La Repubblica, 5 febbraio 2016, con postilla
Il Guardian ha chiesto a nove economisti se sia o meno in vista una nuova crisi finanziaria globale e, ovviamente, gli interpellati hanno dato nove risposte diverse. Eppure continuiamo a rivolgerci agli economisti quasi fossero medici, capaci di prognosi scientifiche sul comportamento del corpo economico. Sia noi consumatori che loro dobbiamo essere più realistici riguardo alle possibilità dell’economia. Un approccio più misurato sia sul fronte dell’offerta che della domanda in economia produrrà risultati migliori.
postilla
Non è detto che - come sembra sostenere Garton Ash - una scienza, per essere tale, debba essere "esatta". E non è detto che gli economisti "classici" (se volete, da Adamo Smith a David Ricardo a Karl Marx, e discendenti) siano meno attendibili nelle loro previsioni di quelli che, patendo dell'"invidia della fisica", si ammantano di tecnologico scientismo.
«Inflazione. Il presidente della Bce ha messo in allarme il continente su una possibile "cospirazione", ma la risposta è semplice: a marciare contro sono gli stessi governi che perseguono le politiche di austerity». Il manifesto, 5 febbraio 2016
Non c’è dubbio che Mario Draghi sia uno di quegli uomini che quando parla è bene starlo a sentire. Sia che si concordi o meno. Celebre ed efficace è stato il «whatever it takes!» pronunciato nel luglio del 2012 che ha permesso di evitare – almeno finora – l’implosione dell’Eurozona e della moneta unica. Per questo non si può restare indifferenti di fronte alla denuncia nei confronti di «forze che cospirano per tenere bassa l’inflazione» che il Presidente della Bce ha elevato in una pubblica conferenza organizzata dalla Bundesbank a Francoforte.
Di solito era la sinistra a indulgere alle teorie del complotto. Al punto che uno dei più importanti dirigenti del Pci, Aldo Tortorella, intellettuale raffinato e dotato di senso dell’umorismo, è solito ironizzarci sopra, dicendo che la sinistra è spesso vittima delle sue stesse macchinazioni. Qui invece il “complottismo” viene agitato da ben altra sponda.
Da quando la dichiarazione è comparsa sulle agenzie di tutto il mondo si è aperta una caccia all’interpretazione autentica del pensiero draghiano. Cosa avrà voluto dire? Con chi ce l’ha questa volta? Non vogliamo ergerci a esegeti, ma forse se applichiamo lo schema “alla Tortorella”, cambiandone i protagonisti, ci avviciniamo alla verità: i cospiratori vanno ricercati tra i palesi responsabili della grande crisi.
La stessa Bce nel suo bollettino mensile prevede «che i tassi di inflazione rimangano estremamente contenuti o che passino in territorio negativo nei prossimi mesi». L’obiettivo della Bce, di raggiungere e stabilizzare il 2% di inflazione è quindi assai lontano. Per questo Draghi aveva assunto nuove misure e un potenziamento del Quantitative Easing. Ma l’esito, come non era difficile prevedere, è stato per ora una debacle. Al punto che le previsioni della stessa banca centrale su un innalzamento dei tassi inflazionistici alla fine del 2016 non appaiono fondate altro che sulla speranza che le nuove misure di politica monetaria abbiano una qualche influenza diretta sulla crescita dell’economia reale. Poiché questo non è avvenuto, malgrado i fiumi di denaro pompati dalla Bce, non vi è ragione di credere che possa avvenire domani a situazione dell’economia reale inalterata. Siamo nel campo assai aleatorio del pensiero desiderante, ovvero del wishful thinking.
Chi sono i cospiratori?
Sono le forze che infieriscono brutalmente sul sistema pensionistico greco. Quelle che puntano tutto sulla speculazione finanziaria quale forma preferenziale se non esclusiva di massimizzazione dei profitti, facendo così levitare nuovamente la massa di titoli finanziari derivati sopra ai livelli antecrisi. Sono quelle che giocano sul prezzo del petrolio e delle materie prime, anche contro i loro interessi immediati in nome di mirabolanti disegni di riposizionamento su uno scacchiere mondiale in movimento, minacciato da guerre che si allargano. Quelle che si preparano a fare le barricate contro l’invasione dei prodotti cinesi, a seguito dell’accettazione della clausola di economia di mercato, mentre contemporaneamente spingono per la firma del Ttip, che renderebbe indifendibile lo spazio giuridico ed economico europeo dal dominio delle multinazionali a prevalenza statunitensi.
Quelle, come il “nostro” Renzi, che invocano la flessibilità per alcuni decimali contro le norme di trattati che essi stessi hanno contribuito a scrivere, e a costituzionalizzare, anziché proporsi di cambiarli da cima a fondo.
«Assessore alle privatizzazioni. Di Forza Italia». Un assessore alle privatizzazioni? Del partito di Berlusconi? Sembra una cosa singolare. Se si aggiungesse «... diventa viceministro all’Economia del governo del Pd» saremmo quasi sicuri che si tratta o di un articolo satirico alla Stefano Benni o di un personaggio inventato stile Antonio Albanese (ci ricordiamo il «ministro della Paura»?). Invece è vero. Tutto vero. Anzi quasi peggio: Luigi Casero, viceministro del dicastero dell’Economia e delle Finanze di Renzi, è stato responsabile economico di Forza Italia ed è rimasto al ministero ininterrottamente dal 2008 come sottosegretario all’Economia con Berlusconi...
«Un decreto che accelera le privatizzazioni e forzail controllo politico delle aziende. Come contrastare la politicadel governo con la battaglia dei referendum». Il manifesto, 30 gennaio 2016 (m.p.r.)
Annunciato in pompa magna, comeil decreto che farà scendere lesocietà partecipate da Enti pubblicida 8000 a 1000, è dunque stato approvatodal consiglio dei ministri il provvedimentopresentato dalla ministra Madia,che dovrebbe riordinare tutto il variegatomondo delle società dei servizi posseduteo partecipate dal pubblico.Appare già evidente che la finalità primadel provvedimento in questione nonsta solo nella "semplificazione"annunciata oin un'accelerazione delleprivatizzazioni, ostacolandola forma gestionaledelle aziendepubbliche, ma, ancorpiù, nell'idea di costruireun forte controllo politicosulle società partecipate.
D'ora in avanti, le societàpartecipate dalpubblico saranno governateda un numeromolto ristretto di amministratori,se non daun amministratore unico,e viene istituita un'Unità di controllo sullesocietà partecipatepresso il ministero delTesoro con il compitodi dare attuazione aldecreto, comprendendoanche la possibilitàdi effettuare ispezionipresso gli uffici delle societàstesse.Ci si muove in continuitàcon un'impostazioneper cui la gestionepubblica rispondedirettamente al potereesecutivo e si prova adabbattere le autonomiedegli altri poteri edelle altre articolazionistatuali: ciò che si tentadi realizzare, solo per fare qualche esempio,nel ridimensionare il ruolo del Parlamento,con l'abolizione delle Province,nel rendere la Rai subordinata alle sceltedel governo e persino con le ultime propostee nomine "eccellenti", da Carrai aCalenda.
E’ da almeno un anno e mezzo che vienerilanciata in modo molto forte unanuova strategia di privatizzazione e finanziarizzazionedei servizi pubblici, apartire da quelli locali. Su un impianto legislativomesso a punto con lo SbloccaItaliae con la legge di stabilità approvataalla fine del 2014, si prevede che le risorseincassate dagli Enti locali, in caso divendita di quote societarie di aziendepartecipate dagli stessi, possono essereutilizzate al di fuori dai vincoli del patto distabilità. E, in sintonia con quel quadro legislativo,promuovendo processi di acquisizionee fusione da parte delle grandiaziende multiservizio quotate in Borsa,sempre più privatizzate, Iren, A2A, Hera eAcea, nei confronti delle aziende di dimensionimedio-piccole, con l'intentoche, nel medio periodo, esse arrivino a gestirela gran parte dei servizi pubblici locali,in una logica orientata dalla quotazionein Borsa e dalla distribuzione dei dividendiai soci.
Quello che si sta delineando è, dunque,un "nuovo" intreccio tra economia e politica,per cui alla prima si consegnano lescelte di fondo del modello economico esociale e alla seconda, una volta ristabilitoun meccanismo di comando e controllosull'intervento pubblico, un ruolo, deltutto subalterno, di accompagnamento-condizionamentodella prima.
Il movimento per l'acqua ha contrastatoe continua a contrastare questo disegno;lo facciamo nei territori, con la mobilitazionein contrasto alle nuove privatizzazionicentrate sulle grandi aziendemultiservizio e per affermare la ripubblicizzazionedel servizio idrico, assieme alleazioni di tutela della risorsa acqua, anch'essasempre più insidiata dai fenomeniindotti dall'aggressione al territorio edal cambiamento climatico. Lo facciamoa livello nazionale, rilanciando la nostraproposta di legge di iniziativa popolareper la ripubblicizzazione del servizioidrico, che dovrebbe riprendere la discussionein Parlamento. E ora siamo intenzionatia farlo nella direzione di promuoveresia una proposta di legge di modificacostituzionale per affermare il dirittoall'acqua e, più in generale, tutti i dirittifondamentali, togliendoli dal giogo deivincoli di bilancio, sia una nuova iniziativareferendaria, che vuole abrogare proprioquel provvedimento che incentivagli Enti locali a dismettere le quote di proprietàpubblica delle aziende che gestisconoi servizi pubblici locali, cioè a privatizzarle.
La nostra iniziativa referendaria, peraltro,vuole esplicitamente costruire unaconnessione con gli altri movimenti esoggetti che stanno, a loro volta, ragionandosu quesiti referendariche aggredisconoquestioni di fondosu cui sono intervenutele scelte neoliberistee regressive del governoRenzi in quest'ultimoanno e mezzo. Ilmovimento per la scuolapubblica sta predisponendoun'iniziativareferendaria per abrogarele parti più inaccettabilidella controriformadella scuola; ilmovimento contro letrivellazioni petrolifereha deciso di percorrereuna strada analoga perchiedere il pronunciamentopopolare controtutte le trivellazioni,in mare così come interraferma, oltre gli sviluppidella vicenda referendariapromossa dadiverse Regioni; diversisoggetti sindacali, apartire dalla Cgil, sonoimpegnati in una discussioneper valutarel'opportunità di presentareuna proposta referendariasui temi del lavoroe contro il Jobsact.
Si stanno profilandole condizioni perché,nella prossima primavera,si possa sviluppare una vera e propriastagione di referendum sociali - e bisogneràlavorare alacremente e con intelligenzaper la sua effettiva realizzazione.Una stagione che coordinata ad unitaria.Fatta salva l'autonomia di movimenti,soggetti sociali, soggettività politicheche potranno eventualmente sostenerla,il punto di fondo e di forza delle iniziativereferendarie è mettere al centro i temidel modello sociale e della democrazia:l’uno piegato ad una logica per cui il mercatoè l'unico regolatore, l’altra svilita ecompressa per renderla funzionale aquell'obiettivo.Senza sovrapporre referendum socialie referendum costituzionale, è però evidenteche, se si vuol evitare di stare sulterreno plebiscitario che non casualmenteRenzi propugna per affrontare il referendumcostituzionale, né farsi schiacciareda una discussione tecnicista sulruolo del Senato, occorre, come suggeritoda Gaetano Azzariti qualche giorno fasu questo giornale, far emergere il nessotra l'idea del suo restringimento e l'abbattimentodi diritti sociali fondamentali.Ma di questo avremo modo di tornarea parlare.
