loader
menu
© 2024 Eddyburg

L’Unità, 29 dicembre 2013

È un crollo. Rovinoso. Come a Pompei, o quelli degli edifici trascinati via dall’acqua in Sardegna dopo le piogge di novembre. Parliamo della percentuale del nostro territorio posto sotto tutela paesaggistica o ambientale, che dal 2008 al 2011 si è ridotto a meno della metà. Dopo la Legge Galasso del 1985, si disse che oltre il 50% del territorio fosse tutelato. Secondo il «Sole 24 Ore» di inizio 2010, con dati che perciò risalivano almeno al 2008, la percentuale si attestava al 46,9%. Se quella cifra è esatta, e non abbiamo motivo per dubitarne, nel 2011 secondo i dati del rapporto «Minicifre» del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali (Mibac) siamo crollati sotto il 20%. La metà, in tre anni. Come è potuto accadere?

Lo strumento legislativo che servirebbe ad arginarne la distruzione, sono i Piani paesaggistici, uno per Regione da realizzare in copianificazione con il Ministero dei Beni e le Attività Culturali il paesaggio è stato dichiarato per legge un bene culturale. Ma a dieci anni dall’entrata in vigore delle leggi che li prevedevano (d.l. 42 2004 e l. 137 – 2002), i Piani restano ancora lettera morta. Il tutto appare perverso considerando che proprio l’Italia volle nel 2000 lanciare a Firenze la Convenzione europea del paesaggio, i cui contenuti più innovativi stentiamo ad assorbire nel Codice per i Beni culturali, giunto in meno di dieci anni alla sua terza redazione, con esiti deludenti soprattutto per il paesaggio.

Il caso del Lazio è emblematico: già nel 2007 il Piano paesaggistico è pronto e approvato, ma si attendono le controdeduzioni. La giunta Marrazzo tuttavia conosceva bene gli appetiti della sua regione e, con mossa a sorpresa, lo adotta comunque prima in Italia -, dandosi 5 anni di tempo per modificarlo alla luce di quanto emergerà dalle controdeduzioni e dalle risposte che a queste daranno le pubbliche istituzioni.

Durante la giunta di centrodestra del governatore Renata Polverini il piano si arena e nulla sembra muoversi o, meglio, si muove lei, che si affretta a presentare un piano del tutto diverso: è il «piano casa» regionale, frutto della omonima legge promulgata dal governo Berlusconi che scavalca i piani paesaggistici. La parola d’ordine è: più cemento per tutti per rilanciare l’economia, e parte l’assalto al territorio. Nel frattempo quello tutelato nel Lazio cade dal 46,7% del 2008 al 20,8% del 2011.

L’economia non riparte, anzi peggiora, ma, per fortuna, non parte neppure il piano casa: anche un Pdl come Giancarlo Galan, allora ministro dei Beni e delle Attività Culturali, non riesce a mandare giù una porcata dove l’ufficio legislativo del Mibac rileva una ventina di possibili incostituzionalità: il piano viene bloccato. Nel frattempo, all’inizio del 2013, i termini per la definitiva approvazione del Piano paesaggistico del Lazio stanno scadendo: nella ingloriosa débâcle della giunta Polverini, tra gli scandali di Fiorito e compagnia, alcuni funzionari della Regione fanno passare una proroga di un anno, anche perché sono arrivate le controdeduzioni.

A questo punto è lo Stato che comincia a perdere tempo: dalla direzione regionale Mibac del Lazio si impongono una serie infinita di controlli, si chiede più tutela e tutele incrociate tra le soprintendenze archeologiche, architettoniche e paesaggistiche. Cose anche giuste, ma che hanno poco a che vedere con le controdeduzioni: avrebbero potuto e dovuto essere fatte prima, e comunque si possono fare e ottener e anche dopo l’approvazione del piano. Con lo scarso personale a disposizione delle soprintendenze, il risultato è una dilazione di un anno. A termine oramai scaduto. È un atteggiamento non nuovo per taluni dirigenti del Mibac. In generale di fronte a casi simili è difficile stabilire se si tratti di vero amore per i beni culturali o di quella che è definita la tattica del cosiddetto «finto pasdaran della tutela», che in nome dei sacri principi di un proclamato beneculturalismo blocca tutto, in modo che si vada avanti come sempre, cioè male.

Cosa accadrebbe se il piano paesaggistico della Regione Lazio non sarà definitivamente approvato e adottato prima di febbraio? Si dovrebbe tornare alla «normale amministrazione», antecedente al Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2002: ma in Italia nulla è mai «normale».

La storia della tutela del paesaggio nel nostro Paese è una lunga guerriglia tra Stato e Regioni su chi debba esercitare il controllo: già nel 1972, in base alla legge sul decentramento, il cosiddetto «territorio» passa alle Regioni, aprendo la strada al periodo più nero della cementificazione. Il 28 febbraio del 1985 il primo governo presieduto dall’onorevole Bettino Craxi, ministro delle finanze Bruno Visentini, promulga la Legge n. 47: è il primo storico condono edilizio, ne seguiranno altri due. Associazioni, media, società civile , s’indignano: sotto la pressione dell’opinione pubblica l’8 agosto 1985 viene promulgata la legge 431/85 detta anche Legge Galasso dal nome del sottosegretario ai Beni Culturali Giuseppe Galasso (Pri)–, che introduce una serie di tutele e regole sul paesaggio e l’ambiente, obbliga le regioni a fare dei «Piano paesistici» – cosa diversa da quelli paesaggistici e solo parzialmente realizzati –, e una parte del territorio viene comunque vincolata in base a criteri estetici. Ma la battaglia ricomincia: le Regioni si indignano, perché si sentono deprivate dal controllo del territorio che ritengono un loro diritto, oltreché fonte di notevoli interessi.

Si arriva alla Corte Costituzionale che dalla fine degli anni ’90 con una serie di sentenze stabilisce che il paesaggio è competenza dello Stato, o per lo meno anche dello Stato poiché deve essere considerato in maniera unitaria su tutto il territorio nazionale e non regione per regione. Tra le sentenze spicca quella che bloccando la costruzione di un’installazione militare in Puglia, ricorda agli amministratori regionali che il paesaggio è di prioritario interesse nazionale, superando anche le esigenze militari, almeno in tempo di pace.

Sembrerebbe tutto chiaro. Ecco che si arriva al Codice dei Beni Culturali e ai Piani, che da paesistici sono divenuti paesaggistici e prevedono la collaborazione tra Stato e Regioni: la seconda stesura del Codice, del 2006 ministro Buttiglione, prescrive che la copianificazione sul paesaggio avvenga tra Stato – cioè Mibac – e Regioni su tutto il territorio. Terza stesura del 2008, ministro Rutelli: il Mibac copianifica solo per le aree già vincolate (in entrambi i casi estensore del Codice è Salvatore Settis). Così si tradisce lo spirito e la lettera delle sentenze della Consulta, dal momento che le aree vincolate non sono l’intero territorio nazionale, dando oltretutto adito a infiniti contenziosi fra lo Stato e le singole Regioni, che allungano i tempi della realizzazione dei piani, come infatti è avvenuto.

Nel 2008 subentra un nuovo governo Berlusconi, e il ministro per i Beni e le Attività Culturali, Sandro Bondi, si allinea allo slogan «più cemento per tutti». A più riprese invita il Mibac ad alleviare i controlli e, attraverso pressioni e nomine mirate, agisce sulle Direzioni Regionali – cui spettano le autorizzazioni. Il 28 aprile del 2010 in Parlamento di fronte alla 13° Commissione permanente spiega che alleggerirà la tutela: si arriva a nuovi regolamenti per l’autorizzazione paesaggistica, che scardinano la Legge Galasso, in maniera subdola, attraverso articoli e articoletti depositati nelle varie leggi omnibus e milleproroghe. Sono gli strumenti per smantellare la tutela, la necessaria premessa al crollo della percentuale di territorio vincolato da oltre il 50% a meno del 20%. Il tutto in un silenzio assordante rotto solo dal «Rapporto sul paesaggio» di Italia Nostra del 2010, a firma Maria Pia Guermandi e Vezio De Lucia, che parlano di «convergenza viziosa – tra Stato, Mibac, regioni ed enti locali– nella elusione amministrativa».

Con la precedente normativa di tutela smontata e depotenziata la Regione Lazio, se non sarà approvato entro febbraio il Piano, e tutto il territorio nazionale saranno esposti ai capricci della sorte: di amministratori locali, spesso incompetenti e soggetti a pressioni e lusinghe del territorio, unitamente a Direzioni regionali del Mibac che si dimostrano sempre più una semplice cinghia di trasmissione tra il potere politico nazionale e gli interessi locali. (1 – continua)

« Il vero problema, cioè, è che in Italia ci sono troppi territori ormai sottratti alla sovranità dello Stato. E non saranno le nuove pene per la combustione di rifiuti a restituirceli Occorre, quindi, in primo luogo riaffermare in questi territori la sovranità dello Stato con le sue leggi ed i suoi controlli». Lexambiente, 27 dicembre 2013

Adesso basta. Ogni volta sembra che si sia toccato il fondo ma al peggio non c'è fine. Perchè, guardate, non è facile scrivere tante sciocchezze "giuridiche" tutte insieme come ha fatto il governo in carica introducendo, per la cd. "terra dei fuochi", il nuovo delitto di "combustione illecita di rifiuti" nel decreto legge 10 dicembre 2013 n. 136 ("Disposizioni urgenti dirette a fronteggiare emergenze ambientali e industriali ed a favorire lo sviluppo delle aree interessate"). Purtroppo il problema è reale e gravissimo; e quindi è meglio trattarlo seriamente. Perchè altrimenti sarebbe da ridere.

Intendiamoci, l'intento è condivisibile se, come scrive il governo, "la norma ha l’obiettivo di introdurre sanzioni penali per contrastare chi appicca i roghi tossici, oggi sanzionabili solo con contravvenzioni". Aggiungendo che si tratta di un "fenomeno preoccupante al quale conseguono immediati danni all’ambiente ed alla salute umana, con la dispersione in atmosfera dei residui della combustione, incluso il rischio di ricadute al suolo di diossine".

Dopo di che decreta con urgenza che chiunque appicca il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata in aree non autorizzate è punito con la reclusione da due a cinque anni. Dove è il "rogo tossico" ? Dove sono gli immediati danni all'ambiente e alla salute umana? Dove sono le ricadute di diossine? Perchè, sia chiaro, con questa norma anche chi fa un focherello all'aperto con una vecchia cassetta di legno per riscaldarsi rischia almeno 2 anni di reclusione. Tanto per capirsi, più di un omicidio colposo che ha pena minima 6 mesi.

Certo, le cose possono cambiare se si bruciano rifiuti pericolosi. Ma questa è solo una ipotesi di aggravante, con reclusione da 3 a 6 anni. L'ipotesi base fa di tutt'erba un fascio: quanto meno avrebbe, invece, potuto specificare che si applica in caso di combustione di rifiuti suscettibile, per quantità e qualità, di provocare danni reali alla salute ed all'ambiente.

Tanto più che siamo in un paese dove i roghi di rifiuti molto spesso sono rose e fiori di fronte alle "fumate autorizzate" di tante industrie ed inceneritori. Tanto per fare un esempio, l'Ilva. Con questo-intendiamoci- non voglio affatto giustificare chi dà fuoco a rifiuti. Dico solo che era sufficiente applicare le leggi che già c'erano e ci sono, al massimo con una aggiunta per i casi di danno e pericolo concreto. Infatti, già esistevano ed esistono, per i fatti più gravi, i delitti di incendio e di disastro doloso aggravato, oltre a quello, specifico, di traffico illecito di rifiuti, mentre negli altri casi poteva (e può) farsi ricorso allo smaltimento non autorizzato di rifiuti previsto dall'art. 256, comma 1, D. Lgs 152/06 (arresto da 3 mesi a un anno o ammenda da 2.600 a 26.000 euro, ovvero da 6 mesi a 2 anni e stessa ammenda per rifiuti pericolosi). Senza contare che, in caso di emissioni di fumo atte a offendere, imbrattare o molestare le persone c'è il sempresialodato art. 674 c.p. (arresto fino a 1 mese o ammenda fino ad euro 200). Se proprio si volevano introdurre nuove ipotesi di reato per la "terra dei fuochi", sarebbe stato meglio, peraltro, limitarle, appunto alle "terre dei fuochi" con specifico riferimento alla criminalità organizzata. E non a considerare queste circostanze solo come aggravanti di un reato base applicabile indiscriminatamente in tutto il paese.

Ma il fatto più sconcertante è che, nella sacrosanta lotta per la "terra dei fuochi", l'appiccare fuoco ai rifiuti è solo, diciamo così, il secondo atto. Perchè, per dare fuoco ai rifiuti, prima bisogna che qualcuno li abbia buttati o li abbia portati. E allora è in questa fase essenziale che occorre severità; perchè senza di essa non ci sono "roghi tossici", che, peraltro, molto spesso sono appiccati da cittadini esasperati e stanchi di vivere con i rifiuti sotto casa.

Invece, il nostro ineffabile governo, che fa? Inasprisce, è vero, le pene per chi abbandona o deposita in modo incontrollato rifiuti, anzi stabilisce che si applicano le stesse, pesanti pene della "combustione illecita". Ma solo se abbandono e deposito incontrollato avvengono " in funzione della successiva combustione illecita di rifiuti".

Arriviamo, così, al nocciolo della questione che non riguarda le sanzioni ma i controlli sul territorio. Senza controlli e senza una forte coscienza sociale non si ferma chi abbandona i rifiuti nè chi li brucia. Ma oggi, per carenza di uomini e di mezzi, la polizia giudiziaria a stento riesce ad intervenire dopo la commissione di un reato, figuriamoci se può fare controlli generalizzati sul territorio per i rifiuti. In questa situazione, se, come abbiamo già detto per bruciare rifiuti in modo illegale bisogna prima depositarli in modo illegale, non ha senso stabilire che il deposito incontrollato e l'abbandono di per sè siano delitto solo se si provi che essi sono finalizzati alla combustione. Perchè questo si vede dopo la combustione. E ci vuole qualcuno che faccia controlli sia sul deposito sia sulla combustione. In più, si consideri che molto spesso i rifiuti dell'ecomafia sono stati interrati nel sottosuolo dove non si vedono e non vengono bruciati, anche se provocano danni gravissimi all'ambiente e alla salute. E spesso ciò è avvenuto nell'indifferenza dei cittadini e con la complicità delle autorità.

Il vero problema, cioè, è che in Italia ci sono troppi territori ormai sottratti alla sovranità dello Stato. E non saranno le nuove pene per la combustione di rifiuti a restituirceli. Occorre, quindi, in primo luogo riaffermare in questi territori la sovranità dello Stato con le sue leggi ed i suoi controlli. Certo, anche con le sue sanzioni. Ma per fare questo occorre ben altro. Non serve, come fa il decreto legge, inventarsi un Comitato ed una Commissione interministeriale per il "monitoraggio" (tra l'altro) dei terreni sospetti della regione Campania, ai cui componenti, peraltro, "non sono corrisposti gettoni, compensi, rimborsi spese o altri emolumenti comunque denominati". Nè basta la disposizione (art. 3, comma 2) del decreto legge che autorizza i prefetti delle province della Campania ad avvalersi di personale militare delle Forze Armate nell'ambito delle operazioni di sicurezza e di controllo del territorio prioritariamente finalizzate alla prevenzione dei delitti di criminalita' organizzata e ambientale: non è con la militarizzazione del territorio che si risolvono questi problemi.

Ci vogliono, invece, uomini delle "normali" istituzioni, mezzi e soprattutto volontà politica e coinvolgimento delle popolazioni interessate. Occorre garantire il lavoro e la legalità generale. Occorre cultura. Occorre far sentire che lo Stato esiste, assolve ai suoi compiti ed è al servizio dei cittadini. Di certo non basta una norma sanzionatoria del tutto avulsa, come sistema e razionalità, dal contesto in cui viene inserita.

E che, peraltro, è infarcita di inesattezze. Che senso ha dire che occorre che i rifiuti vengano "depositati in maniera incontrollata in aree non autorizzate"? Come se ci fossero aree autorizzate per i depositi incontrollati.E che senso ha, nel nuovo art. 256-bis, comma 2, richiamare le condotte di cui all'articolo 255, comma 1, quando, in realtà queste condotte (abbandono e deposito incontrollato) sono vietate dall'art. 192, comma 1 mentre l'art. 255, comma 1 fornisce solo la sanzione amministrativa e solo per la condotta dei privati (per la condotta di enti e imprese la sanzione contravvenzionale è prevista dall'art. 256, comma 2)?

E che senso ha, nel comma 6, l'ulteriore richiamo alle sanzioni dell'art. 255 se la combustione illecita ha ad oggetto rifiuti vegetali, provenienti da aree verdi quali giardini, parchi ed aree cimiteriali? Infatti, bruciare rifiuti sembra più propriamente rientrare nell'ambito dell'art. 256 che attiene alle attività illecite di gestione di rifiuti. Deve ritenersi, allora, che probabilmente il richiamo sia fatto quoad poenam ; con la conseguenza che oggi anche il caso frequente di bruciamento di stoppie da parte di privato deve intendersi vietato e punito con la sanzione (amministrativa) di cui all'art. 2551.

E ancora: il comma 5 prevede la confisca obbligatoria "ai sensi dell'art. 259, comma 2", dei mezzi di trasporto utilizzati per commettere i delitti di combustione illecita. Ma, ovviamente, i mezzi di trasporto non possono essere utilizzati per bruciare rifiuti; ed allora, non resta che ritenere, al di là della pessima formulazione, che ci si riferisca ai mezzi di trasporto utilizzati per trasportare i rifiuti poi oggetto di combustione illecita. Ma, in questi termini, la norma è superflua e fuorviante. Fuorviante perchè l'art. 259, comma 2 prevede la confisca dei mezzi di trasporto in caso di trasporto illecito e non di smaltimento illecito, come nel caso della combustione. Superflua perchè l'art. 260-ter, comma 5 (in relazione al comma 4), già prevede la confisca obbligatoria del veicolo e di qualunque altro mezzo utilizzato per il trasporto dei rifiuti qualora si accertino i reati (contravvenzionali) previsti dall’art. 256, comma 1; e cioè quelli commessi da «chiunque effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione di cui agli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216». E, quindi, anche lo smaltimento per combustione illecitPotremmo continuare, ma ci sembra abbastanza.

Concludiamo: speriamo che l'anno nuovo induca il legislatore, nella conversione in legge, ad affrontare seriamente il gravissimo problema delle "terre dei fuochi", pensando più alla sostanza che ai comunicati stampa. Con norme serie ed efficaci per controllo e prevenzione, fugando il sospetto che, alla fine, l'unica cosa che interessa è il business delle bonifiche, magari affidate agli stessi che hanno creato l'emergenza. E magari ricordandosi che forse è tempo di rivedere tutta la normativa sanzionatoria ambientale, depenalizzando le violazioni formali ed introducendo finalmente nel codice penale i delitti contro l'ambiente, come da tempo ci ha chiesto l'Europa.

