loader
menu
© 2024 Eddyburg

La Repubblica, 5 febbraio 2016, con postilla

Il Guardian ha chiesto a nove economisti se sia o meno in vista una nuova crisi finanziaria globale e, ovviamente, gli interpellati hanno dato nove risposte diverse. Eppure continuiamo a rivolgerci agli economisti quasi fossero medici, capaci di prognosi scientifiche sul comportamento del corpo economico. Sia noi consumatori che loro dobbiamo essere più realistici riguardo alle possibilità dell’economia. Un approccio più misurato sia sul fronte dell’offerta che della domanda in economia produrrà risultati migliori.

A seguito della grave crisi iniziata quasi dieci anni fa si è riflettuto sugli errori commessi in campo economico. Probabilmente l’autocritica avrebbe dovuto essere più ampia, sia in ambiente accademico che bancario, ma c’è stata. Gli esperti economici indipendenti che ruotano attorno all’Istituto per il nuovo pensiero economico (Inet) di George Soros hanno fornito ad esempio un resoconto rivelatore su ciò che non ha funzionato.
Adair Turner, testimone di prima mano del processo decisionale economico ai massimi livelli in qualità di responsabile dell’Autorità britannica per i servizi finanziari (Fsa) e ora presidente dell’Inet, fornisce un’analisi equilibrata e convincente nel suo libro Between Debt and the Devil (Tra debito e demonio). È vero che i massimi economisti hanno messo in discussione i modelli matematici del mercato perfetto ed è altrettanto vero che i mercati finanziari possono aver seguito versioni troppo semplicistiche di tali modelli. Ciò nonostante, sostiene Turner, «l’economia accademica e l’ortodossia politica dominanti non hanno saputo prevedere la crisi e in realtà vi hanno contribuito».
I più gravi errori sono stati «la teoria del mercato efficiente» e la «teoria delle aspettative razionali». Troppo spesso gli economisti hanno postulato che gli attori del mercato non solo si comportassero razionalmente, ma addirittura in base agli schemi mentali sviluppati dagli economisti. (Soros stesso ha tentato per mezzo secolo di evidenziare questa stortura). La moderna macroeconomia inoltre «ha trascurato in larga misura le attività del sistema finanziario e in particolare il ruolo delle banche».
Il fondamentalismo del mercato si considerava diametralmente opposto all’economia pianificata comunista, ma in realtà ha compiuto lo stesso errore fondamentale, ossia credere che il modello razionale potesse comprendere, prevedere e potenziare la complessità dinamica del comportamento collettivo umano. Per dirla con Roman Frydman e Michael Goldberg: «L’economista, al pari di un pianificatore socialista, crede quindi di poter ottenere grandi risultati perché suppone di aver finalmente svelato il meccanismo inesorabile che determina gli esiti del mercato».
Gran parte dell’economia accademica è in passato caduta preda della cosiddetta «invidia della fisica», per analogia con il concetto freudiano di invidia del pene. Come alcune altre discipline dell’ambito delle scienze sociali, aspirava allo status, all’esattezza e alla prevedibilità della fisica. Ho pensato a lungo che ad alimentare questa hybris contribuisse il fatto che l’economia, unica tra le scienze sociali, ha un Premio Nobel. Per esattezza si tratta del Premio della Banca di Svezia per le scienze economiche in memoria di Alfred Nobel, attribuito dalla Banca centrale svedese per la prima volta nel 1969. Pur non rientrando tra i Nobel originari viene però universalmente definito premio Nobel per l’economia e gli economisti vengono nobilitati dalla speciale aura che tuttora il premio mantiene.
Inoltre politici e decision-maker danno retta agli economisti, mentre non ne danno ad esempio ai politologi della scuola della Scelta Razionale, che domina in molte facoltà universitarie americane. Forse perché se un politico avesse aderito alla teoria della scelta razionale sarebbe stato subito esonerato dal suo incarico, mentre la cittadinanza ha dovuto pagare i danni per conto di chi ha applicato la teoria della scelta razionale in ambito economico.
Questo non significa che non si debba dare retta agli economisti, né che l’economia non meriti un premio Nobel. Significa solo che non è una scienza esatta come la fisica. Per essere valida l’economia deve tenere in considerazione la cultura, la storia, la geografia, le istituzioni, la psicologia individuale e di gruppo. John Stuart Mill disse che non si può essere buoni economisti se non si è altro e John Maynard Keynes osservò che un economista dovrebbe essere «matematico, storico, statista e in qualche misura filosofo». Keynes diede dell’economia un’altra straordinaria definizione affermando che «è essenzialmente una scienza morale».
Si potrebbe in realtà sostenere che il premio Nobel per l’economia si colloca in un ambito intermedio tra quello per la fisica, la letteratura e la pace. L’economia è nel migliore dei casi una disciplina pluridimensionale, basata su dati concreti, attenta a tutti gli influssi esercitati sul comportamento umano, al contempo ambiziosa nei propositi e modesta nell’avanzare pretese su ciò che è possibile prevedere delle vicende umane.
A cosa dovrebbe portare questa visione riveduta e corretta del carattere e del ruolo dell’economia? Non conosco abbastanza i corsi universitari di questa disciplina per poter stabilire se necessitino o meno di una maggiore flessibilità, ma sono rimasto colpito dal manifesto pubblicato qualche anno fa dagli studenti di economia dell’Università di Manchester. Propugnava un approccio «che parta dai fenomeni economici per poi dare agli studenti gli strumenti per valutare se per spiegarli siano valide prospettive diverse» rispetto ai modelli matematici basati su postulati irrealistici. Un collega sostiene di aver sentito litigare due economisti in un’aula del Nuffield College a Oxford, e uno avrebbe esclamato: «Sai che ti dico, allora postula l’immortalità!». Se l’economia è come le altre discipline probabilmente il cambiamento è più lento di quanto dovrebbe perché i docenti anziani procedono per forza d’inerzia.
Poi bisogna tener conto del comportamento dei grandi protagonisti dell’economia, siano essi ministri, vertici delle banche centrali o dell’imprenditoria. Ho letto recentemente uno splendido discorso tenuto nel 2003, ben prima della crisi, da Charlie Munger, socio di Warren Buffett nella holding americana Berkshire Hathaway. «La Berkshire ha sempre agito senza tenere in minima considerazione la teoria dei mercati efficienti nella sua forma più rigida» - diceva, aggiungendo che i risultati dell’applicazione di tale dottrina nell’ambito della finanza d’impresa «erano ancor più ridicoli che in economia». Munger consigliava saggiamente di recuperare il carattere multidisciplinare proprio dell’economia, senza sopravvalutare il quantificabile rispetto al non quantificabile, né cedere alla smania di una falsa precisione, né privilegiare le teorie macroeconomiche rispetto alla microeconomia reale, che contribuiva a guidare le decisioni di investimento a lungo termine della Berkshire.
Noi comuni mortali dovremmo imparare la lezione. Dovremmo chiedere ai nostri economisti, come ai medici, solo quello che possono fare. La componente scientifica è maggiore in medicina che in economia, ma la stessa ricerca medica indica che la nostra salute dipende in gran parte da altri fattori, in particolare psicologici e che molto resta da scoprire. Gli economisti sono come i medici, ma non proprio allo stesso livello.
Traduzione di Emilia Benghi

postilla

Non è detto che - come sembra sostenere Garton Ash - una scienza, per essere tale, debba essere "esatta". E non è detto che gli economisti "classici" (se volete, da Adamo Smith a David Ricardo a Karl Marx, e discendenti) siano meno attendibili nelle loro previsioni di quelli che, patendo dell'"invidia della fisica", si ammantano di tecnologico scientismo.


«Inflazione. Il presidente della Bce ha messo in allarme il continente su una possibile "cospirazione", ma la risposta è semplice: a marciare contro sono gli stessi governi che perseguono le politiche di austerity». Il manifesto, 5 febbraio 2016

Non c’è dubbio che Mario Draghi sia uno di quegli uomini che quando parla è bene starlo a sentire. Sia che si concordi o meno. Celebre ed efficace è stato il «whatever it takes!» pronunciato nel luglio del 2012 che ha permesso di evitare – almeno finora – l’implosione dell’Eurozona e della moneta unica. Per questo non si può restare indifferenti di fronte alla denuncia nei confronti di «forze che cospirano per tenere bassa l’inflazione» che il Presidente della Bce ha elevato in una pubblica conferenza organizzata dalla Bundesbank a Francoforte.

Di solito era la sinistra a indulgere alle teorie del complotto. Al punto che uno dei più importanti dirigenti del Pci, Aldo Tortorella, intellettuale raffinato e dotato di senso dell’umorismo, è solito ironizzarci sopra, dicendo che la sinistra è spesso vittima delle sue stesse macchinazioni. Qui invece il “complottismo” viene agitato da ben altra sponda.

Da quando la dichiarazione è comparsa sulle agenzie di tutto il mondo si è aperta una caccia all’interpretazione autentica del pensiero draghiano. Cosa avrà voluto dire? Con chi ce l’ha questa volta? Non vogliamo ergerci a esegeti, ma forse se applichiamo lo schema “alla Tortorella”, cambiandone i protagonisti, ci avviciniamo alla verità: i cospiratori vanno ricercati tra i palesi responsabili della grande crisi.

La stessa Bce nel suo bollettino mensile prevede «che i tassi di inflazione rimangano estremamente contenuti o che passino in territorio negativo nei prossimi mesi». L’obiettivo della Bce, di raggiungere e stabilizzare il 2% di inflazione è quindi assai lontano. Per questo Draghi aveva assunto nuove misure e un potenziamento del Quantitative Easing. Ma l’esito, come non era difficile prevedere, è stato per ora una debacle. Al punto che le previsioni della stessa banca centrale su un innalzamento dei tassi inflazionistici alla fine del 2016 non appaiono fondate altro che sulla speranza che le nuove misure di politica monetaria abbiano una qualche influenza diretta sulla crescita dell’economia reale. Poiché questo non è avvenuto, malgrado i fiumi di denaro pompati dalla Bce, non vi è ragione di credere che possa avvenire domani a situazione dell’economia reale inalterata. Siamo nel campo assai aleatorio del pensiero desiderante, ovvero del wishful thinking.

Chi sono i cospiratori?


Chi sono dunque i «cospiratori»? Le forze che concorrono a tenere bassa l’inflazione? Non c’è bisogno della cassetta degli attrezzi del piccolo investigatore per scoprirlo. Basta guardarsi intorno. Sono in primo luogo le forze economiche e politiche che con particolare accanimento in Europa perseguono politiche di austerità e torsioni neoautoritarie, che impediscono lo sviluppo della domanda di consumi, non solo materiali, e di investimenti in settori innovativi capaci di rispondere ai bisogni di una società matura. Quelle che distruggono il welfare state per farne un campo di conquista della finanza. Quelle che aprono alle pretese del Regno Unito – vedi il nuovo progetto di Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, per impedire Brexit (considerato assai più pericoloso di Grexit) – di distinguere tra lavoratori nazionali e migranti in termini di accesso al welfare, mettendo in discussione così uno dei pilastri dello stesso mercato unico, ovvero la libertà di circolare e lavorare a parità di diritti sociali rispetto ai residenti locali.

Sono le forze che infieriscono brutalmente sul sistema pensionistico greco. Quelle che puntano tutto sulla speculazione finanziaria quale forma preferenziale se non esclusiva di massimizzazione dei profitti, facendo così levitare nuovamente la massa di titoli finanziari derivati sopra ai livelli antecrisi. Sono quelle che giocano sul prezzo del petrolio e delle materie prime, anche contro i loro interessi immediati in nome di mirabolanti disegni di riposizionamento su uno scacchiere mondiale in movimento, minacciato da guerre che si allargano. Quelle che si preparano a fare le barricate contro l’invasione dei prodotti cinesi, a seguito dell’accettazione della clausola di economia di mercato, mentre contemporaneamente spingono per la firma del Ttip, che renderebbe indifendibile lo spazio giuridico ed economico europeo dal dominio delle multinazionali a prevalenza statunitensi.

Quelle, come il “nostro” Renzi, che invocano la flessibilità per alcuni decimali contro le norme di trattati che essi stessi hanno contribuito a scrivere, e a costituzionalizzare, anziché proporsi di cambiarli da cima a fondo.

Il manifesto, 30 gennaio 2016 (m.p.r.)

«Assessore alle privatizzazioni. Di Forza Italia». Un assessore alle privatizzazioni? Del partito di Berlusconi? Sembra una cosa singolare. Se si aggiungesse «... diventa viceministro all’Economia del governo del Pd» saremmo quasi sicuri che si tratta o di un articolo satirico alla Stefano Benni o di un personaggio inventato stile Antonio Albanese (ci ricordiamo il «ministro della Paura»?). Invece è vero. Tutto vero. Anzi quasi peggio: Luigi Casero, viceministro del dicastero dell’Economia e delle Finanze di Renzi, è stato responsabile economico di Forza Italia ed è rimasto al ministero ininterrottamente dal 2008 come sottosegretario all’Economia con Berlusconi...

Analizzare i nomi della compagine governativa può sembrare roba da poco, da notisti politici, rispetto a quella dei processi economici. Ma il quadro diventa abbastanza chiaro. Il fatto è che, in tema di privatizzazioni, cercare aderenze interessi a esse favorevoli è caccia facile in quel ministero. Più che fatti singoli sembra che le connivenze coinvolgano tutti e molto apertamente.
Il sottosegretario Paolo Baretta (al Ministero dal 2013)? Nei tardi ’90 era in Cisl e ha seguito «i processi di privatizzazione di Telecom e di riorganizzazione di Poste italiane» (sito del Ministero). L’appena nominato viceministro Enrico Zanetti (già sottosegretario)? Socio di Eutekne Spa, società di consulenza tributaria che organizzava convegni come «Dalla privatizzazione dei servizi pubblici locali risorse utili per la crescita».
Pare proprio sia tornata l’epoca delle grandi privatizzazioni. «Grandi» nel senso che vengono date in pasto al mercato aziende di statura nazionale e controllate dal ministero dell’Economia. Si tratta di enti che già funzionano come imprese, in regime privatistico, ma controllate dallo Stato. Nel 2015 è stato il turno di quote Enel e Poste Italiane, di cui Padoan rivendica il successo. Pare imminente la collocazione sul mercato del 40% di Ferrovie e del 49% di Enav, settore di assistenza al volo aereo. E si parla anche di StMicroelectronics, Fondo Italiano di Investimento e Sace. La motivazione addotta è semplice: fare cassa per abbattere il debito pubblico.
La Commissione europea, nelle Raccomandazioni all’Italia del 2015, prescriveva di «attuare in modo rapido e accurato il programma di privatizzazioni e ricorrere alle entrate straordinarie per compiere ulteriori progressi al fine di assicurare un percorso adeguato di riduzione del rapporto debito pubblico/Pil». Lo dice a chiare lettere sia il Def che il ministro in audizione: «Tra il 2016 e il 2018 si prevede che l’insieme del programma di privatizzazioni potrà comportare per l’erario entrate pari allo 0,5 per cento del Pil all’anno». Non si capisce bene la base di tali previsioni dato che lo stesso ministro-economista, a domanda diretta risponde: «Mi è stato anche chiesto dall’onorevole Bordo quanto si pensa di incassare. La mia risposta è che non lo so».
Nonostante la retorica dell’azionariato popolare - l’utopia di far diventare i lavoratori piccoli proprietari di grandi conglomerati industriali - il processo delle grandi privatizzazioni è strettamente legato al mercato finanziario. «Le operazioni di privatizzazione che hanno smantellato il sistema delle partecipazioni statali si proponevano specificamente fra gli obiettivi quello di contribuire a una crescita del mercato azionario che va oltre i meri aspetti dimensionali». Lo raccontava Draghi nel 2008. Nonostante le bufere sulla ribalta della politica, i cambi di governi e maggioranze, questi processi vanno avanti, quasi nel silenzio.

«Un decreto che accelera le privatizzazioni e forzail controllo politico delle aziende. Come contrastare la politicadel governo con la battaglia dei referendum». Il manifesto, 30 gennaio 2016 (m.p.r.)


Annunciato in pompa magna, comeil decreto che farà scendere lesocietà partecipate da Enti pubblicida 8000 a 1000, è dunque stato approvatodal consiglio dei ministri il provvedimentopresentato dalla ministra Madia,che dovrebbe riordinare tutto il variegatomondo delle società dei servizi posseduteo partecipate dal pubblico.Appare già evidente che la finalità primadel provvedimento in questione nonsta solo nella "semplificazione"annunciata oin un'accelerazione delleprivatizzazioni, ostacolandola forma gestionaledelle aziendepubbliche, ma, ancorpiù, nell'idea di costruireun forte controllo politicosulle società partecipate.

D'ora in avanti, le societàpartecipate dalpubblico saranno governateda un numeromolto ristretto di amministratori,se non daun amministratore unico,e viene istituita un'Unità di controllo sullesocietà partecipatepresso il ministero delTesoro con il compitodi dare attuazione aldecreto, comprendendoanche la possibilitàdi effettuare ispezionipresso gli uffici delle societàstesse.Ci si muove in continuitàcon un'impostazioneper cui la gestionepubblica rispondedirettamente al potereesecutivo e si prova adabbattere le autonomiedegli altri poteri edelle altre articolazionistatuali: ciò che si tentadi realizzare, solo per fare qualche esempio,nel ridimensionare il ruolo del Parlamento,con l'abolizione delle Province,nel rendere la Rai subordinata alle sceltedel governo e persino con le ultime propostee nomine "eccellenti", da Carrai aCalenda.

E’ da almeno un anno e mezzo che vienerilanciata in modo molto forte unanuova strategia di privatizzazione e finanziarizzazionedei servizi pubblici, apartire da quelli locali. Su un impianto legislativomesso a punto con lo SbloccaItaliae con la legge di stabilità approvataalla fine del 2014, si prevede che le risorseincassate dagli Enti locali, in caso divendita di quote societarie di aziendepartecipate dagli stessi, possono essereutilizzate al di fuori dai vincoli del patto distabilità. E, in sintonia con quel quadro legislativo,promuovendo processi di acquisizionee fusione da parte delle grandiaziende multiservizio quotate in Borsa,sempre più privatizzate, Iren, A2A, Hera eAcea, nei confronti delle aziende di dimensionimedio-piccole, con l'intentoche, nel medio periodo, esse arrivino a gestirela gran parte dei servizi pubblici locali,in una logica orientata dalla quotazionein Borsa e dalla distribuzione dei dividendiai soci.

Quello che si sta delineando è, dunque,un "nuovo" intreccio tra economia e politica,per cui alla prima si consegnano lescelte di fondo del modello economico esociale e alla seconda, una volta ristabilitoun meccanismo di comando e controllosull'intervento pubblico, un ruolo, deltutto subalterno, di accompagnamento-condizionamentodella prima.