Quando il movimento Occupy Wall Street lanciò lo slogan «siamo il 99%» probabilmente non immaginava che solamente pochi anni dopo quel 99% sarebbe realmente stato la parte più povera del pianeta. Eppure oggi l’1% più ricco della popolazione ha un patrimonio superiore a quello del rimanente 99%. Sono alcuni dati contenuti nell’ultimo rapporto di Oxfam sulle diseguaglianze, presentato in vista del Forum di Davos dei prossimi giorni.
Sempre secondo il rapporto An economy for the 1%, non solo le diseguaglianze stanno aumentando, ma stanno addirittura accelerando. Nel 2010 bisognava prendere i 388 miliardari più ricchi per arrivare al patrimonio della metà più povera del pianeta. Nel 2014 bastava fermarsi all’ottantesimo. Oggi sono 62. Sessantadue persone sono più ricche di 3,6 miliardi di esseri umani. Sessantadue persone che in cinque anni hanno visto la propria ricchezza crescere del 44%, oltre 500 miliardi, mentre la metà più povera del pianeta si impoveriva del 41%.
Ancora, dall’inizio del secolo alla metà più povera del mondo è andato l’1% dell’aumento di ricchezza, mentre l’1% più ricco se ne accaparrava la metà. È un fenomeno particolarmente drammatico nei Paesi più poveri, ma che accomuna tutto il mondo. Nel Sud, il 10% più povero ha visto il proprio salario aumentare di meno di 3 dollari l’anno nell’ultimo quarto di secolo. Se le diseguaglianze non fossero cresciute durante questo periodo, 200 milioni di persone sarebbero uscite dalla povertà estrema. Nello stesso arco di tempo, negli Usa lo stipendio medio è cresciuto del 10,9%, quello di un amministratore delegato del 997%.
In questo quadro, di quale ripresa, di quale crescita, di quale economia parliamo? Tralasciamo l’insostenibilità ambientale e persino l’ingiustizia sociale. Guardiamo unicamente le conseguenze economiche. In uno studio recente l’Ocse ricorda che le diseguaglianze hanno causato una perdita di oltre 8 punti di Pil in vent’anni. Un’enormità. Il motivo è semplice: se famiglie e lavoratori sono sempre più poveri, calano i consumi e quindi la domanda aggregata. Una “soluzione” è indebitare famiglie e imprese per drogare la crescita del Pil. È il modello subprime, un’economia del debito che può funzionare per qualche anno, finché inevitabilmente la bolla non scoppia.
L’altra soluzione è scaricare il problema sul vicino, puntando tutto sulle esportazioni. Tagliamo stipendi e diritti di lavoratrici e lavoratori, tagliamo le tasse alle imprese e il welfare. Ovviamente aumenteranno le diseguaglianze e crollerà la domanda interna, ma saremo più competitivi e quindi esporteremo di più.
È l’attuale modello italiano ed europeo, riassunto nel documento “dei cinque presidenti”, promosso da tutte le istituzioni europee per tracciare la linea dei prossimi anni. Nel capitolo dedicato alla “convergenza, prosperità e coesione sociale” si riesce nell’impresa di non menzionare mai parole quali “diritti”, “reddito” o “diseguaglianze”, mentre viene utilizzata per diciassette volte la parola “competitività” (17!).
Un modello in cui la crescita delle diseguaglianze non è quindi un fastidioso effetto collaterale, ma la base stessa di un gioco pensato e tagliato su misura per l’1%. Una gara verso il fondo in ambito sociale, ambientale, fiscale, monetario, per vincere la competizione internazionale. La semplice domanda è: se le diseguaglianze aumentano ovunque e la gara è globale, è possibile che tutti esportino più di tutti? In attesa che la Nasa scopra che c’è vita su Marte per potere esportare anche li, questa economia dell’1% non sembra particolarmente lungimirante, come mostrano le cronache di questi giorni.
A chi deve esportare una Ue che nel suo insieme ha già oggi il maggior surplus commerciale del pianeta? Si guarda all’Asia e alle economie emergenti come mercato di sbocco, ma ecco che un calo della Borsa di Shanghai rischia di diventare una tragedia per l’economia italiana. Siamo arrivati al paradosso che pur importando petrolio dobbiamo sperare che il prezzo del greggio non continui a scendere, altrimenti i Paesi esportatori non potranno acquistare il nostro made in Italy.
I dati divulgati da Oxfam sono un affronto e una vergogna dal punto di vista della giustizia sociale, ma sono disastrosi anche da quello meramente economico. Una ricetta per una nuova crisi. Il problema è che l’aumento delle diseguaglianze dal 2008 a oggi è anche un segnale fin troppo evidente di chi rimane con il cerino in mano quando questa crisi scoppia. Ed è allora difficile che il messaggio venga recepito a Davos, all’incontro annuale di quell’1% — anzi, di quel zero virgola — che continua a guardare dall’alto, sempre più dall’alto, oltre il 99% dell’umanità.
–> Firma la petizione di Oxfam contro i paradisi fiscali
Sbilanciamoci.info, newsletter n. 456 del 13 gennaio 2016
Il 2016 non si apre sotto i migliori auspici. Una situazione politica incerta su diversi fronti, i problemi dell’emigrazione in Europa, il terrorismo, le apparenti sbandate della Cina, un livello di indebitamento molto rilevante in diverse aree del mondo, sembrano essere alcuni dei fattori negativi che abbiamo davanti.La crescita mondiale
Solo qualche mese fa l’FMI prevedeva per il 2016 una crescita del pil mondiale del 3,6%. Ora la Banca Mondiale stima per l’anno in corso un aumento del pil del 2,9%; ricordiamo, tra l’altro, che nel 2014 si era registrato il 3,4% e nel 2015 il 3,1%. Si tratta di un rilevante rallentamento, che dovrebbe lasciare il campo nel 2017 ad una ripresa minima (3,1%).
Bisogna comunque distinguere tra le varie aree del mondo (Guélaud, 2016, a), perché comunque lo sviluppo appare molto ineguale. Per gli Stati Uniti la stima di crescita è del 2,5% per il 2015 e del 2,7% per il 2016; per la zona euro il quadro appare meno positivo, indicando rispettivamente l’1,5% e l’1,7%.
Ma il peggioramento delle previsioni globali deve essere collegato soprattutto al rallentamento di una parte dei paesi emergenti. Ricordiamo che, sempre secondo le stime dell’FMI, il loro peso sul pil mondiale è stato nel 2015 del 58%: quindi i destini di tale area, in particolare del continente asiatico, sono ormai determinanti per il futuro economico del mondo, più di quelli dei paesi ricchi.
Le previsioni sono parecchio negative per il Brasile e per gli altri paesi dell’America Latina, anche se esse appaiono meno disarmanti che per il 2015. L’Africa del Nord e quella sub-sahariana cresceranno un po’ di più. Ma gran parte dell’Asia andrà decisamente bene: 7,3% per l’India, 6,3% per l’Asia dell’Est e il Pacifico, 7,3% per l’Asia del Sud, 6,7% per la Cina, in leggero rallentamento; in miglioramento, anche se ancora in territorio negativo, la Russia.La Cina
La Cina rappresenta un caso a se e, anche per la sua importanza per la crescita mondiale, merita una trattazione a parte.
Ricordiamo intanto che un aumento del pil ormai intorno al 7% all’anno significa – se utilizziamo per le stime il criterio della parità di potere di acquisto-, che ogni anno si aggiunge a quello precedente un pil pari grosso modo a quello spagnolo, un dato enorme.
Come è noto, il paese sta effettuando il passaggio da un’economia centrata sull’industria ad una sui servizi, da una crescita basata su investimenti ed export ad una basata sui consumi interni, inoltre con gli assi dello sviluppo puntati verso un’economia pulita e l’acquisizione di un alto livello tecnologico.
Nel frattempo si deve governare una riduzione della capacità produttiva in alcuni settori (non si può produrre più del 50% dell’acciaio mondiale!), ridurre l’ingorgo del settore immobiliare, ristrutturare le imprese statali, controllare l’indebitamento, combattere la povertà. Compiti immani, ma la dirigenza cinese ha mostrato in tutti questi decenni di saper gestire problemi anche più rilevanti.
Mentre tutti sottolineano il rallentamento dell’industria, inevitabile nel perseguimento di tale strategia, molti censurano invece la forte crescita dei servizi; così, ad esempio, il turismo è in pieno boom e quello estero è aumentato del 16% nel 2015, le vendite di biglietti per il cinema sono cresciute del 50%, quelle dismartphone si riducono in quantità, ma aumentano fortemente in valore unitario (The Economist, 2015).
Nel 2015 dovrebbero essere stati creati intorno ai 14 milioni nuovi posti di lavoro, mentre i salari crescono in maniera sostenuta.Le due crisi
Ma ora siamo di fronte alla crisi della borsa e a quella della moneta.
Per quanto riguarda la prima, bisogna ricordare che gli investimenti stranieri nel settore sono quasi inesistenti e che quindi non ci dovrebbero essere ripercussioni dirette delle difficoltà sul resto del mondo. La borsa cinese è un affare quasi solo spinto dalla speculazione e non ha alcun collegamento con l’economia reale (Authers, 2016). D’altro canto, i titoli erano saliti troppo in alto e ancora oggi essi sono grosso modo dove erano un anno fa. Peraltro i regolatori cinesi devono imparare a gestire meglio la questione.
Qualcuno ha scritto che la Cina dovrebbe semmai celebrare il collasso del suo mercato di borsa, che era molto gonfiato rispetto alla realtà (Zhang Joe, 2016).
Più importante appare la svalutazione della moneta. L’intento ufficiale non è certo quello di incoraggiare le esportazioni, dal momento che le priorità politiche sono diverse. L’obiettivo è quello di sganciare il cambio dello yuan da quello del dollaro ed ancorarlo invece ad un basket di monete, aiutando il passaggio ad una situazione maggiormente determinata dalle forze del mercato.
Ma l’operazione è stata portata avanti in maniera maldestra e poco chiara, insospettendo i mercati internazionali, che, più in generale, in questo momento non si fidano dei dati cinesi. Essi temono una forte svalutazione della moneta (per volontà cinese o per una fuga di capitali fuori controllo) e una rilevante riduzione del tasso di crescita del pil.