Altrimenti è prevedibile che "al più si coglieranno in flagranza di reato gli zingari, gli extracomunitari e la manovalanza che viene arruolata dai clan e prontamente viene "sacrificata" agli eventuali organi di polizia (e alla pubblica opinione)...."2. Tutti puniti con la reclusione da 2 a 5 anni.

note

1 In proposito si rinvia al nostro Bruciare stoppie e residui vegetali è veramente reato ? in www.industrieambiente 2008, dove concludevamo che, se l'autore era un privato, non era applicabile alcuna sanzione, visto che l'art. 256, in realtà, configura ipotesi di reato solo a carico di titolari di enti o imprese.
2 PIEROBON, Il d.l. sulla terra dei fuochi e sull'Ilva, in www.lexambiente. it, 12 dicembre 2013

Dopo le elezioni del 2009 per il rinnovo del Presidente e del Consiglio, la Regione Sardegna ha assunto varie iniziative volte ad aggirare e attenuare le misure di tutela del paesaggio ...>>>
Dopo le elezioni del 2009 per il rinnovo del Presidente e del Consiglio, la Regione Sardegna ha assunto varie iniziative volte ad aggirare e attenuare le misure di tutela del paesaggio disposte dal piano paesaggistico regionale approvato nella legislatura precedente. Queste iniziative hanno suscitato non soltanto opposizioni politiche locali e ferme denunce sul piano culturale, ma anche controversie di fronte alla Corte costituzionale descritte nel volume Lezioni di piano[1].

Una di queste controversie si riferisce allo stagno della salina di Molentargius, in Comune di Cagliari, una zona umida che la Regione aveva costituito in parco naturale nel 1999; il piano paesaggistico del 2006 aveva rafforzato la tutela di tutte le zone umide, istituendo una fascia di rispetto di 300 metri. Il contenzioso è nato dopo che il Comune di Cagliari aveva rilasciato la concessione edilizia per la realizzazione in via Gallinara, a poche decine di metri dallo stagno di Molentargius, di un edificio di sei piani, senza curarsi del previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, che pure secondo il codice dei beni culturali e del paesaggio costituisce atto distinto e presupposto della concessione edilizia.

Il tribunale amministrativo regionale ha annullato la concessione edilizia, e la sentenza è stata confermata in appello dal Consiglio di Stato[2]. Ma la Regione Sardegna, al fine di salvare l’edificio che nel frattempo era stato effettivamente realizzato, aveva approvato una legge con la quale, a sei anni di distanza dal piano paesaggistico regionale, dava mandato alla Giunta regionale di assumere una deliberazione di interpretazione autentica del piano stesso al fine di stabilire che la fascia di rispetto non si applica alle zone umide, ma solo ai laghi naturali ed agli invasi artificiali, con conseguente esclusione della predetta fascia dal regime di autorizzazione paesaggistica[3]. La disposizione aveva carattere retroattivo, poiché la legge imponeva ai Comuni e agli altri enti competenti di «adottare i necessari atti conseguenti con riferimento ai titoli abilitativi rilasciati a decorrere dal 24 maggio 2006, data di entrata in vigore del Piano paesaggistico regionale», in conformità alla delibera di interpretazione autentica.

La Corte costituzionale non si è lasciata ingannare dalla prospettazione della legge regionale, impugnata dal governo Monti. Essa ha ricordato i propri precedenti, secondo cui le leggi di interpretazione autentica con efficacia retroattiva non sono del tutto escluse ma devono trovare adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza. La Corte ha ricordato altresì che la preminenza del diritto e il diritto a un equo processo stabilito dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ostano, in linea di principio, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia. L’unica eccezione, tale da legittimare interventi retroattivi del legislatore, è costituita dalla sussistenza di “motivi imperativi di interesse generale” che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ravvisato al verificarsi di specifiche condizioni, fra le quali la sussistenza di “ragioni storiche epocali” o anche la necessità di porre rimedio a una imperfezione tecnica della legge interpretata, ristabilendo un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore, o di «riaffermare l’intento originale del Parlamento».

La norma regionale della Sardegna impugnata non è stata considerata riconducibile alle fattispecie di leggi retroattive fatte salve dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il suo effetto era quello di una riduzione dell’ambito di protezione riferita a una categoria di beni paesaggistici, le zone umide, senza che ciò fosse imposto dal necessario soddisfacimento di preminenti interessi costituzionali; e ciò, peraltro, in violazione dei limiti che la giurisprudenza costituzionale ha ravvisato alla portata retroattiva delle leggi, con particolare riferimento al rispetto delle funzioni riservate al potere giudiziario.

La Corte ha dunque dichiarato illegittima la norma impugnata, ma ha anche fatto cadere la legge regionale nella sua interezza, estendendo in via conseguenziale la pronuncia di illegittimità anche alla diposizione che imponeva ai Comuni e agli altri enti competenti di adottare, in conformità alla deliberazione di interpretazione autentica della Giunta regionale, i necessari atti conseguenti con riferimento ai titoli abilitativi edilizi rilasciati a decorrere dal 24 maggio 2006, data di adozione del Piano paesaggistico regionale. Quest’ultima disposizione era infatti strettamente e inscindibilmente connessa alla disposizione precedente, non solo perché ne confermava la portata retroattiva, ma anche in quanto ne presupponeva l’applicazione[4].

La motivazione della sentenza è ancora più persuasiva per l’ampio e felice intreccio tra i princìpi della giurisprudenza costituzionale interna e quelli della giurisprudenza sulla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La legge regionale è risultata in violazione dei princìpi della Costituzione italiana, ma anche e contemporaneamente di quelli del patrimonio costituzionale sovranazionale europeo. Ma la sentenza è anche di buon auspicio per la definizione degli altri contenziosi di costituzionalità in tema di paesaggio nella Regione Sardegna.



[1]V. Tre contenziosi costituzionalità,in Lezioni di piano, L’esperienzapioniera del Piano paesaggistico della Sardegna raccontata per voci, voceguida di Edoardo Salzano, Venezia, Corte del Fontego, 2013, 177 ss.
[2] Cons.St., IV, 16 aprile 2012, n. 2188.
[3]L.r. Sardegna 12 ottobre 2012, n.20, Norme di interpretazione autentica inmateria di beni paesaggistici, modificata dall’art. 2, comma 4, l.r 2agosto 2013, n. 19.
. [4]Corte cost., 17 dicembre 2013, n. 308.

Una pagina indimenticabile dal libro del fondatore dell’etologia scientifica, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, (Adelphi, Milano 1974). Con postilla

Basta confrontare con occhi spassionati il vecchio centro di una qualsiasi città tedesca con la sua periferia moderna, oppure quest’ultima, vera lebbra che aggredisce le campagne circostanti, con i piccoli paesi ancora intatti. Si confronti poi il quadro istologico normale con quello di un tumore maligno, e si troveranno sorprendenti analogie! Se consideriamo obiettivamente queste differenze e le esprimiamo in forma numerica, anziché estetica, constateremo che si tratta esattamente di perdita di informazione.

La cellula neoplastica si distingue da quella normale principalmente per aver perduto l’informazione genetica necessaria a fare di essa un membro utile alla comunità di interessi che rappresentata dal corpo. Essa si comporta come un animale monocellulare o, meglio ancora, come una giovane cellula embrionale: è priva di strutture specifiche e si riproduce senza misura e senza ritegni, con la conseguenza che il tessuto tumorale si infiltra nei tessuti vicini ancora sani e li distrugge. Tra l’immagine della periferia urbana e quella di un tumore esistono evidenti analogie: in entrambi i casi vi era uno spazio ancora sano in cui erano state realizzate una molteplicità di strutture molto diverse, anche se sottilmente differenziate fra loro e reciprocamente complementari, il cui saggio equilibrio poggiava su un bagaglio di informazioni acquisite nel corso dei secoli: laddove nelle zone devastate dal tumore o dalla tecnologia moderna il quadro è dominato da un esiguo numero di strutture estremamente semplificate.

Il panorama istologico delle cellule cancerogene, uniformi e poco strutturate, presenta una somiglianza disperante con la veduta aerea di un sobborgo moderno e con le sue case standardizzate, frettolosamente disegnate da architetti privi ormai di ogni cultura”.

postilla
Lo sguardo dell’etologo vede la città da un punto di vista particolare. Descrive la città, l’habitat della società umana, da un punto di vista che non può essere trascurato. Coglie un aspetto che,oltre a rivelare i danni prodotti nei secoli recenti, rivela la dimensione immane del lavoro di chi voglia impedire che la città antica sua circondata da una proliferazione maligna di sobborghi disumani Lorenz denuncia è l’habitat dell’uomo progettato e costruito dove hanno trionfato il gioco perverso dell’appropriazione privata della rendita urbana e l’incapacità della società di farsi governo collettivo delle trasformazioni del territorio. Per fortuna esistono, nella storia della città antica (e della cultura e dalla pratica dell'urbanistica contemporanea) elementi che possono aiutare a costruire una città diversa da quella denunciata da Lorenz. E forse, a guardar bene dentro l’ammasso informe di quelle metastasi, si può riuscire scorgere i germi di un nuovo habitat della società, in grado di renderlo diverso da quello della rendita e dell’individualismo esasperato.

L'Unità, 24 dicembre 2013

Il doping delle tesi preconcette, o precotte, più sbagliate ci è ormai entrato in vena. Domanda Fabio Fazio al ministro Massimo Bray perché al Metropolitan Museum vadano molti più visitatori che ai nostri Uffizi. Domanda che non sta in piedi, anzitutto per ragioni fisiche: il milione e 700 mila visitatori degli Uffizi, se raddoppiati o triplicati, non ci “starebbero” (in attesa del raddoppio del Museo) e però il Polo museale fiorentino - che brilla di tante stelle - ha registrato nel 2012 oltre 5 milioni di visitatori, cifra vicina a quella del Met. Che peraltro pratica il sistema del prezzo “consigliato”, cioè i visitatori danno quanto gli aggrada: circa 10 dollari a testa. Meno di quanto costa, in media, il biglietto in Italia. Agli Uffizi 15 euro, i ridotti 11,75.

Quindi, domanda mal posta. Che ne presuppone in genere un’altra (errata). Perché all’estero i grandi musei “sono macchine da soldi” e in Italia no? Una balla sonora. Allo stesso Metropolitan biglietti e altri proventi coprono soltanto ad una metà dei costi, il resto lo si colma con denaro federale, dello Stato, donazioni, ecc. Ugualmente il Louvre che, coi suoi tanto vantati 9 milioni di visitatori e con un apparato di servizi commerciali aggiuntivi da paura ha un 40-45 % di disavanzo annuale. Coperto dal denaro dei contribuenti. Gli inglesi hanno scelto nei Musei nazionali la via della gratuità e, secondo i dati del Department for Culture, i visitatori, dal 2001 al 2012, sono cresciuti del 51 %. Quando i musei impongono un biglietto per le mostre, gli ingressi calano subito. Quindi la gratuità dei musei fa aumentare l’indotto turistico. Dove noi siamo e restiamo deboli, molto deboli.

Il ministro Bray, invece di smentire, dati nazionali e internazionali alla mano, Fazio, ha preferito raccontare la sua tormentata gita ferroviaria a Pompei. E qui cade l’autoflagellazione (o la inarrestabile tendenza “tafazziana”) tipica di noi italiani: parlare soltanto di ciò che va male, e a Pompei non v’è dubbio che è andata molto male. Per l’insipienza degli archeologi? No, per tante ragioni fra le quali il commissariamento demenziale di un certo Marcello Fiori che ora Berlusconi ha eletto timoniere della rinata Forza Italia (auguri) e la sottovalutazione del rischio-camorra negli anni passati. Altra “tafazzata” per la vicenda del gigantesco corno rosso davanti alla Reggia di Caserta: perché non accennare al fatto che la splendida fabbrica, borbonica e murattiana - che ha avuto, certo, problemi seri per i Giardini - è stata splendidamente restaurata anni fa dallo Stato?

Bray è stato efficace, va detto, sui Bronzi di Riace finalmente restaurati e presto di nuovo esposti nel Museo di Reggio Calabria nonostante le pressioni per portarli in città turisticamente più appetibili, o magari all’estero, come sta succedendo al Galata morente dei Capitolini, ai 35 Raffaello mandati nel lontano Giappone o ai tanti Caravaggio fatti viaggiare su e giù in Tir. Con tutti gli stress climatici e fisici del caso. Ma soprattutto sottraendoli ai visitatori stranieri venuti apposta nei nostri musei per ammirarli. E imbufaliti.

Un’altra scemenza ormai in vena: siamo dei poveretti perché nel centro storico romano non circolano (?) le masse di turisti di Berlino, di Londra, o di Parigi. Trascurando due o tre cosucce: a) che l’Italia può offrire una dozzina di capitali dell’arte oltre a Roma (Firenze, Napoli, Venezia, Palermo, Genova, Torino, Milano, Bologna, magari Mantova e Parma, e pure Assisi e Pompei); b) che a Roma il centro storico romano, medioevale, rinascimentale, barocco, neoclassico, ecc. esiste ancora, con una fitta rete di strade, stradette, vicoli e piazzette, che - al pari della Galleria Borghese dove le visite sono ovviamente contingentate per ragioni di sicurezza e di microclima - non possono essere “gonfiate” e trasformate in un totale Divertimentificio essendovi residenti, fissi e saltuari, uffici, pubblici e privati, insomma una città - mentre a Londra (per incendi e speculazioni), a Berlino (per le bombe) e a Parigi (per il barone Haussmann) - il centro storico medievale e successivo non esiste più, se non a brandelli; c) che già la flotta di bus turistici e di quelli dei pellegrini, per ora sgovernata, sta rendendo meno vivibile, a tutti, Roma. Quanto ai dati sul turismo a Roma, ci andrei cauto: quelli ufficiali registrano forse la marea dei B&B in nero sorti di recente e il pianeta delle case religiose offerte a buon prezzo un po’ dovunque? Un’ultima cosa (trascurata dai luoghi comuni calcificati): il turismo che va per chiese, e non solo per musei, chi lo censisce? E però nel Sud le chiese conservano i due terzi circa del patrimonio. A Roma - nel tratto fra Ponte Sant’Angelo e il Pantheon, un paio di Km scarsi - incontri l’antica Zecca e palazzi vicini (Sangallo), l’Oratorio dei Filippini (Borromini), la Chiesa Nuova (2 Rubens, 2 Barocci, un Guido Reni, ecc.), San Salvatore in Lauro (Pietro da Cortona e il Cenacolo dei Piceni, arte veneta), Santa Maria della Pace (Raffaello, Peruzzi, Gentileschi, il chiostro di Bramante, Pietro da Cortona), Sant’Andrea della Valle (grandioso ciclo di Domenichino, Mattia Preti, Lanfranco, ecc.), Sant’Agnese in Agone (Borromini) e, dico niente, piazza Navona (Bernini e altri), Sant’Agostino (Raffaello e Caravaggio), San Luigi dei Francesi (Caravaggio, e che Caravaggio, e Domenichino) e altro ancora prima del Pantheon che, essendo una chiesa, non fa pagare né registra ingressi…Chi fa conoscere o “promuove” questo patrimonio? Nessuno. Santa Maria della Pace è aperta tre mattine, stentate, a settimana.

“Unità”, 24 dicembre 2013

Qualche breve considerazione generale sul fallimento del progetto Cerba di Umberto Veronesi a Milano, e sulle prospettive future di una città metropolitana al passo coi tempi, e non con le esigenze di qualche gruppo finanziario speculativo

Nell'ultima valanga di dichiarazioni arroventate, dopo la bocciatura del progetto di Centro Ricerche Biomediche Avanzate, si confonde sicuramente nel clamore quella sottotono dell'ex candidato alla presidenza della regione Lombardia, Umberto Ambrosoli, e della vicesindaco con delega all'urbanistica, De Cesaris: cerchiamo un'altra area? Non trova tantissima eco, e per forza, dato che implacabilmente mette in primo piano il vero oggetto del contendere di tutta la faccenda, ovvero una ennesima, grossa speculazione edilizia, finanziaria e chissà cosa sul groppone dei cittadini, della qualità ambientale, dello sviluppo metropolitano, pudicamente nascosta dietro la semitrasparente tendina del solito progetto sostenibile per autodefinizione, di green hospital, e naturalmente dell'ego di Umberto Veronesi, all'interno del quale ogni contraddizione urbanistica, giudiziaria, sociale, scientifica, sanitaria e via dicendo, deve per destino ineluttabile trovare ricomposizione. E invece no.

E invece: cerchiamo un'altra area? Si riparte esattamente dalle osservazioni di chi, giusto all'inizio della vicenda, non si sognava neppure di metter becco negli obiettivi scientifici, occupazionali, socio-sanitari di questo green hospital, e neppure a ben vedere nemmeno del suo estendersi su tutti quegli ettari. Anche se di solito il risultato urbanistico di certe autoreferenziali megalomanie mediche (quei baracconi fabbriche di traffico degrado esclusione e di disagio dentro e fuori che sono la maggior parte dei nostri ospedali) non è gran che, accettiamo pure in parte questa relativa invasione di campo. Ma: perché proprio lì? Non c'è un altro posto?

Visto che ci si appella all'Europa, al globo terracqueo intero per salvare la Scienza con la S maiuscola, per rilanciare il ruolo dell'area metropolitana sul versante dell'economia della conoscenza, magari si potrebbe attingere al medesimo contesto anche qualche spunto sul versante della pianificazione territoriale, e senza passare necessariamente attraverso il filtro tuttologico del professor Veronesi, che sicuramente (l'ha già fatto con le scorie nucleari, con gli Ogm all'Expo eccetera) vorrebbe impartire all'umanità tutta lezioni magistrali di planning. Se guardiamo a tutto il mondo, scopriamo che le migliori tendenze e i migliori auspici per lo sviluppo urbano, occupazionale, di riqualificazione sostenibile, ruotano attorno a un paio di principi: contenimento sino all'opzione zero del consumo di superfici greenfield, e coinvolgimento delle imprese di alto profilo tecnologico, scientifico e organizzativo nel recupero di aree brownfield, dove intervenire per progetti integrati che massimizzino il riuso di infrastrutture esistenti e ricostruiscano sistemi di quartiere multifunzione.

Solo per fare un piccolo esempio: pare del tutto campato per aria straparlare di mobilità dolce e integrazione spaziale, se alla prima occasione (e che occasione, sul versante occupazionale e competitivo) ci si siede passivamente sul modello insediativo suburbano automobilistico, salvo promettere come si fa in buona sostanza sempre da una cinquantina d'anni, grandi futuri investimenti in costose metropolitane. Intervenire su aree già urbanizzate, tendenzialmente centrali, consente il riuso e rilancio di infrastrutture esistenti, la modernizzazione di altre, un effetto domino positivo su zone confinanti. E ogni metro di recupero brownfield corrisponde a parecchi metri di greenfield risparmiato.

