrutturazione, per i quali nessuno ha pagato prezzo: il processo si è concluso tre settimane fa con l’assoluzione di tutti gli imputati.

Se uno vuole aprirsi a un cauto ottimismo, può visitare la Chiesa di Sant’Anna dei Lombardi, un prodigio dell’architettura del XV secolo, passando purtroppo per la fontana di Carlo II d’Asburgo vandalizzata dalle scritte “Wc”. Chiesa bellissima e tutto sommato ben tenuta. Tranne che per le infiltrazioni d’acqua che stanno rovinando la cappella delle sculture del Mazzone. Sembra che l’acqua stia mettendo in pericolo anche la Chiesa di S. Giacomo degli Spagnoli, annessa al palazzo dell’amministrazione comunale.
Ma il problema non sono solo le piogge. A Napoli il terremoto del 1980 è un incubo mai superato. La Chiesa di San Michele Arcangelo nei pressi di piazza Dante, di stile barocco, è stata chiusa per un restauro post-sisma durato circa 30 anni. Le lesioni alle volte sono visibili a occhio nudo. Ma almeno questa è accessibile.

Le chiese chiuse e mai riaperte per il sisma si contano a decine. Una ferita mai rimarginata, nonostante i 150 milioni di euro spesi in trent’anni nella sola provincia napoletana. Il restauro della chiesa Ecce Omo, tra i bassi dei vicoli, è costato svariati milioni. La chiesa però è chiusa.

Ma anche quando sono disponibili, le, discutibili scelte di gestione lasciano sbarrate al pubblico i gioielli del cuore di Napoli, ad esempio nel ponte di fine aprile, per lo sconforto di chi immagina le file per visitare i musei e le chiesi di Firenze. È il caso della Chiesa e del vicino Chiostro di Santa Maria la Nova, che ospita anche le sedute del consiglio provinciale. Ingresso sbarrato per il vicino Museo d’Arte Religiosa Contemporanea. Semaforo giallo al Museo di Capodimonte: è aperto, ma il piano che ospita le opere di Andy Wahrol, no. I carabinieri si sono annessi un cortile sacro per le loro auto, la polizia si è accontentata di parte di un sagrato per gli scooter degli agenti. La “porta d’ingresso della Casa del Signore” occupata da vespe e moto è quella della Chiesa di San Diego dell’Ospedaletto, costruita nel 1700, di fronte alla Questura. “Scusi, lei è della Soprintendenza”? La signora urla ma è gentile.

È di Napoli. C’è una piccola folla che si ripara dalla pioggia. “Stiamo aspettando qualcuno della Soprintendenza che ce la apra, avevamo appuntamento alle 11 ma è già trascorsa mezz’ora”. Non disperi. C’è invece da disperarsi a Largo Giusso, fotografando i muri della Cappella Pappacoda. Sono rovinati dai murales. Il frutto di ore, giorni, settimane di lavoro. Si tratta della Cappella attigua alla Chiesa di San Giovanni Maggiore. Di un fascino struggente, ben tenuta, spesso utilizzata per convegni e concerti, con cura e rispetto. Ma tutto intorno è il caos, tra bottiglie di birra rotte e un insopportabile tanfo di piscio. È Napoli, bellezza.

Roma deserta: persi due abitanti su tre
di Ferruccio Sansa

Il centro storico di Roma in pochi decenni ha perso i due terzi dei suoi abitanti: siamo passati da trecento ad appena centomila. Ormai i centri storici rappresentano meno del 10 per cento delle nostre città”. L’architetto Vezio De Lucia è senza dubbio uno dei massimi esperti italiani - e non solo - di centri storici.

Architetto, ecco, partiamo proprio da Roma. Quali sono le emergenze più urgenti nella Capitale? “Non vorrei nemmeno fare un elenco, sono decine. Basta sfogliare le cronache che parlano di crolli nella Domus di Nerone, lungo le Mura Aureliane... il punto è un altro: si è abbandonata ogni politica per salvare il centro storico. Una volta, giustamente, si riteneva che i centri storici dovessero essere fatti di pietra, ma anche di abitanti. Che dovessero essere salvaguardati i monumenti, ma anche la vita”.

In concreto cosa si proponeva di fare? “I nostri centri, e Roma in particolare, hanno perso ogni senso sociale. Non sono più abitati da tutti gli strati della popolazione. Abbiamo scacciato chi ha meno soldi, gli artigiani. Oggi le città storiche sono un concentrato di turismo, ricchi e attività opulente”.

Che cosa si può fare per mantenere davvero vivi i centri? “In Italia negli anni Settanta ci fu chi ebbe il coraggio di riportare le abitazioni popolari nei centri storici. Il primo fu Pierluigi Cervellati a Bologna. Poi toccò al grande sindaco di Roma, Luigi Petroselli. Un’idea straordinaria. Non l’unica: Petroselli lanciò il progetto dei Fori che fece parlare tutto il mondo. Si volevano recuperare i fori di Nerva, Cesare, Augusto, Traiano che sono nella zona di via dei Fori. Così l’archeologia sarebbe tornata al centro della città. Non chiusa in un recinto, ma come parte della vita attuale”.

Sono passati trent’anni e non se n’è fatto niente... “Nulla. Peccato, la nostra sinistra aveva avuto intuizioni importanti, ma oggi sembra quasi vergognarsene. Adesso, e non voglio fare campagna elettorale, però vedo che un candidato, Ignazio Marino, sta riproponendo quel progetto”.

Qualcuno teme di trasformare la città in un museo... “Macché, sarebbe il contrario. Così il nostro patrimonio tornerebbe a far parte della vita contemporanea. Ricordatevi cosa dicevano i “ragazzi di vita” di Pasolini che abitavano le borgate: “Andiamo a Roma”. Ma sono la stessa città”.

E l’architettura moderna? Noi non siamo contrari, anzi, ma soprattutto in città come Roma i nuovi interventi, di qualità, dovrebbero trovare spazio nelle periferie che sono tanto degradate”.

Centri storici trasformati in vetrine, deserti, senza abitanti, ma anche cadenti... “Certo, le risorse sono poche. Ma è una questione culturale, prima ancora che politica. E pensare che restaurare le nostre città porterebbe lavoro”.

Senza contare il turismo, la nostra principale industria... “Appunto, sarebbe anche un investimento redditizio. Ma abbiamo perso la cultura dei centri storici. Pensiamo ai singoli monumenti, mentre le nostre città sono un monumento nel loro insieme. I palazzi e le persone. E poi...”.

E poi? “Ci siamo dimenticati che la nostra storia è fatta di città. Ognuna diversa dalle altre, ognuna con una lingua propria. Ecco, le città ci ricordano chi siamo stati e chi possiamo essere. Ho sentito in questi anni parlare tanto di identità. Più di qualsiasi discorso sono le città la nostra identità”.


L’Aquila, dopo i discorsi l’Italia l’ha abbandonata
di Tomaso Montanari

Ieri gli storici dell’arte italiani si sono trovati all’Aquila per scuotere con forza tutte le istituzioni e ogni cittadino italiano: non ha paragone al mondo la tragedia di un simile centro monumentale (già) abitato che ancora giaccia distrutto, a quattro anni dal terremoto che l’ha devastato, e dalle scelte politiche che l'hanno condannato a una seconda morte. Dopo la migrazione di massa nelle new town imposta dalla Protezione Civile di Bertolaso e Berlusconi e passivamente subita dall'amministrazione Pd, il centro monumentale poteva morire in pace: non serviva più a nulla. Se non a resuscitarlo, con calma, per farne un parco a tema, Aquilaland.

Un destino prefigurato dall’ipotesi di parcheggi sotterranei e centri commerciali a spese del tessuto storico monumentale e abitativo. L’Aquila è oggi, suo malgrado, il simbolo della perdita di tutti gli elementi centrali della tradizione culturale italiana: il rapporto strettissimo tra città e cittadini; tra monumenti e vita politica; tra arte e spazio pubblico. Coerentemente con questo progetto distruttivo, durante i tre anni e mezzo del commissariamento berlusconiano nel centro dell'Aquila non si è tirata su nemmeno una pietra.

Da circa sei mesi , invece, è finalmente partita la più colossale campagna di restauri dell’Europa di oggi. Grazie all’ex ministro Fabrizio Barca e all'impegno di Fabrizio Magani (direttore generale dei beni culturali abruzzesi) e di tutto il personale delle soprintendenze, qualcosa finalmente si è mosso, almeno per gli edifici vincolati: 23 cantieri sono avviati, 2 stanno per esserlo, altri 25 partiranno a breve. In molti casi si tratta di luoghi simbolo: il Teatro nell’ex chiesa di San Filippo Neri (avviato con un milione e duecentomila euro raccolti dal cd “Domani”), Palazzo Ardinghelli (i primi 7 milioni vengono dal governo russo), la chiesa della distrutta cittadina di Onna, finanziata dal governo tedesco. O la meravigliosa basilica dove riposa San Bernardino, il grande predicatore senza denti che infiammava l’Italia centrale del Quattrocento contro le lobbies degli usurai e del gioco d'azzardo.

Ma è solo un timido inizio. Il centro è particolarmente esteso perché l'Aquila è una delle rarissime città fondate dai suoi stessi cittadini, e con un piano urbanistico dettagliatissimo in cui gli innumerevoli e meravigliosi spazi pubblici nascono proprio per rappresentare i tanti castelli del Comitatus Aquilanus che nel XIII secolo cercarono uno spazio comune che non fosse solo un mercato, ma una città. Di questo passo, per riavere l'Aquila com’era e dov’era bisognerà aspettare tra venti e trent’anni, ammesso che duri il flusso dei finanziamenti: un miliardo all’anno per i primi dieci anni. E già il primo miliardo appare in forse, come è apparso chiaro durante un’audizione di Barca al Senato, una settimana fa.

Anche ammesso che i fondi arrivino, diventa vitale che il restauro del centro sia progressivamente accompagnato dal ritorno degli abitanti. Non possiamo aspettare l’arco di una generazione per far trasferire gli aquilani dalle new town nelle loro vere case: bisogna immaginare una politica di incentivi che acceleri questo processo, e che faccia progressivamente rivivere il centro. Per far questo, la ricostruzione deve inserirsi in una pianificazione urbanistica governata dalla mano pubblica, e non deviata da interessi privati. Ad essa spetterà anche decidere del futuro delle new town: alcune dovranno essere abbattute, per ripristinare il paesaggio oscenamente cementificato, altre potranno forse trovare un uso proficuo, ma solo all'interno di un piano preciso.
Ma sarà possibile arrivare ad un progetto di città, in un Paese che non sembra avere un progetto su se stesso?

Morte a Venezia, 50 milioni di piedi affondano la laguna
di Michele Concina

Venezia che muore, Venezia appoggiata sul mare. È come una splendida donna ammalata. Ha occhi che incantano e capelli di seta, ma sente che le ossa s’indeboliscono giorno dopo giorno, le arterie s’intasano. Non rischia di sbriciolarsi domattina, la città unica; ma viene consumata in perpetuo, e non potrà certo resistere per sempre. Sott’acqua, la erode il moto delle onde, centuplicato da una finta modernità che ha affollato la Laguna d’imbarcazioni a propulsione meccanica, e dall’incoscienza che l’ha aperta alle colossali navi da crociera. Oltre la superficie, a logorare Venezia sono i quaranta, i cinquanta milioni di piedi che vengono ogni anno a calpestarla.