Ma il paese ha un bilancio forte, con entrate crescenti, con riserve di cambio molto elevate, alimentate da un considerevole surplus della bilancia dei pagamenti. D’altro canto, l’instabilità dei mercati appare anche un riflesso delle paure degli stessi per la situazione dell’economia occidentale.Le novità non hanno effetti solo negativi sul resto del mondo
Nonostante il rallentamento, la Cina resta il paese che ha maggiore influenza sullo sviluppo mondiale; nei prossimi anni essa probabilmente peserà tra un terzo e la metà della crescita globale del reddito, del commercio e della domanda di materie prime e la sua importanza continuerà ad aumentare insieme alla sua quota dell’economia mondiale (Summers, 2015).
La modifica del suo modello di sviluppo non ha effetti solo negativi sugli altri paesi (Guélaud, 2016, b). Certo, la riduzione nei livelli di acquisto delle materie prime sta portando rilevanti danni all’America Latina, a diversi paesi africani e a qualcuno asiatico. Più in generale il rallentamento delle importazioni, generato, oltre che dalla riduzione nei tassi di crescita, anche dall’aumento della percentuale dei prodotti fabbricati in patria – tra l’altro, la componente di importazioni dei consumi è in genere di circa 11 punti inferiore a quella degli investimenti- e dalla maggiore qualificazione delle produzioni, danneggia diversi paesi nel mondo, tra cui anche Germania, Corea del Sud, Giappone; d’altro canto, la crescita degli investimenti esteri, lo sviluppo dei grandi progetti della “nuova via della seta”, il varo di diverse banche di investimento per i paesi emergenti, la spinta del turismo, dovrebbero servire a riequilibrare almeno in parte la partita. Così la forte crescita del turismo dovrebbe portare benefici a diversi paesi asiatici, Giappone, la Corea del Sud, Tailandia, Vietnam, Taiwan; in alcuni di tali paesi l’aumento della spesa dei viaggiatori cinesi negli ultimi anni ha compensato la riduzione delle esportazioni.
La crescita delle delocalizzazioni verso altri paesi, indotta dall’aumento del costo del lavoro, favorisce diverse realtà, dal Vietnam, all’Africa del Sud, alla Tailandia, alle Filippine.Conclusioni
l’economia mondiale rallenta a causa di problemi economici, finanziari, politici, non risolti e la situazione non appare brillante sino a tutto il 2018. Sarebbero necessari, tra l’altro, maggiori stimoli alla domanda e agli investimenti (Ragot, 2016), frenati invece, tra l’altro, da interessi forti e da un alto livello di indebitamento.
Ma tale rallentamento appare distribuito in maniera non uniforme sulla superficie del globo. La volata dello sviluppo continua ad essere comunque tirata dai paesi asiatici. Al di la del fatto che le autorità cinesi devono imparare a gestire meglio la finanza e a mandare segnali più chiari al mercato, non sembrano esserci ragioni importanti che facciano temere che le cose in Cina si potrebbero deteriorare fortemente.
Il paese dovrebbe proseguire con i suoi programmi di ristrutturazione dell’economia, certo senza escludere qualche intoppo. Ma bisogna avere una visione realistica delle cose e considerare che la sua influenza sul resto del mondo appare, al momento, insostituibile. In particolare anche nel 2016 il paese sarà determinante nel fissare la strada dell’economia mondiale.Appendice
Non molti anni fa i politologi anglosassoni si domandavano se la Cina, sviluppandosi, si sarebbe rivelata come una attrice “responsabile” del sistema economico e politico globale (Stephens, 2015). Ma appare sempre più chiaro che la crescita del paese è l’evento più importante della nostra epoca e che Pechino intende essere ormai un produttore di regole, non un allievo ubbidiente ai vecchi padroni, anche perché l’Occidente le ha offerto sino ad oggi appena uno strapuntino al tavolo del potere mondiale. Ma questa sarebbe un’altra storia da raccontare.
Testi citati nell’articolo
Authers J, A frail economy caught in China’s tumble, www.ft.com, 8 gennaio 2016
Guélaud C., A peine repartie, l’économie mondiale patine, Le Monde, 8 gennaio 2016, a
Guélaud C., Les deux faces de la décélération en Asie, Le Monde, 8 gennaio 2016, b
Ragot X., Le progrès technique n’est pas le problème, Alternatives Economiques, n. 353, gennaio 2016
Stephens P., Now China starts to make the rules, Financial Times, 29 maggio 2015
Summers L., Grasp the reality of China rise, www.ft.com, 8 novembre 2015
The Economist, Doughty but not superhuman, 26 settembre 2015
Zhang Joe, Deflate stock market and allow China’s fortunes to swell, www.ft.com, 4 gennaio 2016
Ciò che colpisce più della determinazione reazionaria di Angelino Alfano sono i velami d'ipocrisia nei quali Matteo Renzi cerca di dissimulare il suo disprezzo per i principi più elementari del diritto e dell'umanità. La Repubblica, 9 gennaio 2016
La città conquistatrice, rivista online, 24 dicembre 2015
In ciascuno di questi quartieri c’era anche una piazza del mercato, niente di particolare in fondo, ma c’era proprio di tutto, i negozietti, i locali, la gente che andava e veniva. Quartieri tutti diversi uno dall’altro, ma che insieme componevano una trama, una specie di barriera corallina. Un bel giorno arrivò un visitatore da molto lontano, da una città della Cina che si chiamava Shanghai, sul fiume Yangtze. Doveva stare a spiegare a tutti quanti come si pronunciasse quella strana parola, Yangtze, ma appariva comunque molto imponente. Con quella sua voce autorevole, raccontava alla gente di Londra delle strane cose avvenute là a Shanghai. Cose che in un primo tempo apparivano magiche e incantate: una vera e propria esplosione di architetture come fuochi artificiali, edifici diversissimi ma tutti alti e imponenti. Ma poi il racconto si faceva un po’ tetro: «Avevamo abitato sempre in quartieri densi e brulicanti. Poveri, ma in fondo ci si viveva bene, a Shanghai».
Proseguiva, quel visitatore: «Poi tutto cambiò, con le demolizioni. I nostri quartieri Scomparivano sotto le ruspe». E perché, chiedevamo noi. Come avremmo scoperto presto, era per far spazio ai nuovi grandi edifici, scacciando la gente dalle proprie case e quartieri: spinti via verso le più lontane periferie, a milioni.
«Da lontano – proseguiva il racconto del visitatore – non sapendo cosa succedeva Shanghai poteva apparire magnifica e grandiosa con tutte le sue torri svettanti. Ma da dentro i quartieri si viveva l’altra faccia della medaglia». Anche gli abitanti di Londra ci vedevano qualcosa di familiare in quella storia. Era stato spettacolare in un primo tempo guardare la costruzione di nuovi grandi edifici, anche se si spianavano vecchi quartieri, ma poi quelle demolizioni erano diventate davvero troppe, e la città diventava un posto estraneo.
Si sentiva anche di altri posti dove succedevano le medesime cose, città che diventavano tutte identiche una all’altra, con quegli edifici alti. Era come se un mostro gli strisciasse dentro nelle viscere divorandola dall’interno: Gnam-gnam-gnam. «Non si può vivere in una città se non è fatta di quartieri – diceva tutta la gente – perché è lì dove abitiamo, facciamo la spesa, andiamo a scuola». Ma il mostro continuava a divorarli, i quartieri, per far spazio alle sue torri, in un enorme posto senza forma a cui non si sapeva più che nome dare. Il mostro lo chiamava «urbano», ma non c’era più nessuna trama come nei vecchi quartieri, e neppure nel centro della città. Si cancellavano le case, i negozi, le vie, le piazze. Tempi grami, dove sparivano tutti i posti per vivere, sepolti dalle torri che il mostro continuava a eruttare: non c’era ormai nient’altro che quel nulla.
Si capiva che il mostro veniva alimentato dall’esterno, arrivava ovunque per metterci una nuova torre, anche nel cuore di vecchi quartieri dove nessuno si sarebbe mai sognato di invitarlo. Lo si temeva in ogni luogo, quel mostro vorace, ma la città non si sarebbe certo lasciata divorare così, senza combattere. In fondo, era sopravvissuta a tanti momenti oscuri nei secoli, uscendone sempre viva, a differenza di tutti quei re, regine e tanti potenti di un tempo. I quartieri si unirono nella battaglia contro il mostro.
… Poi una notte, una bambina ebbe un sogno. Si chiamava Copernica, e la sua famiglia era stata sfrattata dal quartiere dove abitavano. O forse non era un sogno, magari una visione, o magari una notizia in televisione chissà. Comunque sia, Copernica sognò che quanto il mostro aveva fatto a Londra, lo aveva fatto anche in altre città che aveva studiato a scuola: New York, Istanbul, Rio de Janeiro, Tokyo, San Francisco. Quel sogno assomigliava sempre più a un incubo. Il mostro adesso era lì aggrappato al davanzale della finestra della camera. Ma, sorpresa, parlava adesso con voce infantile e lamentosa, era quasi divertente: «Ciao, non so più dove andare. Quel che mi alimenta continua a crescere sempre più, ma so che dovrebbe vivere al sole, non certo in quella fosca ombra sotto le torri». La bambina aveva smesso di essere spaventata, perché chi piagnucola così non può essere pericoloso, l’aveva imparato in cortile a scuola. Il mostro proseguiva: «Hai qualche consiglio da darmi? Me ne danno tanti, ma poi hanno paura anche a guardarmi, non vogliono avere a che fare con me, quei consulenti».
La bambina non capiva molto bene, soprattutto chi diavolo fossero quei cosi, quei «consulenti», ma intuiva che ci fosse la possibilità di cambiare in qualche modo le cose. Doveva farlo, e farlo subito, prima che il mostro potesse ridiventare all’improvviso cattivo e pericoloso un’altra volta. Non le veniva nessuna idea, finché alla fine si ricordò di una lezione di geografia a scuola, quella sui deserti e le tecniche per le energie solari.«Forse posso suggerirti una cosa: di riversare tutte le tue energie nel Sahara!» disse al mostro. «Ne hai abbastanza per ricoprire chilometri e chilometri quadrati di deserto con celle solari. E poi metterci sotto quartieri giardino con le case per tutta la gente che ne ha un gran bisogno».
Era davvero tutto molto eccitante, pensava, bellissimo anche se a farlo era il mostro. Che però pareva perplesso: «Ma come faccio – piagnucolava – a distendermi così sopra il deserto?». Gli rispose Copernica: «Pensa che per ogni singola cella, guadagni una monetina di quelle di cui ti nutri». E alla fine il mostro uscì dalle tenebre dove si annidava, tra le torri, dirigendosi verso il deserto del Sahara. La gente era entusiasta all’idea di tutti quei pannelli solari per la vita, delle nuova generazione di «città-oasi» a ospitare tutti, non solo turisti, uomini d’affari e ricconi.