Il professor Umberto Veronesi, nelle sue varie e multiformi espressioni dichiarazioni, pubblicazioni, sostiene la superiorità della dieta vegetariana, e forse non gli sarà sfuggito neppure il moderno movimento che tende a legare in qualche modo alimentazione, salute, territorio, ambiente. Senza entrare in dettagli, vale però la pena ricordare che nei modelli di sviluppo urbano (quelli per intenderci su cui si discute da un paio di secoli, non le trovate dell'altro ieri tutte da verificare) c'è il sistema delle interposizioni agricole e naturali ai processi di espansione urbana e artificializzazione degli spazi. In gergo si chiamano queste fasce di separazione greenbelt, green wedge, green buffer, e a seconda dei contesti svolgono un ruolo di superfici agricole, a parco, o più recentemente di infrastrutture verdi ovvero sfruttamento anche ingegneristico di funzioni naturali nel metabolismo urbano. Lì si possono concentrare anche le produzioni di alimenti destinati alla rete di distribuzione locale, che come ancora insegnano le esperienze internazionali risultano più sani, sostenibili, socialmente utili.

Il Cerba, piazzato nel bel mezzo della greenbelt milanese, con l'unico evidente motivo di stare accanto all'esistente Istituto Oncologico Europeo del professor Veronesi, era in aperta contraddizione con tutto quanto riassunto sopra. Le vicende legali del gruppo Ligresti, proprietario delle aree, le modifiche successive del progetto urbanistico piuttosto banalizzanti, ne hanno anche messo in luce non pochi risvolti del tutto strumentali a cose che con la Scienza, la Salute, lo sviluppo locale, hanno pochissimo o nulla a che fare. E, lasciando ovviamente alla magistratura il compito di far chiarezza e giustizia su questi risvolti, si può concludere invitando tutti, Veronesi incluso, a considerarli proprio dei risvolti, sgradevoli ma secondari. E a rilanciare l'inascoltato, sinora, appello di tutti gli oppositori. Oppositori non della Scienza, della Salute e che altro, ma oppositori di loro strumentalizzazioni indebite a nascondere squallide speculazioni sulla pelle dei cittadini e della città. Allora: cerchiamo un'altra area?

Poscritto. Pare che Veronesi voglia indire addirittura un referendum cittadino a sostegno della propria idea (e implicitamente degli interessi che l'hanno sostenuta sinora). Abbastanza facile immaginare quali sarebbero le argomentazioni di questo referendum, spiegato più o meno nei termini: tu cittadino sei favorevole o contrario alla lotta contro il cancro? Il che confermerebbe se necessario l'idea maturata lungo tutto l'arco della vicenda, che il principale ostacolo al Centro Ricerche Avanzate sta nell'ingombrante presenza del suo sponsor, il professore Veronesi (f.b.)

Per le feste ognuno regala ciò che vuole. L'attuale maggioranza parlamentare ha preparato un pacco che fa rimpiangere i peggiori sostenitori dell'abusivismo della Prima repubblica. Ringraziamo l'autore che con un'e-mail del 21 dicembre ci ha trasmesso questa squallida notizia, che pubblichiamo nella speranza di poterla smentire domani


L'attuale maggioranza ha approvato ieri al Senato una norma che consente, di fatto, la sanatoria dei manufatti abusivi posti sulle spiagge (chioschi bar, cabine, verande coperte dei ristoranti, case mobili, depositi, magazzini, piscine prefabbricate e quant'altro). Si tratta dell'art. 1, comma duodevicies (18), della legge di conversione del DL n. 126 del 2013 (c.d. "decreto salva Roma).
In pratica viene consentito a tutti coloro che gestiscono le concessioni demaniali (quindi lo stesso discorso vale per le rive dei fiumi e dei laghi) di tenere in piedi e sfruttare queste strutture abusive pagando, in cambio, soltanto il 3% in più del canone concessorio. Questi manufatti diventano da "precari" (e quindi da rimuovere obbligatoriamente a fine stagione) a "stabili" in quanto la loro vita viene legata alla durata delle concessioni demaniali marittime che vengono prorogate per legge di continuo (da ultimo, fino al 31 dicembre 2020).
E' veramente odioso che una norma di così grande impatto per il paesaggio e di alto valore per la lobby degli stabilimenti balneari sia stata formulata in modo da far pensare che sia una norma per far pagare di più (il 3%) i concessionari, quando in ballo c'è ben altro. Infatti, non solo dall'entrata in vigore della legge in poi le spiagge potranno essere occupate da vari depositi, chioschi e casette di legno, senza alcuna regola, ma le norme valgono pure a "sanare" (anche se la legge sul punto è volutamente vaga) quelle opere oggetto di processo penale in corso in quanto realizzate senza permesso nè autorizzazione paesaggistica. Infatti, qualora si estenda a queste opere il concetto di opere precarie, si estende ad esse il regime liberistico ad esse connesso con la conseguente chiusura dei processi pendenti poichè il fatto non sarà più considerato dalla legge come reato.

Da oggi il provvedimento è alla Camera e questo pomeriggio la Commissione Bilancio dovrà esprimersi anche su questa norma. Il voto finale, con probabile apposizione della questione di fiducia, si avrà entro domani mattina.

«Se la crescita non ridiventa progresso, cioè ridistribuzione dei redditi, salute, istruzione, casa, salario e pensione dignitosi, ambiente sano, allora sarà solo un altro episodio effimero dell’accumulazione della ricchezza nelle mani di pochi». Greenreport, 19 dicembre 2013

Oggi, poche ore dopo che l’Onu aveva annunciato che la crescita mondiale sarà del 3% (ne parliamo in un altro articolo) e mentre l’Istat si accorge che l’Italia è più povera, ma il mondo è più ricco, il centro studi di Confindustria avverte che «La profonda recessione, la seconda in 6 anni, è finita. I suoi effetti no» e poi aggiunge che parlare di ripresa «E’ per molti versi improprio» e «derisorio». Secondo Confindustria «Il Paese ha subito un grave arretramento ed è diventato più fragile, anche sul fronte sociale» e parla di «Danni commisurabili solo con quelli di una guerra».

Fuoco amico, verrebbe da dire, visto che Confindustria ha sposato e chiesto tutte le politiche liberiste in salsa italo-populista che ci hanno portato a questa situazione. I lettori di greenreport.it sanno che non siamo certo teneri con il governo delle (ex) grandi intese, ma è un filino ingeneroso quanto scriveva ieri sul Sole 24 Ore il direttore Roberto Napoletano: «Il presidente del Consiglio, Enrico Letta, deve trovare il coraggio di scalare la montagna e tornare a respirare aria buona altrimenti è destinato a morire velocemente di smog. Ci siamo rivolti a lui poco più di tre settimane fa chiedendogli di ascoltare il Paese e di avere come stella polare della sua legge di stabilità il lavoro, l’industria, la domanda interna». Ingeneroso perché quella montagna hanno contribuito a costruirla molti imprenditori, la vera classe dirigente di questo Paese che non può far finta di non aver avuto anche pesanti responsabilità politiche e di aver indicato la strada economica (che troppe volte portava a delocalizzare in Romania, Moldavia, Cina e Vietnam) che ci ha portato a questo stretto sentiero, sul baratro sotto la montagna, dal quale ci tocca passare, se ne saremo capaci.

Non ci si può lamentare di un milione e 810 mila posti di lavoro a tempo pieno persi dal 2007 ad oggi dopo aver inneggiato per anni alla flessibilità ed averla tradotta in una precarietà umiliante che sconfina con il lavoro nero, non ci si può lamentare della rivolta sociale e della disperazione delle piccole imprese dopo aver detto (e continuato a dire) che il welfare State era una ferrovecchio socialdemocratico e che il mercato avrebbe sistemato tutto… bastava scatenare gli spiriti animali e fare un po’ di piazza pulita del ciarpame sinistroide e sindacale.

In un Paese dove giornalisti e telecamere corrono dietro ad un manipolo di facinorosi con forconi e ignorano completamente grandi manifestazioni sindacali, dove si dà più spazio ad un qualsiasi tizio sul lastrico che la globalizzazione ha prima arricchito con il trucco della delocalizzazione e della manodopera malpagata e senza diritti, a gente che ha scoperto che se si impoveriscono e si licenziano gli italiani poi non possono più nemmeno comprare il made in Italy prodotto a Tamisoara, in un Paese dove chi chiede dignità e diritti viene fatto passare per un attempato ideologico e il fascismo di Casa Pound diventa qualcosa a cui dare ascolto perché interpreta la rabbia di chi solo poche settimane fa avrebbe investito con il Suv o la Jaguar i suoi operai in sciopero… In questo Paese ingannato, piegato ed incanaglito che vive il peggiore inverno del suo scontento, è difficile riportare tutto quello che sta succedendo alla reale dimensione che si può riassumere in una parola che è diventata una bestemmia: politica, o meglio politiche.

E’ stata politica la decisione di Barack Obama di prendere atto del fallimento del liberismo neo-conservatore ed avviare un intervento dello Stato nell’economia che sta portando gli Usa fuori dalla crisi e creando nuovi posti di lavoro, è stata politica la scelta dei partiti conservatori e liberisti che dominano l’Europa da 10 anni di tentare di chiudere la partita con il welfare state socialdemocratico, è stata politica la scelta di non salvare la Grecia e di mettere in atto un esperimento di shock economy che ha ridotto quel piccolo Paese in miseria, è politica la politica incarnata nella Troika che ha imposto a governi come quelli spagnolo, portoghese, irlandese ed italiano di diventare volenterosi carnefici di una visione ideologica dell’economia e dei rapporti sociali.

E è politico, maledettamente politico, chi semina l’illusione che la via di uscita da questa crisi, che ci toglie il respiro del futuro e ci annebbia la vista e l’orizzonte, sia uscire dall’Europa e dall’euro per recuperare una “sovranità monetaria” che negli anni ormai dimenticati della lira significava svalutazioni a ripetizione e inflazione a due cifre che erodeva rapidamente ogni aumento salariale.

E’ politica, maledettamente politica, che la crescita nei Paesi che stanno uscendo dalla crisi sia per ora un rimbalzo del baratro nel quale ci ha precipitati l’economia neoconservatrice del pensiero unico e che questo rimbalzo significhi un ulteriore arricchimento di chi ha già enormi ricchezze e posti di lavoro precari e mal pagati per chi ha già enormi disagi ed ha perso diritti e garanzie.

Il fatto è che l’economia è politica, può farla od esserne condizionata, e gli anni che (forse) ci lasciamo alle spalle sono stati anni di sudditanza della politica all’economia più ingorda, e non viceversa come vorrebbero farci credere e come credono i forconi. La verità è che non è uscendo dall’Europa e dall’Euro che si salva l’Italia e si dà una speranza ai nostri giovani e un lavoro ai nostri disoccupati, non è chiedendo un nuovo (l’ennesimo) uomo forte che si riparano i torti, la verità è che si ottiene più giustizia sociale solo se in Europa ritornano a contare quelli che quella giustizia sociale la vogliono, se si ritorna a parlare di welfare state, di progresso, se si rompe l’incantesimo dei vari Barroso, Merkel, Berlusconi. Aznar, applauditi e sostenuti dalle varie confindustrie, e che si è tramutato nell’incubo senza colpevoli dell’Europa neoconservatrice.

La verità è che se la crescita non ridiventa progresso, cioè ridistribuzione dei redditi, diritto alla salute, all’istruzione, alla casa, ad un salario e ad una pensione dignitosi, ad un ambiente sano, allora si tratterà solo di un altro episodio effimero dell’accumulazione della ricchezza nelle mani di pochi, dell’eterna ingordigia umana all’opera prima della nuova crisi in un mondo in crisi ecologica e dove nascono ogni giorno molti più poveri che ricchi.

Intervistato da Giampiero Rossi sul fallimento del Cerba nel Parco Sud, il professore da par suo si lancia in una serie di considerazioni paradossali: che saranno mai un po' sterpaglie (sic) paragonate alla ricerca, fatta dove dico io? Corriere della Sera Milano, 19 dicembre 2013 (f.b.)

«È strano, davvero strano, avere un sindaco contrario a un’opera di scienza, di civiltà, di avanzamento culturale... Ma noi andremo avanti, troveremo il modo per realizzare comunque il Cerba».

Il professor Umberto Veronesi, il “padre” del progetto Cerba, assicura di non essere arrabbiato. Anzi di essere «tranquillissimo». Ma le sue parole lasciano intendere chiaramente il disappunto nei confronti della decisione del Comune di Milano.
Lei non trova che le motivazioni per congelare il progetto del Cerba abbiano fondamento?

«Se devo dire la verità, io non riesco proprio a capire. Anche perché è una posizione che il Comune ha assunto soltanto di recente. Tutti i sindaci precedenti sono stati favorevoli. E anche lo stesso Pisapia lo era fino a sei mesi fa... No, proprio non capisco».

Ma oltre alle implicazioni giudiziarie, i terreni interessati dal progetto sorgono nel Parco Sud...
«Sulla carta. Ma andiamo a vederlo: quello non è davvero un parco. Si tratta di terreni brulli, pieni di sterpaglie e immondizie. Noi, piuttosto, abbiamo in progetto di trasformarlo in un vero parco, piantando 20 mila alberi nella tradizione dei cosiddetti green hospital».

Ma secondo lei che lo ha pensato, se non si fa il Cerba cosa perde Milano?
«Perde uno dei più grandi progetti di questo inizio secolo. Un punto di riferimento per l’intera ricerca europea, perché nel nostro continente la scienza medica è ancora molto frammentata, diffusa, non ha un coordinamento e armonizzazione, come negli Stati Uniti. In futuro quel ruolo di spinta e regia toccherà al Cerba».

Professore, lei continua a essere certo di realizzarlo?
«Noi siamo pronti a partire, siamo arrivati fin qui e andremo avanti».

E come?
«Certo, ora è un problema, ma se convinciamo il Parco Sud a darci un pezzo di terreno...».

Nota: in questa cartella dedicata a Milano, sono decine e decine i contributi che raccontano le vicende del CERBA di Veronesi; ho provato su Millennio Urbano a circostanziare un po' di più, e anche contestualizzare in un quadro internazionale, questo disprezzo per l'ambiente, e in fondo la salute (f.b.)

A proposito di "città resiliente". La soluzione non è nell'imparare a resistere al danno, ma nell'impedirlo. Partiamo dal "diritto alla salute" per risanare il territorio. Così evitiamo anche che il "fare" si traduca nell'"affare". Il manifesto, 18 dicembre 2013

Nel lin­guag­gio comune i disa­stri ambien­tali sono espressi come se fos­sero delle malat­tie da curare o da pre­ve­nire. Quando si dice «cura del ter­ri­to­rio» si intende rife­rirsi ad un luogo fisico idro­geo­lo­gi­ca­mente amma­lato. L’Anci sco­pre la «resi­lienza» (la capa­cità dei metalli di resi­stere agli urti) e scrive un deca­logo per invi­tare le città a orga­niz­zarsi con­tro gli eventi avversi. 6663 comuni sono a rischio idro­geo­lo­gico. I retori della poli­tica nei talk show tra­di­scono la loro cat­tiva coscienza: «Dob­biamo par­tire dai pro­blemi del paese», e subito dopo imman­ca­bil­mente il pas­sag­gio sul «fare»: «Basta con le chiac­chiere abbiamo biso­gni di fatti».

Tra­volti dall’ineluttabile, il «fare» si tra­sforma in «affare» come con il ter­re­moto dell’Aquila, l’Ilva di Taranto, la «terra dei fuo­chi». L’affare è tanto la cura del ter­ri­to­rio malato quanto tutto quanto lo fa amma­lare. Dipende. Il ter­ri­to­rio amma­lato, scri­vono i gior­nali, è un affare che distrugge altri affari. La «terra dei fuo­chi» causa il calo del con­sumo della moz­za­rella Dop. Si tratta di «met­tere in sicu­rezza il ter­ri­to­rio» dice il con­sor­zio allar­mato. Curare il ter­ri­to­rio o curare le per­sone pone sem­pre la stessa eterna que­stione dei finan­zia­menti… altri affari.

Ma si può curare il ter­ri­to­rio senza curare le per­sone? Si pos­sono curare le per­sone senza eman­ci­parle? E si pos­sono eman­ci­pare le per­sone senza libe­rarle dalle oppres­sioni? E si pos­sono libe­rare le per­sone dalle oppres­sioni senza che val­gano qual­cosa? Ma siamo pro­prio sicuri che dob­biamo par­tire dai «pro­blemi»? Siamo pro­prio sicuri che dob­biamo «fare» senza eman­ci­pare? Siamo sicuri che la strada degli affari prima ancora che quella dei diritti sia la stra­te­gia giusta?

Il mio dub­bio, lo con­fesso, non è tanto meto­do­lo­gico, ma este­tico, per­ché il discorso dell’emancipazione della per­sona oggi nello stato in cui si trova la sini­stra, sem­bra un rot­tame di altri tempi. Eppure nel nostro paese l’unica vera impor­tante espe­rienza di salute è coin­cisa con l’ideale di eman­ci­pa­zione dell’uomo, cioè di libe­ra­zione del sog­getto dagli asser­vi­menti, dallo sfrut­ta­mento, dalle discri­mi­na­zioni. Un tempo la salute nei luo­ghi di lavoro coin­ci­deva con la rior­ga­niz­za­zione della fab­brica, quella della donna con l’emancipazione dalle discri­mi­na­zioni, quella men­tale con la lotta con­tro le isti­tu­zioni totali, quella dei diver­sa­mente abili con il rifiuto dell’esclusione sociale, e quella dell’anziano con il diritto a non essere sra­di­cati, e infine quella del bam­bino non più visto come «pro­dotto con­ce­pito», ma come sog­getto evolutivo.

Que­sta lezione la con­si­dero, a certe con­di­zioni, molto attuale. Il suo nucleo è pro­fon­da­mente uma­ni­stico ed era quello che Kant non Marx avrebbe defi­nito un «impe­ra­tivo morale cate­go­rico»: la salute non è nego­zia­bile e men che mai mone­tiz­za­bile per­ché l’idea di diritto e di per­sona non è nego­zia­bile né mone­tiz­za­bile. Oggi se pen­siamo all’Ilva in ragione di una discu­ti­bile «real­po­li­tik» l’imperativo cate­go­rico è cam­biato: l’art 32 è nego­zia­bile e mone­tiz­za­bile per­ché le per­sone e il ter­ri­to­rio, nei con­te­sti ostili al lavoro, sono nego­zia­bili e mone­tiz­za­bili fino alle estreme conseguenze.