Il movimento per l'acqua ha contrastatoe continua a contrastare questo disegno;lo facciamo nei territori, con la mobilitazionein contrasto alle nuove privatizzazionicentrate sulle grandi aziendemultiservizio e per affermare la ripubblicizzazionedel servizio idrico, assieme alleazioni di tutela della risorsa acqua, anch'essasempre più insidiata dai fenomeniindotti dall'aggressione al territorio edal cambiamento climatico. Lo facciamoa livello nazionale, rilanciando la nostraproposta di legge di iniziativa popolareper la ripubblicizzazione del servizioidrico, che dovrebbe riprendere la discussionein Parlamento. E ora siamo intenzionatia farlo nella direzione di promuoveresia una proposta di legge di modificacostituzionale per affermare il dirittoall'acqua e, più in generale, tutti i dirittifondamentali, togliendoli dal giogo deivincoli di bilancio, sia una nuova iniziativareferendaria, che vuole abrogare proprioquel provvedimento che incentivagli Enti locali a dismettere le quote di proprietàpubblica delle aziende che gestisconoi servizi pubblici locali, cioè a privatizzarle.

La nostra iniziativa referendaria, peraltro,vuole esplicitamente costruire unaconnessione con gli altri movimenti esoggetti che stanno, a loro volta, ragionandosu quesiti referendariche aggredisconoquestioni di fondosu cui sono intervenutele scelte neoliberistee regressive del governoRenzi in quest'ultimoanno e mezzo. Ilmovimento per la scuolapubblica sta predisponendoun'iniziativareferendaria per abrogarele parti più inaccettabilidella controriformadella scuola; ilmovimento contro letrivellazioni petrolifereha deciso di percorrereuna strada analoga perchiedere il pronunciamentopopolare controtutte le trivellazioni,in mare così come interraferma, oltre gli sviluppidella vicenda referendariapromossa dadiverse Regioni; diversisoggetti sindacali, apartire dalla Cgil, sonoimpegnati in una discussioneper valutarel'opportunità di presentareuna proposta referendariasui temi del lavoroe contro il Jobsact.

Si stanno profilandole condizioni perché,nella prossima primavera,si possa sviluppare una vera e propriastagione di referendum sociali - e bisogneràlavorare alacremente e con intelligenzaper la sua effettiva realizzazione.Una stagione che coordinata ad unitaria.Fatta salva l'autonomia di movimenti,soggetti sociali, soggettività politicheche potranno eventualmente sostenerla,il punto di fondo e di forza delle iniziativereferendarie è mettere al centro i temidel modello sociale e della democrazia:l’uno piegato ad una logica per cui il mercatoè l'unico regolatore, l’altra svilita ecompressa per renderla funzionale aquell'obiettivo.Senza sovrapporre referendum socialie referendum costituzionale, è però evidenteche, se si vuol evitare di stare sulterreno plebiscitario che non casualmenteRenzi propugna per affrontare il referendumcostituzionale, né farsi schiacciareda una discussione tecnicista sulruolo del Senato, occorre, come suggeritoda Gaetano Azzariti qualche giorno fasu questo giornale, far emergere il nessotra l'idea del suo restringimento e l'abbattimentodi diritti sociali fondamentali.Ma di questo avremo modo di tornarea parlare.

Il manifesto, 19 gennaio 2016

Quando il movimento Occupy Wall Street lanciò lo slogan «siamo il 99%» probabilmente non immaginava che solamente pochi anni dopo quel 99% sarebbe realmente stato la parte più povera del pianeta. Eppure oggi l’1% più ricco della popolazione ha un patrimonio superiore a quello del rimanente 99%. Sono alcuni dati contenuti nell’ultimo rapporto di Oxfam sulle diseguaglianze, presentato in vista del Forum di Davos dei prossimi giorni.

Sempre secondo il rapporto An economy for the 1%, non solo le diseguaglianze stanno aumentando, ma stanno addirittura accelerando. Nel 2010 bisognava prendere i 388 miliardari più ricchi per arrivare al patrimonio della metà più povera del pianeta. Nel 2014 bastava fermarsi all’ottantesimo. Oggi sono 62. Sessantadue persone sono più ricche di 3,6 miliardi di esseri umani. Sessantadue persone che in cinque anni hanno visto la propria ricchezza crescere del 44%, oltre 500 miliardi, mentre la metà più povera del pianeta si impoveriva del 41%.

Ancora, dall’inizio del secolo alla metà più povera del mondo è andato l’1% dell’aumento di ricchezza, mentre l’1% più ricco se ne accaparrava la metà. È un fenomeno particolarmente drammatico nei Paesi più poveri, ma che accomuna tutto il mondo. Nel Sud, il 10% più povero ha visto il proprio salario aumentare di meno di 3 dollari l’anno nell’ultimo quarto di secolo. Se le diseguaglianze non fossero cresciute durante questo periodo, 200 milioni di persone sarebbero uscite dalla povertà estrema. Nello stesso arco di tempo, negli Usa lo stipendio medio è cresciuto del 10,9%, quello di un amministratore delegato del 997%.

In questo quadro, di quale ripresa, di quale crescita, di quale economia parliamo? Tralasciamo l’insostenibilità ambientale e persino l’ingiustizia sociale. Guardiamo unicamente le conseguenze economiche. In uno studio recente l’Ocse ricorda che le diseguaglianze hanno causato una perdita di oltre 8 punti di Pil in vent’anni. Un’enormità. Il motivo è semplice: se famiglie e lavoratori sono sempre più poveri, calano i consumi e quindi la domanda aggregata. Una “soluzione” è indebitare famiglie e imprese per drogare la crescita del Pil. È il modello subprime, un’economia del debito che può funzionare per qualche anno, finché inevitabilmente la bolla non scoppia.

L’altra soluzione è scaricare il problema sul vicino, puntando tutto sulle esportazioni. Tagliamo stipendi e diritti di lavoratrici e lavoratori, tagliamo le tasse alle imprese e il welfare. Ovviamente aumenteranno le diseguaglianze e crollerà la domanda interna, ma saremo più competitivi e quindi esporteremo di più.

È l’attuale modello italiano ed europeo, riassunto nel documento “dei cinque presidenti”, promosso da tutte le istituzioni europee per tracciare la linea dei prossimi anni. Nel capitolo dedicato alla “convergenza, prosperità e coesione sociale” si riesce nell’impresa di non menzionare mai parole quali “diritti”, “reddito” o “diseguaglianze”, mentre viene utilizzata per diciassette volte la parola “competitività” (17!).

Un modello in cui la crescita delle diseguaglianze non è quindi un fastidioso effetto collaterale, ma la base stessa di un gioco pensato e tagliato su misura per l’1%. Una gara verso il fondo in ambito sociale, ambientale, fiscale, monetario, per vincere la competizione internazionale. La semplice domanda è: se le diseguaglianze aumentano ovunque e la gara è globale, è possibile che tutti esportino più di tutti? In attesa che la Nasa scopra che c’è vita su Marte per potere esportare anche li, questa economia dell’1% non sembra particolarmente lungimirante, come mostrano le cronache di questi giorni.

A chi deve esportare una Ue che nel suo insieme ha già oggi il maggior surplus commerciale del pianeta? Si guarda all’Asia e alle economie emergenti come mercato di sbocco, ma ecco che un calo della Borsa di Shanghai rischia di diventare una tragedia per l’economia italiana. Siamo arrivati al paradosso che pur importando petrolio dobbiamo sperare che il prezzo del greggio non continui a scendere, altrimenti i Paesi esportatori non potranno acquistare il nostro made in Italy.

I dati divulgati da Oxfam sono un affronto e una vergogna dal punto di vista della giustizia sociale, ma sono disastrosi anche da quello meramente economico. Una ricetta per una nuova crisi. Il problema è che l’aumento delle diseguaglianze dal 2008 a oggi è anche un segnale fin troppo evidente di chi rimane con il cerino in mano quando questa crisi scoppia. Ed è allora difficile che il messaggio venga recepito a Davos, all’incontro annuale di quell’1% — anzi, di quel zero virgola — che continua a guardare dall’alto, sempre più dall’alto, oltre il 99% dell’umanità.

–> Firma la petizione di Oxfam contro i paradisi fiscali

Sbilanciamoci.info, newsletter n. 456 del 13 gennaio 2016



Il 2016 non si apre sotto i migliori auspici. Una situazione politica incerta su diversi fronti, i problemi dell’emigrazione in Europa, il terrorismo, le apparenti sbandate della Cina, un livello di indebitamento molto rilevante in diverse aree del mondo, sembrano essere alcuni dei fattori negativi che abbiamo davanti.

La crescita mondiale

Solo qualche mese fa l’FMI prevedeva per il 2016 una crescita del pil mondiale del 3,6%. Ora la Banca Mondiale stima per l’anno in corso un aumento del pil del 2,9%; ricordiamo, tra l’altro, che nel 2014 si era registrato il 3,4% e nel 2015 il 3,1%. Si tratta di un rilevante rallentamento, che dovrebbe lasciare il campo nel 2017 ad una ripresa minima (3,1%).
Bisogna comunque distinguere tra le varie aree del mondo (Guélaud, 2016, a), perché comunque lo sviluppo appare molto ineguale. Per gli Stati Uniti la stima di crescita è del 2,5% per il 2015 e del 2,7% per il 2016; per la zona euro il quadro appare meno positivo, indicando rispettivamente l’1,5% e l’1,7%.
Ma il peggioramento delle previsioni globali deve essere collegato soprattutto al rallentamento di una parte dei paesi emergenti. Ricordiamo che, sempre secondo le stime dell’FMI, il loro peso sul pil mondiale è stato nel 2015 del 58%: quindi i destini di tale area, in particolare del continente asiatico, sono ormai determinanti per il futuro economico del mondo, più di quelli dei paesi ricchi.
Le previsioni sono parecchio negative per il Brasile e per gli altri paesi dell’America Latina, anche se esse appaiono meno disarmanti che per il 2015. L’Africa del Nord e quella sub-sahariana cresceranno un po’ di più. Ma gran parte dell’Asia andrà decisamente bene: 7,3% per l’India, 6,3% per l’Asia dell’Est e il Pacifico, 7,3% per l’Asia del Sud, 6,7% per la Cina, in leggero rallentamento; in miglioramento, anche se ancora in territorio negativo, la Russia.

La Cina

La Cina rappresenta un caso a se e, anche per la sua importanza per la crescita mondiale, merita una trattazione a parte.
Ricordiamo intanto che un aumento del pil ormai intorno al 7% all’anno significa – se utilizziamo per le stime il criterio della parità di potere di acquisto-, che ogni anno si aggiunge a quello precedente un pil pari grosso modo a quello spagnolo, un dato enorme.
Come è noto, il paese sta effettuando il passaggio da un’economia centrata sull’industria ad una sui servizi, da una crescita basata su investimenti ed export ad una basata sui consumi interni, inoltre con gli assi dello sviluppo puntati verso un’economia pulita e l’acquisizione di un alto livello tecnologico.
Nel frattempo si deve governare una riduzione della capacità produttiva in alcuni settori (non si può produrre più del 50% dell’acciaio mondiale!), ridurre l’ingorgo del settore immobiliare, ristrutturare le imprese statali, controllare l’indebitamento, combattere la povertà. Compiti immani, ma la dirigenza cinese ha mostrato in tutti questi decenni di saper gestire problemi anche più rilevanti.
Mentre tutti sottolineano il rallentamento dell’industria, inevitabile nel perseguimento di tale strategia, molti censurano invece la forte crescita dei servizi; così, ad esempio, il turismo è in pieno boom e quello estero è aumentato del 16% nel 2015, le vendite di biglietti per il cinema sono cresciute del 50%, quelle dismartphone si riducono in quantità, ma aumentano fortemente in valore unitario (The Economist, 2015).
Nel 2015 dovrebbero essere stati creati intorno ai 14 milioni nuovi posti di lavoro, mentre i salari crescono in maniera sostenuta.

Le due crisi

Ma ora siamo di fronte alla crisi della borsa e a quella della moneta.
Per quanto riguarda la prima, bisogna ricordare che gli investimenti stranieri nel settore sono quasi inesistenti e che quindi non ci dovrebbero essere ripercussioni dirette delle difficoltà sul resto del mondo. La borsa cinese è un affare quasi solo spinto dalla speculazione e non ha alcun collegamento con l’economia reale (Authers, 2016). D’altro canto, i titoli erano saliti troppo in alto e ancora oggi essi sono grosso modo dove erano un anno fa. Peraltro i regolatori cinesi devono imparare a gestire meglio la questione.
Qualcuno ha scritto che la Cina dovrebbe semmai celebrare il collasso del suo mercato di borsa, che era molto gonfiato rispetto alla realtà (Zhang Joe, 2016).
Più importante appare la svalutazione della moneta. L’intento ufficiale non è certo quello di incoraggiare le esportazioni, dal momento che le priorità politiche sono diverse. L’obiettivo è quello di sganciare il cambio dello yuan da quello del dollaro ed ancorarlo invece ad un basket di monete, aiutando il passaggio ad una situazione maggiormente determinata dalle forze del mercato.
Ma l’operazione è stata portata avanti in maniera maldestra e poco chiara, insospettendo i mercati internazionali, che, più in generale, in questo momento non si fidano dei dati cinesi. Essi temono una forte svalutazione della moneta (per volontà cinese o per una fuga di capitali fuori controllo) e una rilevante riduzione del tasso di crescita del pil.
Ma il paese ha un bilancio forte, con entrate crescenti, con riserve di cambio molto elevate, alimentate da un considerevole surplus della bilancia dei pagamenti. D’altro canto, l’instabilità dei mercati appare anche un riflesso delle paure degli stessi per la situazione dell’economia occidentale.

Le novità non hanno effetti solo negativi sul resto del mondo

Nonostante il rallentamento, la Cina resta il paese che ha maggiore influenza sullo sviluppo mondiale; nei prossimi anni essa probabilmente peserà tra un terzo e la metà della crescita globale del reddito, del commercio e della domanda di materie prime e la sua importanza continuerà ad aumentare insieme alla sua quota dell’economia mondiale (Summers, 2015).
La modifica del suo modello di sviluppo non ha effetti solo negativi sugli altri paesi (Guélaud, 2016, b). Certo, la riduzione nei livelli di acquisto delle materie prime sta portando rilevanti danni all’America Latina, a diversi paesi africani e a qualcuno asiatico. Più in generale il rallentamento delle importazioni, generato, oltre che dalla riduzione nei tassi di crescita, anche dall’aumento della percentuale dei prodotti fabbricati in patria – tra l’altro, la componente di importazioni dei consumi è in genere di circa 11 punti inferiore a quella degli investimenti- e dalla maggiore qualificazione delle produzioni, danneggia diversi paesi nel mondo, tra cui anche Germania, Corea del Sud, Giappone; d’altro canto, la crescita degli investimenti esteri, lo sviluppo dei grandi progetti della “nuova via della seta”, il varo di diverse banche di investimento per i paesi emergenti, la spinta del turismo, dovrebbero servire a riequilibrare almeno in parte la partita. Così la forte crescita del turismo dovrebbe portare benefici a diversi paesi asiatici, Giappone, la Corea del Sud, Tailandia, Vietnam, Taiwan; in alcuni di tali paesi l’aumento della spesa dei viaggiatori cinesi negli ultimi anni ha compensato la riduzione delle esportazioni.
La crescita delle delocalizzazioni verso altri paesi, indotta dall’aumento del costo del lavoro, favorisce diverse realtà, dal Vietnam, all’Africa del Sud, alla Tailandia, alle Filippine.

Conclusioni

l’economia mondiale rallenta a causa di problemi economici, finanziari, politici, non risolti e la situazione non appare brillante sino a tutto il 2018. Sarebbero necessari, tra l’altro, maggiori stimoli alla domanda e agli investimenti (Ragot, 2016), frenati invece, tra l’altro, da interessi forti e da un alto livello di indebitamento.
Ma tale rallentamento appare distribuito in maniera non uniforme sulla superficie del globo. La volata dello sviluppo continua ad essere comunque tirata dai paesi asiatici. Al di la del fatto che le autorità cinesi devono imparare a gestire meglio la finanza e a mandare segnali più chiari al mercato, non sembrano esserci ragioni importanti che facciano temere che le cose in Cina si potrebbero deteriorare fortemente.
Il paese dovrebbe proseguire con i suoi programmi di ristrutturazione dell’economia, certo senza escludere qualche intoppo. Ma bisogna avere una visione realistica delle cose e considerare che la sua influenza sul resto del mondo appare, al momento, insostituibile. In particolare anche nel 2016 il paese sarà determinante nel fissare la strada dell’economia mondiale.

Appendice

Non molti anni fa i politologi anglosassoni si domandavano se la Cina, sviluppandosi, si sarebbe rivelata come una attrice “responsabile” del sistema economico e politico globale (Stephens, 2015). Ma appare sempre più chiaro che la crescita del paese è l’evento più importante della nostra epoca e che Pechino intende essere ormai un produttore di regole, non un allievo ubbidiente ai vecchi padroni, anche perché l’Occidente le ha offerto sino ad oggi appena uno strapuntino al tavolo del potere mondiale. Ma questa sarebbe un’altra storia da raccontare.

Testi citati nell’articolo

Authers J, A frail economy caught in China’s tumble, www.ft.com, 8 gennaio 2016
Guélaud C., A peine repartie, l’économie mondiale patine, Le Monde, 8 gennaio 2016, a
Guélaud C., Les deux faces de la décélération en Asie, Le Monde, 8 gennaio 2016, b
Ragot X., Le progrès technique n’est pas le problème, Alternatives Economiques, n. 353, gennaio 2016
Stephens P., Now China starts to make the rules, Financial Times, 29 maggio 2015
Summers L., Grasp the reality of China rise, www.ft.com, 8 novembre 2015
The Economist, Doughty but not superhuman, 26 settembre 2015
Zhang Joe, Deflate stock market and allow China’s fortunes to swell, www.ft.com, 4 gennaio 2016

Ciò che colpisce più della determinazione reazionaria di Angelino Alfano sono i velami d'ipocrisia nei quali Matteo Renzi cerca di dissimulare il suo disprezzo per i principi più elementari del diritto e dell'umanità. La Repubblica, 9 gennaio 2016

Il reato di immigrazione clandestina non si tocca, almeno per il momento. È Matteo Renzi a stabilire la linea, dopo alcune tensioni con Angelino Alfano, e a mandare temporaneamente in soffitta l’ipotesi di un decreto legislativo. Ed è proprio il ministro dell’Interno, contrario a mettere mano alla legge, a farsi portavoce della brusca frenata. «Evitiamo di trasmettere all’opinione pubblica dei messaggi negativi per la percezione di sicurezza – è l’invito del responsabile del Viminale - in un momento particolarissimo per l’Italia e l’Europa». Parole che non soddisfano comunque la Lega, pronta a promuovere eventualmente anche un referendum per difendere il reato voluto dal governo Berlusconi.
Secondo il premier, il nodo è soprattutto di comunicazione. Perché se è vero che «la logica vorrebbe la scelta della depenalizzazione», e altrettanto vero che «nella componente sicurezza l’elemento psicologico è molto importante». Da qui la scelta di congelare ogni decisione e rimandare alla prossima settimana, «sulla base di una valutazione di opportunità politica e senza toni barricaderi».
Proprio i toni scelti dal Carroccio, a dire il vero, esacerbati dalle notizie che arrivano da Colonia.E infatti gli slogan padani richiamano le aggressioni di fine anno: «Ma si accorgono di cosa sta succedendo nel mondo? - si sgola Matteo Salvini - Questi sono matti! La Lega farà le barricate, in Parlamento e poi nelle piazze con un referendum, contro questa vergogna». Il leghista evoca «espulsioni a valanga» e mette in dubbio quanto promesso dal ministro: «Scommetto un caffè che il prode Alfano calerà le braghe entro una settimana».