La dolce ossessione degli ultimi suoi giorni tristi, Venezia la vende ai turisti. “Questa non è più una città, semplicemente. È un parco tematico, una Disneyland di pietra e d’acqua”, spiega Gianfranco Ortalli, decente di Storia medioevale a Ca’ Foscari. Oggi i residenti sono meno di sessantamila. Soverchiati da un esercito di turisti che le stime più prudenti quantificano in 22 milioni di presenze l’anno, quando già nell’88 il Comune fissava a 12 milioni il massimo sostenibile. “La presenza abitativa, coinvolta nella manutenzione della città, è schiacciata dalla presenza turistica, dedita esclusivamente al consumo di Venezia”, accusa lo storico dell’arte Tomaso Montanari. “E la città è gestita come una risorsa non rinnovabile, da sfruttare finché dura”.

Venezia è anche un sogno, di quelli che puoi comperare. Gli osservatori di cose veneziane, anche i più arcigni, concordano su un punto: rispetto a trent’anni fa, molti palazzi sono in condizioni migliori. È il risultato paradossale di due politiche che quegli stessi osservatori condannano, la privatizzazione del patrimonio edilizio pubblico e la terziarizzazione della città. Dato che non hanno soldi per la manutenzione, le istituzioni - a cominciare dal Comune - cedono i loro immobili di pregio ai privati più ricchi, che hanno risorse per metterli a posto. E intanto consentono il cambio di destinazione d’uso degli edifici privati, che vengono restaurati per farne degli alberghi.

Venezia è un imbroglio che riempie la testa soltanto di fatalità. Ma questo arcipelago di palazzi, talvolta rutilanti, è immerso in un tessuto connettivo di strutture in disfacimento. Ponti rappezzati, rive smangiate, fondazioni indebolite, imbarcaderi marciti, canali maleodoranti, scale consunte. Basta ascoltare chi la percorre tutti i giorni, la città di uso pubblico: i 433 gondolieri. “Da almeno una decina d’anni la manutenzione va scemando di continuo”, testimonia il loro presidente, Aldo Reato. “Si fanno solo rattoppi, e neanche di buona qualità”.

Lancia i suoi segnali d’allarme, la Venezia che è di tutti e non solo di qualcuno. In autunno è venuto giù un pezzo di Riva Parisi, poco dopo i sostegni della darsena di piazza degli Alberoni, al Lido. Un mese fa i giornali locali hanno scoperto che si sbriciola il pontile di Santa Chiara e affonda in Laguna la fondamenta delle Zattere. “Colpa del moto ondoso artificiale”, è la diagnosi di Reato. Perché è quasi inimmaginabile la quantità d’acqua che mandano a infrangersi contro le antiche pietre d’Istria le attuali navi da crociera. Mostri alti sessanta metri e lunghi trecento, a cui viene consentito di transitare di fronte a San Marco, di divorare anche visivamente il Palazzo Ducale. Un sistema urbano fragile come Venezia dovrebbe respingerli con le cannoniere; invece, Comune e Autorità portuale fanno a gara perché attracchino, perché scarichino altre folle a oberare la città. “Di fronte al ricatto del denaro anche le istituzioni, prone ai voleri del dio Mercato, sembrano pronte a tutto”, tuona Salvatore Settis, lo storico dell’arte più autorevole d’Italia.

Del resto del mondo non sai più una sega, Venezia è la gente che se ne frega. Neppure la tragedia del Giglio è bastata a interdire i Godzilla del mare. Il decreto emesso un anno fa dal governo Monti vieta il transito a meno di due miglia dalle coste. Con un’unica eccezione: Venezia, che sarà tutelata solo quando qualcuno, chissà come, scoprirà “vie di navigazione praticabili alternative”.
“I veneziani di oggi sembrano decisi a fare il massimo uso del favoloso tesoro che hanno ereditato, a sfruttarlo in ogni modo”, scrive Paolo Lanapoppi, di Italia Nostra, in “Caro turista”, uno dei titoli della coraggiosa casa editrice Corte del Fontego. La zampa del Leone non appoggia più sul vangelo di san Marco, ma su un libro contabile. E sopra c’è scritto: ultimi giorni, approfittatene.


Palermo, in pezzi duecento case e i sogni di rinascita
di Enrico Fierro

Da Palermo. I balati ra Vucciria 'un s'asciucanu mai". I balati, le strade, della Vucciria non si asciugano mai. E invece, trentanove anni dopo l'opera di Renato Guttuso, quei balati sono secchi. Muto il mercato. Non si sente più il venditore di pesce spada, quello che offriva cavallino, l'altro che magnificava la bontà unica delle sue stigghiole. Scomparsi per sempre i mille colori dei venditori di verdure, dei fruttivendoli capaci di tagliare angurie gigantesche con un colpo solo di coltello, perse le meraviglie architettoniche delle piramidi di arance che i venditori componevano sui loro banchi. "Un narratore o un commediografo, davanti alla Vucciria, avrebbero materia di scrittura sino alla fine dei loro giorni", ha scritto una volta Andrea Camilleri.
Ora quel narratore sarebbe sopraffatto dalla desolazione di palazzi transennati, mura fradice di pioggia e case pericolanti dove la vita che fu è raccontata da una selva di parabole arrugginite. É il destino del centro storico di Palermo. Trecento ettari di bellezze incomparabili, stili architettonici che si sono intrecciati e contaminati per secoli, la città disegnata dagli arabi che si mescola a quella pensata dai normanni, islam e cattolicesimo. Tutto questo era il cuore di Palermo. Ferito a morte dalle guerre, ucciso da anni di cattiva politica. Il centro storico della città, scrive Laura Azzolina in "Governare Palermo: storia e sociologia di un cambiamento mancato" – è il simbolo del degrado e, peggio, del dispregio con cui era stata gestita l'edilizia dai governi Dc negli anni del sacco di Palermo, il centro storico presentava ancora agli inizi degli anni Novanta edifici cadenti e le rovine dei bombardamenti del Secondo conflitto mondiale".
Vucciria, Capo, Albergheria, il degrado è qui, basta sfogliare le cronache cittadine per leggere titoli spesso ricorrenti che raccontano di crolli e morti. E rischia di non essere finita qui, visto che le case a rischio già accertato, secondo le stime del Comune, sono più di 250. La svolta rispetto agli anni del "sacco" della città, negli anni Novanta con la Primavera di Leoluca Orlando, quando il vecchio Piano di recupero varato nel 1979 fu sostituito da un impegnativo "Piano operativo di risanamento" finanziato con 25 miliardi di lire nel primo anno, 47 nel 1987, 65 nel biennio 1988-1989 e 70 nel 1990. Dal 1993 una nuova inversione con la definizione di un Piano particolareggiato di recupero affidato agli architetti Cervellati e Benevolo.
"Fu la grande intuizione di Leoluca Orlando", dice Alberto Mangano, per anni assessore del Comune di Palermo, oggi consigliere comunale e presidente della Commissione urbanistica. "Con molte luci e tante ombre – replica Ninni Terminelli, anche lui per anni consigliere comunale e oggi animatore di "Prospettiva politica" – ma Orlando riuscì a smuovere un immobilismo che durava da anni anche con un forte collegamento con l'Unione europea. Poi, con il decennio di amministrazione del Pdl tutto si fermò. Cammarata smantellò l'ufficio Europa del Comune". L'obiettivo di Orlando era quello di riportare almeno 50mila palermitani nel cuore della città, ma dopo anni di piani e previsioni solo in 30mila vivono nel centro storico, in mille sono scappati nei dieci anni di Cammarata. "La spinta propulsiva delle prime giunte Orlando si è fermata in quel periodo", è l'analisi di Mangano.
"Operavamo utilizzando le leggi regionali e i fondi Urban della Comunità europea, l'obiettivo era quello di risanare le case di riportare al centro le attività produttive e commerciali". Furono risanate chiese, recuperato il complesso di Sant'Anna, lo Spasimo, il Noviziato dei Crociferi. Ma oggi, in un periodo di crisi e di tagli feroci ai Comuni, come si fa a continuare l'opera di risanamento? "Dobbiamo puntare all'utilizzo di un teso-retto di almeno 15 milioni avanzati da bandi degli anni passati, ed in più convincere le cooperative sociali che operano in edilizia ad investire nel recupero di palazzi e appartamenti del centro storico. É una strada obbligata in una città dove le aree da destinare all'edilizia economica e popolare sono esaurite da tempo". "I balati ra Vucciria 'un s'asciucano mai" sopravvive solo come antico detto palermitano.
La realtà, scrive la studiosa Teresa Cannarozzo, è che "il centro storico continua ad esprimere contemporaneamente valori e disvalori: elementi di eccellenza, estremo degrado, marginalità sociale ed economica; invadenza della piccola e grande criminalità; crescita esponenziale del valore commerciale degli immobili; appetiti speculativi palesi e occulti. In assenza di politiche pubbliche all’altezza della situazione".

La nostra vita ha bisogno di un Centro
di Tomaso Montanari

Per noi che viviamo nelle vecchie città italiane, è abbastanza consueto dire: «Vado in centro!». Ma provate a fermarvi con la macchina a Forth Worth, in Texas, e chiedete a un passante dov'è il centro. Vi guarderà stupito, senza capire. Infine, vi spedirà in un centro commerciale.
Cosa c'è nel centro 'storico' delle nostre città? Ci sono i luoghi di tutti, quello che si chiamano gli «spazi pubblici»: la piazza, il palazzo del Comune (cioè comune, di tutti), la fontana, la chiesa. Quando fu fondata l'Aquila (quasi ottocento anni fa), lo Statuto comunale diceva che i singoli cittadini dei vari quartieri potevano farsi la casa, solo dopo aver costruito piazza, chiesa e fontana: le cose di tutti venivano prima delle cose private.

Ed erano più belle. Oggi sembra tutto il contrario: sembra che alle cose di tutti non ci teniamo tanto, come se fossero di nessuno. Ma se ci pensate passiamo una gran parte della nostra vita nei 'centri' comuni: a scuola, sui mezzi pubblici, per strada. Allora può servire tornare a conoscere i 'centri' costruiti dai nostri padri. Noi pensiamo che le opere d'arte siano dei singoli gioielli che possiamo trasportare dove vogliamo. Ma i centri storici sono delle vere e proprie opere d'arte: più preziose della somma delle singole opere d'arte che contengono. Perché sono degli organismi viventi, dei libri da sfogliare, dei depositi di memoria: e sono anche abitati.

Prendiamone uno meraviglioso, dove sono tornato pochi giorni fa: San Martino al Cimino, in cui (come accade ancora spesso) paese e centro coincidono. È a pochissimi chilometri da Viterbo, dopo l'ospedale (che è invece brutto in un modo terrificante: un enorme muraglia di cemento che spaccia un colle e un paesaggio). Nell'Europa del Medioevo (forse più unita della nostra) San Martino nasce intorno ad un pezzo di Francia piantato nella Tuscia: un'abbazia dei cistercensi di Pontigny. Ma il momento d'oro del borgo è il Seicento quando la cognata di papa Innocenzo X, Donna Olimpia Pamphilj, ne diventa principessa. La Pimpaccia (così la chiamavano i romani) non era proprio uno stinco di santo, ma porta a San Martino le migliori menti dell'arte romana: e il paese si trasforma in una specie di enorme Piazza Navona sperduta in campagna, con le sue fontane, le sue scale, il gigantesco palazzo Pamphili.