Anche la sini­stra crede di poter «risol­vere pro­blemi senza eman­ci­pare» vale a dire di poter «curare» il «pro­blema» dello schiavo senza eman­ci­parlo dalla «con­di­zione» di schia­vitù. Tra le tante schia­vitù, oltre quella della disoc­cu­pa­zione gio­va­nile, della dein­du­stria­liz­za­zione, della man­canza di inve­sti­menti, quella più odiosa di tutte è la cata­strofe pri­vata del can­cro, che potrebbe essere evi­tata a milioni di per­sone ma che non lo è in ragione dei nuovi impe­ra­tivi eco­no­mici della real­po­li­tik. Ma i pro­blemi che la real­po­li­tik vor­rebbe risol­vere, fuori da un qual­siasi ideale di eman­ci­pa­zione sem­brano ribel­larsi fino a diven­tare quasi irri­sol­vi­bili. Biso­gnebbe «fare» que­sto, quello, quell’altro ecc. E’ a que­sto punto che avviene l’abbraccio tra real­po­li­tik e fata­lità. In Cam­pa­nia, nella terra del «bio­ci­dio», per «fata­lità» l’incidenza dei tumori cre­sce come a Taranto, in misura mag­giore rispetto alle medie già altis­sime del paese, e sem­pre per «fata­lità» i tempi di attesa per la che­mio­te­ra­pia media­mente sono di due mesi e mezzo. La Cam­pa­nia, terra sca­ra­man­tica è il para­digma della falsa fata­lità, essa dimo­stra che fuori da un pro­getto di eman­ci­pa­zione si sfal­dano le garan­zie sociali, si taglia sulla sanità, si cor­rom­pono i diritti, si abban­do­nano le per­sone al loro destino. Ma se «inciam­pare nei pro­blemi», come dicono i pop­pe­riani retard della poli­tica, è un falso fata­li­smo, allora vuol dire che senza eman­ci­pa­zione si muore e basta e che la real­po­li­tik si dovrebbe assu­mere le pro­prie responsabilità.

Nel nostro Paese, dice l’Ocse la spesa è calata negli ultimi anni del 2.4%, ma se i malati aumen­tano chi ha pagato que­sta ridu­zione? E in che modo? Curare il ter­ri­to­rio costa quanto curare le per­sone, ma allora, chiedo soprat­tutto alla sini­stra, se la ric­chezza di un paese non è solo Pil ma anche salute, cioè eman­ci­pa­zione, per­ché non si pro­duce eman­ci­pa­zione per pro­durre ric­chezza sapendo che pro­du­cendo eman­ci­pa­zione riduco l’incidenza della spesa sani­ta­ria sul Pil? Quindi la domanda secca è: l’art 32 (il diritto alla salute) è o no un ideale di eman­ci­pa­zione? Non ritengo che l’ideale di eman­ci­pa­zione sia fal­lito e nean­che che sia incom­piuto, penso solo che l’art 32 debba essere ricon­te­stua­liz­zato in un nuovo pro­getto di eman­ci­pa­zione e in luogo della real­po­li­tik dare voce ad un nuovo riformismo.

Si avvicina, almeno così pare e speriamo, il definitivo accantonamento – anche se per motivi che avremmo preferito diversi - del progettone Ligresti-Veronesi in mezzo al Parco Sud. La Repubblica Milano, 18 dicembre 2013, postilla (f.b.)

La richiesta della Procura è arrivata qualche giorno prima che il Collegio di vigilanza, previsto per oggi pomeriggio, fosse convocato. E adesso questo passaggio rischia di compromettere ulteriormente la vicenda già tormentata del Cerba. I magistrati milanesi hanno chiesto a Palazzo Marino una serie di atti amministrativi correlati al progetto del Centro europeo di ricerca biomedica avanzata, nell’ambito del procedimento penale che verte sul fallimento delle due immobiliari del gruppo Ligresti, ImCo e Sinergia, proprietarie dei terreni su cui il polo scientifico dovrebbe sorgere. Una novità, questa, che potrebbe contribuire a confermare i dubbi degli enti locali, e in particolare di Palazzo Marino, sull’ipotesi di andare avanti con il progetto. E di dare l’ok alla richiesta, presentata dalla società Visconti srl, di avere un’ulteriore proroga per firmare gli atti integrativi all’Accordo di programma, necessari per permettere al progetto di restare in vita.

I pm che indagano sul crac hanno chiesto a Palazzo Marino i documenti che ripercorrono tutto l’iter amministrativo del Cerba. Ovvero, i verbali dei Collegi di vigilanza che si sono svolti finora, le proposte di integrazione all’Accordo di programma fatte nei mesi scorsi da Visconti srl (la società costituita dalle banche creditrici di Ligresti per presentare il concordato e rilevare il progetto), le richieste di proroga alla diffida inviata dal Comune nella primavera del 2013, e il provvedimento di sospensionedella diffida stessa firmato da Palazzo Marino a giugno.

La vicenda del Cerba inizia nel 2007, con la firma di un Accordo di programma tra Comune, Regione, Provincia e Fondazione Cerba. Nel 2012, il crac di ImCo e Sinergia, le immobiliari di Ligresti proprietarie dei terreni, si è rivelato il primo grande ostacolo all’operazione: in seguito al fallimento, il Comune la scorsa primavera ha inviato alla Fondazione una diffida (scadenza: 30 giugno) con la quale venivano concessi 90 giorni per regolarizzare la situazione e procedere alla firma di alcune integrazioni all’Accordo di programma.

La diffida prima dell’estate è stata prorogata di sei mesi (scadenza, 31 dicembre) in attesa dell’approvazione del concordato. La richiesta della Procura rischia però di complicare ulteriormente l’operazione. Tanto che i dubbi sull’esito del Collegio di vigilanza di oggi, decisivo per permettere al progetto di proseguire, sono diversi. Al centro della discussione, la richiesta di un’ulteriore proroga alla diffida presentata da Visconti srl, e alcune modifiche al progetto originale, quali la trasformazione del giardino previsto attorno al polo scientifico in parco agricolo. E la costruzione per unità di intervento, per diluire il pagamento degli oneri di urbanizzazione.

postilla

Implicito, nel linguaggio e nei temi dell'articolo, un giudizio complessivo riguardo all'operazione: niente progresso della scienza, aggiustamento minore nel modello di espansione urbana, insediamento di grande qualità architettonica fiore all'occhiello della metropoli europea. Solo, come su questo sito è stato ribadito infinite volte, miserabile speculazione sulla pelle dei cittadini e del loro diritto a un ambiente equilibrato, di cui l'archistar e lo scienziato rappresentavano solo la (consapevole, rassegnata) foglia di fico. Unico vero rimpianto, al solito, che a cavare le castagne dal fuoco debba essere la magistratura, e non altri controlli di merito, come quelli sul modello di crescita urbana e la sua coerenza, che a prima vista avrebbero dovuto entrare in campo con maggior evidenza da subito. Che serva almeno come monito per il futuro (f.b.)

Mentre si tagliano risorse per i bisogni di tutti (pendolari e altri) si arricchiscono i ricchi coi soldi di tutti. «Tra Genova e Milano si costruisce una linea ad Alta velocità, ma nessuno ha mai calcolato se è utile e se vale il costo previsto di 6 miliardi. Tanto paga lo Stato». Il Fatto Quotidiano, 18 dicembre 2013

Una grande opera è stata finalmente avviata, con pochissime proteste e un sostanziale silenzio mediatico: si chiama Terzo Valico. È un tunnel ferroviario tra Genova e la Pianura padana, pensato per le merci del porto di Genova, e che in futuro potrà anche divenire una linea Alta velocità fino a Milano.

Si chiama “terzo valico” perché di linee ferroviarie ce ne sono già due, fortemente sottoutilizzate. Oltre a questa comunanza con la Torino-Lione, anch’esso affiancato da una linea sottoutilizzata, il progetto costa molto caro (circa 6 miliardi, rispetto agli 8,5 della To-Li). Questa linea servirà anche a rendere più veloci i treni passeggeri, non solo quelli merci, e il traffico passeggeri è certo più consistente che sulla linea Torino-Lione . Però la dovremo pagare interamente noi: è una tratta nazionale, quindi niente contributi da altri paesi né dalla Unione europea. Persino l’ingegner Mauro Moretti, amministratore delle Ferrovie dello Stato, l’aveva dichiarata un’opera inutile in un convegno, poi è stato sgridato sul Sole 24 Ore per questa libertà che si era preso in pubblico, dall’ex-ministro dei Trasporti Pietro Lunardi. L’appalto è stato assegnato molti anni fa senza gara al Cociv, gruppo pilotato dall’impresa Gavio. Ovviamente questo appalto è inossidabile, ci mancherebbe.

Ci si aspetterebbe che al pubblico, agli amministratori e politici locali e a quelli dello Stato centrale, siano state fornite analisi economiche e finanziarie che dimostrino che non solo l’opera serve molto in relazione al suo elevato costo, ma che sia prioritaria rispetto ad altre. Infatti quelle analisi lì servono proprio a quello, soprattutto in una situazione di soldi pubblici scarsi.

I numeri che non si trovano

Lo scrivente, con l’aiuto di un bravo laureando genovese, ha cercato questi documenti economici, ma stranamente non è stato trovato nulla di nulla. Ma è stato trovato un graziosissimo documento di istruzioni su come l’opera deve essere presentata al pubblico da parte dei promotori. Anche lì, nessun cenno a dati economici o finanziari, o anche solo a previsioni dettagliate di domanda futura. L’opera è utile “in se”, metafisicamente (bè, c’è un grande porto e una grande città, che altro serve sapere? Poi il vasto pubblico non capirebbe quelle analisi complicate...). Inoltre può essere molto dannoso fornire argomenti ai perfidi nemici del progresso, dell’occupazione , dell’ambiente, del Porto, ecc., insomma della Patria, che poi magari leggerebbero quei dati in modo malevolo, come è già successo più volte in casi simili.
Tuttavia negli ultimi anni qualcosa è filtrato, da varie fonti. Chi scrive fu consultato per caso da due giovani ingegneri che erano stati incaricati di fare una analisi costi-benefici dell’opera. Ingenuamente chiesero: “Ma lei, che è così pratico di queste analisi, non può mica consigliarci qualche modo per far venire positivi i risultati? Noi ci abbiamo provato, ma non ci si riesce proprio...”. Peccato che si trattò di una rapida conversazione, e niente di documentabile.

Più recentemente, emerse un’ipotesi di finanziare l’opera con un finto intervento di capitali privati (cioè in “project financing”, come si dice in termini tecnici). L’impresa destinata a gestire la linea, Ferrovie dello Stato appunto, avrebbe pagato ai costruttori un “canone di disponibilità” fisso, cioè non dipendente dal traffico (che magari poi era poco, chissà...). Il canone annuo sarebbe stato ovviamente tale da ripagare interamente l’opera. Fs è una impresa al 100 per cento pubblica, ma giuridicamente una società per azioni, come le Poste che intervengono “spontaneamente” per salvare Alitalia. Quindi formalmente si tratta di un privato.

Bene, sembra tuttavia che anche con questo “schema creativo” i numeri in gioco fossero così tragici (ricavi da traffico previsti meno di un decimo della rata annua che Fs avrebbe dovuto pagare), che non se ne fece nulla. Allora il ministero dello Sviluppo guidato da Corrado Passera (nella persona del suo viceministro Mario Ciaccia), prese una decisione eroica: basta perder tempo, non occorre nessuno schema finanziario (scartoffie!), pagherà il 100 per cento lo Stato, cioè noi.

Il Sole 24 Ore, nello stesso periodo, pubblicò un articolo di lodi a una proposta di sconti fiscali dedicati alle “Grandi Opere”, articolo che conteneva questa perentoria affermazione: “In questo modo si potranno anche realizzare opere molto costose e con poco traffico”. L’ironia, si sa, non è patrimonio di tutti.

Intanto i cantieri sono partiti, che è quello che davvero interessa a costruttori e politici. Non si sa se ci saranno i soldi per finire l’opera, cosa che vale per quasi tutte queste iniziative. Alcuni gruppi locali protestano per possibili danni ambientali. Ottima cosa, i costi per risarcirli generosamente, e con molta pubblicità, sono assolutamente irrilevanti rispetto al valore dell’appalto. E così alla fine tutti saranno contenti.

Un manifesto significativo:


No imballaggi: «Gli scarti sono in costante aumento: da 49 milioni di tonnellate nel 2012 saliranno a 65 nel 2017 Per molti un peso di cui liberarsi, seminando veleni da Nord a Sud. Come rivela un rapporto Onu». La Repubblica, 17 dicembre 2013

Se li caricassimo su camion da 40 tonnellate, formerebbero una fila lunga tre quarti dell’equatore. È la fotografia al 2017 dei computer, palmari, televisori, frigoriferi e lavatrici che buttiamo nel corso di un anno. La definizione tecnica di questi materiali è “raee”, “rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche”, quella sostanziale è più difficile: per molti rappresentano un peso di cui liberarsi clandestinamente, spesso attraverso rotte che viaggiano da Nord a Sud seminando veleni; per altri costituiscono una risorsa preziosa perché recuperare i metalli preziosi e le terre rare contenuti nei beni gettati via può essere un buon affare.

Di sicuro questa nuova categoria di rifiuti costituisce una presenza sempre più ingombrante con cui bisogna fare i conti. I numeri contenuti nel rapporto Solving the E-Waste Problem (StEP) Initiative, un’iniziativa promossa dalle Nazioni Unite, rivelano una tendenza molto netta. Già oggi ognuno dei 7 miliardi di esseri umani che popolano il pianeta butta 7 chili di rifiuti elettrici ed elettronici all’anno, per un totale che sfiora i 49 milioni di tonnellate. Nei prossimi cinque anni ci sarà una crescita di un terzo, portando la cifra a 65,4 milioni di tonnellate: l’equivalente di 200 grattacieli come l’Empire State Building o di 11 Piramidi di Giza.

Il settore legato all’e-waste (i rifiuti elettronici) diventa così un termometro per misurare la crescita e la maturità delle varie economie. Nel 2012 la Cina si è collocata al primo posto nella classifica delle merci appartenenti a questa categoria con 11,1 milioni di tonnellate immesse sul mercato, seguita dagli Stati Uniti con 10 milioni di tonnellate. Ma la graduatoria si inverte quando si passa alla quantità dei prodotti elettronici buttati via: gli Usa, essendo partiti prima, hanno maggiori volumi di scarto: 9,4 milioni di tonnellate contro i 7,3 della Cina. E anche sul piano dell’ewaste pro capite la distanza è notevole: 29,8 chili per ogni statunitense rispetto ai 5,4 chili per ogni cinese.

Ma dove finiscono questi flussi in continua crescita? «L’obiettivo dello studio è comprendere meglio le rotte illegali per sistemare il puzzle delle esportazioni dei rifiuti elettrici ed elettronici», risponde Jason Linnell, direttore del Centro nazionale per il riciclo degli apparecchi elettronici (Ncer). «A fronte di aumenti così vistosi si tratta di ottenere un quadro il più preciso possibile per impostare la migliore linea di risposta».

Anche perché al momento la quota di commercio clandestino resta molto alta. La ricerca mostra che gli apparecchi più grandi, soprattutto tv e monitor, dagli Stati Uniti vengono esportati verso destinazioni come Messico, Venezuela, Paraguay e Cina, mentre i pc usati, soprattutto portatili, hanno più probabilità di andare verso i paesi asiatici e africani. Nei villaggi dei paesi più poveri questo afflusso si traduce in un drammatico aumento delle malattie legate allo smaltimento, senza le più elementari norme di sicurezza, di beni solo apparentemente innocui.

Qui è possibile leggere integralmente il rapporto StEP

Due articoli in due sezioni diverse dello stesso giornale, apparentemente senza alcun rapporto tra loro salvo il medesimo autore, toccano due aspetti del medesimo problema: sostenibilità e cittadinanza. La Repubblica, 11 dicembre 2013, postilla (f.b.)

Il diritto al cibo

C’è qualcosa di nuovo da dire a proposito della fame nel mondo? Qualcosa che non sia ancora stato detto. C’è. O meglio c’era. Ed è quel che ha detto lunedì Papa Francesco, portando all’attenzione di una politica, e probabilmente anche di una chiesa, avvitate su se stesse, una situazione planetaria che non è tollerabile: il fatto che quasi un miliardo di persone nel mondo sia malnutrita o soffra la fame non è una questione di sfortuna o di destino, è una questione di scelte e di responsabilità.

In un videomessaggio registrato in occasione del lancio della nuova campagna della Caritas Internationalis contro la fame, il Pontefice ha richiamato l’attenzione del mondo su quello che ha chiamato «lo scandalo mondiale » della morte per fame.

La fame non è certo un tema nuovo per il mondo cattolico e per i papi, ma è nuovo l’atteggiamento che emerge dalle parole di Francesco: «Non possiamo girare la testa dall’altra parte e fare finta che questo non esista, (...) invito tutti noi a diventare più consapevoli delle nostre scelte alimentari che spesso comportano spreco di cibo e cattivo uso delle risorse a nostra disposizione». La prospettiva viene ribaltata. La fame non è un accidente della storia, quanto piuttosto un prodotto funzionale al sistema alimentare e produttivo in cui ognuno di noi gioca un ruolo e ha una parte. La svolta è radicale, non si mette più al centro solo l’aiuto che i ricchi fortunati devono per spirito di carità ai fratelli più sfortunati. Al contrario, Francesco dice chiaramente che noi, con il nostro stile di vita, siamo parte del problema e non solo della soluzione.

Il messaggio del Papa è arrivato nel momento in cui mezzo mondo si stava predisponendo a partecipare alle esequie di una delle figure più imponenti della modernità, Nelson Mandela, proprio nel continente in cui oggi si concentra la maggioranza degli affamati. Se Mandela è riuscito a vedere il suo continente liberato dalla vergogna dell’apartheid e dal colonialismo (almeno quello istituzionalizzato), non è tuttavia riuscito a vedere gli abitanti di quel continente liberi dalla fame. In un passaggio del suo messaggio Francesco dice: «Il cibo basterebbe a sfamare tutti» e «se c’è la volontà quello che abbiamo non finisce». Questo è il punto, la fame è una vergogna risolvibile, cancellabile dalla storia in tempi ragionevoli. Manca la volontà politica, e noi cittadini, associazioni, organizzazioni, partiti, movimenti, dobbiamo essere la massa critica che mette in moto il processo.

Per il popolo ebraico le due calamità per eccellenza erano la fame e la schiavitù. Ecco, per sconfiggere definitivamente la schiavitù, almeno quella legalizzata, abbiamo dovuto aspettare secoli, e addirittura abbiamo attraversato periodi in cui l’umanità ha vissuto senza battere ciglio palesi contraddizioni. Basti pensare alla Costituzione Americana, stilata nel 1787, due anni prima della rivoluzione francese. Veniva sancita l’uguaglianza di tutti gli uomini, ma per quasi un secolo, in contemporanea alla vigenza di quella Costituzione, negli stati del sud la schiavitù era non solo accettata ma addirittura normata. L’ultimo stato al mondo ad abolirla dal proprio codice è stata la Mauritania, nel 1980, più di due secoli dopo la nascita del movimento abolizionista.