Eppure, il titolare dell’Interno ripete che il rinvio appare l’unica soluzione possibile: «Questa vicenda non è materia di un singolo partito. Si sono levate voci molto autorevoli che affermano ragioni tecnicamente valide a sostegno di una abrogazione - ammette - ma motivi di opportunità fin troppo evidenti mi inducono a ribadire che è meglio non attuare la delega». Agli antipodi della Lega si schiera invece Sinistra Italiana. «Il reato di immigrazione clandestina - sostiene il capogruppo alla Camera Arturo Scotto - è sbagliato e inefficace. Va abolito».

La città conquistatrice, rivista online, 24 dicembre 2015


The Guardian, 23 dicembre 2015, titolo originale: A monster crawls into the city – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini per La città conquistatrice
C’era una volta, tanto tanto tempo fa, un villaggio lungo il fiume, dal nome impronunciabile. Quando ci arrivarono gli antichi romani, per risolvere almeno la questione del nome, lo chiamarono Londinium. Poi divenne una città, e ci arrivavano dal fiume re, regine, duchi e tanti altri potenti. Passavano gli anni, i secoli, e tutti i re, regine, duchi, grandi imprese industriali, banche, concentrazioni finanziarie, si affermavano e poi decadevano. Oggi nessuno se li ricorda più. Ma la città sopravvisse fino ad oggi, duemila anni di storia dopo, e con tanta voglia di continuare a esistere. Diceva una leggenda, che a mantenerla viva nella buona e nella cattiva sorte non erano tanto i palazzi del potere, ma i suoi quartieri, o rioni come li chiamava qualcuno. Gran parte degli abitanti non era né ricca né potente, ma era bravissima a farli prosperare quei quartieri, con tutte le botteghe, le chiese, i teatri, artigiani che lavoravano metalli, legno, e tanti altri materiali.

In ciascuno di questi quartieri c’era anche una piazza del mercato, niente di particolare in fondo, ma c’era proprio di tutto, i negozietti, i locali, la gente che andava e veniva. Quartieri tutti diversi uno dall’altro, ma che insieme componevano una trama, una specie di barriera corallina. Un bel giorno arrivò un visitatore da molto lontano, da una città della Cina che si chiamava Shanghai, sul fiume Yangtze. Doveva stare a spiegare a tutti quanti come si pronunciasse quella strana parola, Yangtze, ma appariva comunque molto imponente. Con quella sua voce autorevole, raccontava alla gente di Londra delle strane cose avvenute là a Shanghai. Cose che in un primo tempo apparivano magiche e incantate: una vera e propria esplosione di architetture come fuochi artificiali, edifici diversissimi ma tutti alti e imponenti. Ma poi il racconto si faceva un po’ tetro: «Avevamo abitato sempre in quartieri densi e brulicanti. Poveri, ma in fondo ci si viveva bene, a Shanghai».

Proseguiva, quel visitatore: «Poi tutto cambiò, con le demolizioni. I nostri quartieri Scomparivano sotto le ruspe». E perché, chiedevamo noi. Come avremmo scoperto presto, era per far spazio ai nuovi grandi edifici, scacciando la gente dalle proprie case e quartieri: spinti via verso le più lontane periferie, a milioni.

«Da lontano – proseguiva il racconto del visitatore – non sapendo cosa succedeva Shanghai poteva apparire magnifica e grandiosa con tutte le sue torri svettanti. Ma da dentro i quartieri si viveva l’altra faccia della medaglia». Anche gli abitanti di Londra ci vedevano qualcosa di familiare in quella storia. Era stato spettacolare in un primo tempo guardare la costruzione di nuovi grandi edifici, anche se si spianavano vecchi quartieri, ma poi quelle demolizioni erano diventate davvero troppe, e la città diventava un posto estraneo.

Si sentiva anche di altri posti dove succedevano le medesime cose, città che diventavano tutte identiche una all’altra, con quegli edifici alti. Era come se un mostro gli strisciasse dentro nelle viscere divorandola dall’interno: Gnam-gnam-gnam. «Non si può vivere in una città se non è fatta di quartieri – diceva tutta la gente – perché è lì dove abitiamo, facciamo la spesa, andiamo a scuola». Ma il mostro continuava a divorarli, i quartieri, per far spazio alle sue torri, in un enorme posto senza forma a cui non si sapeva più che nome dare. Il mostro lo chiamava «urbano», ma non c’era più nessuna trama come nei vecchi quartieri, e neppure nel centro della città. Si cancellavano le case, i negozi, le vie, le piazze. Tempi grami, dove sparivano tutti i posti per vivere, sepolti dalle torri che il mostro continuava a eruttare: non c’era ormai nient’altro che quel nulla.

Si capiva che il mostro veniva alimentato dall’esterno, arrivava ovunque per metterci una nuova torre, anche nel cuore di vecchi quartieri dove nessuno si sarebbe mai sognato di invitarlo. Lo si temeva in ogni luogo, quel mostro vorace, ma la città non si sarebbe certo lasciata divorare così, senza combattere. In fondo, era sopravvissuta a tanti momenti oscuri nei secoli, uscendone sempre viva, a differenza di tutti quei re, regine e tanti potenti di un tempo. I quartieri si unirono nella battaglia contro il mostro.

… Poi una notte, una bambina ebbe un sogno. Si chiamava Copernica, e la sua famiglia era stata sfrattata dal quartiere dove abitavano. O forse non era un sogno, magari una visione, o magari una notizia in televisione chissà. Comunque sia, Copernica sognò che quanto il mostro aveva fatto a Londra, lo aveva fatto anche in altre città che aveva studiato a scuola: New York, Istanbul, Rio de Janeiro, Tokyo, San Francisco. Quel sogno assomigliava sempre più a un incubo. Il mostro adesso era lì aggrappato al davanzale della finestra della camera. Ma, sorpresa, parlava adesso con voce infantile e lamentosa, era quasi divertente: «Ciao, non so più dove andare. Quel che mi alimenta continua a crescere sempre più, ma so che dovrebbe vivere al sole, non certo in quella fosca ombra sotto le torri». La bambina aveva smesso di essere spaventata, perché chi piagnucola così non può essere pericoloso, l’aveva imparato in cortile a scuola. Il mostro proseguiva: «Hai qualche consiglio da darmi? Me ne danno tanti, ma poi hanno paura anche a guardarmi, non vogliono avere a che fare con me, quei consulenti».

La bambina non capiva molto bene, soprattutto chi diavolo fossero quei cosi, quei «consulenti», ma intuiva che ci fosse la possibilità di cambiare in qualche modo le cose. Doveva farlo, e farlo subito, prima che il mostro potesse ridiventare all’improvviso cattivo e pericoloso un’altra volta. Non le veniva nessuna idea, finché alla fine si ricordò di una lezione di geografia a scuola, quella sui deserti e le tecniche per le energie solari.«Forse posso suggerirti una cosa: di riversare tutte le tue energie nel Sahara!» disse al mostro. «Ne hai abbastanza per ricoprire chilometri e chilometri quadrati di deserto con celle solari. E poi metterci sotto quartieri giardino con le case per tutta la gente che ne ha un gran bisogno».

Era davvero tutto molto eccitante, pensava, bellissimo anche se a farlo era il mostro. Che però pareva perplesso: «Ma come faccio – piagnucolava – a distendermi così sopra il deserto?». Gli rispose Copernica: «Pensa che per ogni singola cella, guadagni una monetina di quelle di cui ti nutri». E alla fine il mostro uscì dalle tenebre dove si annidava, tra le torri, dirigendosi verso il deserto del Sahara. La gente era entusiasta all’idea di tutti quei pannelli solari per la vita, delle nuova generazione di «città-oasi» a ospitare tutti, non solo turisti, uomini d’affari e ricconi.

Ma poi la bambina si svegliò di colpo, con un brivido di terrore: quel mostro non avrebbe mai e poi mai usato il suo potere per la gente, lui pensava solo a sé stesso: «Andrà a finire che costruirà l’ennesima selva di torri smisurate anche in mezzo al Sahara – gridò – chiamandola smart city …»

La Città Conquistatrice

La Repubblica, 15 dicembre 2015

Il presidente Xi Jinping ama gli animali. Nel suo ultimo viaggio in Africa, accompagnato dalla moglie Peng Liyuan, in una settimana ha visitato due zoo e fatto tre safari. Tra Zimbabwe e Sud Africa si è fatto fotografare mentre accarezza giraffe ed elefanti, o mentre segue un branco di leonesse a caccia.

L’ossessione della propaganda del partito-Stato per «l’amore di Papà Xi verso l’Africa», rivela al mondo una realtà ben più matura di un’infantile passione per le bestie esotiche: dopo un corteggiamento durato decenni, la Cina sta completando la conquista economica e politica dell’Africa. Europa e Usa sono impegnate a respingere le ondate migratorie e a combattere contro il contagio del terrorismo islamista nella fascia mediterranea del continente, scontando le colpe storiche di colonialismo e schiavismo.

La Cina invece, non appesantita nemmeno da tradizioni religiose missionarie, avanza silenziosamente a suon di prestiti e contratti miliardari, rispettando la regola diplomatica numero uno di Pechino: la «non ingerenza negli affari interni». Significa che il Dragone paga, costruisce, acquista e commercia senza porre problemi politici o chiedere il rispetto dei valori universali, condivisi dalle grandi democrazie. Risultato: solo 9 Paesi africani economicamente minori, Gambia, Guinea- Bissau, Burkina Faso, Lesotho, Swaziland, Repubblica Centrafricana, Somalia e Somaliland, non possono vantare oggi investimenti cinesi. Per tutti gli altri la Cina è ormai il primo partner commerciale, il primo banchiere, il primo finanziatore di infrastrutture, ma soprattutto il primo sponsor nelle istituzioni internazionali.

Lo scorso anno Pechino ha riservato allo sviluppo africano 222 miliardi di dollari. A inizio dicembre a Johannesburg Xi Jinping ha presieduto il secondo Forum in 15 anni della Cooperazione Cina-Africa, annunciando progetti sostenuti da altri 60 miliardi. Erano assenti solo i leader di Sao Tomè, Burkina Faso e Swaziland, auto-esclusi dal riconoscimento diplomatico di Taiwan.

Il «safari africano» di Pechino, pronto a colmare il vuoto lasciato dalla fine della Guerra Fredda tra Washington e Mosca, presenta oggi un bilancio impressionante: oltre 2.500 progetti avviati e finanziati in 51 nazioni, per un valore superiore a 94 miliardi di dollari. Senza l’appoggio cinese la metà dei bilanci pubblici dei Paesi africani rischierebbe il fallimento, con conseguenze prevedibili per la stabilità interna.

L’ultima missione di Xi Jinping, a inizio dicembre, ha impresso però al grande patto sino- africano un cruciale salto di qualità: dall’intesa economica all’alleanza strategica, politica e militare. All’assemblea generale dell’Onu, in settembre, il presidente cinese aveva annunciato l’invio di un «contingente di pace » di 8mila soldati e lo stanziamento di un miliardo di dollari per sostenere la prima missione internazionale di Pechino, inaugurata tre anni fa contro la pirateria al largo del Corno d’Africa.

Nei giorni scorsi il ministero degli Esteri ha confermato invece che la Cina costruirà la sua prima base navale in Africa, a Gibuti. Si tratta della prima base militare cinese all’estero, dell’esordio ufficiale della Cina tra le super- potenze belliche globali. La scelta è chiara: Gibuti ospita già basi di Usa, Francia e Giappone, la stabilità politica dal 1990 lo ha trasformato nell’avamposto straniero contro il terrorismo islamista in Somalia e nel presidio internazionale a difesa delle rotte commerciali tra Oriente e Mediterraneo, attraverso Suez.

Gibuti in Africa vanta però anche un’esperienza unica in approvvigionamento e forniture logistiche per eserciti e sistemi di difesa: costruire una base navale sullo stretto di Bab el-Mandeb, tra Mar Rosso e Oceano Indiano, consentirà a Pechino di blindare i suoi scambi commerciali con l’Africa, diventandone anche il primo alleato militare. Washington, Tokyo e Parigi fino all’ultimo hanno tentato di far naufragare l’avanzata cinese, per mantenere almeno la leadership della pace nel Golfo di Aden, affacciato sulle aree più sensibili del Medio Oriente. Il fatto che la stessa Unione Africana si sia infine schierata a favore della base cinese a Gibuti conferma quanto in profondità si sia ormai spinta l’influenza di Pechino nel continente. Una relazione a prova di crisi. Reduce da Parigi, dove aveva incontrato Barack Obama, Xi Jinping è infatti atterrato ad Harare nel momento peggiore del rapporto Cina-Africa. La frenata della crescita cinese quest’anno ha posto fine al boom delle materie prime, affossando ferro, uranio, rame, legname, petrolio, ma pure quelle necessarie per l’hi-tech.

L’export africano è crollato e i «metodi cinesi» nella conduzione delle imprese e nel rispetto dei lavoratori locali ha scatenato più di una rivolta sindacale, sollevando per la prima volta l’accusa di «neo-colonialismo» anche nei confronti di Pechino. Con Zuma e Mugabe, Xi Jinping ha così messo a punto 10 nuovi progetti di cooperazione, presentati poi al trionfale Forum con gli altri presidenti del continente: dalla prima ferrovia ad alta velocità, tra Dar es Salam in Tanzania e Lobite in Angola, allo sviluppo dei porti di Abidjan in Costa d’Avorio e Maputo in Mozambico; dall’oleodotto tra Gibuti e Ogaden in Etiopia a quello tra Juba in Sud Sudan e Mombasa in Kenya; dagli investimenti agricoli a quelli minerari, dalla costruzione di centrali atomiche e a carbone, dalla finanza al turismo, dall’hi-techall’industria farmaceutica.

Xi Jinping questa volta non ha però estratto solo il libretto degli assegni: agli alleati delle nazioni in via di sviluppo ha proposto un accordo che punta alla «costruzione di un nuovo sistema mondiale multipolare, sostenibile e giusto», alternativo a quello dominato dagli Usa e sostenuto dalla Ue. In cambio l’erede di Mao Zedong non ha offerto tassi agevolati sui prestiti, ma ha chiesto l’appoggio politico alla Cina nelle istituzioni mondiali, dall’Onu all’Fmi, dalla Wto alle federazioni che gestiscono il globalizzato business dello sport. Lo scambio con l’Africa non è dunque più materie prime-infrastrutture, ma l’esportazione cinese di un modello organizzativo, sociale, economico e militare alternativo a quello dell’Occidente.

Xi Jinping ha detto che la Cina continuerà ad avere bisogno di materie prime e di cibo, ma che la sua priorità oggi sono «nuovi mercati, alleanze strategiche e nuovi centri di produzione energetica ». Proprio Pechino, superando l’India, ha strappato a Parigi i finanziamenti per rendere sostenibile l’eco-compatibilità africana: e proprio Xi Jinping, esibendo la «negoziazione alla pari», ha ottenuto dai capi di Stato dell’Africa la promessa che appena lo yuan sarà pienamente convertibile, la casse del continente si svuoteranno di dollari e di euro per adottare il renminbi come valuta di riserva, se non addirittura come valuta di Stato. Le 5 colonne del nuovo «partenariato strategico globale» Cina-Africa sono «fiducia politica, cooperazione economica, influenza culturale reciproca, sicurezza e coordinamento internazionale».

L’immagine del nuovo imperatore cinese Xi Jinping che abbraccia un rinoceronte, circondato da pastori zulu che ballano, può far sorridere. I leader di Europa e Usa, nelle stesse ore, stavano però fronteggiando gli attacchi terroristi a Parigi e in California. Il Quotidiano del Popolo ha sintetizzato la coincidenza con l’editoriale: “La Cina lavora, l’Occidente combatte”. L’Africa “cinese” non è più lo specchio, forse irreversibile, del fallimento occidentale: sancisce che il secolo di Pechino, per tutti, è già cominciato.

«Confezionato il prodotto, gli italiani si sono messi in coda per comprarli. Chi doveva informarli dei rischi? Ogni settore, sul tema, ha le sue regole». Cominciato lo scarica barile. Articoli di Federica Angeli e Ettore Livini su

la Repubblica e di Stefano Feltri su Il Fatto Quotidiano, 12 dicembre 2015 (m.p.r.)

La Repubblica
“HO LUIGI SULLA COSCIENZA
MA L'ORDINE DI MENTIRE CI ARRIVAVA DALLA BANCA”

di Federica Angeli

«Io Luigino me lo sento sulla coscienza perché mi sono comportato da impiegato di banca e se fossi stato una persona che rispettava le regole non gli avrei fatto fare quel tipo di investimento». Marcello Benedetti è un ex impiegato della banca Etruria di Civitavecchia. Licenziato un anno fa da quella filiale per un procedimento penale che ha in corso, Marcello ora monta caldaie in giro per la sua città. Il contratto delle obbligazioni acquistate da Luigino D’Angelo, il pensionato che si è tolto la vita per aver perso 110mila euro, porta la sua firma. Benedetti accetta di rilasciare l’intervista a patto che non si sfiori l’inchiesta che lo ha travolto, e che non riguarda i bond subordinati: su questo non può rilasciare dichiarazioni.

