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«La messa in sicurezza del territorio è la sola Grande opera assolutamente indispensabile al Paese» ma si continua a ignorarla, salvo generiche dichiarazioni. Corriere della Sera, 20 ottobre 2013

Ma è questo il modo di rendere omaggio alle vittime di quella strage provocata dall’insipienza, dalla sciatteria, dalla superficialità con cui fu trattata la natura? Non ci sono soldi per difendere oggi il fragile suolo nazionale, dice la legge di stabilità. Punto. Discussione chiusa. E la cosa pare non avere scandalizzato nessuno.

Eppure, come ricorda Ermete Realacci chiedendo al governo e alla maggioranza un radicale ripensamento perché «la messa in sicurezza del territorio è la sola Grande opera assolutamente indispensabile al Paese», la commissione Ambiente della Camera aveva votato all’unanimità (all’unanimità!) una risoluzione bipartisan, sottoscritta da tutti i gruppi politici, che chiedeva di fare finalmente molto, ma molto di più. A partire da uno stanziamento «pari ad almeno 500 milioni annui». Ne arriveranno 16 volte di meno.

Un azzardo. Perché i numeri ricordati nella risoluzione non dovrebbero far dormire di notte. In Italia, vi si legge, «le aree a elevata criticità idrogeologica (rischio frana e/o alluvione) rappresentano circa il 10 per cento della superficie del territorio nazionale (29.500 chilometri quadrati) e riguardano l’81,9 per cento dei comuni (6.633); in esse vivono 5,8 milioni di persone (9,6 per cento della popolazione nazionale), per un totale di 2,4 milioni di famiglie; in tali aree si trovano oltre 1,2 milioni di edifici e più di 2/3 delle zone esposte a rischio interessa centri urbani, infrastrutture e aree produttive».

Non bastasse, «la pericolosità degli eventi naturali è senza dubbio amplificata dall’elevata vulnerabilità del patrimonio edilizio italiano: oltre il 60 per cento degli edifici — circa 7 milioni — è stato costruito prima dell’entrata in vigore della normativa antisismica per le costruzioni e, di questi, oltre 2,5 milioni risultano in pessimo o mediocre stato di conservazione e, quindi, più esposti ai rischi idrogeologici».

Di più, «il progetto Iffi (Inventario dei fenomeni franosi in Italia), realizzato dall’Ispra e dalle Regioni e Province autonome, ha censito ad oggi oltre 486 mila fenomeni franosi, il 68 per cento delle frane europee si verifica in Italia. Inoltre, il ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, sulla base dei dati dell’Ispra, ha valutato che il costo complessivo dei danni provocati dagli eventi franosi e alluvionali dal 1951 al 2009, rivalutato in base agli indici Istat al 2009, risulta superiore a 52 miliardi di euro, quindi circa un miliardo di euro all’anno e, complessivamente, più di quanto servirebbe per realizzare l’insieme delle opere di mitigazione del rischio idrogeologico sull’intero territorio nazionale, individuate nei piani stralcio per l’assetto idrogeologico e quantificate in 40 miliardi di euro».

Ancora: «La gravità del problema appare altresì evidente, se si pensa che, a partire dall’inizio del secolo scorso, gli eventi di dissesto idrogeologico gravi in Italia sono stati oltre 4.000 e hanno provocato ingenti danni a persone, case e infrastrutture, ma, soprattutto, hanno provocato circa 12.600 morti, mentre il numero dei dispersi, dei feriti e degli sfollati supera i 700 mila».
E le cose, anche se la memoria collettiva pare avere già dimenticato i disastri e i lutti più recenti che hanno colpito al Nord e al Sud, da Vicenza a Giampilieri, da Soverato a Genova, vanno peggiorando: «Gli effetti conseguenti ai cambiamenti climatici in atto sono ormai tali che gli eventi estremi in Italia hanno subito un aumento esponenziale, passando da uno circa ogni 15 anni, prima degli anni 90, a 4-5 l’anno».

Ad essere a rischio sono anche moltissimi edifici pubblici. Spiega il rapporto Ance-Cresme sullo «Stato del territorio italiano nel 2012» che nelle aree ad elevata criticità idrogeologica (poi ci sono quelle esposte ai pericoli sismici) «rientrano complessivamente circa 6.800 edifici, di cui 6.251 scolastici e 547 ospedalieri». Particolarmente vulnerabile appare la situazione delle scuole in Campania dove a rischio di smottamenti, frane e alluvioni sono addirittura 1.017: un sesto di quelle italiane.

E siamo al tema: è meglio spendere più soldi «dopo», piangendo morti e dispersi, o è meglio spenderne di meno «prima» puntando sulla prevenzione? La risposta è ovvia. O almeno così la pensano, a parole, tutti coloro che hanno firmato in questi mesi mozioni sul tema. Dal forzista Renato Brunetta al democratico Roberto Speranza, dal montiano Salvatore Matarrese al vendoliano Alessandro Zan, dalla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni al grillino Samuele Segoni… Insomma tutti, ma proprio tutti.

Era quasi prevedibile, anche se naturalmente per nulla auspicabile: la mobilità dolce rivendica centralità urbana? Arrivano archimedi conformisti e elettrotecnici vari a tentare di levargliela subito, perché mai e poi mai si deve mettere in dubbio il dogma di una città organizzata attorno all'automobile. La Repubblica 20 ottobre 2013, postilla (f.b.)

Era il 1982. Cinque ragazzini scapparono dalla polizia volando sulle loro biciclette: riportavano a casa un extraterrestre con la fissa del telefono. Ma era solo un film. Poi sono arrivate le green cities,i dibattiti sulla mobilità sostenibile e soprattutto milioni di novelli ciclisti metropolitani. E così, architetti, designer e ingegneri si sono messi al lavoro: tutti a progettare città in cui saranno proprio i ciclisti a farla da padroni. Il film è diventato realtà, e trent’anni dopo ETlebici volanti esistono davvero. O quasi. Il prototipo è nato nella Repubblica Ceca. Si chiama Design Your Dreams Flying Bike. Si tratta di una bici elettrica a cui hanno lavorato tre aziende e a godersi il primo volo è stato un manichino pilotato da remoto.

«L’ispirazione ci è venuta dalla letteratura» spiega Ales Kobylik, ad di Technodat, «siamo cresciuti con i romanzi di Jules Verne e con le macchine volanti che compaiono nelle sue avventure». Tuttavia, nonostante sia in fase di studio un prototipo che possa essere pilotato da un essere umano,gli scenari allaET restano ancora lontani dalla vita di tutti i giorni. «Non abbiamo nessuno scopo commerciale per la Flying bike — continua Kobylik — per ora l’abbiamo presa come una sfida». In attesa che qualcuno la raccolga, per i ciclisti del 2050 le alternative non mancano: forse non potranno decollare, ma ci andranno vicino. Un esperimento arriva dalla Nuova Zelanda. Si chiama Shweeb, è un circuito sopraelevato lungo il quale scorrono delle cabine e a muoverle sono gli stessi passeggeri che pedalano all’interno. L’idea è di Geoff Barnett, ciclista australiano: nel 2007 il suo progetto è diventato un prototipo vero e proprio, composto da due monorotaie costruite a sei metri d’altezza, lungo le quali si muovono delle capsule. Ognuna di queste prevede un passeggero, che pedala in posizione reclinata per ridurre l’attrito con l’aria. I vantaggi sono molteplici: si riduce il rischio di incidenti, non si occupano porzioni di terreno, non si emette Co2. Costruito all’interno di un parco divertimenti a Rotorua (Nuova Zelanda), il prototipo di Barnett non è uno scherzo.

E infatti nel 2010 ha attirato l’attenzione di Google che ha promosso un investimento da un milione di dollari. L’obiettivo è studiare le possibili applicazioni in un contesto urbano vero e proprio, facendolo diventare un mezzo di trasporto a tutti gli effetti. «Abbiamo sviluppato una partnership con un’azienda canadese e una olandese — spiega Peter Cossey, ceo della Shweeb Monorail Technology — probabilmente ci vorranno ancora un paio d’anni prima di riuscire ad avere un prototipo del mezzo di trasporto vero e proprio». Ma intanto a Sofia un architetto ha avuto un’idea simile: meno futuristica, certo più funambolica. Si chiama Martin Angelov, e il suo progetto Kolelinia. Bisogna immaginarselo come una sorta di minuscolo canale sospeso a mezz’aria, sostenuto da una serie di piloni. Parallelo a questo, scorre un po’ più in alto un cavo: l’ardito ciclista dovrà fissare il manubrio al cavo e lanciarsi con la sua bici lungo il canale. C’è chi l’ha già fatto. Lo stesso Angelov non nasconde un certo ottimismo: «Al momento stiamo sviluppando Kolelinia come un’attrazione perturisti. Io e i miei collaboratori stiamo effettuando una serie di test all’interno di parchi naturali, utilizzando gli alberi come piloni. Se la cosa avrà successo, pianificheremo lo step successivo, la sperimentazione in ambito urbano».

Che siano cabine, o cavi sospesi nel vuoto, lo scopo di questi progetti resta uno solo: potersi muovere nelle grandi metropoli (e non) nella maniera più rapida ed efficace possibile. Sganciarsi dalle code, dai parcheggi che non si trovano e dal blocco delle auto quando i livelli di Co2 raggiungono il limite del tollerabile. Lo sforzo allora è concepire centri urbani in cui i mezzi alternativi siano veramente tali, e ci permettano di arrivare ovunque.

Al lavoro, al centro commerciale, allo stadio: ma parcheggiando sulle tribune, mica fuori. Quentin Perchet e GabrielScerri sono due architetti francesi, ideatori di Bike the Floating Stadium. Sta già tutto nel nome: si tratta di uno stadio galleggiante, al quale si accede in bici mediante una serie di rampe. «Un aspetto interessante della bicicletta — spiegano — è che ti permette di arrivare molto vicino alla tua destinazione, perché è facile da parcheggiare. Uno stadio è una struttura che richiede molto spazio da riservare ai parcheggi e che prevede accessi multipli, così da smaltire l’afflusso di tante persone contemporaneamente. Da qui, l’idea della bici».

E se il bello delle due ruote è che si parcheggiano ovunque, uno studio di New York ha pensato di sfruttare le facciate degli edifici. L’idea è di Jeeyong An, che alla Seoul Cycle Design Competition ha presentato il progetto Bike Hanger. Al solito, serve uno sforzo di immaginazione: un gigantesco ingranaggio messo in movimento da una bici (ma va?) posizionata a terra. Pedalando, si fanno scorrere le biciclette fissate lungo la ruota, finché la propria non torna al livello del terreno, pronta per ripartire. In volo, sospesa lungo una fune, o chissà.

postilla
Tutte le volte che leggo articoli del genere di questo, su biciclette volanti o automobili con annesso ristorante e piscina olimpionica, mi torna in mente quel povero bambino rincoglionito a sua insaputa, appena sceso dall'utilitaria di famiglia al lunare parcheggio del Tronchetto, inopinatamente piazzato in mezzo alla Laguna Veneta: “Papà, ma qui a Venezia la gente parcheggia la barca sotto casa come facciamo noi con la macchina?”. Non so cosa esattamente gli abbia risposto quel padre, ma temo una sostanziale conferma dell'idea del pupo. Del resto la media dei cittadini di solito non ha letto quella scheda dedicata da sir Colin Buchanan alla straordinaria particolarità del centro lagunare nel suo Traffic in Town (1963). Dove in pratica ringraziava la storia e la geografia per aver consentito lo sviluppo di uno spazio urbano in cui la scatoletta a motore novecentesca non era perversamente riuscita a modellare tutto quanto attorno a sé stessa, compreso il cervello dei cittadini. Un cervello ormai cotto al punto da non capire che non esiste proprio, una bicicletta più o meno svolazzante del futuro, ma eventualmente un rapporto futuro auspicabile fra l'evoluzione tecnologica della bicicletta, quella urbanistica e comportamentale, e dulcis in fundo quella piuttosto improbabile (in tempi brevi) dei sederi che alla bici stanno appoggiati sopra. Sederi che però a quanto pare qualcuno continua a usare, inopinatamente, al posto del cervello, per propinarci idee assurde e strampalate sull'ennesima “città del futuro” (f.b.)

Per capirci meglio, ecco qui da Eddyburg Archivio (inserimento a.d. 2005) l'estratto dal Rapporto Buchanan da condividere nel metodo e nel merito, salvo forse nelle conclusioni - ma siamo nel 1963 - che promuovono segregazione modale, vagamente analoga a quella delle bici volanti

Intervistato da Federico Gurgone, il soprintendente romano dal 1976 al 2004, analizza anche storicamente il caso di via dei Fori Imperiali. «L'aspirazione a creare una zona monumentale nel cuore di Roma è sempre esistita». Il manifesto, 18 ottobre 2013

La prima giunta di sinistra ottenne il Campidoglio con lo storico dell'arte Giulio Carlo Argan nel 1976 e lo resse fino al 1985, termine del mandato di Ugo Vetere. In mezzo, la breve e intensa esperienza di Luigi Petroselli. Soprattutto con lui, nonostante gli anni di piombo, la Città Eterna parve davvero lanciata verso quella modernità ancora agognata. Il segno programmatico della discontinuità fu la visione audace di una rivoluzione urbanistica. L'idea di un parco archeologico centrale senza eguali, che sacrificando via dei Fori Imperiali collegasse i fori all'Appia Antica, non poteva accontentarsi di restare materia di discussione per soli intellettuali e guadagnò per mesi le prime pagine della stampa internazionale. Tuttavia, l'ambizioso progetto, approvato in sede tecnica e politica nel novembre del 1982, si arenò con la prematura morte del sindaco. Prima però, si ottennero risultati epocali: nel 1980 furono smantellate Via del Foro Romano, che separava il Campidoglio dal Foro Romano, e la trafficata strada che scorreva tra quest'ultimo e il Colosseo, relegato al ruolo di rotatoria.

Protagonista indiscusso di quegli anni fu Adriano La Regina, soprintendente di Roma dal 1976 al 2004. È quindi d'obbligo chiedere lumi all'archeologo, all'epoca accusato di essere un «Nerone dalle manie demolitorie», per lasciarsi alle spalle gli slogan e penetrare nelle reali problematiche sollevate dal manifesto di Marino, il sindaco con cui l'archeologia torna politica per sigillare una cesura. La Regina è oggi presidente dell'Istituto nazionale di archeologia e storia dell'arte, che ha sede a Palazzo Venezia, luogo del nostro incontro.

È soddisfatto dei primi provvedimenti presi da Marino su via dei Fori Imperiali?Ho aderito con convinzione al suo programma partecipando alla manifestazione del 3 agosto. Finora, tuttavia, abbiamo soltanto ascoltato buone intenzioni, nell'ambito delle quali ottimi segnali sono rappresentati da quella che non è nulla più se non una semplice riduzione del traffico, piuttosto che una reale pedonalizzazione. Di per sé, tale provvedimento è comunque utile perché riduce l'inquinamento che, per le emissioni dei motori e le polveri prodotte dal logorio dei pneumatici sull'asfalto, danneggia gravemente i monumenti. Già avevamo avuto piena consapevolezza di questo dramma nel 1978, quando fu per la prima volta verificato e misurato il decadimento delle superfici marmoree dei monumenti romani.

Sono ancora validi i toni apocalittici usati negli anni '70, quando Argan fu assalito dal dilemma «o i monumenti o le automobili»?Considerando che negli ultimi decenni il traffico è aumentato, simili preoccupazioni sono ancora più attuali: pedonalizzare via dei Fori Imperiali è necessario, non solo preferibile. Se i monumenti sembrano meno deturpati da quel nerume grasso che li affliggeva allora, ciò si deve alla sistematica operazione di pulitura e consolidamento finanziata con la cosiddetta Legge Speciale per Roma, la n. 92 del 23 marzo 1981. Quelle misure devono essere però replicate: curare senza eliminare le cause del danno significa accettare la ciclicità del processo. Il nostro progetto, rispetto a quello attuale, aveva un respiro maggiore perché riguardava il recupero integrale delle piazze monumentali antiche allo scopo di restituirle all'uso urbano, politica che ebbe inizio con l'apertura gratuita del Foro Romano al pubblico.
Del resto, teoricamente, non c'è differenza tra Piazza Navona e il Foro Romano. Ovviamente servono controlli e cautele, ma non possiamo dare per scontato che la nostra società sia incivile e che non sia degna di vivere un monumento. Se ragionassimo così, rinunceremmo a inseguire la crescita culturale della comunità.

Dovremmo quindi attualizzare l'antico senza imbalsamarlo, passando dal concetto di monumento a quello di luogo pubblico. In alternativa alla sostanziale continuità urbanistica tra l'epoca napoleonica, sabauda e fascista, il Parco archeologico assume il volto della più rivoluzionaria intuizione urbanistica concepita dalla Roma moderna.L'aspirazione a creare una zona monumentale nel cuore della città è sempre esistita. Le basi teoriche vennero gettate nel Rinascimento, quando Raffaello volle ricostruire con il disegno la città antica per riguadagnarne la conoscenza. Questa volontà diventò concreto impegno politico nel primo ventennio del XIX secolo, nel momento in cui Pio VII iniziò la trasformazione del Campo Vaccino in un'area archeologica unitaria. Solo nel 1980, con l'eliminazione della strada ai piedi del Campidoglio e il collegamento del Colosseo con il Foro Romano, tale programma è stato completato. Il nostro progetto, quello formalizzato nel 1982, non era stato invece mai adombrato, se non in maniera larvale all'inizio del '900 con Corrado Ricci. Non si poteva però pensare, allora, di sbancare lo storico quartiere Alessandrino, costruito a partire dal XVI secolo sui resti dei Fori Imperiali. La possibilità di immaginare un'organizzazione diversa di quello spazio nacque solo constatando che, con le demolizioni di età fascista, lì si è creato un vuoto. Se ciò non fosse accaduto, in seguito a nessuno sarebbe venuto in mente di scavare un intero rione rinascimentale, come nessuno oggi pensa di buttar giù Piazza Navona per tirar fuori lo Stadio di Domiziano.
Tutto cambiò al cospetto di una catastrofe. Nel 1944, a Palestrina, fu distrutto da un bombardamento l'abitato medioevale sovrappostosi al Tempio della Fortuna Primigenia: a quel punto, fu d'obbligo recuperare il santuario. Allo stesso modo, anche a Roma abbiamo assistito alla cancellazione totale di secoli di storia per creare uno stradone anodino diventato presto un'autostrada urbana. A questo punto, siccome al di sotto abbiamo capolavori di Apollodoro di Damasco, i vari fori e il Tempio della Pace, spingiamoci oltre e scaviamo via dei Fori Imperiali. Ne vale la pena.

Pensa sia questo l'obiettivo del sindaco?C'è sicuramente una certa timidezza da parte dell'amministrazione, forse per evitare di riaprire in maniera eclatante dibattiti che, oltre tutto, non possono che essere utili, se l'opinione pubblica viene coinvolta con chiarezza. Un progetto superiore deve esserci necessariamente. Una semplice pedonalizzazione avrebbe una dimensione contenuta anche perché riguarderebbe solo i romani e turisti che, probabilmente, preferirebbero passeggiare nei fori piuttosto che su via dei Fori Imperiali. Il recupero di un nucleo monumentale senza pari al mondo, invece, accenderebbe un interesse universale. Quanto sta succedendo può evolvere in senso positivo, oppure si può arenare nelle secche di un innocuo cabotaggio.

