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Recensione del libro La città non è solo un affare, di Mauro Baioni, Ilaria Boniburini, Edoardo Salzano «Non solo un libro ma un programma di azione sociale». Il Giornale di Reggio, 25 luglio 2013

Martedì 23 luglio, mentre era in corso allo stadio “Mapei” (ex Giglio) il famoso” Trofeo Tim” con la partecipazione del Sassuolo uscito vincitore (un gradito omaggio a Squinzi?) e di Iuventus e Milan, uniche italiane che fanno ancor parte del Gotha del calcio europeo, più di ottanta cittadini hanno trovato il tempo e la voglia di partecipare – tre ore son state di acceso e vivace dibattito – alla presentazione, organizzata per passione dallo Studio Rossochiaro (arch. Rossana Benevelli e ing. Chiara Benassi), del libro “La città non è solo un affare” di Mauro Baioni, Ilaria Boniburini e Edoardo Salzano, pubblicato da Aemilia University Press (Pag. xv + 166 € 12). In linea con i contenuti del libro la presentazione si è tenuta in uno spazio condominiale, ma di passaggio pubblico, quasi a ricordare che “La città non è solo un affare” non è solo un titolo, ma un programma d’azione sociale.

Il libro raccoglie le riflessioni maturate nelle ultime due edizioni della Scuola di eddyburg, dedicate al rapporto fra economia urbanistica. I seminari di Eddyburg, scuola fondata e diretta da Edoardo Salzano, si svolgono, una volta l’anno dal 2005. Ogni edizione tratta un tema specifico, con il contributo volontario degli esperti che fanno riferimento al portale eddyburg.it.

Il libro è diviso in due parti: una teorica, l’altra di esperienze pratiche. Nella prima si analizza il processo di crescita e sviluppo, con particolare attenzione al 2° grande ciclo edilizio (!993 – 2007) e ai meccanismi che determinano la formazione della rendita urbana, elemento decisivo negli usi e nelle trasformazioni della città del territorio. Nella seconda, prendendo atto degli effetti devastanti di un ventennio di gestione senza regole della città e del territorio, ci si interroga sulla possibilità di un cambiamento di rotta, su quali risorse occorrano per costruire una città dei cittadini nel quadro di uno sviluppo sostenibile (decrescita?), riportando qualche esempio alternativo alle pratiche urbanistiche in atto.

Il problema di fondo, sul quale il libro vuol aprire una discussione pubblica e che rende compatto e unitario il racconto, è quale tipo di città vogliamo? A ciascun lettore, una volta letto il testo, spetta la risposta. Noi ci limitiamo a suggerire un possibile percorso di ricerca nelle parole del geografo e antropologo David Harvey “Chiediamoci che persone vogliamo essere, che rapporti sociali cerchiamo, che relazioni vogliamo intrecciare con la natura, che stile di vita desideriamo, che valori estetici riteniamo nostri”.

Si è cittadini non se si è iscritti all’anagrafe comunale, ma se si esercitano i diritti di cittadinanza. Cittadino, dunque, è chi abita la città anche da straniero o da clandestino.



Dopo la tragedia autostradale :«appena spento il dolore e la commozione si continuerà come sempre a foraggiare le centinaia di nuove grandi opere inutili che hanno asciugato le casse dello Stato e sono il principale fattore della crisi che attraversiamo».Il manifesto, 30 luglio 2013
Durerà poco la commozione che ha investito l'Italia per la immane tragedia dell'autostrada. E dureranno poco le pagine dei grandi quotidiani di informazioni hanno dedicato al lutto. Il tempo della cerimonia delle esequie e non si parlerà più - se non casualmente - e dello stato disastroso dell'Italia di mezzo. Del resto, non si parla dello stato criminale in cui sono lasciate le strade dell'Italia appenninica che non garantiscono ormai neppure i minimi livelli di sicurezza. Come non sentiamo mai parlare dei tanti giovani che sono vittime dell'incuria di uno Stato cieco che non c'è più. Dobbiamo dunque prepararci: l'incidente di domenica notte per la sua tragica dimensione non poteva essere taciuto. Ma appena spento il dolore e la commozione si continuerà come sempre a foraggiare le centinaia di nuove grandi opere inutili che hanno asciugato le casse dello Stato e sono il principale fattore della crisi che attraversiamo. E dello stato dell'Italia di mezzo, delle sue necessità urgente, della sua morfologia tormentata e della debolezza della rete urbana non si parlerà più. Il tracciato autostradale in cui è avvenuta la tragedia fa comprendere il ritardo incolmabile che vive quella parte d'Italia. Percorsi pensati e realizzati troppi anni fa per un traffico diverso. Tracciati da riprogettare, da mettere in sicurezza, da migliorare. Cantieri continui da un ventennio, salti di carreggiata, pezze a colori per un'opera che deve soltanto essere ripensata con lungimiranza.

Quella di investire nell'unica grande opera di mettere in sicurezza il paese e di migliorare la rete secondaria così da fornire occasioni di vita alle aree interne. Ma non ci sono risorse, ci dicono ogni giorno. Eppure, anche se non riescono a garantire la sicurezza del sistema infrastrutturale esistente continuano ad espanderlo. Se davvero mancassero le risorse sarebbe indispensabile fermare questa fole corsa e concentrasi nel miglioramento del sistema esistente. Ma non è così: la giostra che consente al cartello dei grandi gruppi di impresa di accaparrarsi una fetta enorme di spesa pubblica non si deve fermare.

Tocchiamo così il motivo profondo del silenzio che avvolgerà anche la tragedia del pullman delle vacanze. Il sistema dell'informazione è, come noto, controllato dai gruppi che prosperano sulle grandi commesse pubbliche e non hanno alcun interesse ad interrompere il sistema di cui sono beneficiari. Il recente caso dell'inchiesta sul Mose di Venezia è molto istruttiva al riguardo. E' emersa in questi giorni il solito verminaio: promesse non mantenute, distruzioni ambientali, risultati dubbi, corruzione sistematica. Ma un velo pietoso ha coperto l'ennesimo scandalo: non si deve disturbare il manovratore.

Manovratore che infatti scoppia di salute. Ieri la Camera dei Deputati ha approvato, imponendo la fiducia per stroncare ogni dibattito, il cosiddetto decreto del fare. Lì dentro ci sono tre miliardi per opere inutili come l'autostrada tirrenica. Del resto, cosa vuole un territorio debole come l'Italia di mezzo di fronte alla gigantesca macchina economica del turismo e del mattone balneari? Quella parte importante dell'Italia che pure produce ricchezza e presenta un patrimonio di uomini e cultura imponente è stata già sacrificata dalle scelte degli anni '80, quando si decise di potenziare il «sistema infrastrutturale forte» tra Napoli e Torino. Quel sistema infrastrutturale oggi funziona, ma ha squilibrato ancor di più un paese già squilibrato. E anche in un momento di grave crisi come l'attuale si vuole continuare con le solite fallimentari ricette. E il silenzio dell'abbandono tornerà lungo la dorsale dell'Appennino.

Ancora una volta riemerge in un quartiere "modernista" italiano la divaricazione fra intenzioni e realtà, ma con un approccio propositivo non passatista. Il manifesto, 30 luglio 2013, con duplice postilla (f.b.)

CATANIA - A fine giugno a Librino, quartiere della periferia di Catania, «le fiamme alimentate dal vento hanno raggiunto perfino i piani alti delle abitazioni del viale Moncada 11, distrutto le grondaie, bruciati i condizionatori esterni e anneriti i cavi dell'energia elettrica» Le aree verdi di Librino «a causa della mancata manutenzione, oltre a essere causa di annidamento di ratti, insetti e parassiti, diventano ricettacolo di rifiuti che l'inciviltà diffusa continua ad alimentare». Queste alcune righe di una lettera inviata da Sara Fagone, della Cgil di Librino, e Francesco Torre del Comitato Librinoattivo, il 2 luglio scorso, alle autorità preposte al verde pubblico e, per conoscenza, al sindaco neoeletto Enzo Bianco. Librino, come molti sanno, è la new town etnea di cui si parla - quando si parla - solo come rappresentazione tra le massime di degrado e abbandono urbano.

Leggo questa breve lettera - che ha la sobrietà e la continenza verbale di chi denuncia da anni inascoltato - e i ricordi vanno a cinque anni fa. Arrivai a Catania per un reportage che pubblicai su Rassegna Sindacale, settimanale della Cgil. Ci aveva invitati la Fillea, il sindacato degli edili della confederazione: «Venite - mi avevano detto - c'è una bella storia da raccontare di partecipazione e coinvolgimento civico, c'è un comitato di cittadini attivi che ha con grande generosità redatto una piattaforma partecipata per ridare forza e speranza a Librino e farla uscire dal degrado». È passato un lustro da allora e l'impegno infaticabile della gente, non certo per demerito imputabile a questi cittadini, ha prodotto pochi risultati, con un'amministrazione di centrodestra - guidata da Umberto Scapagnini, il medico che non è più tra noi e che evocava l'immortalità di Berlusconi - sorda e presa da altro. Adesso è arrivato Enzo Bianco, il cui primo mandato da sindaco per molti catanesi resta ancora una specie di età dell'oro, una primavera etnea che in tanti sperano di poter, questa volta, far arrivare fino a Librino. Un primo, importante, passo c'è stato: l'istituzione di una delega specifica per Librino che è andata all'assessore Saro D'Agata, che a metà luglio ha incontrato gli abitanti del quartiere insieme alle decine di istituzioni e associazioni che operano sul territorio.

Il sogno di Tange

Ma cos'è Librino? Qual è la sua identità? Difficile dirlo. Lo stereotipo - che però come tutti gli stereotipi una parte di verità la possiede sempre - la vuole espressione plastica del degrado che le grandi aree urbane, specialmente meridionali, sono in grado di produrre ed espellere dal proprio corpaccione. Dunque: intere zone in mano agli spacciatori, aree abbandonate, forte abbandono scolastico, diffusi fenomeni di devianza, pochi servizi e trasporti insufficienti. E fuochi poco fatui che incendiano le sterpaglie, come abbiamo visto.

Con tutte le differenze, la storia di Librino è simile a quella di Corviale a Roma e delle Vele a Napoli. Non borgate cresciute per gemmazione selvaggia e immediatamente purulenta, ma sogni di architetti visionari e coraggiosi che presto, però, si sono trasformati in incubo. L'urbanista, anche se non è un filosofo o un matematico, troppo spesso traccia linee, scrive numeri e poi se ne va. Librino la sognò, più di quaranta anni fa, il grande Kenzo Tange, l'architetto razionalista giapponese allievo ideale di Gropius e Le Corbusier, cui l'amministrazione di Catania affidò nel 1970 il compito di progettare Librino: la città nuova e futuribile alla periferia sud-ovest di Catania, la città satellite da 70 mila abitanti in tutto autonoma e autosufficiente che doveva risolvere la pressione demografica della città etnea. Quarant'anni dopo il sogno Librino, l'orgoglio razionalista di pensare spazi urbani all'avanguardia e in cui l'estetica delle costruzioni fosse giustificata dalla loro funzionalità, sembra svanito. Oggi a Librino, a parte l'infrastrutturazione primaria, manca ancora tutto: servizi, negozi, centri di aggregazione, spazi culturali.

Eppure quando Tange arrivò qui rimase profondamente colpito dalla bellezza dei luoghi. Così scrisse nella sua relazione di presentazione del progetto: «Quando visitai il luogo per la prima volta ammirai quel bel terreno collinoso e decisi di fare qualcosa per utilizzare la topografia, in modo da fondere l'ambiente umano con quello naturale. L'idea che sviluppammo era una completa struttura collettiva, consistente in un asse verde centrale, dal quale si diparte una rete verde che organizza tutto il complesso».

Quel paesaggio così ammirato dal maestro giapponese lo ricorda ancora assai bene Francesco Guzzetta, 68 anni, memoria storica del quartiere, che si sbraccia dal cortile della masseria Buonaiuto da cui si domina una bella porzione della "città nuova": «Lavoravo con mio padre che stava a mezzadria. Queste zone si chiamavano "terre forti", per la gradazione decisa del vino che usciva da quelle uve. C'erano solo viti, mezzadri e case basse. Il lavoro era molto faticoso e si guadagnava poco. Così dal '69 sono andato a lavorare nelle ferrovie. Tutti questi palazzoni prima non c'erano, sono arrivati solo dopo gli espropri delle terre effettuati per realizzare la nuova Librino».

Tange disegnò la sua nuova città organizzandola in dieci quartieri (ciascuno con centri a scala di vicinato, servizi e polo di quartiere) collegati tra loro da sentieri pedonali e continui per i pedoni (le "spine verdi") e un sistema veicolare ad anelli. Librino doveva essere una città immersa nel verde: parchi urbani, aree agricole, spine verdi. Di tutto ciò non resta che una labilissima traccia. Le spine verdi, per esempio, sono in totale abbandono, ricoperte di polvere e sterpaglie e non frequentate da nessuno, se non per i traffici più loschi. Visto dall'alto il sistema veicolare ad anelli rende ancora più esplicita la frammentazione di Librino, lo scollamento dei singoli quartieri, la mancanza di tessuti connettivi: i nuclei abitati sembrano tanti spruzzi di cemento estranei l'uno all'altro. L'effetto è amplificato anche dalle politiche abitative che si sono succedute negli anni: via via hanno costruito a Librino Iacp, cooperative, privati e il Comune di Catania. Per non parlare dell'abusivismo imperante. Il tutto senza uno schema o un disegno o almeno uno spicciolo di logica. Bei comprensori di cooperative - dove si svolge anche una ricca vita sociale - convivono vicino a palazzoni anonimi magari occupati da abusivi. Altrettanto eterogenea è la sua popolazione: vecchi agricoltori, impiegati, operai, sfollati da quartieri storici di Catania tipo San Berillo. Tra questi fallimenti urbanistici e il degrado sociale di certe zone del quartiere il collegamento c'è ed è provato. Secondo uno studio dell'Università di Catania, il tasso di devianza e microcriminalità aumenta quanto più è alto lo scarto tra la realizzazione dei palazzi e quella delle infrastrutture e dei servizi.

Il palazzo di cemento

Il segno della complessità di Librino è ben visibile dall'area del cosiddetto Palazzo di cemento. In questa piazzona si fronteggiano e si guardano il suddetto, enorme, ventre bucherellato (abitato da poche famiglie di abusivi disperati che vivono in stanzoni fatiscenti, umidi e in condizioni igieniche del tutto precarie) e una piccola costruzione piena di vetrate, quasi trasparente (un Palazzo di vetro?), dove in perfetta antitesi con il buio del colosso dirimpetto si vede tutto quello che accade all'interno. In questo edificio ha sede il centro della Caritas TalitàKum.

TalitàKum significa: «Fanciulla, io ti dico alzati». Il centro accoglie tra i 90 e 100 minori ogni giorno, fa recupero scolastico, organizza laboratori di pittura e creatività varia. Propone alternative a chi magari ha il padre in carcere, la madre assente o, più semplicemente, vive in un quartiere in cui gli spazi di socializzazione non esistono. Proprio in questa area mi colpì cinque anni fa l'incontro con Cettina (il nome è di fantasia). Stavamo riprendendo con una telecamera una festa organizzata dai valorosi di TalitàKuma quando incuriosita si avvicina questa bambina che comincia a raccontare: l'hanno appena bocciata in quinta elementare; la maestra, racconta, voleva promuoverla ma il padre le ha consigliato di non farlo, perché non «andava bene ed è stato giusto così». Cettina parla in dialetto stretto e ha anche qualche difetto di pronuncia; non è facile comprenderla. Incoraggiato dalla sua disponibilità le chiedo cosa vorrebbe fare da grande. Risponde: «Non capisco cosa vuol dire questa domanda». Insisto e allora risponde: «Niente, starò con mio marito». Vuoi figli? «Sì, ma solo uno, un maschietto». Poco dopo le persone del postomi raccontanoha perso da poco un fratellino di quattro mesi. Alla domanda «che cosa fa tuo padre», non risponde. Cettina parla già come una grande che riduce le sue ambizioni alla scala delle esperienze già vissute.

Cettina oggi è quasi adolescente. A Librino i ragazzi sono tanti: ci vive il 17 per cento della popolazione giovanile di Catania. Nonostante questo, per loro manca quasi tutto, a partire dalle scuole superiori, ma non solo: Villa Fazio, una vecchia preziosa masseria che era stata ristrutturata e adibita a luogo di ritrovo per i giovani, è stata completamente abbandonata dall'amministrazione. Il campo polisportivo è totalmente dissestato, cartacce ricoprono ovunque sterpi riarsi; dentro e fuori materassi e lacerti di indumenti a testimoniare un passato assai recente di bivacco per disperati. Sono tanti i giovani che sognano di cambiare il loro quartiere. Poi c'è la vicenda sconcertante di campo San Teodoro: i volontari del Centro Iqbal Masih (che dal 1995 lavorano con i bambini delle case popolari, per i quali spesso l'unica prospettiva è di allargare le fila della malavita) hanno nel 2006 messo su con questi ragazzi una bella squadra di rugby, che ha sfiorato anche la serie B. Si chiamano "I Briganti" e per tanto tempo si sono allenati per strada: davanti, il campo San Teodoro, spazi vuoti, abbandonati a se stessi e al degrado. Per questo ne hanno chiesto l'affidamento al Comune, ma non è mai arrivata alcuna risposta. Poi, nella fatidica data del 25 aprile (2012) il Campo San Teodoro viene "liberato": "Briganti" e volontari lo puliscono, estirpano le erbacce, livellano il terreno, ci organizzano feste e spettacoli. Subito dopo la beffa: il campo verrà assegnato ai Salesiani, ma si dice pure che al suo posto sorgerà il nuovo stadio di Catania.

Un futuro partecipato

«Questa è la politica che non vogliamo, Ma oggi mi sento più ottimista e ho voluto l'incontro con il nuovo assessore per consegnarle la nostra piattaforma per Librino - racconta Sara Fagone, infaticabile suscitarice di queste energie sociali - Non gliel'abbiamo data per discuterne, ma per cominciare a tracciare le modalità per mettere in atto le proposte contenute nel documento. Questo anche per affermare con più forza l'idea di una politica partecipata, e che ogni cambiamento o decisione debba essere condivisa con gli abitanti. All'incontro sono intervenute un sacco di persone e questo ci dà speranza perché le cose cambino».

Il tesoro non troppo nascosto di Librino è quello della sua gente. Il suo futuro sta in questo: nell'effervescenza con cui scuole, associazioni, sindacati e volontari organizzano occasioni di incontro e vita comune che convivono orgogliosamente con il degrado sperando però di sconfiggerlo.

