«Nel miracolo italiano la finanza, che allora non puramente speculativa investiva nelle imprese, ricoprì un ruolo decisivo». Il problema si chiama "capitalismo".
www.sbilanciamoci.info 14 febbraio 2014
È una mia opinione, ma ben più che il New Deal di Roosevelt fu la seconda guerra mondiale con le sue immense distruzioni e milioni di morti a far uscire il capitalismo dalla pesante crisi del 1929 e produrre i vari "miracoli", tra i quali quello italiano. In questo miracolo italiano un ruolo importante, direi decisivo, ebbe la finanza, che allora non era puramente speculativa come adesso (fare denaro con denaro), ma investiva nelle imprese produttive, o, addirittura, le creava. I protagonisti di questa vecchia finanza produttiva sono ancora ricordati e celebrati.
Penso a Cuccia, principe indiscusso di Mediobanca, a Mattioli della Banca commerciale, a Menichella, governatore di Bankitalia, a Beneduce capo dell'Iri (che oggi sarebbe quanto mai necessario) e tra i banchieri di allora ricorderei anche il mio amico Nerio Nesi. Allora – ripeto – le banche non investivano nelle banche o nei pericolosi derivati, ma nella produzione e in quella stagione grande fu la crescita di piccola e media industria. Come non ricordare i nomi di imprese prestigiose che oggi non ci sono più o sono emigrate: pensiamo solo alla Fiat. È il capitale finanziario quello che molti anni fa ci è stato illustrato da Rudolf Hilferding nel suo Il capitale finanziario , pubblicato da Feltrinelli con l'introduzione del bravissimo e dimenticato Giulio Pietranera.
Per tutto questo, pensare che la vecchia finanza fosse buona e quella di oggi cattiva sarebbe sbagliato: è cambiata la fase storica e siamo in una crisi epocale. È passato il tempo in cui crescevano occupazione e imprese. Montecatini, Edison, Montedison non ci sono più. Pensiamo alle imprese automobilistiche, alla Fiat che aveva inglobato Lancia e Alfa Romeo: tutto in Olanda e Inghilterra. Sarebbe lunghissimo l'elenco delle imprese scomparse e delocalizzate. Certamente negli anni cinquanta e sessanta c'era una finanza benigna, ma non possiamo cavarcela dicendo che la finanza è diventata cattiva. Non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla crisi globale che sta investendo tutta l'economia, non solo quella italiana. Ma anche la vecchia finanza virtuosa non durò a lungo. Cominciarono scalate e imbrogli quasi delittuosi. Vale ricordare che le banche francesi si impadronirono della Banca Nazionale del Lavoro. E, ancora peggio, va ricordato l'intervento di Michele Sindona e lo scandalo pesante del Banco Ambrosiano con la morte, a Londra sotto il ponte dei Blackfriars del banchiere Roberto Calvi. Ma adesso che fare? Spargere lacrime sulla vecchia e generosa finanza non servirebbe a niente e direi che non avremmo neppure i fazzoletti per asciugarle. Io credo che dovremmo leggere la lezione del passato e ricordare che in quella crescita decisivo fu l'Iri, cioè l'intervento dello Stato e un blocco alle privatizzazioni in corso. Si tratta di affrontare questa crisi con l'intervento pubblico e con il netto rifiuto dell'austerità: aver messo in Costituzione il pareggio di bilancio è precludersi ogni avvenire, è delittuoso. Siamo in una situazione nella quale la conclamata virtù del risparmio diventa una pratica suicida.
NB. Per chi voglia approfondire la questione raccomando la lettura dei due volumi del CiriecProtagonisti dell'intervento pubblico in Italia, pubblicati da Aragno Editore.
Sbilanciamoci.info, 24 gennaio 2014
Un comune decide che le mense scolastiche acquistino prodotti locali a “chilometri zero”. Un paese – l’Italia - vota in un referendum che l’acqua dev’essere pubblica. Un continente - l’Europa - pone restrizioni all’uso di Organismi geneticamente modificati (Ogm) in agricoltura. Tra poco tutto questo potrebbe diventare illegittimo. Il Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP, Transatlantic trade and investment partnership), oggetto di discussioni segrete tra Usa e Commissione europea, prevede che le commesse pubbliche non possano privilegiare produttori locali, che gli investimenti delle multinazionali siano consentiti e tutelati anche nei servizi pubblici (acqua, sanità, etc.), che la regolamentazione non possa limitare i commerci, anche quando ci sono rischi per l’ambiente o la salute. E se un governo tiene duro, sono pronti i meccanismi di “arbitrato” che possono costringere gli stati a pagare alle multinazionali l’equivalente dei mancati superprofitti.
Si tratterebbe di un colpo di stato. L’annullamento della politica di fronte all’assoluta libertà dei capitali, non di commerciare – quella c’è già – ma di entrare in ogni attività, ogni ambito della vita, con la garanzia di fare profitti. L’annullamento della democrazia intesa come possibilità di una comunità di decidere i propri valori, le regole condivise, le politiche da realizzare. L’annullamento dei diritti dei cittadini e delle responsabilità collettive – come quella verso l’ambiente – che si frappongano alla trasformazione in merce del mondo intero.
Il commercio è uno dei temi su cui i paesi membri della Ue hanno già trasferito completamente la sovranità a Bruxelles: è la Commissione a negoziare gli accordi all’Organizzazione mondiale per il commercio (Omc) o i trattati bilaterali come il Ttip. Ma senza poteri significativi del Parlamento europeo e con il potere delle lobby delle multinazionali che detta le politiche europee, la Ue ha praticato in questi anni la versione più estrema e irresponsabile del liberismo. Come nel caso dell’Unione monetaria, il passaggio di poteri sul commercio è un pessimo esempio di come l’integrazione europa porti a politiche che favoriscono solo i capitali e danneggiano le persone, il lavoro, l’ambiente - dentro e fuori l’Europa, come mostrano gli effetti negativi dei trattati di libero scambio sui paesi in via di sviluppo.
Il Ttip è un “Trattato intrattabile” che va fermato al più presto. Siamo ancora in tempo, un progetto analogo – l’Ami - era già stato sconfitto nel 1998. Ma servirebbe una discussione attenta che ancora non c’è. Servirebbe una protesta di massa contro quest’ultimo, estremo sussulto di quel liberismo che ci ha portato a sei anni di depressione economica. Servirebbero sindacati che non si pieghino a nuove distruzioni di posti di lavoro, consumatori che boicottino le mutinazionali più aggressive, partiti che si ricordino, per una volta, di difendere la democrazia. Discutere di elezioni europee – da oggi al prossimo maggio - significa discutere soprattutto di questo.
«Il dogma del laissez-faire, dell’economia lasciata libera di farsi e disfarsi, dello Stato che deve sottomettersi a questa benevola legge naturale e restringere al massimo la sua presenza, regolarmente s’è infranto contro il muro, smentito dai fatti».
La Repubblica, 15 gennaio 2014
QUANDO le crisi sono devastanti non si può fare a meno dello Stato, perché solo quest’ultimo è in grado di metter fine alla devastazione, solo il pubblico sa scommettere sul futuro senza pretendere l’immediato profitto cercato da cerchie sempre più ristrette di privati. Parlando con Ezio Mauro, nell’intervista del 10 gennaio, Sergio Marchionne dice questo, in sostanza, e l’ammissione è importante. Lo dice raccontando una storia di successo - la fusione tra Fiat e Chrysler - e tutte le fiabe sul mercato che guarisce senza Stato si Sbriciolano.
Senza quasi accorgersene, l’amministratore delegato ridipinge anche l’immagine di se stesso: la figura thatcheriana dell’imprenditore che sfianca i sindacati più resistenti, promettendo un capitalismo che distruggendo crea, e poco importa se la società si disintegra. Si sbriciola anche quest’illusione, se c’è stata. Le Grandi Depressioni non sono redentrici; la Fabbrica Italia su cui giurò nell’estate 2012 è fallita.
La frase chiave nella narrazione di Marchionne mi è parsa la seguente: «La nostra fortuna è stata di poter trattare direttamente con il Tesoro (americano), con la task force del Presidente Obama: non con i creditori di Chrysler, come voleva la vecchia logica. Se no, oggi non saremmo qui». L’idea era di far rinascere Fiat «in forma completamente diversa », e solo lo Stato federale Usa poteva fronteggiare — mettendoci la faccia, e i soldi — una crisi depressiva che Marchionne definisce «spaventosa » («I manager uscivano per strada con gli scatoloni perché le aziende chiudevano (...) non so se mi spiego»). In ogni grande svolta, specialmente quando spavento e cupidigia divorano i mercati, solo la forza pubblica possiede lo sguardo lungo, il dovere solidale, la temerarietà, di cui son sprovviste le vecchie logiche. L’amministratore delegato non lo dice espressamente ma la vecchia logica è quella, tuttora spadroneggiante, del mercato che crolla e si rialza come Lazzaro, senza però che nessuno lo richiami in vita. Si rialza spontaneamente, come Marchionne forse immaginò per un certo tempo: tagliando i costi del lavoro, secernendo guerre tra poveri, e tra poveri e sindacati. La redenzione è mancata: non poteva venire dagli investitori, né dal «sistema digestivo delle banche che si era bloccato».
La crisi iniziata nel 2007-2008 ha mostrato quel che pure era evidente, dopo i disastri degli ultimi secoli e in particolare dopo la Depressione del ’29. Il dogma del laissez-faire, dell’economia lasciata libera di farsi e disfarsi senza obblighi speciali, dello Stato che deve sottomettersi a questa benevola legge naturale e restringere al massimo la sua presenza, regolarmente s’è infranto contro il muro, smentito dai fatti. Obama ha «creduto» al progetto Fiat, e a un certo punto ha scavalcato gli spiriti animali del mercato (creditori, banche), incapaci di credere e digerire alcunché.
Roberto Ciccarelli pone le domande giuste a proposito della crisi e degli errori che si continuano a compiere nell'affrontarla, e il saggio studioso della società gli risponde con chiarezza. Il
manifesto, 4 gennaio 2013
Nel 2013 la Cina è cresciuta del 7,7% e nel 2014 il Pil sarà all’8,2%. Gli Usa arriveranno a +2,9%. Il Pil crescerà dello zero virgola in Europa.Professor Gallino, la crisi è finita?
Ritiene che l’uscita dalla crisi possa avvenire con il rilancio della produzione e dei consumi di massa identici a quelli del «trentennio glorioso», tra il 1945 e 1973?
«Lo pensano i governanti e alcuni economisti che hanno sempre in mente il modello che ha provocato la crisi: produrre di più tagliando il costo del lavoro, i salari, aumentando la precarietà. Non credo a questa prospettiva. E se mai questo avvenisse sarebbe un vero disastro, perchè la crisi non è solo finanziaria o produttiva, è anche evidentemente una crisi ecologica che produce la desertificazione del pianeta, distrugge risorse che hanno impiegato migliaia di anni per accumularsi. Rischiamo inoltre di essere seppelliti dai rifiuti, uno dei problemi provocati dall’esplosione nel 2007 del modello produttivo, come dimostra la Campania, che è un caso esemplare di quanto sta accadendo.
Nonostante tutto il presidente della Bce Mario Draghi sollecita i governi a continuare le «riforme» anche nel 2014…«Così facendo non si farà molta strada per affrontare seriamente la crisi. Trovo scandaloso che il Trattato istitutivo dell’Unione Europea e lo statuto della Bce ignorino quasi del tutto il problema della nostra epoca: la creazione di occupazione. L’articolo 123 del Trattato Ue vieta alla Bce di concedere scoperti di conto o qualsiasi forma di facilitazione creditizia alle amministrazioni statali. È un divieto unico tra le banche centrali esistenti sul pianeta, un’altra assurdità del Trattato. È difficile modificarlo a causa della contrarietà dei tedeschi che attaccano Draghi. È curioso però notare che questo stesso articolo non vieta alla Bce l’acquisto dei titoli sul mercato secondario. Cosa che la Bce ha fatto tra il 2010 e il 2011 quando acquistò 218 miliardi di titoli di stato, di cui 103 italiani. Se lo si volesse usare, la Bce potrebbe prestare miliardi di euro in cambio dell’impegno di un piano industriale che preveda l’assunzione netta di nuova manodopera.
Che cosa ha fatto Draghi per la crescita?
«Ha prestato mille miliardi alle banche senza porre condizioni. Si è reso ridicolo quando ha ammesso di non avere la minima idea di cosa ne abbiano fatto le banche. In realtà questi soldi sono stati usati per scambi bancari o per acquistare titoli. Meno di un terzo sono andati alle imprese, ma anche in questo caso senza porre condizioni. Senza risorse, le politiche contro la disoccupazione fatta dal nostro governo, come da tutti quelli europei, sono pannicelli caldi rispetto ai 26 milioni di disoccupati e ai 100 milioni a rischio di povertà in Europa.
Molti economisti, come la Banca Mondiale, ritengono che il Pil non sia più l’unico indicatore per misurare la crescita. E propongono altri indicatori per misurare il tasso di sviluppo umano. Come renderli vincolanti?
«Cambiare paradigma produttivo non implica solo cambiare indicatori, comporta una trasformazione politica. In questa fase mancano le premesse politiche per realizzarla. I discorsi che i governi europei fanno sull’economia, in Italia come in Germania, sono di un’ottusità incomparabile. Vanno tutti in direzione contraria a quello che bisogna fare, e di certo non servono per riformare la finanza, mutare il modello produttivo e operare una transizione di milioni di lavoratori verso nuovi settori ad alta intensità di lavoro. La crisi deve essere affrontata in tutti gli aspetti e non solo su quello finanziario e produttivo. Purtroppo la discussione pubblica è a zero.
La «green economy», o «crescita verde» come la definisce l’Ocse, rappresentano un’alternativa a quello che lei definisce il «totalitarismo neoliberale»?
«Il cambiamento di paradigma produttivo si misura anche a partire dalla necessità di rompere la subordinazione al calcolo economico di qualsiasi azione, quella che Michel Foucault definiva la «ratio» del neoliberalismo. In questa chiave, queste idee potrebbero aprire nuovi settori di intervento caratterizzati da un’alta intensità di lavoro. Questo non significa creare piantagioni di cotone dove la macchina fa il lavoro di cento braccianti. Bisogna pensare a settori dove il lavoro umano è molto attrezzato. La ricerca bioalimentare, al di là dei famigerati Ogm, è sicuramente una di questi. C’è la ricerca medica, i beni culturali. Invece di produrre beni di sostituzione di tipo tradizionale, o gadget come i cellulari, bisogna pensare all’ambiente, alla scuola, ai servizi pubblici nel senso ampio del termine, alla riqualificazione idrogeologica dei nostri territori.
Il caso dell’Ilva dimostra la difficoltà di conciliare l’esigenza dell’occupazione con un modello produttivo compatibile con l’ambiente e la salute. Come governare quella che si definisce una transizione?
«Il caso dell’Ilva è indicativo di quello che non bisogna fare. Ho studiato a lungo questi stabilimenti a Taranto. Quando furono costruiti rappresentarono un grande successo industriale, ma dovevano essere riconvertiti almeno vent’anni fa, quando la produzione siderurgica è radicalmente cambiata. Bisognava concordare con la proprietà una transizione, abbattere l’inquinamento, mettere in grado la produzione di far fronte esigenze industriali sempre più complesse. Lo hanno fatto in Germania, in Giappone e negli Stati Uniti, tranne che a Taranto. L’acciaio in sé non vuol dire nulla, ha mille caratteristiche diverse a seconda della destinazione dei suoi prodotti. E ci vogliono stabilimenti più piccoli. In questo modo è anche possibile aumentare l’occupazione.
Uscire dall’euro è una risposta adeguata per contrastare le politiche di austerità?
«Queste politiche sono un suicidio programmato, ben venga qualunque intervento per allieviarne le conseguenze. L’euro è un problema, ma non bisogna farla troppo facile. È nato con gravi difetti e resta una moneta straniera. È una cosa da pazzi, non succede in nessun posto al mondo. Avere una moneta meno rigida aiuterebbe molto, ma uscire dall’euro è un’idea insensata. Il Marco sarebbe rivalutato del 40%, milioni di contratti tra enti privati e pubblici dovrebbero essere ridiscussi. Ci vorrebbero 20 anni per farlo, entreremmo in una spirale drammatica. Credo che oggi ci siano altre urgenze in Italia e in Europa
La Repubblica, 30 dicembre 2013
C’È UN fondo d’investimento che si compra un’intera città della California in bancarotta. C’è quello che controlla da solo il 7% di tutta la ricchezza mondiale, 15.000 miliardi di dollari. C’è il finanziere d’assalto che sfida Apple. The “Masters of the Universe sono tornati”. I giganti della finanza americana rinascono più forti che mai. Il crac sistemico del 2008, che sembrava averli spezzati, è ormai un ricordo lontano. Se ne accorge anche Hollywood, con il duo Martin Scorsese-Leonardo Di Caprio dedica a The Wolf, il Lupo di Wall Street, il film più atteso di questo fine 2013. Degna chiusura di un anno che ha visto Wall Street polverizzare ogni record, con l’indice Standard & Poor’s 500 in rialzo del 30% rispetto al primo gennaio.