La fame sta seguendo un percorso simile. Francesco parla del «diritto dato da Dio a tutti di avere accesso a un’alimentazione adeguata». Aggiungo che anche il diritto degli uomini sancisce questo punto fermo. Nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 si dice «ognuno ha il diritto a uno standard di vita adeguato per la salute e il benessere propri e della propria famiglia, incluso il cibo…», mentre nella Dichiarazione di Roma sulla Sicurezza Alimentare Mondiale del 1996 si fa un passo in più affermando «… il diritto di ogni persona ad avere accesso ad alimenti sani e nutrienti, in accordo con il diritto ad una alimentazione appropriata e con il diritto fondamentale di ogni essere umano di non soffrire la fame». Nessuno mette in discussione queste formulazioni, eppure tutti quanti conviviamo con la consapevolezza dell’esistenza di un miliardo di malnutriti.

Il messaggio del Papa è una sollecitazione morale straordinaria, e andrebbe inserito in un dibattito politico che sembra aver dimenticato la centralità del cibo. L’obiettivo della sconfitta della fame deve essere assunto come prioritario da ognuno di noi non solo per fratellanza universale, quanto piuttosto per il proprio benessere personale. Non possiamo essere felici se non lo sono anche gli altri, per cui fino a che non si riuscirà a cancellare questa vergogna non potremo dirci compiutamente realizzati. Se una fetta così grande della “grande famiglia umana” non ha accesso al cibo significa che noi non stiamo adempiendo al nostro dovere di fratelli.

Il Pontefice parla dell’importanza del cibo nel messaggio cristiano e porta l’esempio della parabola della moltiplicazione dei pani e dei pesci. In quell’occasione, messo al corrente della moltitudine di persone affamate convenute per ascoltarlo, Gesù non esita e manda immediatamente i suoi discepoli a cercare cibo per tutti. Ecco il punto: senza cibo non c’è parola di salvezza che tenga. Oggi non è pensabile immaginare futuri possibili, vie d’uscita dalla crisi mondiale, nuovi paradigmi di convivenza, se un miliardo di persone non mangia. Per questo il messaggio di Francesco è un messaggio di liberazione. Dobbiamo scrollarci di dosso la ruggine delle nostre questioni di piccolo cabotaggio politico per volare alto e per affrontare sfide davvero epocali e centrali. Questo sistema alimentare mostra ogni giorno i suoi lati oscuri, da qualunque punto di vista lo si guardi. Ai morti per fame si contrappongono gli obesi, ai malnutriti gli ipernutriti, con la differenza che gli affamati e i malnutriti non sono artefici delle proprie scelte alimentari ma subiscono la violenza del sistema.

Arizona da coltivare

Pensare all’Arizona vuol dire immediatamente pensare al Grand Canyon, uno dei luoghi più impressionanti e famosi del mondo. Una gola scavata nel corso dei millenni dal fiume Colorado, che con la sua azione erosiva ha creato una delle attrazioni principali per chi cerca viaggi ad alto tasso d’avventura. Ma l’Arizona è anche uno Stato a forte caratterizzazione agricola. Il clima semi-arido di questa terra ha fatto sì che l’uomo abbia dovuto ingegnarsi per trovare sistemi efficienti per ottimizzare le rese con il minimo utilizzo di risorse, in primis l’acqua. Ancora oggi, nonostante l’agronomia e la tecnologia agricola abbiano fatto passi da gigante, in Arizona il rapporto tra uomo e natura rimane estremamente delicato. La scarsità di acqua e di suolo fertile ha concentrato le pratiche agricole nelle zone più vantaggiose (quelle che oggi ospitano le grandi città), offrendo il substrato ambientale adatto alla nascita di una fiorente agricoltura di comunità.

Proprio l’agricoltura urbana di comunità è il centro dell’attività di Agritopia, un’interessante esperienza nel cui nome è visibile quel seme di utopia che contraddistingue il progetto fin dalla sua nascita. La famiglia Johnston acquista la fattoria, oggi il centro di Agritopia negli anni Sessanta, un periodo di transizione dalla coltura del fieno ai più redditizi cotone e grano. Trent’anni dopo inizia a essere chiaro che l’espansione inarrestabile dell’area urbanizzata di Phoenix avrebbe presto raggiunto anche l’area in cui sta la fattoria, ed ecco che nasce l’idea di pianifica-re alcune opere che includono abitazioni, aree dedicate alla commercializzazione diretta dei prodotti agricoli, un ristorante e una caffetteria, al fine di preservare lo stile di vita tipico delle comunità agricole del Sudovest. I lavori sono iniziati nel 2000, e oggi Agritopia è una comunità agricola urbana, totalmente integrata nella municipalità di Phoenix. Al centro c’è ancora l’azienda agricola e la comunità ne sostiene l’attività versando il denaro in anticipo per poi ricevere i prodotti della terra secondo la disponibilità e la stagionalità.

È quello che chiamano Community supported agriculture e uno degli obiettivi è favorire l’interazione sociale e lo scambio, rendendo consapevoli i cittadini di cosa significhi il lavoro agricolo. Ad Agritopia è anche possibile affittare alcune parcelle di terreno per coltivare personalmente il proprio orto e i lavoratori dell’azienda agricola che mettono a disposizione tecniche e savoir faire. L’intera produzione è biologica, e la rigenerazione dei terreni si fonda su un complesso sistema di rotazione delle colture. Dalla monocoltura si è passati a un’ampia biodiversità, con frutteti, orti e colture cerealicole. Agritopia è uno dei tanti esempi di agricoltura di comunità praticata in Arizona, ed è il simbolo di una sensibilità crescente nei confronti della produzione alimentare sostenibile, anche in una zona poco fertile come il deserto del Sudovest americano. Phoenix è la base ideale di partenza per una visita dello Stato, e le suggestioni gastronomiche non mancano: il ristorante The Herb Box, nel sobborgo di Scottsdale, offre sempre piatti stagionali e attenti al territorio, mentre il D-Vine, a Mesa, è interessante anche per la presenza nella carta dei vini di alcune cantine dell’Arizona, dove esiste una piccola ma significativa viticoltura.

postillaSe l'accesso al cibo è un diritto, come autorevolmente sottolineato anche dalle parole del Papa, forse non va dimenticato sino a che punto il concetto di città si leghi a quello di diritti, e parallelamente quanto il tema dell'urbanizzazione, della sua sostenibilità ambientale e sociale, sia ormai all'ordine del giorno in questo nostro terzo millennio. Urbanizzazione autoritaria, tecnocratica, puro strascico della civiltà industriale meccanica oggi rappresentato dal trionfo del capitalismo finanziario liberista, significa ancora e forse inevitabilmente mega-città tradizionali, diseguaglianze, campagne industrializzate, land grabbing, e in sostanza accessibilità limitata alle risorse, oltre che loro spreco. Urbanizzazione sostenibile significa recuperare, o almeno cercare di recuperare, un diverso rapporto fra natura e artificio, città e campagna, recuperando il meglio della tradizione utopista senza per questo rinunciare agli avanzamenti tecnologici messi a disposizione dal progresso industriale e scientifico. L'idea di agricoltura urbana partecipata e integrata è una delle risposte più avanzate sinora emerse: non ritorno a un improbabile passato, ma sperimentazione per un futuro migliore (f.b.)
p.s. uno studio recente che affronta il tema dell'equilibrio fra attività primarie e urbanizzazione a scala molto ampia conferma questa prospettiva

Greenreport, 11 dicembre 2013

Per Legambiente il diritto di prelazione che lo Stato vuole esercitare sull’isola Budelli è una scelta inutile e dannosa. Il Cigno Verde spiega il perché in una lettera aperta che ha scritto ai membri della commissione Bilancio della Camera dei Deputati. Vittorio Cogliati Dezza e Vincenzo Tiana, rispettivamente, presidente nazionale e sardo di Legambiente, scrivono che «Sulla vicenda di Budelli, l’isola privata in vendita sulla quale qualcuno vorrebbe che lo Stato esercitasse il suo diritto di prelazione a suon di milioni di euro, è passata secondo noi una comunicazione confusa e distorta. La nostra associazione è fra quanti ritiene, insieme a Federparchi e al presidente del Fai, Andrea Carandini, che si tratterebbe di una spesa inutile, se non addirittura dannosa».

Cogliati Dezza e Tiana provano a spiegare perché: «E’ inutile perché quell’isola è privata sin dal 1800 e si è conservata integra in virtù dei vincoli e dei divieti severissimi che hanno impedito qualsiasi modificazione dello stato dei luoghi. Già oggi, ad esempio, non è possibile ad alcuno mettere piede sulla Spiaggia Rosa, la zona forse più delicata dell’isola, sia anche il custode o lo stesso attuale proprietario. Se Mr. Harte in persona, il magnate neozelandese che ha sborsato 3 milioni di euro per acquistare l’isola, volesse domani semplicemente passeggiare sulla Spiaggia Rosa, non potrebbe farlo, anche se quella spiaggia è sua. A ciò si aggiunga che quella spiaggia è sua solo in parte, perché una porzione significativa è invece demanio, cioè già oggi “bene comune”, e tale rimarrà. In sostanza l’ambiente di Budelli è supertutelato grazie alle misure che lo Stato, il pubblico, ha saputo apporre su un bene privato di pregio come ce ne sono tanti nel nostro Paese. Del resto il territorio italiano è pieno di beni privati, isole, colline, boschi, montagne, delle cui sorti per fortuna non dispone il proprietario del bene». Per i due dirigenti dell’associazione ambientalista se si vuole realmente tutelare l’ambiente nell’arcipelago è «Meglio utilizzare quei fondi per completare la bonifica dei fondali dell’isola della Maddalena, o usarli per dare ossigeno alle aree marine protette dell’isola colpita dai recenti fenomeni alluvionali».

Per Legambiente l’acquisizione dell’isola di Budelli potrebbe addirittura rivelarsi dannoso per le politiche di conservazione della natura e del paesaggio: «Sarebbero guai infatti se dovesse farsi strada la logica per cui la tutela di un bene dipende dalla natura, pubblica o privata, del bene stesso. Sarebbe una corsa all’acquisizione in ogni prossima legge di spesa: domani magari Spargi, un’isola dell’arcipelago ben più importante di Budelli dal punto di vista della biodiversità. E poi ancora l’isola di Molara. E perché non quella di Maldiventre? E Serpentara? E l’isola de Li Galli, in Campania. E gli isolotti della laguna veneta? Sarebbe pericoloso lasciare intendere che fino a quando un bene non è pubblico è a rischio e, al contrario, solo i beni in mano allo Stato sono al sicuro. Anche perché la realtà ci ha abituati a soluzioni d’ogni tipo: beni sapientemente gestiti dal privato e altri degradati in mano allo Stato o viceversa. Non è quindi la proprietà del bene che ne garantisce la tutela, ma i vincoli che lo Stato è riuscito ad apporre su quel bene e la capacità di gestione del bene stesso. Basti pensare, ad esempio, alle migliaia di ettari di oasi magistralmente gestite da fondazioni e associazioni ambientaliste (soggetti privati…) e che dialogano correttamente con la gestione pubblica di spazi limitrofi».

La conclusione, che va nella direzione contraria a quel che dicono Verdi, Sel ed altre associazioni ambientaliste, è «Ben vengano quindi privati che vogliano confrontarsi sul tema della conservazione della natura all’interno di un quadro di regole che lo Stato ha individuato. Ne potranno trarre vantaggio sia i privati che lo stesso pubblico. Pensare che ci sia un privato cattivo e un pubblico buono è una suddivisione ideologica e novecentesca, buona a strappare demagogicamente consensi facili, ma che rischia di non incidere su quello che a noi ci interessa sopra tutto, la reale tutela dell’ambiente e del paesaggio. E a noi questo confronto non ci fa paura».

In una lettera testimonianza dalle ultime sacche agricole metropolitane devastate dall'Expo, gli impatti reali dell'evento mediatico, e qualche seria questione. Corriere della Sera Milano, 10 dicembre 2013, postilla (f.b.)

Abito in una cascina confinante con l'area Expo. Ho visto distruggere l'agricoltura e le cascine della zona. A noi hanno tolto un grande campo dove sino a poco tempo fa pascolavano le vacche Jersey.

Ma l'ultima “caramella” è stata l'esproprio dei fontanili. Scavati ai tempi di Ludovico il Moro ora saranno usati per il tubo trasportatore di acqua che alimenterà le vie fluviali. Sopra poi passerà una via ciclabile. Il nostro fontanile è ricchissimo di flora spontanea e rifugio di volpi, scoiattoli, gallinelle d'acqua e varietà ampia di uccelli, dai barbagianni a cinciallegre, pettirossi e uccelli in transito.

Sono rassegnata, ma Expo ha martoriato e distrutto una zona agricola fiorente. I miei pensieri sono quelli di una donna anziana che abita questa azienda agricola da quando fu costruita nel 1942, e non hanno nessun valore commerciale, sono solo constatazioni personali.

postilla
Constatazioni personali, come conclude la signora Virginia Oliva, che però mettono in campo direttamente e tangibilmente il senso, locale e globale, del grande evento che sarebbe dedicato al tema “Nutrire il Pianeta”. Si è discusso (anche con toni piuttosto grotteschi, come nel caso del contraddittorio Umberto Veronesi-Oscar Farinetti) dell'alternativa fra una Expo targata Ogm e una segnata dalle pratiche biologiche e sostenibili. Il che corrisponde per molti versi in modo quasi esatto, almeno nella situazione attuale e del prevedibile futuro, a un modello territoriale da un lato legato alla città compatta tradizionale, che nella sua espansione respinge le zone rurali sempre più lontano, contando sul sistema agro-industriale per gli approvvigionamenti; dall'altro ai sistemi di infrastrutture verdi, rinaturalizzazione della città, convivenza fra natura e artificio ad esempio con l'agricoltura urbana, ma non solo. Anche al netto di un sistema ereditato da scelte precedenti, onestamente non appare chiaro se la triste obliterazione del paesaggio rimpianto dalla signora Oliva avvenga nella prospettiva dell'una, o dell'altra strategia. Probabilmente non lo sanno neppure i grandi decisori strategici, ma farebbero meglio a iniziare a chiederselo. I "fontanili" di cui al titolo della lettera, sono le caratteristiche fonti di acqua risorgiva padane utilizzate per l'irrigazione (f.b.)

Stralcio dalla relazione introduttiva alla presentazione del libro: Lezione di piano. L'esperienza pioniera del PPR della Sardegna raccontata per voci (Corte del fontego editore), Sassari, 9 dicembre 2013. La Nuova Sardegna, 8 dicembre 2013

1. Dalla tragedia del 18 novembre c’è stato un susseguirsi di inchieste, accompagnate da accuse reciproche di responsabilità. Ma se a questa fase di allarme non segue quella della riflessione e degli impegni concreti in termini di cambio di linea nel governo del territorio, tutti dovremmo essere consapevoli che ci saranno altre tragedie e altri morti, come immediatamente dopo è accaduto nelle regioni del centro-sud.

Partiamo dalle responsabilità. Gli attori pubblici e privati che hanno concorso agli scempi territoriali sono molti e riguardano le politiche urbanistiche e di governo del territorio italiano degli ultimi 50 anni. Intendendo per politiche tanto i piani adottati seguendo la logica che riempire il territorio di cemento equivalga a sviluppo economico, quanto tutte quelle forme di “disattenzione” delle istituzioni verso i numerosi cittadini che hanno aggirato le regole perché considerate inutili. Sono queste politiche (e connivenze di vario tipo) ad aver prodotto le numerose e continue emergenze ambientali.

Qualche esempio: 2008 Capoterra, alluvione luttuosa ma del tutto prevedibile per l’edificazione diffusa sul letto di un fiume; 2010 San Fratello, un paese nella provincia di Messina che è franato coinvolgendo circa 1500 persone costrette a rifugiarsi altrove. Lo stesso si può dire per paesi della Calabria come Maierato, Pizzo Calabro; 2011 le inondazioni in Veneto e Campania; 2012, lo stesso è avvenuto a Massa in Toscana e poi in Liguria. E ora il disastro colposo di queste ultime settimane. Naturalmente l’elenco è ben più lungo e riguarda l’Italia intera. In questo dissesto la Sardegna è ai primi posti perché, pur essendo tra le regioni meno popolate del Paese in relazione all’estensione del territorio, è anche tra le regioni più compromesse, nonostante qualche illustre opinionista abbia recitato il contrario.

Oggi la popolazione italiana si è mossa generosamente per aiutare i sardi; ieri lo ha fatto per aiutare altre regioni, domani lo farà sicuramente per altre calamità non naturali. Passata l’ondata emotiva, chi si ricorderà di ciò che è accaduto, se già sta diminuendo l’attenzione verso quel che è successo appena tre settimane fa? Tanta retorica della politica, grandi enfasi mediatica, scarsa memoria e, soprattutto, sguardo cieco sul futuro.

2. Non ci sono numeri certi in merito alle edificazioni e al consumo del suolo, vi sono per lo più stime che si sovrappongono. Eppure, basterebbe che ogni Comune fosse obbligato a tenere un registro del consumo del suolo e lo rendesse pubblico, magari mettendo un tabellone luminoso sulle pareti del Municipio con la scritta: Oggi abbiamo sottratto alla terra tot metri. Servirebbe a tenere alta l’attenzione sociale e a renderci più consapevoli del danno che provochiamo con i nostri modelli di vita.

Nonostante l’inadeguatezza dei numeri parto da alcuni dati dell’Istat, Agenzia delle Entrate, Regione Sardegna.

a) Dall’analisi dei dati Istat nell'arco temporale 2001/2011 in Italia vi è stato un incremento delle località urbanizzate pari a 20mila Km2, il 6.7% della superficie totale nazionale. Il paragone utilizzato dall’allora presidente Giovannini (attuale ministro del lavoro) è che, in appena dieci anni, si è consumata una superficie superiore all’intera Puglia e ciò è dovuto specificamente ai modelli urbanistici che si sono consolidati in anni recenti. E ancora, dal 1995 al 2009, i comuni hanno rilasciato permessi di costruire per 3,8 miliardi di metri cubi (oltre 255 all’anno) di cui l’80% di nuovi fabbricati. Che equivale a dire che (astrattamente) ogni italiano è stato autorizzato a realizzare circa 20 metri cubi. Queste autorizzazioni sono state incrementate dai cosiddetti Piani Casa di cui ogni amministrazione regionale si è rapidamente e convulsamente attrezzata: basti pensare che, proprio in relazione al Piano Casa, negli ultimi anni c’è stato un aumento fino al 29% del totale della quota di permessi rilasciati per incremento volumetrie.