La piattaforma per Librino è un documento interessante e complesso, elaborato da tanti in appassionate riunioni a tutte le ore rubate a impegni domestici e di lavoro. Presenta idee innovative per salvare ciò che del progetto di Kenzo Tange è salvabile, modificandolo laddove non è possibile. Le linee di intervento promosse riguardano interventi sul patrimonio edilizio e abitativo, la mobilità e le infrastrutture (studenti e lavoratori hanno enormi difficoltà a spostarsi verso Catania). E poi: i centri di aggregazione, i servizi pubblici, sociali e sanitari, la formazione e il lavoro, il commercio e l'artigianato (attività, queste, quasi inesistenti nel quartiere, nonostante il Piano di zona prevedesse proprio una specifica aerea artigianale) e l'ordine pubblico. Dall'assemblea pubblica con il nuovo assessore sono arrivate prime importanti disponibilità: «Abbiamo chiesto di separare i grandi progetti dalle piccole manutenzioni - conclude Fagone - Poi l'assessore ci ha garantito che aprirà una sede dell'assessorato direttamente nel quartiere, dove sarà lui stesso presente con una frequenza regolare. Ci siamo dati appuntamento per alcune visite guidate: le faremo conoscere meglio il quartiere, i suoi difetti e le potenzialità». Chissà, magari in uno di questi giri incontreranno anche Cettina.

Una città-satellite modello diventata un ghetto
Librino è un quartiere periferico a sud ovest della città di Catania, progettato intorno alla metà degli anni sessanta come città satellite modello. La progettazione venne affidata all'architetto giapponese Kenzo Tange, lo stesso che progetterà il Centro direzionale a Napoli. Attualmente conta circa 80 mila abitanti, contro i 60 mila inizialmente preventivati. La progettazione del quartiere fu prevista dal Piano Regolatore Generale di Luigi Piccinato, adottato nel 1964 e approvato nel 1969. La redazione del progetto fu affidata allo studio Tange nel 1970, e il progetto di quest'ultimo fu consegnato nel 1972 e reso esecutivo con un Piano di zona nel 1976. Esso prevedeva anche la realizzazione di alcune lingue di verde e un parco di 31 ettari. Librino, insomma, era stata pensata fin dall'inizio come una sorta di new town, collegata al centro da un asse viario. Ma i risultati furono altri.

Postilla
sono passati quarant'anni da quando il complesso di case popolari Pruitt-Igoe di Saint Louis, progettato non molto tempo prima da Minoru Yamasaki (architetto razionalista della medesima generazione di Kenzo Tange) veniva demolito a colpi di dinamite, demolizione diventata leggendaria con le riprese del documentario Koyaanisqatsi e le musiche di Philip Glass. Ma nel nostro paese la discussione sul valore sociale del progetto di città razionalista si è sempre arenata su due estremi: da un lato gli architetti che difendono in assoluto il valore formale e culturale di quei manufatti, dall'altro il rifiuto popolare di stampo passatista, che lega (anche logicamente) quelle forme al degrado umano e sociale a cui spesso si accompagnano. Non esiste una terza via? Forse questo articolo, di fatto separando inconsapevolmente i due aspetti spazio/società, la indica. Ma c'è ancora molta strada da fare (f.b.)

Per comprendere un fatto è necessario comprendere il suocontesto. Del contesto fa parte la storia. Anche discutere i prodottidell’edilizia residenziale pubblica fuori del loro contesto storico è unerrore. E’ quello che sostenni qualche anno fa, proprio su queste pagine, in uneddytoriale al quale rinvio (in calce vi trovate il collegamento a una ricca catella di scritti sulle periferie, nell'archivio del vecchio eddyburg). Un secondoerrore è pensare che la città sia fatta solo dagli architetti: che sia solonelle sue forme, nella composizione spaziale. La città è urbs, civitas, polis:è disegno dello spazio, è cultura diffusa e costumi condivisi, è politica eamministrazione. Questo vale perLibrino, come per Corviale a Roma e lo Zen a Palermo. Non so quale sia stato ilruolo di Kenzo Tange (che secondo me è un pessimo urbanista) a Catania: quelloche so è che ci sono state fasi della nostra storia (quelli che definisco “glianni della speranza”) nella quale i migliori urbanisti hanno sperato che quellaitaliana fosse, o stesse diventando, unasocietà migliore migliore di quella che cominciava a diventare. Il nodo è sempre quello: per qualiresponsabilità il vento è girato, da noi e nel mondo, e al ventennio dellasperanza è succeduta la lunga fase della degradazione? Se si ragiona con un po’ d’attenzione su questa domanda si scopre che le responsabilità sono molto ampiamentedistribuite. (es)

Mentre nella confusione più totale e con un dibattito al ribasso sta nascendo la nuova entità amministrativa sovracomunale, Arcipelagomilano riprende un chiarissimo testo dello scomparso maestro di discipline territoriali, con riferimento al caso dell'area metropolitana padana (f.b.)

1) Lo dico per onor di firma, anche se so che non si potranno cambiare le cose: il termine di città-metropolitana è l’ennesimo fuorviante ossimoro prodotto dal burocratese. La forma metropolitana è un tipo d’insediamento nuovo e diverso da quello urbano o cittadino.
Come Norman Gras ha scritto una volta, “la grande città, la città eccezionale … si è sviluppata lentamente verso la metropoli economica” (Gras, 1922, p. 181), ma la metropoli economica è appunto un nuovo spazio fisico, non facilmente determinabile e senza particolari segni ai confini: nella città si entra, mentre nella metropoli si arriva. E spesso non riusciamo bene a cogliere la caratteristica della nuova forma urbana. Nel migliore dei casi, quando se ne parla, la s’immagina come un’area del tutto autonoma dalla città, commettendo un grave errore, sottolineato con forza da Deyan Sudjic che critica vivacemente questa immagine errata. “Immaginate – scrive Sudjic – il campo di forza attorno a un cavo dell’alta tensione, scoppiettante di energia e lì lì per scaricare un lampo a 20.000 volts in uno qualsiasi dei punti della sua lunghezza, e avrete un’idea della natura della città contemporanea”. (Sudjic, 1993: p.334). Il richiamo di Sudjic all’energia elettrica offre un felice accostamento per un raccordo con il tema delle nuove tecnologie.

Infatti, di pari passo con la diffusione della motorizzazione privata, lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione ha dato una spinta decisiva alla formazione della nuova città. Da un lato cambiando l’organizzazione del lavoro che si deistituzionalizza e distribuisce nello spazio, secondo un modello, ormai largamente noto, che va sotto il nome di economia post-fordista. Dall’altro per i cambiamenti indotti dalle “macchine per l’abitare”: in parte si è trattato di un processo simile a ciò che è avvenuto in fabbrica, con l’avvento di macchine “time and labour saving“, cioè strumenti che servono a far risparmiare lavoro e tempo, soprattutto alle donne.

Ora però questo tempo viene impiegato da beni “time consuming“, tutte quelle macchine che servono a consumare il tempo liberato e di cui noi ci riempiamo progressivamente la casa. Primo tra tutte il più grande mangiatore di tempo che è la televisione, ma anche l’alta fedeltà, le macchine fotografiche e il calcolatore e così via. Le abitazioni diventano più comode, ma contemporaneamente richiedono più spazio e a parità di reddito lo spazio maggiore si trova più lontano dai centri tradizionali. Così una nuova città, indistinta, confusa, temuta e poco conosciuta, cresce attorno al nucleo tradizionale delle città industriali, s’intrufola negli interstizi lasciati liberi dalla deindustrializzazione, li penetra (Zwischenstadt, la “città nel mezzo”, che io chiamo la “città-oltre”) e li modifica, esattamente come circa mille anni orsono la città medievale è sorta attorno ai castelli feudali in disuso, li ha inglobati e vi si è sostituita dando vita alle città che rappresentano il modello urbano europeo originale, che oggi deve fronteggiare la nuova città diffusa, disordinata e disarmonica ma “scoppiettante di energia”.

Va da sé che questo scoppiettio è costoso, tra l’altro, proprio in termini di consumo energetico. E, ancora una volta, la nuova struttura sociale non è irrilevante per la morfologia fisica: se si guarda l’area di Milano si può vedere che l’area metropolitana non è affatto una “più grande Milano”, ma una nuova struttura urbana in forte interazione funzionale con la tradizionale città comunale.

2) Pertanto dire “città metropolitana” è analiticamente sbagliato e indica il fatto che chi ha elaborato questo termine non era al corrente della vasta letteratura che a partire dagli anni ’20 del secolo scorso. Il “mentecatto burocrate”, come lo chiama De Finetti, uccide l’elaborazione teorica, anche quella internazionalmente consolidata.

Possiamo naturalmente liberarci del problema con una scrollatina di spalle: al fondo si tratta solo di parole, basta intendersi. Ma le parole hanno un peso che va di là dalle nostre intenzioni, e nell’ArcipelagoMilano di settimana scorsa sollevavo proprio il problema dell’uso smodato delle parole con argomentazioni che non sto a riprender qui, ma che sono molto calzanti per questo tema. In particolare si dovrebbe stare particolarmente attenti per una procedura che anno dopo anno ha accumulato una quasi inaudita mole d’insuccessi (costosi). Alla radice degli insuccessi sta la profonda e colpevole ignoranza dimostrata dalla cultura pubblica italiana in un periodo cruciale delle trasformazioni insediative nel nostro paese.

Negli anni in cui la trasformazione metropolitana si mangiava il territorio di mezzo paese e le città venivano dissolte nelle “terre sconfinate” del periurbano, la cultura pubblica di questo paese si baloccava con l’idea balzana di un ritorno alla campagna. Mentre le grandi trasformazioni urbane investivano la società italiana con diverse successive ondate, nel grande ciclo di espansione capitalistica del secondo dopoguerra, fino alla crisi globale del primo decennio del XXI secolo – i cicli intermedi hanno introdotto pause e distorsioni, ma l’espansione urbana non si è mai arrestata – la cultura pubblica del paese ha interpretato le trasformazioni in corso usando vecchi modelli di origine tardo-romantica sostanzialmente riferibili alla coppia toennesiana di Gemeinschaft (comunità) vs Gesellschaft (società), elaborata per i fenomeni di trasformazione sociale e territoriale di un secolo prima.

3) Considerazioni anche più negative si dovrebbero fare per il termine “provincia metropolitana”.
Nel testo Dimensione metropolitana che ho curato per il CSS, Ettore Rotelli fa un illuminante racconto dei fallimenti della legislazione, ordinaria e costituzionale, sulle aree metropolitane, in un percorso abbastanza lungo che può essere a posteriori datato al Convegno di Limbiate del 1957. Il risultato di ulteriori inani agitazioni è che il fenomeno urbano più nuovo viene incasellato in uno schema amministrativo tanto vecchio da essere anche in via di eliminazione: non sapendo più che pesci pigliare facciamo coincidere la metropoli con la provincia. Mi è stato obiettato che le province possono essere rivedute; ma l’area metropolitana di Milano, che in tutte le elaborazioni dalla metà degli anni ’50 in poi (Kingsley Davis) ricomprende zone come il verbano – cusio – ossola e il novarese, secondo il criterio della provincia-metropoli continuano a far parte di una diversa regione. Che cale al “burocrate istituzionale” il fatto che persino per il dialetto queste aree siano entro la koiné milanese? Le regioni non si toccano e mai la provincia metropolitana ne potrà inglobare, delle porzioni, anche se il loro tubi di scappamento scaricano ogni giorno a Milano.

4) Oggi poi, dopo mezzo secolo d’insuccessi è inevitabile che persino l’oggetto che si vuole pianificare si sia ulteriormente modificato.
Parlare oggi di “area metropolitana” (città o provincia metropolitana) rimanda a un concetto, quello delle DUS (Daily Urban Systems) o FUR (Functional Urban Regions) che viene anch’esso messo in discussione dell’evoluzione, soprattutto dei sistemi di regolazione dei flussi. Non sono le città che fanno le reti, sono le reti che fanno le città, mentre i grandi insediamenti commerciali, che una volta erano alle periferie delle città oggi diventano poli di nuovi insediamenti urbani. L’aspetto più rilevante della realtà urbana contemporanea riguarda i cambiamenti nella morfologia fisica e sociale delle città intervenuti nel corso del XX secolo. Risulta ormai evidente che, in ogni parte del mondo, la città tradizionale e la “metropoli di prima generazione” (i), che hanno caratterizzato la vita urbana nella porzione centrale del secolo scorso, hanno ceduto il passo a un tipo del tutto diverso di morfologia urbana, che sta producendo una serie di quelle che i rapporti ufficiali delle Nazioni Unite chiamano Grandi Regioni Urbane (MUR. Mega Urban Regions) in cui forme diverse d’insediamenti umani si mescolano inestricabilmente, fino a costituire un’entità urbana nuova, ma non ancora ben definita, di cui sono state date numerose definizioni o etichettature che non sto a riprendere per non confondere inutilmente il discorso.

Per ragioni analitiche che accenno qui sotto, ho suggerito di chiamare questa nuova entità la meta-città(ii). Nel triplice senso che questa entità è andata al di là (meta) – e persino ben al di là – della classica morfologia fisica della “metropoli di prima generazione” che ha dominato il XX secolo con il suo core e suoi rings (polo e fasce concentriche); al di là (meta) del controllo amministrativo tradizionale di enti locali sul territorio e al di là (meta) del tradizionale riferimento sociologico agli abitanti, con lo sviluppo delle “metropoli di seconda (e terza) generazione” sempre più dipendenti dalle popolazioni transeunti. (Vedi il mio “Lo que el viento se llevò. Espacios publicos en la metropolis de tercera generaciòn” in Monica Degen, Marisol Garcia (eds) La metaciudad: Barcelona, Transformaciòn de una metròpolis, Anthropos, Editorial, Barcelona 2008; pp. 29-44).

Questo mutamento ha dato luogo a notevoli fraintendimenti, non solo da parte della pubblicistica popolare, sempre pronta a impadronirsi anche del minimo sospetto di un’apocalisse, ma anche della letteratura scientifica che dagli anni ottanta del XX secolo in poi non ha perso occasione per decretare la fine della città (iii). A parte la stridente contraddizione d’ipotesi sulla fine della città nel periodo di massima urbanizzazione della storia dell’umanità, è chiaro che la città non è finita, ma si è trasformata in una nuova forma urbana che oggi sempre più passa dal modello definito dalle varie Central Place Theories del XX secolo a modelli tendenzialmente lineari di Zwischenstadt. Il fenomeno può essere rappresentato con molti esempi ma è particolarmente evidente nel corridoio emiliano dove fino al 1999 si poteva ancora parlare di un arcipelago di aree metropolitane distinte, ma già nel 2001 si era trasformato in corridoio continuo, come è avvenuto in molte altre situazioni, rendendo ancora più problematico il lego della costruzione di una unità governabile (non di governo) partendo dai tasselli delle istituzioni esistenti. Che dire per esempio di un’area metropolitana milanese senza Monza, oppure di Firenze senza Prato? Si rafforza sempre più il dubbio che le componenti elementari del Lego istituzionale non siano più quelle giuste.

5) E ancora, dopo mezzo secolo di insuccessi, è perfettamente legittimo il sospetto che si stiano pestando nel mortaio degli oggetti sbagliati, per esempio pietre invece che mandorle, o aria fritta invece di concetti rigorosi, e che forse occorra ripensare radicalmente questo concetto.
In particolare io mi sono convinto di due fatti, che mi sembra difficile contestare, e che se accertati hanno conseguenze rilevanti sul piano operativo. Intendiamoci bene, io non sono un planner né un esperto di questioni istituzionali e amministrative, non faccio parte di alcuna commissione incaricata di disegnare questa o quell’area metropolitana. Da tempo però mi occupo del fenomeno metropolitano partendo dallo studio del nuovo fenomeno insediativo, della comprensione delle dinamiche sociali (lato sensu) che lo caratterizzano e delle sue tendenze evolutive. Avendo decisamente affermato ormai più di un quarto di secolo addietro che l’identificazione di una “area naturale” (spiegherò più sotto come si debba intendersi questo antico termine) come il nuovo insediamento con un bacino elettorale non avrebbe portato a nulla, penso oggi che le ragioni teoriche su cui si basava questa esatta previsione ne escono rafforzate e possono aver la pretesa di suggerire qualche riflessione a chi invece il compito di disegnare un modello di governo per le nuove forme insediative ce l’ha.

a) La non coincidenza tra definizione di area e la identificazione di un bacino elettorale.
Fin dalle prime vicende PIM (Piano Intercomunale Milanese) questo è stato l’ostacolo insuperabile, e comunque insuperato, per la identificazione di un’area metropolitana. E non deve sorprendere, ogni definizione di un confine, un limite, è al tempo stesso inclusiva ed esclusiva: (Giano) il dio bifronte dei confini è probabilmente la più antica divinità romana, laziale e italica ed è per questo che Ianuarius, Gennaio, è il primo mese dopo il solstizio invernale in un numero elevatissimo di lingue. Si può fare diversamente? Cioè si può scegliere di scindere la definizione di una area di governo (diciamo di competenza amministrativa e istituzionale) dalla individuazione fisica della nuova forma insediativa? Naturalmente sì, è stata la scelta americana, ha funzionato passabilmente bene per più di mezzo secolo e non si vede perché non si debba fare altrettanto.

L’area metropolitana è un’area funzionale, cioè riflette una realtà dinamica, con conseguenze reali, soprattutto in campo ambientale in senso lato, ma ovviamente con tutti i risvolti di finanza pubblica che vi sono connessi. Ma soprattutto un’”area naturale”, non nel senso che può esser definita in base a tratti fisici (mari, laghi, fiumi, rilievi, che pure hanno il loro peso), ma nel senso che si tratta di aree che non necessariamente coincidono con definizioni amministrative, rispetto alle quali hanno minore fissità, anche se tra area amministrativa e area naturale non esiste una contrapposizione assoluta, perché i confini amministrativi producono essi stessi effetti “naturali” ovvero economici, insediativi e sociali di tipo spontaneo.