The Economist dedica una copertina a Blackrock, il fondo d’investimento più grande del mondo, il primo azionista in metà delle 30 maggiori multinazionali del pianeta. E lo raffigura come una roccia nera che incombe su sfondo di cielo azzurro, un’immagine che evoca Magritte oppure il monolito di Stanley Kubrick. Time magazine invece sulla copertina di dicembre mette Carl Icahn, un nome che rievoca le prime grandi scalate degli anni Ottanta. L’epoca in cui il romanziere Tom Wolfe coniò, nel “Falò delle vanità”, quel termine arrogante e superbo, inquietante e gonfio di hubris: i Padroni dell’Universo, appunto.
Il fondo che possiede una città si chiama Marathon Asset Management, non è neppure uno dei maggiori colossi, amministra “solo” 11 miliardi di dollari. Ha rilevato l’intera Scotia, città californiana a 250 km a nord di San Francisco, dopo la bancarotta municipale. È un precedente che potrebbe far scuola per metropoli ben più grandi come Detroit, dove il liquidatore dei beni comunali sta mettendo all’asta fallimentare anche i musei cittadini.
Time saluta il ritorno di Icahn, 77 anni e un patrimonio di 20 miliardi che lo colloca al 18esimo posto della classifica Forbes dei Paperoni d’America, con questa presentazione: «È il singolo investitore più ricco di Wall Street, e il più temuto raider di grandi imperi industriali». La sua carriera cominciò con la scalata alla compagnia aerea Twa nel 1985, un anno prima che i rivali di Kkr lo battessero nella conquista alla Nabisco (raccontata in un altro celebre romanzo-realtà sulla finanza Usa, Barbari alle porte). Oggi Icahn fa notizia soprattutto per il braccio di ferro che lo oppone a Tim Cook, il chief executive di Apple nel dopo-Steve Jobs.
Blackrock è un campione che gioca in una categoria a parte: la sua. È il King Kong dell’investimento moderno, nessun altro può competere per dimensioni. Fondato nel 1988, oggi Blackrock amministra direttamente 4.100 miliardi di dollari dei suoi clienti. Inoltre fornisce piattaforme tecnologiche e software per la gestione di altri 11.000 miliardi. E quei fondi sotto la sua influenza crescono al ritmo frenetico di 1.000 miliardi all’anno. Naturalmente compra anche bond, materie prime, immobili. La sua vera specialità però resta l’investimento azionario. Ritrovi Blackrock come primo azionista delle tre regine hi-tech americane: Apple, Google, Microsoft. È il primo azionista anche di due colossi petroliferi (Exxon, Chevron), di due tra le maggiori banche Usa (JP Morgan Chase, Wells Fargo), sempre primo azionista anche in conglomerati industriali come General Electric, Procter & Gamble. Una peculiarità di Blackrock lo distingue da altri protagonisti di epoche precedenti nella storia di Wall Street. Questo maxi-fondo investe soprattutto attraverso strumenti detti “passivi” come gli exchangetraded funds (Etf) che riproducono esattamente l’andamento di indici di Borsa (come i vari Dow Jones, S&P500, Ftse).
Il ritorno dei Padroni dell’Universo è un fenomeno dalle molte facce. L’aspetto negativo lo sottolinea chi teme che la crescita americana sia ripartita su basi vecchie, cioé con gli stessi squilibri che generarono la grande crisi del 2008. In particolare fra questi squilibri c’è la finanziarizzazione dell’economia, e la dilatazione delle diseguaglianze sociali che le è strettamente legata. Larry Summers, ex consigliere economico di Barack Obama, in un importante discorso al Fondo monetario internazionale ha evocato il rischio di una «stagnazione secolare», tra i cui sintomi vi sarebbe la deflazione. Uno studio della Washington University lancia l’allarme sulle disparità nel risparmio: il 5% delle famiglie più ricche sta accumulando troppi risparmi e in questo modo deprime i consumi; mentre il 95% rimanente è costretto a dilapidare lentamente i propri patrimoni per contrastare il peggioramento del tenore di vita.
Il lato positivo di Wall Street forse lo vedono meglio di tutti gli italiani: per contrasto con la loro realtà nazionale. Il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, in una recente visita a New York in cui ha incontrato proprio i dirigenti di Blackrock, oltre agli uomini di Citigroup e George Soros, ha potuto misurare i benefici della loro intraprendenza. Diversi attori della finanza Usa si sono offerti di liquidare in fretta le sofferenze e i crediti incagliati delle banche italiane, un’operazione che consentirebbe alle aziende di credito di tornare a prestare fondi all’economia reale.
Dietro un’economia americana che cresce del 3% e genera duecentomila nuovi posti di lavoro al mese, c’è anche questa finanza “flessibile”, che ha liquidato in tempi record le scorie tossiche della crisi del 2008, ed è tornata a fare il suo mestiere. La storia di come le banche americane si sono rimesse in piedi, nel corso degli ultimi quattro anni, è lo specchio riflesso — all’incontrario — di tutto quel che non accade nel sistema bancario italiano. Quando le banche Usa sembravano stremate, al tracollo, sul punto di affondare sotto il peso di investimenti sbagliati e crediti inesigibili, la prima mossa è stata la svendita a prezzi di liquidazione di tutta la “monnezza” che poteva impedire la riemersione. In seguito o in parallelo, ci sono state le grandi ricapitalizzazioni. Le banche hanno cercato capitali freschi sul mercato aperto. Una delle prime operazioni la fece un personaggio emblematico del capitalismo Usa, Warren Buffett, con il suo investimento “salvifico” in Goldman Sachs, fatto in un’epoca in cui sui mercati ancora regnava una sfiducia quasi disperata. Una volta ricapitalizzate, anche con l’intervento dei Padroni dell’Universo, le banche hanno riguadagnato la fiducia dei mercati, sono apparse sufficientemente solide da superare gli “stress test” degli organi di vigilanza. E hanno ripreso a fare credito all’economia reale, famiglie e imprese, alimentando la ripresa attuale. Niente blindature degli assetti azionari, niente “foreste pietrificate” dei soliti noti. Questo è il capitalismo americano, la “macchina del mercato” che qui ha ripreso a girare a pieno ritmo.
La Repubblica, 21 dicembre 2013
Il film di Oliver Stone, Wall Street, ritratto di plutocrati in ascesa secondo i quali l’avidità è un bene, è uscito nelle sale nel 1987. I politici, però, intimoriti da chi grida alla “lotta di classe”, hanno fatto il possibile per evitare di fare del sempre crescente divario tra i benestanti e il resto della popolazione una questione di primaria importanza.
Le cose, tuttavia, potrebbero cambiare. Possiamo anche parlare del significato della vittoria di Bill de Blasio nella corsa a sindaco di New York o della convalida da parte di Elizabeth Warren dell’espansione di Social Security. E resta ancora da vedere se la dichiarazione del presidente Barack Obama secondo cui la disuguaglianza è «la sfida che definisce la nostra epoca» si tradurrà in qualche cambiamento politico. In ogni caso, la discussione si è già spostata al punto da suscitare una reazione eccessiva da parte degli esperti che sostengono che la disuguaglianza non è poi chissà che grande problema.
Hanno torto. L’argomentazione migliore per dare alla disuguaglianza una bassa priorità è lo stato depresso dell’economia. Non è forse più importante ripristinare la crescita economica invece di preoccuparsi di come sono distribuiti gli utili della crescita? Beh, no. Prima di tutto, anche solo guardando all’impatto diretto che ha l’aumento delle disuguaglianze sulla classe media americana ci si accorge che di fatto esso crea davvero un grosso problema. Oltre a ciò, molto probabilmente la disuguaglianza ha rivestito un ruolo fondamentale nel provocare il caos economico nel quale ci ritroviamo, e ne ha rivestito uno cruciale nel nostro dimostrarci incapaci di mettere a posto le cose.
Ma partiamo dalle cifre. In media, gli americani oggi continuano a essere molto più poveri di quanto fossero prima della crisi economica. Per il 90 per cento delle famiglie che guadagnano meno, questo impoverimento riflette sia un restringimento della torta economica, sia una percentuale in calo di quella torta. Che cosa ha avuto maggiore importanza? La risposta, sbalorditiva, è che le due sono più o meno equivalenti. In altri termini, la disuguaglianza è aumentata così rapidamente negli ultimi sei anni da fungere da enorme peso morto per i redditi dei normali americani, tanto quanto una mediocre performance economica, anche se questi anni comprendono quelli della peggiore recessione economica che ci sia stata dagli anni Trenta.
Se poi si assume una prospettiva sul più lungo periodo, l’aumento della disuguaglianza sta diventando di gran lunga il singolo fattore più importante dietro alla stagnazione dei redditi della classe media.Oltre a ciò, se si cerca di comprendere sia la Grande Recessione sia la non così grande ripresa che le ha fatto seguito, gli impatti economici e soprattutto politici della disuguaglianza incombono minacciosi all’orizzonte.
È ormai comunemente riconosciuto che l’indebitamento in forte aumento dei nuclei famigliari ha contribuito a spianare la strada alla nostra crisi economica. Questa impennata del debito è coincisa con l’aumento della disuguaglianza, e i due fenomeni probabilmente sono correlati (sebbene ciò non sia inoppugnabile). Dopo che la crisi ha colpito, il continuo spostamento dei redditi dalla classe media verso una piccola élite è stato di ostacolo per la domanda dei consumatori, e di conseguenza la disuguaglianza è collegata sia alla crisi economica sia alla debolezza della ripresa che le ha fatto seguito.
Dal mio punto di vista, tuttavia, il ruolo veramente cruciale rivestito dalla disuguaglianza nella catastrofe economica è stato di natura politica.
Negli anni prima della crisi, a Washington prevaleva un notevole consenso bipartisan a favore della deregulation finanziaria, consenso non giustificato dalla teoria né dalla storia. Quando è subentrata la crisi, c’è stata una corsa a salvare le banche. Ma, non appena si è conclusa questa fase, si è affermato un nuovo consenso, che ha comportato di lasciar perdere la creazione di nuovi posti di lavoro e di concentrarsi sulla presunta minaccia derivante dai deficit di bilancio.
Che cosa hanno in comune i consensi pre-crisi e quelli post-crisi? Entrambi sono stati devastanti dal punto di vista economico: la deregulation ha contribuito a rendere possibile la crisi, e la precipitosa svolta verso l’austerità fiscale ha fatto più di qualsiasi altra cosa per intralciare la ripresa. Entrambi i consensi, tuttavia, corrispondevano agli interessi e ai pregiudizi di una élite economica la cui influenza politica è balzata alle stelle in parallelo con la sua ricchezza. Ciò diventa quanto mai chiaro se cerchiamo di capire perché Washington, nel bel mezzo di una crisi dell’occupazione che si protrae, per taluni aspetti è ormai ossessionata dalla presunta necessità di tagliare Social Security e Medicare. Questa ossessione non ha mai avuto senso, dal punto di vista economico: in un’economia depressa con tassi di interesse bassi quasi da record, il governo dovrebbe spendere di più e non di meno. Oltre a ciò un’epoca di disoccupazione di massa non è certo il momento più opportuno per concentrarsi sugli eventuali problemi fiscali nei quali ci imbatteremo a qualche decennio di distanza. L’attacco a questi programmi, per altro, non è avvenuto su richiesta dell’opinione pubblica.
I sondaggi condotti presso i soggetti molto facoltosi, tuttavia, hanno messo in evidenza che — a differenza dell’opinione pubblica in generale — essi considerano i deficit di bilancio una questione cruciale e sono favorevoli quindi a ingenti tagli nei programmi assistenziali e alle reti di sicurezza. Indubbiamente, le priorità di quelle élite hanno il sopravvento sul nostro discorso politico.
Ciò mi porta al mio punto finale. Dietro a una parte delle reazioni eccessive contro il dibattito sulla disuguaglianza credo che c’è il desiderio di alcuni grossi esperti di depoliticizzare il nostro discorso economico, di renderlo tecnocratico, non di parte. Ma questo è un sogno impossibile. La classe sociale e l’ineguaglianza finiranno sempre coll’influenzare — e distorcere — il dibattito perfino in relazione a quelle che possono apparire questioni puramente tecnocratiche. Il presidente, dunque, aveva ragione. La disuguaglianza è davvero la sfida che definisce la nostra epoca. Faremo qualcosa per raccogliere tale sfida e reagire adeguatamente?
(Traduzione di Anna Bissanti)
L’Unità, 27 novembre 2013
È racchiusa in 224 pagine la «rivoluzione gentile» di Papa Francesco. La sua Esortazione apostolica «Evangelii Gaudium» rappresenta un vero manifesto del suo pontificato. Formalmente è dedicata alla «nuova evangelizzazione» al termine dell’Anno della Fede e a come annunciare il Vangelo al mondo di oggi, ma nei suoi cinque capitoli Papa Francesco non solo indica un modello preciso di Chiesa «aperta», «gioiosa», che sappia incontrare i lontani, fedele al Vangelo e con un rapporto preferenziale per i poveri. Che sappia uscire dalla sua autoreferenzialità, dal rischio della mondanità e sia aperta al cambiamento.
Esprime un punto di vista preciso sulla crisi globale e su come rispondere alla domanda di vera giustizia e di pace. La sua «Esortazione» non è un documento politico, ma richiama un punto di vista preciso verso ciò che offende la dignità dell’uomo e dei Popoli. Alle questioni sociali Bergoglio dedica due dei cinque capitoli del documento, il secondo e il quarto. Si coglie l’esperienza vissuta nella sua Argentina colpita duramente dalla crisi economica internazionale nella sua critica esplicita al «feticismo del denaro» e «alla dittatura di un’economia senza volto e senza scopo veramente umano», nuova e spietata versione dell’«adorazione dell’antico vitello d’oro». Stigmatizza l’attuale sistema economico che «è ingiusto alla radice» (59), «questa economia che uccide» perché prevale la «legge del più forte». Torna sulla cultura dello «scarto» che ha creato «qualcosa di nuovo» e drammatico: «Gli esclusi, che non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”» (53). Finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando «all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della “inequità” insiste non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema». E indica proprio nell’«inequità», la radici dei mali sociali.
La Chiesa non può restare indifferente a tali ingiustizie. «L’economia non può più ricorrere a rimedi che siano un nuovo veleno, come quando si retende di aumentare la redditività riducendo il mercato del lavoro e creando un tal modo nuovi esclusi». Dedica pagine alla denuncia della «nuova tirannia invisibile, a volte virtuale» in cui si vive è quella a «un “mercato divinizzato”, dove regnano “speculazione finanziaria”, “corruzione ramificata”, “evasione fiscale egoista”» (56). Ricorda come il possesso privato dei beni si giustifica «per custodirli e accrescerli», ma «in modo che servano meglio al bene comune». Le rivendicazioni sociali, che hanno a che fare con la distribuzione delle entrate, l’inclusione sociale dei poveri e i diritti umani osserva non possono essere soffocate con il pretesto di costruire un’effimera pace «per una minoranza felice».
Chiede giustizia vera e non fa sconti il «vescovo di Roma». Invita ad avere cura dei più deboli: «i senza tetto, i tossicodipendenti, i rifugiati, i popoli indigeni, gli anziani sempre più soli e abbandonati» e i migranti, per cui esorta i Paesi «ad una generosa apertura» (210). Parla delle vittime della tratta e di nuove forme di schiavismo: «Nelle nostre città è impiantato questo crimine mafioso e aberrante, e molti hanno le mani che grondano sangue a causa di una complicità comoda e muta» (211). Ricorda il dramma delle donne doppiamente povere che «soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza» (212). In questa difesa della dignità della vita umana il Papa conferma la condanna dell’aborto. «Non è progressista pretendere di risolvere i problemi eliminando la vita umana». Aggiunge che però si è «fatto poco per accompagnare le donne che si trovano in situazioni molto dure, dove l’aborto si presenta loro come una rapida soluzione alle loro profonde angustie».
Rivendica il diritto dovere della Chiesa ad intervenire su questi temi e chiede a Dio «che cresca il numero di politici capaci di sanare le radici profonde e non l’apparenza dei mali del nostro mondo, più politici che abbiano davvero a cuore la società, il popolo, la vita dei poveri».
«Questa situazione ha le sue radici nella cultura politica enormemente degradata dell’élite del Paese, che, negli ultimi decenni, ha negoziato e firmato numerosi accordi e trattati internazionali, senza mai considerare il reale interesse economico del Paese e senza alcuna pianificazione significativa del futuro della nazione». www.affaritaliani.it, 2013 (m.p.g.)
Gli storici del futuro probabilmente guarderanno all’Italia come un caso perfetto di un Paese che è riuscito a passare da una condizione di nazione prospera e leader industriale in soli vent’anni in una condizione di desertificazione economica, di incapacità di gestione demografica, di rampante terzomondializzazione, di caduta verticale della produzione culturale e di un completo caos politico istituzionale. Lo scenario di un serio crollo delle finanze dello Stato italiano sta crescendo, con i ricavi dalla tassazione diretta diminuiti del 7% in luglio, un rapporto deficit/Pil maggiore del 3% e un debito pubblico ben al di sopra del 130%. Peggiorerà.