E, certo, va vista l'abbazia con ognuno dei suoi capitelli, va visto il meraviglioso stendardo di Mattia Preti e molto altro ancora: ma a parlare davvero è ogni pietra, ogni grata, ogni getto d'acqua. Come tanti strumenti in un'orchestra.In questa primavera, fatevi portare dai vostri genitori ad ascoltare quelle strepitose orchestre che sono i nostri centri storici.

La cosiddetta modernizzazione delle campagne in una prospettiva solo tecnologica forse non coglie in pieno il portato storico dei tentativi precedenti. La Repubblica, 6 maggio 2013, postilla (f.b.)

Da sempre sostengo che la rigenerazione dell’agricoltura avverrà grazie al dialogo tra saperi tradizionali e scienza “ufficiale”, soprattutto attraverso un utilizzo pieno e convinto delle moderne tecnologie. Per un contadino essere in rete non significa soltanto trovare un canale in più per collocare i suoi prodotti, ma essere il motore di scambi di esperienze, l’occasione di una formazione continua, di creazione di comunità più o meno virtuali che possono mettere in circolo tecniche, idee e soluzioni in grado di rispondere a diverse esigenze. Sia le nuove frontiere della scienza sia i saperi tradizionali riescono così a diventare argomento di dialogo, di arricchimento.

Lo stereotipo del vecchio contadino isolato dal mondo e un po’ ignorante, incatenato al suo fondo e senza capacità di interagire con gli altri, se non con i propri vicini, non corrisponde più alla realtà. Oggi i vicini di fattoria possono essere in altri continenti e le loro attività intelligenti e riuscite possono essere facilmente emulate da tutti. Anche il patrimonio di conoscenze delle università, di chi fa ricerca o delle associazioni di categoria può essere condiviso in tempo reale, senza il bisogno di percorrere centinaia di chilometri. Molti giovani contadini lo stanno sperimentando con successo e dimostrano che il ritorno alla terra non è una questione di poesia. Lavorare la terra, trasformare in cibo ciò che produce, essere imprenditori della natura e alleati con la natura è molto più gratificante e interessante che non perdersi in sfruttamenti da precariato perenne, magari proprio inseguendo
le nuove tecnologie.

Queste per i contadini “digitali” sono un mezzo e non un fine. Alcuni mesi fa fui coinvolto in una visita a un’oasi nel deserto in Marocco, dove una comunità di giovani produce marmellate di datteri. In un’oasi che sbocchi potevano avere? Grazie ai social network interagivano con le comunità marocchine a Düsseldorf e a Parigi e così riuscivano a piazzare tutti i loro vasetti. Senza questi strumenti ben difficilmente avrebbero potuto realizzare l’impresa, ma senza un’agricoltura antica, attenta a governare le acque nell’oasi, senza il sapere tradizionale di trasformare i datteri e le antiche varietà preservate avrebbero avuto ben poco da vendere. Non gli sarebbe bastata la Rete.

Postilla

Probabilmente Carlo Petrini, con la sua nota cultura contadina, non coglie il filo diretto che lega questa inedita versione della modernizzazione rurale ad altre precedenti. A chi si occupa di urbanistica non può sfuggire la perfetta analogia del ragionamento sul web del terzo millennio ad esempio con l'impianto concettuale delle Tre Calamite di Ebenezer Howard. Ecco, ciò premesso, nel millennio dell'urbanizzazione planetaria questo tipo di “urbanizzazione virtuale” delle campagne attraverso la rete e la sua diffusione dei saperi andrebbe letto nelle medesima prospettiva. Quanto c'è di socialmente progressista, quanto di ambientalmente impattante, che rapporti città/campagna si vengono a delineare, e via dicendo? Ovviamente non sono questioni da poco, ma vanno poste (f.b.)

Corriere della Sera Milano, 6 maggio 2013 (f.b.)

Il sogno di un Central Park nella città della Madonnina riparte dagli ex Gasometri della Bovisa. Quel luogo — soprannominato «La Goccia» per la forma che prende, delimitato com'è dalle tratte ferroviarie — per oltre un secolo è stato uno degli epicentri dello sviluppo industriale, sede dal 1905 degli impianti che hanno fornito gas e illuminato la metropoli e sono oggi meravigliosi esempi di archeologia industriale in abbandono, è da qualche anno oggetto di un accordo di programma (non ancora chiuso) per nuovi insediamenti. Programma di sviluppo che un movimento nato dal basso, da qualche mese, sta mettendo con forza in discussione.

I cittadini di Bovisa, consiglieri di zona 9, architetti, urbanisti, tecnici delle bonifiche, urbanisti chiedono che in quell'area grande come cento campi di calcio, dove c'è un bosco centenario (oltre duemila gli alberi ad alto fusto censiti dal Corpo forestale dello Stato) non crescano nuove case ma natura. E sperano che invece di «investire energie in bonifiche costosissime si cerchino nuove strade come quelle del biorisanamento, dove è il verde a divorare gli idrocarburi», spiegano Leonardo Cribio (Rifondazione) e Vincenzo Agnusdei (M5S). Sono alti i costi della bonifica stimati per quell'area industriale, che ospitò un'infinità di fabbriche chimiche e metalmeccaniche: da 60 a 80 milioni di euro. Tredici li ha già versati il Politecnico, che lì ha messo radici tempo fa e spera di ampliarsi con un campus.

Altri 10 arrivano dal governo centrale, la metà stanziati lo scorso autunno nell'ambito del «Piano nazionale per le città». Entro l'estate gli uffici del settore Bonifiche del Comune dovrebbero concludere «l'analisi di rischio» degli inquinanti, mappati in anni di carotaggi. «Si faccia un gruppo di lavoro», dice il neonato comitato La Goccia, presente al tavolo del verde, riunitosi a Palazzo Marino. Con loro, la voce autorevole di Giuseppe Boatti, già docente del Politecnico. «Nella Goccia c'è un'area verde grande come il Parco Sempione — spiega —. Bovisa ha una potenzialità enorme, è un nodo al centro di una rete verde: al di là c'è il parco Verga e, oltre Villa Scheibler, il parco delle Groane. Verso il centro s'aggancia allo scalo Farini e con la destinazione a verde prevista si potrebbe realizzare una dorsale di 5 chilometri dalle Groane alla selva di grattacieli di Porta Nuova». Senza contare il polmone verde dell'ex Paolo Pini (oggetto anch'esso di piani edilizi), anello di congiunzione con il parco Nord. Il sogno di un Central Park meneghino non s'accontenta più di vivere sui social network.

Il manifesto, 4 maggio 2013. Con postilla (m.b.)

Ricreare un futuro al paese attraverso la riconversione del patrimonio edilizio. Lo stop al cemento selvaggio e al consumo del suolo. La difesa di quanto resta di un territorio violentato da decenni di continue aggressioni. Il recupero del patrimonio edilizio esistente, e la sua valorizzazione attraverso meccanismi di riconversione. Anche sociale. Su queste basi il Forum nazionale «Salviamo il paesaggio» si ritrova oggi a Bologna per la sue terza assemblea nazionale. Seguendo un cammino per tanti versi parallelo ad altre realtà, associative e di base, impegnate sugli stessi temi. A partire dalla Rete dei comitati per la difesa del territorio di Alberto Asor Rosa, particolarmente attiva in Toscana. Fino allo stesso Wwf, che da qualche mese ha avviato la campagna di sensibilizzazione «Riutilizziamo l'Italia».

Anche la scelta del luogo dove ritrovarsi appare indicativa. L'assemblea di Salviamo il paesaggio nel capoluogo emiliano si svolge al «Senza Filtro» di via Stalingrado 59, un esempio pratico di riutilizzo del patrimonio esistente: una fabbrica dismessa, trasformata in uno spazio sociale, e gestita da una associazione (Planimetrie culturali) che la mette a disposizione del quartiere Fiera o di altre realtà che ne fanno richiesta. Una riconversione riuscita, ancorché guidata dall'alto in una città che invece è chiusa alle richieste (Bartleby, Tsunami) degli spazi autogestiti.

Il segnale politico è comunque quello del riuso. Ed è un percorso non lontano da quello avviato a Pisa dal Progetto Rebeldìa con l'occupazione dell'ex Colorificio di via Montelungo. In quel progetto del «Municipio dei beni comuni» avversato dall'amministrazione cittadina perché autorganizzato dal basso. Mentre a Firenze i movimenti e i comitati che contestano la visione privatistica della giunta Renzi chiedono che il nuovo regolamento urbanistico consenta per le aree dismesse la destinazione ad uso culturale, sociale e sportivo. Con il centro sociale Next Emerson pronto a presentare una manifestazione di interesse sull'area ex industriale occupata da anni.

Oltre che di riconversione dell'esistente, la rete di Salviamo il paesaggio (911 realtà, 90 nazionali e 821 tra associazioni e comitati locali) si pone obiettivi più generali. Del resto fin dalla fondazione, nell'ottobre 2011 a Cassinetta di Lugagnano, il «Forum italiano dei movimenti per la terra e il paesaggio» si è connotato come movimento teso a salvare il territorio italiano dalla deregulation e dal cemento selvaggio. Tanto da contestare alla radice sia la «legge Obiettivo» con le sua procedure straordinarie in tema di grandi opere, che la legge «Sviluppo bis» con i suoi incentivi sempre per le grandi opere. All'ordine del giorno dell'assemblea odierna c'è quindi la prosecuzione della campagna nazionale per un censimento dello stock edilizio sfitto, vuoto o non utilizzato, in ogni comune della penisola. Poi una legge di iniziativa popolare dal titolo: «Salviamo il paesaggio». Infine una forma di pressione per migliorare il ddl «salva suoli agricoli» approvato dal governo Monti ma fermo in parlamento.

Nonostante l'appoggio di una ventina di neo parlamentari (soprattutto di Sel e M5S) che alla vigilia delle elezioni hanno sottoscritto una carta di intenti del Forum, il cammino non si presenta facile. Solo per fare un esempio, fino ad oggi la campagna per censire gli immobili sfitti, vuoti o non utilizzati ha visto interagire con il Forum solo 600 degli oltre 8.000 municipi italiani. «Ma noi andiamo comunque avanti - spiegano gli attivisti della rete - perché siamo convinti che le amministrazioni debbano ridefinire i loro strumenti urbanistici basandosi sulla valutazione del patrimonio edilizio esistente e non utilizzato».