Fu lei a “convincere” Luigino ad investire i suoi risparmi in obbligazioni subordinate?
«Sì, Luigino fu uno dei primi clienti della banca a cui proposi questo investimento».
Lo mise al corrente dei reali rischi che correva in questo tipo di operazione?
Gli occhi si inumidiscono. «Firmò il questionario che sottoponevamo a tutti, nel quale c’era scritto che il rischio era minimo per questo tipo di operazione».
Una bugia scritta in un contratto?
«In realtà nelle successive carte che il cliente firmava, era presente la dicitura “alto rischio”, ma quasi nessuno ci faceva caso. Era scritto in un carteggio di 60 fogli».
E voi impiegati non mettevate al corrente i clienti?
«Avevamo l’ordine di convincere più clienti possibili ad acquistare i prodotti della banca, settimanalmente eravamo obbligati a presentare dei report con dei budget che ogni filiale doveva raggiungere. L’ultimo della lista veniva richiamato pesantemente dal direttore».
Eravate però perfettamente al corrente di cosa significasse vendere ai vostri clienti delle obbligazioni subordinate, giusto?
«Sì. Ogni anno c’era un aumento del capitale e per farlo dovevamo chiamare tutti i clienti e fargli rivedere azioni, obbligazioni, etc».
Che rapporto aveva lei con Luigino?
«Lo conoscevo benissimo, sia lui che la moglie Lidia. Era uno dei clienti più diffidenti e convincerlo a fare proprio quel tipo di investimento non fu facile».
Ma lei nella sua filiale è ricordato per essere quello sempre in cima alla classifica dei report settimanali.
«Sapevo fare bene il mio lavoro. E quando mi resi conto che l’emissione delle obbligazioni subordinate era troppo frequente da parte della banca Etruria capii che era possibile un imminente fallimento. Mi venne in mente dunque di mettere al riparo alcuni clienti, tra cui appunto Luigino. Per cercare di far avere loro la liquidazione sia delle subordinate che delle ordinarie, proposi di fare una gestione di fondo. Ricordo che dissi a Luigino: “Non succederà mai niente alla banca, ma se dovesse in questo modo salvi i tuoi risparmi». Ma lui non volle farlo: il suo problema era che voleva un rendimento semestrale cosa che la gestione del fondo non gli garantiva. Accettarono solo una quarantina di clienti, svuotai il comparto delle obbligazioni. Gli altri sono andati a finire come lui: hanno perso tutto».
Pare di capire che la linea fosse quella di mentire al cliente, o meglio, di omettere verità. È così?
«È così. Quando i clienti venivano a chiederci la liquidità la banca ci diceva di rispondere che non ne aveva e che non sapevamo quando sarebbe stata disponibile. Quando si facevano insistenti, dovevamo dirgli che quelle obbligazioni erano finite nel mercato secondario e che non si vendevano».
Un castello di menzogne senza che la coscienza di nessuno di voi, lei compreso, avesse un sussulto?
«Eravamo tutti in una sorta di sudditanza psicologica. Dal 2007 al 2014 le azioni sono crollate da 17 euro e rotti a 1 euro e 50 e questo era indicativo del fatto che dovevamo dirottare le entrate su altri prodotti e che dovevamo fargli acquistare la qualunque, anche le subordinate. Avendo ingolfato i creditori medio-piccoli tutti noi convincevamo i più danarosi assicurandogli che sarebbe stato un bene per loro, un affare seguendo i nostri consigli. E poi via con lo slalom di bugie, rassicurazioni e risposte evasive».
Ha parlato di pressioni psicologiche.
«All’interno della banca ci dicevano che la banca era sull’orlo del fallimento, e che l’aumento di capitale serviva a salvarci e che se non ci fossimo dati da fare la banca avrebbe chiuso e noi saremmo stati licenziati. Ecco perché ognuno di noi convinceva più clienti possibili».
La logica del mors tua vita mea l’ha spinta a tradire la fiducia dei suoi clienti?
Scoppia a piangere Marcello Benedetti. «Questa è la cosa che non mi perdonerò mai. Aver tradito chi credeva in me. E alla luce della tragedia accaduta al signor Luigino, so che non potrò mai trovare pace né perdonarmi».

La Repubblica

PER UN PUGNO DI EURO I CONFLITTI DI INTERESSE CHI COMPRA E CHI VENDE
di Ettore Livini

Milano. Il loro nome è Bond. Subordinated bond. Al secolo, le obbligazioni subordinate delle banche. Fino a pochi mesi fa uno degli investimenti preferiti degli italiani, sicuro (si pensava) come i Bot e il lieto fine di 007. Oggi, per molti di loro, un incubo: più di 10mila persone hanno visto andare in fumo i risparmi di una vita, in un poker di salvataggi – Pop. Etruria, CariChieti, Banca Marche e Carife - che ha ridotto a carta straccia i 788 milioni di euro di titoli che avevano in portafoglio. Il loro dramma ha fatto scattare l’allarme rosso in centinaia di migliaia di famiglie: gli acquirenti dei 71 miliardi di strumenti simili “piazzati” sul mercato. Gente che spesso li ha comprati senza aver la minima idea del loro rischio, malgrado un tortuoso iter d’acquisto tra prospetti chilometrici, documenti informativi (o presunti tali) e consulenti a volte interessati. Ecco le tappe dell’Odissea di queste obbligazioni, dall’emissione fino alle tasche degli italiani, dal boom all’elettrochoc di queste ore.

Il successo dei bond subordinati è figlio di un’esigenza antica come il mercato: incrociare domanda e offerta. La domanda dei risparmiatori, a caccia di guadagni in un mondo dove i BoT rendono il -0,0003%; l’offerta delle banche, a caccia di liquidità in un momento in cui clienti e imprese faticano a pagare le rate di mutui e prestiti. Questi titoli hanno un forte appeal per entrambi: concorrono al patrimonio degli istituti, aiutandoli a rispettare i parametri imposti dalla Bce e piacciono ai risparmiatori per gli interessi. I bond delle società più solide rendono il 2-3% in più dei titoli di stato, quelle in difficoltà il 10%.
In soldoni, dai 200 ai mille euro l’anno di maggior guadagno per un investimento di 10mila euro. Le obbligazioni strutturate sono così decollate e il loro viaggio verso le tasche dei risparmiatori è iniziato “tarandone” la taglia. Delle 360 emissioni in circolazione (le hanno fatte tutti, da Intesa e Unicredit fino alle mini- banche di montagna) oltre 150 - calcola Consultique – sono accessibili investendo solo mille euro. Cifra alla portata di quasi chiunque, un centesimo dei 100mila di soglia minima per quelle riservate agli “scafatissimi” investitori istituzionali. Che, guarda caso, sono solo 38.
Confezionato il prodotto, gli italiani si sono messi in coda per comprarli. Chi doveva informarli dei rischi? Ogni settore, sul tema, ha le sue regole. Quelli delle sigarette sono stampati a caratteri cubitali (“Il fumo uccide”) sui pacchetti. Sui detersivi c’è il teschio per evitare che finiscano ai bambini. Le istruzioni per l’uso dei bond strutturati sono più sobriamente affidate a due strumenti: il prospetto imposto da Consob che elenca i pericoli dell’investimento e il documento Mifid dove la firma dell’acquirente certifica che il venditore ha fatto il suo lavoro: tenendo conto di obiettivi e conoscenza dei mercati e offrendogli prodotti in linea con il profilo di rischio personale.
Funziona? Evidentemente non troppo. Il documento Mifid è un tomo di decine di pagine in caratteri-bonsai che il cliente tende a siglare in automatico fidandosi della banca. I prospetti - completi a norma di legge, per carità – elencano una litania di rischi (compreso quello di bail-in) cui manca solo l’ipotesi di invasione di cavallette. E il consulente è spesso in conflitto d’interessi: quasi sempre è un dipendente della banca che ha emesso i titoli subordinati. A volte è incentivato con bonus e premi per venderli. Questo cocktail esplosivo ha attirato tra 2011 e 2012 il 10,8% dei risparmi tricolori verso le obbligazioni bancarie (a Parigi e Londra erano il 2%). Un esodo che allora non è spiaciuto certo a Governo e Banca d’Italia: buona parte della liquidità raccolta degli istituti è servita in quei mesi di spread alle stelle per acquistare Bot e Btp, regalando ossigeno al Tesoro.
Oggi, a frittata fatta, in nodi sono arrivati al pettine. Il più grande è l’azzeramento del loro valore. Ma non c’è stato bisogno di arrivare fino a qui per far maledire a molti il giorno in cui hanno comprato i bond subordinati. Tanti hanno iniziato prima, quando hanno provato a venderli in anticipo sulla scadenza. Ben 120 obbligazioni, spesso quelle delle realtà più piccole, non fanno mercato. Chi prova a liberarsene non trova un acquirente. Non hanno valori ufficiali. E quasi sempre l’unico disposto ad acquistarle è chi le ha vendute: la banca. Che a quel punto fa il prezzo. Risultato: si resta con il cerino in mano, anche quando si sente puzza di bruciato. Solo pochi obbligazionisti di Banca Marche sono riusciti nelle ultime settimane a scampare al bail- in, perdendo il 50%. Per gli altri l’Odissea è finita male. Forse - dicono in molti con il senno di poi - sarebbe stato meglio non fosse mai iniziata. Vietando la vendita dei bond subordinati ai risparmiatori.
Il Fatto Quotidiano
DI CHI è LA COLPA? BANKITALIA SE LA PRENDE CON LA CONSOB: TOCCAVA A VOI LA VIGILANZA
Dai tempi di Antonio Fazio e le inchieste sui “furbetti del quartierino”, dieci anni fa, mai la Banca d’Italia si era trovata così sotto accusa come ora, per i 130 mila risparmiatori che hanno perso i loro investimenti nel “salvataggio” di quattro banche arrivate al collasso nonostante le ispezioni e i commissariamenti di via Nazionale. Vista la scarsa abitudine alle critiche, i vertici di Bankitalia sbagliano a calibrare le reazioni. Troppo difensivo il governatore, Ignazio Visco: «Siamo sicuri di aver fatto il meglio». Troppo aggressivo il direttore generale Salvatore Rossi che, in un’intervista al Corriere della Sera, scarica le responsabilità sulla Consob, l’autorità che vigila sulla Borsa: «Non possiamo vietare di vendere questo o quel prodotto. E ricordo che a vigilare sulla sollecitazione al risparmio è preposta un’altra autorità”. Cioè la Consob. Rossi rivendica anche che «il governatore, in tempi non sospetti, ha chiesto di arrivare a vietare la vendita di obbligazioni subordinate agli sportelli in modo che solo investitori istituzionali potessero acquistarli e non i semplici risparmiatori».
Le obbligazioni subordinate sono i titoli al centro del disastro di Banca Marche, PopEtruria, CariChieti, CariFerrara. Si chiamano obbligazioni, ma in realtà sono strumenti che le banche emettono per rafforzare il capitale, in alternativa alle azioni. I risparmiatori pensano di star prestando soldi alla banca, in realtà ne stanno diventando soci. Con tutti i rischi che comporta. Ha ragione Salvatore Rossi? La Banca d’Italia ha fatto la sua parte e la colpa è della Consob?
Prendiamo l’audizione parlamentare del vicedirettore di Bankitalia Fabio Panetta sulle nuove regole europee, il 20 ottobre: «In prospettiva, andrà valutata l’opportunità di introdurre espliciti vincoli normativi al collocamento degli strumenti più rischiosi presso la clientela meno consapevole, limitandone l’offerta a specifiche categorie di investitori professionali». Un auspicio di intervento del governo e del Parlamento. Però poche righe prima, Panetta parlava dell’importanza di fare maggiore attenzione visto che, all’improvviso, in un Paese in cui le banche non erano mai fallite, azionisti e creditori ora rischiano: «Gli intermediari dovranno rispettare scrupolosamente, caso per caso, gli obblighi di trasparenza e correttezza stabiliti per l’emissione, il collocamento e la negoziazione degli strumenti più rischiosi presso la clientela al dettaglio. Le autorità dovranno verificare il rispetto delle regole, intervenendo con decisione per correggere eventuali violazioni».
Non si registrano interventi specifici di prevenzione, se non un vademecum sul sito e un incontro con le associazioni dei consumatori. Anzi, le obbligazioni subordinate in questi anni sono state vendute al retail (i piccoli risparmiatori) perché gli investitori istituzionali non le avrebbero mai comprate. E le emissioni spesso erano conseguenza dei solleciti, proprio di Bankitalia, a rafforzare il capitale. E la Consob? L’autorità guidata da Giuseppe Vegas non ha preso bene l’attacco di Bankitalia: già a fine 2014, quando il bail in è stato approvato a livello europeo, ha stabilito che le banche «hanno il dovere di condurre autonome valutazioni per la delimitazione del perimetro dell’offerta di prodotti finanziari, in coerenza con le connotazioni del proprio target di clientela» anche individuando i prodotti che «non si prestano alla realizzazione delle esigenze di investimento dei propri clienti». E tra queste indicava le obbligazioni subordinate. Dal 2018 la direttiva europea Mifid 2 darà il potere alla Consob di vietare i prodotti che non ritiene idonei alla vendita.
La tensione tra Consob e Bankitalia sul bail in non risale a ieri. In Parlamento, 22 ottobre, Vegas contestava «l’obbligo di differire la diffusione al pubblico della notizia relativa alla procedura di risoluzione (cioè lo smantellamento della banca, ndr) sino al momento della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, sul sito web della Banca d’Italia e su quello dell’ente sottoposto a risoluzione, anche ove la sussistenza dei presupposti per l’avvio della procedura sia già nota all’emittente e ai componenti dei suoi organi di amministrazione». Tutto segreto fino all’ultimo, neppure la Conosb che vigila sulle molte banche quotate può esserne informata. Poi una stoccata in codice: la norma europea. «Tale norma non è volta a recepire specifiche disposizioni della direttiva BRRD, che si limita a raccomandare un ‘efficace regime di riservatezza durante la procedura di risoluzione’». Tradotto: questa segretezza è stata suggerita al governo da Bankitalia che vuole il monopolio sulle informazioni sulle banche da smantellare. Meno si sa, più è difficile criticare.
«Sistema bancario. Contro gli effetti collaterali della grande crisi, restituire un ruolo a soggetti sociali, territorio e credito cooperativo».

Il manifesto, 12 dicembre 2015 (m.p.r.)

Scommetto che siamo stati in molti, appresa la tragica notizia del suicidio di Luigino d’Angelo, il pensionato di Civitavecchia depredato dei propri risparmi, a farci venire in mente la celebre domanda di Bertolt Brecht: «E’ più criminale fondare una banca o rapinarla?». Quesito non lieve e appropriato. Solo che andrebbe riferito non ad una banca sola ma all’intero sistema creditizio, a come viene normato e gestito tanto a livello italiano quanto europeo.

L’unica mela marcia pareva essere il Monte dei Paschi di Siena. Anche lì ci un fu un morto - il responsabile della comunicazione della banca - forse non proprio volontario. Si è voluto far credere che sanata quella falla le meravigliose sorti progressive del sistema bancario privato italiano potessero rifulgere. Di fronte a casi come quelli della Northern Rock inglese, salvata in extremis dal fallimento da una nazionalizzazione di fatto, si disse che le nostre banche non correvano simili rischi perché erano più solide. In realtà si perpetrava scientemente un inganno nei confronti dei piccoli risparmiatori che non hanno molto, presi uno per uno, ma che sono tanti e quindi si può fare cassa, come Ettore Petrolini diceva dei poveri. Bankitalia che avrebbe dovuto esercitare la necessaria vigilanza sugli istituti bancari non lo ha fatto o comunque non in misura opportuna.

Le cronache rivelano che un commissario di Bankitalia a suo tempo mise il naso negli affari di Banca Etruria. Tra questi la costruzione del panfilo più lussuoso del mondo, lungo ben 127 metri, per la quale si costituì una società garantita da un pool di banche con a capo l’Etruria, naturalmente fallita senza dare vita al mostro nautico e lasciando oltre 200 milioni di buco. Ma la credibilità del commissario di Bankitalia scese sotto lo zero quando si scoprì che era indagato altrove per l’acquisto di azioni proprie a prezzo maggiorato.

Così Bankitalia si è ritirata con la coda fra le gambe, evitando di procedere a un commissariamento che probabilmente avrebbe potuto evitare il disastro attuale. Il che non assolve le colpe dell’Europa, o meglio di alcuni paesi come, guarda caso, la Germania che hanno mobilitato 238 miliardi di aiuti per le proprie banche, né tantomeno permette di attribuire il titolo di virtuosi al governo e alle nostre autorità di controllo.

Il commissario europeo agli affari finanziari, Jonathan Hill, ha naturalmente difeso il salvataggio delle quattro banche perché coerente con la nuova normativa del bail-in (che impone il coinvolgimento degli azionisti e degli obbligazionisti), aggiungendo però che le banche italiane vendevano prodotti finanziari a gente ignara. La cosa ha indispettito l’establishment del nostro mondo bancario che ha reagito sostenendo che nei prospetti i rischi erano indicati. Ma si tratta di brogliacci dalla difficile lettura, certamente inadatti per fare da guida a una clientela inesperta. Quando si arriva al dunque il prospetto di Banca Marche, una delle pessime quattro, dice: «E’ quindi necessario che l’investitore proceda alla sottoscrizione (delle obbligazioni) solo dopo averne compreso la natura e il grado di esposizione al rischio». Il maresciallo de La Palisse non avrebbe saputo dire di meglio.

In realtà piccoli e medi risparmiatori sono stati lasciati in balia di voraci sportellisti, pronti a tutto pur di vendere i loro prodotti. E’ uno degli effetti collaterali della grande crisi. Soprattutto quando le banche erano in carenza di liquidità, quindi tra il crack di Lehman Brothers che spaventò il mondo degli istituti di credito e prima dei tassi favorevoli e dei Quantitative Easing di Mario Draghi, spregiudicati operatori hanno fatto di tutto per vendere bond bancari. Ora ve ne è meno necessità, ma nel frattempo – secondo i dati 2014 di Bankitalia – le famiglie italiane si trovano nelle tasche 237,5 miliardi di euro in obbligazioni bancarie. E non c’è da stare allegri.

Che fare allora? In primo luogo, se si vuole tutelare il risparmio e porre un argine a manovre spericolate, quando non direttamente truffaldine, bisognerebbe procedere alla separazione tra banche di investimento e banche commerciali. Quindi evitare di favorire a ogni costo le fusioni bancarie. Il decreto sulle banche popolari a suo tempo deciso dal governo Renzi va proprio in direzione contraria rispetto alla vicinanza fra territorio e istituti di credito. Ma la dimensione ridotta delle banche, i loro legami con zone geografiche circoscritte di per sé non sono una garanzia sufficiente. Lo dimostra la banca Etruria in quel di Arezzo, centro di molti guai per la democrazia italiana e essa stessa perno di un mostruoso connubio fra finanza massonica e finanza cattolica. Come ha scritto ieri Tonino Perna, abbiamo bisogno di più democrazia economica e questo riguarda anche il mondo bancario. Non c’è vigilanza che tenga se non si attribuisce un ruolo attivo ai soggetti sociali, ai soci del credito cooperativo. Se non si ha un’altra idea del credito al servizio e non a dominio dell’economia reale.

Ora si parla di commissioni di inchiesta parlamentare. Non comprendo le obiezioni contrarie. A suo tempo quella sul crack Parmalat svolse un buon lavoro. E’ vero che la qualità dei parlamentari era migliore, ma non è un buon motivo per negare alle Camere un ruolo forte di inchiesta che potrebbe scoperchiare altre pentole in ebollizione.

Intanto il governo prepara un emendamento per far fare da arbitro alla Consob, che giudicherà caso per caso sui 10.350 risparmiatori truffati e per istituire un fondo di 80 milioni (40 dallo Stato e 40 dal mondo bancario).

Basterà? La risposta è facile: no.

continua a leggere)

Possiamo anche comprendere, dopo la tragedia di Parigi, la campagna di enfasi sui valori dell'Occidente scatenata dai media della vecchia Europa. Possiamo anche essere indulgenti, dopo lo shock del 13 novembre, nel leggere l'infedele lista di virtù e primati che la parte del mondo dove tramonta il sole vanterebbe sul resto di popoli della terra. Partecipiamo dello stesso dolore e risentimento per l'aggressione subita, e conosciamo anche l'insuperabile superficialità dei nostri media, la propaganda politica camuffata di informazione ed analisi. Ma la lista dei nostri valori è infedele e incompleta non solo perché si limita a ricordare la libertà individuale, lo stile di vita, il rispetto della donna e pochissime altre cose.