Ma poi la bambina si svegliò di colpo, con un brivido di terrore: quel mostro non avrebbe mai e poi mai usato il suo potere per la gente, lui pensava solo a sé stesso: «Andrà a finire che costruirà l’ennesima selva di torri smisurate anche in mezzo al Sahara – gridò – chiamandola smart city …»
La Repubblica, 15 dicembre 2015
L’ossessione della propaganda del partito-Stato per «l’amore di Papà Xi verso l’Africa», rivela al mondo una realtà ben più matura di un’infantile passione per le bestie esotiche: dopo un corteggiamento durato decenni, la Cina sta completando la conquista economica e politica dell’Africa. Europa e Usa sono impegnate a respingere le ondate migratorie e a combattere contro il contagio del terrorismo islamista nella fascia mediterranea del continente, scontando le colpe storiche di colonialismo e schiavismo.
La Cina invece, non appesantita nemmeno da tradizioni religiose missionarie, avanza silenziosamente a suon di prestiti e contratti miliardari, rispettando la regola diplomatica numero uno di Pechino: la «non ingerenza negli affari interni». Significa che il Dragone paga, costruisce, acquista e commercia senza porre problemi politici o chiedere il rispetto dei valori universali, condivisi dalle grandi democrazie. Risultato: solo 9 Paesi africani economicamente minori, Gambia, Guinea- Bissau, Burkina Faso, Lesotho, Swaziland, Repubblica Centrafricana, Somalia e Somaliland, non possono vantare oggi investimenti cinesi. Per tutti gli altri la Cina è ormai il primo partner commerciale, il primo banchiere, il primo finanziatore di infrastrutture, ma soprattutto il primo sponsor nelle istituzioni internazionali.
Lo scorso anno Pechino ha riservato allo sviluppo africano 222 miliardi di dollari. A inizio dicembre a Johannesburg Xi Jinping ha presieduto il secondo Forum in 15 anni della Cooperazione Cina-Africa, annunciando progetti sostenuti da altri 60 miliardi. Erano assenti solo i leader di Sao Tomè, Burkina Faso e Swaziland, auto-esclusi dal riconoscimento diplomatico di Taiwan.
Il «safari africano» di Pechino, pronto a colmare il vuoto lasciato dalla fine della Guerra Fredda tra Washington e Mosca, presenta oggi un bilancio impressionante: oltre 2.500 progetti avviati e finanziati in 51 nazioni, per un valore superiore a 94 miliardi di dollari. Senza l’appoggio cinese la metà dei bilanci pubblici dei Paesi africani rischierebbe il fallimento, con conseguenze prevedibili per la stabilità interna.
L’ultima missione di Xi Jinping, a inizio dicembre, ha impresso però al grande patto sino- africano un cruciale salto di qualità: dall’intesa economica all’alleanza strategica, politica e militare. All’assemblea generale dell’Onu, in settembre, il presidente cinese aveva annunciato l’invio di un «contingente di pace » di 8mila soldati e lo stanziamento di un miliardo di dollari per sostenere la prima missione internazionale di Pechino, inaugurata tre anni fa contro la pirateria al largo del Corno d’Africa.
Nei giorni scorsi il ministero degli Esteri ha confermato invece che la Cina costruirà la sua prima base navale in Africa, a Gibuti. Si tratta della prima base militare cinese all’estero, dell’esordio ufficiale della Cina tra le super- potenze belliche globali. La scelta è chiara: Gibuti ospita già basi di Usa, Francia e Giappone, la stabilità politica dal 1990 lo ha trasformato nell’avamposto straniero contro il terrorismo islamista in Somalia e nel presidio internazionale a difesa delle rotte commerciali tra Oriente e Mediterraneo, attraverso Suez.
Gibuti in Africa vanta però anche un’esperienza unica in approvvigionamento e forniture logistiche per eserciti e sistemi di difesa: costruire una base navale sullo stretto di Bab el-Mandeb, tra Mar Rosso e Oceano Indiano, consentirà a Pechino di blindare i suoi scambi commerciali con l’Africa, diventandone anche il primo alleato militare. Washington, Tokyo e Parigi fino all’ultimo hanno tentato di far naufragare l’avanzata cinese, per mantenere almeno la leadership della pace nel Golfo di Aden, affacciato sulle aree più sensibili del Medio Oriente. Il fatto che la stessa Unione Africana si sia infine schierata a favore della base cinese a Gibuti conferma quanto in profondità si sia ormai spinta l’influenza di Pechino nel continente. Una relazione a prova di crisi. Reduce da Parigi, dove aveva incontrato Barack Obama, Xi Jinping è infatti atterrato ad Harare nel momento peggiore del rapporto Cina-Africa. La frenata della crescita cinese quest’anno ha posto fine al boom delle materie prime, affossando ferro, uranio, rame, legname, petrolio, ma pure quelle necessarie per l’hi-tech.
L’export africano è crollato e i «metodi cinesi» nella conduzione delle imprese e nel rispetto dei lavoratori locali ha scatenato più di una rivolta sindacale, sollevando per la prima volta l’accusa di «neo-colonialismo» anche nei confronti di Pechino. Con Zuma e Mugabe, Xi Jinping ha così messo a punto 10 nuovi progetti di cooperazione, presentati poi al trionfale Forum con gli altri presidenti del continente: dalla prima ferrovia ad alta velocità, tra Dar es Salam in Tanzania e Lobite in Angola, allo sviluppo dei porti di Abidjan in Costa d’Avorio e Maputo in Mozambico; dall’oleodotto tra Gibuti e Ogaden in Etiopia a quello tra Juba in Sud Sudan e Mombasa in Kenya; dagli investimenti agricoli a quelli minerari, dalla costruzione di centrali atomiche e a carbone, dalla finanza al turismo, dall’hi-techall’industria farmaceutica.
Xi Jinping questa volta non ha però estratto solo il libretto degli assegni: agli alleati delle nazioni in via di sviluppo ha proposto un accordo che punta alla «costruzione di un nuovo sistema mondiale multipolare, sostenibile e giusto», alternativo a quello dominato dagli Usa e sostenuto dalla Ue. In cambio l’erede di Mao Zedong non ha offerto tassi agevolati sui prestiti, ma ha chiesto l’appoggio politico alla Cina nelle istituzioni mondiali, dall’Onu all’Fmi, dalla Wto alle federazioni che gestiscono il globalizzato business dello sport. Lo scambio con l’Africa non è dunque più materie prime-infrastrutture, ma l’esportazione cinese di un modello organizzativo, sociale, economico e militare alternativo a quello dell’Occidente.
Xi Jinping ha detto che la Cina continuerà ad avere bisogno di materie prime e di cibo, ma che la sua priorità oggi sono «nuovi mercati, alleanze strategiche e nuovi centri di produzione energetica ». Proprio Pechino, superando l’India, ha strappato a Parigi i finanziamenti per rendere sostenibile l’eco-compatibilità africana: e proprio Xi Jinping, esibendo la «negoziazione alla pari», ha ottenuto dai capi di Stato dell’Africa la promessa che appena lo yuan sarà pienamente convertibile, la casse del continente si svuoteranno di dollari e di euro per adottare il renminbi come valuta di riserva, se non addirittura come valuta di Stato. Le 5 colonne del nuovo «partenariato strategico globale» Cina-Africa sono «fiducia politica, cooperazione economica, influenza culturale reciproca, sicurezza e coordinamento internazionale».
L’immagine del nuovo imperatore cinese Xi Jinping che abbraccia un rinoceronte, circondato da pastori zulu che ballano, può far sorridere. I leader di Europa e Usa, nelle stesse ore, stavano però fronteggiando gli attacchi terroristi a Parigi e in California. Il Quotidiano del Popolo ha sintetizzato la coincidenza con l’editoriale: “La Cina lavora, l’Occidente combatte”. L’Africa “cinese” non è più lo specchio, forse irreversibile, del fallimento occidentale: sancisce che il secolo di Pechino, per tutti, è già cominciato.
la Repubblica e di Stefano Feltri su Il Fatto Quotidiano, 12 dicembre 2015 (m.p.r.)
La Repubblica
“HO LUIGI SULLA COSCIENZA
MA L'ORDINE DI MENTIRE CI ARRIVAVA DALLA BANCA”
di Federica Angeli
«Io Luigino me lo sento sulla coscienza perché mi sono comportato da impiegato di banca e se fossi stato una persona che rispettava le regole non gli avrei fatto fare quel tipo di investimento». Marcello Benedetti è un ex impiegato della banca Etruria di Civitavecchia. Licenziato un anno fa da quella filiale per un procedimento penale che ha in corso, Marcello ora monta caldaie in giro per la sua città. Il contratto delle obbligazioni acquistate da Luigino D’Angelo, il pensionato che si è tolto la vita per aver perso 110mila euro, porta la sua firma. Benedetti accetta di rilasciare l’intervista a patto che non si sfiori l’inchiesta che lo ha travolto, e che non riguarda i bond subordinati: su questo non può rilasciare dichiarazioni.
La Repubblica
Milano. Il loro nome è Bond. Subordinated bond. Al secolo, le obbligazioni subordinate delle banche. Fino a pochi mesi fa uno degli investimenti preferiti degli italiani, sicuro (si pensava) come i Bot e il lieto fine di 007. Oggi, per molti di loro, un incubo: più di 10mila persone hanno visto andare in fumo i risparmi di una vita, in un poker di salvataggi – Pop. Etruria, CariChieti, Banca Marche e Carife - che ha ridotto a carta straccia i 788 milioni di euro di titoli che avevano in portafoglio. Il loro dramma ha fatto scattare l’allarme rosso in centinaia di migliaia di famiglie: gli acquirenti dei 71 miliardi di strumenti simili “piazzati” sul mercato. Gente che spesso li ha comprati senza aver la minima idea del loro rischio, malgrado un tortuoso iter d’acquisto tra prospetti chilometrici, documenti informativi (o presunti tali) e consulenti a volte interessati. Ecco le tappe dell’Odissea di queste obbligazioni, dall’emissione fino alle tasche degli italiani, dal boom all’elettrochoc di queste ore.
Il manifesto, 12 dicembre 2015 (m.p.r.)
Scommetto che siamo stati in molti, appresa la tragica notizia del suicidio di Luigino d’Angelo, il pensionato di Civitavecchia depredato dei propri risparmi, a farci venire in mente la celebre domanda di Bertolt Brecht: «E’ più criminale fondare una banca o rapinarla?». Quesito non lieve e appropriato. Solo che andrebbe riferito non ad una banca sola ma all’intero sistema creditizio, a come viene normato e gestito tanto a livello italiano quanto europeo.
L’unica mela marcia pareva essere il Monte dei Paschi di Siena. Anche lì ci un fu un morto - il responsabile della comunicazione della banca - forse non proprio volontario. Si è voluto far credere che sanata quella falla le meravigliose sorti progressive del sistema bancario privato italiano potessero rifulgere. Di fronte a casi come quelli della Northern Rock inglese, salvata in extremis dal fallimento da una nazionalizzazione di fatto, si disse che le nostre banche non correvano simili rischi perché erano più solide. In realtà si perpetrava scientemente un inganno nei confronti dei piccoli risparmiatori che non hanno molto, presi uno per uno, ma che sono tanti e quindi si può fare cassa, come Ettore Petrolini diceva dei poveri. Bankitalia che avrebbe dovuto esercitare la necessaria vigilanza sugli istituti bancari non lo ha fatto o comunque non in misura opportuna.