La dominanza metropolitana, come molti ali fenomeni insediativi è relativamente indipendente dalle gabbie amministrative che disegnano il territorio istituzionale. Il fine da raggiungere non è un più rigido ingabbiamento, ma la possibilità di determinare aree di governo, a ragion veduta delle caratteristiche economiche, funzionali e sociologiche, e delle dinamiche relative. Ciò non è possibile se l’area metropolitana coincide con un bacino elettorale reale o presunto, come il PIM che il Ministro Togni non volle perché avrebbe chiaramente incluso un elettorato a maggioranza di sinistra. Se invece noi avessimo a disposizione uno strumento conoscitivo puntuale, aggiornabile via via senza interferire sui bacini elettorali, poi potremmo molto più liberamente e puntualmente definire delle aree elettorali e di governo con le appropriate (o anche no) negoziazioni ma senza che ci siano ragioni di distorsione delle aree funzionali.

b) La non identificazione della nuova forma con un modello “central place”
Questo aspetto è molto più complesso da risolvere e per questo merita che ci si lavori sopra sia intellettualmente che operativamente: si tratta infatti di una operazione strategica e cruciale, si sbaglia se si continua a ragionare su modelli obsoleti di aggregazione a partire dal comune centrale, anche se il nuovo modello presenta ovvie difficoltà di operazionalizzazione. Detto brutalmente chi governa l’area metropolitana non può essere il Sindaco metropolitano (così come dobbiamo smetterla di blaterare sul Sindaco d’Italia. Il sindaco è un ruolo tipicamente municipale, non regge una scala diversa, come dimostra con assoluta evidenza la lunga storia di sindaci eccellenti falliti alla loro prova in ruoli nazionali): l’autorità metropolitana (iiii) non può sostituire i sindaci ma deve affiancarsi a essi, per questo l’area metropolitana non può essere una “città più grande” non lo è e non può diventarlo, ma deve avere un ruolo complementare e non aggiuntivo o sostitutivo.

Per dare un esempio concreto, se invece di giocare con il Lego dei comuni, delle provincie ed eventualmente delle regioni, destinato a produrre conflitti veti, che finora sono stati paralizzanti, si puntasse a individuare per ogni area metropolitana un’area di governo delle accessibilità, e quindi non solo trasporti e flussi fisici nello spazio, ma anche funzioni coordinate nel tempo (e nei tempi) si sarebbero risolti i due terzi o i quattro quinti del problema della definizione dell’area, senza toccare ambiti elettorali che possono essere collocati dentro il quadro delle accessibilità. Non è facile, ma anche il modello tradizionale di area metropolitana ha richiesto una lunga gestazione teorica prima da dare i suoi frutti, non possiamo pensare di arrivare a una identificazione della nuova forma insediativa al di là della metropoli con strumenti approssimativi, ma neppure possiamo illuderci di risolvere i problemi dell’oggi con le strutture concettuali dell’ieri. In cui, perdipiù, non hanno funzionato.

(i) Per questa terminologia vedi il mio Metropoli, Il Mulino, Bologna 1993, Cap.III, passim.
(ii) Uso il termine con un significato analitico diverso da quello che gli viene dato da F. Ascher cui devo tuttavia riconoscere una primogenitura del termine che mi era sfuggita. Ringrazio Jean Paul Hubert del DRAST per la segnalazione. Una buona approssimazione del concetto che userò qui è il termine di Zwischenstadt la città tra le città (vedi Thomas Sieverts, Cities Without Cities. An Interpretation of the Zwischenstadt, Routledge, London, 2003 (Vieweg, 1997). La commissione europea ha ricostruito questa città tra le città calcolando le aree del pianeta che si trovano in prossimità di centri urbani.
(iii) Per una rassegna delle teorie della de-urbanizzazione vedi il mio già citato Metropoli (1993), Cap.II. Più di recente il tema è stato ripreso anche da un autore solitamente bene informato ed equilibrato come Leonardo Benevolo, La fine della città, Laterza, Roma 2011.
(iiii) Sulla continuità urbana e la discontinuità metropolitana vedi il mio recente “Città. La vendetta del territorio e la modernità sottratta. L’urbanizzazione e l’unità d’Italia” in Il Politico, Numero speciale su “L’Italia che cambia, 1861-2011“, curato da Silvio Beretta e Carla Ge Rondi, 2011, a. LXXXVI, n.3 pp.129-164.

Un articolo finalmente tradotto in italiano dal blog del premio Nobel per l'economia, ribadisce la natura complessa della bancarotta nell'ex capitale dell'auto: metafora della crisi finanziaria e della cattiva governance attraverso la quale si crede (o si vuol far credere) di uscirne. La Repubblica, 29 luglio 2013, postilla (f.b.)

QUANDO Detroit ha dichiarato fallimento, o quanto meno ha cercato di farlo – la situazione si è complicata dal punto di vista legale – , so di non essere stato l’unico economista ad avere avuto una sensazione sconfortante sul probabile impatto che ciò avrà sul nostro dibattito politico. Saremo di nuovo punto e daccapo come la Grecia? Naturalmente, ad alcuni piacerebbe che accadesse una cosa del genere. Quindi cerchiamo di orientare questa conversazione nella direzione giusta, prima che sia troppo tardi.

Di che cosa sto parlando? Come forse ricorderete, alcuni anni fa la Grecia è precipitata nella crisi fiscale. Si è trattato di un evento negativo, ma avrebbe dovuto avere effetti limitati sul resto del mondo. L’economia greca, dopo tutto, è alquanto piccola (in effetti è una volta e mezzo circa quella dell’area metropolitana di Detroit). Purtroppo, molti politici e policy maker hanno sfruttato proprio la crisi greca per fare cambiare direzione al dibattito, cambiando l’oggetto dalla creazione di posti di lavoro all’integrità fiscale.

Beh, in verità quello della Grecia era un caso molto speciale, dal quale si potevano trarre pochi insegnamenti, forse nessuno, per la politica economica nel suo complesso. E perfino in Grecia i deficit di bilancio erano soltanto una parte del problema. Ciò nondimeno, per qualche tempo il dibattito politico in tutto il mondo occidentale è stato completamente “ellenizzato”: tutti erano la Grecia. Tutti stavano come minimo per trasformarsi nella Grecia. E questa errata convinzione ha inferto enormi danni alle prospettive di una ripresa economica.

Quindi ora gli irascibili del deficit hanno un nuovo caso da fraintendere. Non conta che la prevista crisi fiscale statunitense abbia ripetutamente mancato di materializzarsi; che il brusco calo nei previsti livelli di indebitamento degli Stati Uniti e il modo col quale buona parte della ricerca che gli irascibili utilizzavano per legittimare i loro rimproveri abbiano perso completamente credito… continuiamo pure a ossessionarci per i budget municipali e gli obblighidi spesa per le pensioni statali! Oppure, anzi, lasciamo perdere.

Le sventure di Detroit sono la soglia oltre la quale inizia la crisi nazionale delle pensioni pubbliche? No. Le pensioni statali e locali indubbiamente sono sotto-finanziate, e gli esperti del Boston College stimano che la carenza complessiva di finanziamenti sia nell’ordine dei mille miliardi. Ma molti governi stanno prendendo vari provvedimenti per far fronte a quelle carenze. Questi sforzi, tuttavia, non sono ancora sufficienti. Le stime del Boston College indicano che quest’anno i contributi complessivi per le pensioni saranno inferiori di circa 25 miliardi di dollari rispetto a quello che dovrebbero essere. In un’economia da 16mila miliardi di dollari, tuttavia, questa cifra non è esorbitante, e anche se si facessero stime ancora più pessimistiche, come alcuni contabili – ma non tutti – dicono che si dovrebbe fare, continuerebbe a non essere una cifra abnorme.

Ma allora, Detroit è stata soltanto irresponsabile? Ancora una volta no. Detroit sembra aver avuto una governance particolarmente cattiva, ma in linea di massima la stragrande maggioranza della città è stata soltanto vittima innocente delle forze del mercato.

Come? Le forze di mercato fanno vittime? Naturale. Certo. Dopo tutto, i fanatici del libero mercato adorano citare Joseph Schumpeter quando parla dell’inevitabilità della “distruzione creativa”, ma sia loro sia l’opinione pubblica che dà loro retta immutabilmente si dipingono come distruttori creativi, non come creativamente distrutti. Beh, indovinate un po’! C’è sempre qualcuno che finisce coll’essere l’equivalente moderno di un produttore di frustini per calessi, e quel qualcuno potreste essere voi.

Talvolta i perdenti di un cambiamento economico sono individui le cui competenze diventano superflue. Talaltra sono aziende che servono nicchie di mercato che vengono a sparire. E qualche altra volta ancora sono città intere, che hanno perso il posto che occupavano nell’ecosistema economico. Il declino può accadere. Certo, nel caso di Detroit la questione pare essere stata notevolmente aggravata dall’inefficienza politica e sociale. Una delle conseguenze di questa inefficienza è stato il grave caso di irregolarità nello sviluppo dei posti di lavoro nell’area metropolitana, con alcuni posti di lavoro che abbandonavano il cuore urbano anche quando l’occupazione cresceva nella Detroit più ampiamente intesa, e anche quando altre città assistevano a una sorta di rinascita del centro città. Meno di un quarto dei posti di lavoro disponibili si trovano nell’area metropolitana di Detroit in un raggio di sedici chilometri dal tradizionale quartiere centrale degli affari. Nell’intera area di Pittsburgh, altro colosso industriale del passato i cui giorni di gloria sono ormai alle spalle, il numero corrispondente di posti di lavoro in centro è di oltre il 50 per cento. E la relativa vitalità del nucleo centrale di Pittsburgh può contribuire a spiegare perché l’ex capitale dell’acciaio stia dando segni di rinascita, mentre Detroit continua a sprofondare.

Di conseguenza, cerchiamo in tutti i modi di discutere seriamente di come le città possono gestire la transizione quando le loro tradizionali forme di vantaggio concorrenziale vengono meno. Cerchiamo anche di discutere con altrettanta serietà dei nostri obblighi, come nazione, nei confronti dei nostri concittadini che hanno avuto la sfortuna di trovarsi a vivere e a lavorare nel posto sbagliato nel momento sbagliato, perché, come ho già detto, il declino può accadere, e alcune economie regionali finiranno col contrarsi, forse anche drasticamente, a prescindere da quello che faremo.

La cosa più importante è non lasciare che questa discussione sia dirottata, come nel caso della Grecia. Ci sono molte persone influenti e autorevoli che vorrebbero farvi credere che il tracollo di Detroit è in primo luogo dovuto all’irresponsabilità fiscale e/o all’avidità dei dipendenti pubblici. Non è così. In grandissima parte, è soltanto una delle cose che accadono, ogni tanto, in un’economia in costante cambiamento.

Traduzione di Anna Bissanti © 2013, The New York Times

postilla

Val la pena subito richiamare come quella dell'inefficienza della gestione pubblica (pensioni, servizi ecc.) sia stata immediatamente la tesi dei commentatori della destra Repubblicana e dei liberisti a oltranza, ripresi del tutto acriticamente anche dal vicedirettore e corrispondente dagli Usa per il Corriere della Sera, Massimo Gaggi, che non ha fatto un bel servizio all'informazione presentando la bancarotta di Detroit secondo una prospettiva parziale e faziosa. Purtroppo questo contributo di Krugman è solo uno dei tanti che ha dedicato all'argomento, ma pur se solo accennati in coda i motivi della grave crisi urbana sono ribaditi: dispersione insediativa, frammentazione circoscrizionale (se ne ricordino gli entusiasti abolitori nostrani delle Province), e naturalmente il sistema fiscale, che applica in forma abbastanza estrema certe idee molto in voga anche da noi, delle “tasse che devono restare sul territorio”. In pratica è successo che lo sprawl suburbano ha portato fuori dai limiti amministrativi della città le famiglie e le imprese che pagano le tasse, lasciando invece abbondanza di vuoti urbani e poveracci nullatenenti. L'eventuale inefficienza pubblica al massimo peggiora la situazione, non la crea. Sbagliato anche lo slogan (usato in un titolo da Krugman e rilanciato anche qui da noi) secondo cui è “colpa dello sprawl”: no, a Houston per esempio non sarebbe successo, per via della circoscrizione amministrativa più ampia che consente sia di disperdersi, sia di continuare a versare le tasse nei medesimi forzieri. Insomma prima di spararle grosse bisognerebbe pensare, anche se non è tanto di moda (f.b.)

Il paradosso di un filosofo prestato alla politica, rimasto un politico della domenica, un dilettante allo sbaraglio. Massimo Cacciari descritto in un recente, maligno libro di Raffele Liuzzi come «responsabile più evidente di una città morta, spogliata da un turismo rapace e distruttivo». Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2013

Se Gustav von Aschenbach, il protagonista di Morte a Venezia, potesse un giorno non remoto risorgere e far ritorno al Lido, si sparerebbe un colpo alla tempia. Annichilito non da un efebico biondino polacco, ma dal paesaggio sanguinante»: inizia così – con un'evocazione ironica di Thomas Mann – l'acuminato pamphlet che lo storico veneziano Raffaele Liucci ha dedicato a Il politico della domenica (Stampa Alternativa, Viterbo, pagg. 47, € 1,00), cioè a Massimo Cacciari. Per quasi un ventennio, dal 1993 al 2010, il signore incontrastato di Venezia (tre mandati come sindaco). Ma anche, secondo Liucci, il responsabile più evidente dello stato di crisi in cui versa oggi la Serenissima, «una città morta, spogliata da un turismo rapace e distruttivo».

Almeno quanto lo scandalo rappresentato dalle immense navi da crociera che solcano il fragilissimo canale della Giudecca per deliziare i turisti con un «inchino» a piazza San Marco, Liucci imputa a Cacciari, per l'appunto, il disastro urbanistico del Lido. Una devastazione camuffata da «riqualificazione». Il progetto di un nuovo Palazzo del Cinema finito nel nulla dopo gran dispendio di soldi pubblici, e la realtà di una cementificazione dell'isola a colpi di villaggi-vacanze, centri commerciali, darsene per yacht. Nonostante le proteste delle associazioni ambientaliste e dei residenti stessi del Lido, i «lidensi», da Cacciari ribattezzati «lidioti».

Avendo visto da vicino il sindaco all'opera, il veneziano Liucci si interroga – più in generale – sul paradosso Cacciari. Il paradosso di un filosofo interminabilmente prestato alla politica, eppure mai divenuto un professionista della politica nel senso nobile del termine: rimasto un politico della domenica, un dilettante allo sbaraglio. Ma l'italiano Liucci si interroga anche su un ulteriore paradosso. Il paradosso di un Cacciari ormai irrimediabilmente screditato in Laguna, eppure ancora credibile lontano da Venezia. Mediaticamente, un personaggio non rottamato: come dimostrano le sue innumerevoli comparsate nei salotti buoni delle televisioni pubbliche o private, e sui palchi dei festival maggiori o minori.

«Ormai Cacciari è diventato un tuttologo sfibrante, una sorta di Sgarbi del post-berlusconismo», scrive Liucci prima di fotografare en passant – ed è una pagina pamphlettisticamente magistrale – il Cacciari sociologo, il reduce, il critico, il cicloamatore, il teologo, il bioeticista, lo smanettone, il giornalista, il costituzionalista, il politologo, il tecnico, l'ospite, l'esorcista, l'antichista, il vaticanista, il rottamatore, il grillino, l'ambientalista... senza dimenticare lo storico («Erodoto Cacciari») e il latin lover («Eros Cacciari»). Ma se sorride del fregolismo mediatico del tuttologo, Liucci sorride meno delle sue connections politico-culturali. In particolare, dell'intesa cordiale che ha fatto di Cacciari, ateo dichiarato, un uomo di fiducia di don Verzé all'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.

Il «côté religioso» di Cacciari contribuisce a spiegare il ventennale suo regno sopra Venezia, che «è forse la città più clericale d'Italia». Una città dove non si muove foglia che il Patriarca non voglia. Perché «un confortevole, levigato, ragionevole, democratico giogo confessionale affligge la laguna». Ma il giogo non basta a frenare calcoli, interessi, speculazioni degli autentici padroni di Venezia, i signori piccoli e grandi del turismo: osti e locandiere, albergatori e affittacamere, immobiliaristi e commercianti, baristi e ristoratori, motoscafisti e gondolieri, battitori e intromettitori, ambulanti e abusivi. «Ormai Venezia è stata trasformata in "un immenso negozio ad uso dei turisti di passaggio", come ha dichiarato Italia Nostra all'indomani della cessione del Fontego dei Tedeschi (uno dei palazzi più preziosi della città) al gruppo Benetton, per farne un centro commerciale».

Liucci non arriva al punto di imputare integralmente a Cacciari la trasformazione di Venezia in «paese dei balocchi», né gli addebita interessi privati nel business della cementificazione. Piuttosto, Liucci tiene a riconoscere nel fallimento politico-culturale del filosofo veneziano il fallimento di un tipo umano: l'intellettuale italiano di sinistra fattosi adulto, negli anni Sessanta, a colpi di «operaismo», e poi per decenni – tra infinite giravolte politiche – portatore apparentemente sano di una cultura visibilmente malata: «una cultura verbosa e petulante, gonfia di sé come un pesce palla, ma inconsistente come una medusa», «un'accademia della fuffa e del manierismo».

Cacciari interessa a Liucci quale prototipo di una piccola corte di intellettuali (i Toni Negri, gli Asor Rosa, i Tronti) salpati insieme come «operaisti» e variamente naufragati, ciascuno per proprio conto, sugli scogli delle loro pseudo-rivoluzioni fallite. A Liucci interessa «la forma mentis volubile e capricciosa» di tali «banderuole esposte ai quattro venti», che «hanno trovato nella politica una valvola di sfogo ideale per il loro ego ipertrofico». Gente per cui «i fatti non contano mai nulla, contano soltanto le interpretazioni». Gente come Cacciari, che nel 2011 ha riassunto la sua lunga esperienza di sindaco di Venezia con queste alate parole: «La cosiddetta società civile ti invade ogni giorno l'ufficio perché ha la prostituta nel viale, o il casino nel bar sotto casa, o il mendicante o la strada dissestata. Un esercito di infanti incapaci di arrangiarsi su qualsiasi vicenda umana e terrena. E io rispondevo: va bene, ti faccio l'ordinanza, così smetti di rompermi le palle».

Per quanto possa essere interessante l'offerta di prodotti di discreta qualità a basso costo, l'evoluzione urbanistico-commerciale della Chinatown milanese presenta ben altri spunti, sicuramente utili per tante altre città italiane alle prese coi medesimi problemi

Deve essere venuto un mezzo colpo apoplettico a quelli della Lega Nord qualche anno fa, quando in risposta ad una delle loro mosse sbrigative per affrontare ogni diversità, o che tale sembra, è sceso in campo il Console della Repubblica Popolare Cinese, seguito da una dichiarazione ufficiale del governo di Pechino. Forse i lettori si ricorderanno: c'era un quartiere di Milano con problemi di traffico e convivenza fra attività piuttosto ingombranti, commercio all'ingrosso e al dettaglio, e l'amministrazione di centrodestra era partita col piede sbagliato, usando con la comunità cinese certi metodi che di solito passano purtroppo inosservati quando interessano altre minoranze. Il fatto è che non solo il governo cinese tiene molto ai suoi connazionali all'estero, e li tutela con decisione se necessario, ma quel quartiere, quella comunità, sta lì probabilmente da prima che arrivassero in città dalla pedemontania brianzola o orobica tanti lumbard del giorno d'oggi. Dopo Rossi, il secondo cognome più diffuso di Milano è Hu, tanto per dire. Ergo andateci piano.