Postilla
Al consumo di suolo abbiamo dedicato la prima edizione della Scuola di eddyburg, nel 2005. I suoi materiali sono raccolti nel libro No Sprawl, a cura de Maria Cristina Gibelli ed Edoardo Salzano, (Alinea 2006). Eddyburg ha partecipato alla nascita dell'associazione, nata dall'iniziativa di Domenico Finiguerra, allora sindaco di Cassinetta di Lugagnano e al suo avvio. All'assemblea di Bologna abbiamo inviato il seguente messaggio:

«Cari amici,
ci dispiace di non poter essere presenti alla riunione del 4 maggio.
Come sapete, Eddyburg ha sostenuto attivamente la costituzione e le iniziative di Salviamo il paesaggio. Intendiamo confermare il nostro appoggio, poichè crediamo con convinzione nella necessità di coordinamento e aggregazione dei i soggetti attivi nella difesa del territorio.
Per parte nostra, il contributo possibile a questo scopo consiste nel mettere in evidenza e diffondere, attraverso il sito, le riflessioni e le iniziative legate alla tutela del territorio, al contrasto ad ogni forma di rendita e speculazione edilizia e alla promozione di un modello di insediamento fondato sui diritti, delle persone e dell'ambiente, e non piegato al mero interesse economico.
Continueremo a farlo, se possibile rendendo ancora più evidente - nella pagina principale del sito - il legame con i siti dei movimenti amici, tra i quali c'è "Salviamo il paesaggio".
Vogliamo anche porre alla vostra attenzione un tema che ci sta particolarmente a cuore e sul quale riteniamo debba essere avviata una campagna di informazione e mobilitazione analoga a quella condotta contro il consumo di suolo. Nelle città sono presenti numerose aree dismesse, molte delle quali di proprietà pubblica: ospedali, carceri, depositi, stazioni, macelli, fiere e mercati. E diventano sempre più numerosi gli spazi inutilizzati e lasciati al degrado. La sottocultura dominante guarda a queste aree esclusivamente sotto l'aspetto patrimoniale. I gruppi di interesse le considerano come un terreno di caccia, dal quale trarre il massimo guadagno economico. Al contrario, noi riteniamo che siano le uniche risorse disponibili per rispondere ai bisogni, crescenti, dei cittadini, in termini di abitazioni economiche, luoghi di lavoro, servizi di interesse pubblico. La posta in gioco è molto alta: consegnare queste aree alla speculazione, potrebbe rivelarsi esiziale per le nostre città.

Salvare il paesaggio e salvare le città: questo dobbiamo fare, insieme.

Edoardo, Ilaria e Mauro»

La Nuova Sardegna, 3 maggio 2013

Ha vinto il costruttore Gualtiero Cualbu: la mancata realizzazione del piano immobiliare di Nuova Iniziative Coimpresa sul colle archeologico di Tuvixeddu costerà alla Regione un indennizzo di 70 milioni di euro. L’ha deciso il collegio arbitrale, il contenuto del lodo definitivo è stato comunicato alle parti in causa che nelle prossime ore riceveranno formalmente la decisione motivata. Per l’amministrazione regionale è un colpo micidiale, un verdetto in aperto contrasto con la sentenza del Consiglio di Stato che a marzo del 2011 aveva sentenziato la piena legittimità dei vincoli per notevole interesse pubblico imposti sull’area storica dalla giunta Soru. Quei vincoli restano e l’impresa non potrà mettere in piedi un solo mattone attorno alla necropoli punico-romana più importante del Mediterraneo. Ma per i tre arbitri Cualbu ha diritto a una somma che compensi gli investimenti e il mancato profitto sulla vendita degli immobili mai costruiti malgrado a suo tempo l’intervento fosse stato autorizzato dalle sovrintendenze e legittimato da due accordi di programma firmati nel 2000 da Regione, comune di Cagliari e Coimpresa. Ora la Regione potrà ricorrere ai giudici ordinari della Corte d’Appello civile, mentre già un collegio di secondo grado ha all’esame il ricorso presentato dall’ex governatore Renato Soru e dall’ex assessore all’urbanistica Gianvalerio Sanna contro la loro esclusione dal giudizio arbitrale. Sulla vicenda, di rara complessità, pende poi un’inchiesta giudiziaria aperta contro ignoti dalla Procura cagliaritana, che ha acquisito tutti gli atti della controversia arbitrale partendo da un esposto e dagli atti ufficiali degli avvocati in forza alla Regione, nei quali sul contenuto della relazione tecnica consegnata dall’advisor Deloitte Spa agli arbitri venivano posti seri dubbi. Dubbi che hanno portato il collegio arbitrale prima a un rinvio della decisione, poi ad ulteriori approfondimenti sulla questione affidati ancora a Deloitte. Sembrava che i tempi dovessero allungarsi, invece ieri è arrivata la decisione, del tutto sfavorevole alla Regione.

Di certo il lodo firmato dagli arbitri - l’ex magistrato Gianni Olla, il docente romano Nicolò Lipari dell'università la Sapienza e il presidente emerito della Corte Costituzionale Franco Bilé - non contribuisce a fare chiarezza su una vicenda spaccata su più fronti: il costruttore ha perso tutte le battaglie davanti ai giudici amministrativi, incassa però adesso una vittoria fondamentale, che gli consente di rientrare da un’operazione rivelatasi, non certo per causa sua, fallimentare.

Ma vediamo su quali basi poggia il lodo arbitrale, in attesa che venga diffuso il testo della decisione. Per il consulente Deloitte, incaricato dagli arbitri, i 1971 giorni di ritardo accumulati dal 2006 nella realizzazione del progetto immobiliare di Tuvixeddu hanno provocato alla Nuova Iniziative Coimpresa un danno pari a 39 mila euro al giorno, in tutto 76,7 milioni calcolati al 18 maggio di due anni fa nell'ipotesi che i lavori fossero sospesi e che potessero riprendere. Di questa cifra la Regione - per la Deloitte - dovrebbe pagare al costruttore una buona parte, circa 60 milioni, se il collegio arbitrale stabilisse con un lodo definitivo che sono state le amministrazioni di Soru e Cappellacci a provocare e a mantenere il blocco degli interventi sul colle dei Punici, che una volta completati e offerti sul mercato nei tempi previsti - 36 mesi per le opere di urbanizzazione, 55 mesi per quelle edili - avrebbero garantito all'impresa un utile dopo le tasse tra i 113 e i 136 milioni a patto che ogni appartamento fosse stato venduto entro il 2020. La colpa principale sarebbe della Regione, cui Deloitte attribuisce infatti la percentuale maggiore di "responsabilità" soprattutto nel periodo che va dal 9 agosto 2006 al 4 dicembre 2008. Nella fase due però, dal 2008 ad oggi, si affiancano all'amministrazione regionale il ministero dei Beni Culturali attraverso l'Avvocatura dello Stato e le associazioni culturali ed ecologiste. Una sorta di forza d'opposizione che alla fine vince i giudizi davanti al Consiglio di Stato e al Tar, fermando Nuova Iniziative Coimpresa e aprendo di fatto il contenzioso parallelo davanti agli arbitri.

Nella lunga relazione è compresa una sterminata raccolta di servizi giornalistici, note di associazioni ecologiste, trascrizioni di dichiarazioni pubbliche e documenti utili - secondo Deloitte - a dimostrare la grande attenzione mediatica sul caso Tuvixeddu provocata dalle iniziative della giunta Soru, dei Beni Culturali e della Procura.

riferimenti

Sulla vicenda della necropoli punico-fenicia dei colli Tuvixeddu-Tuvumanno a Cagliari vedi i numerosi articoli nella cartella SOS Sardegna

Corriere della Sera Milano, 3 maggio 2013, postilla (f.b.)

L'isola ciclopedonale più estesa di Milano sorvola via Melchiorre Gioia su un ponticello «ad ali di gabbiano», ma la leggerezza si ferma alla metafora: sono serviti una «sfida d'alta ingegneria», un trasporto straordinario notturno e la gru più grande d'Europa per muovere queste 400 tonnellate di acciaio e allacciare i due tronconi nel paesaggio di Porta Nuova. La passerella — lunga 68 metri, larga 5,4 — sarà aperta al pubblico solo all'inizio del 2014, dopo le rifiniture e i collaudi tecnici, ma da ieri anticipa il futuro sostenibile promesso al quartiere: un unico e ininterrotto percorso pubblico senz'auto tra le Varesine, la piazza circolare dei grattacieli, il Bosco verticale e il nuovo corso Como residenziale. In totale: 160 mila metri quadrati di città libera dal traffico.

Ecco il triangolo della mobilità dolce: Repubblica, Garibaldi, l'Isola. «Con quest'intervento prosegue il processo di ricomposizione dei quartieri storici di Milano», sottolinea Manfredi Catella, l'amministratore delegato di Hines Italia, la società capofila nel piano di riqualificazione urbanistica. Il ponte (in ritardo di sei mesi, progettato da Arup e realizzato da Omba, il profilo snello e impianti per l'illuminazione notturna) è l'anello di collegamento tra le torri Unicredit e la stecca delle Varesine. Una tappa di passaggio simbolica e strutturale: «La posa della passerella — intervengono il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris e l'assessore Carmela Rozza — rappresenta un ulteriore passo in avanti per la realizzazione delle opere pubbliche nell'area di trasformazione di Porta Nuova». In cantiere, ad osservare gli operai, c'era ieri anche l'assessore alla Mobilità, Pierfrancesco Maran: «La mobilità nuova è qui».

La passerella è una tappa, si diceva. Il cronoprogramma dell'operazione Porta Nuova annuncia da subito una serie di altre scadenze. Entro maggio aprirà il primo negozio nella piazza-podio intitolata a Gae Aulenti: è la gelateria Grom. Il mese prossimo sarà presentato il centro espositivo firmato dallo studio Grimshaw (l'edificio a forma di armadillo) ed entro l'estate sarà completata l'istruttoria amministrativa per la Casa della Memoria all'Isola. Quanto alla Biblioteca degli alberi nel parco da 85 mila metri quadri, progettato da Petra Blaisse come «moderna versione di un giardino botanico», le bonifiche inizieranno a fine anno: «Il primo lotto — annuncia Catella — sarà consegnato ai cittadini entro il 2014». Al posto del Centro culturale Varesine, stralciato dalle carte, sarà «rapidamente allestita» una piazza pubblica. Scomparso dalla mappa anche il museo della Moda (o Modam): il Comune investirà le risorse degli oneri di urbanizzazione per altri interventi nel quartiere.

Infine, l'aspetto commerciale. La crisi del mattone ha rallentato il collocamento delle residenze (in tutto sono 380) e degli uffici. Le vendite, iniziate nel 2010, proseguiranno per altri due-tre anni: ci sono circa 180 appartamenti liberi. Riempite le casette di corso Como (95 alloggi abitati su 100), Hines metterà sul mercato a fine anno le ville urbane alle Varesine e gli ultimi piani delle torri Solaria e del Bosco verticale.

Postilla

La prima parte delle osservazioni a margine, ovviamente è di sollievo: la grande operazione dei grattacieli firmati non finisce qualche metro sopra il livello stradale, lasciandoci impantanati nella solita valle di lacrime urbana sottostante. C'è anche un “progetto di suolo” per contestualizzare l'intervento anche nella fascia del cosiddetto plinto urbano. E va bene. Ma non può non saltare all'occhio come il meccanismo sia identico ad altri progettoni urbani, come quello recente del Portello, a rigoroso orientamento automobilistico stile anni '60: mancano solo la brillantina, il gomito fuori dal finestrino e la sigaretta doppio filtro ostentati come distintivo di modernità. Sovrappassi, sottopassi, passerelle, in sostanza percorsi segregati, anziché quell'integrazione vera che fa città del terzo millennio. Aggiungiamoci la rigida destinazione terziaria, e si finisce per apprezzare soprattutto la vicinanza del vecchio quartiere Isola, un po' acciaccato ma almeno dotato di qualità urbane vere: possibile che la nostra esperienza della modernità debba essere forzatamente caricaturale? (f.b.)