Naturalmente la spinta al consumo del suolo non è stata omogenea. Nelle regioni del Nord vi è stato un rallentamento dovuto soprattutto alla crisi economica perché il calo delle cubature ha riguardato le strutture destinate alle attività produttive. Mentre nel Mezzogiorno sono state individuate 1.024 nuove località abitate (sempre fonte Istat), valore di molto superiore alle altre aree del Paese. Ma il dato veramente rilevante è che le percentuali più alte di questi nuovi agglomerati riguardano tre regioni. Nell’ordine decrescente, rispetto al totale delle località, troviamo la Sardegna (20,5%), seguita da Puglia (18,7%) e Sicilia (11,1%).

La Sardegna si trova al primo posto, seppure sia la regione che si caratterizza per gli ampi spazi, un tempo agricoli e pastorali, ora per lo più abbandonati; per il tessuto urbanizzato abbastanza debole, tranne che in alcune e delimitate aree (Cagliari e Sassari); per il calo demografico non compensato neppure dal movimento migratorio in entrata, anche perché va crescendo quello in uscita. Nella nuova pressione dell’urbanizzazione ha avuto, invece, un ruolo centrale un modello di turismo basato sul consumo di territorio.

b) Dai dati dell’Agenzia delle Entrate, riferiti alle cosiddette case fantasma in Sardegna vi sarebbero 19.229 immobili sconosciuti al Catasto e con rendite presunte complessivamente per oltre 16.559 milioni di euro.

c) Dal Report Piano Casa dell’Assessorato regionale degli enti locali, finanze e urbanistica, aggiornato al giugno del 2013, ricaviamo che sono 21.853 le istanze di incremento volumetrico (limitatamente a quelle valutate positivamente) in 71 comuni distribuiti su tutto il territorio regionale. Di queste una percentuale del tutto residuale riguarda strutture per le attività produttive. E la Regione stima che le istanze nei comuni non censiti, rapportate alla popolazione, potrebbero essere 35.180. Queste nuove cubature hanno un’incidenza minima nei miglioramenti delle prestazioni energetiche, come riconosciuto dallo stesso Report regionale, mentre prevalgono le percentuali di incremento volumetrico del 20 e del 30%. Vale la pena di evidenziare che il 57% degli interventi a Sassari riguarda le residenze dell’agro dove anche il Piano urbanistico in itinere prevede altre cubature.

Il cosiddetto Piano Paesaggistico dei Sardi, esplicitamente contrapposto al PPR della Giunta Soru, si inserisce in questo quadro, incorporando le disposizioni del Piano Casa e della legge sui campi da golf che possono incidere anche sulla fascia costiera e sui 300 metri; riportando in vita tutte le lottizzazioni che il PPR aveva bloccato (secondo Legambiente sarebbe un volume complessivo di 15 milioni di metri cubi) inserendo un insieme di deroghe e ammettendo l'attuazione di zone turistiche con un semplice atto di concerto RAS - Provincia - Comune; consentendo costruzioni in agro anche non in funzione dell'agricoltura.

Usando le parole di Cappellacci al meeting sul turismo tenutosi a Olbia il 30 novembre “la Sardegna è la stessa del 17 novembre: The show must go on". E che i familiari delle vittime si rassegnino.

Difendiamo una legge che impedisce lo spreco assurdo del consumo di suolo. Il "blocco edilizio" vorrebbe rinviarla, moderarla, mitigarla, svuotarla. In una parola, proseguire la devastazione del patrimonio comune. Le prime adesioni a un appello promosso da eddyburg, aggiornate al 17dicembre

Perché sia rapidamente approvata
la proposta di legge urbanistica della Toscana

Siamo venuti a Firenze da altre città e altre regioni. Analizzando e discutendo la proposta di legge in materia di urbanistica e di governo del territorio abbiamo imparato molto su come si può fare per combattere davvero il consumo di suolo, cioè l’espansione dell’urbanizzazione (la “repellente crosta di cemento e asfalto”) sull’intero territorio nazionale. Il blocco dell’espansione è un obiettivo che molti dicono di voler raggiungere ma le intenzioni diventano efficaci solo se ad esse seguono i fatti. Quando si tratta del territorio i primi fatti sono le regole.

Le regole per il buon governo proposte dalla Giunta della Regione Toscana ci sembrano esemplari. Vorremmo che fossero presto approvate, per almeno due ragioni: perché consentono di bloccare subito la dilapidazione di una risorsa – lo spazio aperto – indispensabile per il futuro della Toscana e prezioso per tutta l’umanità presente e futura; perché sono un esempio per le altre istituzioni elettive che hanno responsabilità in proposito: dal Parlamento nazionale ai Comuni. È un percorso che può contribuire far uscire l’Italia dalla crisi soddisfacendo l’esigenza della sicurezza del territorio e dei suoi abitanti, della tutela dei patrimoni comuni, e quella di uno sviluppo fondato sul lavoro e sul benessere degli abitanti.
Marco Cammelli, Giovanni Caudo, Vezio De Lucia, Salvatore Lo Balbo, Paolo Maddalena, Giampiero Maracchi, Edoardo Salzano
Firenze, 20 novembre 2013

Condividendo le valutazioni dei promotori dell’appello e la loro sollecitazione a una tempestiva approvazione del disegno di legge approvato dalla Giunta regionale aderiscono all’appello:
Alberto Asor Rosa, Paolo Baldeschi, Piero Bevilacqua, Roberto Camagni, Vittorio Emiliani, Domenico Finiguerra, Roberto Gambino, Maria Cristina Gibelli, Maria Pia Guermandi, Alberto Magnaghi, Oscar Mancini, Giorgio Nebbia, Tomaso Montanari, Massimo Quaini, Salvatore Settis, Renato Soru, Carlo Petrini

Aderiscono inoltre (aggiornamento 16 dicembre): Piero Ferretti (architetto), Daniela Borrati (architetto) Paolo Celebre (Comitato cittadini area fiorentina), Dario Predonzan ( responsabile energia e trasporti WWF regione F-VG), Rita Paris (Direttore Archeologo SSBAR), Pierluigi Cervellati, Paolo Ceccarelli, Paolo Cacciari, Gabriele Bollini (professore di Pianificazione Territoriale Universita degli Studi di Modena e Reggio Emilia), Georg Joseph Frisch (architetto), Alfredo Drufuca (ingegnere), Moreno Chinellato (esodato in attesa di pensione, Sandro Roggio (urbanista), Cristiana Mancinelli Scotti (attrice), Rossano Pazzagli (storico, Università del Molise, Società dei Territorialisti), Sergio Lironi (Presidente onorario Legambiente Padova), Leonardo Filesi (professore associato in Botanica ambientale e applicata, Università IUAV di Venezia), Sara Parca (storica dell'arte), Denise La Monica (PatrimonioSOS), Diego Accardo (architetto), Mirella Belvisi (architetto), Ruggero Lenci (Università la Sapienza, Roma), Marisa Dalai Emiliani, Sergio Brenna (professore ordinario di urbanistica, Politecnico di Milano), Edoardo Zanchini (vicepresidente nazionale Legambiente), Fausto Ferruzza (presidente Legambiente Toscana), Nicola Dall’Olio (geologo), Roberto Scognamillo, Donato Belloni (urbanista), Rodolfo Bracci (architetto), Stefano Fatarella (funzionario urbanista, Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia), Chiara Sebastiani (professore associato di Governo locale e Politiche delle Città), Università degli studi di Bologna), Cesare Allegretti (architetto), Claudio Greppi (professore ordinario di Geografia, Università di Siena), Salvatore Gioitta(architetto), Maria Teresa Roli (architetto), Alessandro Ammann( (Rete europea Ecoturismo), Concetta Flore (artista naturalista), Gino Paolo Sulis (funzionario Regione autonoma Sardegna), Lorenzo Frattini (presidente Legambiente Emilia Romagna, Alessio Rivola(Perito Agrario), Vera Marchetti (architetta), Claudio Saragosa (Università di Firenze), Maria Tinacci Mossello (professore ordinario di Politica dell'ambiente Università di Firenze), Rodolfo Bosi (architetto, associazione Verdi Ambiente Società), Valeria Scavone 
(ricercatore di Urbanistica, Università degli Studi di Palermo), Giancarlo Storto, Anna Guerzoni (architetto), Barbara Grandi (ginecologa), Francesco Mezzatesta (ambientalista già Segretario generale della Lipu), Massimo Parrini (vice presidente WWF Firenze), Enrico Pugliese (professore di Sociologi del lavoro Università Roma La sapienza), Francesco Romano Natali (studente), Marcello Cervini (architetto), Emanuele Sorace (ricercatore Istituto Nazionale di Fisica Nucleare Firenze), Lodovico Meneghetti,(architettourbanista), Renzo Moschini (Gruppo di San Rossore), Alessandra Tanzi. ValentinoPodestà (urbanista), Andrea Carosi (pianificatore territoriale), Umberto Sani(WWFParma), Francesco Romano Natali (studente), Anna Pacilli (giornalista), MauroBaioni (urbanista), TeresaCilona ( ricercatore in urbanistica, università degli studi di Palermo), MimmoFontana (presidente Legambiente Sicilia), Rosalia Varoli-Piazza, (storico dell'arte), Luca Simoncini (dipartimentodi ingegneria dell'informazione Università di Pisa), Francesco Andreini (pensionato), Roberto Gianni (prof. associato università di Roma la Sapienza), Giovanna Davitti, Helen Ampt (traduttrice),

Rete dei Comitati per la difesa del territorio, Associazione Bianchi Bandinelli, Associazione VAS Verde Ambiente Società, Associazione Ampugnano per la Salvaguardia del Territorio, Cittadini area fiorentina, Accademia Kronos onlus,


Invitiamo chi ha letto la proposta di legge e condivide l’appello ad aderire inviando l’adesione (nome, cognome, qualifica) a eddyburg@tin.it

In una serie di neologismi artigianali, l'intervista a Aldo Bonomi ripropone modelli di società/territorio suburbaneggianti e pure confusi. Il manifesto, 7 dicembre 2013, postilla (f.b.)

«Negli ultimi vent’anni il capitalismo liberista dei flussi ha scaricato sui territori la sua forza e ha cambiato antropologicamente, culturalmente, economicamente e socialmente i luoghi – afferma Aldo Bonomi, direttore del consorzio Aaster e autore, tra l'altro, de Il capitalismo Infinito (Einaudi), a cui abbiamo chiesto un commento al 47 ̊ rapporto Censis - Questo processo ha in parte desertificato i territori. Oggi bisogna chiedersi se l'antropologia del locale, espressione del capitalismo molecolare basato sui distretti industriali, sia ancora in grado di reggere un simile impatto. Ne discuto spesso con Giuseppe De Rita del Censis. Ho l'impressione che l'antropologia basata sul campanile, sulla comunità, sui capannoni, sulla famiglia messa al lavoro («la famiglia Spa» l'ha definita il Censis) non basti più. Dentro la crisi dobbiamo prendere atto che quella che De Rita chiama la «società di mezzo», cioè le rappresentanze d'impresa, del lavoro, i comuni e le province, le camere di commercio, è sottoposta ad un processo di delegittimazione.

Da parte di quali soggetti? I territori sono prigionieri di una forbice. Dall'alto è in atto una virulenta lotta di classe da parte della Commissione Europea, della Bce, dell'Fmi, la Troika che non ammette l'esistenza di una «società di mezzo», ma solo quella del governo centrale. Dal basso, nei territori, riappare il lavoro servile, la servitù della gleba nei meccanismi di subforniture. Pensiamo a quello che è accaduto nel distretto del tessile a Prato, ad esempio. In più bisogna aggiungere la difficoltà da parte dei sindacati o della politica di tenere tutto insieme nell’uni- ca forma di lavoro salariato e normato a vita.

Bisogna restaurare la vecchia «società di mezzo» oppure individuare nuovi intrecci sociali e produttivi? Quali segnali ha raccolto a questo proposito nelle sue inchieste?Innanzitutto che non esistono più le certezze sulle quali il nostro racconto della società italiana ha puntato per anni. Dentro questi processi di decomposizione credo però che esistano filamenti di novità, che restano sospesi nel «non ancora», ma che non vengono raccontati né colti dalle istituzioni o dalle forze sociali tradizionali.

Quali sono queste novità? Sono almeno tre. La prima è data dal radicarsi del processo migratorio. Non c'è solo lo schiavismo di Prato, ma c'è anche un segmento di soggetti, privi di cittadinanza, che fanno impresa, innovazione, cambiamento culturale. Lavorano nei servizi, nel commercio, nella logistica minuta. Poi esistono eccedenze di saperi sui territori dove giovani specializzati e formati cercano di sviluppare saperi terziari. Io li chiamo «smanettoni», sono le nuove forme del lavoro autonomo di seconda generazione che uniscono l'artigianato alla tecnologia (i makers), si associano nei coworking, puntano sull'auto-impresa, creano comunità di mutuo-aiuto, di cura e di relazione. È dal- l'intreccio tra queste soggettività che bisogna ripartire per disegnare un nuovo equilibrio nei territori.

Qual è la differenza tra questa composizione sociale e quella che diede vita ai distretti industriali?

La storia dei distretti è la storia del lavoro autonomo di prima generazione che reagì alla crisi del fordismo. Formò l'ossatura della piccola impresa che si è auto-organizzata con le sue forme di rappresentanza. Oggi avanza una nuova composizione sociale. Credo che le tracce di speranza verranno dal racconto su come queste nuove forme sociali cercano di auto-organizzarsi con il mutualismo e lo scambio. Non hanno ancora una loro soggettività prepotente, ma cercano una nuova interlocuzione con la politica. In questa fenomenologia è possibile osservare anche come le imprese manifatturiere, cresciute nei distretti, si stiano contaminando con il Quinto Stato che cerca di conquistarsi uno spazio nella crisi.

Stiamo forse parlando di un'alleanza tra i perdenti del processo in corso?Certo. Sono i sommersi dal capitalismo liberista che ha distrutto tutto ciò che era in mezzo tra flussi e luoghi. Il vero problema oggi è produrre un conflitto e una resilienza che impongano limiti a questo capitalismo e lo cambi.

Questa coalizione sarà capace di praticare un simile conflitto?I lavoratori autonomi di prima generazione hanno dovuto creare un conflitto per sviluppa- re una forma di rappresentazione di sé. Prima di essere riconosciuta l'impresa molecolare c'era solo il lavoro salariato. Ci sono voluti vent'anni per riconoscere la Cig anche alle piccole imprese. Oggi questa è l'unica strada. Ci vuole il conflitto affinché una start up acceda al credito. Il conflitto è necessario perché ai precari e agli autonomi venga riconosciuto il Welfare. Se non sei garantito devi porti il problema su come garantirti una mutualità universale. Il Quinto Stato, nella sua eterogeneità, chiede proprio questo. Ci vorrà tempo per ottenerlo.

postilla
Cosa si può leggere, in questa ennesima rassegna di tutto e del contrario di tutto, a proposito di territorio, sviluppo locale e non, rapporti con globalizzazioni reali e vagamente evocate? Ad esempio, una generica confusione fra il modello socio-territoriale della famiglia impresa e quello della classe creativa metropolitana, sfrondata da certi schematismi alla Richard Florida prima maniera. Ovvero una generica confusione fra il tipo di sviluppo perseguito per anni e anni dalla Democrazia Cristiana d'antan, quello dell'interclassismo, senza fratture, e quello più onestamente conflittuale con cui invece si scontrano da sempre sia i protagonisti che gli studiosi impegnati a porsi davvero la questione, invece di inseguire metafore. Che servono a far pubblicità ai libri, oppure più sottilmente a confondere le acque, magari all'insaputa di chi le lancia a piene mani. Con almeno una precisazione: nel dibattito internazionale almeno si sanno distinguere chiaramente destra e sinistra, prospettiva suburbano-familista (dai Repubblicani Usa alla nostra Lega) e metropolitano-individualista (è quella di Richard Florida, da noi impera la confusione appunto). Per inseguirne una, con tutto ciò che si porta appresso, bisognerebbe almeno avere le idee chiare sulle alternative, e le ariose metafore pare aiutino poco in questo senso (f.b.)

Tentativi, immagini e idee per una possibile città del futuro, a partire dall'uso dello spazio pubblico, in una mostra al Gug­ge­n­heim Museum di New York.. Il manifesto, 6 dicembre 2013

Par­te­ci­pa­zione, riap­pro­pria­zione e rige­ne­ra­zione sono i ter­mini uti­liz­zati, anzi ormai infla­zio­nati e spesso frain­tesi, per rilan­ciare l’uso dello spa­zio pub­blico e per defi­nirne nuove fun­zioni. Ma per inte­ra­gire atti­va­mente e con­cre­ta­mente con il pae­sag­gio urbano si pos­sono appli­care molti altri con­cetti, metodi e stra­te­gie. Lo scopo è sem­pre quello di rico­no­scersi e tro­vare senso in un pae­sag­gio urbano com­pren­si­bile, frui­bile e leg­gi­bile, con carat­te­ri­sti­che este­ti­che ed eco­lo­gi­che di qua­lità, ma anche come luogo sociale, da uti­liz­zare con moda­lità sem­pre diverse.

Tutto que­sto viene rac­con­tato da una nuova grande espo­si­zione dal titolo Par­ti­ci­pa­tory City: 100 Urban Trends, aperta fino al 5 gen­naio 2014 al Gug­ge­n­heim Museum di New York. E cento, infatti, sono le ten­denze espo­ste, ordi­nate dalla a alla zeta, sele­zio­nate tra tre­cento idee e pro­getti diversi, che esplo­rano le pos­si­bili inte­ra­zioni tra urba­ni­smo, archi­tet­tura, arte, design, scienza, tec­no­lo­gia, edu­ca­zione e soste­ni­bi­lità. Un glos­sa­rio di idee vec­chie e nuove, già con­so­li­date o da spe­ri­men­tare, a pic­cola o grande scala, tem­po­ra­nee o per­ma­nenti, che tutte insieme rac­con­tano il fer­mento, la vita­lità e la forte volontà di spe­ri­men­tare e di cam­biare di migliaia di per­sone. Pro­po­ste da rea­liz­zare in un iso­lato, in un quar­tiere o da esten­dere a tutta la città, magari in col­la­bo­ra­zione con ammi­ni­stra­zioni e muni­ci­pa­lità, per­ché un design inno­va­tivo, un mag­giore coin­vol­gi­mento e respon­sa­bi­lità delle per­sone sono oggi neces­sari più che mai.

Tutto il mate­riale espo­sto è il frutto di tre intensi anni di lavoro svolto dal Bmw Gug­ge­n­heim Lab, un labo­ra­to­rio mobile che si è spo­stato in tre diversi con­ti­nenti. Par­tito da New York nel 2011 ha fatto tappa prima a Ber­lino nel 2012 e, infine, a Mum­bai nel 2013. Durante il suo per­corso ha coin­volto migliaia di per­sone che hanno potuto par­te­ci­pare gra­tui­ta­mente a incon­tri, work­shop, ricer­che, pas­seg­giate, inda­gini, pro­ie­zioni in un vero e pro­prio think tank urbano che pre­ve­deva anche la pos­si­bi­lità di inte­ra­zione on line.

