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il fatto quotidiano, 27 dicembre 2017. L'attualità di Sankara e della lotta contro l'imperialismo economico, politico e culturale dell'occidente, che continua a ridurre lo sviluppo umano a un modello uniforme, sterile e iniquo (i.b).
Il 15 ottobre scorso facevano trent’anni dall’assassinio diThomas Sankara (1949-1987), capo rivoluzionario e poi presidente del BurkinaFaso, colui che per primo volle far uscire il suo Paese dal retaggio colonialefrancese e dal nuovo imperialismo di Fmi e Banca mondiale, nazionalizzando leterre e le risorse minerarie, varando un programma di autosufficienza, mirandoad ab- battere analfabetismo e malattie, e a tutelare la natura, i dirittidelle donne, e la dignità e l'autonomia del continente africano. Forse è per ilsuo radicalismo che - a differenza di un Mandela - Sankara è poco ricordatooggi in Europa (da noi, Fiorella Mannoia gli ha dedicato una bella canzone,Quando l’angelo vola). Ma le sue idee sembrano drammaticamente attuali.
VIENNA. Mentre il nuovo governo austriaco lancia le primebordate contro i migranti e il sud, nelle librerie campeggia il libro deisociologi Ulrich Brand e Markus Wissen, “Modo di vita imperiale(ImperialeLebensweise, Oekom 2017), dedicato a disuguaglianze globali edeterioramento ecologi- co del pianeta. Ad onta di rivoluzioni verdi,conferenze sul clima e simposi per il Sud del mondo, la situazione non fa chepeggiorare: la ragione, secondo gli autori, sta nel fatto che si forniscono perlo più soluzioni tecniche (dalle auto elettriche alle dilazioni sul debito) aproblemi che sono di ordine politico. Per tutelare la stabilità degli interessie delle ideologie dominanti, si omette di attaccare il vero problema di fondo:il modo di vita delle società dei Paesi ricchi.
Quest’ultimo - senza alcun giudizio morale - è definito“imperiale” in quanto “la vita quotidiana nei centri capitali- stici è resapossibile in larga misura dall’assetto dei rap- porti sociali e dellecondizioni naturali che si verifica altrove, cioè dallo sfruttamento potenzialmenteillimitato della forza lavoro, delle risorse naturali e dei giacimenti su scalaglobale”. Viviamo, per citare un saggio di Stephan Lessenich (Accanto a noi ildiluvio, Hanser 2016), nella “società dell’esternalizzazione”, in cui tutte leconseguenze negative del “progresso” (dai cambia- menti climatici ai rifiutiindustriali, dalle nuove povertà al nuovo schiavismo) vengono rimosse il piùlontano possibile dai nostri occhi. E così, oltre alle rivendicazioni diSankara (che preferiamo obliterare - per citare un nostro ex premier -“aiutandoli a casa loro” e demandando la politica estera all’Eni), vengonorimossi dalla memoria collettiva disastri atroci come il crollo del Rana Plazadi Dacca (dove si producevano magliette per marchi occidentali), l’esondazionee la contaminazione del Rio Doce in Brasile (dove si estraevano mineraliferrosi per conto di ditte occidentali), l'irrompere nelle pampas argentinedelle piantagioni di soja (destinata ai maiali da alleva- mento cinesi), oancora i cimiteri dei nostri computer allocati in Ghana, o lo sterminio della faunaittica dello Yangtse in Cina, o le perniciose dighe nella valle dell’Omo inKenya, raccontate da Ilaria Boniburini, grande esperta d’Africa e di retoricheimperiali, in un bell’articolo sui “nuovi dannati della terra” (eddyburg.it).
BRAND E WISSEN invitano a considerare questi eventi non comeepisodi o tragiche fatalità, bensì come l’esito strutturale di un “progresso”che non ha portato - come prometteva il fordismo - l’emancipazione dallanatura, ma solo l’esternalizzazione nel Sud globale (e nelle sue componenti piùde- boli) delle conseguenze della sua distruzione, e del nostro precariobenessere. Contro questa deriva il mantra della “sostenibilità”, il“capitalismo verde” o la green economy ap- paiono soluzioni inefficaci se nonipocrite: ipocrite quando, per esempio, mercificano le quote di inquinamento oquando (al netto dei trucchi sulle emissioni) favoriscono l’auto verde nelmomento stesso in cui liquidano il tra- sporto su rotaia e puntano sul veicolopiù inquinante, il Suv (vera metonimia della società esclusiva, in quantostatus symbol economico e fonte di sicurezza stradale a discapito degliautomobilisti meno abbienti); inefficaci se è vero che nonostante tutto negliultimi anni il material footprint,l’indicatore più attendibile per misurare l’esternalizzazione dei processi disfruttamento intensivo delle risorse, nei Paesi del Nord globale continua acrescere senza posa.

Secondo Brand e Wissen (che al pari di Lessenich non sonofacinorosi “no-global” ma serissimi accademici attivi tra Vienna e Berlino), ilpensiero neo-capitalista ha anco- rato in ciascuno di noi il “modo di vitaimperiale” fino a fargli occupare una posizione egemonica in senso gramsciano:esso, con le sue comodità e la sua retorica, non pare frutto di imposizione maregola le nostre aspirazioni, i nostri acquisti, le nostre scelte di vita e direalizzazione personale, perfino quando in realtà ci nuoce direttamente; un’immaginariasocietà dei cani domestici statunitensi avrebbe un tenore di vita superiore aquello del 40% della popolazione umana mondiale. Tanto più arduo è il compitodi una sinistra che voglia provare a rovesciare il paradigma, e a persuadere icittadini di un modello di vita “solidale” non fondato su prospettiveregressive o pessimistiche, ma su uno sviluppo condiviso alieno dallo sfruttamentodell’altro, e generalizzabile a tutti senza minare le proprie stesse basi. Èuna questione anche solo di buon senso: nel momento in cui sempre più Paesi(anche assai popolo- si) si industrializzano e aderiscono alla logicadell’esternalizzazione, poiché sul pianeta lo spazio e le risorse sono entitàfinite (l’Africa di Sankara, già martoriata dal clima, è in questo senso lavittima prede- stinata: si pensi all’impetuosa espansione cinese), è inevitabileche si arrivi prima o poi a conflitti non più limitati ai territori “invisibili”del Sud globale, ma capaci di travolgere tutto il sistema.
L'articolo è tratto dal il Fatto Quotidiano: 27 dicembre 2017, pagina 18.