Il governo sa perfettamente che la situazione è insostenibile, ma per il momento è in grado soltanto di ricorrere ad un aumento estremamente miope dell’IVA (un incredibile 22%!), che deprime ulteriormente i consumi, e a vacui proclami circa la necessità di spostare il carico fiscale dal lavoro e dalle imprese alle rendite finanziarie. Le probabilità che questo accada sono essenzialmente trascurabili. Per tutta l’estate, i leader politici italiani e la stampa mainstream hanno martellato la popolazione con messaggi di una ripresa imminente. In effetti, non è impossibile per un’economia che ha perso circa l’8 % del suo PIL avere uno o più trimestri in territorio positivo.Chiamare un (forse) +0,3% di aumento annuo “ripresa” è una distorsione semantica, considerando il disastro economico degli ultimi cinque anni. Più corretto sarebbe parlare di una transizione da una grave recessione a una sorta di stagnazione. Il 15% del settore manifatturiero in Italia, prima della crisi il più grande in Europa dopo la Germania, è stato distrutto e circa 32.000 aziende sono scomparse. Questo dato da solo dimostra l’immensa quantità di danni irreparabili che il Paese subisce.
Questa situazione ha le sue radici nella cultura politica enormemente degradata dell’élite del Paese, che, negli ultimi decenni, ha negoziato e firmato numerosi accordi e trattati internazionali, senza mai considerare il reale interesse economico del Paese e senza alcuna pianificazione significativa del futuro della nazione. L’Italia non avrebbe potuto affrontare l’ultima ondata di globalizzazione in condizioni peggiori. La leadership del Paese non ha mai riconosciuto che l’apertura indiscriminata di prodotti industriali a basso costo dell’Asia avrebbe distrutto industrie una volta leader in Italia negli stessi settori. Ha firmato i trattati sull’Euro promettendo ai partner europei riforme mai attuate, ma impegnandosi in politiche di austerità. Ha firmato il regolamento di Dublino sui confini dell’UE sapendo perfettamente che l’Italia non è neanche lontanamente in grado (come dimostra il continuo afflusso di immigrati clandestini a Lampedusa e gli inevitabili incidenti mortali) di pattugliare e proteggere i suoi confini. Di conseguenza , l’Italia si è rinchiusa in una rete di strutture giuridiche che rendono la scomparsa completa della nazione certa. L’Italia ha attualmente il livello di tassazione sulle imprese più alto dell’UE e uno dei più alti al mondo.
Questo insieme a un mix fatale di terribile gestione finanziaria, infrastrutture inadeguate, corruzione onnipresente, burocrazia inefficiente, il sistema di giustizia più lento e inaffidabiled’Europa, sta spingendo tutti gli imprenditori fuori dal Paese. Non solo verso destinazioni che offrono lavoratori a basso costo, come in Oriente o in Asia meridionale: un grande flusso di aziende italiane si riversa nella vicina Svizzera e in Austria dove, nonostante i costi relativamente elevati di lavoro, le aziende troveranno un vero e proprio Stato a collaborare con loro, anziché a sabotarli. A un recente evento organizzato dalla città svizzera di Chiasso per illustrare le opportunità di investimento nel Canton Ticino hanno partecipato ben 250 imprenditori italiani. La scomparsa dell’Italia in quanto nazione industriale si riflette anche nel livello senza precedenti di fuga di cervelli con decine di migliaia di giovani ricercatori, scienziati, tecnici che emigrano in Germania, Francia, Gran Bretagna, Scandinavia, così come in Nord America e Asia orientale. Coloro che producono valore, insieme alla maggior parte delle persone istruite è in partenza, pensa di andar via, o vorrebbe emigrare.
L’Italia è diventato un luogo di saccheggio demografico per gli altri Paesi più organizzati che hanno l’opportunità di attrarre facilmente lavoratori altamente, addestrati a spese dello Stato italiano, offrendo loro prospettive economiche ragionevoli che non potranno mai avere in Italia. L’Italia è entrata in un periodo di anomalia costituzionale. Perché i politici di partito hanno portato il Paese ad un quasi – collasso nel 2011, un evento che avrebbe avuto gravi conseguenze a livello globale. Il Paese è stato essenzialmente governato da tecnocrati provenienti dall’ufficio del Presidente Repubblica, i burocrati di diversi ministeri chiave e la Banca d’Italia. Il loro compito è quello di garantire la stabilità in Italia nei confronti dell’UE e dei mercati finanziari a qualsiasi costo. Questo è stato finora raggiunto emarginando sia i partiti politici sia il Parlamento a livelli senza precedenti, e con un interventismo onnipresente e costituzionalmente discutibile del Presidente della Repubblica, che ha esteso i suoi poteri ben oltre i confini dell’ordine repubblicano. L’interventismo del Presidente è particolarmente evidente nella creazione del governo Monti e del governo Letta, che sono entrambi espressione diretta del Quirinale. L’illusione ormai diffusa, che molti italiani coltivano, è credere che il Presidente, la Banca d’Italia e la burocrazia sappiano come salvare il Paese. Saranno amaramente delusi.
L’attuale leadership non ha la capacità, e forse neppure l’intenzione, di salvare il Paese dalla rovina. Sarebbe facile sostenere che Monti ha aggravato la già grave recessione. Letta sta seguendo esattamente lo stesso percorso: tutto deve essere sacrificato in nome della stabilità. I tecnocrati condividono le stesse origini culturali dei partiti politici e, in simbiosi con loro, sono riusciti ad elevarsi alle loro posizioni attuali: è quindi inutile pensare che otterranno risultati migliori, dal momento che non sono neppure in grado di avere una visione a lungo termine per il Paese. Sono in realtà i garanti della scomparsa dell’Italia. In conclusione, la rapidità del declino è davvero mozzafiato. Continuando su questa strada, in meno di una generazione non rimarrà nulla dell’Italia nazione industriale moderna. Entro un altro decennio, o giù di lì, intere regioni, come la Sardegna o Liguria, saranno così demograficamente compromesse che non potranno mai più recuperare. I fondatori dello Stato italiano 152 anni fa avevano combattuto, addirittura fino alla morte, per portare l’Italia a quella posizione centrale di potenza culturale ed economica all’interno del mondo occidentale, che il Paese aveva occupato solo nel tardo Medio Evo e nel Rinascimento. Quel progetto ora è fallito, insieme con l’idea di avere una qualche ambizione politica significativa e il messianico (inutile) intento universalista di salvare il mondo, anche a spese della propria comunità. A meno di un miracolo, possono volerci secoli per ricostruire l’Italia.”
«Un punto di equilibrio dell'Africa cancellato dall'Occidente al fine di esercitare il controllo sulle sue ricchezze Dopo l'indipendenza, si sono succeduti colpi di stato e il «regno» di Mobutu imposti dalle multinazionali». La tenebra di Conrad sta nelle ossessioni dei visitatori bianchi. Il manifesto, 15 ottobre 2013
Per motivi oscuri il Congo è preso spesso come termine di riferimento negativo per giudizi offensivi. Un classico è «baluba» usato come insulto da chi non sa nulla del popolo o regno luba (il prefisso «ba» o «wa» serve a qualificare il plurale di un etnonimo nelle lingue bantu). Si spiega forse anche così l'accanimento contro il ministro Cécile Kyenge, originaria appunto del Congo. E poco importa che la denigrazione risulti particolarmente fuori luogo perché, come documenta anche un importante libro sulla storia del Congo uscito di recente in francese (David Van Reybrouck, Congo, une histoire, Actes Sud), il Congo, a cominciare dal fiume che porta questo nome, appartiene all'eccellenza dell'Africa.
L'interfaccia con il Nord
Nelle sue varie conformazioni territoriali, statali o di bacino commerciale il Congo è stato uno dei poli attraverso cui nelle varie epoche l'Africa ha partecipato al sistema globale, sia pure come oggetto più che come soggetto. L'Africa, a differenza anche di paesi come Cina e India, non ha mai capeggiato un'economia-mondo. Con questi limiti, il Congo è stato al centro degli eventi dall'inizio dei rapporti fra Africa ed Europa con le imprese marittime dei portoghesi e poi nei secoli della tratta e finalmente con l'avvio della spartizione del continente nero.
Il primo vescovo nero consacrato a Roma nel Cinquecento veniva dal Congo: Henrique, figlio del re Affonso I. Gli storici della tratta valutano che un terzo di tutti gli schiavi trasportati nelle Americhe (4 milioni su 12) erano originari della regione congolese. Il possedimento personale di Leopoldo II aprì la «corsa» all'Africa e divenne il teatro delle peggiori rapine del colonialismo speculativo. Anche nell'indipendenza il Congo ha scontato la maledizione di essere il cuore malato dell'Africa. L'«anno dell'Africa» ha registrato la sua crisi più grave nel Congo. Nella fase della «rinascenza» negli anni Novanta il processo di democratizzazione o più semplicemente di cambio si è inceppato nel Congo con la cosiddetta prima guerra mondiale per il Congo, coinvolgendo sui due fronti una mezza dozzina di Stati.
L'Onu ha inaugurato le operazioni di pace nel Terzo mondo per far fronte alla secessione del Katanga nel 1960: Dag Hammarskjöld e Patrice Lumumba, i due attori principali di una trama finita in tragedia, non erano fatti per intendersi e sarebbero morti a pochi mesi di distanza l'uno dall'altro, vittime dirette o indirette di una congiura su scala internazionale in cui l'Occidente toccò il fondo dell'ignominia. Ancora oggi l'Onu è presente nel Congo con una missione che per il numero degli effettivi impiegati non ha pari nel mondo ma senza venire a capo della lotta senza quartiere che suscitano le ricchezze di questo vero e proprio «scandalo geologico».
La «tenebra» che ispirò il genio narrativo di Joseph Conrad non era tanto nel Congo profondo quanto nello sguardo e nelle ossessioni dei suoi visitatori bianchi. Quando le atrocità commesse da Leopoldo II, che personalmente non ha mai messo piede nel suo Congo ma che contava su funzionari ligi alle sue direttive, non poterono più essere ignorate per le denunce di tanti missionari e del diplomatico-giornalista Roger Casement, alla cui vita sfortunata ha dedicato un libro Varga Llosa (Il sogno del celta), autori del calibro di Mark Twain, Arthur Conan Doyle e dello stesso Conrad diedero voce all'indignazione del mondo che «sapeva». Per calmare lo scandalo, Leopoldo II fu espropriato dal suo stesso governo ma, come dimostra Van Reybrouck, i belgi, anche se sostituirono il rigore ai capricci, non si dimostrarono tanto migliori di un sovrano avido e megalomane. La prova finale fu il passaggio delle consegne fra il Belgio e il governo indipendente il 30 giugno 1960. I preparativi - dalla «tavola rotonda» fra governo e partiti nazionalisti alle prime elezioni e all'ammainabandiera - durarono in tutto sei mesi. Al discorso di re Baldovino che sembrava scritto ai tempi della Conferenza di Berlino il capo del governo Lumumba, un nazionalista più che un rivoluzionario, rispose con una filippica che non si era mai sentita in simili cerimonie.
L'invenzione della cleptocrazia
Dopo il tradimento di Tshombe furono poste le premesse per la «restaurazione». Il Congo non poteva sfuggire al controllo dell'alta finanza. Tutto era pronto per il lungo «regno» di Mobutu: è stata coniata la voce «cleptocrazia» per definire un regime che, fra violenze, retorica dell'autenticità e corruzione, sfuggiva ai parametri della scienza politica. Quando fu necessario, gli Stati Uniti lasciarono cadere il Faraone d'Africa prima della Francia. Alle miserie non c'è mai fine. Malgrado le due elezioni del 2006 e del 2011 la legittimità di Kabila figlio, la stabilità del governo e la stessa integrità dello Stato sono ancora in bilico. Il Congo è una realtà in larga parte non avverata. Ci sarebbe bisogno invece del suo peso per bilanciare nella politica africana il duopolio conflittuale di Nigeria e Sud Africa, che non riescono a riempire il vuoto che dalle indipendenze degli anni Sessanta si è aperto in mezzo al continente.
I detrattori nostrani dei neri sarebbero sorpresi se leggessero questa pagina quasi conclusiva del libro dello storico belga già citato: «A Kinshasa (la capitale del Congo) sta crescendo una generazione per la quale gli europei sono più esotici dei cinesi. Esiste di nuovo un Congo di bambini che non hanno ancora mai visto un bianco nella realtà, proprio come alla fine dell'Ottocento». L'arroganza di chi è cresciuto al riparo della modernità coloniale potrebbe essere il segno che quel mondo così gratificante non esiste più mentre nessuno in Italia e forse in tutta Europa ha un'idea di quale politica adottare. Non per niente, ci sono anche illustri intellettuali che, senza saperlo, nutrono le stesse paure di Calderoli.
La Repubblica, 30 settembre 2013, con postilla
Nigeria, Boko Haram fa strage di studenti
di Giampaolo Cadalanu
Assalto ad un collegio nel nord del Paese: almeno 50 morti, colpiti mentre dormivano
IL FRONTE della lotta alle sacrileghe influenze occidentali è lì, davanti alle lavagne appese su pareti scrostate, o magari sotto l’ombra delle acacie, nei cortili delle scuole africane, davanti ai ragazzi in cerca di un’istruzione e di un futuro. “Boko Haram” è allo stesso tempo un marchio e un programma: “L’istruzione occidentale è peccato”, questo vuol dire il nome in lingua Hausa della “Congregazione e popolo per la propagazione degli insegnamenti del profeta e della jihad”, il gruppo terroristico vicino ad Al Qaeda che agisce nel nord della Nigeria. Un’organizzazione integralista che anche ieri ha tenuto fede al suo motto, attaccando un istituto agrario nella zona rurale di Gujba, stato di Yobe, in Nigeria nord orientale. Una cinquantina di studenti sono stati massacrati durante il sonno, nel dormitorio scolastico, dopo una impegnativa giornata sui banchi.
Il bilancio della strage, cominciata prima dell’alba secondo le prime ricostruzioni, è ancora provvisorio: fino a tarda sera le forze di sicurezza erano impegnate a portar via i corpi dei ragazzi, fra i 18 e i 22 anni. Alcuni feriti, una ventina secondo fonti della polizia locale, sono stati trasportati d’urgenza all’ospedale di Damaturu, una quarantina di chilometri più a nord. Un ragazzo sopravvissuto ha raccontato al corrispondente dell’Associated Press che gli assalitori sono arrivati con due pickup e diverse motociclette: alcuni di loro erano vestiti con mimetiche o uniformi delle forze armate nigeriane. Lo studente ha ipotizzato con l’Ap che i terroristi conoscessero la pianta del college, perché si sono diretti senza esitare verso i quattro edifici-dormitorio maschili, evitando quello femminile. Gli uomini di Boko Haram hanno aperto il fuoco su tutto ciò che si muoveva e hanno dato fuoco alle costruzioni, provocando un fuggi fuggi generale. Un migliaio di ragazzi si sono precipitati fuori dal college per rifugiarsi nella foresta. Chi restava, veniva colpito da colpi d’arma da fuoco. Secondo il preside della scuola, le vittime erano per la maggior parte giovani di religione musulmana.
Dopo la strage, le autorità scolastiche non hanno risparmiato le critiche ai responsabili statali per l’istruzione dello stato di Yobe: appena due settimane fa il commissario incaricato Mohammed Lamin aveva chiesto alle scuole delle zone infestate da Boko Haram di aprire, garantendo la protezione delle forze di sicurezza. Le scuole locali avevano chiuso dopo il massacro di luglio, a Damaturu, in cui i fondamentalisti avevano ucciso 29 studenti e un docente, bruciando vivi alcuni di loro. Ma a Gujba la protezione promessa non c’era, ha denunciato l’amministratore del campus, Idi Mato.
La ribellione di Boko Haram ha spinto il governo nigeriano a dichiarare lo stato di emergenza in tutta la parte nord-occidentale del paese. I militanti pretendono l’instaurazione della legge islamica nella federazione, nonostante almeno la metà dei 160 milioni di nigeriani professi la fede cristiana. L’insurrezione dei fondamentalisti ha provocato almeno 1700 vittime dal 2010, solo la scorsa settimana sono state uccise trenta persone. Persino BarackObama martedì scorso ha definito Boko Haram uno dei gruppi più pericolosi del mondo, parlando con il capo di Stato nigeriano Goodluck Jonathan. Entrambi i presidenti hanno confermato il loro impegno nella lotta al terrorismo.
“Vogliono distruggere le scuole per condannarci alla povertà eterna”
di Francesca Caferri
Parla la scrittrice Lola Shoneyin: “Gli estremisti sognano un popolo senza speranze”
L’EDUCAZIONE, quella di una giovane donna in particolare, è centrale nelle pagine del suo primo e acclamato romanzo “Prudenti come Serpenti”. Naturale dunque che Lola Shoneyin, voce fra le più importanti della nuova letteratura africana, abbia le idee chiare sul nuovo attacco, l’ultimo di una serie, condotto da Boko Haram contro una scuola. «Stanno cercando di tagliare alle radici il futuro di questo paese», dice alla vigilia della sua partenza per l’Italia, dove sarà fra i protagonisti del festival della rivista internazionale.
Lola Shoneyin, perché sempre più spesso gli estremisti di Boko Haram scelgono le scuole come obiettivo?