Porta Volta (Cesare Beruto 1880)
La stampa è sempre a caccia di curiosità, specie d'estate, e così sono stati in molti sui giornali in questi giorni a raccontare con toni assai esotici dell'iniziativa commerciale dei gemelli bocconiani Hu, l'Oriental Mall in via Paolo Sarpi, ovvero l'asse centrale della zona in cui l'ex amministrazione di centrodestra aveva fatto quella figuraccia. Certo il formato del grande magazzino è abbastanza innovativo da giustificare qualche interesse, ma forse non sufficiente per mettere in ombra l'altra novità: il progetto di costruzione di una galleria a coprire via Paolo Sarpi, il vero passeggio, il vero mall, del quartiere, oggi prevalentemente pedonalizzato. Che in questo modo verrebbe ad assomigliare un pochino di più ai suoi lontani cugini della grande distribuzione suburbana a indirizzo automobilistico, se non altro nelle forme esteriori. Ma non è giusta neppure questa definizione, e vediamo perché.

L'area terziaria di Porta Nuova
Veduta (in giallo via Sarpi)
La galleria coperta è soltanto uno degli aspetti, di un processo abbastanza lungo e per nulla lineare, di trasformazione di un'ampia zona urbana. L'asse di via Sarpi è la spina portante di una zona che collega trasversalmente due direttrici già ben individuate nel piano ottocentesco di Cesare Beruto, il corso Sempione e l'uscita dal centro storico verso il Cimitero Monumentale. In più, come si intuisce osservando una veduta aerea della zona, anche l'asse di via Sarpi non esaurisce la questione, proseguendo idealmente anche oltre il casello di Porta Volta (progettato tra l'altro da Beruto dieci anni prima del piano) lungo la linea degli ex bastioni, fino a raggiungere un altro importante polo commerciale: il grande Eataly che si insedierà in Piazza XXV Aprile. Zona questa ancora a tessuto tradizionale, ma in diretto contatto con le espansioni terziarie dette Quartiere Porta Nuova, ormai note in tutto il paese per via dei voluminosi e pubblicizzati grattacieli, meta di veri e propri pellegrinaggi turistici e di un curioso flusso di movida serale giovanile.

L'ingresso del grande magazzino
Spazi della nuova movida giovanile
Facendo le debite proporzioni, il percorso coperto di via Sarpi, con la sua offerta commerciale mista, etnica e non, con la coesistenza ben governata di mobilità dolce, carico-scarico merci, residenza e servizi, si potrebbe anche configurare come una specie di “Galleria Vittorio Emanuele del Terzo Millennio”. E non sono certo giustificati i timori che dietro la novità del nuovo formato Oriental Mall si possa nascondere quel tipo di colonizzazione urbana intravisto o sospettato con lo sbarco dei grandi marchi nel tessuto tradizionale, standard a parcheggi inclusi. Si tratta, del resto coerentemente col tipo di quartiere e di ragionevole accessibilità, di null'altro che di un grande magazzino, pur oltre la classica offerta di abbigliamento accessori casalinghi. E che quindi si rivolge a un pubblico non auto-munito, magari di tipo turistico, o direttamente agli abitanti del quartiere che apprezzano alcuni prodotti anche di consumo quotidiano.

E del resto la forte reattività sociale alle questioni del traffico, della congestione, del rischio di uno stravolgimento in negativo di questa parte consolidata di città, cuscinetto fra zone di profonda trasformazione, era già emersa nel caso delle attività all'ingrosso. Allora si era iniziato un processo, magari contraddittorio, di trasferimento delle ditte e marchi a maggiore impatto verso aree a destinazione industriale o logistica. Ora, avanzando gradualmente il formato dello urban mall all'aria aperta, rivolto prevalentemente alla mobilità dolce e pubblica, ci sarà probabilmente tempo sia per adattare gli esercizi esistenti al nuovo contesto e tipo di concorrenza, sia per eventuali interventi pubblici di tutela, promozione, controllo. Un processo che val la pena di seguire, e che può servire da modello (o monito, chissà) per tante altre aree semicentrali italiane alle prese con l'annosa questione dell'invadenza automobilistica, e della correlata, nel bene e nel male, vitalità commerciale.

Alcune descrizioni del piano per la galleria e dell'Oriental Mall qui su Eddyburg

L’ex sindaco Costa, in passato favorevole a limitare i turisti a Venezia, poi convertito al feroce sviluppismo portuale, ha un progetto; il deputato Zanetti uno simile. Entrambi non sanno che cos'è la Laguna, ma non lo sa neppure il sindaco attuale. La Nuova Venezia, 27 luglio 2013

All’indomani del vertice ministeriale al Ministero delle Infrastrutture per il primo esame dei progetti alternativi per l’estromissione da crociera, si prende posizione in vista della prima scadenza: l’esame dettagliato dei sei progetti teoricamente in campo, anche con il loro impatto ambientale e sul traffico, da parte di Magistrato alle Acque e Capitaneria di Porto, prima che la questione passi poi a metà ottobre sul tavolo del Comitatone e quindi al giudizio finale del Governo. Ieri il sindaco di Venezia ha riferito al Consiglio comunale sull’esito della riunione, smentendo che il progetto dell’Autorità Portuale, che prevede lo scavo del canale Contorta-Sant’Angelo come tracciato alternativo per evitare il passaggio in Bacino di San Marco, sia ormai in pole-position.
«Non c’è solo il progetto dell’Autorità Portuale - ha sottolineato - ma anche quello del deputato Enrico Zanetti che prevede lo scavo di un canale alle spalle della Giudecca e quello del Comune, di immediata realizzazione, con lo spostamento dell’attracco delle grandi navi a Marghera, in area dismesse e non interessate al traffico del porto commerciale nella zona del Vega, con la possibilità di allargare il canale Malamocco-Marghera per favorirne il passaggio. Ma tutti i progetti saranno valutati con il loro impatto e starà poi al Comitatone stabilire anche come finanziare l’intervento prescelto, che dovrà comunque avere tempi rapidi. Ci armeremo per seguire con la massima attenzione l’esame dei progetti da parte del Magistrato alle Acque».
Lo stesso Orsoni, presentando la soluzione Marghera al vertice ministeriale, con due accosti previsti per le grandi navi, ha sottolineato come il 32 per cento potrebbero essere attraccate qui, con 45 passaggi mensili. Ma visto che sono l’80 per cento delle navi da crociera quelle che superano le 40 mila tonnellate e che dovrebbero essere quindi allontanate da San Marco, è implicito che anche il sindaco pensi al mantenimento di una parte di esse in Marittima, in attesa di soluzioni definitive. Per lo scavo del Canale Contorta-Sant’Angelo Costa prevede tre anni di tempo, di cui uno di iter amministrativo e due di lavori, comprensivi del riequilibrio idraulico e morfologico. «Finché però non si trovato vie alternative - ha già sottolineato - le Grandi navi continueranno a passare per dove passano oggi». Come a dire, che almeno per i prossimi tre anni abbondanti, continuerebbero a sfilare nel Bacino di San Marco, con buona pace dell’esecutività del decreto Clini-Passera rivendicata da tutti. È su questo che punta Orsoni per far passare - almeno come misura provvisoria - lo spostamento parziale delle grandi navi a Marghera al tavolo del Comitatone di metà ottobre. Fa sentire la sua voce anche l’ex viceministro Cesare De Piccoli, smentendo la presunta «bocciatura» preventiva del suo progetto di terminal crocieristico aPunta Sabbioni, accreditati da alcuni. «I ministri, così come Capitaneria e Magistrato alle Acque stanno seguendo la procedura corretta - commenta - prendendo atto che a Venezia non esiste un progetto condiviso da tutti di estromissione delle grandi navi da San Marco. Pertanto tutti i progetti, compreso il mio, saranno valutati al tavolo tecnico a cui aspetto di essere chiamato. Se qualcuno pensa di eliminarlo con furbizie procedurali, ha fatto male i propri calcoli, anche perchè le cronache giudiziarie di questi giorni dovrebbero insegnare qualcosa». Sulla questione grandi navi è intervenuto ieri anche il presidente di Confindustria Venezia Matteo Zoppas sottolineando come «non si può dimenticare che l’attività crocieristica a Venezia è uno dei pochissimi settori che continua da avere trend positivi (+12 per cento di tasso medio annuo) generando un indotto stimabile di 283 milioni l’anno e un impatto occupazionale di oltre 4.200 addetti solo nell’area veneziana. Spero quindi che le proposte presentate e le valutazioni che, entro ottobre, porteranno ad una decisione definitiva in merito al transito della Grandi Navi a Venezia, tengano conto di tutti questi elementi. Più uno: il fattore tempo!».
Il Comitato No Grandi Navi ribadisce invece che «l'unica vera alternativa al passaggio delle grandi navi a San Marco non è una qualche nuova collocazione o un qualche nuovo percorso qua e là in giro per una laguna già devastata ma cambiare modello: far entrare in laguna solo le navi compatibili e lasciar fuori tutte le altre».

"Ce n'est qu'un debut"... La posta in gioco non è un migliore sistemazione del traffico, né solo la tutela fisica del beni culturali, ma la costruzione di una Roma che abbia nel valore suo immenso patrimonio storico la ragione della sua vita e il criterio ordinatore dei suoi spazi. Il manifesto, 26 luglio 2013

Fra pochi giorni i Fori Imperiali chiuderanno al traffico. Merito del neosindaco Marino e di decenni di battaglie ambientaliste e urbanistiche. Dopo gli sventramenti e le deportazioni mussoliniane, negli ultimi decenni erano diventati una pista automobilistica. Ora si riparte, a patto che non si discuta solo di fermate dei bus o dei taxisti ma di come rendere l'area il baricentro di un rilancio culturale di Roma. Anche estendendo l'area pedonale

È una di quelle circostanze in cui non si riesce a essere del tutto soddisfatti, ma neanche completamente delusi. Tra qualche giorno, a Roma, verrà chiuso al transito automobilistico il tratto finale di Via dei Fori imperiali, quello contiguo al Colosseo. È appena un ritocco, ma finalmente si materializza una trasformazione urbana attesa da decenni, s'infrange un cronico e patetico indugio. Si procede tuttavia al minimo attrito, come fossimo ai preliminari: è un gesto appena accennato e poco più o forse niente più. Un evento comunque rilevante, obbligatoriamente storico (considerando il contesto millenario). Evoca una grande suggestione e agirà sull'immaginario culturale collettivo. Se ne parlerà in tutto il mondo: speriamo più dell'abdicazione di re Alberto del Belgio o della nascita dell'erede al trono d'Inghilterra.

Allora, dopo decenni d'inguardabile ignavia, d'inerzia politica e di miseria culturale, ci si avvia a salvaguardare uno degli ambiti archeologici più importanti nel lungo cammino della storia. Un intervento che un meschino provincialismo aveva a lungo rabbiosamente impedito, ma che finalmente prova a schiudersi nel concreto, sia pure tra rattrappite timidezze. Merito del nuovo sindaco di Roma, Ignazio Marino, ma merito soprattutto di una battaglia urbanistica e ambientale durata mezzo secolo, avviata da intellettuali come Antonio Cederna e Italo Insolera, raccolta da amministratori come Luigi Petroselli e Renato Nicolini e coltivata dai tantissimi che in città hanno continuato a ritenerla cruciale e indispensabile.

Bene, si comincia. Ma si comincia davvero a proiettare questa città ingrigita e impigrita verso una dimensione contemporanea, a darle nuovo slancio e imprimere una spinta vitale? Oppure, alla fine, tutto si ridurrà a un corridoio di quattrocento metri riservato a bus e taxi, con contorno di biciclette e palloncini? Del resto, se ci si limita a interdire l'accesso automobilistico privato, a disegnare le corsie per i mezzi pubblici, a rivedere qualche senso unico, rimodulare qualche semaforo, è difficile pensare che vada diversamente. Dal tono delle polemiche in corso, che tendono a ridurre il tutto a una questione di disciplina del traffico, di vigili urbani da impiegare, di aree e transiti per lo scarico merci, l'impressione è che l'intervento sia non solo esiguo nelle proporzioni, ma anche d'incerta qualità. Un'impressione peraltro confermata dalla preoccupata ritrosia dell'amministrazione comunale, quasi fosse dubbiosa o addirittura ignara del valore e l'entità delle sue stesse scelte politiche.
Per ripristinare quanto meno il senso storico dell'intervento che, seppure in una logica da minimo sindacale, il Campidoglio si accinge a realizzare, proviamo a ricostruire l'impianto generale in cui si colloca e le ragioni politiche che lo rendono necessario.

La Via dei Fori viene inaugurata all'alba degli anni trenta da Mussolini in persona, dopo aver completamente polverizzato i quartieri medievali che sorgevano ai bordi della Suburra (gli stessi già inceneriti da Nerone) e deportato nelle borgate migliaia di persone. Così riassume l'intervento Italo Insolera in Roma moderna: «Il più colossale sventramento nella vecchia Roma è indubbiamente quello attuato per mettere in luce i ruderi dei Fori imperiali demolendo tutte le case (tra cui alcune di valore) tra Piazza Venezia e la Velia, la collina dietro la Basilica di Massenzio che fu tagliata per completare il tracciato rettilineo di Via dell'Impero. I ruderi rimessi in luce - continua Insolera - furono subito seppelliti sotto una soletta di calcestruzzo su cui passano le strade: così si è rotta per sempre e volutamente l'unità della zona archeologica, l'unità cioè dei Fori imperiali che gli imperatori avevano attuato proprio come ampliamento dell'antico Foro repubblicano».

Sventrare nel cuore del centro corrisponde a una malintesa e grossolana esigenza di monumentalizzare e "liberare" gli antichi Fori, eliminando come fossero scorie architettoniche (oltreché sociali) quei tessuti urbani che la storia aveva lasciato crescere intorno a essi. «Quella città - la definisce Ludovico Quaroni nelle sue splendide Lezioni romane - di casette e di ortiche, di ruderi e di miseria polverosa, di luce e di nuvole». L'intento del regime è quello di collegare, in un impeto di idealismo urbanistico, le antiche vestigia imperiali con le velleità imperialiste del fascismo.

Al di là delle riserve ideologiche e di un residuale e stucchevole romanismo, il risultato è sostanzialmente un goffo e ridondante asse urbanistico, che avrebbe dovuto congiungere il moderno (l'Altare della patria) con l'antico (il Colosseo), ma che in pratica diventa uno stradone grigio che né riesce a comporre una prospettiva decente, né a far respirare come meriterebbe il sedime archeologico. Con il tempo (e il traffico) Via dei Fori imperiali ha finito per diventare una pista automobilistica, il Colosseo un ciambellone assediato e Piazza Venezia una rotatoria puzzolente.

C'è da dire che il tentativo mussoliniano, per quanto tardivamente, raccoglie un modello politico autoritario, esplicitamente connotato da un'ideologia aggressiva e persecutoria. Figlio di quell'urbanistica autoritaria e militaresca a cavallo tra l'ottocento e il novecento il cui obiettivo era ripulire le città dai grovigli edilizi disordinati che davano rifugio alle classi povere e spesso ribelli. E infatti lo sventramento dei Fori era stato previsto fin dal piano regolatore del 1883, confermato in quello del 1909 e infine realizzato in conformità con quello del 1931. Insomma, per affermarsi, il nuovo deve divorare il vecchio, costi quel che costi. Un metodo distruttivo e azzerante.

Invece, l'antico non è un peso da eliminare ma un bene da accarezzare e coccolare. E lo si custodisce al meglio non negandolo o nascondendolo, ma esaltandone la qualità formale e la suggestione immateriale. Dunque, per imporsi, il nuovo deve accettare, accogliere il vecchio. Non cannibalizzarlo, semmai strumentalizzarlo, con sensibilità estetica e intelligenza progettuale. In questo quadro, il centro storico di Roma è in sé un magnifico orizzonte, una scintillante stratificazione culturale, che in fondo necessita di sole politiche nutritive: manutentive e valorizzanti. E dunque non solo conservazione e salvaguardia ma anche rinnovamento e sviluppo.

E dove, se non nel comprensorio degli antichi Fori, si può realizzare tutto ciò? La restituzione alla città della funzione baricentrica di quell'area: non più politica ed economica, ma culturale e ambientale. Si tratterebbe dunque di pedonalizzare integralmente la Via dei Fori e la Via dei Cerchi e riconnettere il Colosseo con il Circo Massimo, l'Arco di Costantino e la Via Sacra, i Fori e i Mercati traianei, il Palatino e il Campidoglio. Disselciando l'asfalto e riesumando i tesori sotterranei scampati al piccone fascista, e così riconsegnando l'intero sedime allo sguardo e al transito umani. Ci si troverebbe di fronte a un incanto, in uno dei paesaggi più affascinanti al mondo: quanto e più di Pompei, come nella Valle dei re, nell'Acropoli di Atene, sulle alture di Machu Picchu, sotto la Piramide di Tulum.

Così si può rilanciare Roma, tentando di farle riacquisire quel prestigio di capitale internazionale della cultura. Una città che si è stancata d'indossare quell'invecchiata grisaglia marroncina e affumicata, e che perciò desidera cambiarsi d'abito e infine misurarsi più lieve e convinta con la sua storia millenaria. Una storia che afferma il primato assoluto della cultura e della natura non per una nobile nostalgia ma come impronta contemporanea, restituendo la città al sole e al vento, alle luci e alle ombre, al suono delle parole, al piacere dello sguardo.

Dovrebbe essere questo l'impatto dell'operazione Fori. Ritrovarsi invece a ragionare su dove passano le macchine, se di qua o di là, o dove mettiamo la fermata dell'autobus, o se i noleggiatori sono equiparabili ai tassisti, o se i centurioni possono continuare a lavorare, o dove sistemiamo i camion-bar, se insomma è così che si affronta e si programma questa pedonalizzazione, beh, il timore è che tutto finisca in una spolveratina o poco più.

Non basta aver allontanato Alemanno, né appare particolarmente efficace affidarsi alle tecniche cognitivo-comportamentali in un fine settimana a Tivoli. Roma può tornare a respirare e sorridere solo se si abbandonano le mezze misure e la gestionalità piccola piccola. C'è bisogno di coraggio culturale, di una visione alta, di una strategia finalmente ariosa e slanciata. C'è bisogno di radicalità nelle scelte, quella radicalità che oggi appare come la più ragionevole delle politiche.

Una sacrosanta richiesta di maggiore attenzione e investimenti per un modo di trasporto spaventosamente penalizzato sul versante della sicurezza. Corriere della Sera Milano, 26 luglio 2013 (f.b.)