Potremmo dire che la cultura sia attualmente in una fase liquido-moderna, fatta a misura della libertà individuale di scelta (volontariamente perseguita o sopportata in quanto obbligatoria) e concepita per servire tale libertà, per assicurarsi che tale scelta rimanga inevitabile - una necessità a vita, un dovere - e che la responsabilità, la compagna inalienabile della libera scelta, rimanga dove la modernità liquida l’ha costretta: sulle spalle dell’individuo, ora designato come il solo manager della "politica della vita".
La cultura di oggi è fatta di offerte, non di norme. Come aveva già notato Pierre Bourdieu, la cultura vive di seduzione, non di disciplina normativa, di pubbliche relazioni, non di elaborazione di politiche; essa crea nuovi bisogni/desideri/esigenze, non coercizione. Questa nostra società è una società di consumatori e, proprio come il resto del mondo visto e vissuto dai consumatori, la cultura si trasforma in un magazzino di prodotti concepiti per il consumo, ciascuno in competizione per spostare o attirare l’attenzione dei potenziali consumatori nella speranza di conquistarla e trattenerla un po’ più a lungo di un attimo fuggente.
Abbandonare standard rigidi, assecondare la mancanza di discriminazione, servire tutti i gusti senza privilegiarne alcuno, incoraggiare l’irregolarità e la flessibilità - nome politicamente corretto della mancanza di spina dorsale - e rendere romantica la mancanza di stabilità e l’incoerenza è dunque la giusta (l’unica ragionevole?) strategia da seguire; essere meticolosi, inarcare le sopracciglia, stringere le labbra non sono raccomandati.
Il critico televisivo di una trasmissione ha lodato quotidianamente la programmazione del Capodanno 2007/8 per aver promesso «di fornire una gamma di intrattenimento musicale pensata per soddisfare i gusti di tutti». «L’aspetto positivo - ha spiegato - è che grazie al suo richiamo universale puoi immergerti e allontanarti dallo show secondo i tuoi gusti». Davvero una qualità allettante e gradevole in una società in cui le reti sostituiscono le strutture, dove il gioco di collegare e distaccare e di un’infinita processione di connessioni e disconnessioni sostituisce il determinare e il fissare!
La fase attuale di progressiva trasformazione dell’idea di cultura, dalla sua forma originale ispirata dall’Illuminismo alla sua reincarnazione liquido-moderna, è spinta e attuata dalle stesse forze che promuovono l’emancipazione dei mercati dai residui vincoli di natura non economica, tra i quali i vincoli sociali, politici ed etici. Nel perseguire la propria emancipazione, l’economia incentrata sul consumatore liquido moderno si basa sull’eccesso delle offerte, il loro invecchiamento accelerato e la veloce dispersione del loro potere deduttivo, che, per inciso, la rende un’economia di dissipazione e spreco. Poiché non si sa in anticipo quale delle offerte si dimostrerà abbastanza allettante da stimolare il desiderio di consumare, l’unico modo per scoprirlo consiste in tentativi ed errori costosi.
Anche la continua domanda di nuovi beni e la crescita costante del volume dei beni in offerta sono necessari per mantenere rapida la circolazione di beni ed il desiderio di sostituirli con beni nuovi e costantemente aggiornati, come pure per impedire che la disaffezione del consumatore rispetto a beni specifici si coaguli in una generale disaffezione verso lo stile di vita consumistico in quanto tale.
La cultura sta ora trasformandosi in uno dei reparti di quel grande magazzino dove è possibile reperire «tutto quello di cui hai bisogno e che potresti sognare» nel quale si è trasformato il mondo abitato da consumatori.
Come in altri reparti di quello stesso negozio, i ripiani sono stracolmi di beni riforniti quotidianamente, mentre le casse sono decorate con la pubblicità delle ultime offerte, destinate a scomparire presto insieme alle attrazioni che reclamizzano. Beni e pubblicità sono concepiti per stimolare e provocare il desiderio (come notoriamente ha detto George Steiner, «per il massimo impatto ed un’istantanea obsolescenza»). I loro mercanti e copywriters fanno affidamento sul matrimonio tra il potere seduttivo dell’offerta e il bisogno radicato di essere in vantaggio sugli altri dei loro potenziali clienti.
La cultura liquida moderna, diversamente da quella dell’epoca della costruzione delle nazioni, non ha gente da educare ma piuttosto clienti da sedurre. E, diversamente da quella "solido-moderna" che l’ha preceduta, non desidera più chiamarsi fuori del gioco a poco a poco, ma il prima possibile. Il suo obiettivo ora è rendere la propria sopravvivenza permanente, temporalizzando tutti gli aspetti della vita dei suoi ex pupilli, ora trasformati in suoi clienti.

A questo link potete vedere un’intervista di Wlodek Goldkorn a Zygmunt Bauman. È molto bella e vale come una buona lettura. Di seguito un breve commento, tratto da Artribune.

http://www.artribune.com/television/2015/04/quale-cultura-oggi-risponde-il-grande-zygmunt-bauman-al-museo-pecci-di-prato/