Sul medesimo tema delle costose opere infrastrutturali invece di una forse più adatta pianificazione e organizzazione, si vedano i precedenti articoli sul Tunnel di Monza, e sull'area di riqualificazione all'ex Alfa Portello

«Non tutto è perduto, ricorda De Lucia, ma occorre svellere alla radice la cultura giuridica che ha prevalso sin qui: quella che fa l'uomo proprietario il protagonista del vivere sociale e del territorio una merce qualunque». Il manifesto, 2 maggio 2013
Una paradossale anomalia segna i caratteri della cultura italiana in età contemporanea, in massimo grado nella seconda metà del Novecento: la debole presenza e influenza, la nulla “popolarità” della cultura urbanistica presso l'opinione pubblica nazionale, oltre che presso gran parte dei gruppi intellettuali. Paradossale perché l'Italia è terra di città come nessun altro Paese al mondo, non solo in virtù della loro disseminazione fisica nel territorio, ma anche per la loro rilevanza politica, il ruolo svolto per secoli nella complessiva storia nazionale. In un paese cosi fatto, la cultura urbanistica avrebbe dovuto costituire un carattere originario e dominante, e dunque ispirare con speciale saggezza il governo dell'esplosione demografica del '900, l'occupazione massiva degli spazi sotto la spinta dello sviluppo industriale.

Questo sarebbe stato necessario e provvidenziale: perché far sviluppare secondo un disegno ordinato e previdente le città, vale a dire i luoghi prevalenti della vita associata, avrebbe significato un vantaggio senza pari per lo svolgimento delle economie e dei traffici e una più sicura felicità pubblica. Dalle regole e dagli istituti destinati a indirizzare l'espansione urbana sarebbe dipesa gran parte di quella che oggi chiamiamo qualità della vita. Aveva intravisto tale ruolo della “cultura istituzionale” Carlo Cattaneo, il primo a segnalare il carattere eminentemente urbano della nostra civiltà: « Poiché la cultura e felicità dei popoli non dipendono tanto dalli spettacolosi mutamenti della superficie politica, quanto dall'azione perenne di certi principi, che si trasmettono inosservati in un ordine inferiore d'instituzioni» (1847)

Un decisivo “ordine inferiore d'instituzioni ” è la legislazione urbanistica, la regolamentazione dell'uso dei suoli per lo sviluppo dell' edificato e per la strutturazione del territorio. E la sua debolezza o la sua assenza hanno deciso non poco della « felicità» del popolo italiano nell'ultimo mezzo secolo. Ritorna su questi temi Vezio de Lucia, assessore all'Urbanistica del comune di Napoli nella prima giunta Bassolino, ed uno dei pochi “annalisti” delle vicende urbane d'Italia del secondo '900. A lui si deve un piccolo classico della materia Se questa è una città ( 1989 e 2006) e varie altre pagine di storia urbana, oggi riaggiornate, per così dire, in un più ampio affresco che dai primi anni '60 giunge fino ai giorni nostri. In Nella città dolente ( Castelvecchi , Roma 2013, pp. 215, euro 19)De Lucia avvia la ricostruzione tormentata della nostra legislazione e degli effetti di essa sulla carne viva del territorio e della società italiana, partendo dalla più grave sconfitta subita in tale ambito dalla collettività nazionale: la sconfessione della Legge Sullo da parte del suo partito, la Democrazia Cristiana. « Il 13 aprile del 1963 è una data fondamentale nella storia del nostro Paese.», giorno in cui un comunicato della DC su Il Popolo sconfessò il ministro democristiano. Veniva così demolito un disegno ambizioso e radicale promosso dal ministro dei Lavori Pubblici, Fiorentino Sullo – dietro cui c'erano non solo valenti urbanisti e ingegneri, ma anche istituzioni culturalmente assai forti come l'Istituto Nazionale di Urbanistica (INU, presieduto da Adriano Olivetti dal 1948 fino al 1960) Italia Nostra e vari gruppi politico-intellettuali. In che cosa consisteva essenzialmente il progetto di riforma urbanistica proposto da Sullo nel 1962? Esso prevedeva l'esproprio delle aree ritenute edificabili dai piani regolatori con un indennizzo corrispondente al valore agricolo dei terreni aumentato a seconda delle destinazioni. I Comuni, acquisite le aree, dovevano provvedere alla opere di infrastrutturazione primaria e cedere, per mezzo di asta pubblica, il “diritto di superficie” sui suoli destinati a edilizia residenziale che restavano di proprietà comunale. Tale dispositivo avrebbe messo a disposizione di una popolazione in grande crescita case a buon mercato, limitato il potere della rendita, dunque distribuito più equamente la ricchezza nazionale e lasciato in mano ai comuni il controllo del proprio territorio. La sconfitta di Sullo, ricorda De Lucia, « scatenò un assalto al territorio mai visto prima. In cinquant'anni sono stati sfigurati cinquemila anni di civiltà insediativa. Il Bel Paese non c'è più, ne restano sparsi brandelli».

Ovviamente, la storia successiva al 1963 non è semplicemente un deserto di rovine. De Lucia mette in luce e ricostruisce - intrecciando sempre le vicende urbanistiche con la più generale storia politica del Paese - una più complessa vicenda nella quale non mancano le pagine positive e perfino luminose, sia sul piano legislativo che delle realizzazioni. Si va dalla Legge 167, voluta dallo stesso Sullo, che favoriva l'edilizia popolare, alla legge Bucalossi del 1977, dalla salvezza dell'Appia antica, per iniziativa dell'allora ministro del Lavori Pubblici Giacomo Mancini(1965) alla Carta di Gubbio del 1960, il documento che segna la nascita di una specifica creazione della cultura urbanistica italiana: la tutela e il recupero dei centri storici. Non senza dar conto di una pagina politica che ha fatto scuola nel mondo: il recupero del centro storico di Bologna, ai primi anni '70, ad opera dell'allora assessore all'Edilizia Pierluigi Cervellati. Una vicenda che De Lucia ricostruisce anche nei contrasti allora esplosi tra quell'intrepido assessore e altri valenti urbanisti e i vertici nazionali del PCI. Nei decenni che vanno dal dopoguerra ai primi anni '80 la storia delle città italiane, che pure conoscono inaudite forme di saccheggio ( è il caso soprattutto di Palermo, Napoli e Roma) è una vicenda non solo di ombre ma anche di conquiste a favore dell'interesse generale e della tutela del patrimonio urbano e del territorio. E tuttavia tali conquiste sono state possibili grazie a lotte sempre aspre e difficili, messe costantemente in forse da una dominante interpretazione privatistica del nostro diritto costituzionale. Nel 1968 la Corte Costituzionale dichiarò illegittime le disposizioni previste dalla Legge urbanistica del 1942, che imponevano ai privati vincoli di destinazione a verde e a infrastrutture pubbliche sui loro suoli. Nel 1980, la stesa Corte, con una sentenza che ha lasciato l'Italia senza una legge urbanistica generale, ha dichiarato illegittimo l'indennizzo , a prezzo di suolo agricolo, dei terreni espropriati previsto dalla Legge Bucalossi, e ha dichiarato lo jus aedificandi inerente al diritto di proprietà, aprendo così il varco a un uso privato del suolo di cui continuiamo a subire le conseguenze. L' “urbanistica contrattata” - vale a dire l'applicazione dell' ideologia neoliberistica alla gestione del territorio - che si avvia negli anni '80 sarebbe inconcepibile senza questa supremazia del diritto privato. E qui possiamo vedere quanto l' ”ordine inferiore d'instituzioni” di cui parla Cattaneo abbia pesato sulla storia italiana del secondo Novecento. Un diritto che ha bandito alla radice l'idea del territorio, della città, della salubrità e della salute quali beni comuni, ha condotto all'inferno presente. La libertà predatoria di ognuno determina l'infelicità urbana di tutti. Ovviamente, non tutto è perduto, ricorda De Lucia, ma occorre svellere alla radice la cultura giuridica che ha prevalso sin qui: quella che fa l'uomo proprietario il protagonista del vivere sociale e del territorio una merce qualunque.

Ricostruire la Grande Milano, dall'essere concepiti caso per caso secondo le esigenze degli investitori, anziché quelle del territorio

In questi ponti primaverili segnati dal tempo incostante, pazzerello come dicono gli smemorati dell'anno scorso, le uniche uscite praticabili salvo eroismi sono quelle del genere mordi e fuggi. Il 25 aprile a differenza di altre volte (basta guardare le foto delle manifestazioni dal dopoguerra: soprabiti e ombrelli ovunque) uno squarcio di cielo azzurro almeno sulla padania ha riacceso la voglia di passeggiare, dopo la claustrofobia invernale. Passeggiare ovunque, anche dentro certi spazi improbabili come i cosiddetti ambiti di riqualificazione urbana.
La zona a uffici dalla sopraelevata
Milano in questo campo è da sempre all'avanguardia. Intendo sia il campo della voglia di passeggiare che quello della riqualificazione urbana. In epoca moderna, almeno da quando negli anni gloriosi (?) delle ultime amministrazioni di sinistra, come si diceva una volta, si iniziava a squarciare idealmente il velo grigio di muraglie, ciminiere, raccordi ferroviari e stradoni a cul-de-sac dismessi da lustri, ma restati lì in attesa di chissà che cosa. Gli anni in cui l'amministrazione comunale sperimentava in un modo o nell'altro strumenti urbanistici nuovi per assecondare la nuova città in ascesa. Gli anni in cui Gabriele Basilico immortalava, nel suo museo fotografico in tempo reale, la vera natura di monumento alla storia sociale, di quei capannoni ancora incombenti, ma già consegnati al passato. A tutti restava la voglia di varcare quelle soglie ideali di grandi isolati, oltre le erbacce e la cosiddetta “nostalgia delle ciminiere”.
Poi si scoprì che, come sospettava qualcuno, dietro l'entusiasmo per il cosiddetto post-industriale c'era molto vuoto culturale e voglia di arraffare a più non posso. Ci fu la stagione di Mani Pulite, che insieme a tanto altro rallentò (e giustamente, da molti punti di vista) le trasformazioni urbanistiche, rendendo evidente come anche i più fascinosi rendering spesso servissero solo a nascondere miserie, dietro a promesse di futuri scintillanti. Alla fine però, nel bene e nel male, qualcuno di questi progettoni pubblico-privati inizia a prendere forma e spalanca almeno in parte i propri spazi ai cittadini, un po' come quelle tenute nobiliari di cui a fine '700 crollavano i cancelli arrugginiti, lasciando finalmente scoprire l'idea di parco urbano a chi soffocava nei quartieri storici. All'ex Alfa al Portello, per esempio, dove col sole della giornata di festa si è precipitata una piccola folla, tra il curioso e discutibile parco a spirale ascendente, e la cosiddetta “piazza”. Ovvero il centro commerciale all'aperto, che per l'occasione vedeva attivissimi i chioschi di gelato, come davanti ai classici sagrati italiani della tradizione, salvo lo sfondo di ipermercato, marchi e insegne globalizzati.
La collinetta del parco a spirale ascendente
Qui ci sarebbe da fare una piccola divagazione a proposito del dibattito su negozi aperti si, negozi aperti no, nei giorni festivi. Nel senso: cosa ne sarebbe, di posti così, se gli esercizi commerciali abbassassero le saracinesche? Ma si tratta (come scopro tutte le volte che provo a toccare l'argomento) di un tema arroventato da ideologie varie, e che non sta al centro di queste note. La Piazza Portello coi suoi negozi aperti il 25 aprile, stavolta serve solo da portale di ingresso nell'universo della riqualificazione sperimentato direttamente. Una riqualificazione che per ora pare assumere un sapore piuttosto stantio, anni '60 per intenderci. Vediamo perché. Se si va un pochino oltre quella piccola e in fondo caricaturale finta piazza, poco più di una versione all'aperto del classico atrio da centro commerciale, si inizia a capire meglio il senso del cosiddetto automobile-oriented-development.
L'area del Portello è infatti tagliata e delimitata dal sistema di arterie a scorrimento veloce che comunicano direttamente con la rete delle Tangenziali. Poco oltre la piazza commerciale, anche al netto dal disagio indotto dai soliti eterni new jersey a convogliare i pedoni dentro una specie di condotto da animali al macello, il paesaggio si presenta eloquente. Siamo, né più né meno, in un ambiente che ricorda da vicino un'area di sosta autostradale, più che una vera e propria parte di città, le cui componenti sono al massimo un residuo della storia, come le ciminiere della nostalgia. Un albergo, un fast-food che più a orientamento automobilistico non si può, e poi la barriera invalicabile (un muro assai più efficace di qualunque recinzione di fabbrica) delle varie corsie di accesso a svincoli e sottopassi. Solo arrivando in cima al curioso parco a spirale, che ricorda vagamente il dipinto della Torre di Babele, si intuisce il contesto in cui si cala il quartiere, ad esempio rispetto all'altra più grande zona a parco del QT8 col Monte Stella, di cui la spirale vorrebbe essere una specie di impropria citazione.
La passerella di collegamento interno al quartiere
L'altra fetta della riqualificazione, quella più vistosa nelle architetture, con edifici massicci a destinazione terziaria, sta oltre il tracciato della sopraelevata Serra-Monte Ceneri, e ci si arriva a piedi, partendo dalla striscia albergo e fast-food, attraverso un percorso quanto mai triste e acciaccato, rasente il controviale per le auto. Da questo asse si può guardare lo spettacolo, in sé accattivante, della nuova passerella pedonale che collega scavalcando le otto corsia la zone di uffici alla collinetta del parco. E anche in un giorno di festa, con tutti i milanesi, residenti e non, probabilmente alla ricerca di qualcosa di diverso da uno spostamento in auto, si intuisce senza statistiche alla mano in che luogo si sta. La vecchia fabbrica Alfa Romeo aveva un proprio sistema di collegamento tra le zone dei due insediamenti, su un lato e l'altro della sopraelevata. Oggi a svolgere un ruolo del genere c'è appunto il ponte pedonale e ciclabile, elegante e gradevole. Ma fuori da lì, il collegamento tra le due fette della zona di riqualificazione non esiste. E per forza.