«La risposta sta nel loro nome: Boko Haram, ovvero l’educazione occidentale è proibita.
Sparare su una scuola vuol dire uccidere giovani ma soprattutto terrorizzare centinaia di genitori che domani non manderanno in aula i figli per timore che la prossima volta tocchi a loro. Questo in una zona come il Nord della Nigeria, dove ci sono aree in cui il tasso di istruzione femminile è del 5%, significa mettere un’ipoteca sul futuro di un’intera generazione».
Sta dicendo che non è solo una questione religiosa a muovere Boko Haram?
«Certo, non è solo religione. La fede ha un ruolo, perché parliamo di estremisti motivati da un credo deviato e estremamente conservatore. Ma la questione di fondo è la povertà: Boko Haram va a pescare fra chi non ha speranze e pensa che morire aspirando al paradiso sia meglio che vivere senza prospettive. La colpa della situazione che sta minando alle basi la stabilità della Nigeria è della politica, di chi 20 o 30 anni fa ha lasciato migliaia di giovani senza istruzione e quindi senza possibilità di fare qualcosa nella vita. Sono questi ragazzi a militare frale fila di Boko Haram oggi».
Il presidente Goodluck Jonathan ha fatto della sconfitta di Boko Haram una priorità, inviando forze speciali ad affrontare i terroristi. Sta funzionando?
«Il governo centrale sta provando a fare qualcosa. Quello che non capisce è che non basteranno i militari: non arrivano a percepire quanto il fondamentalismo religioso abbia scavato a fondo nella società, occupando gli spazi lasciati liberi dalla politica stessa. Per vincere davvero questa guerra ci vogliono scuole, posti di lavoro e una società libera dalla corruzione».
È Boko Haram il problema principale della Nigeria, come appare a noi occidentali, o la sua visione è un’altra?
«Il problema vero della Nigeria si chiama corruzione. Siamo un paese ricchissimo in cui il gap fra i pochi che hanno moltissimo e la maggioranza che non ha nulla non fa che aumentare. La rabbia monta sempre di più: Boko Haram è riuscito a incanalarla».
postilla
Ma non saranno certo governi corrotti, veicoli dell’asservimento neocolonialista dell’Africa all’imperialismo culturale ed economico del 1° mondo (del finanzcapitalismo neoliberale) a sconfiggere Boko Haram
Il manifesto, 11 settembre 2013
Come è noto, un ruolo importante l'hanno ricoperto i Chicago boys della scuola monetarista di Milton Friedman. Chiamati da Pinochet come consulenti hanno disegnato le linee di politica economia e sociale necessarie per implementare le teorie del caposcuola, Nobel per l'economia nel 1977 , che -come scrisse il Comitato svedese per gli assegnò il premio - è stato un raro esempio di un economista che abbia influenzato la politica almeno quanto l'Accademia. In effetti, la sua produzione scientifica è conosciuta solo dagli addetti ai lavori, e non presenta delle novità sconvolgenti rispetto al pensiero di Marshall e di Stuart Mill, mentre i suoi testi politici -come il best seller "Liberi di scegliere"- hanno avuto un grande impatto sull'opinione pubblica e sul rilancio della destra statunitense prima, e del mondo intero dopo.
La situazione cilena offriva una condizione ottimale per dimostrare al mondo come il neoliberismo fosse la cura migliore per far uscire dalla crisi un paese come il Cile stremato da anni di recessione economica e di lotte sociali. Grazie all'eliminazione della democrazia si potevano facilmente rompere i vincoli istituzionali, lacci e lacciuoli sindacali, e contenere le rivolte ed il malcontento che inevitabilmente sarebbero scoppiati di fronte alle cure da cavallo del governo Pinochet. I Chicago boys vedevano la dittatura come un utile strumento per riportare velocemente il paese verso la crescita economica, per rilanciare lo sviluppo. A questo fine, venne implementato un programma ambizioso di drastiche privatizzazioni di aziende e beni dello Stato, di riforma del mercato del lavoro che rendeva perfettamente "flessibile" la forza-lavoro (il sogno di Marchionne!), di totale apertura all'estero, sia in termini di import/export che di libera circolazione dei capitali in entrata ed uscita. Gli effetti sociali, culturali, ed economici si manifestarono chiaramente nel corso dei primi anni '80. Una parte maggioritaria della società cilena subì un vistoso processo di impoverimento che colpì i lavoratori (con l'aumento della disoccupazione e con l'abbassamento dei salari), una parte rilevante del ceto medio, soprattutto intellettuale, e le minoranze etniche (i Mapuche) brutalmente espropriate della terra e ghettizzate. La mercatizzazione della società raggiunse livelli parossistici, tragicomici, demenziali.
Tre esempi. La liberalizzazione delle farmacie e dei prezzi dei farmaci (Bersani le avrebbe chiamate "lenzuolate"?) portò i gestori delle farmacie a offrire -con grande pubblicità- due antibiotici al prezzo di uno, una scatola di aspirina in regalo per chi spendeva un tot... La privatizzazione totale dei trasporti pubblici, comportò che gli autisti dei micro, come si chiamano gli autobus a Santiago, assunti a cottimo sui chilometri effettuati giornalmente divennero il terrore dei pedoni che attraversavano le strade. La possibilità di non indicare più nelle etichette il contenuto di cibi e bevande, in nome della libertà dell'impresa, comportò casi drammatici di intossicazione.
Ma, ancora più forte fu l'impatto culturale, ideologico, di questa dittatura neoliberista in cui il Mercato era diventato la sola ed unica religione. Più di una volta, agli inizi degli anni '80, mi capitò a Santiago di incontrare e discutere con lavoratori che avevano interiorizzato le ricette neoliberiste. Mi viene in mente, fra gli altri, un tassista che mi raccontò di come fosse stato un impiegato di banca e fosse diventato "superfluo" e quindi "giustamente" licenziato. Ora era felice perché si era inventato un lavoro. Era lo slogan del regime: dobbiamo essere tutti autosufficienti, imprenditori di noi stessi.
Infine, sul piano economico, è indubbio che, a partire dal 1976, il Pil cominciò a salire annualmente a tassi sostenuti- tra il 6-8 per cento e questo dato divenne la bandiera di tutta la cultura neoliberista, l'indicatore del successo della scuola di Friedman. Dopo la chiusura delle miniere di rame, di molte fabbriche che vivevano sulla domanda interna, si crearono delle nuove aziende agro esportatrici (soprattutto frutta e vino) che ebbero una corsia preferenziale di ingresso sul mercato nordamericano. I capitali, godendo di totale libertà, arrivarono nel paese per investire nei settori più redditizi (dall'agro- business al turismo) ed il Fondo monetario internazionale aiutò con ingenti prestiti il governo Pinochet, mentre aveva negato qualunque aiuto finanziario al presidente Allende.
Dopo la caduta di Pinochet il modello neoliberista continuò, con piccoli ritocchi, per molti anni ed è ancora presente nella società cilena,malgrado l'arrivo al governo della socialista Bachelet. Questo fatto non deve stupire, ma ci deve interrogare perché anche noi ci stiamo incamminando sulla stessa strada.
La crisi economica-finanziaria e la sua gestione hanno prodotto un abbassamento radicale delle aspirazioni, delle aspettative di decine di milioni di persone in Italia, come nella gran parte dei paesi europei. La crisi sta funzionando come ferrea disciplina, nell'accezione di Foucault , per rendere possibile il predominio del mercato capitalistico, per rendere totalmente flessibili i lavoratori, per smantellare definitivamente il welfare ed i diritti sociali conquistati in decenni di lotte. Questa crisi ha funzionato come un surrogato della dittatura che in Cile rese possibile accelerare questi processi e portarli a compimento. Ma, l'impoverimento e la perdita di diritti non è ancora completata. Per arrivare al risultato cileno bisogna mettere le mani alla Costituzione, avere il presidenzialismo, unitamente a leggi che colpiscano alla radice i movimenti (come già sanno i militanti del No Tav) . Insomma, bisogna indebolire la nostra democrazia senza bisogno dei generali, per arrivare magari ad avere quella "crescita" sbanderiata come unico fine della società, unico senso della vita, dal governo delle "larghe intese neoliberiste".
Per questo la battaglia per la difesa della Costituzione vede in prima linea un sindacato come la Fiom perché è ormai chiaro l'intreccio tra la difesa della democrazia costituzionale e la difesa dei posti di lavoro, della dignità del lavoratore e del diritto alla vita di precari e disoccupati.
Vedi qui anche l'articolo di Luis Saramago, e la postilla.
Nell'icona sotto al titolo: Milton Friedman e Pinochet
Dalla memoria dello scrittore cronaca della fine gloriosa di un’avventura politica dal palazzo Moneda, ove iniziò la storia feroce del neoliberismo. La Repubblica, 9 settembre 2013, con postilla
IL GIORNO più nero della storia del Cile spuntò coperto di nuvole. La primavera alle porte, atterrita dall’orrore che si avvicinava, aveva deciso di negarci i primi tepori. Alle sei del mattino Salvador Allende, il Compagno Presidente, ricevette le prime informazioni sul golpe imminente e diede ordine alla scorta, al Gap, di lasciare la residenza di calle Tomás Moro per raggiungere il palazzo de La Moneda.
Un contingente del Gap – Gruppo di Amici Personali – rimase a garantire la sicurezza della residenza e il resto si mise in marcia armato di kalashnikov. Fra i Gap che uscirono insieme al Compagno Presidente c’erano tre ragazzi molto giovani: Juan Alejandro Vargas Contreras, ventitré anni, studente; Julio Hernán Moreno Pulgar, ventiquattro anni, studente e dipendente del palazzo presidenziale e Óscar Reinaldo Lagos Ríos, ventun anni, studente e operaio in un’azienda agroalimentare. Tutti e tre erano militanti della Federación Juvenil Socialista. E oggi, a quarant’anni dal colpo di stato che ha messo fine al più bel sogno collettivo, voglio parlare di uno di loro, di Óscar, un ragazzo cileno pieno di coraggio e generosità.
Óscar era più giovane di me, ci separavano solo due anni, ma visto quanto era intenso il nostro impegno per la Rivoluzione cilena, visti la dedizione totale e il rigore con cui affrontavamo i mille compiti del Governo Popolare, quei due anni scarsi di differenza mi conferivano una certa anzianità. Anch’io avevo avuto l’onore — il più grande onore che mi sia stato concesso in vita — di far parte del GAP, ma dopo aver trascorso quattro mesi nella scorta del Compagno Presidente ero stato chiamato a maggiori responsabilità. Così, a ventidue anni, mi ero ritrovato supervisore di un’azienda agroalimentare a sud di Santiago. Là avevo conosciuto un giovane socialista che si chiamava Óscar Reinaldo Lagos Ríos e che combinava il suo lavoro di meccanico nell’azienda agroalimentare con gli studi in un istituto industriale e con la militanza socialista. Óscar amava il tornio e la fresatrice. Tra i suoi progetti c’era quello di diventare un buon tornitore, un operaio specializzato. Fin dal primo momento si trasformò nel mio braccio destro e più volte respingemmo insieme gli attacchi del gruppo fascista Patria y Libertad, che voleva assassinare i dirigenti sindacali e incendiare i nostri posti di lavoro.
Spesso Óscar portava a passeggio mio figlio Carlos Lenin, che cominciava allora a camminare, e ogni due o tre giorni prendeva in prestito un libro, un romanzo, una raccolta di poesie, qualche saggio sociopolitico. Un pomeriggio, mentre facevamo il nostro turno di guardia, lo vidi leggere e piangere senza nascondere le lacrime. Stava leggendo La sangre y la esperanzadi uno scrittore cileno ormai dimenticato, Nicomedes Guzmán. All’improvviso chiuse il libro, si asciugò gli occhi ed esclamò: «Compagno, ora sì che ho capito perché facciamo la rivoluzione».
Óscar si era sempre distinto come lavoratore, per il senso dell’umorismo che traspariva dalle canzoni degli Iracundos che cantava mentre riparava i macchinari e per l’esemplare solidarietà (era sempre l’ultimo al momento di comprare gli alimenti che trattavamo e che la borghesia si accaparrava per far mancare i rifornimenti), ma si distingueva anche come militante, acuto nelle sue analisi e convincente grazie ad argomenti ancora più acuti. E poiché il GAP era formato dai militanti migliori, un giorno parlai di lui raccomandandolo e ricevetti l’ordine di addestrarlo. Così Óscar imparò a usare un’arma, a pulirla, ricevette i primi rudimenti di difesa personale e di procedure di sicurezza. Quando entrò a far parte del GAP, il più grande onore per un militante, festeggiammo a casa sua, con la sua famiglia umile e generosa. Poi ci perdemmo di vista perché i tanti compiti della Rivoluzione Cilena ci tenevano molto occupati e la giornata era sempre troppo breve, dormivamo poco, ma non perdevamo mai di vista l’importanza di quel che facevamo. Non avevamo diritto né alla stanchezza né allo scoramento. Stavamo costruendo un Paese giusto, fraterno, solidale, seguendo una via cilena, rispettando tutte le libertà e i diritti. E per di più avevamo un leader che ci dava un grande esempio con la sua statura morale.
Un giorno incontrai Óscar a El Cañaveral, una residenza di campagna sulle pendici della cordigliera delle Ande dove il Compagno Presidente andava a riposare. Insieme ad altri due GAP sorvegliava l’ala nord. Ci abbracciammo e quando gli chiesi il nome di battaglia — io ero e continuo a essere Iván per i GAP sopravvissuti — lui rispose: «“Johny”, è quello il mio nome di battaglia, Johny, ma non l’ho scelto io: me l’ha dato il dottor Allende un giorno che mi ha sentito cantare».
Quell’11 settembre 1973, poco prima delle sette di mattina, Salvador Allende e la sua scorta formata da tredici membri del GAP entrarono alla Moneda. Il golpe fascista era iniziato, truppe e carri armati accerchiarono il palazzo, riecheggiarono i primi spari tra difensori e golpisti, le forze aeree bombardarono le antenne delle radio finché ne rimase soltanto una, quella di radio Magallanes, grazie alla quale ascoltammo e avremmo ascoltato le ultime parole del compagno presidente, quel «metallo tranquillo della mia voce».
Con la Moneda assediata, Allende diede ordine di far uscire chiunque lo desiderasse, lui sarebbe rimasto a baluardo della Costituzione e della legalità democratica. In mezzo ai colpi d’arma da fuoco e ai proiettili esplosivi del-l’artiglieria, un pugno di poliziotti socialisti decise di restare, e anche i GAP dissero chiaramente che la guardia non si arrendeva né abbandonava il Compagno Presidente. Fra Allende, i poliziotti rimasti fedeli, il medico del presidente, il giornalista Augusto Olivares e i tredici GAP non erano più di ventidue, ma affrontarono migliaia di soldati golpisti.
Quando era quasi mezzogiorno, le forze aeree bombardarono la Moneda, le fiamme cominciarono a divampare nel palazzo ma il GAP non mollò. Rimane per sempre un’immagine di quel momento: il GAP Antonio Aguirre Vásquez, un patagone eroico, che spara dal balcone principale con la sua mitragliatrice calibro 30 finché le bombe non cancellano completamente la facciata della Moneda. Il simbolo della democrazia cilena, la cosiddetta casa di Toesca bruciava, Allende era morto e Óscar Lagos Ríos, Johny, era stato colpito da due pallottole, ma era ancora vivo. Alle due del pomeriggio, ormai senza più artiglieria, con le munizioni esaurite, i sopravvissuti di quel pugno dipoliziotti e uomini del GAP uscirono dalle macerie e furono immediatamente fatti salire su un camion militare con destinazione ignota. I poliziotti riuscirono a salvarsi la vita, passarono attraverso atroci torture ma sopravvissero. I tredici GAP scomparvero.
In Cile, tuttavia, la terra parla e così è stata scoperta una fossa comune clandestina in un campo militare abbandonato, Fuerte Arteaga, e in quella fossa c’erano più di quattrocento pezzi di ossa umane, alcuni lunghi meno di un centimetro, e quei pezzetti minuscoli hanno raccontato che i tredici GAP erano stati torturati, mutilati, assassinati dalla soldataglia in un’orgia di sangue, durata vari giorni, a cui avevano partecipato ufficiali e truppa del reggimento Tacna. I GAP erano stati sepolti nella caserma, ma quando alcuni testimoni avevano dichiarato di poter indicare il luogo dell’occultamento, i resti degli eroici combattenti della Moneda erano stati trasferiti a Fuerte Arteaga, gettati in una buca profonda dieci metri, fatti saltare in aria con la dinamite e infine coperti di terra.