Al Gug­ge­n­heim, le cento parole chiave sono pro­iet­tate sulle pareti, come instal­la­zioni lumi­nose digi­tali, e di fianco a cia­scuna sono espo­sti dise­gni, foto­gra­fie e video che le spie­gano e rac­con­tano. In un’area sepa­rata, altri video e imma­gini fanno rivi­vere l’atmosfera delle tre sedi del labo­ra­to­rio e delle città ospi­tanti, per rac­con­tare in modo più vivo il coin­vol­gi­mento delle per­sone e le atti­vità che si sono svolte. Durante il periodo dell’esposizione, un fitto pro­gramma di pro­ie­zioni di film e pre­sen­ta­zioni di libri e di pro­getti con­ti­nuerà a esplo­rare i temi trat­tati e a rac­con­tare altri pos­si­bili aspetti e inte­ra­zioni tra le per­sone e le città.

In mostra, sono espo­sti anche alcuni pro­to­tipi della Water Bench. Più che a una pan­china per esterni asso­mi­glia a un comodo divano tra­pun­tato. Pro­get­tata in un labo­ra­to­rio a Mum­bai, la strut­tura è costruita con pla­stica rici­clata e al suo interno nasconde una riserva d’acqua pio­vana da uti­liz­zare per l’irrigazione nei momenti di sic­cità. Una di que­ste sarà espo­sta a New York nel First Park, men­tre altre quat­tro sono già situate in un parco a Mumbai.

Ognuna delle cento ten­denze si rife­ri­sce a un par­ti­co­lare labo­ra­to­rio, evento o espe­rienza rea­liz­zato dal Lab in una delle città ospiti. È impos­si­bile elen­carle tutte, ma tra le più inte­res­santi c’è per esem­pio City as Orga­nism che si rife­ri­sce alla simi­li­tu­dine tra il sistema urbano e la vita com­plessa di un orga­ni­smo for­mato da mul­ti­ple e inter­re­late parti. Oppure Digi­tal Demo­cracy, che indica come la cor­retta imple­men­ta­zione delle infor­ma­zioni e delle comu­ni­ca­zioni tec­no­lo­gi­che potreb­bero con­tri­buire ad aumen­tare la par­te­ci­pa­zione dei cit­ta­dini ai pro­cessi urbani e a miglio­rare la tra­spa­renza dell’amministrazione pubblica.

Alcune ten­denze ten­gono conto di un aspetto più emo­tivo e quindi ver­tono sulle sen­sa­zioni, posi­tive o nega­tive, che pos­sono evo­care le città come Con­fort che, insieme a Happy City, tratta della per­ce­zione dello spa­zio intorno a noi e quindi del benes­sere fisico e psi­co­lo­gico. Al con­tra­rio, Urban fati­gue mette in evi­denza una con­di­zione comune a chiun­que abiti in città, sot­to­po­sto allo stress, all’ansia, all’affaticamento e a una con­ti­nua sovra­sti­mo­la­zione, diven­tando una delle silen­ziose epi­de­mie dell’era moderna, con con­se­guenze sulla salute fisica e men­tale delle persone.

Poi Emo­tio­nal Con­nec­tions e Emo­tio­nal Intel­li­gence, la prima sul con­ti­nuo aumento di ami­ci­zie vir­tuali e sul con­se­guente declino in numero, valore e durata delle reali inte­ra­zioni tra le per­sone, men­tre la seconda sulla capa­cità di iden­ti­fi­care, misu­rare e rico­no­scere le emo­zioni quando sono espresse dagli altri.

Con Micro Archi­tec­ture e Non_Iconic Archi­tec­ture si pro­pon­gono, invece, solu­zioni di archi­tet­tura o di design adatte a spazi urbani di dimen­sioni ridotte, ma che ciò­ no­no­stante sono in grado di cam­biare radi­cal­mente il com­por­ta­mento e la respon­sa­bi­lità dei cit­ta­dini, oltre a sfrut­tare e adat­tarsi ad aree non uti­liz­zate. Pro­prio come le solu­zioni adot­tate dal Bmw Gug­ge­n­heim Lab nel 2011 a New York, dove è stata mon­tata per dieci set­ti­mane una leg­gera strut­tura pop up pro­get­tata dall’Atelier Bow-Wow in uno spa­zio abban­do­nato tra due edi­fici del Lower East Side, poi tra­spor­tata fino a Ber­lino e modi­fi­cata per adat­tarsi a un altro contesto.

A Mum­bai invece l’Atelier ha col­la­bo­rato con l’architetto Samir D’Monte per creare una nuova grande costru­zione di bambù. Una rea­zione all’architettura ico­nica e alle archi­star del XX secolo, legate al con­su­mi­smo, alla glo­ba­liz­za­zione, allo sta­tus spe­ciale di que­gli arte­fici di strut­ture spet­ta­co­lari. All’opposto que­ste due ten­denze vogliono difen­dere l’importanza della sem­pli­cità e della fun­zio­na­lità dell’architettura e dare la prio­rità alla scala umana piut­to­sto che a quella scul­to­rea delle grandi opere.

Local Food, Food Distri­bu­tion e Com­mu­nity Gar­dens sono tutte legate alla pro­du­zione di cibo locale, alla domanda di frutta e ortaggi fre­schi e alla sicu­rezza ali­men­tare. Adot­tata negli Stati Uniti nel 2008, la Food, Con­ser­va­tion, and Energy Act sta­bi­li­sce che il cibo non deve viag­giare oltre le 400 miglia dalla fonte o deve essere ven­duto nello stesso stato in cui è stato pro­dotto. I mer­cati locali stanno rapi­da­mente cre­scendo e svi­lup­pando gra­zie alla sem­pre più nume­rosa domanda di cibo bio­lo­gico, inol­tre si evi­den­zia come con­su­ma­tori desi­de­rano sup­por­tare l’economia locale e limi­tare l’impatto ambien­tale. Così oltre ai com­mu­nity gar­dens, sono nate nume­rose fat­to­rie urbane che ridu­cono ancora di più la distanza tra con­su­ma­tori e pro­dut­tori. Urban Fora­ging , invece, riguarda la ricerca, la map­pa­tura, l’identificazione di tutto ciò che cre­sce in città, senza o con minimi inter­venti da parte dell’uomo. E quindi la pra­tica, ormai dif­fusa, di rac­co­gliere la frutta ma anche le erba­cee e i fun­ghi che cre­scono in città e che sono a dispo­si­zione di tutti. Con una visione più ampia, que­sta voce si rife­ri­sce al riuso e alla rac­colta di tutto ciò che si trova a dispo­si­zione per le strade.

Disney­fi­ca­tion, parola coniata nel 1996 da Sha­ron Zukin, indica invece la tra­sfor­ma­zione di un luogo secondo la logica dei par­chi a tema. Men­tre con Gen­tri­fi­ca­tion ci si sof­ferma sulle ori­gini e le cause di que­sto feno­meno glo­bale, asso­ciato quasi sem­pre all’aumento degli affitti e a un dra­stico cam­bia­mento sociale ed eco­no­mico di interi quar­tieri. E così Urban Beauty e Urban Ugli­ness si inter­ro­gano sul valore este­tico di una città e sulla mol­te­pli­cità di pro­spet­tive e punti di vista.

Altri trend ancora, elo­quenti già dalla parola che li desi­gna, sono: Affor­da­ble Hou­sing, Bike Poli­tics, Bottom-Up Urban Enga­ge­ment, Col­lec­tive Memory, Evic­tion, Infra­struc­ture of Waste, Public-Private Ten­sion, Trust, Urban Spon­ta­neity… Tutte insieme, le cento ten­denze rac­con­tano di una capa­cità di adat­ta­mento e di una fles­si­bi­lità comune alle migliaia di par­te­ci­panti di tutto il mondo al Lab e que­sto è il vero grande trend sul quale è neces­sa­rio cer­care di model­lare le nostre città.

Non fisse, sta­ti­che, bloc­cate dalle nor­ma­tive e dalla pia­ni­fi­ca­zione a tavo­lino, ma dina­mi­che e spe­ri­men­tali, in un work-in-progress con­ti­nuo, a mag­gior ragione in un momento come que­sto attuale, in cui sono visi­bili ovun­que i segni di degrado e inef­fi­cienza, dove ormai è assente la manu­ten­zione ordi­na­ria e straor­di­na­ria di strade, par­chi, piazze, in gene­rale di tutti gli spazi pubblici.

Quelle rac­con­tate dall’esposizione del Gug­ge­n­heim sono ten­denze e tema­ti­che che pro­vano come le città non siano sola­mente un con­cen­trato di palazzi, di strade e infra­strut­ture, ma soprat­tutto un insieme di per­sone che sono (o dovrebbe essere) al cen­tro dello spa­zio e che, inte­ra­gendo tra loro, pos­sono con­tri­buire a ren­derlo più vivibile.

Sarebbe bello che un pro­getto di così ampio respiro potesse pas­sare anche per il nostro paese che ha sicu­ra­mente biso­gno di sti­moli per avviare un nuovo modo di rap­por­tarsi al pae­sag­gio urbano. Un modo carat­te­riz­zato da un forte impe­gno comu­ni­ta­rio, che non sem­bra essere ancora parte del nostro patri­mo­nio culturale.

La lotta al consumo di suolo provocata dall'urbanizzazione sregolata (meglio: regolata dalle regole della privatizzazione della rendita) si combatte insieme alla lotta per un'agricoltura sana e legata al territorio. Il manifesto, 5 dicembre 2013

Nes­suno meglio del fon­da­tore di Slow Food Car­lìn Petrini sa col­lo­care la mani­fe­sta­zione di Col­di­retti nel con­te­sto glo­bale dell’agricoltura e della distri­bu­zione di cibo. Nes­suno più di lui sa che cosa vuole dire e quanto è impor­tante la tutela dei con­ta­dini, dei ter­ri­tori e dei pro­dotti locali.

Cosa pensi di quello che è avve­nuto ieri al Bren­nero?
I pro­dotti agri­coli ita­liani vanno senz’altro tute­lati, ma non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Biso­gna deci­dere se il sistema Ita­lia vuole pun­tare sulla quan­tità e vuole rin­cor­rere una domanda soprat­tutto estera in con­ti­nua cre­scita, oppure vuole pun­tare sulla qua­lità. Se vogliamo essere i più grandi pro­dut­tori e distri­bu­tori di pro­sciutto nel mondo è ovvio che c’è il rischio che si fini­sca per ricor­rere anche a mate­ria prima a basso costo e di dub­bia qua­lità che pro­viene dall’estero per poi riven­derla inde­bi­ta­mente come made in Italy. A rimet­terci sono i con­ta­dini e le pro­du­zioni locali che in que­sta gara a chi vende di più e fa prezzi più bassi non pos­sono essere com­pe­ti­tivi. In tutto il mondo, e a mag­gior ragione da noi, la dignità dei con­ta­dini, il rispetto dei ter­ri­tori e la qua­lità del cibo ine­vi­ta­bil­mente impone di met­tere in campo ampie dero­ghe alle leggi di mer­cato. Fac­cio solo l’esempio dei con­ta­dini mes­si­cani che custo­di­scono un ter­ri­to­rio dove è nata la cul­tura del mais e del suo con­sumo e che invece devono impor­tare il 3% del mais dagli Usa dove costa meno per­ché è tran­sge­nico e pro­dotto inten­si­va­mente. E’ una que­stione di tutela della pro­du­zione locale e di sovra­nità ali­men­tare. Chi rimane fre­gato non è l’intermediario ma il col­ti­va­tore vit­tima di dum­ping a cui ven­gono impo­sti i prezzi di ven­dita.

Se que­sto è il qua­dro glo­bale non c’è il rischio che il blocco dimo­stra­tivo di Col­di­retti e la richie­sta di norme strin­genti per l’etichettatura si ridu­cano ad una lotta con­tro i mulini a vento?
Si tratta di un grido di allarme giu­sto e neces­sa­rio. L’etichettatura è sacro­santa. Per lo meno si deve sapere da dove viene la merce e come viene pro­dotta. La cor­retta infor­ma­zione è l’unico modo che hanno per difen­dersi sia le popo­la­zioni con­ta­dine che i con­su­ma­tori cit­ta­dini, i quali sono i primi e più forti alleati dei pro­dut­tori locali. Ma le eti­chetta non bastano. Man­cano anche i con­trolli. E’ vera­mente signi­fi­ca­tivo e para­dos­sale che i con­ta­dini ieri abbiano dovuto fare quello che rego­lar­mente e costan­te­mente dovrebbe essere fatto dalle auto­rità.

Per­ché que­sto non avviene? Eppure a parole tutte le forze poli­ti­che si schie­rano accanto ai con­ta­dini ita­liani e ieri con loro c’era anche il mini­stro De Giro­lamo.E’ troppo facile adesso dire che hanno ragione. Il mini­stro deve fare azioni con­crete. Invece sia i governi ita­liani che si sono suc­ce­duti, sia l’Ue, hanno molte dif­fi­coltà ad attuare quello che dicono a parole o in dise­gni di legge qua­dro mai tra­dotti in decreti attua­tivi.

Per­ché non agi­scono?
E’ sem­plice. Le lobby della pro­du­zione e della distri­bu­zione agroa­li­men­tare non hanno inte­resse a pro­muo­vere la trac­cia­bi­lità e a infor­mare sull’origine delle mate­rie prime.

Anche le imprese ita­liane del set­tore?
Le imprese ita­liane lo fanno a mac­chia di leo­pardo, alcuni vir­tuosi ne fanno una stra­te­gia di mar­ke­ting, altri pre­fe­ri­scono nuo­tare in que­sto limbo di inte­res­sata ambi­guità.

Nono­stante tutto l’alimentazione di qua­lità è uno dei pochi mer­cati che in Ita­lia non risente della crisi e c’è un ritorno dei gio­vani nelle cam­pa­gne dove si regi­strano dati in con­tro­ten­denza anche rispetto alla disoc­cu­pa­zione. E’ pos­si­bile aggan­ciare la riprese a par­tire dai campi?
Tutti sono con­sa­pe­voli che que­sto è un set­tore stra­te­gico per il nostro paese, ma dob­biamo deci­derci. Il cibo ha perso valore da quando è diven­tato der­rata da pro­durre in serie a prezzi bassi. Biso­gna invece pri­vi­le­giare il valore sui volumi, la qua­lità sulla quan­tità. Che mi importa se i fran­cesi pro­du­cono meno vino ma hanno più resa eco­no­mica? La rin­corsa alla pro­du­zione a tutti i costi pro­duce spre­chi, distrugge l’ambiente e non risolve il pro­blema della mal­nu­tri­zione. Genera una crisi antro­pica inso­ste­ni­bile per l’ambiente, i ter­ri­tori, le per­sone, le cul­ture e anche per la finanza.

Il cibo è il tema dell’Expo 2015 di Milano, ai tempi del sin­daco Moratti hai avuto qual­che delu­sione a que­sto pro­po­sito, adesso Slow food come si pone rispetto a que­sto evento?

Pro­prio domani a Milano con il sin­daco Pisa­pia e con il com­mis­sa­rio Sala pre­sen­te­remo la nostra col­la­bo­ra­zione all’evento, ma lo fac­ciamo per por­tare den­tro Expo le nostre tema­ti­che. Non si può vedere Expò solo come oppor­tu­nità di svi­luppo eco­no­mico per Milano e per l’Italia. Che importa se ven­gono tanti visi­ta­tori se poi c’è la fame nel mondo.

Dalla lectio magistralis di Alberto Magnaghi all'Univerità di Firenze una alternativa ambientale e sociale all'urbanizzazione del pianeta nel segno del liberismo e della diseguaglianza. Presentazione di Alberto Ziparo. Il manifesto, 4 dicembre 2013

Vivere nelle bioregioni, padroni dei propri spazi
di Alberto Ziparo


Questa «lectio magistralis» di Alberto Magnaghi può essere letta come una sintesi del percorso teorico dell'urbanista italiano. Un itinerario che ha visto Magnaghi impegnato nel dare vita a esperienze di progettazione, ricerca, azione di tutela e affermazione dei valori territoriali («Era e resta un grande organizzatore di anime», disse di lui Rossana Rossanda un po' di tempo fa). Nel testo, Magnaghi ricorda inoltre come il capitalismo globalizzato, di recente «ad alta finanziarizzazione», abbia esasperato i processi di deterritorializzazione già in atto per gli impatti dello «sviluppo insostenibile contemporaneo».

Magnaghi propone di guardare alle problematiche condizioni ecologiche attuali da una prospettiva diversa da quella restituita dalla vulgata mediatica e dalle classi dirigenti che la informano. Lontano dalle politiche dominanti nelle varie governance multilivello che connotano i quadri decisionali istituzionali di oggi, l'innovazione viene cercata «guardando al basso» verso le nuove soggettività territoriali, consapevoli dell'urgenza di azioni di riqualificazione sociale incentrata sulla tutela e riaffermazione dei valori ambientali.

Tali attori sono individuati tra gli «abitanti della bioregione urbana», categoria «glocale» a forte connotazione socio-ambientale, utile ed efficace per reinterpretare i processi di declino e deterritorializzazione in atto, e rivoltarli in rappresentazioni di scenari di recupero ambientale e culturale del patrimonio territoriale. Dai comitati di difesa del territorio ai nuovi attori delle produzioni agrorurali a filiera corta, alle strutture della green economy locale, agli animatori della landscape oriented smart city, Magnaghi individua possibili reti di «abitanti di bioregioni urbane» capaci di esprimere azioni allargate e sostantive per politiche di restauro del territorio - bene comune, di riutilizzo del patrimonio, di riqualificazione civile e sociale dell'ambiente.

Con la più recente delle organizzazioni di ricerca e azione che ha promosso, la «Società dei Territorialisti» e i moltissimi studiosi, esperti, cultori e ambientalisti che vi aderiscono, l'urbanista oggi promuove «Osservatori» sui diversi contesti regionali, riletti secondo i criteri della «Bioregione Urbana» su cui si sofferma nel suo scritto.

L'obiettivo è proporre strategie che prefigurino il piano e il progetto urbanistico nella sua accezione più coerente di «formalizzazione spaziale di politiche»: connotate, invece che da una partecipazione crescente solo a livello di declaratorie, dalle intenzionalità strutturanti dei nuovi abitanti; consapevoli delle necessità di un'azione «attenta e sensibile» ad altissima coscienza e bassissima impronta ecologica.