Si può solo sgattaiolare da un lato all'altro, nei punti in cui la sopraelevata lo consente, ma unico trait-d'union resta quel ponte di tipo autostradale, manco fossimo nei vecchi Autogrill. La sopraelevata, osservata nell'altra prospettiva, quella giusta, quella appropriata, non è affatto una barriera, ma un elemento di unione: nel senso che unisce la città alle Tangenziali, che fa entrare e uscire flussi ingenti di traffico, da e verso l'anello delle circonvallazioni esterne, o i raccordi autostradali anche fisicamente vicinissimi. Ora, di recente sono comparsi dei bei disegni dove, citando la famosa High-Line di Manhattan, si ipotizzava una ricucitura delle due porzioni del quartiere, quella terziaria e quella residenziale, commerciale, a parco, trasformando l'asse della sopraelevata in una specie di sistema a boulevardcon passeggiate su vari livelli e organizzazione a verde urbano. A New York l'hanno fatto, si sostiene, perché non anche qui? Una sciocchezza.

La sopraelevata oggi (dal sito Urban File)
Si badi: non una sciocchezza la proposta in sé. Quello che manca è la contestualizzazione, e che contestualizzazione! Perché tutto quel piano di riqualificazione urbana, il quale ha una sua coerenza - e per forza con le ingenti cifre che ci hanno investito – pare ahimè uscito dal tavolo da disegno di un architetto che la domenica era andato a guardare in prima visione Il Sorpasso di Dino Risi, con Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant. Ovvero, se si eccettuano le forme e i materiali degli edifici, le tecniche di rappresentazione, magari il ruolo di verde e spazi pubblici, siamo ancora dalle parti del movimento moderno, dei cantori della velocità, della metropoli fatta di grandi distretti intersecati da expressways. Non accade per particolare perversione dei progettisti, ma perché la città è saldamente organizzata in quel modo: cosa potremmo dire ad esempio a chi arriva dalla direzione dell'asse Comasina SS35 diretto verso gli svincoli A4-A8 di Certosa? E naturalmente a tutti coloro che dopo aver pagato il pedaggio alla barriera, si stanno immettendo nella viabilità ordinaria. Gli diciamo la prossima volta prendete il treno?
La sopraelevata diventa un boulevard-passeggio
Certo che si, glie lo possiamo dire di sicuro, di prendere il treno. Ma con le dovute premesse. Che ci sia un'ottimo sistema di collegamenti pubblici (magari col complemento della mobilità dolce con spazi adeguati) a scala urbana e tendenzialmente metropolitana. Che per chi è costretto in qualche modo a spostarsi col veicolo individuale esistano valide alternative di percorso e/o facili interfaccia. Che, infine, questo genere di accessibilità si adatti alle forme specifiche organizzative del quartiere così com'è, coi suoi volumi e funzioni che da soli smistano una quantità enorme di flussi in entrata e uscita. Fare il percorso inverso, ovvero prima convertire a viale alberato e passeggio la sopraelevata, magari va bene se giochiamo a Sim City, giusto per assistere all'ecatombe, e divertirsi un po' tra amici. Perché, prima di dire facciamo anche noi la High-Line, sarebbe meglio capire cos'è, la High-Line, e guardare solo le figure non basta. O no?

Nota: i limiti del quartiere Portello sono per molti versi conseguenza della genesi urbanistica della riqualificazione urbana milanese, tutta orientata alla cosiddetta "attuabilità" dei progetti, ovvero ad un approccio sostanzialmente parziale e privatistico, come quello delineato dal documento di inquadramento Ricostruire la Grande Milano, già ampiamente criticato su queste pagine sin dalla sua pubblicazione. Si veda ad esempio questo articolo di Edoardo Salzano da Urbanistica n. 118, 2002

«La nomina di Lupi caratterizza il governo Letta in modo netto: chiude la strada a ogni ripensamento sulla politica delle grandi opere. L’ex assessore milanese è sempre stato schieratissimo in favore di ogni iniziativa che abbia un significativo contenuto di cemento. Il Fatto quotidiano online, 29 aprile 2013
Il superministero di Corrado Passera non c’è più. Forse per esigenze di spartizione, forse per presa d’atto dei fallimentari risultati del banchiere prestato alla politica, Enrico Letta torna all’antico, separando Sviluppo economico da Infrastrutture e trasporti. Sul primo spezzone chiama il sindaco di Padova, Flavio Zanonato, bersaniano per fede politica e anche per riconosciuto pragmatismo. Sul secondo lascia accomodare Maurizio Lupi, 53 anni, uomo di Cl, da sempre vicinissimo a Roberto Formigoni e alla Compagnia delle Opere.

La nomina di Lupi caratterizza il governo Letta in modo netto: chiude la strada a ogni ripensamento sulla politica delle grandi opere. L’ex assessore milanese è sempre stato schieratissimo in favore di ogni iniziativa che abbia un significativo contenuto di cemento. Il Tav prima di tutto, ma anche il ponte sullo Stretto di Messina, il Mose di Venezia, strade e autostrade e via elencando. I critici della nuova ferrovia alta velocità della Val di Susa sono considerati da Lupi «un’Italia del no che non si rassegna e continua a lavorare contro il bene del Paese”, come disse nel giugno del 2011 dichiarandosi solidale con le forze dell’ordine» impegnate in queste ore a fermare una guerriglia inutile e dannosa». Invece i critici del ponte sullo Stretto sono classificati dall’amico di Formigoni come «la sinistra dei no che bloccherà il Paese annullando tutti i passi avanti che abbiamo fatto in questi anni», come spiegò nel 2006 all’insediamento del governo Prodi.
Lupi sarà adesso impegnato in spettacolari derby con i suoi colleghi di governo. Al ministero dell’Ambiente il tecnico Corrado Clini lascia in eredità al giovane turco Pd Andrea Orlando le delibere già pronte della commissione Via (impatto ambientale) che dovrebbero mettere la pietra tombale sul Ponte. Riuscirà Lupi a far riaprire la pratica in nome del sogno berlusconiano di indebitarci per generazioni per unire (ammesso che il progetto regga) Scilla e Cariddi?
Ancora più interessante è il derby che si profila con Zanonato. Il sindaco di Padova, 62 anni, è quello che si dice un vecchio comunista. La sera del 7 giugno 1984 era, giovane segretario provinciale del partito, a fianco di Enrico Berlinguer in piazza delle Erbe, quando il leader del Pci al termine del comizio fu colpito dal malore che gli risultò fatale. La sua carriera politica è legata quasi completamente alla città, salvo una parentesi a Roma, come responsabile dell’immigrazione, nei Ds guidati da Piero Fassino. È sindaco dal 2004, ma lo è già stato dal 1993 al 1999. Zanonato è uno degli uomini forti dell’Anci, l’associazione dei Comuni, che entra al governo anche con il uo presidente, il sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio. E negli ultimi mesi il pragmatismo bersaniano di Zanonato si è ben sposato con la battaglia degli enti locali contro il miope rigorismo del governo Monti. Due le rivendicazioni principali: lasciare ai Comuni il gettito Imu, del tutto o in parte, e allentare il patto di stabilità interno per consentire almeno a chi può di fare qualche investimento che faccia girare l’economia locale. Zanonato ha fatto la campagna elettorale sulla linea di Bersani: basta con le grandi opere inutili e costose, sono le piccole manutenzioni urbani che fanno girare l’economia e creano posti di lavoro. Mentre il ministero unico di Corrado Passera è stato del tutto consacrato a buttare altri miliardi nelle grandi opere (Torino-Lione e Terzo valico soprattutto), con i due ministeri distinti sarà subito duello tra il ciellino e il bersaniano su come usare le poche risorse disponibili: per far ripartire l’economia o per accontentare grandi imprese di costruzioni? Arbitreranno l’incontro Enrico Letta e, naturalmente, Giorgio Napolitano.

Corriere della Sera, 29 aprile 2013, con postilla

Riuscirà il nuovo ministro a far convivere Raffaello e Mr. Tourist? La sfida che ha davanti Massimo Bray, il primo ministro dei Beni culturali e del Turismo della nostra storia, è da brividi. Ma va vinta. Per troppo tempo, infatti, la sacrosanta tutela dei nostri tesori d'arte e la gestione (meglio: mala-gestione) delle nostre potenzialità turistiche sono state tenute rigorosamente separate. Contrapposte. Come se l'una escludesse l'altra. Peggio: come se l'una fosse nemica acerrima dell'altra.