È impossibile ridurre al silenzio la voce dei combattenti e le loro ossa minuscole hanno rivelato i loro nomi, hanno detto: «Io sono ciò che resta di Óscar Reinaldo Lagos Ríos, ventun anni, nome di battaglia Johny, GAP, assassinato il 13 settembre 1973». Una mattina del 2010, un corteo con in testa tre carri funebri è passato davanti al palazzo della Moneda. A scortarli c’erano uomini e donne di oltre sessant’anni che al braccio sinistro esibivano con orgoglio un nastro rosso con la sigla GAP. Scortavamo Juan Alejandro Vargas Contreras, ventitré anni, Julio Hernán Moreno Pulgar, ventiquattro anni e Óscar, quel Johny che aveva preso il fucile quando bisognava farlo.
nostri compagni oggi riposano nel mausoleo degli eroi, accanto alla tomba del Compagno Presidente. Il GAP non si arrende.Onore e gloria ai combattenti della Moneda. Viva i compagni!
il manifesto, 11 luglio 2013
Il fatto che non sia un sogno ad occhi aperti è dimostrato dal fatto che l'azione di Yunus ha aiutato il Bangladesh a ridurre di quasi la metà il tasso di povertà in poco più di trent'anni. Grazie a questo modo di intendere la finanza, è stato infatti possibile che centinaia di migliaia di persone si affrancassero dall'usura riuscendo così ad allargare, gradualmente, la propria base economica.
Negli ultimi anni, la microfinanza e il social business hanno cominciato ad attrarre e coinvolgere multinazionali, fondazioni, banche, singoli imprenditori, organizzazioni no-profit in ogni parte del mondo. Autore di diversi saggi tra i quali ricordiamo Un Mondo senza povertà, Si può fare! Come il social business può creare un capitalismo più umano e Il banchiere dei poveri tutti editi da Feltrinelli. Abbiamo incontrato il Yunus a Lugano dove, su invito di Samantha Caccamo - fondatrice di Social Business Earth -, ha partecipato alla seconda edizione della Social Business Conference presso l'Università della Svizzera Italiana (Usi).
Lei ritiene che l'attuale crisi economica possa essere superata e a quale costo per i poveri del mondo?
Molti governi e studiosi sono impegnati a trovare misure in grado di farci ritornare a un livello di crescita economica pre-crisi. Sono convinto che questa strategia non sia efficace. Inseguire quel traguardo ci riporterebbe, in tempi assai brevi, a dover affrontare gli stessi problemi che stiamo ora cercando di risolvere. Sono più interessato a ricercare soluzioni a lungo termine capaci di stabilizzare l'intero sistema economico. Non sarà un'impresa facile. Al contrario. Prevedo che il tentativo di evitare situazioni di future crisi (alimentari, energetiche, ambientali e disoccupazione di massa) si rivelerà un'impresa assai difficile, se non dolorosa. D'altra parte questa è diventata una priorità. Ritengo che l'attuale momento sia propizio per cominciare a pensare a soluzioni economiche non più basate sul profitto fine a se stesso. Dico questo perché constato che l'attuale è un periodo storico in cui ciò che un tempo era considerato impossibile è ora diventato realtà. Se confrontiamo il presente col passato, solamente 20/30 anni fa una miriade di beni e di servizi non esistevano. Questo mi suggerisce che la distanza tra il possibile e l'impossibile si stia assottigliando sempre più. Un mondo senza poveri non è più una cosa impossibile da ottenere.
In un'intervista rilasciata al New Statesman lei ha dichiarato che il problema degli economisti eterodossi riguarda la loro errata interpretazione della natura umana. Può dirci di più a riguardo?
Il sistema economico che ho in mente non potrà che basarsi su di una visione dell'essere umano molto diversa da quella che oggi guida il pensiero economico dominante, che riduce gli esseri umani a cacciatori di denaro. Questo modo di ritrarre l'individuo e la società mi pare superficiale. Gli esseri umani sono molto più che dei robots. Come già faceva notare Adam Smith, possiedono una personalità multi-dimensionale e dinamica. Non nego che a volte gli individui siano egoisti, ma sono anche, contemporaneamente, cooperativi e altruisti. Dobbiamo investigare in maniera molto più approfondita il lato altruistico dell'essere umano. Solamente tale esercizio ci consentirà di dare una solida base teorica al tentativo di creare un diverso modo di organizzare l'attività economica. Io vedo un'economia di mercato (for-profit) finalizzata a rispondere ai problemi della comunità capace di crescere al fianco di attività economiche che mirano solo a massimizzare il profitto. La differenza è che nel social business tutti i dividendi vengono reinvestiti nell'impresa per raggiungere l'obiettivo sociale.
Quando uso il termine comunità, non mi riferisco alle piccole realtà a cui ognuno di noi appartiene; piuttosto, faccio riferimento alla ben più estesa comunità in cui tutti gli esseri umani coabitano assieme a tutte le altre forme di vita.
L'effetto ottenuto dalle politiche di austerità applicate in Europa è stato quello di aumentare la disoccupazione, senza riuscire a stabilizzare i mercati. Non sorprende che tale strategia abbia generato un forte dissenso e crescente scetticismo. Esiste un percorso alternativo che permetta alle società Europee e più in generale a quelle occidentali di combinare crescita economica e riduzione delle diseguaglianze?
Le opzioni di politica economica praticabili entro un sistema economico capitalista sono limitate. In un regime di economia mista, mentre ai governi si chiedeva di proteggere le vittime della tumultuosa crescita economica attraverso un forte Welfare State, alle multinazionali era richiesto di accumulare sempre più ricchezza. Questa dicotomia ha condotto l'umanità sull'orlo del baratro.
Parto da alcune domande. Che cosa è la disoccupazione? Una massa di persone potenzialmente creative il cui potenziale giace inutilizzato. Il sistema economico e politico si cura poco o nulla dedi disoccupati; soprattutto il loro accesso al credito diventa pressoché nullo per via dell'elevato rischio di non poter recuperare il capitale dato in prestito. In un mondo dove l'accesso al credito è negato a quasi la metà della popolazione, la microfinanza diventa un'opportunità fondamentale. Se tutti gli individui possiedono illimitate potenzialità, allora ognuno ha il diritto ad avere un accesso al credito come ogni altro individuo. Il microcredito è un aiuto offerto a tutti coloro che desiderano investire parte del proprio tempo e delle proprie capacità in attività economiche che hanno un'elevata rilevanza sociale. Investire nelle illimitate capacità umane, questo è il futuro. Ogni volta che si produce qualche cosa, si aprono nuove opportunità, proprio perché si genera un reddito per chi prima non ne aveva. Non politiche di austerità ma business sociale, questa è a mio avviso la risposta.
I critici del suo approccio, però, continuano a sostenere che la microfinanza vada bene solo per i paesi del Terzo Mondo perché se davvero si volesse aiutare i poveri, si dovrebbero sostenere industrie di grandi dimensioni e ad alta intensità di lavoro. Come risponde all'insinuazione che la filosofia che sta alla base della sua proposta non possa essere messa in pratica nell'occidente industrializzato e individualista?
In primo luogo, non ho mai sostenuto che il microcredito sia in antagonismo con altre tipologie di organizzazione economica. Sicuramente, non è in contrasto con la produzione ad alta intensità di lavoro. Le attività economiche orientate alla massimizzazione del profitto non esauriscono tutte le forme di attività economica. Oltre alla dimensione del profitto, vi sono infiniti beni e servizi che il mercato non può o non vuole produrre. Il microcredito nasce dall'esigenza di creare opportunità di lavoro per milioni di individui che pur essendo disoccupati hanno ancora molto da dare. A chi sostiene che il microcredito e il social business siano innervati da una filosofia inadatta per i paesi occidentali faccio presente che abbiamo ben sei filiali nella sola New York City. Per definizione il luogo che maggiormente si identifica con il modello capitalista occidentale.
Le persone hanno bisogno di denaro in ogni angolo del globo, dunque anche nella «Grande mela», dove serviamo più di 12.000 persone. E il loro numero continua a crescere. Per la maggior parte sono donne che ripagano i debiti contratti con noi con estrema puntualità. L'esperimento si sta espandendo in altre città nevralgiche degli Stati Uniti, come San Francisco, Omaha, e Los Angeles. Con il passare del tempo ci stiamo rendendo conto che le possibilità di espansione sono pressochéillimitate. Va inoltre ricordato che sempre più spesso ricchi filantropi elargiscono ingenti somme di denaro al microcredito, così come alcune importanti banche a livello planetario (Citigroup Inc. e DeutscheBank AG) hanno creato fondi destinati al microcredito. Questo è quello che vedo. Non credo vi siano differenze sostanziali tra paesi ricchi e paesi poveri quando si parla di microcredito.
Come valuta la proposta di un reddito minimo garantito?
Per rendere attivi gli individui bisogna aiutarli a liberare le loro potenzialità non garantirgli una vita confortevole. Il reddito garantito è una forma subdola di carità, un palliativo temporaneo. Raramente la carità è un buon rimedio; la si può accettare solo per un periodo di tempo limitato e nei casi più estremi. Inoltre, il reddito minimo non mi sembra una buona soluzione perché rischia di abbassare il livello degli incentivi al lavoro e perché il denaro necessario al suo finanziamento sarebbe tolto dalle tasche di qualcun'altro attraverso la tassazione generale.
Il bene comune è un ideale universale o è destinato a rimanere un concetto culturalmente relativo? Che ruolo gioca all'interno del suo pensiero?
Non credo che il bene comune sia un concetto relativo legato alle differenti culture. Al contrario è una nozione universale che appartiene a tutta l'umanità. L'aria, gli oceani, le foreste non devono essere controllate da nessuno (nemmeno dai governi) e nessuno dovrebbe ricavare un profitto dal loro sfruttamento. Le multinazionali stanno sfruttando le risorse naturali del pianeta al punto che oggi si parla del loro esaurimento. Se, ad esempio, il legname diventa un business profittevole, le multinazionali si danno da fare a distruggere intere foreste in giro per il mondo. E questo deve essere fatto nel più breve tempo possibile, così da far salire il prezzo delle loro azioni sul mercato. Questo è precisamente il punto dove l'idea del social business entra in gioco.
Il social business non ha fretta; non persegue la modalità dello sfruttamento dell'ambiente e degli esseri umani. Non si fanno soldi tagliando foreste, ma piantando alberi per far ricrescere quelle foreste sacrificate sull'altare del profitto delle multinazionali. Quello che sto cercando di fare è offrire a questa tipologia economica uno spazio sempre maggiore. Come si vede, il bene comune e il social businesss ono due lati della stessa medaglia.
Se non si vuole fare un ragionamento ingenuo è però necessario porsi il problema degli incentivi. Il mio pensiero a riguardo è il seguente. Gli incentivi economici sono di varia natura e forma. Gli economisti ortodossi ritengono che il profitto sia l'unico l'incentivo capace di spingere gli imprenditori a rischiare i loro capitali. Il profitto, tuttavia, non è l'unico incentivo, bensì un incentivo tra gli altri. Provo a fare un esempio. Nel 1953 Hillary e Norgary conquistarono il Monte Everest. Dopo la loro ascensione, a scapito dei rischi connessi a una tale impresa, centinaia di alpinisti hanno continuato a scalare la montagna. Perché? Pur non esistendo nessun incentivo monetario, c'è un incentivo dato dalla sensazione di gioia, dall'essere stati capaci di superare una difficoltà così grande. Tradotta in termini economici, l'esempio ci dice che il profitto è un incentivo fortissimo, ma rendere le persone felici è un super-incentivo.
Le pagine su «Americanismo e Fordismo» parlano non solo degli Stati Uniti ma anche della Russia sovietica, e forse parlano della Russia sovietica più ancora che degli Stati Uniti. L'affermazione può suonare paradossale e persino arbitraria; non resta allora che interrogare i testi e il contesto storico.
Cominciamo dal contesto. In quel momento a Mosca, il cattolico francese Pierre Pascal saluta la rivoluzione d'ottobre come l'avvento di una società in cui ci sono «solo poveri e poverissimi» e la cui nobiltà morale consiste nella distribuzione più o meno egualitaria della miseria. Siamo portato a pensare alla polemica del Manifesto del partito comunista, secondo cui i «primi moti del proletariato» sono spesso caratterizzati da rivendicazioni all'insegna di «un ascetismo universale e un rozzo egualitarismo»: non c'è «nulla di più facile che dare all'ascetismo cristiano una mano di vernice socialista». Si comprende allora la posizione di Lenin, che nell'ottobre 1920 dichiara: «Noi vogliamo trasformare la Russia da paese misero e povero in paese ricco»; per conseguire questo risultato occorre «un lavoro organizzato», al fine di assimilare «le ultime conquiste della tecnica», compreso il taylorismo americano.
Tutto ciò agli occhi di Pascal è solo sinonimo di «americanizzazione». Su questa linea di pensiero si colloca in Francia Simone Weil, che nel 1932 giunge alla conclusione che la Russia ha ormai come modello l'America, l'efficienza, il produttivismo, «il taylorismo». A partire di qui, la filosofa francese rompe con Marx, considerato responsabile di non aver compreso un punto essenziale: è «il regime stesso della produzione moderna, cioè la grande industria» a dover esser messo in discussione; «con quei penitenziari industriali che sono le grandi fabbriche si possono fabbricare solo degli schiavi, e non dei lavoratori liberi». Si potrebbe dire che agli occhi di Weil l'autore del Capitale era affetto da un «americanismo» ante litteram.
Conviene infine tener presente Martin Heidegger, che nel 1942 proclama: «Il bolscevismo è solo una variante dell'americanismo». Sul versante opposto, è quanto mai eloquente la posizione nel 1923 assunta da Bucharin: «Abbiamo bisogno di sommare l'americanismo al marxismo».
Una volta ricostruito il contesto storico, possiamo procedere alla lettura dei testi. Nell'apprezzare l'«americanismo» (o certi suoi aspetti), Gramsci è in piena coerenza col suo rifiuto, espresso già nel momento in cui saluta la rivoluzione d'ottobre, di identificare il socialismo col «collettivismo della miseria, della sofferenza». No, questo stadio dev'essere superato «nel minor tempo possibile».
Sono gli stessi Quaderni del carcere a sottolineare la continuità con il periodo giovanile, allorché fanno notare che già «'L'Ordine Nuovo' (...)sosteneva un suo 'americanismo'». Possiamo ora comprendere meglio il quaderno «speciale» 22, dedicato a «Americanismo e fordismo». Leggiamo il § 1: «Serie di problemi che devono essere esaminati sotto questa rubrica generale e un po' convenzionale di Americanismo e Fordismo». Siamo in presenza di un tema «generale» che rinvia a una molteplicità di problematiche e anche di paesi e che viene trattato con un linguaggio «convenzionale», data la necessità di stare in guardia contro un possibile intervento della censura fascista.
Il quaderno 22 così chiarisce quello che è in discussione: «Si può dire genericamente che l'americanismo e il fordismo risultano dalla necessità immanente di giungere all'organizzazione di un'economia programmatica e che i vari problemi esaminati dovrebbero esseri gli anelli della catena che segnano il passaggio appunto dal vecchio individualismo economico all'economia programmatica».
Si fa qui riferimento agli Stati Uniti o alla Russia sovietica? È difficile per il primo paese parlare di «passaggio» all'«economia programmatica». Il quaderno che stiamo analizzando si chiude (§ 16) con l'affermazione per cui negli Usa, contrariamente ai miti, non solo la lotta di classe è ben presente ma essa si configura come la «più sfrenata e feroce lotta di una parte contro l'altra».
E dunque, le pagine su americanismo e fordismo ci consegnano non un Gramsci che si sta congedando dalla tradizione comunista, ma un Gramsci che, in polemica con le posizioni alla Pierre Pascal e alla Simone Weil, chiama il movimento comunista a «valorizzare la fabbrica», a respingere una volta per sempre le nostalgie pre-industriali di segno populista e pauperista e a pronunciarsi per un marxismo depurato di ogni residuo messianico. È anche per questo che i Quaderni del carcere rivelano ancora oggi una straordinaria vitalità. Alcuni processi ideologici meritano attenzione.
1) La straordinaria fortuna di cui ha goduto e gode nella sinistra occidentale un filosofo quale Heidegger, campione di un anti-industrialismo e di antiamericanismo (che è al tempo stesso un anti-sovietismo) da Gramsci giudicato «comico» e «stupido».
2) Soprattutto nella stagione del '68 assai diffusa era a sinistra la tendenza che liquidava la riflessione di Gramsci quale sinonimo di subalternità al produttivismo capitalista, allo stesso modo in cui tre decenni prima Simone Weil aveva bollato Marx quale profeta di una «religione delle forze produttive» fondamentalmente borghese.
3) Ai giorni nostri, mentre a partire dalla Francia, nonostante la crisi e la recessione, si diffonde il culto della «decrescita» caro a Latouche, in un paese come l'Italia la sinistra cosiddetta radicale sembra talvolta contestare l'alta velocità in quanto tale. Indagare di volta in volta l'impatto ecologico e il costo economico di una linea ferroviaria è legittimo e anzi doveroso; è invece sinonimo di luddismo respingere l'alta velocità in quanto tale.
4) La sinistra occidentale guarda con grande diffidenza o con aperta ostilità a un paese come la Repubblica popolare cinese, scaturita da una grande rivoluzione anticoloniale e protagonista di un prodigioso sviluppo economico, che non solo ha liberato diverse centinaia di milioni dalla fame e dalla degradazione ma che finalmente comincia a mettere in discussione il monopolio occidentale della tecnologia (e quindi le basi materiali dell'arroganza imperialista). E come i populisti degli anni '20 e '30 condannavano quale espressione di «americanismo» lo sviluppo industriale della Russia sovietica, così oggi non sono pochi coloro che a sinistra bollano la Cina odierna come una brutta copia del capitalismo statunitense.