ATTORI NEL REGNO POSTURBANO

di Alberto Magnaghi

L'urbanizzazione del mondo è irreversibile? Ma innanzitutto, perché mai fermarla? L'aria della città non rende liberi? Forse un tempo, quando ci si liberava dal feudo costruendo città e cittadinanza o quando, in seguito, ci si liberava dalla fatica dei campi e dalla precarietà del raccolto per andare a cercare un salario certo in fabbrica. Ma oggi la città, come terra promessa è, per la maggioranza degli abitanti della terra, solo un miraggio. Il più grande esodo della storia dell'umanità è duplice: verso l'iperspazio telematico, promessa di democrazia immateriale, ma anche assoggettamento al dominio delle reti globali, e verso le megacities e megaregions di decine di milioni di abitanti del Sud e dell'Est del mondo. Nel 2050, secondo l'Onu, su 9 miliardi di abitanti, 6,4 saranno urbanizzati. Questo percorso è iniziato con la crisi della città fabbrica fordista che aveva concentrato nelle cittadelle produttive del nord del mondo i flussi di forza lavoro dalle periferie regionali e globali, costruendo grandi aree e conurbazioni metropolitane al servizio del sistema produttivo massificato fordista.

Con la crisi di questo sistema dopo il grande ciclo di lotte operaie (1968-70) e la crisi petrolifera (1973) si avvia un doppio esodo: il primo regionale, che con il decentramento produttivo e la molecolarizzazione della grande fabbrica, costruisce il territorio della «città diffusa», che pervade distruttivamente le campagne e «urbanizza» vasti territori regionali; un processo che procede tutt'ora con edificazioni d'interesse esclusivo del capitale finanziario; il secondo più radicale che sposta dal nord al sud-est del mondo il ciclo produttivo globale provocando l'inurbamento forzato di milioni di contadini.

I protagonisti di questo megaesodo planetario non arrivano più in città. Arrivano in smisurate e sconfinate periferie, slums, favelas, urbanizzazioni illegali, frutto esponenziale e terminale dei processi di deterritorializzazione già avvenuti (ma con proporzioni e tempi diversi) nelle periferie della città-fabbrica occidentale: rottura delle relazioni culturali e ambientali con i luoghi e con la terra, perdita dei legami sociali, dissoluzione dello spazio pubblico, condizioni abitative decontestualizzate e omologate, crescita di nuove povertà. Questo «regno del posturbano» (e del postrurale) si è costruito, nella civiltà delle macchine, con la rottura delle relazioni co-evolutive fra insediamento umano, natura e lavoro che ha caratterizzato, nel bene e nel male, le civilizzazioni precedenti.

Il percorso di «deterritorializzazione senza ritorno» che si è avviato con la recinzione dei commons, procede, nel tempo del grande esodo, con la privatizzazione e la mercificazione progressiva dei beni comuni naturali (la Terra, innanzitutto, e poi l'acqua, l'aria, le fonti energetiche naturali, le selve, i fiumi, i laghi, i mari e cosi via), e dei beni comuni territoriali (città e infrastrutture storiche, sistemi agroforestali, paesaggi, opere idrauliche, bonifiche, opifici, impianti energetici).

Autogestioni locali

Questa deterritorializzazione ha trasformato progressivamente gli abitanti (che ancora nella città fabbrica esprimono la forza collettiva per rivendicare nel territorio condizioni di vita adeguate) in consumatori individuali e clienti del mercato e i luoghi in siti occupati da funzioni che rispondono a reti globali. L'urbanizzazione del pianeta che compie questo processo è dunque catastrofica per la mutazione antropologica che produce con la fine della città e della cittadinanza, oltre che ecocatastrofica per gli effetti sul clima, sul consumo di suolo fertile, sugli ecosistemi, provocati dalla dimensione, velocità e forma dei processi di inurbamento. Si compie così un percorso, analizzato da molti osservatori scientifici, da una parte verso una condizione urbana globale (ma non di urbanità) come destino esclusivo dell'umanità sul pianeta, dall'altra, «fuori le mura», verso l'abbandono e l'inselvatichimento di molti spazi aperti, resi inospitali per la vita dell'uomo da processi di degrado, desertificazione, alluvioni; e verso lo sfruttamento commerciale della natura fertile residua.

Se questa urbanizzazione globale non è più la terra promessa, vanno allora ricercate forme di controesodo: accrescendo la resistenza (in via di crescita) dei luoghi periferici e marginali al loro definitivo tramonto e colonizzazione e favorendo il loro ripopolamento con nuovi agricoltori, alleati con cittadini consapevoli, per la costruzione di una nuova civilizzazione urbana e rurale.

Il controesodo è un «ritorno al territorio» come bene comune (alla terra, alla montagna, alla urbanità della città, ai sistemi socioeconomici locali) per disseppellire luoghi, ritrovare la misura umana delle città e degli insediamenti. Il che significa ricostruire relazioni sinergiche fra insediamento umano e ambiente; aiutare la crescita di «coscienza di luogo», ovvero la capacità della cittadinanza attiva di sviluppare, a partire da vertenze specifiche, saperi e forme di autogoverno per la cura dei luoghi, in primis dei fattori riproduttivi della vita; promuovere nuovi stili conviviali e sobri dell'abitare e del produrre; valorizzare le forme in atto di mobilitazione sociale, le reti civiche e le forme di autogestione dei beni comuni territoriali e ambientali, per produrre ricchezza durevole in ogni luogo del mondo attraverso una conversione ecologica e territorialista dell'economia e la costruzione di reti solidali per una «globalizzazione dal basso».

Lo strumento concettuale e operativo che propongo, insieme a molti ricercatori della Società dei territorialisti, per avviare questo «ritorno al territorio» è la bioregione urbana, declinazione territorialista del concetto storico di bioregione: un modo di ridisegnare, in controtendenza, le relazioni virtuose fra insediamento umano, ambiente e storia che, similmente alla costruzione di una casa, individui e metta in opera gli «elementi costruttivi» di un progetto di territorio che produca l'autosostenibilità degli insediamenti umani.

Eccentricità a confronto

Questi elementi costruttivi sono, in sintesi: le culture e i saperi locali contestuali e esperti che si mobilitano per riattivare l'ars aedificandi dei mondi di vita delle comunità locali; gli equilibri idrogeomorfologici e la qualità delle reti ecologiche come precondizioni dell'insediamento umano e della sua capacità autorigenerativa; la decostruzione delle urbanizzazioni contemporanee centro-periferiche e la ricostruzione di centralità urbane policentriche e dei loro spazi pubblici (città di villaggi, reti di città in equilibrio ambientale con il loro territorio rurale); lo sviluppo di sistemi produttivi locali orientati alla messa in valore dei beni patrimoniali per la produzione di ricchezza durevole; la valorizzazione integrata delle risorse energetiche locali in coerenza con il patrimonio ambientale, territoriale e paesaggistico, per l'autoriproduzione della bioregione; i ruoli multifunzionali degli spazi agroforestali (già presenti in molte esperienze di neoruralità) per la riqualificazione delle relazioni città-campagna per la produzione di servizi ecosistemici e la riduzione della impronta ecologica; le istituzioni di democrazia partecipativa, le forme e le esperienze di gestione sociale dei beni comuni territoriali per l'autogoverno della bioregione.

Ognuno di questi «elementi costruttivi» si appoggia su energie sociali (comportamenti, movimenti, comitati, reti) che vanno esprimendo nuove forme del conflitto che si è desituato, almeno nelle regioni del nord del mondo, con la complessificazione crescente dei rapporti sociali di produzione, dalla centralità della contraddizione fra capitale e lavoro alla opposizione fra eterodirezione e autogoverno delle comunità locali, come già scrivevo nel 1981: «Due eccentricità si fronteggiano sul nuovo territorio metropolitano: le aree socioeconomiche in cui si disarticola il territorio della produzione, in quanto terminali informatizzati del nuovo ciclo di accumulazione e la formazione di nuovi bisogni di autodeterminazione della qualità della vita, emergenti in modo articolato e specifico nelle singole comunità socioeconomiche».

Il progetto di bioregione consolidandosi nel tempo in relazione alla evoluzione dalla coscienza di classe alla coscienza di luogo, fa riferimento a esperienze di ricerca-azione e di progettualità sociale del territorio in corso in alcune regioni europee dove l'urbanizzazione diffusa ha già raggiunto livelli difficilmente superabili; ma può nel contempo indicare strade per il contenimento del grande esodo verso megacity, contrapponendogli la visione di un pianeta brulicante di bioregioni in rete, per una globalizzazione dal basso fondata in ogni luogo sulla gestione collettiva del bene comune territorio.

La Società dei Territorialisti e il sistema vivente dei «luoghi»

La Società dei Territorialisti e delle Territorialiste è nata per iniziativa di un Comitato di garanti di diverse discipline di molte università italiane, per perseguire i seguenti obiettivi: a) sviluppare il dibattito scientifico per la fondazione di un corpus unitario, multisciplinare delle arti e scienze del territorio di indirizzo territorialista, che assuma la valorizzazione dei luoghi come base fondativa della conoscenza e dell'azione territoriale; b) promuovere indirizzi per le politiche e gli strumenti di governo del territorio a partire da questo corpus; c) indirizzare il dibattito sulla formazione di scuole, dipartimenti, dottorati, master di Scienze del territorio nelle università italiane; d) promuovere eventuali strutture di carattere culturale e scientifico al di fuori dell'Università; e) sviluppare relazioni internazionali mirate a estendere e confrontare i temi della Società.

Soprattutto, vi si favorisce un approccio che ha posto alcentro dell'attenzione disciplinare il territorio come bene comune nella suaidentità storica, culturale, sociale, ambientale, produttiva e il paesaggio inquanto sua manifestazione sensibile. Si critica, invece, l'idea di una fatalitàdella deterritorializzazione e despazializzazione. L'approccio della Societàinterpreta il territorio, appunto, come un sistema vivente ad alta complessitàche è prodotto dall'incontro fra eventi culturali e natura, composto da luoghi(o regioni) dotati di una propria storia, struttura e carattere. Ribadiscedunque il legame interattivo delle società umane con la terra (nella sua entitàgeologica, topografica, ecologica, vegetale e animale).

Finalmente qualche istituzione elettiva si oppone al progetto di finalizzare l’organizzazione del territorio e dell’accessibilità esclusivamente ai più ricchi, e di abbandonare i lavoratori, gli strudenti e gli altri pendolari al dominio dell’automobile. Greenreport, 4 dicembre 2023

Molto probabilmente tra il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi e l’Ad delle Ferrovie Mauro Moretti, non corre buon sangue. Anche a livello di rapporti personali. Ma la polemica tra la Regione e le Ferrovie è soprattutto nel merito. Rimanendo solo ai fatti degli ultimi tempi: il “taglio” degli intercity (non solo in Toscana) da parte di Trenitalia (poi in parte salvati grazie alla mobilitazione delle regioni). Ora la proposta del nuovo orario ferroviario, che entrerà in vigore a metà dicembre, che penalizza, sempre per quanto riguarda i servizi veloci (Av esclusa) in particolare la tratta Firenze-Arezzo e Valdichiana, vista la mancata sinergia con il servizio di trasporto ferroviario regionale. A tal proposito l’assessore a infrastrutture e trasporti Vincenzo Ceccarelli ha scritto agli amministratori delegati di Rfi e Trenitalia per denunciare queste criticità (e la mancanza di condivisione per le decisioni prese) che avranno come conseguenza il peggioramento del servizio. Da parte sua Moretti ha invitato i pendolari che si lamentano con le ferrovie per i disagi, a rivolgersi a chi fa i programmi di trasporto, cioè le Regioni, affermazione che ha fatto andare su tutte le furie Rossi.

«Moretti pensi a far arrivare i treni in orario, si prepari a non bloccare i treni nell’eventualità di nevicate e ci rifornisca nei tempi previsti i nuovi treni che abbiamo contrattualizzato. Ci rivolgiamo al governo nazionale, da cui attendiamo ancora le risposte che non abbiamo avuto. Ad esempio ci piacerebbe sapere se il governo intende metterci in condizioni di effettuare una regolare gara pubblica, veramente competitiva per il trasporto regionale». Intanto per toccare con mano l’entità dei disservizi e dei disagi che devono affrontare ogni giorno i pendolari, questa mattina il presidente Rossi, accompagnato dall’assessore Ceccarelli, ha effettuato un viaggio, a sorpresa, su un treno regionale dal Valdarno a Firenze e poi ha postato le prime impressioni su facebook: «Arrivato a Firenze Campo Marte in orario. Treno sovraffollato, anche se, mi dicono, un po’ meno del solito. Dalla stazione di Figline solo posti in piedi. Ho incontrato la vicesindaco di Montevarchi Elisa Bertini (anche lei pendolare) e sempre casualmente il portavoce dei pendolari del Valdarno, Maurizio Da Re. Voglio fare questo giro, in incognita, nelle tratte toscane per capire e vedere direttamente pregi e difetti del trasporto regionale per poter sostenere al meglio una pressione su Trenitalia, sul rispetto degli orari, sulla fornitura dei nuovi treni, sugli interventi da realizzare per migliorare il servizio. Fino ad oggi si sono spesi miliardi per l’alta velocità e solo spiccioli per i pendolari: uno squilibrio che deve essere corretto. Questo è l’obiettivo- ha concluso Rossi- e voglio arrivare fino in fondo».

Questa iniziativa ci pare opportuna e lodevole, ma quello che è necessario capire, al di la delle polemiche, è quale tipo di mobilità ritiene prioritaria il governo nazionale e quale azione intende esercitare nei confronti di Trenitalia e Rfi per le inadempienze lamentate dalla Regione Toscana (e da altre), confermate dai cittadini pendolari. Se il governo, come talvolta ha dichiarato, intende puntare sulla mobilità sostenibile bisogna riqualificare il servizio ferroviario rendendolo sempre più competitivo in rapporto all’utilizzo dell’auto privata, anche nei piccoli e medi tragitti

-

Trovato un equilibrio, imperfetto ma tutto sommato ragionevole, fra esigenze ambientali, urbanistiche, di equilibrio metropolitano e riorganizzazione aziendale, per un progetto controverso che si trascina da anni. Corriere della Sera Milano, 4 dicembre 2013, postilla (f.b.)

«Finalmente oggi si parte. Vogliamo trasformare un luogo abbandonato in un luogo di vita». Il presidente della Regione Roberto Maroni annuncia così il simbolico avvio dei lavori per la realizzazione della Città della Salute di Sesto San Giovanni. Tra gli imponenti ruderi di quel che resta dell’area delle acciaierie Falck, il governatore ha voluto riunire per una cerimonia ufficiale i protagonisti dell’operazione: l’autore del grande progetto, l’architetto Renzo Piano, il sindaco di Sesto Monica Chittò, i vertici del Besta e dell’Istituto dei tumori, cioè le due strutture ospedaliere che qui troveranno una nuova sede.

A loro e alle centinaia di invitati, Maroni ha ribadito che i tempi previsti saranno rispettati. Prima si procederà con la bonifica, poi partirà la costruzione che dovrà garantire l’apertura della nuova struttura nel 2019. «Entro fine anno ci aspettiamo il decreto del governo — dice il governatore —. Ho sentito stamattina il ministro Orlando e mi ha garantito che arriverà». Poi ricorda che «entro il 2018», prima della fine del suo mandato, intende aumentare «dall’attuale 1,6% del Pil al 3%» gli investimenti della Lombardia per la ricerca. E si concede una battuta: «Visto che la Città della Salute aprirà nel 2019, per vederla funzionare mi toccherà fare un secondo mandato...». E a proposito della fondamentale opera di bonifica del terreno sottolinea: «Una novità tutta lombarda, è il coinvolgimento del privato nella realizzazione di un’opera pubblica. I privati entrano in queste cose se c’è un ritorno dell’investimento, non per beneficenza. Noi siamo riusciti, qui, a trovare un sistema che darà vita a un polo di eccellenza europeo nella sanità, coinvolgendo i privati, lasciando a loro il loro ritorno sull’investimento ma per fini pubblici. Questo è il modello speciale di Sesto che oggi inauguriamo».

Per la realizzazione di quest’opera, la Regione ha stanziato 330 dei 450 milioni di euro complessivi, necessari per il progetto. Altri 40 milioni sono in conto al ministero della Salute e 80 milioni anticipati dal concessionario privato dei terreni. E proprio sul significato simbolico di quella fetta di territorio di un milione e 400 mila metri quadrati si sofferma il sindaco di Sesto San Giovanni: «Questo è un luogo storico del lavoro e dell’innovazione — dice Monica Chittò a proposito dell’enorme ex acciaieria — l’area Falck è da sempre importante non soltanto per noi di Sesto, ma per tutta l’Italia. Qui gli operai hanno dato vita agli scioperi del 1943». Quindi dedica la giornata di festa a Giuseppe Granelli, partigiano e operaio simbolo della Falck, morto pochi giorni prima. E a mezzogiorno in punto suona ancora la sirena che sanciva la fine del turno di migliaia di lavoratori.

Soddisfatti i presidenti dell’Istituto dei tumori, Giuseppe De Leo, e del Besta, Alberto Guglielmo, che sottolineano come i livelli di eccellenza scientifica possano trovare ulteriore impulso dalla nuova e più funzionale sede comune. Come sarà? «La città che era diventata fabbrica tornerà a essere città», riassume con una suggestione Renzo Piano, che, con proiezioni di planimetrie e foto aeree, spiega i dettagli del progetto, prima al pubblico istituzionale e poi agli studenti del Politecnico: sottolinea che ci saranno 10 mila alberi, «perché qui il verde attecchisce che è una meraviglia», ci saranno pannelli solari, pozzi geotermici ed edifici a basso consumo energetico, residenze e attività terziarie che porteranno «la città nell’ospedale».

postilla

Se c'è un possibile, ulteriore commento a una vicenda che questo sito eddyburg.it ha seguito (forse seguirà ancora) nei suoi più o meno virtuosi o surreali passaggi, è che per una volta pare che il pubblico trionfi sul privato. Almeno se confrontiamo lo sbocco provvisorio del progetto di Città della Salute con quello, del tutto complementare/concorrente promosso dalla cordata Umberto Veronesi Salvatore Ligresti ecc. per un Centro Europeo di Ricerche Biomediche Avanzate. Se non altro la Città della Salute pubblica col suo a volte patetico itinerare da una localizzazione all'altra, da una strategia all'altra, dall'ipotesi greenfield, a quella brownfield (fortunatamente scelta), all'opzione zero di una riorganizzazione solo aziendale e non urbanistica, si è svolta in modo relativamente trasparente. La scelta finale in pratica pare una specie di compromesso abbastanza leggibile fra le vere esigenze di rafforzamento della ricerca avanzata in un polo di livello europeo, e altre strategie sia di riequilibrio metropolitano, che di bonifica ambientale grazie alle risorse così messe in campo. Mentre dall'altra parte, il Cerba ha evidenziato e continua a evidenziare la pura strumentalità del polo scientifico sanitario a un'operazione immobiliarista, ambientalmente discutibile, e senza alcuna sinergia con altri aspetti. Aspettando le successive evoluzioni di entrambi i progetti, naturalmente (f.b.)

© 2024 Eddyburg