Manca dall'elenco la retorica da primato, la capacità di autoassolversi, l'incapacità congenita di comprendere le ragioni dell'altro. E latitano di fatto anche conquiste positive che effettivamente possediamo: lo spirito critico, la capacità di analisi storica. Queste ultime dovrebbero rammentarci che dentro l'Occidente è fiorita e prospera da secoli la malapianta del razzismo, che anzi l'Occidente stesso nasce come colonialismo, distinzione e sopraffazione dell'altro. Noi datiamo l'inizio dell'Età moderna e dunque la fondazione dell' Occidente con la scoperta delle Americhe, col completamento, a Ovest, della conoscenza del globo.Ma dimentichiamo che quell'avvio dell'occidentalizzazione del mondo coincide con lo sterminio delle popolazioni native: «il più grande genocidio dell'umanità», come lo ha definito Tzevtan Todorov.

Certo, non è questo il momento di andare così indietro nel tempo. Del resto, basterebbe rammentare le vicende recenti, a partire dalla prima Guerra del Golfo, come hanno fatto pochi onesti commentatori, capaci di pensare prima di scrivere. E tuttavia oggi bisogna rinserrare i ranghi e predisporre le difese per evitare che la tragedia si ripeta. Ma è in questi momenti che la mancanza di analisi critica, di lucidità, di onestà storica può indurre a compiere errori fatali. E allora, chiediamo: qual'è il senso dell'espressione “scontro di civiltà”, aggiornato a “guerra di civiltà”? Guerra di civiltà? Ma l'Occidente non ha mai smesso un istante di fare guerra agli altri da quando è sorto e si autodefinito come tale. L'espressione non è solo un capovolgimento clamoroso della realtà storica, è una rappresentazione del presente infondata sino al ridicolo. E' come se due entità alla pari, per l'appunto due civiltà, si fronteggiassero per conseguire un primato assoluto.

Ma non è così. In realtà quello che un tempo era Oriente – ricordate Edward Said? – e ora chiamiamo Islam, non è che un mondo sconfitto, culturalmente annichilito dal dominio dell'Occidente. L'immaginario che noi abbiamo costruito si è ormai imposto come l'unico orizzonte di possibilità a tutti i popoli della terra. Le grandi masse di religione islamica non hanno altra prospettiva che di essere assorbiti dai valori e dagli idoli scintillanti della nostra società. Sono li, condannati a diventare come noi. Ma non è solo da tale immenso accampamento di sconfitti che partono le imprese disperate dei terroristi. Al suo interno le élites musulmane non disdegnano, com'è noto, di assaporare le ebbrezze delle nostre Ferrari. Perché anche l'Islam è diviso in classi, lacerato dalle disuguaglianze.

Tale realtà è vera e nota da tempo. Quel che cambia, quel che oggi appare più esemplarmente visibile, è l'intimo nichilismo del nostro messaggio. Un nichilismo che ha lo stesso volto per i giovani europei, bianchi e cattolici come per i ragazzi musulmani della banlieue parigina. Al di sotto delle fantasmagorie del consumismo, le società capitalistiche del nostro tempo svelano la desertificazione di senso a cui sono approdate. Non hanno nessun progetto di futuro da proporre, nessun nuovo assetto di civiltà con cui attrarre e sedurre culture altre. Tanto meno i giovani musulmani di seconda generazione, senza lavoro e senza opportunità. Qualcuno si ricorda più dell'American dream, del sogno americano?

Oggi negli USA come in Europa le nuove generazioni hanno la certezza che non potranno contare sulle stesse opportunità e i vantaggi dei loro padri. Di quale protezione sociale godranno una volta anziani? Quale certezza di occupazione e di reddito, di stabilità nel lavoro, nelle relazioni umane? Quale messaggio di solidarietà, di superiore assetto del vivere in comune, di felicità collettiva lanciano ad esse le élites dell'odierno capitalismo? Tutto ciò che la sua parte più avanzata può offrire di seducente alle nuove generazioni è un nuovo prodotto tecnologico da godere in consumistica solitudine. Perfino il nostro avvenire sul pianeta, a causa dell'esaurimento delle risorse e del riscaldamento globale, appare minacciato. Per il resto, l'intero tessuto della società cosi come l'abbiamo conosciuta viene frantumato, risucchiato negli scambi di mercato. Ci ricordiamo ancora della nota esclamazione di Barbara Thatcher,”non c'è alternativa”? Non era solo un invito a desistere dalla lotta rivolto al movimento operaio e alle sinistre. Era, ed è ancora, uno sbarramento degli orizzonti dello stesso capitalismo, che non ha più nulla da offrire, se non il mondo così com'è.

Eppure l' Occidente per qualche secolo, mentre schiacciava altri popoli, ha tenuta alta la bandiera del progresso, almeno per i propri. Oggi non accade più, non si va avanti, si torna indietro. Perciò nel senso in cui si utilizza oggi il termine, Occidente è una moneta scaduta, non ha più corso. Dovremmo essere onesti e dire la verità. Il messaggio di morte dei terroristi è figlio legittimo di questo capitalismo predatore e senza speranza.

A titolo di doverosa precisazione rispetto a certe pur positive previsioni sociali ed economiche sulle innovazioni tecnologiche e organizzative: attenzione all'invadenza del solito potere finanziario incontrollato.

La Repubblica, 23 novembre 2015

Un ibrido tra i lavoratori in affitto, i lavoratori autonomi e gli agenti di commercio pagati in base ai clienti che procacciano o alle polizze che riescono a fare acquistare. Più che alla sharing economy il lavoro “uberizzato” fa venire in mente una versione tecnologica del mercato delle braccia che ancora esiste nelle campagne del sud e non solo. Certo, l’enorme differenza è che non c’è un singolo insindacabile compratore, ma una miriade di potenziali compratori tra cui scegliere secondo la propria convenienza e bisogno. Anche se poi c’è sempre un “padrone” invisibile, ma potente, che in base alle proprie insindacabili decisioni, pardon algoritmi, decide se tenerti o no sulla propria piazza virtuale e trae consistenti profitti dal tuo lavoro. Anche sulle piattaforme digitali si è lungi dall’essere uguali nei rapporti di lavoro. Imprenditori di se stessi, della propria forza lavoro, con l’illusione della libertà nella gestione del proprio tempo, ma non certo rispetto alle proprie necessità di bilancio, senza protezione finanziaria e senza welfare. Fuori dalla finzione del finto lavoro autonomo delle finte partite Iva e dei contratti a progetto che hanno le stesse rigidità del lavoro dipendente senza le medesime garanzie. Liberi professionisti, che tuttavia devono pagare salata l’intermediazione del loro lavoro. Questo sono i lavoratori che offrono il proprio lavoro sulle piazze intermediate della rete.

Per qualcuno, come si diceva una volta del lavoro interinale, può essere davvero una scelta di vita, che consente di lavorare quando e quanto si vuole, purché si guadagni abbastanza per soddisfare le proprie necessità, purché non ci si ammali troppo spesso o troppo seriamente, e senza preoccuparsi della vecchiaia. Per altri, specie se giovani ancora studenti, un modo relativamente facile di procurarsi un po’ di reddito senza dover dipendere del tutto dai genitori, che tuttavia provvedono al tetto sulla testa e al cibo in frigorifero, o per integrare una borsa di studio. Può anche essere un modo di procurarsi un secondo lavoro esentasse. Per molti, tuttavia, come testimoniano le prime azioni di protesta dei lavoratori per Uber o per Amazon, può essere una trappola sia sul piano economico che dei diritti ad essere trattati con giustizia.

Si veda, per gli aspetti positivi e le potenzialità sociali della sharing economy, l'articolo di Alessandro Rosina

Purtroppo certe parole già al loro apparire iniziano ad essere distorte, vuoi per malafede, vuoi per pura ignoranza, vuoi un po' per entrambe. Condivisione, spieghiamolo ai nostri ragionieri, è un po' più di una app o di uno slogan.

La Repubblica Milano, 20 novembre 2015, postilla (f.b.)

Qualche mese fa scrivevamo su queste pagine che la sharing economy non è solo una . È molto di più, come ha confermato la terza edizione di “Sharitaly” che si è tenuta la settimana scorsa a Milano e che aveva proprio come sottotitolo “Non solo app. L’economia collaborativa nelle aziende, nelle pubbliche amministrazioni e nel terzo settore”. Scopo di tale manifestazione - promossa da Collaboriamo e da Trailab con il patrocinio del Comune di Milano - è stato quello sia di arricchire il dibattito teorico sulla sharing economy, sia di favorire la crescita concreta dell’economia collaborativa a Milano e in Italia.

La sharing economy viene spesso fatta coincidere con l’innovazione del car sharing e con la rivoluzione di Uber e di Airbnb, ma è molto di più. È vero che l’economia collaborativa è stata favorita dall’innovazione digitale e dalle nuove potenzialità offerte dal web, ma non è solo una questione di app. È vero che è stata stimolata dalla crisi economica, ma non è solo una questione di costi più bassi. È vero che sta cambiando il modo di intendere il rapporto tra possesso e accesso a beni e servizi, ma non è solo una questione economica. È tutto questo assieme e molto di più. La convenienza economica è importante nel breve periodo, ma l’elemento caratterizzante che può renderla un nuovo paradigma vincente nel medio e lungo periodo è quello sociale e relazionale. Collaborazione e condivisione hanno bisogno di fondarsi sulla fiducia. Su questo punto cruciale l’Italia ha una sua specificità che in parte è un vantaggio e in parte un limite.

Uno dei tratti salienti del modello sociale e di welfare dei Paesi dell’Europa mediterranea è la forte solidarietà. La grande propensione al sostegno reciproco e alla collaborazione si esprime però soprattutto all’interno di reti ristrette, in particolare in quella familiare e parentale. Sono molti gli studi e le ricerche che mostrano come i caratteri antropologici della famiglia italiana siano stati e ancor siano in grado di condizionare il modello economico. Rispetto agli altri Paesi sviluppati da noi è da sempre più forte la fiducia data ai contatti più stretti che alla società più ampia e alle istituzioni. In altre parole, nei Paesi mediterranei dominano i legami forti della famiglia e della comunità locale, mentre poco sviluppati sono i cosiddetti “legami deboli” che invece favoriscono l’interazione sociale ampia.

Questo non significa che in Italia la sharing economy non sia destinata a decollare, ma produce due implicazioni. La prima è che, come accaduto anche per altre innovazioni che si sono dovute confrontare in modo non scontato con il modello culturale italiano, può richiedere un po’ più di tempo prima di consolidarsi pienamente. La seconda è che avrà molta più possibilità di successo, come mostrano anche varie esperienze positive di crowdfunding, all’interno delle comunità locali interagendo sinergicamente con il welfare comunitario. Se però c’è un luogo in Italia in cui i legami deboli sono più attivi e dove i processi di innovazione vengono anticipati è Milano. Grazie anche al ruolo del Comune, questa città sta di fatto già diventando un laboratorio di sperimentazione di modelli di produzione collaborativa e di consumo condiviso. Una Milano che sempre meno sembra accontentarsi di essere la capitale finanziaria e sempre più può cogliere la sfida di un’economia diversa, più capace di creare valore sociale.

postilla
Il richiamo ai vincoli familiari e amicali, correttissimo e dovuto, da parte del sociologo, non sottragga però alle implicazioni direttamente economiche (che non escludono certo queste reti) del modello, che tende a fare sistema nei suoi aspetti organizzativi e motivazionali, assai più di quanto non ci dicano certi superficiali commentatori. Basta pensare che il primissimo e principale esempio del car-sharing, pur decantato e apparentemente coccolato dai media, da un lato viene sempre visto claustrofobicamente in ogni implicazione interna e mai accoppiato a tante altre cose con cui invece si intreccia eccome, dall'altro sono addirittura le istituzioni ad ignorarne, platealmente, le potenziali sinergie a vantaggio del cittadino. Due esempi, sempre per restare agli aspetti tecnologici-organizzativi citati in apertura da Rosina: non esiste a tutt'oggi una app unica trasversale, corrispondente magari a un sistema unificato di funzionamento dei vari operatori e mezzi, e neppure si vedono a occhio nudo stimoli istituzionali a promuoverla; last but not least, ci sono voluti anni e anni e anni, perché nella città forse più avanzata anche da questo punto di vista, Milano, qualcuno iniziasse a vagheggiare (vagheggiare, non si è fatto nulla) di qualche incentivo in più per gli operatori dei veicoli elettrici, che sono, quelli sì, un potentissimo stimolo all'innovazione, se accoppiati al sistema della condivisione, per esempio sul versante dei veicoli, ma anche della produzione e distribuzione sostenibile di energia, e così di questo passo. Sul medesimo giornale, nell'edizione nazionale, leggiamo una lunga intervista sulla «promozione del veicolo elettrico» in cui si propone come rivoluzionaria l'idea di mettere delle prese di corrente sulla A1 Milano-Roma, lasciando ovviamente tutto il resto dell'universo identico, auto di proprietà col solo guidatore incluse: quanta strada c'è da fare! (f.b.)

Per l'ignoranza dei più, la follia dei governanti, la complicità dei mass media rischiamo l'approvazione un trattato che può «vio­lare i diritti umani, comportando disoc­cu­pa­zione, danni all'agri­col­tura, frodi ali­men­tari, deva­sta­zione dell’ambiente, inqui­na­mento delle acque, con­ta­mi­na­zione radioat­tiva, defor­ma­zioni genetiche». Il manifesto, 17 ottobre 2015

In molti paesi civili, di là e di qua dall’Atlantico, dagli stessi Stati uniti alla Ger­ma­nia, il Ttip è oggetto di cri­ti­che severe e ben fondate.

Nel nostro paese (“Ahi serva Ita­lia!” era l’invettiva di Paolo Sylos Labini) le cri­ti­che sono rare e mino­ri­ta­rie. Molti, invece, i giu­dizi entu­sia­stici; dalla Con­fin­du­stria al Pre­si­dente del Con­si­glio. Mat­teo Renzi ha defi­nito «vitale» il Trat­tato e soste­nuto che «la sua man­cata con­clu­sione sarebbe un gigan­te­sco auto­gol per il nostro continente».

Sia ai cri­tici sia ai soste­ni­tori del Ttip, e soprat­tutto a que­sti, sarebbe utile la let­tura di un docu­mento delle Nazioni Unite: Fourth report of the Inde­pen­dent Expert on the pro­mo­tion of a demo­cra­tic and equi­ta­ble inter­na­tio­nal order. È un docu­mento circa le con­se­guenze giu­ri­di­che del Ttip, con­se­guenze non meno gravi — la pri­va­tiz­za­zione del diritto — di quelle imme­dia­ta­mente economiche. Ne riprendo qui alcuni passi.

«È forse ammis­si­bile che a un inve­sti­tore che spe­cula o a una banca che con­cede pre­stiti senza garan­zie sia comun­que assi­cu­rato un pro­fitto? No: qual­che volta gli inve­sti­tori vin­cono, qual­che volta per­dono. Ciò che è anor­male è che un inve­sti­tore pre­tenda la garan­zia di un pro­fitto, e che si crei un sistema paral­lelo di riso­lu­zione stra­giu­di­ziale delle con­tro­ver­sie, un sistema che nor­mal­mente non è indi­pen­dente, tra­spa­rente, affi­da­bile o almeno impu­gna­bile, e soprat­tutto che si cer­chi di usur­pare le fun­zioni dello Stato. Si trat­te­rebbe di una pri­va­tiz­za­zione dei pro­fitti e di una socia­liz­za­zione delle per­dite (all’Onu si ricor­dano di Erne­sto Rossi!)».

Nono­stante le ana­lisi dell’Unctad, di J. Sti­glitz, P. Krug­man e J. Capaldo, le società trans­na­zio­nali con­ti­nuano a spin­gere i governi verso nuovi accordi di inve­sti­menti inter­na­zio­nali con clau­sole di Riso­lu­zione delle con­tro­ver­sie tra inve­sti­tore e Stato (Investor-state dispute set­tle­ment: Isds), clau­sole che potreb­bero por­tare a gravi crisi inter­na­zio­nali. La ragione addotta è che gli inve­sti­tori non si fidano dei sistemi giu­di­ziari nazio­nali, e pre­fe­ri­scono creare una giu­ri­sdi­zione sepa­rata per le con­tro­ver­sie com­mer­ciali; tut­ta­via è dif­fi­cile capire per­ché mai uno Stato dovrebbe accet­tare l’implicita squa­li­fi­ca­zione dei suoi tri­bu­nali nazio­nali e con­sen­tire la crea­zione di un sistema pri­va­tiz­zato di riso­lu­zione delle con­tro­ver­sie: piut­to­sto che andare in causa davanti ai tri­bu­nali nazio­nali, gli inve­sti­tori si affi­dano a tre arbi­tri che deci­de­ranno se i loro diritti sono stati vio­lati da uno Stato.

Ciò è tanto più grave quando si tratta di atti­vità eco­no­mi­che e finan­zia­rie che pos­sono vio­lare i diritti umani, in quanto com­por­tino disoc­cu­pa­zione, danni alla agri­col­tura e frodi ali­men­tari, deva­sta­zione dell’ambiente, inqui­na­mento delle acque, con­ta­mi­na­zione radioat­tiva, defor­ma­zioni genetiche.

Di qui una prima rac­co­man­da­zione: «Gli Stati dovreb­bero abo­lire il sistema di riso­lu­zione delle con­tro­ver­sie tra inve­sti­tori e Stato, e sosti­tuirlo con una Corte degli inve­sti­menti internazionali».
Il docu­mento dell’Onu si può tro­vare a que­sto indi­rizzo inter­net: http:// www .ref world .org/ p d f i d / 5 5 f 2 8 f 2 e 4 . pdf. Un cenno, tut­ta­via, a que­sti «inve­sti­tori» inter­na­zio­nali, tanto cor­teg­giati dal governo ita­liano e che sono grandi imprese mul­ti­na­zio­nali e grandi spe­cu­la­tori finan­ziari quali Blac­kRock e Gold­man Sachs — ben cono­sciuti e ben intro­dotti in Italia.

Ora un inve­sti­mento è dav­vero tale se aumenta lo stock di capi­tale di un paese, per esem­pio se si costrui­sce una nuova fab­brica, si impie­gano nuove mac­chine e si assu­mono nuovi lavo­ra­tori. Se un «inve­sti­tore» di un altro paese com­pera una impresa ita­liana, si tratta sol­tanto di un pas­sag­gio di pro­prietà e di poteri, con con­se­guenze ovvie e aggra­vate dalla pri­va­tiz­za­zione del diritto di cui si è detto.