È successo ancora. L'altra notte un ciclista settantenne è stato travolto e ucciso sul colpo da un'automobile in viale Monza. Sembra che stesse attraversando, esattamente come aveva fatto Beatrice Papetti, la sedicenne di Gorgonzola rimasta vittima, poco più di due settimane fa, di un pirata della strada, sulle strisce pedonali. Si dirà adesso che i passaggi pedonali sono, appunto, riservati ai pedoni, esattamente come i marciapiedi. E si ripeterà anche che i ciclisti — ormai più o meno famigerati, stando alle accuse convergenti di chi va a piedi e di chi va in automobile — non rispettano niente e nessuno, che passano con il rosso, che vanno in contromano, che di notte non hanno luci e che, in sovrappiù, sono anche maleducati.

Tutto vero, ma intanto sempre più si rivelano anello debole della catena del traffico, addirittura più debole dei pedoni, in quanto solo una minoranza osa salire sui salvifici marciapiedi mentre la maggioranza resta allo sbaraglio in strada. Anello debole che soccombe: non a caso ogni giorno in Italia un ciclista perde la vita e quaranta finiscono feriti in ospedale; e la Lombardia si segnala, assieme all'Emilia Romagna e al Veneto — regioni dove per antica tradizione circolano più biciclette — per il maggior numero di vittime.

Che saranno mai, si può pensare, trecentocinquanta ciclisti su un totale di circa seimila morti all'anno per incidenti stradali? Sono, invece, infinitamente troppi: calcolando come valore medio 1, il rischio di mortalità per loro è, infatti, il 2,18, il più alto in assoluto: per i motociclisti è l'1,96, per gli automobilisti lo 0,78 e per i camionisti lo 0,67. E, tanto per aggiungere qualche dettaglio al triste catalogo, si contano più vittime tra uomini e donne sopra i sessantacinque e tra i ragazzini che hanno età compresa fra i nove e i quattordici anni.

Cha fare allora? Che si diano multe a chi pedala contromano, a chi passa con il rosso, a chi al buio non ha luci adeguate, ma che si costruiscano piste ciclabili, possibilmente protette da un cordolo o, in alternativa, che si permetta alle biciclette di salire sui marciapiedi, almeno quelli più larghi. Resterà il problema della maleducazione, della pretesa dei ciclisti, in quanto convinti di essere «virtuosi», di avere più diritti degli altri, ma se ci fosse una legge che proibisce la villania, metà dei cittadini si ritroverebbe, probabilmente, multata, pregiudicata. Quando l'anno scorso una giornalista londinese venne travolta e uccisa da un camion mentre andava in redazione in bicicletta, il suo giornale, ilTimes, lanciò una campagna di sensibilizzazione internazionale per rendere le città più sicure per i ciclisti, che ebbe una certa risonanza anche in Italia, sebbene delle urgenze segnalate dal quotidiano inglese si fosse da noi preso in considerazione praticamente soltanto l'obbligo del casco, del quale, comunque, poi non si è più parlato. Sarà una piccola cosa, per lo più, è vero, detestata dalle signore, però qualche vita di ciclista la potrebbe forse salvare.

La Nuova Sardegna, 23 luglio 2013

E' un ricordo la lunga estate al mare delle canzoni. Le ferie di chi può permettersele sono un magro riassunto, per cui la stagione a fini contabili si riduce a un mese e poco più, pure nei litorali sardi. Qui, in questo tempo, si decide il bilancio di aziende e persone. E in mancanza d'altro su questi 30-40 giorni si fa grande affidamento, e si spera di conservare intatto almeno questo introito. Ma al diavolo il presupposto: la bellezza superstite per cui l'isola è ancora tra le mete ambite (nonostante l' infamia dei trasporti).
Per questo è meglio che ci diciamo le cose come stanno sul turismo; e sul cinismo del mercato che ti premia finché hai carte in mano e ti disprezza appena trova di meglio.

Resisterà, come sanno i turisti smaliziati, l'isola dei paesaggi senza artifici, dei beni culturali, delle cose buone da mangiare fatte qui (con tutto il rispetto per il consumo di caviale e champagne a Porto Cervo che inorgoglisce qualche cronista).
D'altronde la concorrenza è tra luoghi sempre più uguali nella metropoli turistica. Inesorabile l'omologazione delle giostre. Compresa quella sarda (che pure conserva differenze fantastiche). Per cui sembra impossibile impedire che ogni luogo eccitato dalla presenza di forestieri assuma i caratteri dell'ipershop+luna park. E impensabile vietare che nei negozi di artigianato sardo si vendano gli stessi orribili cestini di plastica, e nuraghi e coralli di resina fatti in Cina dalle stesse manifatture che riforniscono -dappertutto- i venditori ambulanti. I quali giurano che le zanzare e le escort di Porto Rotondo sono le stesse di Antigua e Sharm El- Sheikh, ma chissà se è vero.

E' sicuro che i calamari surgelati che trovi nei ristoranti sardi, sono gli stessi che ti danno in Costa del Sol o nelle feste del PD in Emilia Romagna e in Toscana.
Non mi stupisce che molto mirto (liquore) sia di bacche non sarde. O che molto torrone sardo sia di mandorle provenienti da chissà dove. Mi inquieta che il mirto sardo (arbusto) sia tra la macchia che brucia ciclicamente. E che i mandorli siano stati tutti espiantati. E che non ci mancano le maree gialle. Lo stesso giallo segnalato a Rosignano, Vico Equense, Porto Empedocle, che compare, con trascurabili variazioni cromatiche, a Alghero o a Valledoria, sob! Inaccettabile per chi deve difendere la reputazione del suo mare cristallino. Com'è insopportabile che il mito dell'ospitalità sia contrariato dai soliti agguati (aeroporto di Fertilia: 50 cent per un bicchiere d'acqua - in pvc, al banco).

L'impressione è che vi sia un allarme crescente per la compromissione di luoghi prossimi al mare; anche perché alle alterazioni di profili litoranei corrisponde lo spopolamento delle regioni interne che sembra inarrestabile. Per cui sono sempre più rari i convegni sull'esodo dalle montagne più sfigate (mentre i Mamuthones vanno in trasferta nelle marine ad allestire deprimenti show per villeggianti).
Colpisce il silenzio di chi vive di turismo agli annunci di nuove contraffazioni del paesaggio decise in Qatar o a Dubai. Quel declivio costiero sfigurato inutilmente sarà così per sempre - anche quando i Mamuthones rinsaviti saranno tornati alla tradizione - “su connottu”.

“Più case-più turisti-più lavoro per i sardi”: l'imbroglio che resiste. Eppure basta leggere il servizio di Luca Roich su «La Nuova Sardegna» (7 luglio 2013) per sapere che sono sempre meno i sardi impiegati nei villaggi vacanze - come nell'edilizia. Difficile (?) prevedere che sarebbero arrivati da lontano e numerosi a occupare quei posti sottopagati. Ma immaginabili le reazioni: i falchi contro quei disgraziati che “ci rubano il lavoro”, le colombe per “un forte rilancio dell'edilizia costiera”. Banalmente: senza un progetto di tutela dei luoghi e delle comunità la crisi sarà solo subita e lascerà segni indelebili.

Il Fatto Quotidiano on-line, 21 luglio 2013 (m.p.g.)

Gentile signora Ilaria Borletti Buitoni,

in una sua intervista pubblicata sull’ultimo numero dell’«Espresso», lei dichiara che io le avrei rivolto «i più ingiuriosi epiteti». Dalla sua piccatissima risposta a Maurizio Crozza – reo di averla accostata a Moira Orfei a causa della sua imponente acconciatura – è facile capire come lei non gradisca né l’ironia, né le critiche. Ma io non le ho mai rivolto ‘epiteti ingiuriosi’: e la sfido a trovarne anche solo uno negli interventi pubblici in cui ho avuto l’ardire di citarla. Ma, a questo punto, mi permetta di spiegarle perché, a mio giudizio, la sua nomina a sottosegretaria ai Beni culturali rappresenti un sintomo eloquente della regressione politico-culturale del nostro Paese.

Scendendo (o salendo?) in politica lei ha donato ben 710.000 euro a Scelta Civica di Mario Monti (un membro del Consiglio di amministrazione del Fai, che lei presiedeva). Quindi Monti l’ha nominata capolista in Lombardia. E, dopo la sua non sorprendente elezione, Scelta Civica ha chiesto che lei diventasse ministro per i Beni culturali (suo obiettivo dichiarato). Ma alla fine ha dovuto accontentarsi di uno dei due posti di sottosegretario in quel ministero. E, dopo tutti i soldi che ha speso, posso anche capire che nella stessa intervista lamenti che la stanza che le hanno dato al Ministero non venisse pulita da anni: come si è mal serviti, signora mia!
Per prenderla con leggerezza si potrebbe rammentare che nel Secolo di Luigi XIV Voltaire ironizza amaramente sulla vendita delle cariche pubbliche che connotò la fase peggiore del governo del Re Sole, quando «si creavano cariche ridicole, sempre facilmente comperate … essendo gli uomini di loro natura vani …, e così si immaginarono cariche di sottodelegati, ispettori visitatori del burro fresco, assaggiatori del burro salato».
A prenderla seriamente, invece, ci si potrebbe domandare (legittimamente, viste le regole del Porcellum) se lei sarebbe membro del Parlamento e del Governo anche senza quella gigantesca donazione. E ci si potrebbe chiedere se questa concatenazione di eventi non rappresenti una forma estrema di privatizzazione del cuore stesso dello Stato.
Ma anche l’accostamento con le pratiche dell’Antico Regime è istruttivo. Perché lei si chiama Ilaria Carla Anna Borletti Dell’Acqua Buitoni, e deve la sua attuale carica all’aver presieduto un’associazione, il Fai, nel cui consiglio d’amministrazione siedono, tra gli altri, Bruno Ermolli, Gabriele Galateri di Genola, Vannozza Guicciardini Paravicini, Galeazzo Pecori Giraldi. E, a capo della sua segreteria al Mibac, lei ha voluto Biancaneve Codacci Pisanelli.

L’ironia sull’affollarsi di cognomi aristocratici e grandi capitali sarebbe gratuita se tutto ciò non avesse molto a che fare con le sue idee circa la funzione e il governo del patrimonio.
Nella sua prima dichiarazione, in occasione della Notte dei Musei del 18 maggio scorso, lei pensò bene di dire che «è assolutamente impossibile che lo Stato abbia risorse sufficienti per ampliare l’offerta culturale senza ricorrere anche al sostegno dei volontari». Come dire: «Non hanno pane? Che mangino le brioches!».

In ogni sua dichiarazione pubblica, lei ripete che bisogna distruggere il «legame indissolubile» tra lo Stato e il patrimonio storico e artistico. E che questa distruzione sarebbe una ‘modernizzazione’. L’unica salvezza, per lei, sarebbero i privati: il modello da perseguire è quello della cessione del brand del Colosseo a Diego Della Valle, o dell’affitto degli Uffizi per eventi privati. Di più: allo Stato dovrebbe rimanere solo la tutela, mentre la gestione dovrebbe essere affidata ai privati, con o senza fini di lucro.

In tal modo, lei si è ritagliata (non so quanto consapevolmente) la parte di periferica cheerleader di una ideologia attuale trent’anni fa: un reperto dell’epoca di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Oggi, al contrario, il dibattito pubblico americano conta gli incalcolabili danni di decenni di privatizzazioni selvagge, e rilancia il ruolo dello Stato. Come ha scritto nel 2010 Tony Judt – forse il più influente intellettuale americano dei nostri giorni – «l’incapacità del mercato e degli interessi privati di operare a vantaggio della collettività è sotto gli occhi di tutti».

E non so se è informata che, da vent’anni a questa parte, la gestione dei principali musei e siti monumentali italiani è stata proprio affidata a concessionari privati che hanno creato solo reddito privato a spese di un patrimonio pubblico morente, utilizzando come schiavi generazioni di giovani precari e desertificando la politica culturale pubblica, ridotta ad un mostrificio commerciale.

Lei forse preferisce un modello di charity gestito da ricche dame dai molti cognomi: ma io dubito fortemente che un ritorno alla beneficenza dell’Antico Regime permetta al patrimonio di svolgere la sua funzione prevista dalla Costituzione. Che è quella di rimuovere gli ostacoli all’eguaglianza, e favorire il pieno sviluppo della persona umana attraverso la conoscenza generata dalla ricerca scientifica. Tutte cose che possono essere assicurate solo da una gestione pubblica: né dai concessionari venali, né dalle ronde della carità.
E lei, da sottosegretario di Stato ai Beni culturali, dovrebbe invece pensare solo ad applicare la Costituzione su cui ha giurato: per esempio lottando per riportare a livelli decenti il finanziamento pubblico al patrimonio (sceso di due terzi dai tempi di Bondi ad oggi). Provando, cioè, a rimediare al doloso sottofinanziamento che mirava proprio a rendere inefficiente il sistema che oggi si vuole privatizzare perché – guarda un po’ – divenuto inefficiente.

Il patrimonio artistico dell’Italia dovrebbe e potrebbe servire alla più cruciale sfida per la sopravvivenza della democrazia nel nostro tempo: ridurre la diseguaglianza.
E invece lei lavora perché un’ulteriore privatizzazione aumenti, rappresenti, celebri questa intollerabile diseguaglianza. Edmund Burke ha scritto che una società che distrugge il tessuto del proprio Stato «si sfalderà in una polverosa disgregazione di individualismi». Non mi stupisco che lei lavori in questa direzione: io lotto per un futuro diametralmente opposto.

Cordialmente,Tomaso Montanari

Progetti di riorganizzazione di un quartiere “etnico” milanese, nella prospettiva Expo, propongono idee nuove per il commercio in città. La Repubblica e Corriere della Sera, 23 luglio 2013 (f.b.)

la Repubblica
Un tetto di cristallo su Paolo Sarpi, architetti al lavoro per la “gallery”
di Laura Asnaghi

È il progetto di cui si parla in questi giorni nei negozi lungo la strada, da sempre cuore pulsante della Chinatown di Milano. Il progetto è ambizioso e prevede la creazione di una “gallery” trasparente, con tetto apribile, lungo tutta la via. Il tutto con spese a carico di uno sponsor, per ora “top secret”. Tra i promotori del piano c’è Giovanni Berni, rappresentante dell’associazione “Sarpi Doc”, che gestisce una storica panetteria, all’angolo con via Lomazzo.

«L’obiettivo non è riqualificare solo la strada e darle una veste commerciale più in sintonia con l’Expo — spiega — ma si tratta di rilanciare tutta la zona che diventerà, nel giro di breve tempo, un polo strategico». Berni ricorda che intorno a PaoloSarpi graviteranno, tra gli altri, il nuovo palazzo Feltrinelli, gli atelier della moda di via Ceresio, da Dsquared (già funzionante) a quello di Neil Barrett (in costruzione). E sempre in zona ci saranno tutte le nuove costruzioni a ridosso della fermata del metrò al Monumentale. «Tutto questo è destinato a dare impulso al quartiere, ma per essere un vero polo di attrazione, dobbiamo attrezzarci — spiega Berni — Il progetto preliminare della galleria di vetro è allo studio e a fine agosto, se ne potrà parlarecon le carte alla mano».
Sulla riqualificazione della zona Sarpi è stato creato una tavolo a cui siedono sia i rappresentanti di zona Centro che di zona 8. «Sappiamo di questo progetto e siamo interessati — spiega Fabio Arrigoni, il presidente del Consiglio di zona 1 — È un piano complesso che coinvolge il Comune, commercianti, la comunità cinese e i residenti. Per la prima volta a Milano si parla di una strada che vuole diventare anche galleria. Il piano è ambizioso, lo valuteremo con cura».
Un pool di architetti è all’opera e dovrà tracciare una gallery «che non sia troppo invasiva e armonizzi con l’estetica della strada», una via sulla quale si affacciano 180 negozi, di cui molti cinesi con vendita all’ingrosso, e che, nel giro di poco tempo avrà anche il primo “Oriental mall”, un nuovo shopping center creato con capitale cinese. Dopo le vacanze il progetto preliminare della galleria di cristallo sarà visibile e a settembre si aprirà il confronto tra le parti.

Corriere della Sera

Supermercato e Mall della moda. L'idea cinese nel centro di Milano
di Jacqueline Hu e Maria Silvia Sacchi

I volantini di uno dei due supermercati stanno arrivando nelle case in questi giorni. Ma la pubblicità era iniziata prima: solamente, però, sui giornali cinesi venduti in Italia.
Con un grande investimento nato dall'unione di capitali di alcune famiglie cinesi in Italia unite da legami di parentela o di amicizia di vecchia data (ognuna con esperienza in un settore diverso) sta, infatti, per nascere quello che potrebbe essere il primo vero concorrente cinese della grande distribuzione made in Italy.

Lo spazio è l'ex Ovs di via Paolo Sarpi a Milano dove oggi sarà inaugurata questa nuova formula a metà tra un tradizionale supermercato e un mall della moda. The Oriental Mall sarà composto da cinque piani, di cui tre fuori terra. Due i supermercati presenti al suo interno (il primo sarà un Iper Hu, il secondo un Hu Food). Al piano terra, molti corner diversi con abbigliamento, gioielleria, bigiotteria, con marchi sia cinesi che italiani, accessori e giochi per bambini con logo (stile Disney Store), high-tech, pasticceria, bar. Il secondo piano — la preparazione è ancora in corso — sarà dedicato interamente al wellness, con sala yoga, centro di bellezza con massaggi tradizionali e trattamenti estetici, sala da tè e punto di ristoro con possibilità di pasti veloci sia di cucina cinese che italiana. Trattative, infine, sono in corso con alcuni marchi di lusso made in Italy per i turisti cinesi. Già, perché lo scopo è attirare, appunto, oltre ai consumatori italiani, anche i turisti che dalla Cina arrivano in Italia.

A spingere l'iniziativa soprattutto i giovani rappresentanti delle famiglie cinesi, tutti sui trent'anni, imprenditori e dalle esperienze internazionali. In particolare Cristophe e Stephan Hu, nati in Francia e cresciuti tra Milano e Roma (già importatori all'ingrosso con la World Mart) gestiranno la parte alimentare a piano terra, la Hu Food, supermercato con anche banco di macelleria e pesce freschi. La famiglia Jin e la signora Zheng Wei Yan titolari del marchio Iper Hu con all'attivo 11 mercatoni nel Nord Italia apriranno al primo piano un punto vendita omonimo. Altri investitori sono le famiglie Wu e Jiang Sen che arrivano dalla ristorazione: noto il Dining Wok, raffinato ristorante multietnico nel centro commerciale Bennet di Cantù, e tra poco (con la partecipazione della famiglia Hu) nel centro commerciale Auchan di Rescaldina.

Gli ideatori e i realizzatori a livello pratico di tutto il progetto sono i gemelli Michele e Francesco Hu, laureati all'università Bocconi di Milano, nati come broker assicurativi e mediatori finanziari nel 2003, che hanno iniziato dando credito alla comunità cinese tramite convenzioni nazionali con istituti di credito italiani. Ora si occupano di gestire grandi patrimoni immobiliari, con fondi o acquisto di quote dirette o indirette in investimenti di media e grande struttura. «Crediamo che sarà un successo», dice Michele Hu. Per questo stanno già valutando due nuovi centri a Torino e Firenze.