Le cronache rivelano che un commissario di Bankitalia a suo tempo mise il naso negli affari di Banca Etruria. Tra questi la costruzione del panfilo più lussuoso del mondo, lungo ben 127 metri, per la quale si costituì una società garantita da un pool di banche con a capo l’Etruria, naturalmente fallita senza dare vita al mostro nautico e lasciando oltre 200 milioni di buco. Ma la credibilità del commissario di Bankitalia scese sotto lo zero quando si scoprì che era indagato altrove per l’acquisto di azioni proprie a prezzo maggiorato.
Così Bankitalia si è ritirata con la coda fra le gambe, evitando di procedere a un commissariamento che probabilmente avrebbe potuto evitare il disastro attuale. Il che non assolve le colpe dell’Europa, o meglio di alcuni paesi come, guarda caso, la Germania che hanno mobilitato 238 miliardi di aiuti per le proprie banche, né tantomeno permette di attribuire il titolo di virtuosi al governo e alle nostre autorità di controllo.
Il commissario europeo agli affari finanziari, Jonathan Hill, ha naturalmente difeso il salvataggio delle quattro banche perché coerente con la nuova normativa del bail-in (che impone il coinvolgimento degli azionisti e degli obbligazionisti), aggiungendo però che le banche italiane vendevano prodotti finanziari a gente ignara. La cosa ha indispettito l’establishment del nostro mondo bancario che ha reagito sostenendo che nei prospetti i rischi erano indicati. Ma si tratta di brogliacci dalla difficile lettura, certamente inadatti per fare da guida a una clientela inesperta. Quando si arriva al dunque il prospetto di Banca Marche, una delle pessime quattro, dice: «E’ quindi necessario che l’investitore proceda alla sottoscrizione (delle obbligazioni) solo dopo averne compreso la natura e il grado di esposizione al rischio». Il maresciallo de La Palisse non avrebbe saputo dire di meglio.
In realtà piccoli e medi risparmiatori sono stati lasciati in balia di voraci sportellisti, pronti a tutto pur di vendere i loro prodotti. E’ uno degli effetti collaterali della grande crisi. Soprattutto quando le banche erano in carenza di liquidità, quindi tra il crack di Lehman Brothers che spaventò il mondo degli istituti di credito e prima dei tassi favorevoli e dei Quantitative Easing di Mario Draghi, spregiudicati operatori hanno fatto di tutto per vendere bond bancari. Ora ve ne è meno necessità, ma nel frattempo – secondo i dati 2014 di Bankitalia – le famiglie italiane si trovano nelle tasche 237,5 miliardi di euro in obbligazioni bancarie. E non c’è da stare allegri.
Che fare allora? In primo luogo, se si vuole tutelare il risparmio e porre un argine a manovre spericolate, quando non direttamente truffaldine, bisognerebbe procedere alla separazione tra banche di investimento e banche commerciali. Quindi evitare di favorire a ogni costo le fusioni bancarie. Il decreto sulle banche popolari a suo tempo deciso dal governo Renzi va proprio in direzione contraria rispetto alla vicinanza fra territorio e istituti di credito. Ma la dimensione ridotta delle banche, i loro legami con zone geografiche circoscritte di per sé non sono una garanzia sufficiente. Lo dimostra la banca Etruria in quel di Arezzo, centro di molti guai per la democrazia italiana e essa stessa perno di un mostruoso connubio fra finanza massonica e finanza cattolica. Come ha scritto ieri Tonino Perna, abbiamo bisogno di più democrazia economica e questo riguarda anche il mondo bancario. Non c’è vigilanza che tenga se non si attribuisce un ruolo attivo ai soggetti sociali, ai soci del credito cooperativo. Se non si ha un’altra idea del credito al servizio e non a dominio dell’economia reale.
Ora si parla di commissioni di inchiesta parlamentare. Non comprendo le obiezioni contrarie. A suo tempo quella sul crack Parmalat svolse un buon lavoro. E’ vero che la qualità dei parlamentari era migliore, ma non è un buon motivo per negare alle Camere un ruolo forte di inchiesta che potrebbe scoperchiare altre pentole in ebollizione.
Intanto il governo prepara un emendamento per far fare da arbitro alla Consob, che giudicherà caso per caso sui 10.350 risparmiatori truffati e per istituire un fondo di 80 milioni (40 dallo Stato e 40 dal mondo bancario).
Basterà? La risposta è facile: no.
Possiamo anche comprendere, dopo la tragedia di Parigi, la campagna di enfasi sui valori dell'Occidente scatenata dai media della vecchia Europa. Possiamo anche essere indulgenti, dopo lo shock del 13 novembre, nel leggere l'infedele lista di virtù e primati che la parte del mondo dove tramonta il sole vanterebbe sul resto di popoli della terra. Partecipiamo dello stesso dolore e risentimento per l'aggressione subita, e conosciamo anche l'insuperabile superficialità dei nostri media, la propaganda politica camuffata di informazione ed analisi. Ma la lista dei nostri valori è infedele e incompleta non solo perché si limita a ricordare la libertà individuale, lo stile di vita, il rispetto della donna e pochissime altre cose.
Certo, non è questo il momento di andare così indietro nel tempo. Del resto, basterebbe rammentare le vicende recenti, a partire dalla prima Guerra del Golfo, come hanno fatto pochi onesti commentatori, capaci di pensare prima di scrivere. E tuttavia oggi bisogna rinserrare i ranghi e predisporre le difese per evitare che la tragedia si ripeta. Ma è in questi momenti che la mancanza di analisi critica, di lucidità, di onestà storica può indurre a compiere errori fatali. E allora, chiediamo: qual'è il senso dell'espressione “scontro di civiltà”, aggiornato a “guerra di civiltà”? Guerra di civiltà? Ma l'Occidente non ha mai smesso un istante di fare guerra agli altri da quando è sorto e si autodefinito come tale. L'espressione non è solo un capovolgimento clamoroso della realtà storica, è una rappresentazione del presente infondata sino al ridicolo. E' come se due entità alla pari, per l'appunto due civiltà, si fronteggiassero per conseguire un primato assoluto.
Tale realtà è vera e nota da tempo. Quel che cambia, quel che oggi appare più esemplarmente visibile, è l'intimo nichilismo del nostro messaggio. Un nichilismo che ha lo stesso volto per i giovani europei, bianchi e cattolici come per i ragazzi musulmani della banlieue parigina. Al di sotto delle fantasmagorie del consumismo, le società capitalistiche del nostro tempo svelano la desertificazione di senso a cui sono approdate. Non hanno nessun progetto di futuro da proporre, nessun nuovo assetto di civiltà con cui attrarre e sedurre culture altre. Tanto meno i giovani musulmani di seconda generazione, senza lavoro e senza opportunità. Qualcuno si ricorda più dell'American dream, del sogno americano?
Eppure l' Occidente per qualche secolo, mentre schiacciava altri popoli, ha tenuta alta la bandiera del progresso, almeno per i propri. Oggi non accade più, non si va avanti, si torna indietro. Perciò nel senso in cui si utilizza oggi il termine, Occidente è una moneta scaduta, non ha più corso. Dovremmo essere onesti e dire la verità. Il messaggio di morte dei terroristi è figlio legittimo di questo capitalismo predatore e senza speranza.
A titolo di doverosa precisazione rispetto a certe pur positive previsioni sociali ed economiche sulle innovazioni tecnologiche e organizzative: attenzione all'invadenza del solito potere finanziario incontrollato.
La Repubblica, 23 novembre 2015
Un ibrido tra i lavoratori in affitto, i lavoratori autonomi e gli agenti di commercio pagati in base ai clienti che procacciano o alle polizze che riescono a fare acquistare. Più che alla sharing economy il lavoro “uberizzato” fa venire in mente una versione tecnologica del mercato delle braccia che ancora esiste nelle campagne del sud e non solo. Certo, l’enorme differenza è che non c’è un singolo insindacabile compratore, ma una miriade di potenziali compratori tra cui scegliere secondo la propria convenienza e bisogno. Anche se poi c’è sempre un “padrone” invisibile, ma potente, che in base alle proprie insindacabili decisioni, pardon algoritmi, decide se tenerti o no sulla propria piazza virtuale e trae consistenti profitti dal tuo lavoro. Anche sulle piattaforme digitali si è lungi dall’essere uguali nei rapporti di lavoro. Imprenditori di se stessi, della propria forza lavoro, con l’illusione della libertà nella gestione del proprio tempo, ma non certo rispetto alle proprie necessità di bilancio, senza protezione finanziaria e senza welfare. Fuori dalla finzione del finto lavoro autonomo delle finte partite Iva e dei contratti a progetto che hanno le stesse rigidità del lavoro dipendente senza le medesime garanzie. Liberi professionisti, che tuttavia devono pagare salata l’intermediazione del loro lavoro. Questo sono i lavoratori che offrono il proprio lavoro sulle piazze intermediate della rete.
Per qualcuno, come si diceva una volta del lavoro interinale, può essere davvero una scelta di vita, che consente di lavorare quando e quanto si vuole, purché si guadagni abbastanza per soddisfare le proprie necessità, purché non ci si ammali troppo spesso o troppo seriamente, e senza preoccuparsi della vecchiaia. Per altri, specie se giovani ancora studenti, un modo relativamente facile di procurarsi un po’ di reddito senza dover dipendere del tutto dai genitori, che tuttavia provvedono al tetto sulla testa e al cibo in frigorifero, o per integrare una borsa di studio. Può anche essere un modo di procurarsi un secondo lavoro esentasse. Per molti, tuttavia, come testimoniano le prime azioni di protesta dei lavoratori per Uber o per Amazon, può essere una trappola sia sul piano economico che dei diritti ad essere trattati con giustizia.
Si veda, per gli aspetti positivi e le potenzialità sociali della sharing economy, l'articolo di Alessandro Rosina
La Repubblica Milano, 20 novembre 2015, postilla (f.b.)
Qualche mese fa scrivevamo su queste pagine che la sharing economy non è solo una . È molto di più, come ha confermato la terza edizione di “Sharitaly” che si è tenuta la settimana scorsa a Milano e che aveva proprio come sottotitolo “Non solo app. L’economia collaborativa nelle aziende, nelle pubbliche amministrazioni e nel terzo settore”. Scopo di tale manifestazione - promossa da Collaboriamo e da Trailab con il patrocinio del Comune di Milano - è stato quello sia di arricchire il dibattito teorico sulla sharing economy, sia di favorire la crescita concreta dell’economia collaborativa a Milano e in Italia.