Quale senso avrebbe la strada senza automobili, taxi, autobus? La via non è un monumento in sé. È chiaro che una pedonalizzazione totale porterebbe nella direzione del suo scavo. Se c'è un padre nobile di un simile approccio, il merito va soprattutto all'architetto Leonardo Benevolo: il teorico di una nuova Roma in cui si deve costruire per sottrazione, non per addizione. Tanti e tali i guasti speculativi da cui è stata mortificata, che per restituire alla città decoro urbano e qualità della vita bisogna procedere per eliminazione. Fu Benevolo, considerato da molti un matto, un Nerone peggiore di me, a conferire valore scientifico al nostro progetto, coinvolgendo urbanisti di primo piano e specialisti del traffico.

Una via dei Fori Imperiali non pedonale ha inoltre il difetto di concentrare il traffico sul centro, mentre bisognerebbe de-localizzare Roma per migliorarla. Il dibattito sui fori deve riguardare anche la periferia? Toccare punti nevralgici comporta obbligatoriamente un nuovo disegno della città, globale. Troppi interventi hanno stravolto la periferia romana. Noi avevamo individuato lo strumento cardine della sua protezione nel vincolo dei suoli agricoli, chiedendo invano una legge che li tutelasse. La maggior parte dei terreni urbani sono stati oggetto di manovre speculative per poterli acquistare come suoli agricoli e, in seguito, chiederne la conversione in edificabili: costa molto meno trasformare un campo in un quartiere, che intervenire su un quartiere già esistente. Pensammo che se questi terreni fossero stati tutelati sarebbe stato indotto automaticamente il recupero delle periferie, così come era avvenuto per i centri storici grazie alla legge Ponte del 1967.

Una prospettiva di città, quella degli anni che vanno dal 1976 all'85, alimentata da un coraggio mai più ritrovato. Perché fallì?Se Petroselli non fosse scomparso così improvvisamente, avremmo ottenuto successi maggiori. Non so, tuttavia, se avrebbe avuto la forza di portare a compimento l'intero progetto. Si cristallizzarono subito due posizioni opposte e troppi furono gli interessi in ballo perché la cultura non fosse soverchiata dalla politica. Il dibattito fu ferocissimo, come si può leggere sui quotidiani dell'epoca. E, alla fine, prevalse la Roma democristiana.

Ma lei ancora ci crede?Io sono sicuro che il Parco Archeologico Centrale si farà e che l'asse Fori-Appia andrà ben oltre i limiti del comune di Roma. L'incertezza riguarda soltanto i tempi. L'idea ha una forza di attrazione inarrestabile; il futuro asseconderà naturalmente questa tendenza. Ci piacerebbe però che non fosse troppo in là, che non ci vogliano duecento anni come fu necessario per riportare in vita il Foro Romano.

La presentazione dell'ultimo libro di Vezio De Lucia, occasione per riflettere sul passato il presente e il destino del capoluogo emiliano. Il Fatto quotidiano, 18 ottobre 2013

Ci sono alcuni argomenti che quando sono sollevati, suscitano nella classe dirigente politica e amministrativa di Bologna, una reazione allergica come l’orticaria. Si tratta essenzialmente delle opere pubbliche e dei progetti infrastrutturali, oltre che, negli ultimi anni anche i progetti misti, pubblico-privato che sono entrati, attraverso l’urbanistica contrattata e il project -financing, nel cielo empireo dei dogmi inviolabili, a prescindere dalla loro validità, utilità, dalle ricadute che generano, di solito immediati guadagni per i privati, costi riflessi e molte volte aggiuntivi o vere e proprie “rimesse” per il pubblico.

Bologna da questo punto di vista è stata, come per tante altre cose, nel bene e nel male un vero e proprio laboratorio, si potrebbe perfidamente definire un gabinetto del dottor Caligari, per parafrasare la favola cinematografica del regista Wiene che gioca molto tra realtà, sogno e incubo.

Il suo sviluppo urbanistico-edilizio è stato la contraddizione palmare tra enunciazioni e prassi: la sprawl, ovvero la dispersione edilizia cresciuta a ritmo incessante ha creato una congerie abitativa, laddove i piani soprattutto a livello provinciale, segnatamente il PTCP, avevano disegnato uno sviluppo lineare lungo gli assi dei collegamenti del Servizio ferroviario Metropolitano, non a caso l’infrastruttura meno amata dai vertici istituzionali.

Metrò, Civis, Peoplemover e Passante nord, sono i progetti contraddittori, quasi metafisici che le menti degli amministratori succedutisi in quest’ultimo quarto di secolo, hanno prodotto senza realizzarli, per dare soluzione alla fame di mobilità che una città esigente e complessa richiede, per la sua caratteristica di polo d’attrazione metropolitano, regionale, nazionale ed anche europeo.

Oggi che “ci si mangia le dita” per la perdita del Motor show, in fuga verso Milano, si dovrebbe fare mente locale su quanto ha inciso nella curva discendente della gloriosa Fiera, tra le altre cause, la perenne congestione stradale e autostradale e la mancanza di collegamenti su ferro con il centro fieristico, oltre che l’inadeguatezza dei servizi connessi, alberghi e ristoranti in primo luogo, ai nuovi standard qualità-prezzo che si ritrovano in altre realtà, soprattutto europee ma anche in Italia e perfino in regione.

Forse questa è veramente l’occasione buona per riflettere su un modello economico, urbanistico e infrastrutturale di città che segna fortemente il passo, per non usare il termine ancor più duro ma forse appropriato di declino.

Purtroppo non piace l’autocritica a nessuna classe dirigente al potere, non piace scavare nella memoria per risalire alle origini dei problemi dell’oggi, non ho mai, dico mai, sentito da uno dei leader più in vista in questo periodo, una frase come: “Ho sbagliato valutazione…dovevamo forse pensarci meglio….” Manco a dirlo! Tutto va sempre bene.

Invece inducono a farle altre autocritiche, questo si molto autorevoli, di alcuni tra i maggiori protagonisti dell’élite professionali: gli architetti Felicia Bottino ePierluigi Cervellati, con contenuti diversi Mario Cucinella e l’importante PaoloPortoghesi che hanno iniziato un serio dibattito sui limiti e gli errori delle scelte strategiche e specifiche di pianificazione e governo del territorio, in particolare le innumerevoli varianti per l’edilizia e per le infrastrutture che in questi venticinque anni, si sono realizzate a Bologna e in Emilia Romagna.

Si potrebbe considerare un’autocritica tardiva, lacrime da coccodrillo, ma c’è anche il detto “meglio tardi che mai”. E’ sorprendente che però questo dibattito pubblico, iniziato con clamore sulla stampa cittadina, sia rapidamente sopito, senza nessun intervento di personalità politiche a interloquire con gli architetti; è la conferma dell’imbarazzo ma forse soprattutto di disorientamento e mancanza d’idee.

La crisi può essere sempre anche un’occasione per cambiare in primo luogo l’atteggiamento culturale e la predisposizione ad allungare lo sguardo oltre il quotidiano, per trovare soluzioni coraggiose e innovative, al contrario far correre il tempo, aspettando che passi il peggio può essere l’anticamera della fine.

Ora c’è un’occasione importante per un confronto di opinioni qualificato: venerdì 25 ottobre, alle ore 17.30, presso l’aula A del Dipartimento di Filosofia e Musica, DAMS, in via Azzo Gardino 23, si discuterà del libro dell’architetto Vezio De Lucia, “Nella città dolente” (ed. Castelvecchi), che affronta con lucida passione la storia urbanistica del nostro sfortunato Paese, dai tentativi riformatori del ministro Sullo agli albori del primo centrosinistra, sconfitti dalla potente lobby della rendita, ai disastri edilizi, architettonici, ambientali e umani degli scempi che hanno stravolto il nostro bel paesaggio fino all’era berlusconiana.

Nel libro De Lucia fa un raffronto crudo nei capitoli, da “l’esempio di Bologna” a “Bologna dov’era e non com’era”, sulle mutazioni che hanno contaminato una delle realtà all’avanguardia e meglio amministrate in Italia che subisce i condizionamenti legislativi e dei rapporti di potere fra politica e sistema degli interessi economico-finanziari.

All’incontro interverrà anche l’architetto Pierluigi Cervellati, oltre al fisico Claudia Castaldini di Legambiente e al professor Gino Malacarne, vice presidente della scuola di Ingegneria e architettura di Cesena.

Un'esperienza ambientale, economica, soprattutto sociale e con forte caratterizzazione di genere, che lascia un solo dubbio: si tratta di un prodotto collaterale dello slum, o di una vera alternativa, per quanto settoriale, alla metropoli globalizzata? Il manifesto, 17 ottobre 2013 (f.b.)

La maggior parte degli edifici di Mumbai, come in altre città in India ma anche in Medio Oriente o in Nord Africa, sono connessi dai tetti. Tetti piani, terrazzi a tutti gli effetti, separati tra loro solo da muretti bassi, facili da scavalcare. Qui vengono spostate attività come stendere, cucinare o dormire per adattarsi al cambiamento del tempo e delle stagioni o della posizione del sole. Non solo estensione della casa, i tetti sono anche passaggio per amici, vicini, amanti o il percorso quotidiano da casa a scuola.

Da sempre sono il luogo privilegiato delle donne, quindi privato, protetto, ma anche aperto, vitale. In alcuni casi la sola possibilità all'esterno per rilassarsi inosservate, per una temporanea fuga dalle incombenze domestiche dei piani di sotto. Qui le donne creano nuove relazioni, prestano e si scambiano cose, osservano le attività dei loro vicini, si invitano l'una con l'altra. Si crea così non solo uno spazio di libertà, ma anche una forte rete di condivisione tutta femminile. D'altronde sono pochi o inesistenti i luoghi in città dedicati esclusivamente alle donne, mentre gli uomini hanno numerose possibilità, formali o informali, fuori dalle mura domestiche.

Spazi di transizione tra dentro e fuori, paradigmatici, simbolici, così come i giardini, i tetti sono ambienti domestici che rappresentano nello stesso tempo lo spazio interiore ed esteriore. Mondi sospesi, sono descritti nei poemi o nelle poesie urdu e nella lunga tradizione della narrativa indiana: luoghi letterari, dove avventure, amori, tragedie, amicizie si consumano, si sviluppano e si sciolgono per raccontare, in realtà, le difficili condizioni di vita delle donne. Naturalmente il loro status non è uguale per tutte, dipende dalla posizione nella società, ma la discriminazione di genere è largamente diffusa, nonostante sia vietata per legge. Nella Costituzione le donne hanno diritti uguali agli uomini, nei testi religiosi sono rispettate e adorate, ma nella pratica spesso sono sfruttate, torturate e umiliate. La loro vita è un ciclo senza fine di doveri come madre, moglie, sorella, la loro identità e il loro ruolo nella società negate.

Nuove forme di partecipazione
Così diverse associazioni e organizzazioni hanno cominciato a promuovere e diffondere proprio sui tetti di Mumbai l'urban farming, affinché nuovi orti e frutteti possano diventare nuove forme di partecipazione per le donne e, nello stesso tempo, di attenzione all'ambiente e nuove risorse economiche e alimentari. Tra queste la ong Sneha, che realizza progetti contro la violenza alle donne e si occupa di salute materna e infantile, in collaborazione con l'organizzazione no profit Fresh&Local che si dedica alla parte progettuale.

Dalla terrazza del Mohamedi Manzil building, in una delle zone più convulse di Mumbai, la vista è quella di terrazzi anneriti, cavi attorcigliati, ammassi disordinati di antenne. Insomma il tipico aspetto spoglio e un po' squallido di tutte le megalopoli. Ed è qui che Adrienne Thadani di Fresh&Local prova a realizzare il suo obbiettivo: creare a model rooftop urban farm, cioè un grande orto urbano, un modello da esportare in quanti più tetti possibili. Ben cinquecento metri quadrati per piantare trenta varietà diverse di alberi da frutta, come mango e chikoo o arbusti di okra che crescono dentro grandi cesti, mentre in cassette di plastica blu disposte in file geometriche a formare delle grandi aiuole, spuntano ortaggi e erbacee tra aromatiche, spezie e medicinali, come aglio, menta, o come il tumeric (Curcuma longa) e la lemongrass (Cymbopogon citratus), entrambe molto utilizzate nella cucina indiana e con numerose proprietà curative. Adrienne ha calcolato che con il raccolto di solo 1,5 mq si riuscirebbe a dare un piatto di verdure e frutta al giorno a una persona per sei, otto mesi all'anno, tenendo anche conto dei quattro mesi di monsoni.

Per il momento la frutta e la verdura prodotta, rigorosamente bio, viene regalata agli stessi abitanti dell'edificio, ma il programma prevede successivamente di venderle a un prezzo equo per poter sostenere e ingrandire ancora orto e frutteto e così dare lavoro a una persona che si occupi della manutenzione. Dopo aver appurato la capacità del tetto a sostenere il peso della terra e delle piante e l'assenza di danni alla struttura e di infiltrazioni di acqua ai piani inferiori, anche il proprietario dell'edificio è diventato il loro maggiore sostenitore.
Dopo questo primo lavoro, Fresh&Local ha dato il via alla trasformazione radicale di altri tetti, terrazzi e davanzali mentre il tetto del Manzil Building continua a evolversi, diventando uno spazio di sperimentazione che quando sarà terminato conterrà anche un vivaio, un'area specifica per il compost e una per la vendita diretta, uno spazio per le lezioni di yoga e infine una zona all'ombra per laboratori e corsi, per incontri e cene della comunità. Così si ampliano anche gli obiettivi; non solo orto, ma un modo per stare insieme, condividere interessi e passioni, imparare cose nuove. Infine rigenerare i tetti come spazio vitale e vissuto.

Un'altra esperienza, guidata da una donna, riguarda i 300 mq di orto sospeso, il Central Kitchen Garden, nella zona del porto, parte del Mumbai Port Trust. Questo grande tetto terrazzo, adiacente alla mensa, oggi è un paradiso lussureggiante di alberi da frutto tra chikoo, guava, banani, cocco, limoni, con centocinquanta altre varietà tra alberi, arbusti ed erbacee, tra cui un settore specifico per le tisane. Insomma un'oasi di biodiversità, poiché la presenza di tante piante ha portato anche tanti uccelli, insetti tra api, libellule e farfalle nel mezzo della zona portuale della città, tra docks e containers.

Catering e compostaggio

L'idea di creare un orto nasce per risolvere un problema legato alla mensa e in particolare allo smaltimento di una gran quantità quotidiana di rifiuti, dato che ogni giorno la cucina produce cibo per duemila impiegati. Così nel 2002 Preeti Patil, direttrice del servizio di catering, organizza per tutto lo staff della cucina un breve corso sulle principali tecniche di compostaggio. Poco a poco comincia a crescere qualche albero e ortaggio fino ad arrivare alla vera giungla verde di oggi visitata non solo da famiglie e scuole, ma anche da organizzazioni e aziende che desiderano seguire un percorso sostenibile.

Così, poco a poco, mentre continua ad aumentare il prezzo di frutta e verdura e proprio quando è sempre più evidente e conosciuto l'effetto nocivo di fertilizzanti e pesticidi chimici di suolo, aria, acqua, animali, piante, alcune persone hanno trovato a Mumbai una soluzione radicale, olistica, che è anche economica, pulita e sostenibile. Invece di seguire i metodi proposti dall'industria, riscoprono il gusto di frutta e verdura biologiche, che non hanno viaggiato per tutto il paese e che non sono stati in celle frigorifere per conservarsi o per maturare.

Una delle prerogative più interessanti di questo movimento è l'adozione sui tetti di pratiche sostenibili e tecniche di coltivazioni naturali adottate nei campi, come la natueco farming (unione delle parole Nature ed Ecology) creata negli anni '60 e che sfrutta i processi naturali per creare terriccio fertile e ricchissimo di sostanze nutrienti grazie a un processo molto rapido. La ricetta si trova su internet ed è tipicamente indiana, poiché sfrutta la libera circolazione delle vacche sacre che permette di disporre facilmente di urina e sterco freschi. Oppure il sistema Prayog Pariwar (prayog significa esperimento e parivar rete familiare): dato che ogni orto è unico e differente dagli altri, poiché sono differenti le condizioni, le persone, le piante e le varietà coltivate, per ogni situazione e per ogni problema ci sono più soluzioni.

Quindi, senza adottare delle regole di coltivazione fisse, che non funzionerebbero in tanti casi, è importante che ognuno sperimenti da solo, tenendo anche conto delle altre esperienze e diffondendo i propri risultati. Ciò assicura un continuo, dinamico scambio di conoscenze legate a situazioni pratiche e concrete.
Questo metodo di condivisione dei saperi e la tecnica natueco sono stati entrambi adottati dall'organizzazione Urban Leaves, fondata nel 2009 a Mumbai da Preeti Patil dopo la sua esperienza al Mumbai Port Trust, per creare nuovi orti, e così offrire nuove opportunità e risorse, per favorire l'integrazione e il coinvolgimento di donne e uomini insieme, per stimolare una sorta di up-date della vita sui tetti e scoprirne tutte le potenzialità.

l Fatto Quotidiano, 12 Ottobre 2013 (m.p.g.)

Non potrebbe esserci situazione più simbolica: per non intaccare la ricchezza privata si aggredisce la ricchezza pubblica, per non far pagare l’Imu nemmeno ai milionari si svendono gli immobili che appartengono a tutti, e dunque anche a chi non ha nemmeno una casa propria. Come sempre quando si tratta di raschiare il fondo del barile, anche il governo Letta lancia la vendita del patrimonio immobiliare pubblico: case, palazzi, castelli e caserme del popolo italiano saranno offerti in vendita a privati e a imprese, italiani o stranieri poco importa. Ci si aspetta di tirar su 2 miliardi di euro da un lotto che comprende un’isola della Laguna di Venezia, un castello medioevale nel Viterbese, ville storiche a Monza come a Ercolano e molto altro. Ci sono molte ragioni per cui questa scelta appare profondamente sbagliata: alcune sono pratiche, altre di principio. Le prime riguardano la congiuntura economica. Perché lo Stato dovrebbe fare ciò che nessuno di noi farebbe volentieri: e cioè vendere in un momento in cui il mercato immobiliare è in ribasso? Non si rischia così di svendere i beni di tutti, magari avvantaggiando la speculazione dei soliti noti? E non sarebbe meglio – parlo degli immobili non storici e non di pregio – affittarli? Magari non a enti pubblici, secondo il percorso perverso per cui non di rado lo Stato vende i beni che ospitano alcune sue istituzioni (per esempio le università), le quali sono poi costrette a pagare l’affitto ai nuovi padroni privati.

Ma, ammesso e non concesso che si riesca a vendere questo patrimonio a prezzi non iugulatori, siamo proprio sicuri che sia meglio monetizzarlo, e cioè esporne i proventi alle altalene di un mercato finanziario che potrebbe farli evaporare in un batter d'occhio, vanificando così il sacrificio di tutti noi? Già, perché l’endemica assenza di consapevolezza circa il fatto che “lo Stato siamo noi”rischia di farci dimenticare che vendendo questa riserva pubblica impoveriamo non solo noi stessi, ma le generazioni future, che ovviamente non hanno alcuna voce in capitolo nelle nostre scelte. Come ha efficacemente scritto Ugo Mattei (in Contro riforme): “In Italia il maggiordomo assunto a termine (la maggioranza del momento) ha il potere di vendere il patrimonio di famiglia (appartenente alla collettività dei cittadini) trasferendolo sottocosto ad attori privati amici e compensando profumatamente le banche d’affari che gestiscono tali ‘cartolarizzazioni’.