Uno sguardo più che autorevole, straordinariamente acuto e brillante, sulle dinamiche della contemporaneità e sul sistema della conoscenza. Si parla di cultura. Del senso e dei mutamenti che questa parola porta con sé e rivela, indicando la direzione. Il dialogo con Wlodek Goldkorn si apre proprio con una domanda profonda e definitiva: che significa, oggi, cultura? Chi ne indica le linee guida? Chi detiene il potere dell’informazione e della formazione? Chi orienta l’immaginario collettivo? Che ruolo hanno gli intellettuali e quanto contano i media?
Un’ora e mezza di suggestioni e riflessioni da elaborare con lentezza. “La cultura è qualcosa che si impara”, spiega Bauman. E se un tempo la “missione” degli uomini di cultura era quella di “innalzare il popolo dal buio dell’ignoranza”, sulle tracce di “verità, bontà e bellezza”, oggi tutto questo viene letto come obsoleto. Nessuna elevazione, nessuna missione, ma nemmeno nessuna distinzione sociale.
Alla fine del XX secolo, Pierre Bourdieu elabora il concetto di cultura come “distinzione”. Ovvero: la cultura che ogni gruppo sociale consuma è un tratto distintivo della propria appartenenza o collocazione sociale. Resistente a qualunque cambiamento e foriero di nette divisioni. Vent’anni dopo, la prospettiva cambia ancora: per far parte dell’elite culturale, secondo il sociologo americano Richard Peterson, non c’è da operare distinzioni, ma, al contrario, da attuare pratiche onnivore di consumo trasversale. Tutto, oggi, va ingurgitato, metabolizzato, conosciuto. Che resta l’unico modo per uscire dalla marginalità sociale. Leggere i classici e andare ai concerti pop: è così che si viene riconosciuti come cittadini “colti”. Annullata ogni distinzione tra cultura alta e cultura bassa, ogni grado di separazione tra attitudini, forme sociali, tradizioni, contesti, si procede nel segno della mescolanza e della prossimità.
Con un linguaggio semplice, un eloquio affascinante e una capacità preziosa di analisi e insieme di sintesi, Zygmunt Bauman, a partire da una prospettiva storica, ha regalato al pubblico del Pecci un excursus teorico attraverso la modernità e i suoi movimenti sottili o radicali. Da ascoltare senza pause, per provare a capire qualcosa di più intorno a ciò che siamo stati e che stiamo diventando, tra le mutevoli maglie delle relazioni sociali e delle infinite declinazioni culturali.






Un saggio tratto da M@gm@ vol. 12 n. 2 Maggio - Agosto 2014.

Dalla ricerca di una risposta normativa all’interesse per un multiculturalismo quotidiano
Il dibattito sulle possibili modalità di convivenza in una società sempre più caratterizzata da individui e gruppi che si riconoscono in tradizioni e preferenze culturali diversificate è stato spesso monopolizzato da preoccupazioni di carattere normativo, sia orientate all’assunzione di appropriate politiche di intervento a favore delle minoranze, sia orientate all’elaborazione di consistenti e coerenti teorie della giustizia in grado di ampliare il carattere democratico e plurale delle società liberali. Nel primo caso, a partire dall’assunzione di esplicite politiche multiculturali in Canada (1971), in Australia (1973) e in Svezia (1975), il dibattito multiculturale ha spesso favorito un’ampia produzione normativa nel campo dell’educazione, del lavoro, delle politiche abitative, della difesa di linguaggi e culture dei gruppi minoritari tese a promuovere pari opportunità ed evitare forme di discriminazione ed esclusione. Si è trattato del tentativo di rendere effettive politiche di riforma sociale orientate a colmare evidenti svantaggi educativi, occupazionali e, più in generale, di inserimento sociale di gruppi minoritari: nativi, immigrati e altre minoranze culturali discriminate. Nel secondo caso, il dibattito si è concentrato sulla capacità di elaborare principi generali da cui far discendere forme di governo della vita pubblica in grado di valorizzare positivamente la differenza culturale. La discussione si è focalizzata sul tema del riconoscimento (Taylor 1998; Honneth 2002) e delle modifiche che è necessario introdurre nell’ordine liberale per assicurare un’effettiva libertà individuale e una piena possibilità di partecipazione alla vita collettiva. I principi liberali classici, fortemente centrati sul riconoscimento di diritti individuali e su un esteso universalismo, vengono attaccati o rivisitati in modo da includere il riconoscimento dei diritti collettivi e dell’importanza delle differenze culturali (Kymlicka 1999; Habermas 1998; Benhabib 2005). Entrambi questi dibattiti hanno sviluppato deboli strumenti concettuali per mettere a tema il significato delle pratiche sociali interculturali; pratiche che divengono una condizione normale, banale e routinaria, dell’esperienza quotidiana, soprattutto in ambito urbano. Hanno frequentemente finito per favorire il proliferare di un «normativismo intempestivo [che] ha prodotto una sconsiderata linea politica, che rischia di congelare le differenze di gruppo esistenti» (Benhabib 2005: 8). Ciò ha spesso orientato il dibattito multiculturale verso un vicolo cieco, contrapponendo favorevoli e contrari alla ‘preservazione’ delle differenze culturali, considerate come essenze, eredità reificate, ‘bagagli’ ricevuti dal passato che ora è necessario conservare scevri da ogni mutamento, pena la perdita della propria identità e della capacità di riconoscersi come soggetti autonomi. Un orientamento che ha spesso appiattito il multiculturalismo a un impegno per la protezione delle differenze, favorendo isolamento e indifferenza piuttosto che confronto e integrazione tra prospettive e storie culturali diverse. Le critiche a queste forme di multiculturalismo che finiscono per congelare le differenze e promuovere una società a mosaico, in cui solide gabbie preservano le ‘culture’ esistenti solo perché rendono difficili scambio, dialogo e confronto reciproco, hanno portato a spostare l’attenzione dal piano normativo a quello esperienziale, indagando il senso che viene attribuito alla differenza culturale nelle interazioni quotidiane. Anche in questo caso, emerge la necessità di sperimentare un nuovo vocabolario per dare senso a nuove forme di esperienza. Cosmopolitismo (Breckenridge et al. 2002; Appiah 2007; Kendall et a. 2009), intercultura (Lentin 2005; Wood et al. 2006), multiculturalismo quotidiano (Colombo, Semi 2007; Wise, Velayutham, S. 2009) non sono che alcuni dei termini introdotti per provare ad uscire dal cul-de-sac del multiculturalismo normativo.