Mentre i negoziatori e i ministri degli Stati Uniti e degli altri undici paesi del Pacifico si incontrano ad Atlanta per definire i dettagli del nuovo Accordo Trans-Pacifico (TPP), un'analisi più seria è fondamentale. Il più grande accordo della storia sul commercio e gli investimenti non è come sembra.
Si sentirà parlare molto dell'importanza del TPP per il "libero scambio". La realtà è che si tratta di un accordo che vuole gestire i rapporti commerciali e di investimento tra i suoi membri ­- e farlo per conto delle più potenti lobby di ciascun paese. Fate attenzione: è evidente dalle principali questioni, sulle quali i negoziatori stanno ancora contrattando, che il TPP non ha niente a che fare con il "libero" scambio.
La Nuova Zelanda ha minacciato di uscire dall'accordo a causa del modo in cui il Canada e gli Stati Uniti gestiscono il commercio di prodotti lattiero-caseari. L'Australia non è contenta del modo in cui gli Stati Uniti e il Messico gestiscono il commercio di zucchero. E gli Stati Uniti non sono soddisfatti del modo in cui il Giappone gestisce il commercio di riso. Questi settori sono sostenuti da ampi blocchi di elettori nei loro rispettivi paesi. E rappresentano solo la punta dell'iceberg del modo in cui il TPP potrebbe portare avanti un'agenda che in realtà contrasta con il libero scambio.
Per iniziare, si consideri quello che l'accordo farebbe per estendere i diritti di proprietà intellettuale delle grandi compagnie farmaceutiche, come è emerso dalle versioni trapelate dal testo oggetto dei negoziati. La ricerca economica mostra chiaramente che tali diritti di proprietà intellettuale promuovono una ricerca che nella migliore delle ipotesi risulta debole. In realtà, è evidente il contrario. Quando la Corte Suprema ha annullato il brevetto di Myriad sul gene BRCA, questo ha portato molte innovazioni che hanno prodotto test migliori e a costi più bassi. Le disposizioni contenute nel TPP invece limiterebbero la competizione aperta e aumenterebbero i prezzi per i consumatori negli Stati Uniti e in tutto il mondo – un anatema per il libero scambio.
Il TPP gestirà il commercio di prodotti farmaceutici attraverso una varietà di modifiche di norme apparentemente arcane su questioni come "patent linkage1", "l'esclusività di dati", e i "biofarmaci". Il risultato è che alle compagnie farmaceutiche sarebbe di fatto consentito estendere -­ a volte quasi indefinitamente ­- i loro monopoli sui medicinali brevettati, tenere i generici più economici fuori dal mercato, e impedire ai concorrenti biosimilari di introdurre nuovi farmaci per anni. Questo è il modo in cui il TTP gestirà il commercio del settore farmaceutico se gli Stati Uniti riusciranno nel loro intento.
In modo analogo, si consideri come gli Stati Uniti sperano di usare i TPP per gestire il commercio nell'industria del tabacco. Per decenni, le società statunitensi di tabacco hanno utilizzato meccanismi di aggiudicazione di investitori esteri creati da accordi come il TPP per combattere le normative volte a contenere la piaga sociale del fumo. In base a questi sistemi di regolazione delle controversie tra stato e investitore (ISDS), gli investitori stranieri acquisis

cono nuovi diritti per far causa ai governi nazionali, ricorrendo ad arbitrati privati vincolanti sulle normative che, secondo loro, diminuiscono la redditività attesa dei loro investimenti.

Gli interessi delle aziende internazionali promuovono l'ISDS come un sistema necessario per proteggere i diritti di proprietà laddove manca lo stato di diritto e dei tribunali attendibili. Ma questo argomento non ha senso. Gli Stati Uniti stanno cercando lo stesso meccanismo in un mega-accordo simile con l'Unione Europea, l'Accordo Transatlantico per il commercio e gli investimenti, anche se ci sono pochi dubbi sulla qualità degli ordinamenti giuridici e dei sistemi giudiziari europei.

Gli investitori meritano tutela contro l'espropriazione o norme discriminatorie. Ma l'ISDS va ben oltre. L'obbligo di risarcire gli investitori per le perdite di profitti attesi può ed è stato applicato persino laddove le regole non sono discriminatorie e i profitti sono realizzati causando un danno sociale.

La Philip Morris International è attualmente in causa contro l'Australia e l'Uruguay (che non è partner del TPP) che richiedono di apporre sui pacchetti di sigarette delle etichette di avvertenza. Il Canada, minacciato da una simile querela, qualche anno fa ha fatto marcia indietro sull'introduzione di un'etichetta analoga.

Dato il velo di segretezza intorno alle trattative del TPP, non è chiaro se il tabacco verrà escluso da alcuni aspetti dell'ISDS. In entrambi i casi, la questione principale rimane: tali disposizioni rendono difficile ai governi svolgere le loro funzioni basilari ­- proteggere la salute e la sicurezza dei loro cittadini, assicurare la stabilità economica, e salvaguardare l'ambiente.

Si immagini cosa sarebbe accaduto se queste disposizioni fossero state messe in atto quando gli effetti letali dell'amianto furono scoperti. Anziché chiudere le aziende e costringerle a risarcire coloro che sono stati danneggiati, in base all'ISDS, i governi avrebbero dovuto pagare i produttori per non uccidere i loro cittadini. I contribuenti sarebbero stati colpiti due volte - la prima pagando per i danni alla salute causati dall'amianto, e poi risarcendo i produttori per la perdita dei loro profitti nel momento in cui il governo fosse intervenuto per regolamentare un prodotto dannoso.

Non dovrebbe sorprendere che gli accordi internazionali dell'America producano un commercio gestito anziché libero. Questo è ciò che succede quando il processo di policymaking è chiuso agli stakeholder non commerciali ­- per non parlare dei rappresentanti eletti dal popolo al Congresso.

1Con questo termine comunemente si definisce la pratica con cui le autorità regolatorie farmaceutiche condizionano il rilascio di autorizzazioni all'immissione in commercio dei farmaci generici all'esistenza o meno di brevetti sui principi attivi.

Articolo pubblicato da project-syndicate.org

Traduzione di Victor Murrugarra

Il manifesto, 15 ottobre 2015 (m.p.r.)

È par­tita lunedì la pri­va­tiz­za­zione di Poste Ita­liane, che verrà rea­liz­zata con la col­lo­ca­zione sul mer­cato di azioni della società cor­ri­spon­denti a poco meno del 40% del capi­tale sociale. L’obiettivo dichia­rato dal governo è l’incasso di circa 4 miliardi da desti­nare alla ridu­zione del debito pub­blico. Già da que­sta pre­messa emerge il carat­tere ideo­lo­gico dell’operazione: l’incasso di 4 miliardi di euro com­por­terà, infatti, un dra­stico calo del nostro debito pub­blico dall’attuale ver­ti­gi­nosa cifra di 2.199 miliardi (dati Ban­ki­ta­lia) alla cifra di 2.195 miliardi (!). Senza con­tare il fatto di come l’attuale utile annuale di Poste Ita­liane, 1 miliardo di euro, andrà cal­co­lato, come entrate per lo Stato, in 600 milioni di euro/anno a par­tire dal 2016.

Si tratta di un evi­dente rove­scia­mento ideo­lo­gico della realtà: non è infatti la pri­va­tiz­za­zione di Poste Ita­liane ad essere neces­sa­ria per la ridu­zione del debito pub­blico, quanto è invece la nar­ra­zione shock del debito pub­blico ad essere la pre­messa per poter pri­va­tiz­zare Poste Italiane.

Occorre poi aggiun­gere come anche il prezzo di ven­dita del 40% di Poste Ita­liane sia stato ipo­tiz­zato al mas­simo ribasso, pre­fi­gu­rando, ancora una volta, la sven­dita di un patri­mo­nio col­let­tivo. Infatti, men­tre Banca Imi, filiale di Intesa San­paolo, attri­buiva, non più tardi di una set­ti­mana fa, un valore a Poste Ita­liane com­preso fra gli 8,95 e gli 11,42 miliardi di euro, e men­tre Gold­man Sachs par­lava di una cifra com­presa i 7,9 e i 10,5 miliardi, ai bloc­chi di par­tenza della ven­dita delle azioni la società risulta valo­riz­zata fra i 7,8 e i 9, 79 miliardi.

A que­sto, vanno aggiunti tutti i fat­tori di rischio insiti nell’operazione, legati al fatto che men­tre si decide di pri­va­tiz­zare un ser­vi­zio pub­blico uni­ver­sale, con­se­gnan­dolo di fatto alle leggi del mer­cato, se ne raf­forza al con­tempo, per ren­dere più appe­ti­bile l’offerta, il carat­tere mono­po­li­stico nel campo dei ser­vizi oggi offerti, per i quali non v’è invece alcuna cer­tezza rispetto al domani: par­liamo dell’accordo vigente con Cassa depo­siti e pre­stiti per la gestione del rispar­mio postale (1,6 miliardi di com­mis­sione), così come dei cre­diti van­tati da Poste nei con­fronti della pub­blica ammi­ni­stra­zione (2,8 miliardi). Senza con­tare come la società abbia in pan­cia stru­menti di finanza deri­vata, il cui fair value, al 30 giu­gno 2015, risulta nega­tivo per 976 milioni.

Ma aldilà di que­ste con­si­de­ra­zioni eco­no­mi­ci­sti­che, è a tutti evi­dente come, con il col­lo­ca­mento in Borsa del 40% di Poste Ita­liane, muti defi­ni­ti­va­mente la natura di un ser­vi­zio, la cui uni­ver­sa­lità era sinora garan­tita dal suo con­te­sto di garan­zia pub­blica, che per­met­teva, attra­verso i ricavi rea­liz­zati dagli uffici postali delle grandi aree den­sa­mente urba­niz­zate, di poter man­te­nere l’apertura di uffici, spesso con fun­zioni di pre­si­dio sociale ter­ri­to­riale, in tutto il ter­ri­to­rio ita­liano, a par­tire dai pic­coli paesi. E’ evi­dente come la pri­va­tiz­za­zione in atto inci­derà soprat­tutto su que­sto dato: per i divi­dendi in Borsa diverrà asso­lu­ta­mente neces­sa­rio il taglio dei rami eco­no­mi­ca­mente sec­chi, ovvero la dra­stica ridu­zione degli spor­telli nelle aree poco popolate.

E, infatti, il piano indu­striale già pre­vede - ma sarà solo l’assaggio - la diver­si­fi­ca­zione dei modelli di reca­pito, che da otto­bre 2015 rimarrà quo­ti­diano per nove città defi­nite ad «alta den­sità postale», men­tre diverrà a giorni alterni per 5267 comuni. Quasi tau­to­lo­gico sot­to­li­neare l’impatto sul mondo del lavoro, che vedrà una dra­stica ridu­zione - si parla nel tempo di 12–15.000 posti in meno - oltre al sovrac­ca­rico di ritmi per quelli che avranno la for­tuna di essere sfug­giti alla man­naia.

Di fatto, con la pri­va­tiz­za­zione di Poste Ita­liane si cerca di ren­dere espli­citi pro­cessi che già con la pre­ce­dente tra­sfor­ma­zione in SpA erano rima­sti sotto trac­cia: un’attenzione sem­pre più resi­duale al ser­vi­zio di reca­pito postale (anche per motivi legati all’innovazione tec­no­lo­gica) e un accento sem­pre più mar­cato sul ruolo finan­zia­rio di Poste Ita­liane, che, oggi, gra­zie alla capil­la­rità dei suoi pre­sidi ter­ri­to­riali (13.000 spor­telli), costruiti negli anni con i soldi della col­let­ti­vità, può tran­quil­la­mente lan­ciarsi in Borsa sfrut­tando la fide­liz­za­zione dei cit­ta­dini accu­mu­lata in decenni di ruolo pub­blico, per met­terla a valore in pro­dotti assi­cu­ra­tivi, finan­ziari e in sem­pre più spre­giu­di­cate spe­cu­la­zioni di mer­cato. Stu­pi­sce, ma fino a un certo punto, la totale con­di­scen­denza dei prin­ci­pali sin­da­cati. E non vale la foglia di fico dell’azionariato popo­lare, che in realtà rende la truffa ancor più com­piuta: con le azioni per i dipen­denti e gli utenti si fa un ulte­riore favore ai grandi inve­sti­tori, che potranno con­trol­lare la società senza nep­pure fare lo sforzo di met­tere soldi per acquistarla.

*Attac Ita­lia

La Repubblica, 9 ottobre 2015 (m.p.r.)

Con le antenne sensibili di chi fa campagna elettorale, Hillary Clinton ha capito che la globalizzazione perde colpi. Suo marito Bill da presidente firmò il “padre” di tutti gli accordi libero scambio, il Nafta che creò un mercato unico tra Usa, Canada e Messico. Oggi Hillary boccia l’analogo trattato che Barack Obama ha concordato coi paesi dell’Asia-Pacifico: «Non va ratificato», dice la candidata aprendo la prima seria frattura con l’attuale presidente. Lo stesso dice Donald Trump, in testa ai sondaggi tra i repubblicani. In campagna elettorale, è vero, il populismo piace e il protezionismo porta voti. Ma stavolta c’è dietro un cambiamento profondo che investe l’intera economia mondiale. La globalizzazione si è inceppata.

Lo si capisce mettendo insieme questi tre fenomeni. Primo, il Fondo monetario al vertice di Lima annuncia che il mondo è in una recessione analoga al 2009, se misuriamo tutti i Pil in dollari anziché in monete nazionali (cosa che ha un senso, soprattutto per i paesi emergenti che vivono di esportazioni in dollari). Secondo: lo stesso Fmi rileva che il commercio mondiale non cresce più; ed era proprio l’espansione degli scambi il tratto distintivo della globalizzazione. In passato il commercio estero cresceva più dei Pil nazionali, ora è il contrario.
Il terzo segnale viene dalla Rete, uno spazio decisivo visto che ci scambiamo sempre meno merci fisiche e sempre più servizi online, comunicazione e informazioni; l’ultima sentenza della Corte di Giustizia europea che blocca il trasferimento di dati dall’Europa all’America, conferma una tendenza già in atto: il web è sempre meno universale, Internet si sta lentamente trasformando in tanti Intra-Net suddivisi tra aree geografiche. Cominciarono regimi autoritari come Cina, Russia e Iran, ma anche tra Europa e Usa adesso aumentano gli ostacoli. L’involuzione è stata accelerata dalle rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio americano, certo, ma di fatto sta cambiando la natura aperta della Rete.
Dunque, la globalizzazione non è irreversibile. Di questo si è convinto anche il più grande pensatore politico americano del nostro tempo, Francis Fukuyama. Proprio lui che aveva teorizzato “la fine della Storia” dopo la caduta del Muro di Berlino: cioè il trionfo di un modello unico, la liberal democrazia e l’economia di mercato, un mix brevettato in Occidente. Un quarto di secolo dopo Fukuyama fa un’autocritica clamorosa, ammettendo che «né la Cina né la Russia vogliono diventare come noi». L’omologazione sembrava un trend inarrestabile, invece dei poderosi venti contrari hanno invertito la tendenza, un leader come Xi Jinping teorizza orgogliosamente non solo l’autonomia ma la superiorità del suo modello autoritario.
La globalizzazione inverte il senso di marcia perfino sul terreno dove sembrava non avere avversari: l’economia. Quando Bill Clinton firmava il Nafta, il commercio tra le nazioni cresceva più veloce dei rispettivi Pil. Allora l’abbattimento delle barriere, l’apertura delle frontiere, l’intensificarsi degli scambi e degli investimenti internazionali, erano un motore di crescita. L’inizio del nuovo millennio, segnato dall’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) portò perfino ad accentuare il fenomeno: dal 2003 al 2006 in poi il commercio estero crebbe a una velocità addirittura doppiarispetto ai Pil. La globalizzazione trainava tutto.
Adesso, rivela il Fondo monetario, siamo nella situazione inversa: le maggiori economie mondiali hanno una crescita interna superiore agli scambi con gli altri. Il commercio mondiale langue. Porti e navi da container soffrono di sovraccapacità. Le due maggiori economie mondiali, America e Cina, sono di colpo più “introverse”. L’America sta quasi smettendo di comprare petrolio dal resto del mondo perché ne ha abbastanza in casa sua. La Cina decurta brutalmente i suoi acquisti di materie prime facendone precipitare le quotazioni e innescando recessioni nelle economie emergenti dal Brasile alla Russia.
Si chiude un quarto di secolo di crescita mondiale che aveva visto i Brics (Brasile Russia India Cina Sudafrica) e altre tigri dell’emisfero Sud nel ruolo delle locomotive. Anche i paesi più avanzati ne soffrono le ripercussioni. Negli Usa rallenta la creazione di posti di lavoro (il mese scorso 142.000 contro i 250.000 di media nel 2014). La Germania, potenza esportatrice per eccellenza, può sopravvivere al grande gelo della globalizzazione? La risposta dagli ultimi dati è negativa: l’export tedesco ha iniziato a calare già quest’estate, molto prima dello scandalo Volkswagen. Se la globalizzazione è in ritirata, le conseguenze si risentono in tutte le economie “estroverse”, cioè che basavano la propria crescita soprattutto sui mercati stranieri.
Qualcosa di strutturale sta cambiando, e la Cina è un osservatorio- chiave per capirlo. Parlare solo di rallentamento della crescita cinese, è una spiegazione riduttiva. Certo la velocità di crescita del Pil nella Repubblica Popolare era stata del 10% annuo nel periodo del boom, mentre quest’anno secondo il Fmi è solo del 6,5%. Ma un altro dato fa riflettere, il consumo di energia elettrica in Cina è quasi fermo, la sua crescita è dell’1 o 2%. Cosa c’è dietro? Non solo la Repubblica Popolare subisce una frenata, ma sta cambiando anche il suo modello di sviluppo. Sta diventando una società del ceto medio, con i consumi tipici di una transizione post-industriale. A Pechino e Shanghai l’automobile ormai ce l’hanno tutti, aumentano invece i consumi di servizi: dall’istruzione alla sanità, dalla finanza al turismo. I servizi consumano meno materie prime, meno importazioni.
A queste trasformazioni strutturali si accompagna un mutamento nel clima ideologico. Ai tempi in cui Bill Clinton firmava il Nafta, il pensiero economico era dominato dal “paradigma” neoliberista. Dal mercato unico nordamericano, promise Clinton riecheggiando i suoi economisti Robert Rubin e Larry Summers, sarebbero nati milioni di posti di lavoro. Oggi a quelle favole non crede più neanche il Financial Times, che di fronte al trattato Tpp America-Asia-Pacifico prevede “al massimo” un beneficio di +0,5% nel Pil spalmato su molti anni.
Obama, che ha lavorato per anni alla costruzione dei due trattati gemelli (il Tpp con il Pacifico e il Ttip con l’Europa) è a sua volta figlio di un’epoca nuova. È stato osservato infatti che questi accordi di libero scambio sono parziali. Uniscono e dividono. Sono disegnati su misura per essere “contro” qualcuno. Nel caso del Tpp il grande escluso è ovviamente la Cina. Negli anni Novanta e all’inizio di questo millennio, con la creazione del Wto, si perseguiva una globalizzazione universale, aperta a tutti. Adesso sono di moda gli accordi “regionali”, che sono spesso conventio ad excludendum , club a cui si accede dietro invito. Obama ne ha spiegato la logica: cominciando da un accordo con paesi simili, come Giappone e Australia, ha inserito nelle clausole del trattato i diritti sindacali e la protezione dell’ambiente. Spera che questo un giorno possa forzare la mano ai cinesi costringendoli a concessioni. Ma Pechino ha già imboccato una strada diversa, si confeziona i suoi trattati commerciali, con chi è disposto a firmarli. Dal “mondo piatto” che teorizzava Thomas Friedman, scivoliamo in un mondo dove infinite barriere invisibili si stanno ricostituendo.