Una onesta e persino lucida per certi versi immagine del rapporto fra territorio, sistema socioeconomico, e automobile: la confusione impera, insieme ai rischi. La Repubblica, 22 luglio 2013, postilla (f.b.)

L’auto stavolta è davvero di fronte a un bivio: cambiare o sparire. Dalle nostre parti i problemi sono tanti, i soldi pochi e i mercati saturi. In Italia, il paese più colpito dalla crisi di vendite, c’è una densità automobilistica tra le più alte del mondo (61 ogni 100 abitanti). Così come c’è il carburante più costoso del pianeta, le assicurazioni più care e una quantità di tasse sulle vetture che non hanno uguali in nessun altra parte del vecchio continente. Poi, c’è una certa disaffezione all’automobile così come attualmente concepita messa nel mirino di molti sindaci convinti (spesso a ragione) di dover trovare sempre nuove misure per ridurne l’uso nelle loro città. Purtroppo, però, qualcuno ragiona come fosse il sindaco di una cittadina del nord Europa dove girare in bicicletta è facile e sicuro perché ci sono le piste ciclabili oppure pensa di essere a Londra o Parigi dove il trasporto pubblico funziona, le metropolitane collegano ogni angolo della città e le automobili in giro sono diminuite non per la colpa della crisi ma perché c’è una reale e utile alternativa al loro uso. Ma in Italia si va avanti (anzi indietro) diversamente, facendo finta di non vedere un problema ormai enorme e dalla cui soluzione passa il futuro della mobilità a quattro ruote. Insomma, al momento la sensazione è che ci siano poche idee e per di più confuse.

Gli appelli a moderare o cambiare la tassazione, per esempio, finiscono nel vuoto e spesso diventano patetici. Nascono apposite associazioni per lanciarne di nuovi. E non si sa per quali motivi e con che prospettive dato che quelle istituzionali (Unrae, Anfia) ben più grandi e potenti stanno lentamente scivolando nel dimenticatoio, sempre più incapaci di difendere il settore dell’automobile.

C’è una grande confusione anche sulla politica energetica. In mezza Europa, soprattutto quella che conta, esistono programmi di incentivi ecologici, da noi, invece, ancora niente. Peggio c’è addirittura una frammentazione di vantaggi (o svantaggi). A Roma, per esempio le auto ibride non pagano il parcheggio in fascia blu al contrario di Milano dove entrano gratuitamente nella zona C. Una norma unica no? E non parliamo dell’auto elettrica di cui tutti tessono ogni lode. Zero incentivi all’acquisto e praticamente zero colonnine per la ricarica. Mancano le infrastrutture perché l’auto a emissioni zero possa crescere (anzi, in Italia è il caso di dire “nascere”). Così tra cambiare o sparire, almeno in questo caso, è davvero più facile che sparisca. Purtroppo.

Postilla

Con buona pace degli onesti ed entusiasti militanti del ciclismo terzo millennio, e dei loro benintenzionati guru in sedicesimo da social network, la mobilità ha ancora a che vedere col muoversi, e muoversi significa andare da un posto all'altro per motivi che di solito hanno poco a che vedere con l'immagine, ma c'entrano col lavoro, i servizi, fatti propri difficilmente riconducibili al sostegno di grandi principi. Ergo con l'auto privata, o con l'auto in generale, con il sistema territoriale e socioeconomico che si tira appresso, dobbiamo fare i conti: magari invocare davvero un “nuovo paradigma”, ma non individuarlo nell'allegra pedalata fino al bar dell'angolo, se quel bar (che magari è il posto di lavoro per mantenersi) sta a un angolo distante trenta chilometri da casa e in cima a una montagna innevata. Esagerazioni a parte, come ho provato già a esemplificare in qualche articolo sulla demotorizzazione, abbandonare il comparto dell'auto, e tutto ciò che da esso dipende, al proprio destino, pensando ad altro, non sta né in cielo, né in terra, né soprattutto nella logica di un pensiero progressista e propositivo (f.b.)

Il Lupi non perde né il pelo né il brutto vizio: servire i più arretrati interessi nelle trasformazioni del territorio, in un demente, istituzionalizzato, molecolare padroni a casa nostra. Chissà che faranno i suoi lupacchiotti sparsi a sinistra; se continueranno a tenegli bordone. L'Unità, 19 luglio 2013

Un fantasma si aggira silenzioso nel «decreto del fare», è il capitolo intitolato «rigenerazione urbana» ma promette, più che di rigenerare di scardinare ope legis il già abbastanza sgangherato sistema di regole che disciplinano la libertà di costruire tenendo conto del contesto, del paesaggio, delle esigenze di servizio pubblico, dai trasporti ai rifiuti, alle fogne. C’è stata battaglia, mercoledì fino a notte fonda e poi nel pomeriggio di ieri, fra i parlamentari del Pd della commissione ambiente (senza diritto di voto in commissione bilancio, dove il provvedimento era in discussione) e il ministro Maurizio Lupi. Ma il ministro delle Infrastrutture che ha anche, sebbene nessuno se ne fosse accorto, la delega all’urbanistica, ha giocato tutte le carte, dalla minaccia ai parlamentari romani di ritirare i fondi per la metropolitana C a quella di mandare tutto all’aria con le prevedibili drammatiche ripercussioni sulla tenuta del governo.

L’oggetto del contendere è la possibilità, prevista dal decreto, spiega il deputato Pd Roberto Morassut, «di demolire e ricostruire singoli edifici modificandone le sagome, i prospetti e le destinazioni d'uso attraverso la Scia». Una norma, aggiunge, che «al di là delle intenzioni, è un grimaldello spaccatutto», in tutte le città, compresi i delicati tessuti «dei centri storici e delle città d’arte». Un regalo ai costruttori che sin qui non era stato possibile fare, tanto che la famigerata legge urbanistica della Lombardia, ispirata al governatore Formigoni dall’attuale ministro Lupi, è stata bocciata dalla Corte costituzionale proprio perché violava le norme nazionali. Per capire cosa significhi questa radicale deregulation edilizia bisogna immaginare un vecchio palazzo dai soffitti alti: se lo demolisci e lo modifichi, riduci l’altezza fra un piano e l’altro e aumenti la superficie. Oppure, denuncia l’Inu, si portano in superficie i volumi interrati, le cantine, i garage degli anni Cinquanta e Sessanta, persino le gallerie minerarie e come per magia i locali tecnici si trasformano in superfici utili, in barba agli strumenti urbanistici dei comuni e delle regioni. Infatti il provvedimento non

piace all’Anci che, a Torino, ha chiesto di stralciare l’articolo 30 del decreto (il presidente dell’Anci è il sindaco di Torino Piero Fassino) perché così «non si controlla la politica urbana», dello stesso parere l’Anci di Firenze. Non solo, c’è stato il parere negativo del ministro dei Beni culturali, Massimo Bray. Ma nessuno è riuscito a fermare Maurizio Lupi. «Una pagina negativa, una conduzione arrogante che pone un problema politico generale al Pd», dice Roberto Morassut. Arroganza e mancanza di rispetto verso il lavoro parlamentare, la commissione Ambiente, infatti, ha presentato un emendamento con voto unanime, espressione di un compromesso volto a tutelare, almeno, le zone A, i centri storici delle città. Ma in commissione Bilancio l’emendamento è sparito, per quanto il parere positivo sul decreto del governo fosse condizionato proprio dall’accoglimento delle modifiche richieste.

Finora la norma prevedeva che non si può demolire se non si ricostruisce «come prima», proprio per tutelare i paesaggi urbani. Il bello è, spiega Giuseppe De Luca, urbanista e segretario dell’Inu, che lo strumento giuridico per costruire in modo diverso esiste e si chiama «sostituzione». Ma l’ente locale deve poter dire se si può, se è utile, o se si deturpa sul piano storico, artistico o visivo un determinato paesaggio. Invece, spiega Giuseppe De Luca, con questa legge avviene il contrario, saranno comuni e regioni, che fin qui stabilivano le regole, a doversi adeguare. Così, quella che doveva essere rigenerazione urbana, «con una visione d’insieme dei cambiamenti necessari soprattutto nelle aree degradate dice Morassut diventa una rigenerazione edificio per edificio».

E con effetti perversi sul piano dell’equità, spiega Giuseppe De Luca: «Io ho un palazzo con cantine e garage e lei, che abita nel palazzo vicino no. Io posso demolire e ricostruire aumentando i volumi, lei no». E il problema, aggiunge De Luca, non esiste solo nei centri storici: «Negli anni Settanta i villini liberty di Palermo furono sostituiti da palazzoni perché la legge non li proteggieva, non erano nelle Zone A». La protesta dell’Inu si esprime in un comunicato ufficiale, quello che sta accadendo «potrebbe essere un attentato alla storia edilizia dell'Italia, alle forme delle sue città e dei suoi paesi, alla sua cultura materiale e immateriale che tanto contraddistinguono il paesaggio urbano italiano ed in fin dei conti anche allo stesso paesaggio territoriale. Inoltre si metterebbe immediatamente in crisi la pianificazione urbanistica vigente con incalcolabili ricadute a catena nella gestione degli insediamenti».

Nuovi inequivocabili segnali della crisi e dei cambiamenti che induce negli stili di vita. Si riuscirà per una volta a leggerli in modo propositivo? La Repubblica, 19 luglio 2013, postilla (f.b.)

A Roma, secondo gli ultimi dati dell’Aci, lo scorso anno le auto circolanti sono diminuite di circa settantamila unità (da 1.937.783 a 1.867.520), ma altrettanto è accaduto a Milano, Torino, Genova, Bologna, Napoli e Palermo. È scesa ulteriormente anche la percorrenza media degli italiani: dai 10.900 km del 2011 ai 9.500 dell’anno scorso. Prime e vistose conseguenze di una crisi dell’auto senza precedenti, che negli ultimi cinque anni in Italia ha dimezzato le vendite, passate da 2,5 milioni del 2007 a un milione e 400 mila del 2012 con una previsione di una perdita di altre 150 mila vetture per l’anno in corso.

Uno degli effetti di tutto questo è, appunto, il primo calo in assoluto del parco circolante a cui si aggiunge una diminuzione del traffico dovuta sì alla crisi, ma anche alle varie politiche comunali che sull’esempio di Parigi dove il traffico dal 2001 ad oggi è diminuito di un terzo e solo un cittadino su due possiede un’auto, si stanno moltiplicando le zone a traffico limitato, quelle pedonali e, nello stesso tempo, alzando i pedaggi dei parcheggi, delle fasce blu e il costo delle multe.

Per tornare ai numeri, secondo l’indagine annuale Inrix Traffic Scorecard (agenzia internazionale che visualizza la congestione stradale come indicatore economico del Paese) il traffico in Italia è crollato del 34%. Molto al di sopra di quanto registrato in Europa, dove il calo è stato mediamente del 18%. Non solo. I modelli di traffico di quest’anno procedono con un trend a spiraleverso il basso, con il primo trimestre che mostra un’ulteriore diminuzione di 23 punti percentuali con una conseguente riduzione delle ore passate in macchina: 27 in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il che significa che, escludendo Spagna e Portogallo, il nostro Paese ha registrato la maggiore diminuzione del traffico rispetto a tutto il resto dell’Europa.

AlixPartners, altra grande agenzia di consulenza internazionale, ha spiegato il fenomeno della demotorizzazione italiana con tre fattori: la crescita dei costi di gestione di un’auto, l’aumento della pressione fiscale e la riduzione della disponibilità economica delle famiglie causata dalla recessione. «Questi tre fattori — sostiene un loro studio — hanno determinato un atteggiamento meno positivo verso l’auto che si è tradotto nel rinvio della sua sostituzione e, quindi, nel crollo delle vendite ». Ma non solo. C’è anche una crescente disaffezione nei confronti dell’automobile, soprattutto da parte dei giovani (il numero delle patenti rilasciate nel 2012 è sceso del 19,3 per cento): sono sempre meno quelli che se la possono permettere e sempre più quellipronti a sostituirla con altri beni di consumo come computer, smartphone e tecnologie che rendono più accessibile la comunicazione e inutili molti spostamenti.

Così le città si svuotano, almeno dalle automobili, e la mobilità individuale cambia pelle. Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, che sta per avviare la pedonalizzazione dei Fori imperiali, ha dichiarato che proverà a togliere dalla capitale nei prossimi cinque anni il 20per cento delle auto. «Convincerò i romani a usare i mezzi pubblici rendendoli più efficienti ». Lui, intanto, preferisce girare in bicicletta, mezzo che, a proposito, sempre quest’anno in Italia ha superato nelle vendite proprio le automobili. Non accadeva dal 1953. Un altro segno della demotorizzazione?

Postilla
Probabilmente, volendo, qualche curioso che si andasse a spulciare vecchi numeri di quotidiani (all'epoca Repubblica non era stato ancora inventato) dei primi '70, troverebbe considerazioni simili, al netto di linguaggio, contesto, riferimenti sociali specifici. E cresce il vago fastidio perché ancora una volta pare non si colga l'aspetto di occasione positiva, oltre quello evidentemente negativo segnalato dal calo di consumi anche per un bene durevole e strumentale come l'auto. L'unica traccia davvero lasciata dalle lontane ere delle prime domeniche a piedi per la crisi petrolifera, è lo sdoganamento della bici elegante, di tendenza, non segno di povertà. Il resto, dalle ricerche sul risparmio energetico, agli stili di vita che oggi si chiamano sostenibili, sparito nel nulla, almeno sul versante dei mercati e della consapevolezza di massa. Ancora oggi, certi approcci alla mobilità urbana continuano tranquillamente a colpi di opere, progetti, interventi puntuali senza alcuna strategia di fondo, magari con investimenti corposi (metropolitane in sotterranea ad esempio) giusto per alleviare il traffico privato, e magari lasciar spazio a nuove auto. Non è il caso di riflettere anche sulla storia recente, e cambiar marcia? (f.b.)

A proposito di uno dei padroni "extraisituzionali istituzionalizzati" che dominano Venezia, la testimonianza di un protagonista della critica al mostro della "concessione unica", in quegli anni segretario della CGIL. La Nuova Venezia, 17 luglio 2013

Ha ragione Massimo Cacciari: la procedura degli interventi in laguna era viziata all'origine con la nascita nel 1984 di quel mostro giuridico che è il Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico, imposto da Gianni De Michelis in accordo con Bernini e confermato da tutti i governi successivi. Molti si sono fatti affascinare dalla grande opera ingegneristica. Altri, pur essendo contrari, hanno pensato di poterla bloccare attraverso la tattica del rovesciamento delle priorità, pure previste dalla legge: prima il ripristino morfologico della laguna poi altri cinque punti prioritari e solo alla fine “anche” gli interventi alle bocche di porto. Nel frattempo sono state elaborate alternative mai considerate. La storia ha dimostrato che la forza del Consorzio era così pervasiva che si preferito partire da quell’ “anche” invertendo così quanto prescritto dalla legge.

La Cgil di Venezia fu tra i pochi soggetti sociali a sollevare problemi. Fin dal convegno dell’84 quando, scontrandoci con il ministro De Michelis, contestammo l’idea “dell’inserimento di tre rubinetti alle bocche di porto” per affermare “la necessità di una visione unitaria degli interventi” sulla base del principio della “flessibilità, gradualità, sperimentabilità”. Negli anni 80, in qualità di segretario generale aggiunto, intervenni ripetutamente controcorrente sulla stampa e in incontri istituzionali subendo gli strali del “partito del fare” contrapposto alla “laguna di chiacchiere”, alla quale fummo immediatamente arruolati. Tra gli appuntamenti più significativi ricordo: l'intervento in consiglio comunale e alla Fondazione Giorgio Cini nel ventennale dell'alluvione e il lungo colloquio che avemmo nel settembre dell’87 con il presidente del Consiglio Giovanni Goria.
In quell’occasione presentai, a nome di Cgil Cisl e Uil, un documento che esprimeva la netta contrarietà alla terza convenzione tra lo stato e il Consorzio Venezia Nuova e chiedeva nel contempo il rafforzamento del Magistrato alle acque (che già allora appariva ancella del Consorzio) il rispetto delle priorità in ordine al disinquinamento della laguna e il ripristino morfologico della stessa, gli interventi per il restauro della città e il suo ripopolamento. Questo incontro fu preceduto da una conferenza stampa che suscitò l'ira scomposta di Maurizio Sacconi, allora braccio destro di De Michelis.
Se si volessero ricostruire le responsabilità politiche sarebbe utile sfogliare i giornali dell'epoca. Non solo la Cgil, ma anche Pri e Pci e la minoranza del Psi, fino alla giunta Casellati, condussero significative battaglie. Gli arresti dei massimi dirigenti del Consorzio Venezia Nuova, preceduto dall'arresto di Baita, hanno riportato alla mia memoria alcune pubbliche denunce che formulai, a nome della Cgil, nel corso degli anni contro il meccanismo dei concessionari unici e, successivamente, del projet financing all'italiana (ospedali di Mestre e Schio Thiene e delle autostrade). In un saggio pubblicato sul numero 47, 1994 della rivista Oltre il Ponte scrivevo: «L'irresistibile tentazione delle giunte Bernini prima e Cremonese poi di far ricorso a un ennesimo consorzio privato, attraverso il meccanismo della concessione, con tutto quello che ne è conseguito sul terreno della lottizzazione e della questione morale, ha fatto sì che anni preziosi fossero sprecati. La Cgil regionale denunciò pubblicamente il perverso meccanismo che la giunta stava approntando con la concessione unica al Consorzio Venezia Nuova e al progettato Consorzio Disinquinamento, di tutti gli interventi afferenti al bacino scolante». Dopo ripetute denunce sulla stampa locale (in particolare ricordo un'intervista rilasciata a Renzo Mazzaro apparsa sulla Nuova) il presidente Cremonese convocò a Palazzo Balbi Cgil Cisl e Uil. In quella occasione si lamentò dei miei attacchi ed ebbe la spudoratezza di chiedermi se la Cgil avesse avuto delle imprese da segnalargli. Come se la nostra avversione al meccanismo della concessione fosse motivata dal non aver partecipato alla lottizzazione del costituendo consorzio. Poi arrivò Tangentopoli, seguirono le condanne ma, evidentemente gli italiani hanno la memoria corta e la storia si ripete.

A proposito di un aspetto rilevantissimo del consumo di suolo a livello planetario, che incide pesantemente anche sulle condizioni di vita della piccola provincia Italia. dalla risorta rivista Ecologia politica, 9 luglio 2013

Nel Rapporto di analisi di OXFAM del 22 settembre 2011 è stato accertato che, soltanto nei paesi in via di sviluppo, dal 2001 circa 227 milioni di ettari di terra (un’area grande quanto l’Europa occidentale) sono stati venduti o affittati a investitori internazionali e la maggior parte di queste acquisizioni è avvenuta negli ultimi due anni.