Non c'è dubbio: il populismo è tutt'altro che morto. Ma è proprio per questo che la sinistra ha più che mai bisogno della lezione di Antonio Gramsci.
Anche l’economia sovietica era capitalistica, con la differenza, non marginale, che la proprietà dei mezzi di produzione era dello Stato. Le regole generali di sistema economico non erano quindi sostanzialmente diverse da quello “occidentale”, a partire dalla questione fondamentale del “valore”. Resta comunque del tutto aperto il problema (certo non estraneo al pensiero di Marx nè a quello di Gramsci, e del comunismo italiano da Togliatti a Berlinguer))della costruzione di un sistema economico radicalmente diverso da quello capitalistico, cioè basato sull’alienazione del lavoro: problema che costituisce il discrimine tra le posizioni “rivoluzionarie” (favoriamo, sia pur gradualmente, la formazione un sistema economico sociale del tutto diverso) e quelle “riformiste” (aggiustiamo il capitalismo ed “esportiamo “ le contraddizioni che esso crea.). La crisi del riformismo, e la ricomparsa di posizioni non classificabili come "riformistiche, come quelle di Latouche, nascono dalla crescente convinzione del fatto che le nuove contraddizioni del capitalismo globalizzato non sembrano più “esportabili”, come è stato in tuta la fase dell’imperialismo coloniale.
Intervista al filosofo politico Michael Sandfel, docente ad Harvard e autore del libro pubblicato da Feltrinelli editore «Quello che i soldi non possono comprare».
Il manifesto, 12 giugno 2013
Basta che uno scambio di mercato sia libero e volontario perché nessuno possa opporvisi? Davvero dobbiamo essere indifferenti rispetto al contenuto delle preferenze individuali, come il pensiero economico mainstream tende a ritenere? O ci sono beni che il denaro non deve poter comprare? E quali? Fino a che punto possiamo accettare che si spinga il potere del denaro? Quando, invece, abbiamo buone ragioni per evitare che un bene divenga merce? Quando, in breve, la morale deve dettare legge al mercato?
A queste e altre domande prova a rispondere Michael Sandel, filosofo politico che insegna a Harvard, nel suo libro appena uscito per Feltrinelli (pp. 233, euro 22,00). Sono risposte che partono da esempi concreti: dalle celle più confortevoli per detenuti disposti a pagare un extra al bagarrinaggio delle messe del papa, passando per il diritto di saltare le code (pagando, s'intende), la vendita di sangue, l'utero in affitto, i tatuaggi pubblicitari permanenti, l'esternalizzazione della guerra alle compagnie private, i futures sul terrorismo. E sono risposte che generano altri interrogativi, in una trama allo stesso tempo semplice e sofisticata che, alla fine, chiama il lettore a una pronuncia morale: è giusto che sia il denaro a decidere come distribuire un certo bene?
Il sottotitolo del suo libro è «I limiti morali al mercato». Questo già dice molto su quello che è il suo scopo principale. Che cosa aveva in mente quando lo ha scritto?
Uno degli obiettivi del libro è sfidare il modo in cui il pensiero economico è concepito oggi. Il libro cerca di contrapporsi a un certo modo mainstream in cui viene interpretato il ruolo del mercato e in particolare prova a mettere in discussione l'idea che l'economia sia una scienza moralmente neutrale del comportamento umano. All'incirca dal secolo scorso l'economia si è sempre presentata come una scienza neutrale rispetto i valori, che non prendeva, quindi, mai posizione sui meccanismi di mercato e sulle preferenze delle persone. Io penso, invece, che debba essere vista come una parte della filosofia morale e politica, soprattutto oggi che l'economia cerca di offrire un modello capace di spiegare tutta l'esistenza.
Agli economisti questo modo di vedere le cose non piacerà...Non è sorprendente che gli economisti cerchino di resistere alle tesi contenute nel mio libro. Cercano di separare l'economia dalla filosofia morale e politica, e possono essere sospettosi rispetto a un contributo come il mio, che al contrario tenta di definire la natura dell'economia come disciplina non autonoma. Ma io voglio soltanto che si sviluppi il dibattito e spero che il mio libro possa incoraggiarlo.
Anche per questo ho scritto un libro seguendo uno stile espositivo che fosse accessibile a tutti, non un libro solamente per accademici; ed è per questo motivo che ho utilizzato molti esempi e diverse storie per illustrare i punti filosofici che intendevo di volta in volta sollevare. Ho fatto così perché la questione del ruolo del mercato nella nostra società è una questione troppo importante per non essere affrontata apertamente a livello pubblico.
Perché a suo giudizio chi parla di limiti morali del mercato è guardato con scetticismo (se va bene) oppure con disprezzo (se va male)?Penso che le persone resistano all'idea che il mercato abbia dei limiti morali fondamentalmente per due ragioni. La prima è che il mercato viene visto come qualcosa che produce crescita economica e benessere. Su questo, sia chiaro, hanno ragione, e il mio libro non è - ci tengo a precisarlo - contro l'economia di mercato in quanto tale. Il mio libro punta casomai a porre il mercato nel posto che gli compete. Questo è ciò che intendo quando invoco la necessità di porre dei «confini» etici.
La seconda ragione invece è più profonda e ha a che fare col fascino che suscitano i mercati per la relazione che intrattengono con la libertà, o meglio, con una certa idea di libertà. In base a ciò, il nocciolo è l'arbitrio della scelta; e le persone la esprimono entrando in rapporti di scambio volontario le une con le altre. Alcuni scambi riguardano beni materiali, come le automobili o i tostapane, altri invece hanno un aspetto fortemente, diciamo così, morale, come è nel caso della compravendita di reni o dell'utero in affitto, o anche più banalmente quando si deve decidere se pagare i bambini per leggere libri. E questo aspetto morale non possiamo eluderlo, ed è per tale motivo che - come ho cercato di argomentare nel libro - la libertà non si riduce a quella del consumatore.
Sta dicendo che il denaro offre solamente una libertà «monca»?Sì, la libertà che esercitiamo sul mercato è soltanto una parte della nostra libertà, non è «intera». È un'idea di libertà intesa come neutralità, in virtù della quale rinunciamo a interrogarci su quali siano i modi di vivere che riteniamo corretti o quali invece riteniamo sbagliati; rinunciamo così a considerare anche solo l'ipotesi che la libertà del consumatore possa degradare o corrompere i beni oggetto di compravendita.
Siccome però esiste anche una libertà che possediamo come cittadini, dobbiamo piuttosto chiederci, per esempio, se l'utero in affitto corrompa l'idea di genitorialità o se offrire un compenso ai bambini perché leggano libri corrompa il valore della lettura.
Pare di capire che lei reclami l'esigenza di un maggior dibattito pubblico, anche a costo di produrre maggiore controversia...Proprio così. Le persone nelle società odierne sono in disaccordo rispetto ai valori, ai modi di vivere, alle virtù civiche, ed è forse per questo che esiste ed è forte la tentazione di esternalizzare le questioni morali al mercato, nell'idea che i mercati siano strumenti neutraliche distribuiscono i beni secondo le preferenze delle persone. Ma questo io penso sia un errore.
In questo modo, infatti, il discorso pubblico democratico diventa sempre più vuoto, sempre meno interessante, e noi abbiamo in effetti perso la capacità di impegnarci nei dibattiti sulle grandi questioni. In parte, lo scopo del libro è quello di mostrare che il mercato non è uno strumento neutrale e non può definire che cos'è giusto e cosa sbagliato, né quale sia la natura dei beni che produciamo. Ma è anche un richiamo alla responsabilità che abbiamo come cittadini di regimi democratici, che non possono non discutere tra loro su quale sia il ruolo appropriato per i mercati e su quali beni devono essere a questi sottratti.
È molto istruttiva la discussione che lei fa della caccia al tricheco. I fatti. Il governo canadese autorizzava gli Inuit a cacciare un certo numero di trichechi, come esenzione culturale rispetto a una regola generale che imponeva il divieto. Essendo il tricheco sulle liste che i cacciatori tentano di completare, gli Inuit proposero al governo di cedere, dietro compenso, il diritto di sparo ai cacciatori non Inuit, tenendo comunque per sé la carne e la pelle degli animali uccisi. Il governo accettò. Ma chi ha assistito alla caccia al tricheco l'ha definita uno «sparare a una poltrona molto grossa», un esercizio di nessuna difficoltà... È questo anche il suo punto?Penso che l'esempio del tricheco sia molto interessante, perché tutti sembrano guadagnarci e nessuno perderci: ci guadagnano gli Inuit, che ottengono reddito extra, e i cacciatori, che completano la loro lista; non ci perde il governo, che è indifferente a chi materialmente uccide i trichechi; e i trichechi che vengono uccisi dai cacciatori sono gli stessi che sarebbero comunque ammazzati dagli Inuit. Eppure esiste qualcosa da obiettare a questa pratica. A mio parere, due sono le obiezioni possibili. Una è che il desiderio del cacciatore di sparare a un tricheco non ha nulla di vagamente sportivo; non c'è alcun pericolo, come invece ci può essere nel dare la caccia, che so, a una tigre. Dov'è il rischio, dov'è la sfida, nello sparare a un animale che non oppone resistenza né cerca di fuggire? A me pare un desiderio indegno e perverso, anche se porta denaro nelle tasche degli Inuit. È chiaro che questa obiezione si fonda su un qualche tipo di giudizio morale, che ci chiede di pronunciarci sul fatto che una pratica possa essere ripugnante o poco ammirevole. Aggiungo però anche una seconda ragione per obiettare a questa pratica. Le esenzioni culturali storicamente sono finalizzatead accordare rispetto a certi stili di vita tradizionali e culturalmente fondati: un conto però è offrire loro riconoscimento, un altro è convertire questo riconoscimento in un business. In altre parole, gli Inuit, cedendo il proprio diritto a uccidere i trichechi, trasformano in un'operazione commerciale il riconoscimento pubblico della propria cultura e contribuiscono a corrompere il significato originale dell'esenzione di cui sono titolari.
L'ultima domanda non può che riguardare la situazione che stiamo vivendo oggi. Viviamo un'epoca in cui non si fa che parlare di soldi, ma non tanto dei soldi che si possono accumulare col capitalismo, bensì dei soldi che mancano alle famiglie per arrivare a fine mese e ai giovani per costruirsi un futuro. Per dirla in breve, il libro parla di denaro mentre siamo nel pieno della crisi. Lei pensa che gli economisti, perlomeno gli economisti mainstream, portino delle responsabilità per la crisi finanziaria che stiamo attraversando?Gli economisti come individui certamente no. Penso però che un certo modo di vedere le cose, un modo di vedere che possiamo definire «economicista», abbia fornito lo sfondo che ha in qualche misura favorito la crisi. La crisi finanziaria è, dopotutto, arrivata al termine di tre decenni caratterizzati dalla fede nel trionfalismo dei mercati, durante i quali il mercato come meccanismo per distribuire i beni ha acquisito e goduto di grande prestigio.
Quando nel 2008 è sopraggiunta la crisi, ero convinto che avremmo assistito alla fine dell'era del trionfalismo dei mercati e pensavo che ci sarebbe stata l'occasione per un serio dibattito pubblico sul ruolo dei mercati nelle società democratiche contemporanee. Curioso, che questo non sia accaduto, no?
«Le condizioni di salute dell'intero territorio sono al primo posto: un precedente fondamentale per tutti i territori e le città che vivono ancora in condizioni di grave pericolo per la salute umana».
Il manifesto, 4 giugno 2013
Una sentenza esemplare quella emessa dalla Corte di appello di Torino per il disastro ambientale dell'Eternit. Il responsabile della multinazionale franco-svizzera Stephan Schmidheiny, riconosciuto colpevole di disastro ambientale doloso, ha visto aumentare la condanna da 16 anni di reclusione, in primo grado, a 18. Nella sentenza i giudici hanno esteso la responsabilità dell'imputato non soltanto ai siti produttivi piemontesi, dove è avvenuto il maggior numero delle 2.800 vittime, ma anche a quelli di Bagnoli e Rubiera.
La Repubblica, 4 giugno 2013
LA SENTENZA di Torino sulla Eternit pone un punto fermo, con una condanna di severità senza precedenti, a una terribile storia durata centoquindici anni. La elevata nocività dell’amianto fu infatti scoperta da un’ispettrice del lavoro inglese nel 1898. Sulle prime aveva qualche dubbio, ma un medico del lavoro da lei interpellato, che studiò al microscopio le particelle di amianto sospese nell’aria degli ambienti in cui veniva lavorato, concluse che per la loro forma tagliente e frastagliata esse potevano risultare estremamente dannose per chi le ispirava. Nei primi anni del Novecento medici francesi misero in relazione la morte di decine di operaie tessili con la polvere di amianto diffusa nei loro reparti.
Negli anni Venti e Trenta le morti imputate dai medici alla lavorazione dell’amianto diventano migliaia. Negli anni 60 si scopre che muoiono anche i parenti di coloro che lavorano a prodotti amiantiferi, nonché gli abitanti di quartieri situati nella vicinanza degli impianti che li fabbricavano. Verso la fine degli anni 90 uno studio della Agenzia Europea per l’Ambiente (Eea) stima che da quel tempo al 2035 i casi di tumori al polmone e mesotelioma si aggireranno sui 3-400 mila, quasi tutti mortali. In totale, si stima che soltanto in Europa le morti riconducibili all’amianto siano state, in oltre un secolo, alcuni milioni, e secondo le stime dell’Eea non sono affatto finite. L’uso dell’amianto nelle lavorazioni industriali è stato vietato dall’Unione Europea nel 1999. Appena centouno anni dopo che un’ispettrice del lavoro a due sterline la settimana aveva lanciato l’allarme.
Com’è possibile che una simile tragedia non sia stata fermata prima, i responsabili individuati e condannati, le fabbriche e i siti inquinati sottoposti decine di anni addietro a un’opera radicale di disinquinamento? Un fattore è stato il tempo. Diversamente da altre sostanze nocive – tipo, per dire, la diossina – l’amianto non uccide quasi subito. Ci si ammala, e si muore, perfino decine di anni dopo essere stati esposti alle sue polveri. Tale circostanza è stata sfruttata dalle direzioni delle corporation attive nel settore dell’amianto, da falangi di legali da esse impiegati, come pure da centinaia di medici di parere opposto a quello dei loro colleghi, per sostenere nel corso di quasi un secolo che tra l’esposizione all’amianto e la patologia che colpiva chi lo aveva maneggiato o toccato o ispirato non era possibile stabilire con sicurezza una relazione causale. I tribunali americani ed europei hanno molto spesso dato loro ragione. Quello di Torino no.
La sentenza torinese ha spezzato tale muro di negazionismo quanto a tutela della salute sui luoghi di lavoro. È un salto nella incisività dell’azione giudiziaria la cui portata va perfino al di là del problema amianto. Essa impone ai dirigenti delle imprese, ma anche ai loro principali proprietari, di prendere molto più sul serio di quanto non abbia fatto finora la maggioranza di loro il cosiddetto principio di precauzione. Esso dice che quando le conseguenze di un dato modo di operare possono essere estremamente gravi, la sola possibilità che esse intervengano debbono indurre a studiare d’urgenza quel modo stesso di operare, e a fronte di prove anche non certe sospenderlo. Se la Eternit avesse adottato tale principio, per non parlare delle tante imprese del medesimo settore, vi sarebbero state migliaia di morti in meno. È probabile che molte persone, nei prossimi anni, debbano essere grate, senza magari saperlo, al tribunale di Torino e ai suoi pm, per il fatto che le imprese avranno d’ora innanzi un solido motivo per guardarsi bene dall’ignorare il principio di precauzione. E questo vale per tutti. A partire dall’Ilva di Taranto.
Capitalismo all'italiana: hanno usato il potere pubblico per privatizzare tutto il possibile, arricchire i "capitani coraggiosi", agevolare il cammino dell'economia di carta e distruggere il patrimonio produttivo del paese. Non hanno neppure imparato.
Il manifesto, 29 maggio 2013
Per capire di che cosa parliamo quando parliamo di privatizzazioni guardiamo l'Ilva. Riva ha comprato l'Italsider di Taranto (un «ferrovecchio», secondo lui che lo ha comprato; un gioiello, secondo Prodi che ne ha predisposto la vendita) una ventina di anni fa per una manciata di miliardi (di lire: cioè di milioni di euro). Da allora, ha instaurato in fabbrica un regime dispotico, che gli è valso due condanne per discriminazione (ma ne avrebbe meritate decine), ma che è costato agli operai centinaia di morti sul lavoro. Ha appestato la città con emissioni, reflui e rifiuti nocivi che hanno provocato migliaia di malattie e centinaia di morti. Ha macinato profitti per miliardi di lire, ma poi anche di euro, e ne ha imboscati molti in paradisi fiscali, rimpatriandone una parte esentasse grazie allo scudo fiscale di Tremonti. Ha sfruttato gli impianti senza investire se non lo stretto necessario per tenerli in funzione, mettendo in conto di abbandonarli, insieme a operai e città inquinata, quando non sarebbero più stati redditizi.