Se il direttore editoriale dell'enciclopedia Treccani e della rivista dalemiana Italianieuropei, nonché anima della fondazione «Notte della Taranta», sarà all'altezza del compito è tutto da vedere. E anche se non mancano i plausi per la scelta sorprendente, non è solo Ernesto Galli della Loggia ad avere perplessità. Auguri. Sinceri. A lui e agli italiani, troppe volte delusi dal modo in cui i big politici hanno snobbato questi ministeri, visti come secondari rispetto a quelli «di serie A». L'unione di Beni culturali e Turismo (magari con l'aggiunta del dicastero dell'Ambiente e del paesaggio, come proponeva il Corriere) proprio a questo dovrebbe servire: a dare al titolare di questi settori la possibilità di avere una visione d'insieme. E più ancora la statura, l'energia e il peso politico per battere i pugni sul tavolo in Consiglio dei ministri spiegando anche ai più sordi quanto sostengono non vecchie gentildonne amanti delle belle arti ma lo stesso Sole 24 Ore, il giornale di Confindustria.

E cioè che perfino i grandi progetti come il ponte sullo Stretto «presentano moltiplicatori di reddito inferiori a quelli evidenziati dai progetti culturali: due volte contro 4-5 volte». Il piano industriale del nuovo Louvre nell'area degradata di Lens prevede che i soldi investiti ne fruttino sette volte tanti. Quelli stanziati per il Guggenheim di Bilbao, dice un rapporto Ue, si sono moltiplicati in soli 7 anni per 18.

Sia chiaro: il primo compito di un ministro dei Beni culturali italiani non può che essere la conservazione e la tutela di quel patrimonio straordinario che abbiamo (forse immeritatamente) ereditato e che conserviamo spesso con una sciatteria e un'avarizia che gridano vendetta. E certo vanno evitate come la peste follie stile Las Vegas come la costruzione d'una Pompei virtuale accanto alle rovine archeologiche abbandonate al degrado o gli spot coi Bronzi di Riace che scappano dal museo per andare in spiaggia o la realizzazione di una finta città greca coi finti templi e la finta agorà e perfino un finto Davide di Michelangelo previsti dal progetto «Europaradiso» a Crotone. Alla larga.

Una miriade di esempi virtuosi sparsi per il mondo, però, ci dicono che è possibile conciliare il rispetto, la cura e la tutela dei tesori d'arte con una gestione agile, accorta, lungimirante e redditizia di quello che sta affermandosi come il grande affare del terzo millennio. Spiega la Ue (comunicazione 352/2010) che il turismo è «la terza maggiore attività socioeconomica europea, dopo il settore del commercio e della distribuzione e quello della costruzione. Se si considerano i settori attinenti, il contributo del turismo al Prodotto interno lordo risulta ancora più elevato: si ritiene, infatti, che sia all'origine di più del 10% del Pil dell'Unione Europea e che fornisca circa il 12% dell'occupazione totale».

È in enorme espansione, il turismo mondiale. L'anno scorso, i viaggiatori che hanno fatto una vacanza all'estero hanno superato per la prima volta il miliardo. E noi, che nel 1970 eravamo la prima destinazione del pianeta e oggi stiamo malinconicamente al quinto posto dietro Francia, Spagna, Stati Uniti e Cina, stiamo sprecando un'occasione storica. Basti dire che, come ricorda Silvia Angeloni in «Destination Italy», secondo il «Country Brand Index 2012-2013» elaborato da FutureBrand su 118 Paesi, il «marchio» Italia è il primo al mondo per «l'attrattività legata alla cultura», il primo per il cibo, il terzo per lo shopping e nel complesso rappresenta «la prima destinazione dove i turisti vorrebbero andare». Eppure nella classifica finale, a causa di molti altri fattori come il rapporto qualità-prezzo, siamo solo quindicesimi. Di più: pur avendo l'Italia più siti Unesco (47) di tutti, spiega uno studio PricewaterhouseCoopers che se noi ricaviamo dai nostri 100, Spagna e Brasile ricavano dei loro 130, la Gran Bretagna 180, la Germania 184, la Francia 190, la Cina addirittura 270. Il triplo.

Sapete quanti italiani sono occupati nel turismo in senso stretto? Ce lo dice il World Travel & Tourism Council: 869 mila, sette volte e mezzo più degli addetti della chimica. Se calcoliamo anche l'indotto 2.231.000, cioè mezzo milione in più di tutta la metalmeccanica. Eppure, la cultura e il turismo sono rimasti per anni ai margini degli interessi di tutti i governi. E ognuno si è arrangiato per conto proprio. Regione per regione, campanile per campanile. Senza un minimo di visione più larga. Come se proprio la cultura e il turismo non fossero le nostre grandi ricchezze.

Postilla

Vorremmo che Gianantonio Stella, tenace autore di argomentate denunce della mercificazione del territorio in nome del trionfo del cemento, riflettesse con uguale attenzione critica al connubio tra turismo ed economia. Enfatizzare il ruolo economico della fruizione dei beni culturali, nell’ambito dell’attuale economia (quella capitalistica) e in una fase in cui economia e politica sono alleate nella ricerca del maggiore vantaggio economico nel più breve termine è cosa molto pericolosa. Assomiglia molto a quella visione dei patrimoni comuni che Gianni De Michelis, fedele e intelligente ministro di Bettino Craxi aveva battezzato giacimenti culturali. Una visione che su questo sito abbiamo fin dal giorno della sua invenzione. Il rapporto tra turismo ed economia può essere configurato correttamente solo se visto in una visione che sia fondata sul primato del valor d’uso sul valore di scambio, e sulla sostituzioe del termine “valorizzazione” con l’espressione “messa in valore delle qualità dei beni, quindi priorità della loro conservazione: “beni” culturali, quindi, non “merci”.

Corriere della Sera Milano, 28 aprile 2013 (f.b.)

Trenta centimetri di scavo, poco più d'una buca nel fango, fine delle ricerche, oltre non si scende. Cemento. Il paesaggio rigoglioso di via Mac Mahon è un'illusione ottica e un refuso storico: «Gli olmi sono cresciuti su una piattaforma impermeabile; sono deboli; instabili; rischiano di crollare». Bisogna sforzarsi d'immaginare la strada in sezione, come una torta a strati. L'aiuola, i filari e i binari del tram sono appoggiati su un «solettone», un corridoio murario, un sottopavimento che da piazza Diocleziano si allunga in via Mac Mahon per quasi un chilometro e mezzo. Le radici degli alberi non sono libere di espandersi nel sottosuolo, devono accontentarsi di 25-30 centimetri di terriccio e arrivate al fondo sbattono, si torcono e riaffiorano come varici in superficie.

Lo certifica un'indagine condotta per Atm da un'équipe della Facoltà di Agraria della Statale ed è sulla base di questo report che il Comune ha deciso di tagliare col passato. Gli olmi sono pericolanti. Saranno abbattuti e ripiantumati. I dirigenti Atm di lungo corso sostengono che «l'intervento di messa in sicurezza della massicciata è irrinunciabile e non più procrastinabile». Per due ragioni. La prima: «Le radici degli alberi ostacolano e rendono insicure le corse del tram 12». La seconda: «L'eliminazione del solettone di cemento è comunque indispensabile per favorire una crescita sana delle specie arboree». E non da oggi. Il «dossier Mac Mahon» venne sottoposto alla giunta dell'ex sindaco Moratti nel 2008 e da allora è stato di volta in volta rinviato: troppo costoso e invasivo, la gente non capirebbe.

Soluzione tampone: l'Atm ha istruito i macchinisti e rallentato la marcia dei Carrelli («A passo d'uomo»), ma l'ordine di servizio non ha cancellato gli ostacoli sul percorso né ha ridimensionato l'allarme. A gennaio la dirigenza Atm ha ribadito al sindaco Pisapia l'urgenza del piano di riqualificazione e ottenuto un sostanziale via libera. Il Comune ha ripreso il progetto, l'ha alleggerito (in tecniche e costi) e l'ha presentato il 15 aprile al Consiglio di Zona 8. Le reazioni, prevedibili: protestano i residenti («No allo scempio»), s'inalberano gli ambientalisti («Prima di arrivare all'incredibile recisione di 170 alberi, robusti e rigogliosi, si dovrebbero tentare diverse soluzioni alternative»), partono raccolte di firme e inviti alla mobilitazione per fermare la strage degli olmi.

Non è sempre stata così, la via Mac Mahon. All'alba del Novecento, quando venne edificato il quartiere, gli alberi adornavano i marciapiedi davanti ai palazzi; vennero spostati e ricollocati al centro della strada solo negli anni Venti-Trenta, quando il municipio e l'azienda di trasporti realizzarono il tracciato tramviario. Il tappeto di cemento c'era già allora, grezzo e ingombrante, venne semplicemente nascosto dalla terra e coperto dai filari. L'hanno riscoperto gli agronomi della Statale nel 2008, durante la campagna di ottanta carotaggi commissionata da Atm. La prima e unica ricerca scientifica sulla «precaria condizione» degli olmi.

Un articolo di apparente tema naturalistico, nel quale basta però semplicemente sostituire la parola “orso” con la parola “uomo”, e capire un sacco di cose sul nostro mondo a misura di ingegnere trasportista. Corriere della Sera, 27 aprile 2013, postilla (f.b.)

Sull'autostrada Roma-L'Aquila è morto, investito da un auto, un orso maschio di 3 anni di una sottospecie (Ursus arctos marsicanus) di cui esistono meno di 50 esemplari, presenti solo nel Parco nazionale d'Abruzzo e in aree contigue. Pochi giorni fa è apparso sul web un articolo sulla biodiversità in cui il presidente di Federparchi asseriva correttamente che anche un solo individuo è prezioso per la sopravvivenza di questa sottospecie.

Non doveva essere lì quell'orso. Questo hanno detto gli uomini della Forestale e del Parco, che da alcuni anni hanno istituito un Piano tutela orso bruno marsicano (Ptobm). E invece quell'orso ha superato le recinzioni e ha continuato il suo cammino sulla carreggiata autostradale. Forse era alla ricerca di una femmina di cui aveva percepito la presenza, o si trattava di un giovane in fase di dispersione. Mamma orsa infatti tiene con sé la prole anche fino ai tre anni. A quell'età i figli si disperdono per definire un areale nel quale vivere garantendosi le risorse necessarie per nutrirsi e riprodursi. In questa fase frequentano le radure di fondo valle e coprono grandi distanze. Fatalmente l'autostrada può essere parte del loro percorso. Questo ci fa percepire come a un animale selvaggio non siano più sufficienti le istruzioni innate per sopravvivere.

L'ambiente infatti è stato profondamente modificato e si potrebbe dire che la nostra evoluzione culturale, con il suo sviluppo rapidissimo, ha reso inadeguate le risposte adattative della biologia. Dovremmo dunque essere noi, specie così abile nel produrre soluzioni innovative, a pensare anche alle altre specie. In realtà per l'orso marsicano lo sta facendo il gruppo «Salviamo l'orso» sollecitando misure come il mantenere sgombre da vegetazione le banchine stradali, controllare le possibilità di accesso e abbassare ulteriormente i limiti di velocità. In queste ore anche l'assessorato abruzzese all'Agricoltura sta adottando misure per attribuire responsabilità e funzioni in materia di prevenzione di incidenti di questo tipo, che dovrebbero essere rarissimi in una nazione che ha cura della propria fauna. Accade troppo spesso di sentire alla radio avvisi sulla presenza di animali sulle carreggiate. Sarebbe bello un giorno apprendere di automobilisti fermi in colonna ad assistere, silenziosi e ammirati, al lento passaggio di un orso. Un bel risultato per lui e per noi.