Il manifesto, 8 ottobre 2015 (m.p.r.)

La truffa dei Die­sel ammessa dalla Vw disvela il carat­tere della com­pe­ti­zione e della sele­zione che è in corso tra i grandi pro­dut­tori dell’autoveicolo. Una com­pe­ti­zione for­te­mente con­di­zio­nata dalla finanza e dai suoi favori. E non dai limiti ener­ge­tici e ambien­tali del pia­neta e dalla mobilità.

Una com­pe­ti­zione senza esclu­sioni di colpi con il fine di rag­giun­gere la posi­zione di Big dove gli Stati e le dimen­sioni con­ti­nen­tali ven­gono pie­gate alle neces­sità imme­diate delle mul­ti­na­zio­nali. Tutte le ristrut­tu­ra­zioni, gli inse­dia­menti e le acqui­si­zioni tra i gruppi dell’auto di que­sti hanno visto il ruolo dei governi e l’intervento pub­blico per favo­rirli e soste­nerli, unica ecce­zione l’Italia che ha asse­con­dato il ripo­si­zio­na­mento inter­na­zio­nale di Fiat attra­verso FCA a sca­pito del nostro paese con un carico enorme sui lavo­ra­tori Ita­liani che vedono un peg­gio­ra­mento delle con­di­zioni di lavoro e dei gradi di libertà nei luo­ghi di lavoro.

Ora il Diesel-Gate deve farci discu­tere sicu­ra­mente delle con­se­guenze ancora tutte da con­ta­bi­liz­zare, dai costi dei richiami a quelli delle class action.

Volk­swa­gen vende vei­coli per oltre 200 miliardi di euro l’anno, è il più grande inve­sti­tore al mondo in ricerca e svi­luppo, assi­cura in Ger­ma­nia 600 mila posti di lavoro diretti (più milioni di posti indi­retti nel mondo). Il set­tore auto pesa per 300 miliardi di euro di espor­ta­zioni, la prima voce del made in Ger­many. E non è per nulla escluso che il governo tede­sco non inter­venga per salvarla.

Quindi dando per certo un effetto sulle ven­dite, del gruppo VW e su quelle dell’intero set­tore die­sel, il ral­len­ta­mento degli inve­sti­menti già annun­ciato sui nuovi pro­dotti con le con­se­guenti rica­dute occu­pa­zio­nali sull' indotto (c’è già chi sus­surra di un calo di com­messe intorno al 20%) anche nel nostro paese dove VW ha fatto in que­sti anni un note­vole shop­ping nella nostra com­po­nen­ti­stica orfana dei volumi Fiat. Ma dopo il fal­li­mento della com­pe­ti­zione «truc­cata» del die­sel, va ria­perto il con­fronto su quale mobi­lità si deve pro­durre in Europa, con quali pro­dotti e quale soste­ni­bi­lità, con quale ruolo pub­blico e con quali diritti, tur­na­zioni e salari. Rico­struendo non solo attra­verso i test su strada della auto un con­trollo pub­blico a tutela dei cit­ta­dini lavo­ra­tori e con­su­ma­tori ma recu­pe­rando lo squi­li­brio fra i rego­la­tori pub­blici e le aziende regolate.

Nelle ban­che come nell’auto, i gua­da­gni dei mana­ger sono un mul­ti­plo di quelli dei fun­zio­nari che dovreb­bero con­trol­larli e spesso quei fun­zio­nari spe­rano solo di essere assunti da loro. E per Wall Street come per Volk­swa­gen, la cono­scenza di tec­no­lo­gie molto com­plesse gioca a favore delle imprese su chi dovrebbe con­trol­larle: le aziende sanno tutto per­ché hanno creato loro quei pro­dotti, titoli strut­tu­rati o motori die­sel, i con­trol­lori invece devono deco­struirli e inter­pre­tarli da zero.

Infine que­sta vicenda non può essere iso­lata da ciò che accade in que­sti giorni in Usa tra Fca/Fiat e sin­da­cato dove i lavo­ra­tori boc­ciando l’accordo, potendo a dif­fe­renza che da noi votare libe­ra­mente, hanno por­tato la Uaw a dichia­rare lo scio­pero che ha le sue ori­gine nei diversi trat­ta­menti sala­riali a parità di lavoro tra Vete­rans retri­buiti 28$ e i Wor­ker in pro­gres­sion a 15$ l’ora e nella inu­ma­nità di turni di lavoro di 10 ore al giorno per quat­tro giorni alla set­ti­mana con varia­zioni di turni che porta in pochi giorni da un turno di notte ad un turno che ini­zia prima del alba, ora­rio che ricorda la ribat­tuta di Melfi e le pro­po­ste Fiat in Italia.

Il manifesto, 6 ottobre 2015 (m.p.r.)

Alla vigilia di ogni legge di stabilità il dibattito sulla pressione fiscale ritrova un suo asfittico momento di vita. Difficilmente si spinge però oltre una materia buona per demagoghi e commercialisti. Un pensiero forte sulla fiscalità sembra fermo da decenni e, soprattutto, saldamente ancorato a una destra che sa bene quello che vuole. Gli si oppone da sinistra, con spirito egualitario e scarso ascolto politico, la denuncia della «regressività» del sistema fiscale e la proposta di un suo rivoluzionamento portate avanti da Landais, Piketty e Saez (Per una rivoluzione fiscale, La scuola, 2014).

Sul fronte opposto, per quanto detestabili, i nipotini di Hayek, hanno saputo dimostrare un certo rigore e insediarsi stabilmente nell’orientamento di politiche governative impegnate nella competizione per la migliore offerta di vantaggi fiscali. Il loro totem, la celebre «curva di Laffer» nella quale si dimostra che oltre un certo limite di imposizione fiscale il gettito decresce perché decrescerebbe l’imponibile più rapidamente dell’aumento dell’imposta, sta ancora in piedi, sia pure in virtù di brutali rapporti di forza. Anche se l’ipotesi paradossale da cui muove, secondo cui una imposizione del 100% corrisponderebbe alla disincentivazione di qualsiasi attività è banalmente incontrovertibile, almeno in una economia di mercato.
Da qui discende, per vie non proprio limpide, l’avversione per qualsivoglia progressività fiscale, la difesa dei patrimoni e delle rendite, il dirottamento dell’imposizione verso i consumi, il concetto che il welfare se lo devono pagare soprattutto quelli che ne usufruiscono (e dunque non i più ricchi). Insomma la destra, sul fisco, ha le idee assai chiare. Del resto non pochi governi di sinistra hanno fatto ricorso, in forma più o meno mitigata, a queste stesse ricette. Circostanza che acuisce la necessità delle sinistre di governo, quando non integralmente convertite al liberismo, di distinguersi in qualche modo dalle politiche fiscali della destra, sostenendo il valore, per l’evoluzione della società in generale, di un’alta imposizione fiscale. Almeno fin dove il consenso non ne risulti troppo minacciato.
Su la Repubblica l’ex ministro Vincenzo Visco tentava qualche tempo fa di elencare gli elementi discriminanti: la promozione del welfare e la sua gestione statale che garantirebbe attraverso la riduzione dei rischi individuali maggiore efficienza e produttività, oltre alla riduzione delle diseguaglianze. Alla quale dovrebbe provvedere anche una politica di progressività fiscale. A questo insomma «servono le tasse». Fatto sta che né della progressività fiscale e men che meno della riduzione delle diseguaglianze, che al contrario sono cresciute a dismisura, si è vista traccia alcuna nel crepuscolo «migliorista» delle socialdemocrazie. Sulle colonne di questo giornale, il 29 settembre, Roberto Romano sottolineava la relazione diretta tra diritti e prelievo fiscale: «Dove esiste un’adeguata pressione fiscale si osserva un adeguato stato sociale e tassi di crescita mediamente più alti». E, certamente, per buona parte del Novecento in diverse economie avanzate questo nesso è stato ben visibile (lo è ancora in alcune economie forti del nord) e il rapporto tra welfare e prelievo fiscale effettivo.
Ma le tasse servono ancora così prioritariamente a questo scopo? A giudicare dalla vicenda greca e dalle prescrizioni fiscali della Troika, fondate sull’assunto che i cittadini greci avevano vissuto «al di sopra dei propri mezzi», converrebbe dubitarne. Dopo i processi di finanziarizzazione che hanno ridisegnato l’economia globale e assegnato nuovi compiti agli stati nazionali si può ancora descrivere la fiscalità in questi termini? La faccenda è tutt’altro che semplice. Ma intanto ci si deve porre una domanda: perché mai l’aumento della pressione fiscale non è stato accompagnato da un rafforzamento del welfare, ma, al contrario, dal suo ridimensionamento, da una raffica di privatizzazioni e spending review, da una riduzione costante dei diritti del lavoro?
Per attenerci alla sola serie storica italiana, la pressione fiscale è passata dal 30 al 45% tra il 1980 e il 2014 e certo non si può dire che le diseguaglianze siano diminuite e i diritti aumentati in questa stessa misura. Piuttosto, all’aumento delle imposte si è accompagnato negli ultimi anni l’impoverimento dei ceti medio-bassi. Se si mettesse a confronto la storia del welfare e quella della fiscalità in diversi paesi europei c’è da scommettere che il nesso tra questi due elementi risulterebbe tutt’altro che lineare. Perché, come è apparso evidente con la crisi dei debiti sovrani e con l’enorme flusso di denaro destinato a ricapitalizzare sistemi bancari dediti al gioco d’azzardo, la fiscalità è diventata uno strumento decisivo di garanzia e continuità della rendita finanziaria.
Il fabbisogno degli stati non è certo riducibile al mantenimento del welfare. Corruzione, clientele, caste, sprechi , evasione, certamente incidono, ma non costituiscono affatto una spiegazione esauriente. Il fisco, e soprattutto la tassazione indiretta, è infatti anche un tramite, sempre più importante, nel trasferire parte della ricchezza socialmente prodotta (fuori dai rapporti salariali, dai mercati controllabili e spesso da ogni forma di retribuzione) nel circuito finanziario e nei canali di una redistribuzione delle risorse indirizzata verso l’alto: la «regressività fiscale» di cui scrive Piketty, ossia la protezione degli alti redditi e dei grandi patrimoni.
I difensori dei profitti e delle rendite, ricondotti alla categoria del «risparmio», supposto disponibile a trasformarsi in «investimento», giustificano la loro avversità alla tassazione progressiva con l’argomento dell’occupazione: se il tornaconto dei datori di lavoro dovesse peggiorare, la domanda di lavoro ne soffrirebbe. Ma il costo del lavoro è decisamente sopravvalutato, per ragioni in parte ideologiche, tra i fattori di quella riduzione dell’occupazione strutturalmente incardinata nelle trasformazioni del modo di produzione stesso. Nessun imprenditore, se il mercato non «tira», sarà disposto a impiegare lavoro, sia pure fortemente «detassato». E se lo sconto non finirà anche, significativamente (altro che 80 euro), nelle tasche dei lavoratori, i consumi, già bersaglio prediletto dell’ideologia fiscale liberista, languiranno e il mercato in conseguenza.
Il problema non sembra preoccupare le sinistre di governo, impegnate nel festeggiare rumorosamente modesti quanto effimeri incrementi del tasso di occupazione a fronte di vantaggi e poteri sempre maggiori concessi agli imprenditori. Inoltre, se il bacino del lavoro salariato si contrae, bisognerà trovare altre fonti di introito fiscale. La persecuzione del lavoro autonomo e precario di massa, privo di ogni tutela, è una di queste. L’altra è quella piccola proprietà (abitazioni, auto), in larga parte ipotecata da banche e finanziarie che, non essendo fonte di rendita (quella catastale è una pura espressione metafisica) è di fatto indistinguibile dal consumo, puro e semplice valore d’uso. Con il che ritorniamo al principio ultraliberista secondo cui non il possesso o il risparmio (valore di scambio) devono essere tassati ma, appunto, l’uso.
Per dirla con una formula è probabilmente la «tassazione della vita», nel suo svolgersi individuale e collettivo, una nuova importante leva dell’estrazione di valore. Cosicché la disputa se debba essere detassata la prima casa o il lavoro è di assai scarso interesse. Le domande decisive sono tutt’altre. Che cosa davvero alimentiamo con le nostre tasse? Che ruolo svolge oggi il prelievo fiscale nel processo di accumulazione? Si deve continuare a ritenere lo stato il protagonista principale della spesa pubblica o conquistare spazi crescenti di autogestione delle risorse? E, infine, esiste ancora, e in quali forme, una possibilità di controllo democratico sull’imposizione e la spesa? Ha senso continuare a ignorare, magari nell’illusione di poterli contrapporre, il rapporto tra capitale finanziario e sovranità statali?
Per come stanno oggi le cose, le ragioni di Masaniello e di tutte le classi popolari che per secoli si sono rivoltate contro dazi e gabelle, destinati a ripianare i debiti contratti dalle corti con i banchieri dell’epoca per finanziare i propri sfarzi e le proprie guerre, non sembrano affatto superate. Le forme cambiano, ma l’espropriazione resta.

Il Fatto Quotidiano, 5 ottobre 2015 (m.p.r.)

La Fiat non si chiamapiù Fiat. LaChrysler non sichiama più Chrysler. Lehanno fuse eadesso c’èun gruppoautomobilisticotra imaggiorinel mondoche si chiamaFca: Fiat Chrysler Automobiles.È successo il 29gennaio 2014, tra poco sarannodue anni. Ma la notizianon è arrivata nelleredazioni dei grandi giornaliitaliani, a quanto pare.Cosicché i loro lettoripotrebbero non aver capitoche il gruppo guidato daJohn Elkann e SergioMarchionne è coinvoltocome tutti gli altri gigantimondiali dell’auto nelloscandalo detto diesel-gate.

Se i lettori del Fattohanno amici o parenti trai lettori del Corriere dellaSera, della Repubblica odella Stampa faccianoun’opera buona, li informino.Perché ieri il Corriere titolava “Indaginesu altri cinque marchi”,per poi specificare chetrattasi di Bmw,Chrysler, Gm, Land Rovere Mercedes Benz. Anchela Repubblica annuncia“Usa, indagini allargate”,ma tralascia di ricordareche quellaChrysler distrattamentenominata è quella meravigliosaazienda salvatada Marchionne per farneun orgoglio dell’industriaitaliana che si affermaal l’estero. Naturalmentenon si poteva aspettaremaggior precisione giornalisticada parte dellaStampa, che come gli altrimette nel mirino laChrysler, senza ricordareche è un marchio della Fca,ex Fiat, padrona delgiornale.

Per fortuna c’è Il Sole24 Ore che nella foga didare un’informazione economicacompleta inciampanell’imperdonabileerrore. Dopo aver accuratamenteevitato laparola Fca in articoli e titoli,piazza lì la tabelladella auto che sarannocontrollate anche in Italia.E gli scappa il nome diFca che c’è dentro fino alcollo. Anche perché l’elencodei modelli non perdona:Panda, Punto, 500,Giulietta... Ah ecco. Comediceva Totò, questa faccianon mi è nuova.

l capitalismo ha un grande e tenace nemico, una malattia che produce esso stesso incessantemente: l'abbondanza...(continua a leggere)

Il capitalismo ha un grande e tenace nemico, una malattia che produce esso stesso incessantemente: l'abbondanza. Oggi l'abbondanza che lo minaccia è, come sempre, quella delle merci, ma in una misura che non ha precedenti. Ad essa, negli ultimi decenni, se ne è aggiunta un'altra, assolutamente inedita, che coinvolge un vasto e crescente ambito di servizi. Per alcuni beni la saturazione del mercato capitalistico è visibile a occhio nudo ormai da tempo. I capi d'abbigliamento si comprano ancora nei negozi, a prezzi che generano un certo profitto a chi li produce e a chi li vende. Ma per il vestiario esiste un mercato parallelo così esteso e abbondante che ormai sfiora la gratuità. Si può dire che nelle nostre società più nessuno ormai, nemmeno il più misero degli individui, ha il problema di vestirsi. Non dissimile fenomeno possiamo osservare nell'ambito dei servizi più avanzati: l'accesso all'informazione, alla cultura, all'arte, alla musica.

Certo, occorre almeno possedere un cellulare, pagare un contratto a un gestore. Ma è evidente che siamo invasi anche qui - insieme, certo, al ciarpame - da un'abbondanza di offerta, a prezzi decrescenti che tendono a creare uno spazio di fruizione fuori mercato. Sappiamo che il capitale anche da tali beni riesce a trarre ancora profitti, ma oggi è sotto i nostri occhi uno scenario di abbondanza di servizi e beni culturali, di umana emancipazione, potenziale e di fatto, che non ha precedenti. Solo 50 anni fa tutto questo era lontano dalla nostra immaginazione. Occorre sempre gettare un occhio al passato, per evitare di scorgere nel presente solo un cumulo di sconfitte.

Com'è noto, il capitale combatte la caduta tendenziale del saggio di profitto inventando nuovi beni e nuovi bisogni, dilatando il suo dominio sulla natura per trasformare il vivente in merci brevettabili, strappando al controllo pubblico servizi che un tempo erano dei comuni e dello stato. Ma il capitale, aiutato da circostanze storiche fortunatissime - la crisi e poi il crollo del blocco comunista, la burocratizzazione dei partiti democratici di massa e dei sindacati, la rivoluzione informatica - ha sventato la più grande minaccia da abbondanza che gli sia parata dinnanzi nella sua storia: quella degli ultimi decenni del XX secolo. Un oceano di beni stava per riversarsi nel mercato dei Paesi avanzati, un sovrappiù di merci che avrebbe costretto imprenditori e governi a innalzare i salari e soprattutto a ridurre drasticamente l'orario di lavoro. Si sarebbe arrivati a quel passaggio epocale previsto da Keynes nel saggio Possibilità economiche per i nostri nipoti (1928-30), che, con la crescita della produttività a «a un ritmo superiore all'1% annuo» avrebbe spinto le società industriali, nel giro di un secolo, a istituire una durata del lavoro a 15 ore settimanali.

In realtà, la crescita della produttività mondiale è stata superiore alle stesse previsioni di Keynes, con risultati però opposti rispetto alle sue aspettative. In un saggio prezioso per rilevanza documentaria e nitore espositivo, Abbondanza, per tutti (Donzelli, 2014) Nicola Costantino ha ricordato che il tasso di crescita annuo della produttività a livello mondiale, nel corso del XX secolo, ha oscillato tra il 2 e il 3%. Negli Usa, tra il 1950 e il 2000 è stato in media, del 2,5%, in Francia, nel solo settore industriale, tra il 1978 e il 1998, del 3,7%. Il che ha significato che la produttività oraria del singolo lavoratore, a un tasso di crescita del 2% annuo, è aumentata di ben 7 volte, molto di più delle 2,7 volte ipotizzate da Keynes e su cui egli fondava la previsione delle 15 ore settimanali.