L’emergere dell’interesse per la differenza
Al di là delle peculiarità delle diverse prospettive teoriche e analitiche, le diverse critiche al multiculturalismo normativo e istituzionale evidenziano l’importanza di un’analisi delle ‘pratiche’ e dei ‘significati’ attribuiti alla differenza culturale in un contesto di crescente globalizzazione.
La differenza e la cultura non vengono assunte come dati, come entità omogenee e coerenti, precisamente definite e stabili. Vengono, al contrario, indagate nella loro dimensione di costruzione sociale, risultato di pratiche di significazione che hanno come posta in gioco la definizione della realtà sociale: delle identità e delle appartenenze, dei luoghi e dei confini, delle modalità di distribuzione delle risorse e dei poteri.
Risulta ingenuo sostenere che il dibattito sul multiculturalismo emerga negli anni ’70 del secolo scorso come risposta (meccanica) a un aumento quantitativo della differenza. Altri momenti storici sono stati caratterizzati da situazioni di convivenza urbana in cui la differenza culturale ha costituito una realtà molto più evidente e drammatica di quanto non avvenga nelle metropoli occidentali
contemporanee. Basta pensare alle città nordamericane di fine ‘800 e inizio ‘900, così riccamente descritte dai sociologi della scuola di Chicago. Mentre la Chicago del 1880 ha poco più di 500.000 abitanti, nel 1920 il loro numero è più che quintuplicato. La Chicago di Al Capone è una grande metropoli caratterizzata dalla presenza di un’infinità di gruppi culturali diversi, che parlano lingue e professano religioni diverse, che tendono a vivere in zone etnicamente segregate e hanno occasioni di contatto che si manifestano soprattutto nella compe-tizione, nella concorrenza o nel conflitto violento. La pluralità culturale a New York, nello stesso periodo, è altrettanto evidente: vi si stampano quotidiani e riviste in 23 lingue diverse (Park, Burgess, McKenzie, 1938/1999) e sono presenti miriadi di chiese, congregazioni, sette religiose differenti. Nonostante l’evidenza e la rilevanza della questione della relazione con l’alterità, in questo contesto i temi della valorizzazione e del riconoscimento della differenza non emergono. Il pluralismo urbano viene letto attraverso il prisma ideologico del ‘melting pot’ e del ‘progresso’: la differenza culturale costituisce il punto di partenza, la materia prima con cui costruire un nuovo modello di uomo (la sottolineatura della caratterizza-zione di genere è voluta e rispecchia un ‘universalismo parziale’ che usa i termini dominanti per generalizzazioni ed esclusioni), più evoluto, più civile e moderno. Ma tale materia prima, piuttosto che conservata e valorizzata, deve essere ‘fusa’, rielaborata e infine superata se si vuole arrivare a forgiare ‘l’uomo nuovo’.
Il valore oggi attribuito alla differenza non è pienamente comprensibile senza prendere in considerazione la critica culturale che, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, decostruisce i concetti di universalismo ed eguaglianza. I nuovi movimenti sociali elaborano una visione positiva della differenza: black is beautiful, black and proud, diverranno gli slogan dei movimenti per i diritti civili; una parte rilevante del movimento femminista elaborerà una raffinata critica dell’universalismo come imposizione del modello maschile; i movimenti studenteschi accuseranno l’eguaglianza di costringere entro schemi omologanti, repressivi, che ostacolano una piena espressione dell’individualità.
Un contributo significativo alla trasformazione del concetto di differenza viene inoltre dal movimento e dalla teoria post-coloniale (Chambers, Curti 1996; Hall 2000). In questa prospettiva, si elabora una stringente critica al modello dominante accusato di ‘togliere voce’ ai gruppi dominati e si sottolinea la necessità della rivendicazione del bisogno, da parte del colonizzato, di emancipazione dalla cultura del colonizzatore e dai suoi effetti sociali e psicologici, emancipazione che può avvenire solo attraverso una riappropriazione della ‘differenza’ del colonizzato rispetto al colonizzatore (Fanon 1962; Spivak 1999). La prospettiva post-coloniale mette in discussione che il principio costitutivo dello Stato e dello spazio pubblico sia l’omogeneità culturale organizzata attorno a valori ‘universali’ declinati nei termini di un liberalismo individualista; valorizza, viceversa, una ‘eguaglianza nella differenza’ in cui la coesione sociale è garantita non dalla condivisione di un unico modello ma dal riconoscimento della irriducibile specificità dei diversi soggetti, dalla loro continua variabilità.
Come risultato del convergere di queste critiche e di queste pratiche, la differenza emerge come un ‘valore’, un elemento significativo che consente di contrastare l’egemonia del pensiero e del modello dominante e permette la piena espressione individuale.
La valorizzazione positiva della differenza è stata spesso declinata in due modi apparentemente contrastanti: da un lato, si è sottolineato il suo carattere ‘essenziale’; dall’altro, quello ‘processuale’. Nel primo caso, la differenza è percepita come una caratteristica ‘fondante’ l’identità. Un’essenza che costituisce il nucleo più profondo e autentico dell’esperienza individuale e collettiva, risultato della sedimentazione di una storia distinta. Una persona o un gruppo deprivati di questa specifica essenza, della loro specifica differenza, sono deprivati della possibilità di agire e di pensare autonomamente, secondo la loro più intima natura. Mostrare e vedersi adeguatamente riconosciuta la propria ‘differenza’ diviene un elemento impre-scindibile per partecipare con pari dignità nello spazio pubblico, un prerequisito per un’effettiva equità sociale. Il limite di questa posizione consiste nel rischio di considerare differenza e cultura come oggetti sacri, che è necessario preservare da ogni ulteriore trasformazione. Differenza e cultura finiscono per essere congelati in un presente eterno che considera privazione e abiezione ogni modifica, che evita forme di dialogo e di confronto per sfuggire il rischio del ‘contagio’ e del ‘degrado’. Nel secondo caso prevale la critica al normativismo del modello dominante e la differenza viene concepita come possibilità di continua variazione, miscelazione; come opportunità di posizionamento sul margine e nelle zone interstiziali, dove è più facile resistere al potere ed esercitare la critica. La creazione continua di ibridi viene considerata essere la condizione normale di esistenza della cultura e della differenza e viene salutata come un processo sempre positivo, una trasgressione creativa, un’emancipazione dal dominio della maggioranza e del pensare-come il-solito. Il limite di questa prospettiva risiede nella difficoltà di sottoporre a critica le condizioni di formazione degli ibridi, non riconoscendo che i processi di miscelazione e trasfor-mazione possano legarsi a violenza e alienazione, possano essere il risultato di rapporti asimmetrici di potere e generare nuove barriere e nuove disparità (Anthias 2001). Rischia inoltre di banalizzare l’idea che differenza e cultura siano costruzioni sociali evidenziandone eccessivamente il carattere mobile, instabile, continuamente sottoposto a revisione e mutamento. Trascura così l’altro fondamentale aspetto di ogni costruzione sociale: essa risulta efficace quando si impone come ‘fatto’ sociale, si presenta come evidente e produce effetti concreti. Un’enfasi sulla dimensione processuale rischia di non saper cogliere come differenze e culture siano spesso percepite come elementi ‘reali’ e come individui e gruppi siano disposti a lottare per rivendicarne riconoscimento e rispetto.