Postilla

C'è un classico cartone animato con l'orso che va in letargo, e quando si sveglia scopre che la sua caverna è stata circondata dalle corsie di una superstrada, di qui e di là fabbriche e centri commerciali ecc. ecc. Un cartone tradizionalmente “antropomorfo”, come la lettura che suggerisce questo articolo di Danilo Mainardi: anche sulla dimensione territoriale vasta esiste una questione che potremmo definire, col temine coniato da Hans Monderman, dello spazio condiviso: non corsie riservate e segregate per questo e quello, ma una regolata e civile convivenza, dove l'uno concede qualcosa all'altro guadagnandoci nello scambio. Ovvero superare l'idea meccanica della città globale, costruita ciecamente da ingegneri secondo il modello stigmatizzato già de Fritz Lang negli anni '20 del secolo scorso, coi loro Tav che non vanno da nessuna parte, e compagnia bella. Un'ottima metafora dello slogan Occupy: perché decide sempre quell'1%? (f.b.)

La Repubblica Milano, 27 aprile 2013 (f.b.)

UN ALBERO per ogni neonato. A ciascuno il suo, con tanto di informazioni alla famiglia sulla sua collocazione. A Milano, dove negli ultimi tempi si viaggia su una media di 11mila nascite all’anno, vorrebbe dire aggiungere ogni anno un’area verde grande come il parco Ravizza. È l’impatto in città della normativa nazionale che impone a Palazzo Marino, come ad altri Comuni con oltre 15mila abitanti, di rispettare il rapporto di una nuova pianta per ogni bimbo nato in città. Un piano piuttosto corposo da gestire, che il Comune sta iniziando ad affrontare. Da capire c’è soprattutto la destinazione più adeguata di questo nuovo verde, trovando gli spazi, dentro o fuori la città.

La missione della legge nazionale è provare a contrastare, almeno in parte, la perdita di zone verdi nel Paese, che secondo l’Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale (Ispra) è di otto metri quadrati al secondo. La norma esiste in realtà da oltre vent’anni, dal 1992, ma non è mai stata applicata. Fino a quest’anno, quando a febbraio è entrata di fatto in vigore con alcune modifiche. L’obbligo non riguarda solo le nascite ma anche i bambini adottati e il limite di sei mesi dalla nascita (o adozione) per piantumare. Così Milano ha iniziato a fare i conti con tutto questo verde da smistare in giro per la città. La legge è in sintonia con il Dna della giunta: «Lo spirito è in linea con la nostra missione di estendere ogni anno il verde in città», osserva l’assessore al Verde, Chiara Bisconti.

Oggi a Milano ci sono 22 milioni di metri quadri di verde pubblico, 17,79 per abitante, quattro in più rispetto a dieci anni fa. Ma se per un Comune piccolo è tutto più semplice, per Milano inserire ogni anno almeno 11mila nuovi alberi ad alto fusto potrebbe creare qualche problema. «Il rovescio della medaglia — puntualizza Bisconti — è che l’applicazione nei Comuni grandi e ad alta natalità ha qualche criticità che stiamo cercando di risolvere. La città è già abbastanza verde e bisogna trovare gli spazi». L’Anagrafe è al lavoro assieme al Demanio. Le ipotesi sono allo studio. Si sta sondando innanzitutto se dal conteggio totale degli 11mila si possa sottrarre qualcuno dei 7-8mila alberi, per lo più platani e olmi, che l’amministrazione arancione assicura di piantare ogni anno in città. Anche se in realtà, di questi, più della metà, 4.500, sono in sostituzione di fusti malati o arrivati a fine vita e dunque non ex novo. Da individuare ci sono più che altro grandi assi stradali, magari intorno alle tangenziali, che possano accogliere gli alberi che inizieranno a spuntare almeno dopo l’estate. Oppure spingersi fuori. «Magari ragionando su compensazioni in Comuni limitrofi in un’ottica di città metropolitana », aggiunge Bisconti.

Di sicuro c’è che l’Anagrafe dovrà dar conto a ogni famiglia sulle coordinate dell’albero del neonato. Toccherà al Comune provvedere anche a un censimento annuale di tutte le piantumazioni. Inoltre, a due mesi dal fine mandato, nel caso di Pisapia nel 2016, il sindaco dovrà
tracciare un bilancio arboreo tirando le somme sugli alberi piantati nelle aree pubbliche urbane da inizio a fine mandato. A vigilare, promette di pensarci il Comitato per lo sviluppo del verde pubblico, ministero dell’Ambiente.

«Zanazzo ha inventato la collana di libretti "Occhi aperti su Venezia". Adesso getta la spugna. "Non ce la faccio più a pagare la carta e la tipografia"». Intanto le Grandi navi scaricano torme di turisti. La Nuova Venezia, 26 aprile 2013

La crisi delle librerie fa vittime illustri. I librai, prima di tutto, i lettori. Ma anche le piccole case editrici che cominciano a sentire la crisi. È il caso della “Corte del Fontego”, editrice veneziana che ha sede nell’omonima corte antica, a Santa Margherita. Macchina mandata avanti a prezzo di grandi sacrifici da una sola persona, Marina Zanazzo. Che ha avuto il coraggio di stampare e distribuire in città volumi di urbanistica e la piccola fortunata collana di libretti (rossi e blu) su temi veneziani. Acqua, barene, palazzi, scavi e grandi opere. Ma adesso, con la minaccia di chiusura che viene dalla Goldoni, la crisi dei lettori e delle piccole librerie, anche Marina è tentata di gettare la spugna. «Ho comunicato ai miei amici che la fortunata stagione dei libretti «Occhi aperti su Venezia» si avvia al tramonto», dice, «e per i motivi più banali: ho crediti con molte librerie che non pagano le fatture, non riesco più a pagare la tipografia e la carta. Sono usciti altri quattro libretti, altri quattro forse usciranno a giugno. Poi mi dovrò fermare perché i libretti non sarebbero più autosufficienti». Un peccato, perché nella collana su Venezia sono usciti molti titoli di denuncia, altri che hanno suscitato interesse anche all’estero. Prezzo più che accessibile (3 euro), autori che lavorano gratis, distribuzione limitata e un format che stava avendo un certo successo, i libretti del Fontego contavano molto sulle «vetrine» esposte dalle librerie del centro. Più che una iniziativa commerciale, una coraggiosa proposta culturale. Che dava voce a molti autori sconosciuti, a studi e denunce. Collana che ha al suo attivo ormai una trentina di libretti, su temi storici (blu e verdi) ma anche di stretta attualità. Ecco allora gli ultimi prodotti che saranno in libreria nei prossimi giorni: «Il mito di Elena», di Ruggero Rugolo, dedicato alla prima donna laureata al mondo, Elena Lucrezia Corner Piscopia; «Una fortuna sul fango», storia di Giovanni Busetto detto Fisola, l’inventore degli stabilimenti balneari del Lido a cura di Franca Cosmai; «Le età della laguna», di Rossana Serandrei Barbero e Sandra Donnici; «Delendae Venetiae» di Massimo Favilla, ispirato al grido di allarme di Pompe Molmenti del 1887 sulle trasformazioni urbanistiche della città, più che mai attuale. Altri quattro libretti (rossi, cioè di denuncia) usciranno forse ai primi di giugno. Saranno forse gli ultimi della lunga e fortunata serie. Poi se non interverranno novità la casa editrice potrebbe sospendere la sua attività. Un’altra perdita pesante nel panorama della cultura veneziana, sempre più costretta in spazi da riserva indiana.

Il manifesto, 25 aprile 2013

Non è sempre muro contro muro il rapporto fra istituzioni e movimenti. Perché può essere d'aiuto a entrambi. Da un lato per mostrare che le porte del palazzo non sono sbarrate. Dall'altro sintetizzando in modo organico le richieste dei cittadini autorganizzati. Certo succede solo in Toscana. Ma il rapporto avviato fra l'ente Regione e la Rete dei comitati per la difesa del territorio, guidata da Alberto Asor Rosa, è un segnale. Al pari della riflessione, positiva, della lista di cittadinanza fiorentina di Ornella De Zordo sulla nuova legge urbanistica regionale. Si può fare politica. E non contrapporre chiusura a chiusura.

L'incontro fra la giunta regionale di Enrico Rossi e la Rete dei comitati per la difesa del territorio è stato una novità assoluta. «Non enfatizziamo - ha osservato Asor Rosa - ma non ci sono precedenti. In Toscana come in altre regioni italiane». Visto anche il peso specifico della discussione: la «Piattaforma Toscana» discussa a febbraio nell'assemblea della Rete, che ha messo nero su bianco in dieci schede «le criticità più gravi e urgenti della pianificazione territoriale». In dettaglio vuol dire il Corridoio autostradale tirrenico; lo sfruttamento delle risorse geotermiche sull'Amiata e in Val di Cecina; quello del marmo sulle Apuane; il sotto-attraversamento dell'alta velocità ferroviaria nell'area fiorentina, e la pianificazione territoriale della sua Piana. Temi annosi ma sempre di stretta attualità, vista la continuità delle contestazioni all'operato delle amministrazioni pubbliche.

Riassume Asor Rosa: «I punti sui quali c'è maggiore convergenza sono il Corridoio tirrenico, con la scelta di procedere il più possibile sopra l'attuale tracciato dell'Aurelia. Poi le Apuane, dove ci è stato annunciato che è in preparazione un regolamento per ridurre la portata delle escavazioni. Anche sulla geotermia la giunta potrebbe adottare la nostra proposta di utilizzare tecnologie di minor impatto, la cosiddetta media entalpia, anche se resta da capire in quali tempi». Insomma ci sono alcuni risultati positivi.

Su altri fronti invece le distanza restano inalterate: «Soprattutto sul sotto-attraversamento dell'alta velocità ferroviaria. Noi siamo da sempre per la dismissione di un progetto che riteniamo sbagliato, inutile, costoso e invasivo. La giunta regionale invece vuole andare avanti. Da Enrico Rossi abbiamo comunque apprezzato l'apertura a esaminarne le ricadute su tutto il sistema di trasporti a Firenze e nell'intera Toscana, cosa che qualche anno fa sarebbe stata inverosimile». Distanti anche le posizioni sulla già congestionatissima Piana fiorentina, dove la Rete dei comitati si oppone nettamente alla nuova pista dell'aeroporto di Peretola e al nuovo inceneritore di Case Passerini. Ma è sul metodo che qualche passo avanti è stato fatto, con il riconoscimento dei comitati come soggetto politico, al pari delle parti sociali: «C'è l'impegno della Regione ad approvare un protocollo di concertazione - spiega Asor Rosa - che garantisca ai soggetti attivi sul territorio di entrare effettivamente nel processo di costruzione delle decisioni in materia urbanistica e di paesaggio».

Su questo tema specifico anche Ornella De Zordo con Perunaltracittà ha avviato una riflessione. Apprezzando, al pari della Rete dei comitati, la revisione della legge urbanistica regionale messa in cantiere dall'assessore Anna Marson. «Si tratta di un tentativo di rimettere ordine nei concetti di base del governo del territorio con principi di riferimento per tutti i livelli della pianificazione: sostenibilità, non riduzione delle risorse, e riduzione del consumo di suolo. Tutti definiti con chiarezza, rispetto alle precedenti, confuse normative».

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