L'elenco potrebbe allungarsi parecchio, da entrambi i lati. Il discrimine non è nell'etica, ma nella logica stessa del sistema; chiamalo, se vuoi, capitalismo.
La Repubblica, 26 maggio 2013
La disuguaglianza tra le generazioni è infatti una articolazione della più generale disuguaglianza tra le classi sociali che si è venuta consolidando negli ultimi decenni. Uno squilibrio nei redditi, nelle condizioni di vita, nella formazione, nelle opportunità, nella mobilità sociale che non ha confronti nella storia contemporanea recente e che è alla base dell'infelicità esistenziale diffusa e crescente nelle società ricche[3].
Si tratta di un fenomeno, che la crisi attuale ha senz'altro esasperato, ma le cui origini sono più lontane nel tempo, e provengono in maniera evidente dallo smantellamento del welfare avviato e perseguito dalle politiche neoliberiste. Ricordo a questo proposito che, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, esattamente una frattura tra generazioni segna un mutamento d'epoca e perfino dell'immaginario nazionale. Ed è un evento storico che si verifica, dopo quasi un decennio di deregulation reaganiana. Nel 1990, infatti, la National Association of State Board of Education dichiarò, senza mezzi termini : «Mai prima una generazione di teenagers americani è stata meno sana, meno curata, meno preparata per la vita di quanto lo fossero i loro genitori alla loro stessa età.»[4]
Noi ritroviamo questa frattura in altre forme e modalità ed estesa ad altri paesi ad alto reddito, e specificamente in quelli che con più sistematico zelo hanno applicato le ricette della deregolamentazione, della flessibilità del lavoro, della riduzione delle tutele. Una grande inchiesta internazionale mostra come nel 1995 i bambini che si trovavano al di sotto della linea mediana ufficiale di povertà costituivano negli Stati Uniti il 26,3 % del totale – secondi solo alla Russia di Eltsin, in preda alle convulsioni del crollo dell'URSS, con il 26, 6 % - seguiti dal Regno Unito, col 21, 2 % e dall’Italia, con il 21,2%.[5] Il nostro paese, in genere, non si perde mai un buon piazzamento quando le classifiche misurano primati negativi e arretramenti.
E l'Italia, in effetti, ha una collocazione speciale in questo processo di divaricazione di opportunità e status tra le generazioni. Sempre Massimo Livi Bacci ha ricordato – riportando dati di una indagine della Commissione europea del 2007 nell'UE a 15 – che la fonte della disponibilità economica dei ragazzi italiani tra 15 e 30 anni era per il 50% la famiglia, contro il 30% della media europea. E in Italia gli uomini adulti guadagnavano in media 2,8 volte in più dei giovani, rispetto a 2,5 volte della Francia, 1,9 in Germania [6].
Dati, questi italiani, che si inseriscono nel contesto della grave divaricazione dei redditi familiari, più volta denunciata dai Bollettini della Banca d'Italia, che ormai da tempo mostrano un 10% di famiglie ricche detenere quasi la metà della ricchezza del paese.
Come uscire da tale situazione? Tutti precipitiamo in una condizione di difficoltà quando proviamo a immaginare sentieri e percorsi alternativi, soluzioni realistiche e praticabili. Io che sono uno storico e dunque, per statuto disciplinare, dovrei occuparmi di passato, sono almeno ufficialmente il meno autorizzato ad avanzare proposte. Ma chi mi conosce sa che io non sono mai stato un animale accademico, ho alle spalle un commercio intellettuale pluridecennale con gli scienziati sociali, mi sono a lungo occupato dei problemi del Sud d'Italia e non solo come storico. Quindi credo di poter azzardare quanto meno due considerazioni di carattere generale, che, tra l'altro, proprio la mia specifica professione in una certa misura autorizzano. E di tentare, alla fine, anche qualche proposta.
Io credo che sia fondamentale la consapevolezza storica di due importanti novità che segnano la fase attuale non solo dell'Italia, ma della storia del mondo. La prima di queste è che la deregulation, il crollo dell'URSS, il dissolvimento dei partiti popolari di massa hanno dato ai gruppi del capitalismo un dominio senza precedenti sulle altre classi. Un'asimmetria di potere che crea squilibri gravi nella distribuzione della ricchezza e imballa l'intero sistema. L'idea che il libero mercato premi i migliori è rimasta sulla carta dei manuali di economia. La storia reale, in questa fase recente, ci ha mostrato, senza possibilità di dubbi, che esso premia soprattutto i più forti e accresce fino a livelli esplosivi le disparità sociali
La seconda novità da segnalare, che gli economisti da tempo hanno definito come jobless growth, è la fine dell'automatismo tra crescita economica e occupazione. Il meccanismo virtuoso che ha segnato la storia della società industriali si è rotto. Il mercato, da sé, non basta più. E questo, per la verità, lo sapevamo già, almeno dai tempi di Keynes. Ma questo mercato, innervato negli squilibrati rapporti tra capitale e lavoro, nel suo avanzare tende a riprodurre le asimmetrie su cui è cresciuto, a creare accumulazione finanziaria e speculazione da un lato e marginalità sociale al lato opposto. Mentre nel frattempo appare sempre più evidente che il capitalismo nelle società mature si dibatte da ormai più di trent'anni in una sostanziale stagnazione[8] Forse siamo oggi di fronte a un approdo storico definitivo -entro limiti ambientali sempre più stringenti - che probabilmente il capitalismo non supererà mai più. E questo a dispetto dei vantaggi incomparabili di cui ha goduto nell'uso della forza lavoro e nella mobilità mondiale di merci e di capitali in tutti questi anni. Ad esempio – per tornare al nostro tema - premendo più duramente sugli strati che hanno meno potere contrattuale: soprattutto sui giovani che, «in disordine e senza speranza» - come recitava il bollettino Diaz a proposito dell'esercito austriaco in ritirata – cercano di entrare nel mondo del lavoro.
Io dunque credo che sarebbe necessario, sotto il profilo della lotta politica, della creazione di un nuovo immaginario culturale, mostrare con più forza e convinzione che la crisi attuale è il risultato di una inaccettabile ingiustizia sociale, di un grande saccheggio realizzato dai ceti dominanti. Questa presa d'atto dovrebbe costituire l'animus politico in grado di dare motivazione e forza ai movimenti popolari e alle nuove generazioni, chiamate in prima persona a rappresentare i propri interessi. Ma ad essa si deve accompagnare una nuova progettualità sociale che deve creare le opportunità di lavoro, quelle che il mercato nelle sue tendenze spontanee non riesce a generare. Sono personalmente convinto che ci sia la possibilità di creare nuovi posti di lavoro nei quali l'energia e la creatività dei giovani possa esprimersi con utilità generale per tutto il Paese. Penso alle nuove economie che si possono impiantare nelle aree interne della Penisola – oggi abbandonate e degradate – dove è possibile praticare nuovi tipi di allevamenti, agricoltura biologica, acquacoltura, industria forestale, ecc. E qui molto si può fare per creare o ampliare, soprattutto nel Sud, nuovi distretti agroalimentari. La ripresa dell'agricoltura nelle aree collinari e pedemontane non è una invocazione generica. Non solo perché in queste aree, per i tanti secoli della nostra lunga storia, a parte la Pianura padana e poche piane costiere, ha prosperato la nostra agricoltura, la fonte primaria di vita per milioni di persone. Ma soprattutto grazie alle potenzialità che essa è in grado di esprimere oggi rispetto al riduzionismo agrobiologico subito negli ultimi decenni per effetto dell'agricoltura industriale. Nel nostro Paese, in virtù della varietà d'habitat ospitate dalla Penisola, e per l'originalità della sua storia, si è concentrata la più ricca biodiversità agricola d'Europa.[9] Grazie alla straordinaria varietà di frutta, ortaggi, legumi, piante officinali – oggi presenti solo nei vivai o sopravvissuti come relitti in alcune campagne - noi abbiamo oggi la possibilità di realizzare un'agricoltura di qualità, che non è un ritorno al passato, ma una realtà economica e culturale del tutto nuova. Senza dire che agricoltura, nelle nostre terre, non significa solo produzione di beni agricoli, ma tutela idrogeologica del suolo, protezione e valorizzazione del paesaggio, questo nostro immenso patrimonio di bellezza, diffusione delle nostre cucine tradizionali, turismo, ecc.
Anche le energie rinnovabili, come è largamente noto, costituiscono occasione di nuovi lavori e nuova occupazione. Tutto il mondo dei beni culturali – dalla catalogazione dei reperti museali alla registrazione filmica del nostro immenso patrimonio – è un vasto territorio di possibilità occupazionali che occorre esplorare con creatività. E così il mondo della ricerca, non solo quella scientifica, ma anche quella umanistica, come mostrano le Maison des Sciences de l’Homme in Francia. Su questi aspetti, qui appena accennati, mi sono intrattenuto nell'ultimo capitolo del mio Il grande saccheggio, a cui debbo per brevità rinviare. [10]
Naturalmente, di fronte a questo pur sommario elenco, ognuno ha il diritto di domandarsi: ma chi prende l'iniziativa, chi avanza i progetti ? Ecco su questo punto avrei pochi dubbi. A iniziare, ad elaborare primi progetti di massima e a coinvolgere amministratori locali, giovani, imprenditori, ecc dovrebbe essere il sindacato, l'istituzione che rappresenta i lavoratori. C'è infatti un compito intergenerazionale di cui il sindacato dovrebbe in qualche misura farsi carico, almeno nella fase iniziale. Rammento, come di dovere, che il sindacato si regge in larga parte, in quanto organizzazione, grazie alle quote sindacali pagate dai lavoratori occupati, i cui figli vivono nella disoccupazione o nella precarietà. Occorre costruire un ponte solidale fra le due generazioni. Il sindacato non può limitarsi a gestire l'esistente, a rappresentare solo chi è già al lavoro, ignorando chi preme vanamente per entrarci. Ora, so bene che solo per incamminarsi su tale laboriosa strada ci vuole del tempo, sempre che ci sia anche la buona volontà politica di intraprenderla. Ma la situazione dell'occupazione giovanile, in Italia, soprattutto di quella qualificata, oggi è drammatica. Non si possono aspettare degli anni, soprattutto in un contesto di politica europea deflazionistica che deprime ogni slancio. Perciò io credo che sia necessario pensare a una misura temporanea di reddito minimo di cittadinanza da assegnare ai nostri giovani. Potrebbe, del resto, costituire una forma di sperimentazione per vedere quali effetti ha da noi una istituzione che già esiste in altri paesi d'Europa.[11]
[1] M. Livi Bacci, Avanti giovani alla riscossa. Come uscire dalla crisi giovanile in Italia. Il Mulino Bologna 2008
[2] G.A.Micheli, Persistenza, mutazioni,effetti eco: i processi demografici in un'ottica per generazioni, in G.Calvi( a cura di ) Generazioni a confronto. Materiali per uno studio, Consiglio Italiano per le Scienze Sociali, Marsilio, Venezia 2005, pp.21-26
[3] Si vedano i risultati dell’'ampia ricerca internazionale, frutto di 25 anni di lavoro in comune, di Wilkinson e K. Pickett, La misura dell'anima. Perché le disuguaglianze rendono le società più infelici, Feltrinelli Milano, 2009
[4] D.G. Myers, The American Paradox. Spiritual Hunger in an Age of Plenty, Yale University Press, New Haven-New York, 2000, p.10.
[5] B. Bradbury, Mäntti, “Child poverty across Twenty-five countries”, in B. Bradbury. S. P. Jenkins, J. Michlewrigt, (a curadi) The Dynamics of Child poverty inindustrialised Countries, Cambridge University Press, Cambridge 2001, p.70
«Per invertire quel processo occorre far saltare i vincoli che inchiodano le politiche economiche e sociali dei governi europei agli interessi dell'alta finanza: i patti di stabilità esterno e interno; il fiscal compact; il pareggio di bilancio; il taglio di spesa pubblica e pensioni; la privatizzazione dei beni comuni e dei servizi pubblici; la diffusione del lavoro precario». Ma è sufficiente una democrazia ridotta alla sola dimensione orizzontale?.
Il manifesto, 7 maggio 2013
Questa progressiva espropriazione del Parlamento e degli elettori serve a creare un interlocutore unico che risponda direttamente ai cosiddetti «mercati» (cioè alla finanza, che è la forma attuale del dominio del capitale a livello globale), annullando sia i poteri dei governi nazionali e soprattutto dei comuni, dai quali dipende la gestione della vita quotidiana e della convivenza civile di ogni comunità, sia la prospettiva di cambiare la propria condizione con il conflitto.
Questa deriva, che riguarda tutta l'Europa, non porta a una ripresa (ormai prevista da ben cinque anni, per essere ogni volta rimandata all'anno prossimo); bensì al disastro della Grecia, che ormai incombe anche su Spagna, Portogallo, Cipro e Slovenia; ma già investe in pieno anche Italia, Francia e l'Olanda; e presto persino la Germania: il cui governo fa da scudo agli interessi dell'alta finanza solo per non scoprire la situazione disastrosa delle sue banche, che ne sono parte integrante.
Ma la resa dei conti si avvicina: un disastro planetario: nemmeno le economie di Cina, India e Giappone vanno più molto bene, mentre la catastrofe ambientale incombe su tutti. In Italia l'occupazione crolla; la disoccupazione dei giovani è al 40 per cento (e gli altri sono precari o hanno rinunciato a cercare un lavoro; ma questi giovani presto saranno adulti, e poi anziani, senza alcuna speranza di un lavoro, di un reddito stabile, di una casa, di una famiglia, della possibilità di mantenere dei figli, di una pensione); scuola, università e ricerca affondano; migliaia di aziende chiudono e non riapriranno più; e non ne nascono di nuove; e con esse spariscono mercati di sbocco, know-how, competenze, abitudine alla collaborazione, coesione sociale, solidarietà. Perciò anche il Governo Letta nasce già vacillante e quel processo di accentramento rischia produrre regimi ancora più duri, magari sotto la di facciata di un antieuropeismo demagogico e populista, solo per nascondere una subordinazione anche più stretta alla finanza.
Per invertire quel processo occorre far saltare i vincoli che inchiodano le politiche economiche e sociali dei governi europei agli interessi dell'alta finanza: i patti di stabilità esterno e interno; il fiscal compact; il pareggio di bilancio; il taglio di spesa pubblica e pensioni; la privatizzazione dei beni comuni e dei servizi pubblici; la diffusione del lavoro precario. Ripudiare quei vincoli richiede un programma di respiro generale che unisce a livello europeo; che può e deve contare su tutte le rivolte e le mobilitazioni contro i vincoli del debito che da tempo si moltiplicano in un numero crescente di paesi, o che prima o poi esploderanno.
Ma per opporsi all'azzeramento della sovranità popolare non basta restituire al Parlamento quei poteri che i partiti non vogliono né usare né difendere. All'accentramento dei poteri va contrapposto, in tutti i paesi d'Europa, il progetto di un loro radicale decentramento: un governo dei territori, dei servizi pubblici e delle imprese basato sulla democrazia partecipata promossa dalla componente attiva della cittadinanza in un regime di trasparenza e leggibilità dei bilanci assolute. Per recuperare e potenziare quelle funzioni delle Municipalità che i patti di stabilità stanno soffocando. Ma se è chiaro quali sono le forze che lavorano per l'esautoramento della sovranità popolare, dove sono mai «i soggetti» in grado di elaborare, perseguire e portare a compimento un programma alternativo?
Quei soggetti non ci sono. Vanno costruiti. Ma senza distogliersi dai loro obiettivi specifici, le potenzialità dei movimenti, dei comitati, delle associazioni, delle iniziative civiche - ma anche e soprattutto quelle dei milioni di cittadini che in Italia espresso con il voto la volontà di liberarsi di Monti e Berlusconi - possono trovare una convergenza nel progetto di imporre alle rispettive amministrazioni comunali - alle poche disponibili, ma soprattutto alle molte che non lo sono - quel ruolo peculiare che le politiche di accentramento stanno azzerando: far saltare il patto di stabilità interno; quello che impedisce ai Comuni di far fronte ai propri compiti istituzionali, ma soprattutto che inibisce loro la possibilità di farsi promotori di una radicale conversione ecologica imperniata su un potere diffuso nei territori. Un passo irrinunciabile per costruire un'alternativa concreta al potere della finanza a livello locale, nazionale ed europeo.
Non è vero che «non ci sono i soldi» per politiche di promozione dell'occupazione, di sostegno dei redditi, di riconversione delle imprese, di salvaguardia del welfare e dell'ambiente. Nel mondo, di denaro o titoli equivalenti ce ne è anche troppo: oltre dieci volte il valore del Pil mondiale; e anche in Italia non manca di certo. Ma è nelle mani sbagliate: di speculatori che lo usano per metter alle corde lavoratori, amministrazioni locali, piccole e medie imprese e governi. Con quella massa immane di denaro l'alta finanza - che è ormai mera speculazione: fare denaro con il denaro a spese di chi non ne ha - impone la sua volontà ovunque. Ma tutto quel denaro è «solo» virtuale: funziona finché gli stati gli riconoscono un valore; in fin dei conti non è che una gigantesca «bolla finanziaria» creata nel corso degli anni e tenuta in piedi - fin che dura - dalle scelte operate da banche centrali, governi e parlamenti asserviti alla sua potenza. Come si è creata può essere sgonfiata e ricondotta alle dimensioni necessarie ad alimentare il credito e i redditi che fanno circolare beni e servizi sui mercati.