Questo vero e proprio saccheggio è stato esercitato in modo rigorosamente bipartisan da governi tecnici e riformisti, tutti preda senza alcuna distinzione degli stessi poteri forti di cui gran parte dei ministri è consulente, o comunque a libro paga”. E il fatto che questa operazione di ulteriore smantellamento della ricchezza pubblica venga affidata alla Cassa Depositi e Prestiti diretta da Franco Bassanini, tra i principali artefici del massacro della Pubblica amministrazione, non fa che confermare l’analisi di Mattei. Oltre al danno patrimoniale, le svendite decise dal governo Letta rischiano di provocarne altri sul piano culturale e sociale. Nelle ultime settimane il comitato di redazione del Corriere della Sera ha pubblicato una serie di comunicati sindacali dedicati alla possibile vendita della storica sede di via Solferino. In uno di essi (25 settembre) si legge che la Rizzoli non è nelle condizioni di Antonio, il Mercante di Venezia di Shakespeare che è costretto a dare in pegno all'usuraio Shylock una libbra della propria carne. Ed è per questo che i giornalisti del Corriere credono che non sia giusto “fare cassa svendendo il patrimonio storico e un pezzo dell’identità del gruppo (libbra di carne)”.

Se questa sacrosanta considerazione vale per il Corriere , essa deve valere a maggior ragione per la Repubblica italiana, che ha messo il patrimonio storico e artistico tra i propri principi fondamentali. Gli immobili pubblici, infine, sono una straordinaria riserva di democrazia,partecipazione e coesione sociali. Nelle nostre città c’è un enorme bisogno di restituire alla gestione diretta dei cittadini gli spazi improduttivi, e dunque sottratti a ogni forma di utilità sociale. Se questo vale, a rigor di Costituzione, addirittura per gli spazi privati, cosa dovremmo dire di quelli che appartengono a tutti noi? L’occupazione del Teatro Valle a Roma, del Teatro Rossi e del Colorificio a Pisa, dell'Asilo Filangieri a Napoli e moltissime altre sono lì a testimoniare la fame di spazi pubblici da rimettere al servizio della comunità. Moltissimi dei nostri archivi e delle nostre biblioteche non hanno spazio, e molti dei nostri musei dovrebbero potersi espandere. E molti degli immobili pubblici comunque a ciò non adatti potrebbero essere piuttosto affittati, a prezzi sociali, a cooperative di giovani pronti a impiantarvi delle attività imprenditoriali. Insomma, solo un cieco o un affarista non vede il potenziale democratico e sociale di un patrimonio che a tutto dovrebbe servire tranne che ad arricchire la speculazione.

Ottime intenzioni, scarsissima efficacia. Che cosa invece si potrebbe fare se davvero si volesse arrestare il consumo di suolo, scritto per eddyburg il 10 ottobre 2013
Il disegno di legge sul contenimento del consumo di suolo agricolo, trasmesso alla conferenza unificata Stato Regioni, è del tutto condivisibile nelle sue finalità. Tuttavia, destano alcune perplessità gli strumenti indicati dalla legge per perseguire l’obiettivo di riduzione del consumo di suolo.

In particolare, ci si riferisce all’ipotesi, formulata all’articolo 3, di stabilire l’estensione massima di superficie agricola “consumabile” nel territorio nazionale in un decennio. Per svolgere questo compito, occorre passare attraverso due decreti attuativi, una serie di deliberazioni della conferenza unificata e l’istituzione di un comitato pletorico, composto di diciassette membri.Le Regioni, a loro volta, dovrebbero ripartire la superficie consumabile alla scala provinciale e dettare criteri alla pianificazione territoriale degli enti locali. Si tratta di un percorso lungo, complicato e foriero di potenziali conflitti nei rapporti tra Stato, regioni e comuni.

In alternativa, molto più semplicemente, la legge potrebbe stabilire che la pianificazione comunale, salvo motivate eccezioni, non può prevedere espansioni dei centri abitati, se non nell’ambito del coordinamento di area vasta, previa approvazione (o parere vincolante) della Regione. Il divieto potrebbe essere pressoché assoluto per gli usi residenziali (è noto a tutti che i fabbisogni possono essere soddisfatti all’interno del territorio urbanizzato) e temperato per le funzioni produttive, di servizio e infrastrutturali, con particolare riferimento a esigenze di area vasta.

Un secondo punto critico riguarda le previsioni dei piani vigenti. La proposta introduce una salvaguardia della durata massima di tre anni, dalla quale sono esclusi i soli interventi “già autorizzati e previsti dai piani vigenti”. È lecito dubitare che tale periodo sia sufficiente per svolgere tutti gli adempimenti previsti e per adeguare, in riduzione, le previsioni dei PRG e dei piani strutturali e operativi.

Al posto di questo congelamento temporaneo, sarebbe preferibile stabilire in modo permanente che - dopo un quinquennio dall’approvazione – perdano efficacia le previsioni dei piani urbanistici comportanti espansioni del centro abitato, se non sono stati conseguiti i relativi titoli abilitativi o approvati i piani attuativi, in analogia con i vincoli espropriativi. A quel punto, l’eventuale riproposizione sarebbe subordinata alle verifiche indicate dalla legge (cfr. art. 1 e art. 4) e richiederebbe sia una specifica motivazione, sia l’assenso di Regione e Provincia.
(Roma, 10 ottobre 2013)

Ministro Lupi governatore Zaia e sindaco Orsoni presenti all’evento. Le paratie si alzeranno una alla volta. Seguiamo col fiato sospeso, ma il danno a Laguna e bilancio dello Stato (cioè nostro) è già stato compiuto. E' ora di scrivere l'elenco dei colpevoli. La Nuova Venezia, 12 ottobre 2013

Il momento forse non è dei migliori. La crisi, gli arresti per mafia che hanno toccato anche i tecnici della Fip di Padova, l’azienda che ha costruito le cerniere. E poi, il cinquantenario della tragedia del Vajont, diga perfetta costruita sotto la frana. Le indagini della Finanza che continuano, le richieste di «trasparenza» e gli antichi oppositori che riprendono fiato. Per il Mose, progetto da 6 miliardi di euro che dovrebbe salvare Venezia dalle acque alte, la fine dei lavori è ancora lontana. Ma a dieci anni dalla prima pietra – posta nel 2003 da Silvio Berlusconi – si è arrivati al punto.

Quasi ultimati gli interventi preliminari, le dighe foranee, gli scavi e le trincee. Sono finiti anche i cassoni in calcestruzzo, le gigantesche basi che dovranno sostenere le 78 paratoie nelle tre bocche di porto. Adesso tocca al «software»: le prime quattro paratoie in acciaio (venti metri per trenta, spesse quasi cinque metri) sono state calate sui fondali della bocca di Lido, lato Treporti. Le «prove in bianco» sono cominciate a giugno. E al primo esperimento, per la verità, una delle paratoie ha fatto cilecca. «Problemi dell’aria compressa, abbiamo provveduto», diceva allora il Consorzio Venezia Nuova. Adesso le prove sono quasi finite, e il pool di imprese responsabile del progetto Mose ha deciso di mostrarle al mondo.

Oggi giornata in laguna per centinaia di giornalisti, imbarcati alla Marittima su una motonave che li porterà prima a Malomocco a visitare il cantiere dove sono stati costruiti i cassoni. Undici blocchi in calcestruzzo da 22 mila tonnellate, grandi come un condominio di dieci piani, lunghi fino a 50 metri e larghi 26. Saranno «varati» nei prossimi mesi, trainati e affondati alle bocche di porto di Lido e poi di Malamocco. Il cantiere di Santa Maria del Mare ha ospitato per quasi dicei anni le lavorazioni dei megacassoni, per questo il Consorzio è finito anche nel mirino dell’Unione europa. Diapositive e conferenze a bordo per istruire chi il Mose non sa nemmeno cosa sia. Poi alle 14.30, alla presenza del ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi, del sindaco Giorgio Orsoni, del presidente della Regione Luca Zaia, la prova di sollevamento. I tecnici premeranno il bottone e le paratoie si alzeranno, una alla volta. È prevista pioggia, ma il cielo non preoccupa i progettisti che intendono mostrare al mondo l’orgoglio di un’opera «tutta italiana» e la loro estraneità alle recenti vicende giudiziarie. In molti, consiglieri e senatori, hanno rifiutato l’invito. «Prima di cerimonie di questo tipo», dicono, «occorre dare risposte ai dubbi tecnici sollevati dagli esperti sul funzionamento delle paratoie». I dubbi degli ingegneri come Lorenzo Fellin, esperto idraulico che si era dimesso dopo aver criticato le modalità di costruzione delle cerniere. O quelli della società di ingegneria Principia. Contatta dal Comune (giunta Cacciari) nel 2008 aveva scritto che in caso di eventi estremi (scirocco e mare agitato) le paratoie non danno garanzia. Dubbi espressi molti anni prima dal cinese Chang Mei nel parere dei cinque esperti internazionali che avevano promosso (con riserva) il progetto preliminare del Mose.

«Tutto superato», assicurano i tecnici del Consorzio. La «parata» di oggi e il giro in laguna – già organizzato altre volte alla presenza di ministri e governatori – hanno prima di tutto lo scopo di inaugurare il «nuovo corso» del Consorzio. I padri del progetto – l’ingegnere Mazzacurati e Piergiorgio Baita – non sono nemmeno stati invitati. Quasi una presa di distanza da una storia cominciata oltre trent’anni fa. E adesso forse vicina al suo epilogo.

L'Istituto per la Protezione dell'Ambiente ha presentato oggi 11 ottobre a Roma il suo rapporto 2013, riportiamo per ora una breve presentazione proposta da la Repubblica online, e il documento integrale scaricabile

Cala lo smog ma cresce il cemento: meno 5 ettari al giorno, PM10 oltre soglia

Nona edizione del Rapporto sulla Qualità dell'Ambiente Urbano. Le 51 aree comunali monitorate hanno cementificato 220mila ettari di territorio, quasi 35mila solo a Roma. La lista delle città più inquinate comprende la Capitale, Taranto, Milano, Napoli e Torino e riflette quella della circolazione delle auto

Migliora l'aria nelle città italiane, molte delle quali però restano ad alto rischio di sforamento dei valori considerati sicuri per gli inquinanti, mentre non si arresta la cementificazione, che ogni giorno richiede il suo tributo al territorio urbano: ben 5 ettari. La fotografia viene dai dati della nona edizione del Rapporto sulla Qualità dell'Ambiente Urbano presentato a Roma dall'Ispra.

Tra il 2000 e il 2010, afferma il documento, a livello nazionale c'è stata una diminuzione delle polveri sottili del 37%, complici anche le minori attività industriali, e in quasi tutte le 60 città prese in esame il trend è in diminuzione. "In tutte le città considerate tranne Livorno - sottolinea però il rapporto - nel 2011 le concentrazioni medie di pm10 sono state superiori al valore soglia consigliato dall'Oms, e in 6 centri abitati del bacino padano i valori hanno superato la soglia annuale prevista dalla normativa".
La lista delle città più inquinate da questo punto di vista, che vede Roma, Taranto, Milano, Napoli e Torino ai primi posti, riflette quella della circolazione delle auto. Se nelle otto metropoli considerate, con l'eccezione di Roma, le immatricolazioni sono in calo, i valori assoluti restano alti.

"Quello che abbiamo notato - spiega Silvia Brini, curatrice del rapporto - è che nelle città grandi, ad eccezione di Roma, le auto circolanti tendono a diminuire, mentre in quelle più piccole avviene il contrario". Oltre che inquinate le città risultano dal rapporto anche sempre più 'grigie'. Napoli e Milano hanno ormai consumato oltre il 60% del territorio, e anche Torino e Pescara superano il 50%. Le 51 aree comunali monitorate hanno cementificato 220mila ettari di territorio, quasi 35mila solo a Roma, con 5 ettari di nuove aree 'catturati' ogni giorno. Trento mostra i valori più alti di verde pubblico, mentre Messina, Venezia e Cagliari sono le città con le quote più alte di territorio protetto. "In questi tre casi si parla di percentuali significative, ben oltre il 50% - sottolinea Brini - un dato che ci ha positivamente impressionato". Quasi una reazione al colore monotono dominante nelle città sono sempre di più gli uccelli alloctoni, introdotti cioè da fuori, a cominciare dai pappagalli. Le specie più avvistate sono i parrocchetti, ma ci sono anche l'anatra mandarina, il cigno nero e l'amazzone fronteblu.

Qui scaricabile il Rapporto ISPRA 2013

Infiniti colpi di coda dell'urbanistica privatizzata inaugurata dall'attuale ministro Lupi tanti anni fa, i quartieri del Documento di Inquadramento sono una truffa e un disastro. La Repubblica Milano, 7 ottobre 2013

È diventato un pezzo di città fantasma, il quartiere Adriano. I problemi riguardano in particolare le aree di proprietà di un operatore privato, che non ha mai risposto agli ultimatum del Comune. Adesso, per risolvere una situazione di «pericolo sanitario e di sicurezza sociale», Palazzo Marino passa alle maniere forti. Per la prima volta, userà i poteri sostitutivi per bonificare i terreni e realizzare il parco promesso. E ha avviato un procedimento di “requisizione”, che andrà condiviso con la prefettura, per entrare in possesso dei terreni, ripulirli e terminare le opere.

Dopo quasi due anni di ultimatum, il Comune passa alle maniere forti per riportare alla «normalità» il quartiere Adriano. Lì, su quella distesa di terra ai confini con Sesto San Giovanni dove un tempo sorgevano gli impianti della Magneti Marelli, i residenti sono rimasti intrappolati tra l’isolamento, l’insicurezza e il degrado. Un’eredità pesante, quella che si è trovata a gestire la giunta Pisapia. In particolare sulle aree di proprietà del gruppo immobiliare Pasini, che sono diventate un pezzo di città fantasma. «Superati i problemi di Santa Giulia è questa l’emergenza », dice la vicesindaco con delega all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris.

La società che avrebbe dovuto realizzare case e servizi non ha mai riposto agli appelli di Palazzo Marino e per la zona, ormai, l’abbandono si è trasformato in una situazione di «grave pericolo igienico e sanitario e di sicurezza sociale ». Per questo, dopo aver cercato di tamponare con interventi per forza di cose parziali, l’amministrazione ha deciso di passare all’azione. Con due gesti estremi, che compierà per la prima volta. Il Comune utilizzerà i poteri che ha a disposizione per sostituirsi all’operatore e, così, bonificare direttamente i terreni e realizzare il parco promesso. E, soprattutto, ha già fatto partire quello che tecnicamente si chiama “procedimento di requisizione” e che, adesso, dovrà essere condiviso con la prefettura. In pratica, vuole entrare in possesso dell’area Pasini per terminare le opere di urbanizzazione, ripulire, mettere in sicurezza. E, successivamente, magari, trovare un altro operatore per completare ciò che mancherà all’appello.

Vogliono tornare alla vita, gli abitanti del quartiere Adriano. Tra raccolte di firme e un presidio che un gruppo di residenti farà oggi di fronte a Palazzo Marino. Il Comune ha già convocato un’assemblea pubblica per il 18 ed è lì che Ada Lucia De Cesaris spiegherà alle famiglie i piani dell’amministrazione. «Sicuramente — dice la vicesindaco — si tratta di una situazione di grave difficoltà. Purtroppo abbiamo ereditato i problemi creati da piani scellerati approvati in passato senza pensare alla loro sostenibilità. Stiamo lavorando da tempo e abbiamo già fatto moltissimo, ma continueremo a fare tutto ciò che sarà necessario perché questa zona torni alla normalità e il quartiere abbia finalmente i servizi di cui ha bisogno».

È una storia infinita, quella del quartiere Adriano. Iniziata nel 2005 con due diversi piani urbanistici: “Adriano Marelli” e “Adriano-Cascina San Giuseppe”. Sul primo disegno è calata la crisi, ma il Comune sostiene di essere riuscito a fare passi in avanti: «Entro la fine del mese, sull’area Gefim — spiega De Cesaris — sarà completato il parco, sono partiti i lavori per la materna e il nido, sono state risolte le criticità per il progetto della nuova Esselunga ed è stato definito quello per la piscina. A questo aggiungiamo altri interventi fatti sulla viabilità e i mezzi pubblici». Manca ancora la scuola media, ma Palazzo Marino sta discutendo con la Regione per realizzarla al posto di case che Aler avrebbe dovuto fare per il mercato “libero”. È sull’altra porzione, che le risposte non sono arrivate. Qualcosa ha fatto la giunta in emergenza: qualche spezzone di strada asfaltato, vie finora anonime hanno avuto un nome, qualche pulizia del verde.

Ma non basta. Rimangono i ruderi di cantieri lasciati a metà, una cascina che è già stata occupata; gli abitanti devono camminare lungo percorsi sterrati e non illuminati, zone non presidiate sono diventate discariche. È per questo che si è passati a quelle due misure straordinarie. «Ci prenderemo la responsabilità di far partire le bonifiche entro l’anno e realizzare il parco entro la fine del 2014», annuncia la vicesindaco. Toccherà a Palazzo Marino andare fino in fondo. Così come per quella procedura di “requisizione” che dovrà curare la grande incompiuta urbanistica.

Nota: impossibile riassumere in una postilla le riflessioni che suscita questa ennesima dimostrazione di fallimento (almeno per i cittadini) della stagione urbanistica liberista-ciellina-tangentizia, ho provato a sviluppare qualche breve ragionamento sul sito Millennio Urbano a cui collaboro da qualche tempo; sul sito eddyburg, già dalla pubblicazione del documento Ricostruire la Grande Milano, che dava sanzione ufficiale alla stagione della deregulation, si sono succedute critiche puntuali e sistematiche sul metodo e il merito delle specifiche scelte. A partire da questo ampio commento di Edoardo Salzano (f.b.)

L'Unità, 11 ottobre 1963 e 6 ottobre 2013
6 ottobre 2013
LA NOSTRA TINA CHE PER TANTI ANNI
URLÒ INASCOLTATA LA VERITÀ
di Toni De Marchi

Dopo «Vajont» di Paolini e dopo il film con Laura Morante, Tina Merlin divenne un personaggio incontournable, come direbbero i francesi. Una di cui non si può fare a meno, ineludibile. E in molti che l’avevano ignorata se non vilipesa, si scoprirono improvvisamente suoi inconsolabili amici. Parlo dei giornalistoni alla Pansa, ad esempio, che probabilmente quando arrivò a Longarone per La Stampa, non avrà neppure voluto saperne il nome. O dei Bocca, che difendevano la Sade (la società elettrica proprietaria dell’invaso del Vajont) scrivendo su Il Giorno due giorni dopo il disastro «nessuno ne ha colpa, nessuno poteva prevedere, nessuno può riparare....tutto è stato fatto dalla natura». Altro che nessuno poteva prevedere. Per quattro anni Tina aveva raccontato, urlato la verità: mai tragedia era stata più annunciata di questa. Articolo dopo articolo, assemblea dopo assemblea, lei donna, comunista, piccola e anonima corrispondente de l’Unità da Belluno aveva cercato di aprire gli occhi, svegliare le coscienze. Tanto che sarà processata, e assolta, per un articolo del 5 maggio 1959: La Sade spadroneggia ma i montanari si difendono. Come spiegò poi la sua «non era lotta contro il progresso, ma contro chi in nome del progresso si riempiva il portafoglio a spese altrui». Era una lotta per la vita, per il diritto dei montanari. Di quelle vite dure e rotte come era stata ed era la sua.

Conobbi Tina nel 1975, a Venezia. Cercava collaboratori per la redazione regionale. Lei, che da un retroterra intensamente cattolico era arrivata a essere una comunista convinta ma insofferente alle burocrazie del partito, cercò nelle sezioni del Pci di Venezia dei giovani da inserire in redazione. Voleva evitare che le imponessero qualche piccolo funzionario di federazione. Ovviamente all’inizio fui intimorito, non solo dall’essere arrivato senza rendermene conto in un giornale così importante, ma anche perché avevo di fronte questa compagna (allora si diceva e nessuno se ne vergognava) che mi sembrò subito forte e autorevole. Ma sentii che di lei potevo fidarmi, nonostante le sfuriate pluriquotidiane, gli articoli appallottolati e gettati nel cestino. C’erano ancora le macchine per scrivere e il primo fax, un Infotec arancione che arrivò qualche tempo dopo, era grande come una credenza.