Questa “caccia alla terra” oltre confine, ad una terra che dati incontrovertibili denunciano come sempre più scarsa ed a breve insufficiente a soddisfare la domanda crescente di cibo, è stata interpretata come una nuova fase della crisi alimentare del 2008 ed è stata anche rappresentata come la terza onda della delocalizzazione, che ha riguardato prima il settore manifatturiero nel 1980 e poi quello dell’informazione tecnologica nel 1990.

Il fenomeno è, senz’altro, l’espressione più manifesta del nuovo (o rinnovato) interesse del mondo finanziario nei confronti dell’agricoltura, che ha contribuito, secondo la FAO, a causare l’impennata dei prezzi di grano, riso e soia, che tra il 2006 e il 2008 hanno toccato livelli molto elevati; tale evento di portata mondiale , e cioè la crisi economica-agricola-ambientale-energetica, ha spinto poi alcuni paesi importatori di prodotti alimentari ad assicurarsi la terra dove costa poco o nulla, al fine di coltivare il necessario a nutrire la propria popolazione. Come è stato efficacemente sintetizzato, governi nazionali e investitori privati di paesi “finance-rich, resource-poor” guardano ai paesi “finance-poor, resource-rich” per assicurarsi cibo ed energia per i bisogni interni futuri.

Tuttavia, la concentrazione della terra coltivabile nelle mani di pochi soggetti, accompagnata dal cambiamento di destinazione d’uso, sta colpendo anche i paesi sviluppati con conseguenze rilevanti per l’agricoltura locale e tipica e, più in generale, per il diritto a produrre degli agricoltori estromessi dai processi produttivi tradizionali per consentire un utilizzo “diverso” delle aree agricole. Le stesse aree agricole dell’Europa, come risulta da una recente ed approfondita analisi di “Hands off the land”, sono oggetto di interesse da parte di privati speculatori internazionali.

Si parla, al riguardo, di Land Grabbing, un fenomeno recente ed ormai diffuso su scala planetaria che contraddistingue forme di accaparramento, appropriazione e concentrazione della terra coltivabile sita in territori extra-nazionali, operate da soggetti privati e pubblici, al fine principale (ma non esclusivo) di produrre cibo destinato all’esportazione. Detto fenomeno è altresì descritto come una forma di usurpazione o di vero e proprio saccheggio delle terre e, segnatamente, della rendita discendente dal profitto che si trae dal fatto di acquisire o controllare per un lungo periodo superfici agricole straniere.

Il Land Grabbing assume, così, i connotati di una nuova ed inedita forma di colonialismo, non necessariamente plasmata sull’archetipo “paesi ricchi contro paesi poveri” essendo presente anche un asse sud-sud, composto da aziende di paesi emergenti (India, Cina, Brasile, Sud Africa) verso paesi in via di sviluppo. Si evidenzia, cioè, un conflitto inedito ed al contempo drammatico tra due esigenze fondamentali per i popoli del pianeta: il diritto al cibo dei paesi ospiti e la ricerca della sicurezza alimentare (ma anche energetica) dei paesi stranieri.

Jacques Diouf, quando rivestiva il ruolo di Direttore generale della FAO, aveva già affermato profeticamente, all’epoca di uno dei primi tentativi di Land Grabbing (il caso Daewoo, in Madagascar) : “Il rischio è che si crei un patto neocolonialista per la fornitura di materie prime senza valore aggiunto da parte dei paesi produttori, a condizioni inaccettabili per i lavoratori agricoli”. Lo scenario che si propone non è nuovo di per sé; ciò che cambia è la crescente pressione su una risorsa naturale dalla quale dipende la sicurezza alimentare di milioni di persone povere.

Il fenomeno in esame viene, tuttavia, interpretato dagli osservatori internazionali anche sotto una luce diversa. Per la World Bank, così come anche per alcuni settori interni alla FAO, le sopradette modalità di appropriazione della terra sono considerate alla stregua di proficue forme di investimento nei paesi in via di sviluppo, in grado di apportare risorse finanziarie in realtà geografiche deprivate economicamente ma ricche di risorse naturali, quali la terra, l’acqua, le foreste, etc. In linea con tale orientamento, si trovano anche diversi paesi poveri che rifiutano il concetto di accaparramento della terra e sostengono la necessità di attirare valuta straniera per sostenere gli sforzi per lo sviluppo interno.

Secondo questa prospettiva, la cessione delle terre nelle mani di investitori stranieri agevolerebbe il processo di crescita e modernizzazione del paese beneficiario . Si è infatti sostenuto che gli investimenti sulla terra possono sì colpire il diritto al cibo ed altri diritti umani fondamentali nei paesi in via di sviluppo sotto capitalizzati ma essi possono, altresì, risultare vantaggiosi se gli investitori si impegnano a creare delle utilità per le popolazioni interessate quali: programmi di educazione, servizi sociali per la cura della salute e la costruzione di alloggi, realizzazione di infrastrutture (strade, ponti, elettricità e reti di acqua potabile). Detti investimenti, collaterali a quello principale sulla terra, possono direttamente ed indirettamente generare lavoro e contribuire all’economia del paese ed alle sue infrastrutture.

Tale visione che induce a giustificare, per alcuni aspetti, l’attività di sottrazione delle aree coltivabili ai detentori locali, può essere, in realtà, facilmente smentita guardando ad alcune esperienze di Land Grabbing che si stanno realizzando in paesi altamente industrializzati, quali il Canada, ove la richiesta di superfici coltivabili è molto aumentata in questi ultimi anni soprattutto da parte della Cina. I vasti territori della regione canadese sono assai appetibili per molti paesi esteri in quanto poco costosi ed abbondanti di risorse naturali (terre disabitate, acqua, foreste, ect.) così che essi vengono ceduti a società private oppure vengono inclusi nei fondi pensione, una forma di investimento che guarda con crescente interesse alle commodities e, tra queste, in modo privilegiato alle aree agricole. Tali fondi sono gestiti prevalentemente da grandi imprese finanziarie ben liete di inserire nel loro portafoglio degli investimenti sia la terra che le imprese agricole.

Anche lo speciale Rapporteur presso l’ONU per il diritto al cibo, Olivier De Shutter – e con lui molti settori dei movimenti sociali e delle organizzazioni della società civile – ha criticato il tentativo, sostenuto in particolare dalla World Bank, di rendere più “responsabili” (RAI ovvero Responsible Agricultural Investment) questi investimenti di vasta scala sulle aree agricole produttive perché una volta che la terra viene venduta o concessa in affitto agli investitori stranieri, costoro punteranno ad uno sfruttamento di tipo intensivo giungendo, così, a sottrarre alle comunità locali di agricoltori non solo le terre ma anche il loro potere di scegliere quale tipo di coltivazioni realizzare e, conseguentemente, in che modo affrontare il problema della fame.

In conclusione, secondo il panorama delle opinioni dominanti, l’appropriazione di terreni agricoli al di fuori dei confini domestici, può rientrare per un verso nel noto paradigma win-win ovvero in una forma virtuosa di investimento che, alla fine, non scontenta o danneggia alcuno dei soggetti coinvolti in quanto risulterebbero tutti vincitori: le nazioni insicure, in termini di approvvigionamento alimentare, possono accrescere il loro accesso alle risorse agricole beneficiando, nello stesso tempo, le nazioni ospiti con investimenti in capitale umano e infrastrutture agricole e accrescendone le opportunità di accesso ai mercati, occupazionali e di sviluppo delle conoscenze.

Per altro verso si stigmatizzano gli effetti deleteri di questa pratica di sottrazione delle terre, diffusa generalmente ma non esclusivamente nei paesi poveri come si diceva poc’anzi, che assume i connotati del neo-colonialismo.

In entrambi i casi ciò che viene a mancare è proprio il presupposto fondamentale del riconoscimento del bene terra come risorsa comune appartenente anche alle collettività locali che non sono poste nella condizione di esprimere il loro consenso libero, preventivo ed informato, rispetto agli interventi stranieri sulle loro terre e di partecipare ai processi di utilizzazione delle stesse.

Riferimenti
Su eddyburg vedi, a proposito della rivista Ecologia politica l'articolo di Giorgio Nebbia, Resurrezione utile, e a propositp del Land grabbing

Da edilportale 14 luglio un comunicato-stampa. Ma non era proprio il blocco delle abnormi previsioni di ampliamento delle aree edificabili dei piani vigenti l'obiettivo che si voleva raggiungere nell'immediato, in attesa di definire «principi fondamentali di governo del territorio» condivisi?

La legge sul consumo di suolo proposta dal governo causerebbe il blocco degli strumenti urbanistici vigenti. Necessario definire principi fondamentali di governo del territorio. I tecnici regionali competenti in materia di governo del territorio hanno esaminato il disegno di legge sul contenimento del consumo di suolo e riuso del suolo edificato, già approvato in Consiglio dei Ministri.

Lo schema di legge affronta il tema del consumo di territorio determinando i limiti di superficie occupabile per frenare la cementificazione del territorio, sviluppare l’agricoltura e salvaguardare la bellezza e la sicurezza del paesaggiAttraverso il forte coinvolgimento delle Regioni e degli enti locali, la norma promuove anche la politica del riuso del suolo e strategie per monitorarne il consumo.

Il testo approvato dal Governo ricalca l’impostazione iniziale del precedente “ddl Catania” in materia di valorizzazione delle aree agricole sul quale le Regioni avevano già espresso parere favorevole, ma condizionato all’accoglimento di alcune osservazioni.

Secondo i tecnici regionali, il nuovo testo non ha tenuto conto dell’intensa attività tecnica e politica svolta dalle Regioni nel 2012, vanificando di fatto il lavoro emendativo al ddl Catania. Le regioni hanno espresso una posizione (doc. allegato) piuttosto critica ritenendo lo schema del ddl inemendabile poiché affronta il tema del consumo di suolo, di per sé complesso e strategico, in un’ottica settoriale e senza una visione integrata del territorio.In particolare, il ddl risulterebbe lesivo delle competenze legislative regionali sul governo del territorio in previsione del divieto di consumo di superficie agricola per un periodo di tre anni; secondo i tecnici, ciò equivale ad un indifferenziato e sostanziale blocco degli strumenti urbanistici vigenti. Analizzando l’articolato della norma i tecnici hanno ribadito la necessità di definire dei principi fondamentali in materia di governo del territorio che fungano da cornice all’azione programmatica e legislativa per le regioni.

Il testo sarà ora esaminato in Conferenza Unificata per il parere definitivo delle Regioni.
Riferimenti

Si vedano su eddyburg gli articoli di Vezio De Lucia e di Antonio di Gennaro, nonchè la proposta di eddyburg.

Recensione dell'ultimo libro di uno studioso, narratore, testimone e poeta dei paesi dell'Italia interna, una parte essenziale del patrimonio italiano, se è vero che senza l'osso la polpa non sta in piedi. La Repubblica, 13 luglio 2013

Franco Arminio fa il maestro elementare, lo scrittore, il poeta, il documentarista, è animatore di battaglie civili (contro una discarica, contro una foresta di pale eoliche, contro la chiusura di un ospedale). Il suo nuovo libro s’intitola Geografia commossa dell’Italia interna (Bruno Mondadori pagg. 129, euro 14) e prima sono venuti Vento forte fra Lacedonia e Candela (Laterza), Cartoline dai morti (nottetempo), Terracarne (Mondadori). Oltre a questo, Arminio ha inventato una disciplina, la paesologia, che definisce «tanto indispensabile quanto inesistente», usando una delle invenzioni spiazzanti che cadenzano i suoi libri, un po’ metafore, un po’ ossimori, comunque figure retoriche di una lingua carnosa che, nei racconti o nei versi colpisce, ma non come ascoltandolo quando ritto in piedi declama con gesti plateali l’orografia di questo lembo dell’Irpinia orientale, punta estrema della Campania fra Puglia e Basilicata. O quando dalla sua Bisaccia si sposta a Cairano, a Santomenna, a Conza, a Sant’Andrea di Conza e ai vecchi seduti al bar chiede quanti abitanti sono rimasti nel centro storico, quante vacche fanno ancora latte, quanti ettari di terreno sono stati sottratti al grano per le pale eoliche e perché se ne sono tornati dal Venezuela o dalla Germania. Se pensano mai alla morte.

L’Italia di dentro è il teatro della paesologia di Franco Arminio. I borghi sofferenti «sistemati fra il Pollino e la Maiella», per niente decorati dal turismo dei resort, i paesi dell’osso lontani dalla polpa, come li chiamava Manlio Rossi-Doria, delle pensioni al minimo, distrutti dal terremoto del 1980 e dalla ricostruzione che seguì, che ogni giorno contano meno abitanti e dove i sindaci, dice Arminio, «dovrebbero esporre i manifesti quando nasce un bambino e non quando muore un vecchio».

«Questa è l’Italia che conosco, dalla quale non mi sono mai mosso», racconta Arminio camminando per le strade di Bisaccia nuova, il suo paese, separata da Bisaccia vecchia da un vallone frutto di una frana. Bisaccia vecchia è su un’altura, ci sono la chiesa, la piazza, il belvedere davanti al convento. Ci vivono in pochi, ma qui si svolgono le processioni e i funerali, tutti si danno appuntamento. A Bisaccia nuova, ingrandita dopo il terremoto per volere dell’allora sindaco Salverino De Vito, big democristiano e anche ministro, Arminio mostra il mastodontico ospedale che non ha mai funzionato, il moderno rudere di un edificio con una cinquantina di appartamenti mai completati e una villa che sembra un disco volante atterrato su un perno e con un balcone che sporge come una pupilla fuori dall’orbita.

Tante case, ma non c’è il paese. «Il paese non è uno zerbino sul quale si cammina, è un corpo come il mio corpo, una creatura con cui combattere, da cui ricevere amore e anche odio», spiega Arminio. «Io non sento il confine fra la terra del mio corpo e la terra del mio paese, la mia è una terracarne. I nostri padri vivevano nei paesi come in un’epopea: alzarsi all’alba e andare in campagna ogni mattina era un’avventura, una guerra. E la sera era grande il ristoro di un bicchiere di vino. Queste cose le abbiamo perdute, siamo convalescenti prima di aver preso la malattia. Ma io sono qui per combattere, il mio è un dolore che combatte».

Nonostante distruzioni e orrori il mondo che racconta Arminio non sta scomparendo. Anzi. «Fino a quando vedi un muro, una porta, un soffitto, un balcone, un paese c’è ancora». Come c’è ancora Craco, borgo abbandonato della Basilicata «che pare un’ambasciata della luna sulla terra». Craco che non è seppellito con i suoi ruderi, «ma è sollevato nell’aria e ogni giorno che passa diventa più bello e più vivo». Ed è questa, sentendo brillare le sue metafore, la leva intellettuale e politica su cui agisce la paesologia, l’alternativa «all’autismo corale di cui è impregnata la modernità cittadina». Geografia commossa dell’Italia interna risente di uno sguardo meno desolato. Arminio maneggia la letteratura, i suoi reportage sono scritture narrative e i suoi codici tutt’altro che da erudito di provincia. I suoi versi hanno un’andatura cantabile («Salendo verso la fine del paese / il silenzio è così forte / che si sente assai vicina / la calma della nuvola / che ha partorito la neve / e la nasconde dentro le cantine »). Ma, oltre che scrivere, Arminio organizza iniziative culturali, rassegne musicali, letture pubbliche. Suscita energie, spacchetta competenze e la fa fluire in imprevedibili stampi, mette in contatto poeti e cuochi, agronomi e piccoli imprenditori. Per fine agosto ha allestito un’iniziativa di paesologia ad Aliano, in Basilicata, dove fu confinato Carlo Levi. Tra i suoi interlocutori ci sono Gianni Celati e Franco Cassano, il geografo Franco Farinelli, gli storici Piero Bevilacqua e Antonella Tarpino (l’autrice di Spaesati. Luoghi dell’Italia in abbandono tra memoria e futuro, edito a fine 2012 da Einaudi), l’antropologo Vito Teti. Non ama la decrescita felice né il suo teorico Serge Latouche («È pur sempre un pensiero del Nord, per la critica di questa modernità è molto meglio Leopardi»). E su di lui ha messo gli occhi, quand’era ministro della Coesione territoriale, un fine economista come Fabrizio Barca, che ha lanciato un ambizioso progetto per le aree interne del paese finanziato con fondi comunitari e che si propone di ripopolare i luoghi abbandonati sia per garantire una migliore manutenzione contro frane e smottamenti che dissestano l’Appennino, sia per garantire la biodiversità naturale e culturale, sia, ancora, per diffondere occasioni di sviluppo (dall’agricoltura biologica all’artigianato).

Arminio ha partecipato a diverse iniziative con Barca: «Dobbiamo svuotare le coste e riportare le persone in montagna. L’Italia interna può diventare il laboratorio di un umanesimo delle montagne: basta che terra e cultura siano più rilevanti di cemento e uffici, canti e teatro al posto delle betoniere». Ma la paesologia, così la vede lui, resta un movimento dal basso. D’accordo sulla tutela dei beni comuni, «ma la poesia non è tra questi, la poesia cerca i solitari, gli affamati d’amore, li cerca e affida loro il suo piccolo tesoro».

Da Bisaccia ci spostiamo a Conza vecchia, nella cattedrale abbandonata, dove uno squarcio creato dal terremoto ha fatto emergere un foro romano. Non c’è più il tetto, ma sono venute alla luce le fondazioni medievali della chiesa e qui si allestiscono letture di poesie, performance teatrali. «Per anni ho scritto a gomiti chiusi sul grembiule delle mie ansie. Ma adesso c’è un lato di me disteso, il lato che mi porta a girare dentro il Sud, che porta tante persone a sentirsi una piccola risorsa di questo Sud». Risorsa quanto consistente? «Siamo un’esigua minoranza. Ma in certi momenti è come se fosse più credibile che la storia possa prendere una piega nuova».