Ma per perseguire un sovvertimento del genere occorre un programma che renda praticabile un diverso modo di organizzare il lavoro, le imprese, l'amministrazione pubblica e i consumi: il nostro «stile di vita». Questo programma è il recupero della sovranità all'interno di ogni territorio non solo in termini politici, ma anche in campo economico: sovranità alimentare (filiera corta per le produzioni agroalimentari); energetica (fonti rinnovabili ed efficienza energetica); nella gestione delle risorse (soprattutto di ciò che oggi bistrattiamo come rifiuti); sui suoli (sottratti a speculazione edilizia e infrastrutture devastanti); monetaria (controllo partecipato di banche e monete locali); e, ovunque possibile, anche sulla produzione industriale (filiere corte con accordi diretti tra produttori e consumatori associati). In tutti questi campi il ruolo promozionale di una municipalità democratica e partecipata è fondamentale.
Utopia? I prossimi anni non saranno la prosecuzione di quelli che abbiamo alle spalle. Siamo ormai in mezzo a sconvolgimenti radicali; e altri, anche maggiori, sono in arrivo. O li affrontiamo con uno sguardo capace di vedere oltre le miserie del presente, o ne rimarremo soffocati (www.guidoviale.it)
Il linguaggio non è molto chiaro, ma la decisioni di riproporre un tema cancellato dall'attenzione per favorire il prevalere della "città della rendita" contro la "città dei cittadini" è certamente da sostenere e seguire con attenzione.
il manifesto, 4 maggio 2013
L'Art. 42 della nostra Costituzione dice che la proprietà ha una funzione sociale. Noi lo vogliamo ricordare. Il nodo teorico della rendita nel rapporto con la teoria dei beni comuni. Un nuovo percorso costituente
La prima tappa della Costituente itinerante per i beni comuni in sede deliberante che si svolge oggi all'Aquila rappresenta un momento di sperimentazione importante per la vita del diritto (e pure della politica) nel nostro paese. Questo primo appuntamento sarà seguito a Roma dalla prima riunione dei giuristi in sede redigente che si svolgerà a porte aperte e in streaming il 9 maggio al Teatro Valle Occupato. Il teatro romano, dopo aver organizzato in Aprile la "riunione 0" della Costituente Itinerante, si conferma un essenziale avamposto dell'innovazione istituzionale in materia di beni comuni. Il tema discusso all'Aquila, in questa attesissima prima che sperimenterà finalmente in pratica la metodologia del lavoro dei prossimi mesi, è quello della città come bene comune, dell'accesso agli spazi urbani, delle utilità condivise nella vita cittadina, dell'ecologia urbana e della responsabilità verso le generazioni future di consegnare una città armonica, viva e sostenibile. La scelta dell'Aquila perché proprio qui il saccheggio neoliberale, fatto di un misto di arroganza, disonestà e incapacità, ha dato il meglio di se. Il cuore teorico dell'incontro sarà perciò la questione della "rendita fondiaria" che per tutti gli anni sessanta e settanta del secolo scorso aveva affaticato una dottrina giuridica volta a discuterne la compatibilità con la Costituzione (in particolare l'Art. 42 sulla funzione sociale della proprietà) e che invece, dagli anni ottanta, è stata completamente abbandonata dalla riflessione giuridica e costituzionale. Da trent'anni si dà per scontato che la rendita fondiaria "appartenga" al proprietario come una sorta di inattaccabile "frutto civile" del suo titolo proprietario. Questa naturalizzazione all'appartenenza individuale della rendita è messa in radicale discussione da una politica del diritto incentrata sui beni comuni che riconosce la rendita come prodotto della collaborazione sociale e dunque qualcosa di strutturalmente collettivo. L'esperienza pratica dell'Aquila, mostra tutte le conseguenze nefaste di questa vera abdicazione teorica del pensiero giuridico critico. Per i numerosi giuristi dell'ex Commissione Rodotà, presenti sotto il tendone aquilano, quest'interlocuzione dal basso con una città ferita e con le molte pratiche di riappropriazione degli spazi urbani (incluse le lotte per il diritto alla casa) sarà ben più importante di qualunque lettura di repertori di giurisprudenza che su questi temi tramandano tristi idee, incapace di rompere il circolo vizioso che mette in collegamento corruttivo l'interesse privato con quello degli amministratori pubblici. Questo inizio di partita all'Aquila mette sul tavolo le ambizioni della Costituente itinerante, per una nuova legittimità dei beni comuni, per un'alternativa alla legalità neoliberale. Un Codice dei beni comuni, che eredita e amplia (senza più aspettar deleghe da un Parlamento delegittimato dalla legge elettorale vigente) la parte della Legge Delega prodotta dalla Commissione Rodotà nel febbraio 2008 relativa ai beni comuni, non può che partire dalla nozione di utilità e di accesso condiviso, come del resto già risulta dai primi documenti prodotti subito dopo la riunione del 13 aprile al Teatro Valle.
L'utilità prodotta dai beni comuni va interpretata in connessione con una idea di cittadinanza (ovviamente in senso non formalistico e quindi estesa a tutti perché nessuno è clandestino) cui deve essere garantita un'esistenza libera e dignitosa. L'accesso condiviso a sua volta consentirà di codificare i beni comuni come «opposto della proprietà» (la felice formula è di James Boyle), sostituendo l'esclusione tipica della struttura proprietaria borghese con l'inclusione e la concentrazione del potere (condivisa da proprietà e sovranità statuale) con la sua diffusione. Questa declinazione dal basso dei beni comuni è pure l'opposto del riformismo neoliberale, simboleggiato dalla consegna del Ministero delle Riforme istituzionali a un politico come Quagliariello e che trova nella proposta Convenzione costituzionale la sua declinazione più pericolosamente sovversiva del nostro ordine costituito. Se quello della Convenzione è riformismo, all'Aquila allora si porta avanti un concreto cammino costituente di contro-riforme. Con la Costituente itinerante i giuristi redigono, per conto del popolo, una diffida formale al potere: il sovrano vuole il mantenimento di quella rivoluzione promessa che Calamandrei considerava l'essenza della nostra carta fondamentale. Come ha ribadito ieri la costituzionalista Lorenza Carlassare sul manifesto , dalla crisi non si esce continuando a calpestare la democrazia.
Dopo il fallimento, due grandi interrogativi: come ha potuto diventare così influente la dottrina dell’austerity? Ora, cambieranno le politiche? La risposta è nella lotta di classe. La Repubblica, 27 aprile 2013.
È RARO che i dibattiti economici si concludano con un ko tecnico. Tuttavia, il dibattito che oppone keynesiani ai fautori dell’austerità si avvicina molto a un simile esito. quanto meno a livello ideologico. La posizione pro-austerity è ormai implosa; non solo le sue previsioni si sono dimostrate del tutto fallaci, ma gli studi accademici invocati a suo sostegno si sono rivelati infarciti di errori e omissioni, nonché basati su statistiche di dubbia attendibilità. Due grandi interrogativi, tuttavia, persistono. Il primo: come ha potuto diventare così influente la dottrina dell’austerity? E il secondo: cambierà la policy, adesso che le rivendicazioni fondamentali dei sostenitori dell’austerità sono diventate oggetto di battute nei programmi satirici della terza serata?
Riguardo alla prima domanda: l’affermazione dei fautori dell’austerità all’interno di cerchie influenti dovrebbe infastidire chiunque ami credere che la policy si debba basare sull’evidenza dei fatti, o essere da questi fortemente influenzata. Dopotutto i due principali studi che forniscono all’austerity la sua presunta giustificazione intellettuale — quelli di Alberto Alesina e Silvia Ardagna sull’“austerità espansiva”, e di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff sulla fatidica “soglia” del novanta percento del rapporto debito/Pil — sono state ferocemente criticati già all’indomani della loro pubblicazione. Gli studi, inoltre, non hanno retto a un attento scrutinio. Verso la fine del 2010 il Fondo monetario internazionale aveva rivisto Alesina-Ardagna ribaltandone le conclusioni, mentre molti economisti hanno sollevato interrogativi fondamentali sulla tesi di Reinhart-Rogoff ben prima di venire a sapere del famoso errore nella formula di Excel. Intanto, gli eventi nel mondo reale — la stagnazione in Irlanda (l’originario modello dell’austerity) e il calo dei tassi di interesse negli Stati Uniti, che avrebbero dovuto trovarsi di fronte a una crisi fiscale imminente — hanno rapidamente svuotato di significato le previsioni del fronte pro-austerity.
E tuttavia, la teoria a favore dell’austerità ha mantenuto, e persino rafforzato, la propria presa sull’élite. Perché?La risposta è sicuramente da ricercare in parte nel diffuso desiderio di voler interpretare l’economia alla stregua di un racconto morale, trasformandola in una parabola sugli eccessi e le loro conseguenze. Abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi, narra il racconto, e adesso ne paghiamo l’inevitabile prezzo. Gli economisti possono spiegare ad nauseam che tale interpretazione è errata, e che se oggi abbiamo una disoccupazione di massa non è perché in passato abbiamo speso troppo, ma perché adesso spendiamo troppo poco, e che questo problema potrebbe e dovrebbe essere risolto. Tutto inutile: molti nutrono la viscerale convinzione che abbiamo commesso un peccato e che dobbiamo cercare di redimerci attraverso la sofferenza. Né le tesi economiche né la constatazione che oggi a soffrire non sono certo gli stessi che negli anni della bolla hanno “peccato” bastano a convincerli che le cose stanno diversamente.
Ma non si tratta di opporre semplicemente la logica all’emotività. L’influenza della dottrina dell’austerity non può essere compresa senza parlare anche di classi sociali e di diseguaglianza.
Dopotutto, cosa chiede la gente a una policy economica? Come dimostrato da un recente studio condotto dagli scienziati politici Benjamin Page, Larry Bartels e Jason Seawright, la risposta cambia a seconda degli interpellati. La ricerca mette a confronto le aspettative nutrite riguardo alla policy dagli americani medi e da quelli molto ricchi — e i risultati sono illuminanti. Mentre l’americano medio è per certi versi preoccupato dai deficit di budget (cosa che non sorprende, considerato il costante incalzare dei racconti allarmistici diffusi dalla stampa), i ricchi, con un ampio margine, considerano il deficit come il principale problema dei nostri giorni. In che modo dovremmo ridurre il deficit nazionale? I ricchi preferiscono ricorrere al taglio delle spese federali sulla sanità e la previdenza — ovvero sui “programmi assistenziali” — mentre il grande pubblico vorrebbe che la spesa in quei settori fosse incrementata.
Avete capito: il programma dell’austerity rispecchia da vicino, la posizione dei ceti abbienti, ammantata di rigore accademico. Ciò che il più ricco un per cento della popolazione desidera diventa ciò che la scienza economica ci dice che dobbiamo fare. Gli interessi dei ricchi sono forse di fatto agevolati da una depressione prolungata? Ne dubito, dal momento che solitamente
un’economia prospera è un bene per tutti. Ciò che invece è vero, è che da quando abbiamo optato per l’austerità i lavoratori vivono tempi cupi, ma i ricchi non se la passano così male, avendo tratto vantaggio dall’incremento dei profitti e dagli aumenti della Borsa a dispetto del deteriorare dei dati sulla disoccupazione. L’un per cento della popolazione non auspica forse un’economia debole, ma se la passa sufficientemente bene da rimanere arroccato sui propri pregiudizi.
Tutto ciò suscita una domanda: quale differenza produrrà di fatto il crollo intellettuale della posizione pro-austerità? Sino a quando ci atterremo a una politica dell’un per cento, voluta dall’un per cento a vantaggio dell’un per cento, forse assisteremo solo a nuove giustificazioni delle solite, vecchie policy. Spero di no; mi piacerebbe poter credere che le idee e l’evidenza dei fatti contino, almeno in parte. Cosa farò altrimenti della mia vita? Immagino però che ci toccherà vedere sino a dove ci si può spingere pur di dare una giustificazione al cinismo.
(Traduzione di Marzia Porta) copyright New York Times La Repubblica
Il manifesto, 15 marzo 2013
Nelle ultime elezioni italiani una formazione politica, «il movimento 5 stelle», ha avuto un ottimo risultato elettorale, facendo leva sul fatto che è un movimento e non un partito. Hanno spesso parlato della dimensione sociale ed etica della loro esperienza, fattore che fa andare sullo sfondo la dimensione politica, culturale. Come valuta lei questa esperienza?
Ho letto del movimento 5 stelle. Più che un movimento sociale è un movimento politico che allo stato attuale non contempla il riconoscimento delle diverse componenti sociali al suo interno. Più che altro è un movimento segnato da ambivalenza, caratteristica che riguarda anche molti movimenti sociali e politici del presente. Non sono però interessato da qualificare negativamente il «movimento 5 stelle». Alcuni aspetti possono essere negativi nel presente, ma storicamente possono svolgere una funzione positiva. Ciò che va interrogata l’ambivalenza.
La crisi iniziata nel 2007 non sembra finire mai. Ogni ricetta proposta per risolverla. Siamo condannati a dover vivere in uno stato di crisi permanente?
Sono propenso a sostenere la tesi che siamo ancora dentro gli effetti della crisi del ’29 dalla quale il capitalismo non si è mai del tutto ripreso. Quella è stata la madre di tutte le crisi del Novecento. Ha avuto effetti drammatici, come la seconda guerra mondiale, al termine della quale in molti hanno sperato che la situazione ritornasse alla «normalità». Per tre decenni un forte movimento politico socialdemocratico e riformista ha provato a modificare lo sviluppo capitalistico, mettendolo al riparo da eventi catastrofici come quello del ’29.
È però evidente che dal 2007 in poi, il mantra dominante era che il neoliberismo era fallito, ma che era però impossibile tornare a forme di gestione keynesiana dell’economia...
Certo, il liberismo ha fallito. D’altronde era un po’ folle pensare che la vita sociale o politica dovessero essere gestite seconda la logica del massimo profitto per le imprese. Non lo pensava neppure Adam Smith, ritenuto il padre nobile del liberalismo economico. L’economia, tuttavia, è solo parte del problema. Da parte mia, continuo a ritenere necessaria una prospettiva storica dell’attuale situazione. Viviamo in una realtà che risponde a un modello di società – capitalistica, borghese – che dura da alcuni secoli. Quello che è in discussione è la possibilità di quel modello di funzionare ancora, cioè se ha la possibilità di garantire l’integrazione di bisogni, aspettative, desideri che maturano nella realtà sociale. Non so rispondere positivamente o negativamente a tale quesito. Quello che vedo manifestarsi è il superamento di un’attitudine maschile, virile nell’affrontare i problemi. In base a questo modello maschile, abbiamo visto élite (economiche o politiche) che tendevano a dominare il resto della società. Da tempo vediamo invece manifestarsi altri modelli di comportamento, meno polarizzati, più empatici. Da questo punto di vista andrebbero valutati attentamente gli effetti del femminismo nelle nostre società. Al di là delle proposte che i diversi e eterogenei movimenti femministi hanno fatto, vediamo all’opera un’attitudine femminile nella gestione delle contraddizione e delle relazioni sociali che puntano a integrare, a non escludere richieste, proposte, stili di vita che non coincidono con quelli dominanti. Un’integrazione, tuttavia, che non cancella le differenze, anzi tende a valorizzarle.
E’ una banalità dire che in presenza di benessere è più facile sia l’universalismo dei diritti che il rispetto delle differenze. In alcuni paesi, compresi quelli europei, ciò che ancora rilevante è il soddisfacimento dei bisogni, di un superamento di stati di necessità e non tanto il rispetto di differenze culturali. Ma il problema resta, perché l’obiettivo è un universalismo delle differenze. Negli anni passati, lo studioso canadese Charles Taylor chiedeva il riconoscimento dei diritti delle comunità schiacciati dai diritti universali. I liberali americani, ma anche molti europei, rispondevano che quelli che andavano salvaguardati era i diritti universali. Una discussione molto poco interessante. Importante è la combinazione, appunto, di universalismo e differenze. Faccio un esempio che è esemplificativo di come l’universalismo delle differenze non comporti necessariamente la cancellazione dei diritti civili, politici e sociali affermati nella modernità. Nel Chiapas, gli zapatisti chiedevano e chiedono il rispetto dei diritti degli indigeni. Non sono diritti individuali, ma diritti comunitari. L’esperienza di autogoverno delle municipalità ha fatto emergere il fatto che c’era riconoscimento delle comunità ad autogestire la vita in comune secondo modalità non coincidenti con quelli dominanti. Al tempo stesso, gli stessi zapatisti chiedevano il rispetto dei diritti individuali politici, civili, nonché il diritto delle donne all’uguaglianza, fattore che non sempre contemplato nelle culture dei nativi indigeni. La crisi attuale rende tutto più difficile, lo so. Siamo in una situazione sempre sull’orlo della catastrofe. L’obiettivo è ricostruire una polis, cioè una dimensione politica ancorata proprio all’universalismo delle differenze.