Per molto tempo non seppi davvero chi fosse. Da buona montanara, Tina non parlava di sé. Neppure del «suo» Vajont. E anche di tutto il resto seppi molto tempo dopo. Del fatto che a 17 anni cominciò a fare la staffetta partigiana nel battaglione Manara: Joe il suo nome di battaglia. Bill era invece il nome da partigiano del fratello Toni, medaglia d’argento al valore militare, ucciso dai tedeschi il 26 aprile 1945. Remo era l’altro fratello, alpino, una delle centomila gavette di ghiaccio, scomparso da qualche parte in Russia.

Nonostante molto tempo passato con Tina, le cene nella sua casa alla Giudecca a Venezia, le discussioni a volte molto animate, con lei che bruciava una sigaretta dietro l’altra, la sua storia precedente l’ho scoperta soltanto leggendo molti anni dopo quel libro struggente che è La casa sulla Marteniga, il racconto di come è nata e si è formata la sua ribellione. La scuola interrotta prima di finire la quinta elementare, mandata a servire a Milano a tredici anni perché così si doveva in quegli anni. «Imparai quella volta, in quel cortile, una cosa nuova: l’emarginazione dei poveri. La sentii nella pelle come una frustata. Ebbi netta la sensazione d’essere considerata diversa dalle mie compagne che abitavano in piazza», racconta. E nonostante ciò, quella necessità indomita, infinita di rivolta contro tutte le disuguaglianze e le ingiustizie che segnerà la sua vita intera. Nel caso di Tina non si tratta di parole vuote, ma esperienza Sulla pelle viva, come intitolerà il suo libro sul Vajont. Il 13 ottobre 1963, con la gola ancora serrata per quello che era appena successo a Longarone, Erto, Casso, scrive su l’Unità delle parole che la definiscono mirabilmente: «Non volevo diventare famosa per un fatto così tragico quando scrivevo contro la Sade. Volevo semplicemente impedire che questo disastro colpisse i montanari della terra dove sono nata, dove ho fatto la guerra partigiana, dove ho vissuto tutta la mia vita. E ora non riesco neanche a esprimere la mia collera, il mio furore per non esserci riuscita».

12 ottobre 1963
L’UNITÀ AVEVA DENUNCIATO TUTTO
MAI CREDUTI E SOTTO PROCESSO
di Tina Merlin

Questo giornale aveva raccontato nel ’59 e nel ’61 
i rischi di quell’opera grazie
 ai pezzi della giovane cronista che fu accusata di falsità

È stato un genocidio. Lo gridano i pochi sopravvissuti, resi folli dal terrore della valanga d’acqua e dalla disperazione di trovarsi soli e impotenti a superare una realtà tragica, fatta oramai di nulla, o meglio fatta di sassi e melma amalgamati dal sangue dei loro cari. Una realtà che ha sconvolto all’improvviso la fisionomia di interi paesi, ma che era purtroppo. prevedibile da anni, da quando ancora all’inizio dei lavori del grande invaso idroelettrico del Vajont i tecnici sapevano di costruire su terreno argilloso e franabile, che perciò potevano portare alla catastrofe.

Genocidio quindi, da gridare ad alta voce a tutti, affinché il grido scuota le coscienze del popolo e il popolo, la cui pelle non conta mai niente di fronte ai dividendi dei padroni del vapore, spazzi via alfine con un’ondata di collera e di sdegno chi gioca impunemente, a sangue freddo, con la vita di migliaia di creature umane allo scopo di accrescere i propri profitti e il proprio potere. Che qualcuno, se ne ha il coraggio, mi smentisca in questo momento. Io assumo la responsabilità di quanto dico; i colpevoli si assumano la responsabilità di quanto hanno fatto. E la giustizia giudichi.

Affermo che ci sono a responsabilità morali e materiali. Ho seguito la vicenda dell’invaso del Vajont con passione non solo di giornalista, ma di figlia di questo popolo contadino e montanaro che si ribella alla retorica delle «virtù tradizionali», che mal nasconde il cinismo dello sfruttamento più spietato. Con questo cuore ho seguito tutte le vicissitudini, le resistenze, le paure dei montanari di Erto contro la «Sade», non per impedirle di costruire il grande bacino idroelettrico del Vajont, ma per impedirle di compiere un delitto. L’intuito e l’esperienza di quei montanari, confortati per altro da pareri di grandi geologi, indicavano la Valle del Vajont non adatta a reggere la pressione di di 160 milioni di metri-cubi d’acqua.

La realtà ha dimostrato la ragione dei montanari, non quella dei tecnici della «Sade». La società elettrica sapeva che le pareti dell’invaso erano formate dal terreno di una enorme frana caduta centinaia di anni fa, sulla quale è sorto in seguito il paese di erto. Sapeva che il monte Toc era esso stesso parte di quella frana e che era prevedibile che l’acqua immessa nel bacino dovesse erodere piano piano il sottosuolo e provocare disastri. Quattro anni fa, quando è stata sperimentata la resistenza del bacino, grosse fenditure avevano segnato le case di San Martino e delle altre frazioni di Erto alle pendici del Toc. Esse, piano piano, si estesero a ridosso del monte, facendo nascere la paura tra gli abitanti di Erto. Costoro si appellarono inutilmente ad ogni autorità possibile dando veste giuridica ad un largo comitato unitario che lottò per anni nel tentativo di opporsi alla costruzione. (...).

Io mi feci portavoce di quei montanari e scrissi un articolo per l’Unità, indicando quello che sarebbe potuto accadere e che oggi è accaduto. La pubblica autorità mi accusò di propagare notizie false atte a turbare l’ordine pubblico. Venni processata a Milano assieme al direttore de L’Unità. (...). lo e il compagno onorevole Bettiol, che rappresentavamo il Partito Comunista, fummo soli e sempre gli unici a sostenere attivamente le ragioni dei montanari. Essi mi difesero energicamente davanti ai giudici del Tribunale di Milano e dimostrarono, con prove e testimonianze, non solo che io avevo scritto la verità, ma che tutto il paese di Erto si trovava in pericolo assieme ai paesi del Longaronese. I giudici mi assolsero, ma le autorità che dovevano tenere conto dei fatti e impedire un possibile massacro, diedero invece via alla «Sade» per i suoi esperimenti criminosi. Fatti, oltretutto, con i miliardi del popolo italiano. (...) Quelle stesse autorità di governo che gestendo oggi gli impianti idroelettrici, e sapendo che da circa un mese la situazione del Vajont peggiorava, non hanno provveduto a scongiurare l’immane sciagura che si è abbattuta stanotte sul Bellunese (...). (11 ottobre 1963)

Rassegna sindacale, ottobre 2013

Torno ancora una volta nella valle del Piave. Mi attende un incontro con un comitato di cittadini in lotta contro il progetto di un'ennesima e devastante centrale idroelettrica. All’altezza di Longarone, come sempre, come tutti quelli che conoscono la tragica storia di cinquant’anni fa, volgo lo sguardo verso quella maledetta diga che incombe sulla valle.

Mi siedo sulle rive del Piave - il corso d’acqua più artificializzato del mondo, un deserto di ghiaia - e apro la mia copia, piena di sottolineature, di Sulla pelle viva, il libro di Tina Merlin di denuncia sul Vajont. Leggo il suo ineguagliabile epitaffio sulla tragica serata del 9 ottobre 1963:

«Sono le 22,39. Un lampo accecante, un pauroso boato. Il Toc frana nel lago sollevando una paurosa ondata d’acqua. Questa si alza terribile centinaia di metri sopra la diga, tracima, piomba di schianto sull’abitato di Longarone, spazzandolo via dalla faccia della terra. A monte della diga un’altra ondata impazzisce violenta da un lato all’altro della valle, risucchiando dentro il lago i villaggi di San Martino e Spesse. La storia del “grande Vajont” durata vent’anni, si conclude di tre minuti di apocalisse, con l’olocausto di duemila vittime».

Il mio pensiero corre a Tina, questa straordinaria giornalista dell’Unità che ho avuto il privilegio di conoscere. Al suo coraggio di affrontare da sola il colosso SADE, subendo processi per aver raccontato della diga.., per aver lanciato l’allarme due anni e mezzo prima della tragedia. Per aver denunciato l’arroganza di troppi poteri forti. L’assenza di controlli. La ricerca del profitto a tutti i costi. La complicità di tanti organi dello Stato. I silenzi stampa. L’umiliazione dei semplici, la sua gente, alla quale lei cerca in ogni modo di dare voce.

Per decenni il Vajont è rimasto un ricordo vago nella memoria nazionale. Se negli ultimi anni siamo tornati a parlarne lo si deve alla ristampa del suo libro e, soprattutto, all’orazione civile di Marco Paolini perché, come egli scrive,«le storie non esistono finché non c’è qualcuno che le racconta».

Ma se l’Italia dimentica – scrive Paolo Rumiz – «l’Enel ha la memoria lunga. L’acqua del Vajont c’è ancora nel bilancio idrico nazionale. Come se non fosse accaduto niente. S’inaugurano monumenti alle vittime dell’onda assassina, ma quei centocinquanta milioni di metri cubi servono ancora. Sono il lago di carta che giustifica la devastazione del Piave, disidratato dalle sorgenti alla foce.(…) Come dire che la tragedia ha accelerato, anziché frenarlo il dissesto idrogeologico».

Si è dato via libera al saccheggio. Risultato: se dovesse tornare l’alluvione degli anni sessanta, i danni sarebbero «dieci volte maggiori». Parola di Luigi D’Alpaos, ordinario d’idraulica all’università di Padova. Troppi detriti, troppi ostacoli sulla strada del fiume sacro della Patria.

A cinquant’anni di distanza è cambiato qualcosa? Finalmente salgono a Longarone il Presidente della Repubblica, Ministri e “governatori” per il “mea culpa” dello Stato, per chiedere scusa ai cittadini. Le parole pronunciate dal Ministro Orlando sono sagge: «Le resistenze delle popolazioni locali e dei comitati non si possono liquidare come localismi dei no, ci sono esperienze di chi vive nei luoghi che meritano altrettanto rispetto delle perizie tecniche».

Ancor più decise e autocritiche suonano le parole del “governatore” del Veneto, Zaia: «In questo Paese abbiamo bisogno di costruire meno strade e di realizzare più opere di prevenzione idrogeologica». Che il nostro Presidente sia rimasto folgorato sulla via di Damasco di fronte al ricordo della strage del Vajont? Non è la prima volta che egli pronuncia condivisibili parole che facevano presagire a una svolta ambientalista. L’aveva già fatto nel 2010 di fronte all’alluvione che ha colpito mezzo Veneto e l’ha ripetuto anche nella torrida estate del 2012: «Basta cemento. Serve una moratoria in piena regola!. Peccato però che nel frattempo la sua Giunta abbia dato il via libera a tutti i progetti voluti dagli immobiliaristi e dalla finanza.

Un diluvio di autostrade, bretelle, tangenziali, tunnel, camionabili; una costellazione di new Cities e il lasciapassare alle nuove lottizzazioni dei comuni in cerca di oneri di urbanizzazione. In un Veneto che già negli ultimi vent’anni ha visto diminuire la superfice agricola del 21,5%, un’estensione superiore a quella di tutta la provincia di Vicenza: con un ritmo di 38 ettari al giorno, corrispondenti a più di 53 campi di calcio! Mentre la Metropolitana di superfice è al palo da vent’anni e si taglia il trasporto pubblico locale, la Giunta del Veneto sembra affetta da bulimia autostradale.

Cambiano le Giunte, si avvicendano in carcere e agli arresti domiciliari i vertici dei consorzi, delle imprese e delle società che monopolizzano le “grandi opere”, la Guardia di Finanza documenta l’infiltrazione mafiosa nel mercato immobiliare del Veneto, il dissesto idrogeologico provoca danni in continuazione, la qualità dell’aria è la peggiore d’Europa ma la musica che suonano sul Canal Grande non cambia: cementificare e asfaltare. Lasciare mano libera ai progetti che le varie lobby finanziarie e del mattone hanno in programma e che “concerteranno” con i soliti assessori. Sui tavoli degli uffici regionali sono già pronte decine di “progetti strategici”: mentre si lasciano deperire i 2000 ettari già infrastrutturati di Porto Marghera si spreca altro suolo veneto con svariati milioni di metri cubi di volumetrie e centinaia di chilometri di nastri d’asfalto. Progetti che vanno approvati con le norme “semplificate” della Legge Obiettivo, degli Accordi di Programma, dei famigerati Project Financing “sporchi”. Si dice che costeranno poco. In realtà pagheranno molto i cittadini: nell’immediato con l’aumento dei pedaggi (il Passante di Mestre è l’autostrada più cara d’Italia) e per il futuro si costruisce un debito occulto che graverà sulle spalle delle prossime generazioni. Per i privati proponenti rischi zero. Per i cittadini oneri sicuri.

Ma per riuscirci la Regione ha bisogno di derogare alle norme e superare l’avversione e la protesta delle popolazioni locali che con manifestazioni e scioperi della fame si oppongono con determinazione e competenza alla privatizzazione della rete stradale veneta e alla devastazione del territorio. Opposizioni che, come dice il Ministro Orlando, «non si possono liquidare come localismi del no».

Dice l’associazione ambientalista:«Navi a Marghera per rigenerare il territorio». Risponde il Porto: «Lo stiamo già facendo». La Nuova Venezia, 5 ottobre 2023, con postilla

«Il futuro della città non viaggia sulle grandi navi. Scalo a Marghera, pianificazione integrata e rigenerazione urbana sono le chiavi per il nuovo rinascimento della città», «un semplice divieto, sebbene indifferibile, al transito delle navi da crociera davanti a San Marco non sarebbe sufficiente». Così Legambiente scrive al presidente del consiglio Enrico Letta e ai ministri competenti Andrea Orlando, Massimo Bray e Maurizio Lupi, Una presa di posizione che è anche una risposta in tempo reale al «Sì al numero chiuso, mai a Marghera», del presidente del porto Paolo Costa, impegnato a difendere con le unghie il progetto di scavo del canale Contorta dell’Angelo per collegare il Canale dei Petroli alla Marittima, e mantenere così a Venezia lo scalo passeggeri. Ieri il botta-e-risposta ambientalisti-porto è andato in scena via comunicati stampa. Legambiente pensa che «lo spostamento della stazione marittima per le navi da crociera a Marghera, possa rappresentare la giusta soluzione». L'invito al governo - spiega Sebastiano Venneri, responsabile mare dell’associazione - è «a definire una politica industriale che assuma il turismo e il futuro di Venezia come asset fondamentale per il Paese. Con lo spostamento lontano dal fragile cuore della città, si eviterebbe il passaggio delle grandi navi all'interno del Canale della Giudecca e del bacino di San Marco e si consentirebbe il rilancio della zona industriale».

«Come ambientalisti e come cittadini», aggiunge il presidente di Legambiente Veneto, Luigi Lazzaro, «non possiamo più accettare soluzioni del secolo scorso», bocciando «drasticamente le proposte di escavo di uno o più nuovi canali all'interno della laguna, avanzate dall'Autorità Portuale e da altri soggetti economici e politici». «Siamo molto grati a Legambiente per la sollecitazione a risolvere il problema costituito dal passaggio delle grandi navi da crociera davanti a San Marco in un'ottica strategica che guardi anche “alla rigenerazione” dell'area inquinata e abbandonata di Marghera», replica in una nota al vetriolo il presidente dell’Autorità portuale, «ma ci piacerebbe che Legambiente potesse dare uguale attenzione al problema dei tempi e costi delle bonifiche». «Vogliamo rassicurarla», prosegue Costa, che ha bocciato il porto passeggeri a Marghera considerandolo incompatibile sia con le crociere sia con i traffici commerciali, «che l'Autorità Portuale sta lavorando ad un piano di sviluppo che punta ad una Marghera post-chimica re-industrializzata sulla manifattura leggera e sulla logistica. Non si sta limitando a pianificare, ma sta già agendo concretamente e pagando con risorse proprie il disinquinamento dei fondali dei canali portuali lagunari, la bonifica e riconversione dell'area ex Alumix di 36 ettari che vedrà operare dal 2014 un nuovo terminal traghetti dedicato alle Autostrade del Mare, la bonifica e riconversione dell'area dismessa ex Montefibre-Syndial di quasi 100 ettari che diventerà il terminal portuale e logistico a terra del terminal d'altura e la bonifica e l'ampliamento del parco ferroviario».

postilla

Due domande. A Legambiente. Sanno che l’ingresso dei Bestioni del mare dalla Bocca di Malamocco per raggiungere Porto Marghera comporterebbe l’ulteriore allargamento e approfondimento del famigerato Canale dei petroli, tra le principali cause del degrado idraulico ed ecologico della Laguna, che dal 1977 il Parlamento italiano aveva prescritto fosse drasticamente ridimensionato? Se non lo sanno, leggano, ad esempio, il piccolo saggio di Lidia Fersuoch, Confondere la Laguna, nella collana Occhi aperti su Venezia di Corte del fòntego editore. Al Sindaco di Venezia. Qual è il progetto del comune da lui amministrato per la riconversione di Porto Marghera? Oppure è intenzione sua, e dei suoi collaboratori, di abbandonare il futuro urbanistico (cioè funzionale, ambientale, sociale, economico) di quell’area nelle mani di chi ha solo una visione miope del futuro della più bella città del mondo, e considera il patrimonio naturale e culturale costruito in un millennio di civiltà soltanto come un giacimento da consumare per far fare quattrini a un pugno di privilegiati?

L'ultimo lavoro del geografo marxista Città ribelli, recentemente pubblicato in Italia, presentato e discusso al Teatro Valle di Roma, in un articolo di Benedetto Vecchi e un'intervista a Harvey di Roberto Ciccarelli. Il manifesto, 1 ottobre 2013




FORME DI VITA OLTRE L'AMBIVALENZA
di Benedetto Vecchi


Il capitale e la metropoli, un binomio che mostra le sue caratteristiche nei momenti di crisi e dunque di svolta nel regime di accumulazione. È questo il punto di avvio di David Harvey nel suo Città ribelli (il Saggiatore) che ha un obiettivo ambizioso: tratteggiare un punto di vista forte non solo sulle trasformazioni urbane, ma anche di comprendere fino in fondo il ruolo svolto dal capitale finanziario nel far ripartire lo sviluppo economico ridisegnando i rapporti sociali e di classe nelle metropoli. In una successione storica e geografica che parte dalla «Parigi capitale del XIX secolo» per passare alla Los Angeles del XXI secolo, approdando infine alla prometeica trasformazione urbana cinese degli ultimi dieci anni, il geografo americano applica creativamente la versione dei cicli economici di Giovanni Arrighi alle metropoli.

Per Arrighi, il capitale finanziario interviene nella fase discendente di un ciclo economico, quando cioè il centro dello sviluppo capitalistico perde la sua spinta propulsiva e il denaro deve svolgere un ruolo di supplenza rispetto a quelli svolti da commerci, manifattura e dallo Stato nel garantire la produzione di ricchezza. Per estensione, Harvey sostiene che la metropoli è il luogo dove il capitale manifesta la sua crisi e dove la finanza garantisce una «distruzione creatrice» di nuovi assetti urbanistici che garantiscono l'investimento di eccedenza di capitale che la «normale» produzione di merci non riesce ad assorbire. Poco interessa se tale eccedenza viene investita in una città o in un'altra sia dello stesso stato-nazione che di altri paesi. Il capitale è mobile e può facilmente spostarsi perché la controrivoluzione neoliberista ha cancellato barriere normative e confini nazionali.