Ma la giornata lavorativa non è stata accorciata, se non in Francia, in maniera contrastata e oggi rimessa in discussione. Ovunque, specie negli ultimi anni, la durata del lavoro quotidiano è cresciuta a dismisura. Negli USA, già prima della crisi era diventato generale il fenomeno del workaholic, l'alcolismo del lavoro, mentre oggi sempre di più gli americani lamentano la mancanza di tempo, il time squeeze, time pressure, time poverty (S.Bartolini, Manifesto per la felicità, Donzelli 2010). Lavorano tutto il giorno come dannati: ma almeno guadagnano bene? Niente affatto, essi sono in grandissimo numero poveri e indebitati. Come ha ricordato Maxime Robin su Le Monde diplomatique-Il Manifesto (Stati Uniti, l'arte di ricattare i poveri, settembre 2015) oggi in Usa i check casher, piccole banche per prestiti veloci, dilagano nei quartieri poveri più dei McDonald's. Ma in genere tutti gli americani della middle class sono indebitati. «Uno statunitense nella norma è un cittadino indebitato che paga le rate in tempo». E le cose non son certo migliorate con la ripresa santificata dai media. Il 95% dei redditi aggiuntivi che si sono creati dopo la crisi – ricordava The Economist nel settembre 2013 – è andato all'1% delle persone più ricche. Al restante 99% sono andate le briciole del 5%. Tutto come prima, peggio di prima.

Che cosa dunque è accaduto? Perché dal mondo dell'abbondanza a portata di mano siamo precipitati nel regno della scarsità? La risposta essenziale è molto semplice. Perché il capitalismo dei paesi dominanti (Usa e Europa in primis), ricercando nuovi mercati e occasioni di profitto nei paesi poveri (la cosiddetta globalizzazione), innalzando la produttività del lavoro, ristrutturando e innovando le imprese, non incontrando resistenze in sindacati e partiti avversi, hanno generato un'arma strategica formidabile: la Grande Scarsità, la scarsità del lavoro. Il lavoro inteso come occupazione, come job. I dati recenti sono impressionanti.Tra il 1991 e il 2011 - ricorda Costantino - mentre il Pil reale planetario è cresciuto del 66%, il tasso globale di occupazione è diminuito dell'1,1%. In 20 anni un quarto di beni in più con meno lavoro.

Ma una vasta e ben controllata disoccupazione è oggi un arma politica, non solo un effetto delle trasformazioni economiche. Tale scarsità, diventata permanente e sistematica, ha reso i rapporti tra capitale e lavoro, economia e politica, poteri finanziari e cittadini, drammaticamente asimmetrici e sbilanciati. Tutti invocano lavoro come gli affamati un tempo chiedevano il pane, fornendo al capitale una legittimazione mai goduta in tutta la sua storia. L'intera struttura dello stato di diritto ne risente, gli istituti della democrazia vengono progressivamente svuotati. Sindacati e partiti, funzionari del presente, invocano la “ripresa” come se il futuro possa “riprendere” le fattezze del passato.

E tuttavia tale artificiale scarsità non può durare a lungo. Non solo perché le innovazioni produttive in arrivo (stampanti 3D, intelligenza artificiale,ecc) stanno per rovesciarci interi continenti di merci e servizi, sostituendo perfino lavoro intellettuale con macchine. Ma anche perché l'abbondanza del capitale che la Grande Scarsità del lavoro oggi genera è una forma di obesità, una malattia sistemica. C'è troppo danaro in giro, masse smisurate di risorse finanziarie, rispetto alle necessità della produzione. Patrimoni concentrati in gruppi ristretti che non corrono il rischio dell'investimento produttivo in società ormai sature di beni e con una domanda debole, mentre la grande massa dei lavoratori è tenuta a basso salario perché i loro padroni devono poter competere a livello globale. Tutti i capitalismi nazionali comprimono i salari, allungano gli orari di lavoro, sperando nelle esportazioni e tutti, o quasi, languono nella generale stagnazione. Mentre i soldi si accumulano, generano altri soldi, muovono speculazioni nei mercati finanziari e preparano altre crisi.

Questo quadro che non teme smentite – poggia su una vasta e solida letteratura - ha una grande importanza per la sinistra. In esso è possibile scorgere che una vita di gran lunga migliore sarebbe possibile per tutti e che solo i rapporti di forza dominanti la ostacolano, facendo regredire la società nel suo insieme. Non c'è una crisi, intesa come un evento naturale. E' stato il cedimento storico dei partiti della sinistra, dei sindacati, dei governi a favorire la vittoria della scarsità sull'abbondanza. Una grande battaglia perduta, ma da cui ci si può riprendere. Da questa lezione si può comprendere come niente di naturale è rinvenibile nella situazione presente: è tutto dipendente da scelte politiche, da puri rapporti di forza.

Si può così smascherare l'idea di una scarsità a cui occorre piegarsi come all'antico Fato. Così come l'idea di una “ripresa” affidata alle riforme del mercato del lavoro, alla flessibilità dei lavoratori, senza toccare la piramide delle ricchezze accumulate. Non ci sono i soldi, recita la litania dei politici, di gran parte degli economisti main stream, gli aguzzini intellettuali più attivi sulla scena pubblica, con il loro seguito di giornalisti orecchianti. E' la più grande menzogna della nostra epoca. I soldi non ci sono per pensioni dignitose, per il reddito di cittadinanza, non ci sono per le borse di studio agli studenti, che disertano gli studi universitari, non ci sono per i nostri ricercatori e per la gioventù intellettuale, costretta a migrare all'estero. Ma ci sono in misura crescente e cumulativa nei patrimoni privati: in un solo anno, tra il 2011 e 2012, mentre infuriava la crisi, il numero degli individui con un patrimonio superiore a un milione di dollari è cresciuto nel mondo del 6%, in Italia del 10% . I soldi ci sono in quantità senza precedenti per le banche. E le centinaia di miliardi di euro che la BCE sta profondendo a piene mani, semplicemente stampandoli?

Dunque, una grande abbondanza (auspichiamo, di beni e servizi avanzati, frutto di una generale riconversione ecologica, di riduzione del lavoro ) è alla nostra portata. E bisogna infondere non solo nel nostro popolo, ma nella società italiana tutta intera questa grande pretesa. La pretesa della prosperità e del ben vivere per tutti. E' una prospettiva di nuovi bisogni, che non solo è possibile soddisfare, ma coincide con una tendenza storica inarrestabile e che capitale e ceto politico possono solo ritardare, con danno generale. La redistribuzione dei redditi e del lavoro e la lotta alle disuguaglianze incarnano come mai nel passato l'interesse generale, una necessità indifferibile e universale. Oggi possiamo far sentire a tutti, anche agli scoraggiati e ai perplessi, che nelle nostre vele può tornare a soffiare il vento della storia.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a il manifesto

Più che sulla contrapposizione modello Europa, modello USA, si dovrebbe riflettere sul perché il "modello europa" abbia dato troppo peso ad un singolo stato, la Germania.

La Repubblica, 27 settembre 2015 (m.p.r.)

Lo scandalo Volkswagen è destinato ad avere ripercussioni gravissime per l’azienda e conseguenze per il prestigio e l’influenza della Germania. Tuttavia non va considerato solo un “brutto affare” tedesco. Il caso presenta alcuni aspetti trascurati che ci riguardano direttamente e dovrebbero suscitare interrogativi e incrinare certezze.

Nella Volkswagen lo Stato (della Bassa Sassonia) è azionista con il 20 per cento e con una golden share che gli concede di influire sul controllo. Qual è la vera ragione per la quale uno Stato vuole essere azionista di controllo di una azienda che opera sul mercato in concorrenza al privato?
Me lo sono recentemente domandato su queste colonne a proposito delle numerose imprese italiane a partecipazione pubblica. La risposta “alta” è che l’azionista pubblico garantirebbe una migliore governance aziendale, la possibilità di perseguire progetti pluriennali senza dover rincorrere utili di breve periodo, e il rispetto delle regole nell’interesse di tutti, e non dei soli azionisti e manager.
Il caso Volkswagen è la dimostrazione dell’esatto contrario: lo Stato azionista spesso si comporta peggio dei privati.
Come si è verificato in tante nostre partecipate pubbliche. Ora ne abbiamo una conferma dall’azienda modello della “cultura d’impresa” tedesca. La truffa mondiale della Volkswagen non dovrebbe essere un fulmine a ciel sereno: pochi anni fa, è stata al centro di uno dei più gravi scandali finanziari in Europa. Segno di una cultura d’impresa inquinata e di una governance a dir poco carente. Nel 2006 la Porsche, altra azienda simbolo tedesca, dell’omonima famiglia, comunica di avere il 30 per cento della molto più grande Volkswagen, alla cui guida c’è Ferdinand Piech, nipote del fondatore della Porsche.
Una partecipazione incomprensibile, vista l’enorme sproporzione dimensionale. Due anni dopo, la Porsche annuncia di aver rastrellato segretamente il 43 per cento e un altro 31 per cento attraverso derivati. La sorpresa fa esplodere la Borsa: in due giorni il titolo guadagna il 500 per cento! Una scalata incomprensibile, data l’esistenza della golden share della Bassa Sassonia (senza che alcun accordo venga comunicato), e finanziata con ben 13 miliardi di debiti, che si pensa di rimborsare attingendo alla cassa della Volkswagen, in puro stile Gordon Gekko. Poi arriva la crisi finanziaria, le banche chiedono alla Porsche di rientrare e l’azienda rischia il default. Chi la salva? La Volkswagen! Inizialmente con un prestito tenuto segreto per mesi, poi con un investimento in Porsche, per rimborsare i suoi debiti, e acquisirne il controllo; ma lasciando alla famiglia Porsche circa il 30% per cento del capitale.
Durante l’intera vicenda, Ferdinand Piech, indiscusso “re” di Volkswagen (fino a questo aprile), siede nei Consigli di amministrazione di entrambe le società, alla faccia del più clamoroso conflitto di interesse. Poi unisce le sue azioni a quelle dei Porsche in una holding acquisendo il 51 per cento della Volkswagen, che ora ingloba Porsche. L’allora capo di Porsche se ne esce con 77 milioni di buonuscita; quello odierno di Volkswagen con 33. Il tutto sotto gli occhi vigili dello Stato e dei sindacati grazie al famoso modello di cogestione dell’economia sociale di mercato che tanti proseliti fa in Italia.
L’enormità del caso dovrebbe far riflettere sul ruolo dello Stato azionista, che nulla ha a che fare con la difesa degli interessi nazionali o le politiche per lo sviluppo e il sostegno alle imprese. La seconda lezione che il caso Volkswagen dovrebbe impartirci riguarda la definizione degli standard in Europa.
La tendenza è di attribuire alla Commissione Europea e agli Stati Membri, la definizione o promozione degli standard per l’industria, nella convinzione che il coordinamento pubblico sia più efficiente del caos “distruttivo” della concorrenza tra standard che prevale negli Usa.
Il motore diesel, nonostante fosse notoriamente più inquinante, specie per le prestazioni elevate, è diventato in pochi anno lo standard europeo (oltre il 50 per cento delle vettura circolanti) grazie a un vantaggio di prezzo del diesel per via di un minor carico fiscale; un bollo auto che non è correlato al reale inquinamento; e certificazioni ambientali fasulle, che molte analisi e centri da tempi segnalavano, ma che nessuna autorità pubblica di nessun Paese europeo ha mai preso seriamente in considerazione.
Perché l’interesse dell’industria in Europa ha prevalso su quello dei cittadini. Come nel più arrembante capitalismo di mercato. Ma con un difetto in più: lo standard unico deciso dal centro facilita inizialmente le imprese, ma scoraggia poi l’innovazione creativa che deriva dalla concorrenza per ricercare standard alternativi che possano dare un vantaggio competitivo.
Così è la giapponese Toyota che ha inventato il motore ibrido, mentre la Tesla negli USA, con le sue auto sportive elettriche, vale in borsa 34 miliardi (contro i 22 di FCA). In Europa sarebbe stato impossibile. Un errore già fatto con il GSM: a differenza di Giappone e Usa, l’Europa scelse uno standard unico per la telefonia mobile, il GSM, che inizialmente permise all’industria del nostro continente di prevalere; ma grazie alla concorrenza creativa, in pochi anni americani e asiatici ci hanno raggiunto e superato.
Un ultimo punto riguarda la protezione dei consumatori. In Europa domina l’idea che debba farsene carico lo Stato, con una imponente struttura di regole, autorizzazioni e prescrizioni richieste da una qualche Autorità per poter avviare un’attività o commercializzare nuovi prodotti. La verifica a posteriori del rispetto delle regole, e le eventuali sanzioni, sono compito delle stesse Autorità di regolamentazione ( e del potere giudiziario in caso di illeciti). Negli Usa si attribuisce meno peso alla regolamentazione preventiva, a favore dell’iniziativa economica, e si punta su pesanti sanzioni, specialmente economiche, a posteriori. Inoltre la tutela dei diritti è anche nelle mani dei consumatori, che dispongono degli strumenti giuridici per farsi valere (per esempio, la class action). In poche parole, al vaglio preventivo dei burocrati e all’intervento delle procure, si preferisce il randello nodoso della sanzione che può portare al dissesto economico.
Un deterrente che funziona ma che in Italia è osteggiato perché potrebbe danneggiare la stabilità dell’impresa: gli interessi di soci, creditori e dipendenti da noi prevalgono sempre su quelli dei consumatori. Ai tanti fautori del modello europeo, vale la pena ricordare che la truffa della Volkswagen è stata scoperta grazie all’International Council on Clean Transportation: un ente privato, finanziato da privati.

l manifesto, 27 settembre 2015 (m.p.r.)

Le auto­rità Ue sape­vano degli stru­menti per truc­care le misu­ra­zioni delle emis­sioni auto fin dal 2013: lo afferma il quo­ti­diano bri­tan­nico Finan­cial Times, in una rico­stru­zione pub­bli­cata ieri. Tesi, peral­tro, già anti­ci­pata due giorni fa da un arti­colo di Gior­gio Fer­rari su il mani­fe­sto.

Il gior­nale inglese spiega che un rap­porto del Joint Research Cen­ter dell’Ue era stato messo a dispo­si­zione dei ver­tici comu­ni­tari già due anni fa (ma i primi dati risal­gono al 2011), e con­te­neva il sug­ge­ri­mento di effet­tuare i test sui gas inqui­nanti su strada e non “in labo­ra­to­rio”: le offi­cine attrez­zate, cioè, dove si simula l’andatura delle auto. Indi­ca­zione che arriva anche, da almeno un anno, dall’Inter­na­tio­nal Coun­cil on Clean Trans­por­ta­tion (Icct), ente finan­ziato dalle fon­da­zioni create da Bill Hew­lett e David Pac­kard (noti magnati dell’elettronica): è l’Icct, isti­tuto ame­ri­cano, ad aver sve­lato i truc­chi di Volk­swa­gen sul Nox, e ad aver spie­gato che le emis­sioni omo­lo­gate sono supe­rate da quelle su strada addi­rit­tura nell’ordine del 40%.

Il soft­ware, come è noto, era instal­lato nei motori die­sel, e atti­vava una sorta di blocco — o meglio, di forte limi­ta­zione - delle emis­sioni nocive solo quando la mac­china era sot­to­po­sta a dei test: rico­no­sci­bili per­ché la mac­china ha un’andatura più rego­lare e soprat­tutto non effet­tua curve, muo­ven­dosi sem­pre in una sorta di ret­ti­li­neo vir­tuale (la vet­tura è in realtà ferma, si muove su dei rulli, come un tapis rou­lant). Una volta in strada, l’emissione veniva di nuovo “libe­ra­liz­zata”: e via a un inqui­na­mento che, come detto, poteva supe­rare anche del 40% quello misu­rato sul per­corso del test.

Il Finan­cial Times punta il dito sulla lobby dei costrut­tori auto­mo­bi­li­stici, col­pe­vole a suo parere di aver truc­cato il sistema di rile­va­mento dei dati: «L’incapacità delle auto­rità rego­la­to­rie in tutta la Ue di denun­ciare que­sti truc­chi porta alla luce il potere delle lobby dell’industria auto­mo­bi­li­stica euro­pea che ha scom­messo molto sui die­sel - scrive l’Ft - Circa il 53% delle nuove auto ven­dute nella Ue sono die­sel, rispetto al circa 10% dei primi anni ’90».

Quindi, insomma, il die­sel è un grande affare, e così si com­pren­dono gli inte­ressi - e oggi i “drammi” indu­striali e finan­ziari - che gli girano intorno. E il potere delle lobby, a Bru­xel­les, è for­tis­simo, si sa: Green­peace indi­vi­dua una vera e pro­pria “lobby del die­sel”, che avrebbe inve­stito solo nel 2014 ben 18 milioni e mezzo di euro per soste­nere la pro­pria azione e difen­dere il pro­prio “credo”.

La Com­mis­sione Ue, dal canto suo, risponde a que­ste accuse tra­mite un por­ta­voce: spetta ai sin­goli stati, dicono a Bru­xel­les, sco­vare even­tuali truc­chi come quelli messi in piedi da Volk­swa­gen (e in effetti è vero che la rego­la­zione su que­sto ter­reno è lasciata molto agli Stati mem­bri, in par­ti­co­lare ai governi e ai mini­stri dell’Ambiente). Dall’altro lato, le stesse auto­rità della Ue spie­gano di aver voluto intro­durre i test su strada fin dal pros­simo anno: come dire, noi, il nostro, lo abbiamo fatto.

Dal fronte ita­liano ieri ha par­lato il mini­stro dell’Economia, Pier Carlo Padoan: «Temo - ha detto - con­se­guenze che mi auguro siano limi­tate. A catena ci potreb­bero essere effetti sull’industria ita­liana che non ha colpa». Il pro­blema, ha sot­to­li­neato Padoan, «non è solo tede­sco ma anche euro­peo, oltre che ame­ri­cano. In que­sto momento l’Europa sta facendo molta fatica a uscire dalle con­se­guenze della reces­sione e se la fidu­cia viene intac­cata, la pro­pen­sione all’investimento si inde­bo­li­sce», men­tre «l’azione di poli­tica eco­no­mica di que­sto governo è volta a con­so­li­dare la fiducia».

Ma inie­zioni “ren­ziane” di fidu­cia o meno, sono comun­que circa 1 milione le auto con la cen­tra­lina truc­cata in Ita­lia, a fronte dei 2,8 milioni di vet­ture tede­sche. In tutto, Volk­swa­gen si pre­para a effet­tuare un maxi-richiamo, scri­vendo per­so­nal­mente a tutti i clienti, che poi potranno effet­tuare una revi­sione, ovvia­mente gratuita.

«Sono in corso i con­trolli per veri­fi­care il danno pro­vo­cato anche in Ita­lia da Volk­swa­gen — ha spie­gato ieri il vice­mi­ni­stro ai Tra­sporti, Ric­cardo Nen­cini — La pre­vi­sione è di chiu­dere que­sta inda­gine entro pochi mesi. C’è una stima di mas­sima che parla di circa 1 milione di vei­coli coinvolti»

© 2024 Eddyburg