Sette arrestati fra cui l’ex presidente del ConsorzioVenezia Nuova Giovanni Mazzacurati. Chissà se saranno così bravi da individuarea chi e perché siano finiti i “fondi neri” creati in Austria con i soldi deicontribuenti? La Nuova Venezia, 113 luglio 2013. Con postilla


C’è una legge, quella per lasalvaguardia della laguna di Venezia del 1984, che permette al ConsorzioVenezia Nuova di concedere i lavori senza alcuna gara pubblica o bando, essendo«concessionario unico». Ma gli appalti degli enti pubblici veneziani devono esseregestiti come prevedono le regole, invece l’ex presidente del Consorzio GiovanniMazzacurati (si è dimesso quindici giorni fa) avrebbe gestito, stando alleaccuse che hanno fatto scattare le manette ai suoi polsi, una gara per lo scavodei canali portuali di grande navigazione dell’Autorità portuale come sitrattasse di «cosa sua». «È stato individuato il ruolo centrale», scrivono inun comunicato gli investigatori della Guardia di finanza del Nucleo di Poliziatributaria che hanno fatto le indagini, «nel meccanismo di distorsione delregolare andamento degli appalti di Giovanni Mazzacurati, che predeterminava laspartizione delle gare allo scopo di garantire il monopolio di alcune impresesul territorio veneto, di tacitare i gruppi economici minori con il danaropubblico proveniente da altre Pubbliche amministrazioni e quindi di conservarea favore delle imprese maggiori il fiume di danaro pubblico destinato alConsorzio Venezia Nuova».

Ieri, su richiesta del pubblico ministero PaolaTonini, in manette sono finiti in sette agli arresti domiciliari, tra cuiMazzacurati nella sua casa veneziana, e il suo braccio destro per i rapporti dirappresentanza, l’ex socialista Federico Sutto (è stato segretario di Gianni DeMichelis prima di Giorgio Casadei e sindaco di Zero Branco), e Pio Savioli,consigliere nello stesso Consorzio Venezia Nuova per il Consorzio VenetoCooperativo. Ad altri sette indagati è stato applicato l’obbligo di dimora nelloro comune di residenza. Gli interrogatori da parte del giudice AlbertoScaramuzza inizieranno giovedì prossimo. Mazzacurati è difeso dagli avvocatiGiovanni Battista Muscari Tomaioli e Alfredo Biagini, Savioli dall’avvocatoPaolo De Girolami, i Boscolo Bacheto dall’avvocato Loris Tosi, Barbigiasindall’avvocato Marco Vassallo, Sutto, per ora d’ufficio, dall’avvocato BarbaraDe Biasi. Circa 500 uomini delle «fiamme gialle» hanno eseguito in Veneto,Lombardia, Friuli Venezia Giulia , Emila Romagna, Toscana, Lazio e Campaniacirca 140 perquisizioni negli uffici di numerose imprese e aziende e nelle casedi indagati e di chi potrebbe conservare documenti utili alle indagini. Leindagini del Nucleo di Polizia tributaria sono partite nel 2009, ancor prima diquelle che hanno portato all’inchiesta del pubblico ministero Stefano Ancilottosu Piergiorgio Baita e Claudia Minutillo. Hanno preso le mosse da una verificafiscale, una delle tante, alla Cooperativa San Martino di Chioggia: ifinanzieri hanno scoperto l’esistenza di una società austriaca, la «IstraImpex»con sede a Villach, grazie ad alcuni file in cui i titolari avevanonascosto la contabilità «nera».
Icontrolli hanno riguardato la fatturazione dal 2004 al 2009 per i lavori delMose. Grazie alla società in Austria, di cui secondo l’accusa eranoamministratori di fatto Mario e Stefano Boscolo Bacheto, sarebbe stato fattolievitare il costo dei sassi da gettare sulla diga nella bocca di porto diChioggia e acquistati in Croazia e delle palancole grazie alle fatture peroperazioni inesistenti per cinque milioni e 864 mila euro. Il sospetto, quindi,è che in Austria i titolari della San Martino avessero creato fondi neri. Sonoscattate le intercettazioni telefoniche ed ambientali. Lo sviluppo delleindagini ha permesso di ricostruire le manovre, tra i mesi di maggio e giugno2011, per pilotare l’appalto dell’Autorità portuale per lo scavo dei canalinavigabili. Si trattava di un lavoro diviso in tre stralci per complessivi 15milioni di euro. Un appalto che alla fine è stato vinto dall’Associazionetemporanea d’imprese composta dalla «Lavori Marittimi e Dragaggi,» da «Zetasrl», «Clodiense Opere Marittime srl», «Somit srl», «La Dragaggi srl», la«Tiozzo Gianfranco srl», la «Nautilus stl» e la «Boscolo Sergio Menela e Figlie C. srl». Una gara vinta con un ribasso dell’11 per cento, quando invece inanaloghe gare il ribasso praticato è stato anche del 46 per cento. In questomodo l’Autorità portuale ha speso da due a quattro volte di più per ildragaggio di quei canali. Alla gara avevano partecipato altre due ditte, la«Rossi Costruzioni generali srl» e la «Sales spa», che avevano presentatoribassi del 2,8 per cento e del 2,2 per cento, evidentemente fittizie. Masoprattutto non avevano partecipato alla gara la «Mantovani, la «San Martino»,la «Co.Ve.Co.» e la «Nuova Coedemar». Stando alle accuse, a fronte delledoglianze del titolare della «Lavori9 Marittimi Dragaggi» di non aver ottenutodal Consorzio lavori per il Mose, Mazzacurati lo avrebbe assicurato che illavoro del Porto se lo sarebbe aggiudicato lui. Con la collaborazione di Suttoe Savioli avrebbe convinto le imprese più importanti a lasciar perdere e a nonpresentare offerte, in cambio di alcuni lavori del Consorzio per laricostituzione delle barene, e alle due che si erano presentate alla gara diproporre un ribasso ampiamente inferiore a quello di chi doveva vincere. Ititolari di tutte le ditte coinvolte, chi non si è presentato e chi ha vinto,sono sotto inchiesta.

Postilla
Un caso clamoroso di conflitto d'interessi, che è all'origine della nascita del consorzio Venezia Nuova e della decisione di affidare a un consorzio d'imprese, quale concessionario unico dello Stato, la progettazione, sperimentzione ed esecuzione di un insieme di interventi su un ecosistema di enorme qualità e fragilità. Quella che appare dallo scandalo giudiziario è solo la punta di un iceberg. Aspettiamo che emerga il resto

il manifesto, 12 luglio 2013.

Il "David ai fiorentini", gli Uffizi "macchina da soldi", la facciata simil michelangiolesca per San Lorenzo: Firenze, un luna park messo a reddito Il noleggio di Ponte Vecchio alla Ferrari di Montezemolo per una cena elegante segna l'apice della strumentalizzazione del patrimonio artistico e dello spazio pubblico di Firenze. La vicenda è stata particolarmente imbarazzante per l'arbitrio con cui è stata gestita: il sindaco Renzi ha annunciato che il canone di 120.000 (di cui però nel bilancio comunale non sembra esserci traccia) avrebbe dovuto rimediare ad un analogo taglio alle vacanze dei bambini disabili (ugualmente non documentato). E l'opposizione in consiglio comunale ha svelato che almeno una parte delle autorizzazioni ai ferraristi è stata concessa solo il giorno successivo all'evento. E se questo pasticcio amministrativo conferma il sostanziale disinteresse di Renzi per un governo delle cose che vada oltre l'annuncio mediatico, il cuore ideologico dell'iniziativa merita un'analisi.

Per secoli la forma del discorso pubblico, la forma della vita politica, la forma della civiltà stessa si è definita e si è riconosciuta nella forma dei luoghi pubblici. Le città italiane sono sorte come specchio, e insieme come scuola, per le comunità politiche che le abitavano. Le piazze, le chiese, i palazzi civici italiani sono belli perché sono nati per essere di tutti: la loro funzione era di permettere ai cittadini di incontrarsi su un piano di parità. È per questo che la Repubblica - lo afferma l'articolo 9 della Costituzione - nel momento della sua nascita ha preso sotto la propria tutela il patrimonio storico e artistico nazionale.

Negli ultimi trent'anni, tuttavia, il valore civico dei monumenti è stato negato a favore della loro rendita economica, e cioè del loro potenziale turistico. Lo sviluppo della dottrina del patrimonio storico e artistico come "petrolio d'Italia" (nata negli anni ottanta di Craxi) ha accompagnato la progressiva trasformazione delle nostre città storiche in luna park gestiti da una pletora di avidi usufruttuari. Le attività civiche sono state espulse da chiese, parchi e palazzi storici, in cui ora si entra a pagamento, mentre immobili monumentali vengono incessantemente alienati a privati, che li chiudono o li trasformano in attrazioni turistiche.

Come in un nuovo feudalesimo, le nostre città tornano a manifestare violentemente i rapporti di forza, soprattutto economici: da traduzione visiva del bene comune, a rappresentazione della prepotenza e del disprezzo delle regole democratiche.

Anche da questo punto di vista Matteo Renzi non inventa nulla, e si limita a cavalcare con la massima efficacia mediatica la tendenza, vincente, per cui la città non produce cittadini, ma clienti. Nel famoso pranzo di Arcore, egli ottenne che il 20% degli introiti del David di Michelangelo, massimo feticcio del desertificante turismo fiorentino, andassero al Comune e non allo Stato. Vale la pena di notare che quei proventi venivano indirizzati al bilancio di Capodimonte, a Napoli: che, grazie al leghismo gigliato di Renzi, si trovò da un giorno all'altro senza nemmeno la carta igienica. E "il David ai fiorentini" fu il primo messaggio alla pancia della città. Poco dopo Renzi ha dichiarato che «gli Uffizi sono una macchina da soldi se li facciamo gestire nel modo giusto». E quindi ha trivellato gli affreschi di Vasari in Palazzo Vecchio alla ricerca della Battaglia di Anghiari di Leonardo, spacciando per ricerca scientifica una penosa operazione di marketing delle emozioni che esaltava Dan Brown ai danni della conoscenza scientifica.

Insomma, straparlando continuamente di Brunelleschi, Leonardo e Michelangelo, il sindaco sta usando il patrimonio artistico fiorentino come "arma di distrazione di massa" capace di deviare l'attenzione dell'opinione pubblica dall'esercizio del potere: ha, per esempio, proposto di costruire la facciata che Michelangelo aveva progettato per San Lorenzo (sarebbe come scrivere una canto della Commedia partendo da qualche verso) proprio mentre firmava l'accordo per lo scellerato tunnel Tav che sventrerà una parte di Firenze.

Anche da questo punto di vista, tuttavia, Renzi non è un innovatore, piuttosto un conservatore estremista. Nel senso che estremizza, e vira in salsa mediatica, l'ormai secolare abitudine dei fiorentini di vivere di rendita alle spalle del loro passato. Un passato che non diventa leva di costruzione del futuro, ma una specie di parco giochi da mettere a reddito: come è stato chiaro quando Renzi ha messo il veto alla costruzione della moschea nel centro storico. A Firenze le periferie sono abbandonate a se stesse, ma la cartolina del centro è intoccabile. O meglio: ci si possono fare speculazioni edilizie (come lottizzare il Teatro comunale del Maggio, che Renzi vorrebbe liquidare), si possono espellere le librerie o immaginare facciate pseudo-michelangiolesche: va bene tutto quello che è funzionale alla servitù del turismo e alla rendita del passato. Dunque non la moschea, pericolosamente carica di futuro.

Il noleggio di Ponte Vecchio segna, tuttavia, un punto di non ritorno, perché svela il progetto politico e sociale del futuro leader della Sinistra italiana. Nella costituzione riscritta da Renzi la Repubblica - per ora il Comune di Firenze - favorisce la manifestazione delle diseguaglianze, inibisce il pieno sviluppo della persona umana, sottopone alla ferrea legge del mercato il patrimonio storico e artistico e il paesaggio della nazione.

C'è un'idea, chiamiamola così, per allargare i confini della metropoli edificata fin dove fisicamente possibile. Come spiega meglio nei dettagli il comunicato ufficiale qui di seguito:
Comunicato Stampa
Prolungamento tangenziale Est da Usmate/Velate a Olginate
Consiglio Regionale approva ordine del giorno al Piano regionale di Sviluppo

E' stato oggi approvato nell'aula del Pirellone un ordine del giorno al PRS che invita la Giunta regionale a "valutare il prolungamento della Tangenziale Est da Usmate Velate, dove attualmente inizia l'infrastruttura, fino a Olginate (LC), confrontandosi anche con le istituzioni coinvolte." Firmatario del provvedimento è il consigliere regionale della Lega Nord, Antonello Formenti.
"Il prolungamento della Tangenziale Est fino a Olginate - ha spiegato Formenti - potrebbe risolvere parecchi problemi di viabilità e di sicurezza stradale, nonché ridurre le inevitabili ripercussioni a livello di inquinamento ambientale e acustico per il territorio coinvolto. Si tratta inoltre di un'opera di notevole importanza per una migliore fruizione della futura Pedemontana per quanto riguarda le zone del meratese e del casatese."
"Sottolineo infine - conclude Formenti - che i sindaci del territorio hanno già espresso parere favorevole al prolungamento della Tangenziale Est attraverso i territori da loro amministrati , collaborando anche in maniera attiva con la Provincia di Lecco per la realizzazione di un progetto di massima."

Paiono proprio Qui, Quo, Qua, ma bisogna segnarsi i nomi: Raffaele Straniero (PD), Mauro Piazza (Pdl) e Antonello Formenti (Lega). Tutti convinti che il già demente secondo anello di tangenziali che sta sbancando il territorio attorno a Milano sia solo l'inizio della trionfale futura saturazione a colpi di mattoni di quanto resta fra i margini dell'area metropolitana e le pendici delle Prealpi. Poi forse lasceranno il campo ai paladini dei trafori trans-resegonici, ma per adesso tengono il campo coi loro sedicenti progetti faccia di bronzo. Che ideona, prolungare il braccio di collegamento della Tangenziale Est con la Pedemontana, oggi attestato sulla linea della vecchia SS36 fino allo sbocco dell'Adda dal lago, a Olginate, ovvero già ampiamente in vista delle montagne. Poi si tratterà solo di continuare nella medesima logica, gettando il cuore degli altri oltre l'ostacolo, e via verso l'Europa in un tunnel di sciocchezze alla leggera!

Il Resegone visto da "dietro"

Come se già non bastasse il ramo di tangenziale esistente che si prolunga da Vimercate, ad alimentare la dispersione insediativa, proprio nell'area in cui anni fa si provava ad arginare il consumo di suolo con la cosiddetta Dorsale Verde, riflesso sbiadito della greenbelt metropolitana meridionale milanese. Lì si sono aggrappati tutti i soliti appetiti delle amministrazioni locali per il nuovo complesso chicchessia, che ci porterà prosperità e benessere eccetera. E invece serve solo a soffocare quel po' di respiro momentaneamente arrivato con la nuova arteria. Ma niente paura, ci sono Qui, Quo, Qua a proporre il nuovo ramo dell'autostrada urbana, perché ormai di città compatta e continua si tratta, dal core metropolitano a Lecco, nonostante i palpiti localisti e ruralisti di chi va a caccia di voti a destra, e anche a sinistra a quanto pare.

Ma non c'è un rimedio, magari farmacologico, a questa totale mancanza di buon senso? In fondo, dovrebbe bastare un'occhiata a GoogleEarth dal telefonino, per far desistere dall'idea (chiamiamola così) chiunque. Evidentemente non basta. Di seguito, per crederci, uno scarabocchio del tracciato, sovrapposto al già mastodontico schema autostradale esistente e in progetto nel Nord Milano

Meglio bere un aperitivo che continuare a domandarsi se l'orribile sogno del sarto franco-veneto sia svanito perchè il sindaco della città ha promesso ciò che non poteva promettere, se era una patacca, o un bluff, o solo un disastro: lo spreco di un'area preziosa per la città e la regione. Il succo è che il disastro sembra evitato. La Nuova Venezia, 11 luglio 2013

II sospetto che non ci fossero i soldi L'addio di Pierre Cardin al Palais Lumière, tra intoppi procedurali e il sospetto - avanzato tra le righe dal Comune - che lo stilista francese non disponesse delle risorse sufficienti per gettarsi in quest'avventura miliardaria, dall'esito incerto. Se n'è discusso ieri in Commissione consiliare Attività Produttive, dove i rappresentanti di Giunta si sono ben guardati dal farsi vedere in una vicenda diventata imbarazzante (non c'era l'assessore alle Attività Produttive Alfiero Farinea) e dove anche il nipote dello stilista, Rodrigo Basilicati, non ha accettato di presentarsi. Il suo avvocato Sandro De Nardi - che minaccia querele per «affermazioni false e denigratorie che, nell'immediatezza, sono state rese da alcune persone», sottolinea anche «l'inopportunità di continuare a contattare la famiglia dell'ingegner Basificati.
E tuttavia ieri, nella Commissione presieduta dal consigliere Ennio Fortuna, è stata diffusa la lettera di recesso che Basilicati ha inviato a Regione, Provincia, Comune e Autorità Portuale il 28 giugno. «Siamo giunti a questa determinazione - si legge - dopo avere constatato che neppure alla scadenza del primo semestre 2013 è stato possibile concludere la procedura amministrativa e ottenere una formale e condivisa approvazione della nostra proposta, né ad oggi è possibile fare alcuna attendibile previsione per il futuro, essendo anzi emersi ulteriori ostacoli procedurali non precedentemente segnalati.

Fra l'altro, ci è stato comunicato che - secondo una recente presa di posizione del Ministero dei Beni Culturali - l'area del progetto sarebbe soggetta a vincolo paesaggistico, contrariamente a quanto ritenuto fino ad oggi da tutti gli enti pubblici interessati e dagli stessi privati che hanno ottenuto titoli edilizi nella zona. Nel frattempo, sono scaduti i termini massimi di efficacia dei contratti da noi conclusi per avere la disponibilità di aree sufficienti per concretizzare l'iniziativa. Abbiamo già investito nel territorio somme ingentissime per realizzare un sogno e contribuire alla rigenerazione di Marghera: auguriamo alle amministrazioni locali e ai proprietari delle aree di riuscire presto nell'intento, anche senza il nostro entusiasmo». Ieri, in Commissione, a difendere le ragioni del Comune c'era solo il vicedirettore generale Luigi Bassetto, un tecnico, che ha provato a ricostruire la storia. «Fino al momento della comunicazione di Basificati - ha detto - non c'erano motivi per pensare a un disimpegno di Pierre Cardin, né ci erano state espresse nuove perplessità. Il Comune ha fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità per il buon esito dell'operazione e la valutazione di 40 milioni di euro per la vendita dei terreni comunali - concordata e iscritta nel bilancio 2013 - era stata fatta tenendo conto anche del costo delle bonifiche. 1130 giugno era una data cruciale, perché entro quella data la società di Cardin avrebbe dovuto stipulare i preliminari con i privati per l'acquisto delle aree. Quella scadenza dunque ci avrebbe detto se c'era la reale volontà dello stilista di andare avanti con l'operazione Palais Lumiére, o se avrebbe scelto di fermarsi, come è avvenuto». Da più parti ieri - Campa, Boraso, Giordani, Scarpa, Rosteghin, Capogrosso tra gli intervenuti - la richiesta di capire se il Comune nell'affare Palais Lumiére sia stato preso in giro - comportandosi, nel caso, di conseguenza - oppure ha sbagliato. Ma non c'era nessuno a rispondere.

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