L'analisi di Harvey è rilevante perché assegna alla metropoli un ruolo strategico nella gestione della crisi economica. Vengono così al pettine tutti i nodi dei rapporti sociali. La metropoli è dunque il luogo dove la produzione di merci ha il suo habitat; ma è anche il contesto in cui le classi vengono continuamente rimodellate. Non è infatti un caso che il geografo americano critichi la cultura dominante nella sinistra, sia statunitense che europea, quando assegna alla classe operaia centralità nel conflitto sociale. Sono altri i soggetti che entrano in campo nella metropoli. Possono essere donne, piccoli artigiani, professional declassati, ma non sono certo «tute blu». Si tratta di un «proletariato» che fa del diritto alla città una griglia politica per affermare diritti sociali di cittadinanza e una contestazione dell'uso capitalistico del territorio, attraverso la sperimentazione di forme di vita altre rispetto ai rapporti di potere dominanti. È su questo crinale che l'analisi di David Harvey manifesta la sua ambivalenza.
Il «proletariato» indicato da Harvey ha bisogno di una sintesi politica che non può essere certo garantita dalle forme politiche «classiche» (il partito o il sindacato). Da qui l'invito a lavorare per una Comune del XXI secolo. Nulla da obiettare, così come è convincente la sottolineatura della «precarietà» come condizione sempre più generalizzata delle relazioni tra capitale e lavoro vivo.

Ciò che merita di essere discusso è la progressiva trasformazione della metropoli in un conclamato habitat produttivo dove forme di vita, riproduzione della stessa forza lavoro sono diventate attività lavorativa o processi di valorizzazione del lavoro vivo. Il richiamo alla formula del «comune» non ha nessuna eco esotica, bensì è la realtà del moderno regime di accumulazione. Da questo punto di vista, la centralità è da assegnare al lavoro vivo, perché la metropoli è un caleidoscopio di produzione immateriale (high-tech, ma anche le imprese che gestiscono la riproduzione della forza-lavoro dopo la privatizzazione del welfare state) e produzione materiale. La finanza, in questo caso più che ruolo suppletivo svolge un ruolo di governance dello sviluppo capitalistico.

Non è certo la prima volta che il capitalismo vede all'opera questo protagonismo della finanza. È accaduto nel settore high-tech, dove il capital venture assieme alla funzione normativa dello stato ha consentito la cosiddetta «rivoluzione del silicio». Sta accadendo nel bio-tech, dove la finanza e le norme della proprietà intellettuale sono gli strumenti di governo di un settore produttivo - le biotecnologie e le «tecnologie della vita» - che cresce in concomitanza proprio con la dismissione del welfare state. È la regola per quanto riguarda le trasformazioni urbane.

La posta in gioco, allora, è la riappropriazione del comune, che non coincide solo con l'accesso al comune e degli spazi pubblici, ma anche con lo sviluppare forme di produzione alternative a quelle dominanti. La dimensione politica non sta, quindi, solo nella ricerca di una forma organizzativa adeguata e che non ripercorri i sentieri già battuti in passato, ma nello sperimentare un comune politico che valorizzi le differenze della forme di vita presenti nella metropoli. In fondo, sciogliere le ambivalenza altro non vuole dire che costruire proprio una Comune, interrompendo così il tempo di vita del capitale.

IL BUON DIRITTO ALLA COMUNE
intervista a David Harvey di Roberto Ciccarelli

«È come un grande terremoto preceduto da piccoli traumi quello che apre spazi come il teatro Valle, ma anche altrove, nelle fabbriche recuperate o nell'attivismo nei quartieri» afferma il geografo David Harvey, tra i più ascoltati intellettuali marxisti nel mondo. Parole che stridono con la campagna de Il Messaggero e Il Corriere della Sera contro il Valle. Gli attacchi, anche personali, sono ricominciati il 18 settembre scorso quando il Valle occupato ha presentato la sua fondazione, finanziata con 250 mila euro da cittadini e artisti, risultato della scrittura collettiva di uno statuto che rende il teatro un «bene comune», in altre parole un'istituzione dell'auto-governo. Per i quotidiani, invece, il teatro sarebbe stato «privatizzato» da una «minoranza», un'accusa che viene formulata contro tutte le occupazioni, e non poteva mancare anche nel caso di un teatro che è diventato un simbolo. Il punto di vista di Harvey, frutto dell'assidua frequentazione delle città globali, è utile per smontare questa campagna politica. Per usare un'espressione cara al geografo americano, quello del Valle è uno dei sintomi della «lotta di classe» che si svolge nelle «città ribelli», titolo del suo ultimo libro pubblicato in Italia da Il Saggiatore (manifesto, 12 settembre).

La conversazione è avvenuta nel foyer del teatro affollato da centinaia di persone, durante una pausa del seminario sulle «lotte spaziali». È stato organizzato dal gruppo di ricerca Oecumene project, insieme al Valle, e ha visto partecipazione di filosofi, ricercatori, artisti e attivisti provenienti da tutta Europa. «Stiamo assistendo a una rivoluzione urbana - continua Harvey - Nelle città ci sono sempre eventi che spingono le persone ad aggregarsi credendo di poterla cambiare e di combattere potenti forze politiche e economiche».

Quali sono le ragioni di questa rivoluzione?Quello che trovo interessante nelle città contemporanee è l'esistenza di un enorme numero di spazi pubblici dove il «pubblico» viene negato oppure regolato in maniera restrittiva. Ad essere negata molto spesso è la libertà di movimento, la libertà di incontrarsi, di fare un'assemblea. Avere spazi aperti è molto prezioso per chi vuole riportare tale libertà nella città ed estenderla ad un progetto politico più ampio che per me resta la lotta contro il capitalismo e a favore del popolo. Questa è una costante in molte città dove esistono movimenti simili a quelli che si vedono a Roma. È un segno che lascia ben sperare.

Lei sostiene che questi movimenti esercitano un «diritto alla città». In cosa consiste?Il diritto alla città non significa avere semplicemente il diritto a ciò che esiste in una città. Riguarda il potere di trasformarla insieme alla vita delle persone che ci vivono. La maggior parte delle città sono dominate da poteri economici e finanziari, da signori del denaro che detengono un enorme potere. Questi movimenti cercano invece di esercitare un potere in nome di un diritto a una città alternativa, fondata su buone relazioni sociali, sulla giustizia sociale, su una società ecologicamente equilibrata e stabile. Accanto a queste rivendicazioni ne esistono molte altre e sono utili per ricostruire un'altra immagine della città rispetto a quella tramandata da duecento anni di storia del capitalismo.

Il capitalismo ha rivoluzionato l'urbanistica della città. In che modo il neoliberismo, che è stata una svolta di particolare rilievo in questa storia, l'ha condizionato negli ultimi trent'anni?
A mio avviso l'urbanizzazione è stata sempre un progetto di classe. Un progetto che ha concentrato una grande ricchezza e altrettanto potere nelle mani di élite molto piccole. Queste persone hanno espropriato la maggioranza della popolazione della capacità di contribuire alla vita urbana in un modo diverso. Il progetto ha svuotato in molti modi la città dalla sua libertà, sostituendola con gli spettacoli, con il turismo, con il consumismo in eccesso rispetto ai bisogni sociali che non vengono considerati nella maggior parte delle grandi città nel mondo. In questo modo si è persa l'idea della città intesa come un organo politico che permette la raccolta di diverse cittadinanze. Tutto è stato mercificato e messo nelle mani dei calcoli dei manager. Marx ha detto una volta che il denaro distrugge la comunità e la trasforma nella comunità del denaro, proprio com'è diventata oggi la città. Per questo bisogna ripensarne un'altra a partire dalle persone e non dai profitti.

Lei descrive un «nuovo proletariato» che vive e lavora nella città. È composto tra l'altro dai precari, dai lavoratori autonomi, ad esempio. Qual è il suo ruolo nella trasformazione globale in atto?
Questo proletariato ha un ruolo molto importante e grandi potenzialità. Il problema semmai è della sinistra che si è sempre concentrata sull'idea del lavoro fabbrica e sulla centralità della sua rappresentanza. Da tempo si lamenta della sua scomparsa, anche perché sente di avere perso il cuore del suo progetto politico. Ma se si viene in un posto come questo (Il Valle, n.d.r.) e si entra a contatto con l'attivismo della specie che si vede qui, sono molti gli elementi che lasciano credere nell'esistenza di un altro progetto politico che consiste nel rivendicare il diritto alla città, alla sua riorganizzare e alla sua trasformazione.

Quali le principali caratteristiche di questo progetto politico?I
l proletariato è sempre stato impegnato nella produzione e nella riproduzione della vita urbana. Nella sua storia sono emersi diverse politiche. Antonio Gramsci, ad esempio, ha teorizzato i consigli di fabbrica. Ma quando si pose il problema di potenziare l'organizzazione politica, riconobbe la necessità di associarli all'organizzazione dei quartieri o del vicinato. Questa idea di organizzazione non raccoglie solo le sezioni della classe operaia, ma può catturare tutte le classi lavoratrici. Il progetto consiste nel fare cooperare questa diversità sociale attraverso l'attivismo di prossimità (neighborhood activism) che oggi include gli impiegati di banca, gli spazzini, i tassisti e tutti coloro che producono e riproducono la vita. Se riuscissero ad organizzarsi, si potrebbe bloccare un'intera città.

Come accadde nel 1990 a Los Angeles con «Justice for Janitors» o a Chicago nel 2006 con lo sciopero dei lavoratori migranti durato un'intera giornata?
Esatto, proprio così. Se la sinistra seguisse l'idea di Gramsci di organizzarsi nei luoghi di lavoro come nei quartieri, si creerebbe un potere duale. Dal punto di vista storico a me interessa capire come e perché le lotte nelle fabbriche hanno vinto. Quando è accaduto è stato perché avevano ricevuto l'appoggio dei quartieri. Riorganizzare in questo modo la vita di chi lavora nei luoghi della produzione con la vita della popolazione cittadina, sarebbe un cambiamento drammatico per il funzionamento attuale della politica.

E in che modo cambierebbe?Dobbiamo veramente ripensare il modo in cui ricostituire i movimenti politici dal basso verso l'alto. La vita urbana è la forma centrale dell'attivismo politico ed è la portatrice di una potenziale rivoluzione. L'obiettivo non è solo l'accesso ai mezzi di produzione, che è molto importante, ma anche la conquista dell'accesso alla città. Il soggetto e l'oggetto di queste azioni restano, a mio avviso, la produzione e la riproduzione della città. Oggi esistono molte organizzazioni che si propongono di farlo insieme alle popolazioni. Sono strutture che assumono anche la forma di sindacati, sebbene usino spesso altre forme.

Quali, ad esempio?
Sono molte, anche radicali, e si ispirano ai diritti umani. Li usano per evitare la legislazione che definisce le condizioni per organizzare e far funzionare un sindacato. Molto spesso queste leggi escludono diverse categorie di lavoratori, come ad esempio il precariato. Questo accade in molti paesi. Si tratta di nuove forme organizzate che agiscono come i sindacati, anche se non sono come i sindacati tradizionali. Credo che siano il sintomo di un movimento globale in cui politica non riguarda più il partito politico tradizionale, né il modo classico di fare sindacato. Un esempio è senz'altro quello del teatro Valle che si è dotato di una fondazione. Ciò permetterà di creare una nuova istituzione che esprime un potere diverso nella città. Non credo che qualcuno ci abbia pensato prima. Avverto l'esistenza di una grande creatività che sta cambiando davvero le cose.

Quali sono i rischi che corrono questi movimenti?Nel mondo anglosassone c'è sempre il pericolo di tornare nel solco dei modelli dominanti che spingono queste esperienze a diventare «Organizzazioni non governative» convenzionali oppure fondazioni di beneficenza. Ma credo che le persone siano molto consapevoli di questo pericolo, perché sentono di far parte di un movimento di avanguardia che non mira semplicemente ad essere istituzionalizzato, ma che vuole cambiare la città.

Riferimenti

In cima alla homepage c'è un'ampia finestra sensibile. Se ci scrivete David Harvey e cliccate sulla piccola lente d'ingrandimento a destra si apre un elenco di articoli di o su quell'autore.

Sul documentario Sacro GRA vincitore a Venezia, si sono accumulate varie recensioni, tutte legittime, ma che non colgono il punto secondo il metodo e la prospettiva "psicogeografica". Intervento nel dibattito sul film di Rosi

C'è una cosa che si chiama urbanistica, in senso lato, ed è uno sguardo più o meno analitico, più o meno sistematico, sul territorio modificato dall'uomo. Uno sguardo che ha come obiettivo la conoscenza, a volte la trasformazione, sempre la consapevolezza di quanto la nostra interazione con l'ambiente l'ha modificato, plasmato, a volte stravolto e irrimediabilmente devastato.

C'è un'altra cosa, magari parallela ma del tutto diversa, che si riassume nel concetto di psicogeografia, e che possiamo più o meno descrivere come il tentativo (analogo ad altri delle avanguardie artistiche) di leggere la modernizzazione nei suoi effetti sullo spazio urbano e territoriale, prescindendo dalla sua fisicità. La psicogeografia “studia le correlazioni tra psiche e ambiente, assumendo caratteri sovversivi nei confronti della geografia classica e ponendo al centro dei suoi scopi la ri-definizione creativa degli spazi”.

Non mi dilungo sul tema, rinviando il lettore al solito giro sui motori di ricerca, ed eventualmente su scaffali di biblioteca. Solo vorrei sottolineare come questa prospettiva psicogeografica, che si esprime almeno dagli anni '70 correntemente nel nostro linguaggio con la pratica della “deriva metropolitana”, sia stata utilizzata per confrontarsi direttamente con un paradigma della pianificazione territoriale moderna, ovvero il Greater London Plan di Patrick Abercrombie, e più in generale il concetto di equilibrio città/campagna espresso dalla teoria delle greenbelt e delle città satellite., così come tradotto in realtà nel '900.

Questo lavoro psicogeografico, mutuato anche dallo sguardo fantascientifico di James Ballard, si è sostanziato nel notissimo London Orbital, di Iain Sinclair, di cui in Italia esiste non solo una ricca edizione dotata pure di Dvd (Il Saggiatore, 2008), ma anche un dichiarato, semiserio plagio-omaggio di ambientazione milanese, con Tangenziali, di Gianni Biondillo e Michele Monina (Guanda 2010). Per uscire un po' dalla pedanteria dei riferimenti e precedenti, una breve e quasi conclusiva puntualizzazione: L'approccio psicogeografico agli anelli autostradali metropolitani contemporanei si confronta prevalentemente con il fallimento della pianificazione, intesa come pretesa di governare l'equilibrio fra cittadini e territorio, nella città moderna. Non ha alcuno scopo di denuncia, diretto o indiretto, e anzi individua le varie mutazioni indotte dai nuovi equilibri come stimolo ad altri sguardi e derive.

Ecco: nessuno dei (numerosissimi) recensori italiani di Sacro GRA, prima o dopo la vittoria a Venezia del Leone d'Oro, pare cogliere i due aspetti complementari, da un lato dei riferimenti alla cultura artistica internazionale del regista Rosi, dall'altro dell'applicazione di un metodo e prospettiva consolidati abbastanza casualmente all'anello autostradale romano. A parte il balzo cosmico del presidente della giuria di Venezia Bernardo Bertolucci, che ha paragonato il GRA inquadrato da Rosi direttamente agli Anelli di Saturno, il resto della critica si è soffermato sul contesto locale romano, citando al massimo il libro dell'urbanista Nicolò Bassetti (Sacro GRA, Lungo il Grande Raccordo Anulare, con Sapo Metteucci, Quodlibet 2013), uno dei suoi ispiratori Renato Nicolini, o peggio la canzone di Antonello Venditti e il suo imitatore Corrado Guzzanti.

Buoni ultimi, coloro che - ripeto legittimamente ma ancora una volta senza citare o cogliere o quantomeno intuire il mainstream alla base dell'opera – ne cavano l'ennesima denuncia di degrado del territorio, cementificazione, alienazione e compagnia bella. Tutte cose sacrosante e che confermano il classico percorso di un'ottima opera d'arte complessa, leggibile in tante prospettive, ma ne ignorano, sistematicamente, le radici. Eppure basterebbe sollevare lo sguardo: lo sanno tutti che gli anelli autostradali ci sono più o meno da quando hanno inventato le automobili. Non si fa un gran favore neppure a Roma e ai suoi problemi, leggendo in una prospettiva così angusta ed esclusiva quel documentario.

(nota: ho provato alcune settimane fa ad esprimere con qualche particolare in più il medesimo punto di vista su Mall, suggerendo lo stesso percorso da Abercrombie a Venditti)

Non ho visto il film, ma intanto giudico questa una efficace recensione al Grande Raccordo Anulare, maestro di scempi del territorio là dove questo non è governato dalla pianificazione, strumento di una visione olistica, ma dagli interessi e dalle visioni settoriali. Luigi Piccinato definiva gli autori di quel prodotto territoriale “gli ingegneri anali”, certo in riferimento alla azienda di appartenenza. Dinamopress, 30 settembre 2013

Un film? Un documentario? O piuttosto un invito alla rassegnazione urbana?

In un punto che non sono riuscito a riconoscere il Grande Raccordo Anulare taglia, sovrastandola, una sinuosa pista dove scorrono velocissime automobiline telecomandate. Una serpentina di curve che, rincorrendosi, non spezzano il folle ritmo di quei bolidi. Il contrario di quello che avviene sopra. Qui le colonne di auto procedono lentamente in attesa di trovare come “tirarsi giù”da quell’anello di asfalto imposto, nell’immediato dopoguerra, alla città e fuori da ogni logica urbanistica, dall’ allora rinata Associazione nazionale strade (Anas). Un pesantissimo lascito a segnare per sempre il destino urbanistico di Roma e il proprio espandersi a macchia d’olio.

Non è però all’urbanistica, al comporre il disegno della città (almeno non direttamente), che guarda il Sacro GRA, la pellicola di Gianfranco Rosi vincitrice quest’anno del Leone d’oro della Mostra del Cinema di Venezia. Più che a quell’infrastruttura circolare, che accompagna alla semplicità del proprio tracciato la difficoltà di individuare i punti in cui quella strada entra nel tessuto urbano, Rosi sembra piuttosto domandarsi come un anello, che sembra fatto per percorrerlo senza fermarsi mai, abbia saputo farsi “territorio”.

I potenti signori dell’Anas battezzarono il Raccordo come “autostrada urbana”. Di fatto un ossimoro. Come può un largo nastro d’asfalto (l’autostrada) farsi largo nel tessuto compatto di una città costruita nel tempo: prima dentro le mura e, poi, con una marmellata di case, addossate le une alle altre con insufficienti strade (l’urbano, spalmate tra le vie consolari)? Girandogli intorno. Questo è quanto è stato fatto e, anche questo, ha segnato il primato del trasporto automobilistico privato come elemento principale del muoversi in città.

Solo che, a differenza del Grande Raccordo, che nel tempo prima si è saldato e poi si è andato facendo sempre più largo, la città, Roma, ha subito un metabolismo diverso. Fatto, certo, di aberranti forme di ingrassamento, figlie del processo bulimico della rendita, ma soprattutto facendo dell’urbanizzazione, e quindi della costruzione della città, la struttura principale dell’accumulazione capitalistica.