Multiculturalismo quotidiano
Le concettualizzazioni normative e filosofiche del multiculturalismo – che pure aiutano a mettere a tema la questione dell’eguaglianza delle opportunità e della partecipazione in società in cui la differenza culturale è valorizzata – esauriscono spesso le loro potenzialità in una visone idealistica, interessata a indicare come le cose ‘dovrebbero’ essere, e sottovalutano le dinamiche, le tensioni e I significati associati alla relazione con la differenza come pratica vissuta, come esperienza quotidiana.
Per cogliere la rilevanza assunta dalla differenza in un mondo globale, è utile spostare lo sguardo sulle pratiche quotidiane e analizzare come la differenza e la cultura sono utilizzate nelle interazioni sociali, da chi, in quali contesti, per quali scopi e con quali risultati. L’interesse per la dimensione empirica – vissuta, dotata di senso – del multiculturalismo, una dimensione più complessa di quanto riducibile alla dimensione etico-filosofica di giustizia sociale – necessariamente normativa e quindi riduttiva – restituisce l’ampiezza delle possibilità di azione e di costruzione di senso ma non trascura le condizioni contestuali – ‘locali’ – e i vincoli strutturali in cui tale azione è possibile e assume il suo senso specifico.
Nella sua dimensione pratica, il multicul-turalismo – che potremmo ri-definire come multiculturalismo quotidiano (Colombo, Semi 2007) – consente di mettere a tema diversi aspetti che rimangono occultati o in secondo piano nella dimensione normativo-filosofica. Innanzitutto, emerge il carattere ambivalente della differenza: risultato della continua produzione di distinzioni e confini entro discorsi e condizioni non sempre pienamente manipolabili dai soggetti. La differenza assume il carattere di un elemento indispensabile e costitutivo del continuo e necessario processo di attribuzione di senso alla realtà sociale, ma le condizioni del suo utilizzo e il materiale di cui è composta non sono necessariamente risultato di libere scelte. La differenza risulta, contemporaneamente, ‘conferita’ – dalle categorizzazioni e dalle tipizzazioni imposte dale condizioni contestuali, dal discorso mediatico e da quello politico – e ‘prodotta’ – dalle azioni di distinzione e di esclusione, dalla traduzione del discorso egemonico nel linguaggio vernacolare utile per affrontare esigenze pratiche situate.
Il riconoscimento dell’ambivalenza della differenza – sia vincolo, quando imposta al di là della volontà e degli interessi degli attori, sia risorsa, quando mezzo per distinguere e distinguersi, per vedersi riconosciuti e per escludere – consente di superare la distinzione tra differenza come ‘essenza’ e differenza come ‘processo’. Se ne sottolinea, da un lato, il carattere di costruzione sociale: non il semplice ‘riconoscimento’ di differenze esistenti, ben definite e stabili, ma il risultato del costante processo di significazione connesso alla costruzione di distinzioni e confini. Dall’altro, se ne evidenzia il carattere fattuale: una significazione e una distinzione sono efficaci quando sono ‘naturalizzate’, quando sono trasformate in dati-di-fatto, in istituzioni e reificazioni e, così, sottratte alla contestazione o al dubbio sulla loro ‘realtà’.
Nell’interazione quotidiana i soggetti mostrano una duplice competenza culturale (Baumann 1996): sono in grado di trattare la differenza come un’essenza per dare forza alle proprie azioni e significazioni (o semplicemente riproducendo i discorsi egemonici) e di considerarla relativa e flessibile per contestare etichette esterne sfavorevoli o per rivendicare riconoscimenti e inclusioni. Passare da un registro retorico all’altro non è causa di confusione o segno di contraddizione; al contrario, risulta essere una capacità indispensabile per far fronte a situazioni complesse e mutevoli. Più che essere caratterizzati dal possedere una cultura e una differenza, i soggetti risultano caratterizzati dalle loro capacità di utilizzare cultura e differenze per dare senso alle loro esperienze quotidiane. L’attenzione alle pratiche multiculturali quotidiane consente, inoltre, di considerare come la capacità/possibilità di utilizzo della differenza sia inevitabilmente connessa alla dimensione del potere. La differenza non è sempre e solo prodotto delle strategie e delle tattiche personali; in molti casi risulta imposta, e non è detto che persone e gruppi amino la differenza che è loro attribuita. La posta in gioco della produzione (e della relativa decostruzione) di differenze è la definizione della realtà sociale, una definizione che – producendo confini che classificano, includono ed escludono – privilegia inevitabilmente alcuni soggetti e alcune posizioni a scapito di altre. La produzione sociale della differenza è sempre anche una battaglia per privilegi sociali, per produrre, resistere o demolire etichette negative. Il multiculturalismo quotidiano non riguarda solo positive situazioni di comunicazione interculturale, ma anche i conflitti e le frizioni che emergono nel costante tentativo di distinguere e di distinguersi. Alcuni soggetti e alcuni gruppi occupano posizioni più favorevoli per rendere egemonica la propria differenza e attribuire ad altri differenze negative e degradanti. «Un importante aspetto dell’attenzione alle pratiche di multiculturalismo quotidiano consiste nel riconoscere che le società multiculturali contemporanee non sono la semplice collezione di “differenze eguali”, ma riflettono le relazioni di potere che hanno forgiato le storie nazionali e i flussi globali di individui e gruppi» (Harris 2009: 191). L’analisi delle relazioni multiculturali quotidiane non si esaurisce dunque nell’osservazione degli ‘incontri’, dei ‘dialoghi’ interculturali, ma interroga anche la genesi e le pratiche di legittimazione delle gerarchie esistenti. Non riguarda solo le ‘minoranze’, ma analizza come i gruppi dominanti costruiscono e mantengono le loro posizioni di privilegio, come pregiudizio e razzismo sono spesso parte della cassetta degli attrezzi del gruppo dominante per costituirsi come egemonico e unitario. Riconoscere una differenza può anche essere un mezzo per definire una barriera, per legittimare un’esclusione, per segnare una distanza, per definire se stessi in negativo, per contrapposizione. Può servire per creare un nemico esterno che catalizza la formazione di maggiore solidarietà e riconoscimento interno. L’attenzione all’uso quotidiano della differenza consente, infine, di evidenziare come, in un contesto di crescente globalizzazione, saper coniugare particolare e universale, differenza e eguaglianza, reificazione e relativismo costituiscano risorse relazionali fondamentali: la capacità di mediare e di utilizzare opzioni apparentemente opposte risulta garantire più opportunità rispetto a scelte definitive e radicali per un’unica opzione. In situazioni di variabilità, complessità e incertezza, la differenza costituisce un’importante risorsa politica: consente di costruire o demolire confini che potrebbero favorire od ostacolare le opportunità, la partecipazione, il riconoscimento, la realizzazione personale. In un contesto di crescente globalizzazione, passare da un contesto all’altro – in cui valgono regole diverse e ci sono interlocutori e pubblici diversi – diviene un’esperienza comune e inevitabile. Essere riconosciuti – cioè essere ‘individuati’ come caratterizzati da una qualche specifica ‘differenza’ – diviene un elemento cruciale: può consentire accesso e visibilità, ma può anche essere motivo di esclusione e discriminazione. Saper evidenziare la ‘giusta’ differenza nel giusto contesto risulta essere una risorsa importante – soprattutto per le nuove generazioni – per giocare al meglio le proprie carte e sfruttare le occasioni possibili nei diversi contesti. Vedersi imbrigliati in un’unica differenza, in un’unica appartenenza, riduce le possibilità perché rende più difficile il movimento, l’attraversamento dei confini, lo spostarsi da un contesto all’altro. Mostrare, rivendicare od occultare la differenza in base alle specifiche aspettative dei diversi contesti costituisce un sapere pratico che riduce il rischio di essere bloccati sulla soglia, di essere considerati intrusi, stranieri, di essere discriminati ed esclusi.