La sharing economy viene spesso fatta coincidere con l’innovazione del car sharing e con la rivoluzione di Uber e di Airbnb, ma è molto di più. È vero che l’economia collaborativa è stata favorita dall’innovazione digitale e dalle nuove potenzialità offerte dal web, ma non è solo una questione di app. È vero che è stata stimolata dalla crisi economica, ma non è solo una questione di costi più bassi. È vero che sta cambiando il modo di intendere il rapporto tra possesso e accesso a beni e servizi, ma non è solo una questione economica. È tutto questo assieme e molto di più. La convenienza economica è importante nel breve periodo, ma l’elemento caratterizzante che può renderla un nuovo paradigma vincente nel medio e lungo periodo è quello sociale e relazionale. Collaborazione e condivisione hanno bisogno di fondarsi sulla fiducia. Su questo punto cruciale l’Italia ha una sua specificità che in parte è un vantaggio e in parte un limite.
Uno dei tratti salienti del modello sociale e di welfare dei Paesi dell’Europa mediterranea è la forte solidarietà. La grande propensione al sostegno reciproco e alla collaborazione si esprime però soprattutto all’interno di reti ristrette, in particolare in quella familiare e parentale. Sono molti gli studi e le ricerche che mostrano come i caratteri antropologici della famiglia italiana siano stati e ancor siano in grado di condizionare il modello economico. Rispetto agli altri Paesi sviluppati da noi è da sempre più forte la fiducia data ai contatti più stretti che alla società più ampia e alle istituzioni. In altre parole, nei Paesi mediterranei dominano i legami forti della famiglia e della comunità locale, mentre poco sviluppati sono i cosiddetti “legami deboli” che invece favoriscono l’interazione sociale ampia.
Questo non significa che in Italia la sharing economy non sia destinata a decollare, ma produce due implicazioni. La prima è che, come accaduto anche per altre innovazioni che si sono dovute confrontare in modo non scontato con il modello culturale italiano, può richiedere un po’ più di tempo prima di consolidarsi pienamente. La seconda è che avrà molta più possibilità di successo, come mostrano anche varie esperienze positive di crowdfunding, all’interno delle comunità locali interagendo sinergicamente con il welfare comunitario. Se però c’è un luogo in Italia in cui i legami deboli sono più attivi e dove i processi di innovazione vengono anticipati è Milano. Grazie anche al ruolo del Comune, questa città sta di fatto già diventando un laboratorio di sperimentazione di modelli di produzione collaborativa e di consumo condiviso. Una Milano che sempre meno sembra accontentarsi di essere la capitale finanziaria e sempre più può cogliere la sfida di un’economia diversa, più capace di creare valore sociale.
postilla
Il richiamo ai vincoli familiari e amicali, correttissimo e dovuto, da parte del sociologo, non sottragga però alle implicazioni direttamente economiche (che non escludono certo queste reti) del modello, che tende a fare sistema nei suoi aspetti organizzativi e motivazionali, assai più di quanto non ci dicano certi superficiali commentatori. Basta pensare che il primissimo e principale esempio del car-sharing, pur decantato e apparentemente coccolato dai media, da un lato viene sempre visto claustrofobicamente in ogni implicazione interna e mai accoppiato a tante altre cose con cui invece si intreccia eccome, dall'altro sono addirittura le istituzioni ad ignorarne, platealmente, le potenziali sinergie a vantaggio del cittadino. Due esempi, sempre per restare agli aspetti tecnologici-organizzativi citati in apertura da Rosina: non esiste a tutt'oggi una app unica trasversale, corrispondente magari a un sistema unificato di funzionamento dei vari operatori e mezzi, e neppure si vedono a occhio nudo stimoli istituzionali a promuoverla; last but not least, ci sono voluti anni e anni e anni, perché nella città forse più avanzata anche da questo punto di vista, Milano, qualcuno iniziasse a vagheggiare (vagheggiare, non si è fatto nulla) di qualche incentivo in più per gli operatori dei veicoli elettrici, che sono, quelli sì, un potentissimo stimolo all'innovazione, se accoppiati al sistema della condivisione, per esempio sul versante dei veicoli, ma anche della produzione e distribuzione sostenibile di energia, e così di questo passo. Sul medesimo giornale, nell'edizione nazionale, leggiamo una lunga intervista sulla «promozione del veicolo elettrico» in cui si propone come rivoluzionaria l'idea di mettere delle prese di corrente sulla A1 Milano-Roma, lasciando ovviamente tutto il resto dell'universo identico, auto di proprietà col solo guidatore incluse: quanta strada c'è da fare! (f.b.)
Per l'ignoranza dei più, la follia dei governanti, la complicità dei mass media rischiamo l'approvazione un trattato che può «violare i diritti umani, comportando disoccupazione, danni all'agricoltura, frodi alimentari, devastazione dell’ambiente, inquinamento delle acque, contaminazione radioattiva, deformazioni genetiche». Il manifesto, 17 ottobre 2015
In molti paesi civili, di là e di qua dall’Atlantico, dagli stessi Stati uniti alla Germania, il Ttip è oggetto di critiche severe e ben fondate.
Sia ai critici sia ai sostenitori del Ttip, e soprattutto a questi, sarebbe utile la lettura di un documento delle Nazioni Unite: Fourth report of the Independent Expert on the promotion of a democratic and equitable international order. È un documento circa le conseguenze giuridiche del Ttip, conseguenze non meno gravi — la privatizzazione del diritto — di quelle immediatamente economiche. Ne riprendo qui alcuni passi.
«È forse ammissibile che a un investitore che specula o a una banca che concede prestiti senza garanzie sia comunque assicurato un profitto? No: qualche volta gli investitori vincono, qualche volta perdono. Ciò che è anormale è che un investitore pretenda la garanzia di un profitto, e che si crei un sistema parallelo di risoluzione stragiudiziale delle controversie, un sistema che normalmente non è indipendente, trasparente, affidabile o almeno impugnabile, e soprattutto che si cerchi di usurpare le funzioni dello Stato. Si tratterebbe di una privatizzazione dei profitti e di una socializzazione delle perdite (all’Onu si ricordano di Ernesto Rossi!)».
Nonostante le analisi dell’Unctad, di J. Stiglitz, P. Krugman e J. Capaldo, le società transnazionali continuano a spingere i governi verso nuovi accordi di investimenti internazionali con clausole di Risoluzione delle controversie tra investitore e Stato (Investor-state dispute settlement: Isds), clausole che potrebbero portare a gravi crisi internazionali. La ragione addotta è che gli investitori non si fidano dei sistemi giudiziari nazionali, e preferiscono creare una giurisdizione separata per le controversie commerciali; tuttavia è difficile capire perché mai uno Stato dovrebbe accettare l’implicita squalificazione dei suoi tribunali nazionali e consentire la creazione di un sistema privatizzato di risoluzione delle controversie: piuttosto che andare in causa davanti ai tribunali nazionali, gli investitori si affidano a tre arbitri che decideranno se i loro diritti sono stati violati da uno Stato.
Ciò è tanto più grave quando si tratta di attività economiche e finanziarie che possono violare i diritti umani, in quanto comportino disoccupazione, danni alla agricoltura e frodi alimentari, devastazione dell’ambiente, inquinamento delle acque, contaminazione radioattiva, deformazioni genetiche.
Di qui una prima raccomandazione: «Gli Stati dovrebbero abolire il sistema di risoluzione delle controversie tra investitori e Stato, e sostituirlo con una Corte degli investimenti internazionali».
Il documento dell’Onu si può trovare a questo indirizzo internet: http:// www .ref world .org/ p d f i d / 5 5 f 2 8 f 2 e 4 . pdf. Un cenno, tuttavia, a questi «investitori» internazionali, tanto corteggiati dal governo italiano e che sono grandi imprese multinazionali e grandi speculatori finanziari quali BlackRock e Goldman Sachs — ben conosciuti e ben introdotti in Italia.
Ora un investimento è davvero tale se aumenta lo stock di capitale di un paese, per esempio se si costruisce una nuova fabbrica, si impiegano nuove macchine e si assumono nuovi lavoratori. Se un «investitore» di un altro paese compera una impresa italiana, si tratta soltanto di un passaggio di proprietà e di poteri, con conseguenze ovvie e aggravate dalla privatizzazione del diritto di cui si è detto.
cono nuovi diritti per far causa ai governi nazionali, ricorrendo ad arbitrati privati vincolanti sulle normative che, secondo loro, diminuiscono la redditività attesa dei loro investimenti.
Gli interessi delle aziende internazionali promuovono l'ISDS come un sistema necessario per proteggere i diritti di proprietà laddove manca lo stato di diritto e dei tribunali attendibili. Ma questo argomento non ha senso. Gli Stati Uniti stanno cercando lo stesso meccanismo in un mega-accordo simile con l'Unione Europea, l'Accordo Transatlantico per il commercio e gli investimenti, anche se ci sono pochi dubbi sulla qualità degli ordinamenti giuridici e dei sistemi giudiziari europei.
Gli investitori meritano tutela contro l'espropriazione o norme discriminatorie. Ma l'ISDS va ben oltre. L'obbligo di risarcire gli investitori per le perdite di profitti attesi può ed è stato applicato persino laddove le regole non sono discriminatorie e i profitti sono realizzati causando un danno sociale.
La Philip Morris International è attualmente in causa contro l'Australia e l'Uruguay (che non è partner del TPP) che richiedono di apporre sui pacchetti di sigarette delle etichette di avvertenza. Il Canada, minacciato da una simile querela, qualche anno fa ha fatto marcia indietro sull'introduzione di un'etichetta analoga.
Dato il velo di segretezza intorno alle trattative del TPP, non è chiaro se il tabacco verrà escluso da alcuni aspetti dell'ISDS. In entrambi i casi, la questione principale rimane: tali disposizioni rendono difficile ai governi svolgere le loro funzioni basilari - proteggere la salute e la sicurezza dei loro cittadini, assicurare la stabilità economica, e salvaguardare l'ambiente.
Si immagini cosa sarebbe accaduto se queste disposizioni fossero state messe in atto quando gli effetti letali dell'amianto furono scoperti. Anziché chiudere le aziende e costringerle a risarcire coloro che sono stati danneggiati, in base all'ISDS, i governi avrebbero dovuto pagare i produttori per non uccidere i loro cittadini. I contribuenti sarebbero stati colpiti due volte - la prima pagando per i danni alla salute causati dall'amianto, e poi risarcendo i produttori per la perdita dei loro profitti nel momento in cui il governo fosse intervenuto per regolamentare un prodotto dannoso.
Non dovrebbe sorprendere che gli accordi internazionali dell'America producano un commercio gestito anziché libero. Questo è ciò che succede quando il processo di policymaking è chiuso agli stakeholder non commerciali - per non parlare dei rappresentanti eletti dal popolo al Congresso.
1Con questo termine comunemente si definisce la pratica con cui le autorità regolatorie farmaceutiche condizionano il rilascio di autorizzazioni all'immissione in commercio dei farmaci generici all'esistenza o meno di brevetti sui principi attivi.
Articolo pubblicato da project-syndicate.org
Traduzione di Victor Murrugarra
Il manifesto, 15 ottobre 2015 (m.p.r.)