Il Grande Raccordo Anulare misurabile in termini di chilometri è invece immisurabile. In questa parte della metropoli perde (ma lo è mai stato?) il suo essere un elemento dimensionale, un limite (come le mura), un confine (non individua un dentro e un fuori), un essere lontano e un essere vicino in una città in cui la periferia non è mai stata capace di costruirsi come un’alternativa reale al centro storico. E’ un oltre. Un’ “astrazione“ come ci raccontava Renato Nicolini . Un segno artistico “senza nessun collegamento, dove gli snodi in cui le consolari attraversano il GRA non hanno motivo di essere, tranne l’assolutezza del cerchio”. Una “ macchina celibe , forse - ancora Renato - qualcosa di grande forza simbolica- continuazione ideale della cupola di San Pietro, ma anche, del tempietto di San Pietro in Montorio del Bramante”.

Un ritratto esatto. Il GRA poggiando sul territorio dell’oltrecittà, dice molto di più delle storie (delle vite) che incontra, diventa il simbolo di come il capitale finanziario costruisce la città scippando le trasformazioni urbane a chi materialmente le produce e privando chi è condannato a vivere in questo abitare di ogni diritto alla città. Il GRA è il simbolo dell’Oltrecittà, quella parte del proprio territorio dove Roma è diventata metropoli perché lì, ma non solo, è iniziata a pensarsi come luogo dove far coesistere le trasformazioni territoriali e quelle istituzionali.

E’ lì che si sommano gli immobili invenduti perché si vuole ogni cittadino indebitato per il resto della vita, ma anche con questo non avrà casa; è lì che i padroni dei “residence” succhiano soldi (tanti) al Comune per riciclare, in case dalle cento finestre corrispondenti ad altrettanti monolocali, le tante famiglie buttate sulla strada magari da quelle stesse case fonte dell’indebitamento; è lì che si costruiscono i recinti “ sicuri” in cui ci si accorge che si ha paura ad abitare in schiere edilizie circondati dall’isolamento sociale, è lì che si costruisce il disprezzo per le “periferie”, per chi le abita, per chi le attraversa; è lì che si torna elezione dopo elezione per dire che finalmente è pronto qualcuno a rappresentarti. E’ in questo magma che il film si cala, costruendo non una storia, ma sommandone alcune.

Solo che, tutte, sembrano avere in comune una sorta di rassegnazione. Lo è quella della ragazza, che vive con il padre in un monolocale, che aspetta che qualcosa accada; lo è quella di chi, sempre nel medesimo residence, rimpiange la casetta del campeggio dove era stata ospitata; lo è quella del sedicente convintissimo principe che affitta per location di set per fotoromanzi (esistono ancora?) una residenza costruita intorno una vasca da bagno dorata, lo è quella della ragazza che balla sul bancone di un bar (attenta a non sbattere la testa su una trave che, anche con le riprese fatte dall’esterno e la sapiente colorazione di Luca Bigazzi, riporta quel locale più che al “Nightawks” di Hopper alla trascuratezza costruttiva di un ingegneraccio romano) decisa a fare a meno del “rossetto rosso che la fa tanto troia”; lo è il pescatore di anguille che sta lì in una casa sul fiume come “mio padre e mio nonno” che ci fa capire, sbeffeggiando il “sapere” di chi si occupa delle sue stesse cose aggravato dal fatto di trovarselo scritto su di un giornale, il senso vero del film: andare a vedere chi ha rinunciato all’abitudine delle relazioni.

L’oltrecittà è metropoli, il luogo dove è più alta la forma di resistenza alla privazione del plusvalore prodotto dall’attività del comune. Nel cerchio del GRA di Rosi non c’è traccia . Ad accorgersene a suo modo è il cacciatore del “punteruolo rosso” che ha capito che per salvare le palme deve riuscire ad ascoltarle. C’è bisogno di ascolto. Lui lo fa con violenza forte della sua “missione”. L’unico a provarci è forse il barelliere con la sua giornata in cui, non per mestiere, mette in pratica esercizi di cura verso gli altri: asciuga le mani dell’anziana mamma preda ad una forma di perdita senile di memoria, le tira fuori i gorgoglii di quand’era bambina, fa lo stesso, aiutandosi con garze e fazzolettini, togliendo il sangue dal volto verso chi raccoglie dopo un incidente, ma non trova nessuno che mostri attenzione a lui. Così per avere compagnia mangia parlando con una ragazza pescata in un collegamento Skype con il computer infilato tra piatto e bicchiere.

Tutti i protagonisti del film, personaggi reali, che sullo schermo interpretano se stessi e le loro storie di ordinaria rinuncia, sembrano riciclare intorno quell’anello un abitare che non hanno mai avuto. Che sono decisi a rinunciare ad avere. Costretti a scegliere (ed accettare?), come sono: se in quei pochi metri quadri mettere un tavolo o un letto o, quando c’è la necessità di tutti e due, optare per la soluzione del letto a castello; a ricevere dalla città quale esclusivo elemento di spettacolo solo traffico; a stupirsi di vedere un segno urbano (ringraziare?) che “comunque il cupolone si vede anche da qui; ad assicurare ( quindi tutto funziona ?) che quella strada gira e rigira, ma trova sempre, se hai un incidente, come portarti all’Ospedale; che affittando stanze puoi tirar su i soldi e continuare a compiacerti della pergamena che elenca i tuoi “titoli”; che da solo puoi, non tanto salvare una palma, ma far valere le “tue ragioni” che tu si che….; che puoi continuare a vendere il tuo corpo con la libertà di scegliere di farlo a casa tua e, quindi, alzare il prezzo; di parlare di vini e di viaggi che non hai mai fatto, ma che devono essere certo descritti in qualche libro che forse hai letto…..

Percorrendo l’Oltrecittà solo pochi anni prima (il progetto ancora continua) gli Stalker (gruppo interdisciplinare di esplorazioni urbane) hanno saputo trovare e riportare sulla scena urbana altre storie. Persone e comunità resistenti, conflitti e progetti di trasformazione, saperi e lavori , affetti, lotte e sogni. Sempre, girando a piedi intorno lo stesso anello, ovunque incontrando in tutti (e fornendo a chi li ha accompagnati in questi anni di viaggio) la consapevolezza di essere lì dove viene rivendicato il diritto alla città.

L’occhio di Rosi pare non volersene accorgere preferendo sezionare la vita degli “altri” quasi con intento divulgativo. E’ casuale che faccia parte del gruppo di produzione il medesimo produttore (Marco Visalberghi) che da sempre segue le incursioni televisive di Piero Angela?

Solo qualche mese fa lo Gianfranco Rosi ci ha consegnato una preziosa “anteprima”; una sorta di “prologo”al suo lavoro, in cui Renato Nicolini ripreso in un viaggio sul GRA in un camper, ci raccontava una Roma diversa, perché sapeva che a quell’anello comunque erano aggrappati, o sfiorava, tanti “ futuri possibili”. Gianfranco Rosi, con straordinarietà, è riuscito in quell’occasione a farsi complice di Renato nel farci capire che il futuro a cui lui faceva riferimento era quello anteriore: il tempo in cui pensiamo all’oggetto del nostro interesse come realizzato anche se ancora ciò non è avvenuto. Renato sapeva che il dominio del capitale finanziario ci avrebbe stretto intorno questa città, ma che saremo stati capaci ( avremo lottato) per liberarsene.

Non ho “individuato” il posto dove il GRA seziona le piste de minibolidi, ma ho ben riconosciuto, per averla progettata qualche anno fa, una piazza ritagliata all’interno di una zona di edilizia popolare. Lasciata alla più completa assenza di ogni forma di manutenzione è oggi quasi una miniforesta. Vedendo che non ci sono però elementi di degrado o di rottura delle sedute o delle pavimentazioni mi pare di capire che chi quella piazza usa, anche lasciando crescere il verde, non ha rinunciato a far morire uno spazio di libertà dal cemento. Intorno al GRA nell’oltrecittà il viaggio continua.

Grazie all’iniziativa di Indiana Jones e alla tenaciadella lotta della popolazione locale restituite al popolo le foreste commercializzate dallo stato e trasformate da foreste tropicali disetanee in fabbriche d'olio di palma, con pesanti ricadute sul clima globale. LaRepubblica, 30 settembre 2013

Quando la Gazzetta ufficiale della Repubblica indonesiana ha pubblicato la sentenza della Corte costituzionale sui diritti degli indigeni delle foreste, Harrison Ford ha letto il testo con la curiosità tipica del suo Indiana Jones.E ha scoperto che nel grande arcipelago islamico il governo di Giakarta aveva sfruttato illegalmente per 40 anni milioni di ettari di terre delle popolazioni autoctone che non gli appartenevano.

Durante l’intervista per un documentario della tv americana, il ministro delle Foreste indonesiano Zulkifli Hasan si è trovato così incalzato dalle domande dell’attore sugli abusi di cui Ford era stato testimone a Sumatra, e ha reagito con una tale stizza da farlo minacciare di deportazione immediata. Il risultato è che da quel giorno la sentenza, passata nel silenzio quasi generale, è oggi sulle labbra di tutti.

In pratica l’Alta Corte ha accolto gli esposti di diverse tribù raccolte dall’Associazione nazionale del Popolo indigeno, che rivendicavano per gli abitanti originari e le comunità tradizionalmente legate alla vita della foresta il dirittodel suo utilizzo e sfruttamento. Milioni di ettari di giungla, poco meno di un terzo del totale, hanno perso d’un colpo lo status di “foresta dello Stato” per diventare “giungla ancestrale”, quindi non più soggetta alle leggi demaniali e ai profitti delle vendite e delle concessioni da parte del governo centrale e di quelli regionali o provinciali, bensì a quelle di capi tribù e dei consigli di villaggio. È un affare colossale, considerando che le sole tasse per l’esportazione dell’olio delle palme — piantate al posto delle foreste pluviali — porta alle casse dello Stato oltre 6 miliardi di dollari l’anno, l’11 per cento dell’intero ricavo dell’export. Se troverà applicazione pratica, la sentenza può costituire un precedente storico anche per Paesi come l’India, la Malesia e molti altri, e assesta un colpo micidiale all’intero castello di interessi costruito in 40 anni dal governo di Giakarta che domina da Giava le risorse naturali di tutte le altre 18000 isole dell’arcipelago. In particolare diventa automaticamente incostituzionale la famigerata “Legge delle Foreste” implementata dieci anni fa dal governo e «usata come strumento — si legge negli esposti accolti dalla Corte — per espropriare i diritti delle genti indigene sulle loro terre», ovvero i luoghi “ereditari in natura” dove hanno vissuto gli antenati degli attuali residenti secondo i principi etici, culturali e religiosi della tribù.

Non a caso i giudici hanno sottolineato il fatto che «le popolazioni indigene esistevano ben prima della nascita della Repubblica indonesiana», come testimoniano antichi cimiteri, sorgenti dai nomi di antiche lingue, totem degli antenati e perfino templi induisti e buddhisti sopravvissuti all’islamizzazione.

Uno degli effetti più macroscopici dello sfruttamento statale su terre spesso considerate sacre e inviolabili, dove vivono specie animali rare come gli oranghi del Borneo e le tigri di Sumatra, sono stati i tagli sistematici degli alberi e l’incendio del sottobosco e delle torbiere. Ogni anno se ne vanno in fumo infatti giganteschi pezzi di polmone verde di questa delicata Amazzonia dell’Est. Al loro posto sono sorte distese a perdita d’occhio di palme da olio che portano una certa ricchezza ma provocano un aumento dei gas letali per l’effetto serra, a causa del mancato rilascio di ossigeno dovuto al taglio degli originari alberi della pioggia. Senza contare il surriscaldamento dovuto agli incendi per “ripulire” dalla giungla primordiale il terreno destinato alle nuove piantagioni, con dense colonne di fumo e spesse coltri di nubi miste a cenere che raggiungono in certe stagioni la Malesia, Singapore e il Sud della Thailandia. Secondo Greenpeace,tra il 2009 e il 2011 le palme da olio sono state la principale causa della deforestazione, piazzando l’Indonesia al primo posto nel mondo con metà della produzione globale.

». Altreconomia.info, 28 settembre 2013

"Se picchi emotivi di rabbia indignata non lasciano spazio alla rassegnazione, c'è ancora spazio per resistere alla devastazione del territorio". In occasione del “digiunoperlambiente promosso il 28 e 29 settembre da numerosi comitati veneti contro Grandi opere e Project Financing, Ae intervista Francesco Vallerani, geografo dell'Università Ca' Foscari e autore di Italia desnuda. Percorsi di resistenza nel Paese del cemento






«L'Italia sarà sempre più desnuda se, dopo i picchi emotivi di rabbia indignata, il disagio di vivere tra i cannibali del paesaggio si tramuterà in rassegnazione» scrive Francesco Vallerani presentando il suo libro, Italia desnuda. Percorsi di resistenza nel Paese del cemento (Edizioni Unicopli, 2013).
Vallerani, che insegna Geografia all'Università Ca' Foscari-Venezia, è veneto, ed il Veneto - un paesaggio che ha subito negli ultimi decenni eccessive trasformazioni- è l'ambito privilegiato dei suoi studi.

E poiché i processi di cementificazione non paiono destinati a fermarsi, il 28 e 29 settembre numerosi comitati veneti (cittadini che non si rassegnano, e coltivano la propria indignazione) hanno scelto di lanciare un messaggio contro le grandi opere, digiunando contro “la devastazione del territorio”. È un "digiunoperlambiente che - secondo Vallerani- rappresenta “una strategia valida per tenere alta l’attenzione sulla necessità assoluta di salvare il salvabile, e bloccare una volta per tutte la corsa folle verso l’accaparramento di ciò che ancora resta di preziose risorse territoriali”. 



Nel tuo libro, evidenzi il rischio di "noncuranza", "assuefazione", di una "indifferenza che placa i disagi" di questa invasione del cemento. In che modo il "digiuno a staffetta" -promosso al termine dell'iniziativa "solitaria" di Don Albino Bizzotto - rompe questo stato di cose? Che effetto può avere?


«Noncuranza è figlia dell’indifferenza, che va di pari passo con la superficialità con cui si affronta ogni aspetto della vita quotidiana, accontentandosi di spiegazioni semplificate e senza alcun interesse per un percorso esistenziale consapevole. Questo è uno dei frutti velenosi diffusi ampiamente nei decenni di videocrazia in cui siamo immersi, regime che senza manganelli e olio di ricino ha distratto e addormentato le coscienze, lasciando ampio spazio a una progressiva erosione e impoverimento delle regole necessarie alla convivenza civile. L’invasione del cemento, con tutte le sue devastanti tipologie, è uno degli esiti più appariscenti di questo elogio delle strategie per l’arricchimento individuale.

«Le conseguenze del disastro sono di fronte agli occhi di tutti e la politica, tenuta in scacco dagli immensi interessi immobiliari e delle grandi opere, si è rivelata incapace di governare l’evolversi della territorialità.
Se le leggi non servono, poiché trionfa il meccanismo delle deroghe e degli abusi, non restano che le azioni di elevato valore evocativo e simbolico, come la straordinaria scelta del digiuno di Don Albino, quanto mai opportuno e benefico sasso lanciato nel maleodorante e torbido stagno dell’indifferenza pubblica e privata. Dopo la risonanza mediatica del singolo fatto, fa piacere notare la reazione dei cittadini di buona volontà che nonostante tutto riescono a sopravvivere in una regione come il Veneto. L’indignazione e il disagio che ho potuto rilevare è causato non solo dalla colpevole latitanza delle istituzioni - che non hanno vigilato sul pregio di importanza globale dell’ex paesaggio palladiano, consegnandolo ai posteri sotto forma di una sgangherata accozzaglia di obbrobri edilizi, con inoltre aria e acque seriamente contaminate -, ma anche dai nuovi scenari previsti in un immediato futuro, fatto di nuove infrastrutture viarie, nuove e pervasive edificabilità, contaminazione definitiva dei paesaggi più attrattivi».



Per quale motivo, a tuo avviso, il Veneto -che è stato un esempio di urbanesimo per il nostro Paese- è diventato oggi un paradiso per capannoni? Perché sta accadendo questo, intorno ai centri storici e alle Ville palladiane, che sono un Patrimonio dell'umanità Unesco?

«In Veneto le popolazioni hanno trovato, fin dai tempi della colonizzazione romana (basti pensare alla intensa distribuzione di agri centuriati, ancora oggi facilmente visibili tra Padova, Treviso e Mestre) ottime condizioni ambientali per un vantaggioso insediamento, per lo più collegate alla fertilità dei suoli, all’abbondanza di acque, sia per l’irrigazione che per i trasporti verso il litorale, e di boschi.
Inoltre, la distribuzione sparsa delle abitazioni, raramente aggregatesi in villaggi compatti, si consolida in età medievale con una fitta distribuzione di pievi rurali, attorno a cui si aggregano le prime unità di villaggio. Queste costituiscono una fitta rete di relazioni legate al mondo rurale, da cui emergono numerose polarità di importanza strategica -soprattutto nel periodo di frequenti conflitti tra i liberi comuni di Verona, Vicenza, Padova e Treviso-.
 Centri che sono ancora oggi delimitati da importanti cinta murarie (Cittadella, Montagnana, Soave, Este etc.). 
L’eredità storica di case sparse e città murate sono simboli tuttora indelebili di spiccato individualismo e di chiusura contro l’altro, per cui fin dalle origini prevale il proprio tornaconto o quello di una comunità ristretta rispetto al bene comune. Il mancato rispetto dei contesti attorno ai centri storici e alla maggior parte delle ville di età veneta ha inoltre a che fare con le condizioni di profonda miseria e ignoranza, e soprattutto con le politiche nazionali che non sono riuscite a capire che l’emergenza del primo dopoguerra si era esaurita alla fine degli anni ’50, anche tra gli ex poveri emigranti veneti.
È mancata una guida urbanistica, ma soprattutto etica, con gravi responsabilità anche da parte della Chiesa, che non ha per nulla rallentato la china rovinosa verso l’insaziabile rincorsa al benavere, travolgendo ogni valore e sacralità del creato, deviando invece verso la nuova religione del denaro e del successo economico. Ecco perché è perfetta la definizione di “paradiso per capannoni”».



In "Italia desnuda" evidenzi come, da Calvino a Settis, il mondo della cultura abbia avuto un ruolo fondamentale nel descrivere il paesaggio e le sue trasformazioni a partire dagli anni Cinquanta. Se è vero che Antonio Cederna riuscì a far istituire il Parco dell'Appia antica, per quale motivo credi che oggi l'effetto congiunto di indignazione intellettuale ed "azione popolare" non producano gli stessi effetti?

«Il caso di Cederna e del parco dell’Appia Antica è più unico che raro: tutte le altre voci che si sono levate in difesa del paesaggio italiano tra gli anni ’50 e ‘60 hanno avuto poco esito, salvo il caso della legge di tutela dei Colli Euganei, nel 1971, che ha bloccato il prelievo di trachite dagli splendidi poggi amati e descritti da Petrarca, Foscolo, Byron e Shelley.
Oggi l’indignazione intellettuale è senza dubbio molto più diffusa, ma per incidere sull’opinione pubblica e smuovere i responsabili politici per un tempo poco più lungo di uno spot pubblicitario (è questa ormai l’unità di misura per valutare il livello di attenzione, in quest’epoca di superficialità liquida), è necessario l’intervento del personaggio molto esposto nelle reti televisive, di abilità oratoria, dotato di qualità telegenica, dunque un tipico esemplare da talk show.
Il contributo delle centinaia di altri prestigiosi intellettuali che per fortuna ancora operano in questo sciagurato Paese rimane relegato in qualche aula universitaria, nelle riunioni di comitati, in qualche libro o articolo di modesta tiratura, quasi mai recensiti dagli organi di stampa (anche i cosiddetti progressisti e democratici).