Comune-info, 17 dicembre 2017, Intervista di Pierre Thiesset a Serge Latouche il quale espone con chiarezza la sua tesi sui rischi che corre l'umanità se «nuova Megamacchina dalle dimensioni planetarie» continuerà la sua corsa (c.m.c.)

Un giornalista ecologista molto noto ha scritto di recente: “La mondializzazione, quali che siano le condizioni nelle quali si è realizzata, permette ugualmente una espansione dell’immaginario”(1). Voi, al contrario, non cessate di insistere sul livellamento che la mondializzazione comporta, la distruzione di intere culture, la sparizione di lingue, di modi di vivere… Potreste descrivere ancora una volta questa analisi, che svolge un ruolo centrale nella vostra opera, e spiegare ai nostri lettori il carattere fondamentalmente etnocida dello sviluppo?

«Dobbiamo metterci d’accordo su che cosa ognuno di noi mette dietro a ogni parola. Poiché dopo la caduta del muro di Berlino che segna la fine del secondo mondo (e dunque di conseguenza anche del terzo mondo), si è descritta la mondializzazione solo come l’avvento del trionfo planetario della società di mercato, la completa mercificazione del mondo, mentre la mondializzazione dei mercati esiste quantomeno a partire dal 1492, quando gli amerindi pieni di meraviglia hanno scoperto un certo Cristoforo Colombo. Questa “globalizzazione” del mercato segna il momento in cui si passa da una società con un mercato a una società di mercato. Da quel momento l’economia ha completamente fagocitato il sociale, o quasi, e quindi anche la cultura. In questo senso, la mondializzazione è una opportunità soltanto per le imprese multinazionali e per i loro servitori. L’immaginario che l’accompagna non è altro che quello della religione dell’economia (soprattutto di quella ultra-liberista) e della tecnoscienza e non invece il meticciato delle culture. Si tratta quindi piuttosto del compimento della occidentalizzazione del mondo.

«L’etnocidio oggi non tocca più soltanto i paesi del Sud come ai tempi della colonizzazione, dell’imperialismo e dello sviluppo, è diventato planetario. Secondo le parole del filosofo Slavoj Žižek, noi tutti siamo degli indigeni nella evoluzione di un capitalismo planetario. Se diamo uno sguardo all’indietro, questa mondializzazione è una evoluzione che segue l’era dello sviluppo, che a sua volta era il seguito di quella della colonizzazione. È necessario comprendere in modo approfondito che in tutte le civilizzazioni, prima dei contatti con l’Occidente, il concetto di sviluppo era completamente assente. In numerose società africane, lo stesso nome dello sviluppo non ha alcuna traduzione nelle lingue locali. E così, in Wolof, si è cercato di trovare l’equivalente del concetto di sviluppo in una parola che significa “la voce del capo” I camerunesi di lingua Eton sono ancora più espliciti, essi parlano del “sogno del bianco”. E gli esempi si potrebbero moltiplicare(2).

Certo, oggi in Africa, lo sviluppo è diventato qualcosa di familiare, la stessa parola è diventata sacra. È un feticcio dove cadono in trappola tutti i desideri. “Fare lo sviluppo”, significa “guadagnare dei progetti” o “diventare un Bianco”, è il rimedio miracoloso per tutti i mali, ivi compresa la stregoneria. “Ci si procura dei feticci, nota l’antropologo Pierre-Joseph Laurent, per proteggere il proprio capitale: è una specie di “stregoneria di accumulazione”(3). “Lo sviluppo, fa notare inoltre, è un concetto, apparentemente strano, attraverso il quale tutto diventa possibile, tra anziani e giovanissimi, tra chi aiuta e gli aiutati”. L’opportunità dello sviluppo – io direi la sua longevità – risiede nella sua pluralità semantica. Essa conduce, attraverso la modalità del non detto o della sua non esplicitazione, a dei compromessi che talvolta sono sorprendenti. E così, nel suo nome, i mussulmani di Kulkinka hanno allevato dei maiali. Nulla è vietato se ciò porta lo sviluppo(4)!. Come si può vedere, l’occidentalizzazione dello spirito non si realizza senza porre dei problemi.