È partita lunedì la privatizzazione di Poste Italiane, che verrà realizzata con la collocazione sul mercato di azioni della società corrispondenti a poco meno del 40% del capitale sociale. L’obiettivo dichiarato dal governo è l’incasso di circa 4 miliardi da destinare alla riduzione del debito pubblico. Già da questa premessa emerge il carattere ideologico dell’operazione: l’incasso di 4 miliardi di euro comporterà, infatti, un drastico calo del nostro debito pubblico dall’attuale vertiginosa cifra di 2.199 miliardi (dati Bankitalia) alla cifra di 2.195 miliardi (!). Senza contare il fatto di come l’attuale utile annuale di Poste Italiane, 1 miliardo di euro, andrà calcolato, come entrate per lo Stato, in 600 milioni di euro/anno a partire dal 2016.
Si tratta di un evidente rovesciamento ideologico della realtà: non è infatti la privatizzazione di Poste Italiane ad essere necessaria per la riduzione del debito pubblico, quanto è invece la narrazione shock del debito pubblico ad essere la premessa per poter privatizzare Poste Italiane.
Occorre poi aggiungere come anche il prezzo di vendita del 40% di Poste Italiane sia stato ipotizzato al massimo ribasso, prefigurando, ancora una volta, la svendita di un patrimonio collettivo. Infatti, mentre Banca Imi, filiale di Intesa Sanpaolo, attribuiva, non più tardi di una settimana fa, un valore a Poste Italiane compreso fra gli 8,95 e gli 11,42 miliardi di euro, e mentre Goldman Sachs parlava di una cifra compresa i 7,9 e i 10,5 miliardi, ai blocchi di partenza della vendita delle azioni la società risulta valorizzata fra i 7,8 e i 9, 79 miliardi.
A questo, vanno aggiunti tutti i fattori di rischio insiti nell’operazione, legati al fatto che mentre si decide di privatizzare un servizio pubblico universale, consegnandolo di fatto alle leggi del mercato, se ne rafforza al contempo, per rendere più appetibile l’offerta, il carattere monopolistico nel campo dei servizi oggi offerti, per i quali non v’è invece alcuna certezza rispetto al domani: parliamo dell’accordo vigente con Cassa depositi e prestiti per la gestione del risparmio postale (1,6 miliardi di commissione), così come dei crediti vantati da Poste nei confronti della pubblica amministrazione (2,8 miliardi). Senza contare come la società abbia in pancia strumenti di finanza derivata, il cui fair value, al 30 giugno 2015, risulta negativo per 976 milioni.
Ma aldilà di queste considerazioni economicistiche, è a tutti evidente come, con il collocamento in Borsa del 40% di Poste Italiane, muti definitivamente la natura di un servizio, la cui universalità era sinora garantita dal suo contesto di garanzia pubblica, che permetteva, attraverso i ricavi realizzati dagli uffici postali delle grandi aree densamente urbanizzate, di poter mantenere l’apertura di uffici, spesso con funzioni di presidio sociale territoriale, in tutto il territorio italiano, a partire dai piccoli paesi. E’ evidente come la privatizzazione in atto inciderà soprattutto su questo dato: per i dividendi in Borsa diverrà assolutamente necessario il taglio dei rami economicamente secchi, ovvero la drastica riduzione degli sportelli nelle aree poco popolate.
E, infatti, il piano industriale già prevede - ma sarà solo l’assaggio - la diversificazione dei modelli di recapito, che da ottobre 2015 rimarrà quotidiano per nove città definite ad «alta densità postale», mentre diverrà a giorni alterni per 5267 comuni. Quasi tautologico sottolineare l’impatto sul mondo del lavoro, che vedrà una drastica riduzione - si parla nel tempo di 12–15.000 posti in meno - oltre al sovraccarico di ritmi per quelli che avranno la fortuna di essere sfuggiti alla mannaia.
*Attac Italia
La Repubblica, 9 ottobre 2015 (m.p.r.)
Il manifesto, 8 ottobre 2015 (m.p.r.)
La truffa dei Diesel ammessa dalla Vw disvela il carattere della competizione e della selezione che è in corso tra i grandi produttori dell’autoveicolo. Una competizione fortemente condizionata dalla finanza e dai suoi favori. E non dai limiti energetici e ambientali del pianeta e dalla mobilità.
Una competizione senza esclusioni di colpi con il fine di raggiungere la posizione di Big dove gli Stati e le dimensioni continentali vengono piegate alle necessità immediate delle multinazionali. Tutte le ristrutturazioni, gli insediamenti e le acquisizioni tra i gruppi dell’auto di questi hanno visto il ruolo dei governi e l’intervento pubblico per favorirli e sostenerli, unica eccezione l’Italia che ha assecondato il riposizionamento internazionale di Fiat attraverso FCA a scapito del nostro paese con un carico enorme sui lavoratori Italiani che vedono un peggioramento delle condizioni di lavoro e dei gradi di libertà nei luoghi di lavoro.
Ora il Diesel-Gate deve farci discutere sicuramente delle conseguenze ancora tutte da contabilizzare, dai costi dei richiami a quelli delle class action.
Volkswagen vende veicoli per oltre 200 miliardi di euro l’anno, è il più grande investitore al mondo in ricerca e sviluppo, assicura in Germania 600 mila posti di lavoro diretti (più milioni di posti indiretti nel mondo). Il settore auto pesa per 300 miliardi di euro di esportazioni, la prima voce del made in Germany. E non è per nulla escluso che il governo tedesco non intervenga per salvarla.
Quindi dando per certo un effetto sulle vendite, del gruppo VW e su quelle dell’intero settore diesel, il rallentamento degli investimenti già annunciato sui nuovi prodotti con le conseguenti ricadute occupazionali sull' indotto (c’è già chi sussurra di un calo di commesse intorno al 20%) anche nel nostro paese dove VW ha fatto in questi anni un notevole shopping nella nostra componentistica orfana dei volumi Fiat. Ma dopo il fallimento della competizione «truccata» del diesel, va riaperto il confronto su quale mobilità si deve produrre in Europa, con quali prodotti e quale sostenibilità, con quale ruolo pubblico e con quali diritti, turnazioni e salari. Ricostruendo non solo attraverso i test su strada della auto un controllo pubblico a tutela dei cittadini lavoratori e consumatori ma recuperando lo squilibrio fra i regolatori pubblici e le aziende regolate.
Nelle banche come nell’auto, i guadagni dei manager sono un multiplo di quelli dei funzionari che dovrebbero controllarli e spesso quei funzionari sperano solo di essere assunti da loro. E per Wall Street come per Volkswagen, la conoscenza di tecnologie molto complesse gioca a favore delle imprese su chi dovrebbe controllarle: le aziende sanno tutto perché hanno creato loro quei prodotti, titoli strutturati o motori diesel, i controllori invece devono decostruirli e interpretarli da zero.
Infine questa vicenda non può essere isolata da ciò che accade in questi giorni in Usa tra Fca/Fiat e sindacato dove i lavoratori bocciando l’accordo, potendo a differenza che da noi votare liberamente, hanno portato la Uaw a dichiarare lo sciopero che ha le sue origine nei diversi trattamenti salariali a parità di lavoro tra Veterans retribuiti 28$ e i Worker in progression a 15$ l’ora e nella inumanità di turni di lavoro di 10 ore al giorno per quattro giorni alla settimana con variazioni di turni che porta in pochi giorni da un turno di notte ad un turno che inizia prima del alba, orario che ricorda la ribattuta di Melfi e le proposte Fiat in Italia.
Alla vigilia di ogni legge di stabilità il dibattito sulla pressione fiscale ritrova un suo asfittico momento di vita. Difficilmente si spinge però oltre una materia buona per demagoghi e commercialisti. Un pensiero forte sulla fiscalità sembra fermo da decenni e, soprattutto, saldamente ancorato a una destra che sa bene quello che vuole. Gli si oppone da sinistra, con spirito egualitario e scarso ascolto politico, la denuncia della «regressività» del sistema fiscale e la proposta di un suo rivoluzionamento portate avanti da Landais, Piketty e Saez (Per una rivoluzione fiscale, La scuola, 2014).
Il Fatto Quotidiano, 5 ottobre 2015 (m.p.r.)
La Fiat non si chiamapiù Fiat. LaChrysler non sichiama più Chrysler. Lehanno fuse eadesso c’èun gruppoautomobilisticotra imaggiorinel mondoche si chiamaFca: Fiat Chrysler Automobiles.È successo il 29gennaio 2014, tra poco sarannodue anni. Ma la notizianon è arrivata nelleredazioni dei grandi giornaliitaliani, a quanto pare.Cosicché i loro lettoripotrebbero non aver capitoche il gruppo guidato daJohn Elkann e SergioMarchionne è coinvoltocome tutti gli altri gigantimondiali dell’auto nelloscandalo detto diesel-gate.
Se i lettori del Fattohanno amici o parenti trai lettori del Corriere dellaSera, della Repubblica odella Stampa faccianoun’opera buona, li informino.Perché ieri il Corriere titolava “Indaginesu altri cinque marchi”,per poi specificare chetrattasi di Bmw,Chrysler, Gm, Land Rovere Mercedes Benz. Anchela Repubblica annuncia“Usa, indagini allargate”,ma tralascia di ricordareche quellaChrysler distrattamentenominata è quella meravigliosaazienda salvatada Marchionne per farneun orgoglio dell’industriaitaliana che si affermaal l’estero. Naturalmentenon si poteva aspettaremaggior precisione giornalisticada parte dellaStampa, che come gli altrimette nel mirino laChrysler, senza ricordareche è un marchio della Fca,ex Fiat, padrona delgiornale.
Per fortuna c’è Il Sole24 Ore che nella foga didare un’informazione economicacompleta inciampanell’imperdonabileerrore. Dopo aver accuratamenteevitato laparola Fca in articoli e titoli,piazza lì la tabelladella auto che sarannocontrollate anche in Italia.E gli scappa il nome diFca che c’è dentro fino alcollo. Anche perché l’elencodei modelli non perdona:Panda, Punto, 500,Giulietta... Ah ecco. Comediceva Totò, questa faccianon mi è nuova.
l capitalismo ha un grande e tenace nemico, una malattia che produce esso stesso incessantemente: l'abbondanza...(continua a leggere)
Il capitalismo ha un grande e tenace nemico, una malattia che produce esso stesso incessantemente: l'abbondanza. Oggi l'abbondanza che lo minaccia è, come sempre, quella delle merci, ma in una misura che non ha precedenti. Ad essa, negli ultimi decenni, se ne è aggiunta un'altra, assolutamente inedita, che coinvolge un vasto e crescente ambito di servizi. Per alcuni beni la saturazione del mercato capitalistico è visibile a occhio nudo ormai da tempo. I capi d'abbigliamento si comprano ancora nei negozi, a prezzi che generano un certo profitto a chi li produce e a chi li vende. Ma per il vestiario esiste un mercato parallelo così esteso e abbondante che ormai sfiora la gratuità. Si può dire che nelle nostre società più nessuno ormai, nemmeno il più misero degli individui, ha il problema di vestirsi. Non dissimile fenomeno possiamo osservare nell'ambito dei servizi più avanzati: l'accesso all'informazione, alla cultura, all'arte, alla musica.