«Non resta che l’azione popolare, ma anche qui bisogna essere rumorosi (non violenti), elaborare strategie insolite, come nel caso (di enorme efficacia mediatica a livello globale) dei coraggiosi che a nuoto si sono messi di traverso alle grandi navi nel canale della Giudecca a Venezia.
Ricordo con nostalgia il generoso contributo dato da Andrea Zanzotto alla battaglia per la difesa del paesaggio veneto, producendo larga condivisione. Tale successo è stato addirittura avvallato dai vertici della regione, garantendo con retorica solennità la tanto auspicata inversione di tendenza. Le solite parole senza seguito, effimera condivisione che però mai hanno avuto seguito concreto: anche oggi il viaggio nell’entroterra di Venezia consente di riempire un ancora troppo spesso quaderno di doglianze».

La lucidità e la lungimiranza del pensiero dei Padri costituenti è inimmaginabile in una società come la nostra nella quale i beni culturali e il paesaggio «violando la legge, sono diventati soltanto merce; dove trionfa la religione del privato. Costituzione incompiuta, un libro di Alice Leone, Paolo Maddalena, Tomaso Montanari, Salvatore Settis. Corriere della Sera, 28 settembre 2013

Quando, nel 1947, l'Assemblea costituente stava discutendo sull'articolo 9 della somma Carta che riguarda la tutela del paesaggio, i giornali umoristici dell'epoca, non propriamente progressisti, andarono a nozze nell'ironizzare pesantemente, in malafede o incoscienti, su quel che significava quell'argomento focale per la vita di un Paese come il nostro. Il Travaso e poi Candido e L'uomo qualunque non lesinarono gli scherni, scrissero di ovvietà e di stupidità, come se la norma fosse una bizzarria degli uomini politici di allora. Basterebbero due film d'autore, Le mani sulla città di Francesco Rosi e Il ladro di bambini di Gianni Amelio, se non esistessero le ragioni della Storia, della Cultura e della Politica pulita a mostrare quel che è successo dopo e far capire com'era essenziale nell'Italia distrutta dalla guerra l'articolo 9 della Costituzione. Anche oggi non ha perso nulla della sua attualità.

Quattro autori — Alice Leone, storica; Paolo Maddalena, giurista; Tomaso Montanari, storico dell'arte; Salvatore Settis, archeologo, già direttore della Normale di Pisa, presidente del consiglio scientifico del Louvre — hanno firmato insieme un libro polemico e documentato, Costituzione incompiuta. Arte, paesaggio, ambiente, pubblicato da Einaudi (pagine 185, 16,50) che mette intelligentemente il dito sulle piaghe tormentose che seguitano a dilaniare un Paese disastrato, moralmente e materialmente, com'è l'Italia di oggi. Un libro che riesce a fondere la memoria di quel che accadde nel passato, con il presente e il futuro da ricostruire dopo il ventennio berlusconiano segnato dallo slogan «ognuno è padrone in casa propria».

Non era un'elegante astrazione intellettuale discutere quasi settant'anni fa del paesaggio e dell'arte come un fatto pubblico. Non fu, come scrive Alice Leone, né semplice né lineare, arrivare alla dizione dell'articolo 9. Rivolgimenti, mediazioni, scontri accesi, polemiche fuori e dentro gli schieramenti videro infatti contrapporsi interessi e scuole di pensiero. Non fu facile arrivare alla dizione definitiva: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».

Racconta Salvatore Settis, con amara nostalgia, che ci fu in Italia un tempo in cui la direzione generale delle Antichità e belle arti del ministero della pubblica istruzione poteva essere affidata a un uomo come Ranuccio Bianchi Bandinelli, «massimo archeologo italiano del Novecento e vigile coscienza della cultura europea»: la tutela delle bellezze naturali non può essere disgiunta da quella delle antichità e belle arti e deve essere sottoposta alla medesima regolamentazione legislativa, era il suo pensiero.

Sembra inimmaginabile un'idea così netta nella società dei consumi di oggi dove anche i beni culturali devono essere strumenti di «valorizzazione economica», dove — come documenta Paolo Maddalena — quei beni, violando la legge, sono diventati soltanto merce; dove trionfa la religione del privato; dove si costruisce senza vergogna, contro la volontà popolare, con l'avallo della Soprintendenza, un immenso parcheggio sotto e tutt'intorno alla più importante basilica milanese, Sant'Ambrogio; dove i prestiti selvaggi di delicatissime opere d'arte sono la regola, esportate all'estero come gingilli, utili più che altro a funzionari per i loro traffici di potere. (Pazienti viaggiatori hanno tentato più volte, per esempio, di vedere a Mazara del Vallo il meraviglioso Satiro danzante, sempre in trasferta come tanti altri capolavori, e hanno potuto esaudire il loro desiderio soltanto a un'esposizione alla Royal Academy di Londra dove il bronzo era ospite d'onore).

L'articolo 9 della Costituzione non nacque dal nulla. Il dopoguerra fu un momento fervido di riscatto e di comune visione del mondo di uomini e donne di diverse fedi e culture, dai liberali di gran nome come Benedetto Croce e Luigi Einaudi, al socialista Pietro Nenni, ai comunisti Togliatti e Concetto Marchesi al democristiano Aldo Moro all'azionista Piero Calamandrei che ebbero un ruolo essenziale nella stesura della Carta. La legge Croce del 1922 e la legge Bottai del 1939 furono il punto di partenza dei costituenti.

Tomaso Montanari spiega con chiarezza la sostanza dell'articolo 9: se la sovranità appartiene al popolo, com'è scritto nell'articolo 1, «anche il patrimonio storico e artistico appartiene al popolo. E la Repubblica tutela il patrimonio innanzitutto per rappresentare e celebrare il nuovo sovrano cui il patrimonio ora appartiene: il popolo».

Fu Concetto Marchesi, il grande latinista, a sostenere con energia la necessità di quell'articolo, voluto e difeso da costituenti di spicco. E fu Tristano Codignola a proporre con forza la parola «tutela», più completa della parola «protezione».

Che cos'è il patrimonio storico e artistico secondo gli autori del libro? «Non è la somma amministrativa dei musei, delle singole opere, dei monumenti, ma è una guaina continua che aderisce al paesaggio — cioè al territorio "della Nazione" — come la pelle alla carne di un corpo vivo».

Il libro (manca un indispensabile indice dei nomi) imposta un'infinità di problemi: la funzione delle Soprintendenze: Montanari propone una sorta di magistratura del patrimonio indipendente dalla politica; il perenne conflitto tra lo Stato e le Regioni competenti in materia urbanistica (un errore fatale dei costituenti); il consumo del suolo: l'8,1 per cento della superficie nazionale è coperta da costruzioni, la media europea è del 4,3 per cento. Dopo ogni terremoto, alluvione, disastro si piange (non per molto).
Chi deve provvedere, chi deve controllare i controllori? Lo Stato siamo noi, amava dire Calamandrei. E Bianchi Bandinelli: «Noi siamo, davanti al mondo, i custodi del più grande patrimonio artistico, che appartiene, come fatto spirituale, alla civiltà del mondo». Ce ne siamo dimenticati. Spaesati tra Imu e Iva.

In centinaia davanti a Ca’ Farsetti, fischietti, slogan e cartelli: “Giù le mani dal nostro lavoro”. E sullo sfondo un grido inespresso: “Le Grandi navi vengano a flotte, della Laguna chi se ne fotte” . La Nuova Venezia, 28 settembre 2013, con postilla

Tutti a saltellare a ritmo di slogan: «Orsoni, sindaco triestin!». «Giù le mani dal nostro lavoro». Ma anche «Silvio Testa (portavoce del comitato NoGrandiNavi, ndr) dove sei?», «Caccia e Orsoni fuori dai....». Striscioni con il classico di questi giorni «Basta bugie», «No global, No Grandi Navi vergognatevi, remate contro la nostra città». Fischietti, trombette assordanti, slogan gridati al megafono per due ore.

I “Sì-Nav” sono scesi in piazza: circa 5-600 persone - secondo le stime della Digos - tra operatori portuali, portabagagli, ormeggiatori, rimorchiatori, agenti marittimi, hostess, guide turistiche, vetrerie di Murano, sindacalisti - i dipendenti presenti hanno la giornata pagata, il porto funziona regolarmente - hanno cinto un rumoroso assedio ieri mattina Ca’ Farsetti, “incartando” di striscioni il ponte di Rialto. Non vogliono assolutamente che le navi lascino la Marittima per Marghera. Ci arrivino per il canale che Scelta Civica vorrebbe scavare lungo la Giudecca o per il Contorta dell’Angelo, che piace più al presidente del Porto Costa, ma vogliono che le navi arrivino domani dove arrivano oggi: «Basta decisioni sulla testa dei lavoratori, le crociere alla Marittima occupano oltre 5 mila persone dando da mangiare ad altrettante famiglie» e «spostare il porto dalla Marittima significa buttare via decine di milioni di euro di investimenti pubblici, a favore di chi?», si legge nel volantino distribuito. Il fronte del porto serra le fila, alla vigilia della riunione romana convocata per il 1 ottobre dal premier Letta, con i ministri Lupi, Orlando, Bray, il presidente del Porto Costa, il sindaco Orsoni e il presidente Zaia, la Capitaneria di porto. Ed è muro-contro-muro con Ca’ Farsetti. Perché se è vero - come ricorda ogni pie’ sospinto anche lo stesso presidente del porto, Paolo Costa - che a decidere sulla permanenza o meno delle mega navi in Marittima e su come allontanarle dal Bacino di San Marco dev’essere l’Autorità Marittima e non il Comune, alla fine tutti se la prendono comunque con l’amministrazione: i No-Nav sabato scorso a mollo nel Canale della Giudecca - salvagenti-umani ferma-navi - perché il sindaco ha detto che creare un porto a mare per allontanare le navi dalla laguna è fantasmagoria e i Sì-Nav, in corteo ieri, perché Orsoni caldeggia il trasferimento immediato a Marghera almeno delle navi più grandi, se non altro per dare un segnale concreto in attesa di una decisione definitiva.
Al termine dell’incontro con il sindaco - che ha ricevuto una delegazione, per una mezzora - i toni dei manifestanti sono furiosi. «Una chiusura totale», commenta Emilio Gamba, vice presidente di Venice Cruise, il comitato degli operatori portuali che ha organizzato la manifestazione, «il sindaco si tira fuori dal problema dicendo che la decisione spetta al ministero, ma vuole subito Marghera. Quello che non accettiamo è la fretta di chiudere: noi una soluzione al passaggio delle navi davanti al bacino l’abbiamo data ed è lo scavo del canale accanto alla Giudecca . A Marghera non si può andare perché non c’è nulla di nulla per accogliere i passeggeri, non ci sono strutture, niente». «Abbiamo il sindaco Noglobal», tuona Igor Tomasini, presidente dei portabagagli, «che gli dico alle 170 persone che lavorano con me e che con mille euro al mese sfamano la loro famiglia, che resteranno senza lavoro? Perché portare le navi a Marghera significa uccidere le crociere: siccome la politica ha tempi lunghi per prendere la decisione di scavare un canale, alla fine a rimetterci dobbiamo essere noi?». In un durissimo comunicato, Venice Cruise parla di «atteggiamento irresponsabile» e «di sospetta intransigenza» del sindaco: «Chiede l’immediata applicazione del Clini-Passera, senza curarsi minimamente delle migliaia di posti di lavoro che andranno persi. Ad Orsoni non interessa l'angoscia e il dramma delle famiglie che rimarranno senza occupazione, non importa che l'annullamento della crocieristica a Venezia determinerà per la regione la perdita di tutto l'enorme indotto economico che riguarda molteplici imprese fornitrici delle navi, essendo Venezia home-port, é il crollo di tutte le attività delle filiera». «È impossibile far convivere in lungo il Canale dei Petroli le 4 mila navi del traffico commerciale, il cui futuro sono i container, veloci, precisi, schedulati, con le mille navi da crociera (2 mila transiti) e 2 milioni di passeggeri che devono avere strutture adeguate», incalza Mirco Santi a nome degli agenti marittimi, «le navi commerciali non possono stare ferme per dare la priorità alle passeggeri: una mancata partenza, un ritardo costa decine di migliaia di euro. Un porto non può funzionare così: muore. Così si fa Disneyland».

postilla

Certo che spostare il Bestioni del mare dalla Matittima (città storica) a Porto Marghera non risparmierebbe la Laguna. Comporterebbe infatti il raddoppio di quel nefasto. "Canale dei Petroli" cui di deve il maggior guasto al'equilibrio del bacino lagunare, e che in effetti già la legge speciale del 1973 prevedeva di cancellare. Vedi in proposito Lidia Fersuoch, Confondere la Laguna, nella coilana "Occhi aperti su Venezia", Corte del Fòntego editore, anche per un confronto tra le diverse proposte.


In attesa del processo di appello alla Commissione Grandi Rischi a L’Aquila, la recensione del volume di Antonello Ciccozzi che ha redatto la perizia su cui si è basata la condanna: l’analisi dell’operazione di falsificazione e rimozione della Protezione Civile di Bertolaso a copertura di interessi economici e corporativi (m.p.g.)

Ricordare la solitudine degli aquilani sotto il falso manto mediatico protettivo di Guido Bertolaso e del governo Berlusconi nei giorni antecedenti e successivi al sisma del 6 aprile 2009, è un imperativo morale categorico. Per questo il libro di Antonello Ciccozzi, Parola di scienza Un’analisi antropologica (Prefazione di Pietro Clemente, DeriveApprodi, 2013), che ci ricorda le contraddizioni e gli imbrogli perpetrati in quella oscura stagione non può che ricevere un forte encomio da chi ritiene che le vittime del terremoto dell’Aquila meritino giustizia e “verità”.

I fatti sono noti ma, poiché se ne va perdendo memoria, quasi fosse trascorsa un’era geologica, merita riassumerli brevemente. Dopo quattro mesi di scosse sismiche di magnitudo modesta ma molto frequenti avvertite a L’Aquila e nella regione circostante, a seguito di una più forte scossa di magnitudo 4.1 la popolazione allarmata (alcuni edifici si erano lesionati) cominciò a prendere alcune precauzioni, dormendo in macchina o spostandosi nelle seconde case o in case di parenti e amici ritenute più sicure. Un tecnico che lavorava nei laboratori del Gran Sasso notando che le sue apparecchiature segnalavano crescenti emissioni di radon, poiché la fuoriuscita di radon è notoriamente un precursore di terremoti, cominciò a fare circolare la voce che bisognava prepararsi a un forte evento. La Protezione Civile, ritenendosi l'unica depositaria del sapere sui terremoti in Italia, lo denunciò per "procurato allarme" e convocò la Commissione Grandi Rischi (CGR) allo scopo di “rassicurare la popolazione” (come risulta anche dalle intercettazioni telefoniche). Il 31 marzo 2009 la CGR (composta da tre membri ufficiali) e quattro funzionari “esperti” della Protezione Civile si riunirono a l’Aquila. Al termine della breve riunione (il cui verbale è stato diffuso dopo il terremoto) venne comunicato alla popolazione che poteva stare tranquilla e che addirittura poteva bere un bicchiere di vino. A seguito di questa comunicazione, molte persone rientrarono a dormire nelle loro case. Nella notte del 6 aprile il terremoto uccise 308 persone e distrusse il centro storico e altre aree intorno alla città. Colpiti nei loro affetti alcuni cittadini hanno denunciato gli esperti della CGR per la rassicurazione data che li aveva indotti a restare nelle abitazioni. Al termine del processo di primo grado, il 22 ottobre 2012 i sette esperti vengono condannati a sei anni di carcere, tutti indistintamente visto che come risulta dal verbale della riunione nessuno si dissociò. La ragione della condanna è nella leggerezza con cui hanno di fatto previsto che il terremoto non sarebbe accaduto.

Il cuore del libro “Parola di scienza” è la perizia antropologica, riportata integralmente, richiesta all’autore dal Tribunale de L’Aquila, per capire gli effetti della “rassicurazione” sui comportamenti individuali e collettivi della popolazione aquilana data dalla Protezione civile attraverso comunicazione mediatica dopo la riunione della CGR. La perizia, unica nel suo genere in ambito giuridico (mai prima in Italia sono state richieste perizie antropologiche su tematiche di rischio), è preceduta da una prefazione del prof. Pietro Clemente, ordinario di Antropologia culturale, che, oltre a mettere in luce le valenze scientifiche della ricerca, offre un ricco e convincente contributo interpretativo personale sul contesto antropologico in cui le vicende si sono svolte. Nella note introduttive dell’autore che precedono la perizia, viene descritta la sua personale esperienza e quella di altri cittadini, concentrando la lente su emozioni e decisioni suggerite ed ispirate da quel lo che - per usare le categorie del premio nobel per l’economia Daniel Kanheman - è il pensiero “veloce”, ma elaborate però con la severa razionalità del “pensiero lento”. Il concetto di fondo della perizia, supportato da una dovizia di argomentazioni antropologiche a sostegno, è molto chiaro: benché molti aquilani, sulla base della paura, avessero preso la decisione di lasciare le loro case, vi sono rimasti perché i loro comportamenti sono stati “viziati” dalla rincuorante comunicazione, in quanto dalla stessa comunicazione, e in generale dal clima creatosi intorno alla sequenza sismica si evinceva che solo gli “esperti” della CGR potevano meritare fiducia e che la loro parola era praticamente infallibile. In una densa e struggente postfazione, l’autore, collocandosi nello spazio temporale del dopo processo, punta il mirino sulla scomposta risposta della classe corporativa degli scienziati all’esito della sentenza. Scienziati che, senza aver letto le motivazioni della sentenza, sono caduti nella trappola predisposta da chi ha fatto passare lo slogan che gli esperti sono stati condannati “per non aver previsto il terremoto”.

Ma perché il libro di Ciccozzi è di così grande interesse culturale anche per chi antropologo non è? Per almeno tre motivi. Per la conservazione della memoria, innanzitutto. Nella cultura sismica, si sa, la memoria non è una scelta ma un obbligo, non soltanto perché il terremoto è un tragico evento di perdita, ma anche perché è un insostituibile laboratorio di apprendimento per la sicurezza del domani. In epoche antiche, in Italia, erano i riti collettivi, le processioni riparatrici, gli ex-voto, le preghiere e i racconti dei vecchi a mantenere viva nelle famiglie la memoria della tragedie e la cognizione delle tecniche di sopravvivenza che si tramandavano da una generazione all’altra. Anche in epoche più secolarizzate la ricostruzione storica è stata la via maestra per difendersi dai terremoti, nella crescente consapevolezza che il ricordo degli accadimenti non produce solo conoscenza scientifica ma anche conoscenza altra, cioè una conoscenza generata dall’esperienza del dolore, irriducibile ad altre forme di conoscenza, ma universalizzabile e capace di farsi misura di prevenzione. Persino oggi, nell’era della tecnica per eccellenza, se si vogliono affinare forme di pacifica coabitazione col terremoto, la memoria storica è la componente di base prioritaria, sia che si guardi al terremoto come “evento naturale” sia come “ evento sociale”. È infatti il principio cardine su cui si basa la classificazione sismica del territorio nazionale, la normativa sismica per le costruzioni e tutte le altre misure di prevenzione dei paesi avanzati.