Questa mancanza delle parole per indicarlo costituiscono un segnale, ma che non sarebbe da solo sufficiente a dimostrare l’assenza di qualunque visione sviluppista. Soltanto, i valori sui quali poggiano lo sviluppo e soprattutto il progresso, non corrispondono minimamente a delle aspirazioni universali profonde. Questi valori sono legati alla storia dell’Occidente, essi non hanno con ogni probabilità alcun senso per le altre società. Per quel che riguarda l’Africa nera, gli antropologi hanno sottolineato che la percezione del tempo è caratterizzata da un netto orientamento verso il passato. Così, i Sra del Ciad ritengono che ciò che si trova dietro ai loro occhi e che essi non possono vedere, è l’avvenire, mentre il passato si trova davanti perché è ben conosciuto. Sembra che tutto ciò sia molto diffuso e non sia vero soltanto in Africa; ma, per non uscire dal tema, questa rappresentazione non facilita la comprensione di una nozione come il progresso che invece svolge un ruolo essenziale per l’immaginario dello sviluppo. A tutto ciò si deve aggiungere la mancanza diffusa della credenza nel controllo sulla natura nelle società animiste. Se il pitone è un mio avo, come credono gli Ashanti, a meno che non lo sia il coccodrillo, come per i Bakongo, è molto difficile fare delle cinture o dei portafogli con le loro pelli. Se le foreste sono sacre come si farà a sfruttarle in modo razionale? In Africa ci si scontra, ancora oggi, con questo tipo di ostacoli allo sviluppo.

Non è privo di interesse notare che si ritrova in queste visioni africane una aspirazione verso il buen vivir, un vivere bene dei popoli amerindi che di recente ha dato luogo a delle rivendicazioni molto vivaci alternative allo sviluppo.“In Bolivia, si utilizza il termine aymara suma quamana, e in Ecuador la parola in lingua kichwa sumak kawsay, e ambedue significano “vivere bene”, “vivere pienamente”, che vogliono dire “vivere in armonia e in equilibrio con i cicli della Madre Terra, del cosmo, della vita e di tutte le forme di esistenza”, secondo F. Huanacuni Mamani. Noi possiamo aggiungere che il termine aymara implica una convivialità necessaria per poter vivere in armonia con tutti, e ciò porta a condividere piuttosto che a entrare in competizione con tutti gli altri. Questi due concetti sono diversi dalla nozione del “vivere meglio” occidentale, che è sinonimo di individualismo, di disinteresse per gli altri, di ricerca di un profitto, da cui deriva la necessità di sfruttare gli esseri umani e la natura(5) . Anche nell’America del Nord si trova ugualmente, presso un certo numero di gruppi amerindi, questa nozione del “ben vivere”, in particolare presso i Cree(6). Sarebbe un controsenso trasformare tutto ciò in un nuovo modello di sviluppo, sia pure di uno “Sviluppo Indigenista” come lo chiamano alcuni, fondato su una concezione biocentrica.

Anche nell’India braminica, secondo l’analisi di Louis Dumont, se i valori che si avvicinano allo sviluppo economico esistono certamente, essi fanno parte dell’Artha, cioè di una sfera di attività inferiore. I comportamenti coinvolti nello sviluppo sono in larga misura contrari alla sfera che più viene ritenuta valida, quella del Dharma (il dovere) (7). Nella visione Brahmanica, il compito dell’uomo secondo Madeleine Biardo “è unicamente quello di mantenere ciò che esiste con una attività in primo luogo rituale”. Tutte le altre attività metterebbero in pericolo l’ordine cosmico(8).

Al di fuori dei miti che costituiscono la base alla pretesa di controllare la natura e alla fede nel progresso, l’idea di sviluppo è completamente priva di senso e le pratiche che ad esso sono legate sono assolutamente impossibili in quanto sono inconcepibili o addirittura vietate. L’universalizzazione dell’Uomo Economico significa la distruzione delle culture e il trionfo della lotta di tutti contro tutti, vale a dire una forma di regressione a una mitica legge della giungla, quella nella quale l’uomo diventa un lupo per l’uomo stesso.»

Nella recente riedizione del vostro lavoro Il pianeta dei naufraghi (uscito inizialmente nel 1991), voi perdete le speranze che avevate espresso trent’anni fa riguardo all’economia informale: voi constatate che la resistenza alla modernizzazione non cessa di rifluire e che la “colonizzazione degli immaginari”, termine che vi è caro, diventa generale. Il mercato della megamacchina è implacabile? Potrebbe ritornare su questa nozione di “megamacchina”, questa organizzazione sociale nella quale l’umano si trova subordinato alla tecnica e all’economia? In quale modo, in questi ultimi anni, il potere del mercato e delle macchine sulle nostre vite si è ulteriormente intensificato, in particolare attraverso le protesi numeriche che si mescolano sempre di più nelle nostre relazioni sociali e riescono perfino a modificare la nostra interiorità?

«Lewis Mumford, ne Il mito della macchina, ci ha insegnato che la macchina più straordinaria inventata e costruita dall’uomo è proprio l’organizzazione sociale. La falange macedone, l’organizzazione dell’Egitto dei faraoni, la burocrazia celeste dell’Impero Ming sono delle “macchine” di cui la storia ha riconosciuto l’incredibile potenza. L’impero di Alessandro ha stravolto in modo duraturo i destini del mondo, le piramidi dell’Egitto meravigliano ancora l’uomo del ventesimo secolo e la Grande Muraglia cinese resta ancora oggi la sola costruzione umana visibile dalla luna. In queste organizzazioni di massa, che combinano la forza militare, l’efficienza economica, l’autorità religiosa, le soluzioni tecnologiche e il potere politico, l’uomo diventa un ingranaggio dentro un meccanismo complesso che consegue un potere quasi assoluto: una Megamacchina. Le macchine semplici o sofisticate partecipano al funzionamento dell’insieme e ne costituiscono il modello.