Com'è noto, il capitale combatte la caduta tendenziale del saggio di profitto inventando nuovi beni e nuovi bisogni, dilatando il suo dominio sulla natura per trasformare il vivente in merci brevettabili, strappando al controllo pubblico servizi che un tempo erano dei comuni e dello stato. Ma il capitale, aiutato da circostanze storiche fortunatissime - la crisi e poi il crollo del blocco comunista, la burocratizzazione dei partiti democratici di massa e dei sindacati, la rivoluzione informatica - ha sventato la più grande minaccia da abbondanza che gli sia parata dinnanzi nella sua storia: quella degli ultimi decenni del XX secolo. Un oceano di beni stava per riversarsi nel mercato dei Paesi avanzati, un sovrappiù di merci che avrebbe costretto imprenditori e governi a innalzare i salari e soprattutto a ridurre drasticamente l'orario di lavoro. Si sarebbe arrivati a quel passaggio epocale previsto da Keynes nel saggio Possibilità economiche per i nostri nipoti (1928-30), che, con la crescita della produttività a «a un ritmo superiore all'1% annuo» avrebbe spinto le società industriali, nel giro di un secolo, a istituire una durata del lavoro a 15 ore settimanali.
In realtà, la crescita della produttività mondiale è stata superiore alle stesse previsioni di Keynes, con risultati però opposti rispetto alle sue aspettative. In un saggio prezioso per rilevanza documentaria e nitore espositivo, Abbondanza, per tutti (Donzelli, 2014) Nicola Costantino ha ricordato che il tasso di crescita annuo della produttività a livello mondiale, nel corso del XX secolo, ha oscillato tra il 2 e il 3%. Negli Usa, tra il 1950 e il 2000 è stato in media, del 2,5%, in Francia, nel solo settore industriale, tra il 1978 e il 1998, del 3,7%. Il che ha significato che la produttività oraria del singolo lavoratore, a un tasso di crescita del 2% annuo, è aumentata di ben 7 volte, molto di più delle 2,7 volte ipotizzate da Keynes e su cui egli fondava la previsione delle 15 ore settimanali.
Che cosa dunque è accaduto? Perché dal mondo dell'abbondanza a portata di mano siamo precipitati nel regno della scarsità? La risposta essenziale è molto semplice. Perché il capitalismo dei paesi dominanti (Usa e Europa in primis), ricercando nuovi mercati e occasioni di profitto nei paesi poveri (la cosiddetta globalizzazione), innalzando la produttività del lavoro, ristrutturando e innovando le imprese, non incontrando resistenze in sindacati e partiti avversi, hanno generato un'arma strategica formidabile: la Grande Scarsità, la scarsità del lavoro. Il lavoro inteso come occupazione, come job. I dati recenti sono impressionanti.Tra il 1991 e il 2011 - ricorda Costantino - mentre il Pil reale planetario è cresciuto del 66%, il tasso globale di occupazione è diminuito dell'1,1%. In 20 anni un quarto di beni in più con meno lavoro.
Ma una vasta e ben controllata disoccupazione è oggi un arma politica, non solo un effetto delle trasformazioni economiche. Tale scarsità, diventata permanente e sistematica, ha reso i rapporti tra capitale e lavoro, economia e politica, poteri finanziari e cittadini, drammaticamente asimmetrici e sbilanciati. Tutti invocano lavoro come gli affamati un tempo chiedevano il pane, fornendo al capitale una legittimazione mai goduta in tutta la sua storia. L'intera struttura dello stato di diritto ne risente, gli istituti della democrazia vengono progressivamente svuotati. Sindacati e partiti, funzionari del presente, invocano la “ripresa” come se il futuro possa “riprendere” le fattezze del passato.
E tuttavia tale artificiale scarsità non può durare a lungo. Non solo perché le innovazioni produttive in arrivo (stampanti 3D, intelligenza artificiale,ecc) stanno per rovesciarci interi continenti di merci e servizi, sostituendo perfino lavoro intellettuale con macchine. Ma anche perché l'abbondanza del capitale che la Grande Scarsità del lavoro oggi genera è una forma di obesità, una malattia sistemica. C'è troppo danaro in giro, masse smisurate di risorse finanziarie, rispetto alle necessità della produzione. Patrimoni concentrati in gruppi ristretti che non corrono il rischio dell'investimento produttivo in società ormai sature di beni e con una domanda debole, mentre la grande massa dei lavoratori è tenuta a basso salario perché i loro padroni devono poter competere a livello globale. Tutti i capitalismi nazionali comprimono i salari, allungano gli orari di lavoro, sperando nelle esportazioni e tutti, o quasi, languono nella generale stagnazione. Mentre i soldi si accumulano, generano altri soldi, muovono speculazioni nei mercati finanziari e preparano altre crisi.
Questo quadro che non teme smentite – poggia su una vasta e solida letteratura - ha una grande importanza per la sinistra. In esso è possibile scorgere che una vita di gran lunga migliore sarebbe possibile per tutti e che solo i rapporti di forza dominanti la ostacolano, facendo regredire la società nel suo insieme. Non c'è una crisi, intesa come un evento naturale. E' stato il cedimento storico dei partiti della sinistra, dei sindacati, dei governi a favorire la vittoria della scarsità sull'abbondanza. Una grande battaglia perduta, ma da cui ci si può riprendere. Da questa lezione si può comprendere come niente di naturale è rinvenibile nella situazione presente: è tutto dipendente da scelte politiche, da puri rapporti di forza.
Dunque, una grande abbondanza (auspichiamo, di beni e servizi avanzati, frutto di una generale riconversione ecologica, di riduzione del lavoro ) è alla nostra portata. E bisogna infondere non solo nel nostro popolo, ma nella società italiana tutta intera questa grande pretesa. La pretesa della prosperità e del ben vivere per tutti. E' una prospettiva di nuovi bisogni, che non solo è possibile soddisfare, ma coincide con una tendenza storica inarrestabile e che capitale e ceto politico possono solo ritardare, con danno generale. La redistribuzione dei redditi e del lavoro e la lotta alle disuguaglianze incarnano come mai nel passato l'interesse generale, una necessità indifferibile e universale. Oggi possiamo far sentire a tutti, anche agli scoraggiati e ai perplessi, che nelle nostre vele può tornare a soffiare il vento della storia.
L'articolo è stato inviato contemporaneamente a il manifesto
La Repubblica, 27 settembre 2015 (m.p.r.)
Lo scandalo Volkswagen è destinato ad avere ripercussioni gravissime per l’azienda e conseguenze per il prestigio e l’influenza della Germania. Tuttavia non va considerato solo un “brutto affare” tedesco. Il caso presenta alcuni aspetti trascurati che ci riguardano direttamente e dovrebbero suscitare interrogativi e incrinare certezze.
l manifesto, 27 settembre 2015 (m.p.r.)
Le autorità Ue sapevano degli strumenti per truccare le misurazioni delle emissioni auto fin dal 2013: lo afferma il quotidiano britannico Financial Times, in una ricostruzione pubblicata ieri. Tesi, peraltro, già anticipata due giorni fa da un articolo di Giorgio Ferrari su il manifesto.
Il giornale inglese spiega che un rapporto del Joint Research Center dell’Ue era stato messo a disposizione dei vertici comunitari già due anni fa (ma i primi dati risalgono al 2011), e conteneva il suggerimento di effettuare i test sui gas inquinanti su strada e non “in laboratorio”: le officine attrezzate, cioè, dove si simula l’andatura delle auto. Indicazione che arriva anche, da almeno un anno, dall’International Council on Clean Transportation (Icct), ente finanziato dalle fondazioni create da Bill Hewlett e David Packard (noti magnati dell’elettronica): è l’Icct, istituto americano, ad aver svelato i trucchi di Volkswagen sul Nox, e ad aver spiegato che le emissioni omologate sono superate da quelle su strada addirittura nell’ordine del 40%.
Il software, come è noto, era installato nei motori diesel, e attivava una sorta di blocco — o meglio, di forte limitazione - delle emissioni nocive solo quando la macchina era sottoposta a dei test: riconoscibili perché la macchina ha un’andatura più regolare e soprattutto non effettua curve, muovendosi sempre in una sorta di rettilineo virtuale (la vettura è in realtà ferma, si muove su dei rulli, come un tapis roulant). Una volta in strada, l’emissione veniva di nuovo “liberalizzata”: e via a un inquinamento che, come detto, poteva superare anche del 40% quello misurato sul percorso del test.
Il Financial Times punta il dito sulla lobby dei costruttori automobilistici, colpevole a suo parere di aver truccato il sistema di rilevamento dei dati: «L’incapacità delle autorità regolatorie in tutta la Ue di denunciare questi trucchi porta alla luce il potere delle lobby dell’industria automobilistica europea che ha scommesso molto sui diesel - scrive l’Ft - Circa il 53% delle nuove auto vendute nella Ue sono diesel, rispetto al circa 10% dei primi anni ’90».
Quindi, insomma, il diesel è un grande affare, e così si comprendono gli interessi - e oggi i “drammi” industriali e finanziari - che gli girano intorno. E il potere delle lobby, a Bruxelles, è fortissimo, si sa: Greenpeace individua una vera e propria “lobby del diesel”, che avrebbe investito solo nel 2014 ben 18 milioni e mezzo di euro per sostenere la propria azione e difendere il proprio “credo”.
La Commissione Ue, dal canto suo, risponde a queste accuse tramite un portavoce: spetta ai singoli stati, dicono a Bruxelles, scovare eventuali trucchi come quelli messi in piedi da Volkswagen (e in effetti è vero che la regolazione su questo terreno è lasciata molto agli Stati membri, in particolare ai governi e ai ministri dell’Ambiente). Dall’altro lato, le stesse autorità della Ue spiegano di aver voluto introdurre i test su strada fin dal prossimo anno: come dire, noi, il nostro, lo abbiamo fatto.
Dal fronte italiano ieri ha parlato il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan: «Temo - ha detto - conseguenze che mi auguro siano limitate. A catena ci potrebbero essere effetti sull’industria italiana che non ha colpa». Il problema, ha sottolineato Padoan, «non è solo tedesco ma anche europeo, oltre che americano. In questo momento l’Europa sta facendo molta fatica a uscire dalle conseguenze della recessione e se la fiducia viene intaccata, la propensione all’investimento si indebolisce», mentre «l’azione di politica economica di questo governo è volta a consolidare la fiducia».
Ma iniezioni “renziane” di fiducia o meno, sono comunque circa 1 milione le auto con la centralina truccata in Italia, a fronte dei 2,8 milioni di vetture tedesche. In tutto, Volkswagen si prepara a effettuare un maxi-richiamo, scrivendo personalmente a tutti i clienti, che poi potranno effettuare una revisione, ovviamente gratuita.
«Sono in corso i controlli per verificare il danno provocato anche in Italia da Volkswagen — ha spiegato ieri il viceministro ai Trasporti, Riccardo Nencini — La previsione è di chiudere questa indagine entro pochi mesi. C’è una stima di massima che parla di circa 1 milione di veicoli coinvolti»