Ma “la smemoratezza del moderno” – come la definisce l’antropologo Pietro Clemente nella avvincente prefazione al libro di Ciccozzi – sembra essere l’altro principio che, in Italia, governa la società del rischio che si autodefinisce moderna. Nel caso dei terremoti la ragione è ovvia. Il terremoto non schiude solo affascinanti universi scientifici o buoni sentimenti di pietà e solidarietà. I terremoti fanno venire a galla anche le realtà meno nobili di un paese: interessi economici, profitti, illegalità, omertà, complicità, che riguardano le classi dirigenti, le imprese, gli operatori, e persino il mondo della cultura e della ricerca. Per questo c’è un preciso interesse nel fare calare il velo dell’oblio sugli accadimenti che hanno preceduto e seguito il terremoto de L’Aquila, perché l’Aquila è l’archetipo di quel “grumo di misfatti” – per usare un’espressione di Barbara Spinelli – che formano un tutto unico con il sottobosco e la sottocultura del nostro paese.

Un interesse a dimenticare che si estende ad una finestra temporale anche molto più ampia di quella considerata nel libro di Ciccozzi, perché quanto accaduto a L’Aquila non è un fiore del male spuntato all’improvviso. È il punto di arrivo di un lungo percorso di cancellazione della memoria. Cancellare tutto dalla lavagna è stato, fin dal 2002, data di inizio della “resistibile ascesa” della nuova Protezione civile, il principio guida delle politiche di Bertolaso, spalleggiate oltre che dal capo del governo, da un piccolo manipolo di esperti, alcuni dei quali membri della Commissione Grandi Rischi (CGR), che hanno “rassicurato” gli aquilani e che hanno fornito le basi ingegneristiche per un rovesciamento a 180 gradi del modello di difesa dai terremoti. Depennare le buone pratiche accumulate nei precedenti trent’anni di cultura sismica in Italia era, allora, la conditio sine qua non per annunciare la nuova alba della cultura sismica in Italia e sostituire a un modello di difesa dai terremoti, basato su una dialettica «multipolare» centrata sul territorio, un modello centralizzato, esterno, unipolare, in cui solo la Protezione civile e il suo «polo esperto» erano i depositari della protezione sismica. Cancellare tutto dalla lavagna è, oggi, la conditio sine qua non per difendere l’operato degli esperti condannati dalla sentenza del 22 ottobre 2012, e per deviare l’attenzione verso porti delle nebbie dove tutto si mescola e si confonde, in modo da poter martellare in modo mirato su alcuni luoghi comuni circa l’imprevedibilità dei terremoti e così ridicolizzare la magistratura e tutti coloro che vogliono riprendere il filo delle buone pratiche.

È utile, oggi, per chi ha subito la condanna, far dimenticare che, oltre che accademici, alcuni degli esperti della CGR, in quanto liberi professionisti, ricevevano (in pieno conflitto di interessi con il ruolo di “esperti” della CGR) commesse professionali dalla Protezione civile, come è ancora oggi facile verificare sul loro stesso sito web. O far dimenticare che ad alcuni membri della CGR subito dopo il terremoto è stata affidata dalla Protezione Civile la progettazione e la realizzazione dei nuovi 19 quartieri a L'Aquila del Progetto C.A.S.E. , e che il collaudo delle apparecchiature antisismiche è stata affidata al Laboratorio (nato dal nulla nel 2003) finanziato dalla Protezione Civile e diretto da uno dei membri della CGR. E, infine, che questo centro di eccellenza venga oggi utilizzato per chiamare a raccolta 4000 operatori del mondo scientifico, tra cui dottorandi o anche studenti pomposamente chiamati “scienziati”, a difendere i nuovi “Galileo” (il quale Galileo starebbe, invece, oggi dalla parte dell’accusa, come bene dimostra Ciccozzi!). Solo seppellendo le tante imbarazzanti verità del passato è possibile completare la grande opera di falsificazione dell’era Bertolaso azzerando colpe e responsabilità. Se tutto è dimenticato è possibile reci- tare la parte degli scienziati feriti e umiliati da una condanna “assurda”, da loro falsamente presentata alla comunità scientifica e al mondo giornalistico come sanzione “per non avere previsto il terremoto”. Ed è facile trovare “esperti” pronti a gridare sulle persecuzioni alla scienza.

Ma è non solo per la conservazione della memoria che il libro merita apprezzamento. Perché – e questo è il secondo motivo di interesse – la doppia lente con cui l’autore esamina i fatti crea una circolarità virtuosa tra forme di conoscenza che permette di fare “verità” su molti aspetti della tragedia aquilana. Sia le vicende della notte del 6 aprile 2009 sia quelle più recenti sono infatti esaminate attraverso un doppio filtro critico: quello dell’analisi teorica condotta con categorie strettamente antropologiche e quello dell’analisi esperienziale di testimone della tragedia. Come è stato osservato a proposito del personaggio di Pessoa, Bernardo Soares, la finestra da cui l’autore guarda e interpreta gli accadimenti “ha le imposte che si possono aprire sul fuori e sul dentro”. Il “fuori” è l’operato della CGR. Il “dentro” , sono le gallerie segrete scavate nell’animo umano da un evento così sconvolgente dall’essere al di là delle possibilità di comprensione ma che producono e generano un modo del tutto nuovo di conoscenza. Ma anche quando la ricerca porta oltre i confini strettamente antropologici o sfonda addirittura nel territorio dell’esperienza personale, non c’è mai, nel libro, tema od evento che non sia descritto o interpretato senza uno sforzo di rigorosa razionalità. L’autore privilegia sempre il fattore cognitivo su quello valutativo, continuamente ricercando gli appropriati supporti scientifici, perché il suo obiettivo è conseguire la “verità”, attraverso “il pensiero lento”, i passaggi logici e i continui faticosi esercizi di spogliazione della soggettività, degli impulsi e delle tensioni emotive.

Il terzo motivo di interesse culturale è che il libro ci fa capire con argomentazioni avvolgenti quanto sia importante la vigilanza perché ciò che è accaduto non accada mai più. È inconfutabile che l’era Bertolaso rappresenti un unicum nella storia della Protezione civile italiana ma è anche indubbio che seppure più in segreto e in misura più contenuta il malessere di quella stagione non è finito. Se, come è stato detto , “solo la malattia permette di conoscere lo stato di normalità”, soltanto una comprensione piena delle patologie di quel momento storico può condurre a un’adeguata comprensione di alcune deformazioni fisiologiche del nostro paese. L’Aquila non è solo una lente che ha messo a nudo le patologie dell’era Bertolaso. L’Aquila ci permette di capire meglio i guasti della nostra normalità. Puntigliosamente attento a dare una rigorosa e oggettiva descrizione degli accadimenti e ad una loro interpretazione strettamente ancorata alle teorie antropologiche, l’autore tocca alcuni nervi sensibili della nostra attualità, gettando luce su quel mix di distorsioni nei rapporti scienza-potere-società che hanno avuto certamente il loro massimo storico nell’era di Bertolaso ma non certo estinte nella società italiana e persino mondiale: l’arroganza del potere, la pretesa infallibilità e cortigianeria degli esperti, il dispotismo della tecnica, la manipolazione mediatica, gli abusi di autorità autodefinitesi, che hanno tra i loro effetti l’appropriazione dei beni pubblici, la devastazione della geografia e della storia dei luoghi, la sottovalutazione dei rischi, le omissioni, le inconcludenze e le inadempienze del potere politico e accademico. Dopo avere centrato il compasso sulla ricerca antropologica svolta, l’autore allunga il raggio della sua riflessione, risale controcorrente per spiegare le connessioni tra cause ed effetti di quella vicenda dai tragici esiti. Ma è soprattutto la reazione degli scienziati (quasi coro unanime con pochissime voci in controcanto) che lo porta ad allargare il cerchio, a riflettere sulle nuove forme magico-sacrali della società tecnologica, sulla mancanza di autonomia dal potere degli scienziati e degli esperti. La ferita, inferta agli aquilani ma anche alla stessa scienza, dalla corporazione degli scienziati che a livello mondiale si sono piegati, senza verificare prima le ragioni della sentenza, a dare supporto alla tesi preconcetta degli esperti della Protezione civile in una questione così drammatica, rivela, alla luce dell’esperienza del dolore, tutta la anaffettività e la miseria umana che albergano nei cuori di “luminari” spesso autodefinitisi, supponenti e persino spietati. Un’analisi che chi conosce per esperienza i soggetti che mediamente popolano le commissioni tecniche non può che condividere, visto che l’indipendenza di pensiero e il senso della complessità non sono certo la nota saliente della maggior parte degli esperti italiani che le frequentano.

L’analisi è lucida e “distante”, l’autore si afferra con un tenace sforzo di volontà alle metodologie antropologiche in un continuo esercizio di oggettivazione. Ma più il “pensiero lento” lavora, più aumentano le ragioni per considerare quella “reazione” primitiva e scientificamente contro natura. Il pensiero veloce dell’autore interagisce con il pensiero lento e raccorcia le distanze tra oggetto e soggetto fino a diventare “ira santa”, passione furente, malessere esistenziale per manifestazioni come quella che ha portato gli scienziati a credere alle fandonie giornalistiche spacciate da chi ha interesse a dire di essere stato condannato per “non avere previsto il terremoto”.

Perciò tutti noi che abbiamo fatto o facciamo parte di commissioni tecniche non possiamo che essere infinitamente grati a chi dalla doppia angolazione dell’antropologia culturale e dell’esperienza del dolore ci ricorda i limiti del nostro sapere e ci richiama a coniugare competenza scientifica e sensibilità umana.

L'autrice ha insegnato, dal 1982 al 2010, Ingegneria Geotecnica Sismica presso l’Università degli Studi di Firenze.

Riferimenti:
Al terremoto e agli scandali del dopoterremoto eddyburg ha raccolto molti documenti, nella cartella Terremoto all'Aquila

Verso la rottura il miracoloso equilibrio tra città e campagna che il PRG di Giovanni Astengo (1965-72) aveva tentato di tutelare? Sembra di si. Occhi aperti su Assisi. Il Fatto Quotidiano, 25 settembre2013

Se Assisi è ancora quella che è, e cioè “un esempio unico di continuità storica di una città con il suo paesaggio culturale e l’insieme del sistema territoriale” (così la motivazione con la quale l’Unesco ha inserito la città nel canone del patrimonio dell’umanità), non lo si deve (solo) alla provvidenza di Dio, ma anche alla saggezza e alla lungimiranza dei suoi cittadini. Virtù, queste ultime, che si sono incarnate nel Piano Regolatore Generale del Comune di Assisi approvato nel 1972 e redatto sotto la guida dell’architetto Giovanni Astengo: un piano che ha permesso ad Assisi di superare, se non intatta, certo ancora “viva ” la stagione della grande cementificazione che ha stravolto l’Italia.

Ora c’è chi ritiene che quella saggezza si sia decisamente appannata. Lo scorso 8 agosto il Movimento 5 Stelle ha presentato, al Senato, un'interrogazione a risposta scritta ai Ministri dell’Ambiente e per i Beni Culturali in cui si chiede, tra l’altro, “quali misure intendano adottare per garantire, in uno dei luoghi più importanti al mondo, l’adozione di un piano regolatore regionale che non permetta nuova cementificazione”. Al fondo dell’interrogazione sta una forte preoccupazione per l’approvazione del nuovo Piano regolatore di Assisi, che manda in pensione quello di Astengo senza averne – secondo molti – le virtù. L’interrogazione ricalca in parte un dettagliato studio dell’ingegner Paolo Marcucci, consigliere comunale di opposizione, che dimostra come “rispetto al precedente Piano Astengo, la linea di inedificabilità assoluta a protezione del Colle Storico è stata arretrata verso la città murata, rendendo tale parte della zona agricola collinare posta al di sotto della città murata di Assisi priva della necessaria tutela”. La stessa riduzione di tutela si registra per le zone collinari ad ovest delle mura, e nella già provata pianura. In più il piano licenziato dal Comune prevede l'inserimento di nuove zone edificabili sulle mitiche colline di Assisi, e in zone finora agricole.

Il sindaco di Assisi ha risposto alle critiche nel modo peggiore, e cioè annunciando querele contro chi rovinerebbe l'immagine della città. Già: ma chi davvero la sta rovinando?

Grazie, Svizzeri del Cantone dei Grigioni. «Democrazia dal basso: per 124 voti il gruppo Repower sarà costretto ad abbandonare il progetto. Anche se la società, a partecipazione pubblica, ha già dichiarato che non cambierà strategia». Il manifesto, 24 settembre 2013

Il destino dell'ambiente in quel lembo di terra che si affaccia sullo Stretto di Messina, nella punta estrema della Calabria, l'hanno deciso domenica scorsa i cittadini. Solo che a esprimersi tramite un referendum popolare e a decidere che no, la centrale a carbone progettata nel distretto industriale di Saline Joniche, frazione di Montebello, in provincia di Reggio Calabria, non s'ha da fare, sono stati i cittadini svizzeri. Grigionesi, per l'esattezza.

In quel cantone hanno discusso e si sono scontrati per anni anche aspramente e alla fine, domenica 22 settembre, in 50 mila hanno partecipato al voto, il 40,17% degli aventi diritto, e hanno scelto - con soli 124 voti di scarto - di rigettare il controprogetto del Gran Consiglio federale che tentava di salvare il piano del gruppo Repower (ex Rezia-energia), società a partecipazione cantonale leader nella produzione energetica, e di accettare invece l'iniziativa popolare cantonale «Sì all'energia pulita senza carbone» che non solo impedisce lo scempio di una megacentrale da 1320 Mw e da oltre un miliardo di euro di spesa su una delle preziose coste italiane ma impedisce anche da subito, con una riforma della Costituzione cantonale, ogni partecipazione dei Grigioni alla costruzione di centrali a carbone.

Nell'urna, i cittadini dei Grigioni hanno risposto a tre domande nelle quali si chiedeva di promuovere o bocciare le due proposte opposte, e nell'ultimo quesito, quello risolutivo, di scegliere tra le due. L'iniziativa del comitato ambientalista Pro Natura ha raccolto 700 voti in meno (28.878 sì) rispetto al progetto del governo federale (29.553 consensi) che intendeva salvare l'investimento della Repower (partecipata per il 58% dal cantone Grigioni) a Saline Joniche e in cambio affermava il divieto a investire in futuro «in centrali a carbone per le quali non vi è una riduzione sostanziale delle emissioni di CO2». Stranamente dunque è solo con l'ultima domanda referendaria che i grigionesi hanno scelto - con 24.650 voti contro 24.526 - di aderire all'iniziativa popolare e di bocciare il controprogetto del Gran Consiglio. Da noi un responso così avrebbe sollevato sicuramente una polemica infinita. E invece molto probabilmente la scelta del cantone influirà inesorabilmente anche sulle politiche ambientali future dell'intera confederazione elvetica. Anche se ieri sera la Repower ha fatto sapere che non intende «cambiare strategia» ma si appresta invece ad osservare «con attenzione il processo legislativo che seguirà» al voto. Perché, secondo la società grigionese, ai votanti è stata sottoposta una «proposta generica» che quindi non ha ripercussioni dirette nel «rispettivo articolo costituzionale».

A questo punto invece la società Repower, dopo aver abbandonato il progetto di una centrale a carbone a Brunsbüttel, in Germania, dovrebbe essere costretta a ritirarsi anche da Saline dove avrebbe investito il 58% dei costi (altri partecipanti sono le italiane Hera, per il 20%, e Aprisviluppo per il 7%, insieme alla statunitense Foster Wheeler che avrebbe finanziato il 15%). Al posto della società energetica svizzera però potrebbe subentrare anche l'Enel. D'altronde il progetto della centrale calabrese che dovrebbe sorgere nel sito dell'ex Liquichimica avrebbe ottenuto nel giugno 2012 dal governo Monti, secondo quanto riportato dal Consiglio federale elvetico, la compatibilità ambientale. Perché, come si legge nelle spiegazioni fornite a corredo della consultazione popolare di domenica scorsa, si tratterebbe secondo il loro punto di vista di un impianto «altamente moderno che soddisfa gli standard ambientali più elevati e riduce le emissioni di Co2 del 30% rispetto agli impianti tradizionali». Nelle intenzioni della Confederazione elvetica - dove la lobby ambientalista ha forte influenza - in ogni caso la società di gestione di Saline Joniche, nel rispetto delle norme europee, deve «acquisire corrispondenti certificati di emissione, finanziando così progetti per la riduzione del Co2 in misura equivalente», in modo da rendere la centrale calabrese «neutrale» dal punto di vista delle emissioni. Secondo il comitato di iniziativa popolare Pro Natura, invece, «una centrale a carbone come quella prevista in Calabria emette ogni anno sei volte più Co2 di tutte le economie domestiche nei Grigioni». Oltre al fatto che «il carbone per quella centrale va trasportato in Italia da oltremare»: «Un'assurdità economica ed ecologica», bollano il progetto i Verdi svizzeri. Tanto più perché, spiegano, «i pericolosi mutamenti climatici potrebbero essere evitati smantellando 550 centrali a carbone in tutto il mondo».

L'eco del referendum grigionese ha risuonato fino a 1.500 chilometri più a sud. Esultano anche gli ambientalisti italiani - Legambiente, Wwf e Greenpeace Italia - per il voto che «indica una scelta chiara e inequivocabile in direzione di una definitiva rinuncia a investimenti sulla fonte fossile più inquinante», e che «deve tradursi come primo atto nell'immediato ritiro del progetto di costruzione di una nuova centrale a carbone a Saline Ioniche, rifiutato nettamente da istituzioni e cittadini calabresi e, contrariamente a quanto affermato dai suoi sostenitori, ben lontano dall'essere autorizzato». Per Legambiente la presa di posizione della Repower rispetto al voto di domenica «è inaccettabile». Piuttosto la società «prenda atto della volontà popolare ritirando il progetto o riconvertendo l'investimento, puntando a Saline come in Svizzera sulle rinnovabili e sull'efficienza energetica».


Il libro di Silvio Testa pubblicato da Corte del fòntego editore, è esaurito, ma la questione documentata in quelle pagine merita una conoscenza diffusa e tempestiva. In attesa della ristampa aggiornata, qui in eddyburg il testo è scaricabile liberamente: entrate nell'articolo e vedrete come

Il transito delle Grandi navi nella Laguna di Venezia interessa sempre più ampiamente l’opinione pubblica nazionale e internazionale. La distruzione dell’unica laguna rimasta tale per un millennio è in atto da molti decenni: risalgono agli anni Sessanta del secolo scorso le proteste contro il Canale dei Petroli (di cui ora sciaguratamente i fautori dello scalo-crociere a Marghera provocherebbero addirittura il raddoppio). Il danno inferto alla Laguna e alla sua città è diventato uno scandalo dopo il tragico evento avvenuto sulle coste dell’isola d’Elba e dopo che l’opinione pubblica è stata colpita dalle immagini che testimoniano l’orrore della presenza dei bestioni flottanti alti 60 m. in un contesto paesaggistico nel quale l’altezza massima tollerata per gli edifici è da sempre non superiore a 13 m.

Un ruolo centrale nel tramutare in scandalo la minaccia e il danno delle Grandi navi lo hanno avuto il movimento promosso dal comitato No grandi navi e la lettura del libretto (piccolo nella dimensione ma grande nella testimonianza) “…e le chiamano navi” scritto da Silvio Testa, ora portavoce del comitato. Il libretto è stato pubblicato nella collana “Occhi aperti su Venezia”, di Corte del Fòntego editore. Ora è esaurito. In attesa della ristampa del testo aggiornato l’editore ha deciso di renderlo disponibile gratuitamente online anche tramite eddyburg. Il testo è perciò scaricabile utilizzando questo collegamento: E le chiamano navi "

La collana contiene anche altri testi sulla Laguna e dintorni, tutti chiari e documentati. Tra gli autori Agamben, Boato, Calabi, Fersuoch, Fozzati, Lanapoppi, Mancuso, Mencini, Morachiello, Pascolo, Pirazzolo, Salzano, Somma, Tantucci, Vittadini, Vitucci. Il catalogo è accessibile qui
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