I Tempi moderni, dei quali Chaplin ci ha dato un’indimenticabile descrizione cinematografica, hanno indubbiamente costituito una tappa in questo processo di aumento di potenza. Walter Rathenau, nella Germania di Weimar, parlava intelligentemente di una “meccanizzazione del mondo”. Ure, nella Filosofia delle manifatture, citato da Marx e da Mumford, parla della fabbrica della grande industria come del “grande automa”. L’essenziale consiste nella “distribuzione delle differenti membra del sistema in un corpo collaborativo, che fa funzionare ciascun organo con la delicatezza e la rapidità desiderate, e all’interno si infiltra nella istruzione degli esseri umani per far loro rinunciare alle loro abitudini sconnesse di lavorare e farli invece identificare nella regolarità invariabile di un automa”(9). Nel periodo tra le due guerre il mondo affascinato o terrorizzato ha così visto nascere l’impresa fordista con la catena di montaggio, la macchina da guerra e da sterminio del regime nazista, il socialismo burocratico che combinava, secondo la formula di Lenin, i soviet e l’elettrificazione. All’interno di queste Megamacchine, l’individuo non è più una persona, e meno ancora un cittadino, è semplicemente un ingranaggio.

Se queste tre Megamacchine sono crollate come dei colossi con i piedi di argilla, i meccanismi più sofisticati del mercato mondiale hanno costruito accuratamente sotto i nostri occhi i differenti ingranaggi di una nuova Megamacchina dalle dimensioni planetarie: la macchina-universo. Sotto il segno della mano invisibile, tecniche sociali e politiche (dalla persuasione clandestina della pubblicità alla violazione delle folle della propaganda, grazie alle autostrade dell’informazione e ai satelliti delle telecomunicazioni…) tecniche economiche e produttive (dal toyotismo alla robotica, dalle biotecnologie all’informatica) si scambiano, si fondono, si integrano, si articolano in una vasta rete mondiale creata da imprese transnazionali gigantesche (gruppi multimediali, trust agroalimentari, conglomerati industriali-finanziari di ogni settore) sottomettono ai loro servizi Stati, partiti, sette, sindacati, organizzazioni non governative, ecc.

L’impero e il controllo della razionalità tecnoscientifica ed economica, della quale il potere e il controllo delle espressioni numeriche informatiche sono oggi l’aspetto più spettacolare, danno alla Megamacchina contemporanea una ampiezza inedita e poco usuale nella storia degli uomini. Stiamo assistendo a una reale mutazione antropologica.

Dobbiamo rilevare che tutti i progetti attuali, per guardare ancora più lontano, della cibernanthropia (mescolanza di uomo e di macchina) o del miglioramento biogenetico, non tendono a “migliorare” la specie, e nemmeno i felici beneficiari di queste tecniche in direzione della giustizia, dell’altruismo e nemmeno della capacità di essere felici (attraverso l’inserimento di geni specifici, o lo scambio di embrioni adeguati) ma soltanto ad accrescere le sue capacità di funzionamento, cioè la sua aggressività. E da questo punto di vista, Ellul è stato veramente “l’uomo che aveva (quasi) tutto previsto”.

“Non c’è alcuna misura comune – scriveva nel 1983 – tra la proclamazione dei valori (giustizia, libertà, ecc.) e l’orientamento dello sviluppo tecnologico. Quelli che sono gli specialisti dei valori (teologi, filosofi, ecc.) non hanno alcuna influenza sugli specialisti delle tecnologie e non possono ad esempio chiedere che si vieti questa ricerca o quel mezzo esistente in nome di un valore. (…) Non ci si chiede quale tipo di uomo si vuole creare. E quando una tale domanda viene formulata sembra evidente che siano gli scienziati o i tecnici a dover decidere che tipo di uomo si vuole creare”.(10)

È ormai l’umanità stessa dell’uomo che è minacciata dai progetti di transumanesimo. E inoltre, non è la società stessa che intende realizzarli che è ancora più minacciata? »

I grandi movimenti migratori attuali sono anch’essi degli indicatori di questa distruzione delle capacità di sussistenza autonoma, dei modi di vita non integrati nella megamacchina? Lo sradicamento e la deculturazione non diventano l’aspetto comune di tutta l’umanità, quando i nostri stessi desideri sono costretti ad assumere la forma imposta dallo sviluppo egemonico?

La risposta si trova nelle spiegazioni date alle altre domande.

Ne L’ Epoca dei limiti, voi scrivete che la decomposizione del tessuto politico comporterebbe per reazione delle risposte identitarie e delle nuove feudalità. Quali osservazioni, dal punto di vista della decrescita, potete fare sui conflitti identitari attuali e sull’aumento delle tentazioni secessioniste? Di che cosa essi sono i sintomi?

«Nell’ultimo messaggio spedito a sua madre l’11 marzo 2015, Foued Mohamed-Aggad che si sarebbe fatto esplodere due giorni più tardi, dopo la carneficina del Bataclan, scriveva: “Questa dounia (questo mondo materiale) è effimero, tutto è effimero, ingannevole”(11). Il tema dell’illusione del mondo, del Faichè Welt,(12) del mondo illusorio, è certamente uno dei temi, dei luoghi comuni, più utilizzati dai religiosi, dai saggi o i poeti che hanno vissuto di più. Ma, che sia un giovane di vent’anni che lo prende alla lettera è rivelatore del “nichilismo della realtà” tanto sottolineato da Jean Baudrillard ai suoi tempi. Stigmatizzare questo giovane francese di debolezza come hanno fatto certi media è un modo abusivo di rifiutare di affrontare la realtà.

Il sacrificio di questi ragazzi deviati che avrebbero potuto dire come Paul Nizan: “Avevo vent’anni e non permetterò a nessuno di dire che è l’età più bella della vita”, dovrebbe suscitare in noi delle domande riguardo all’orrore del massacro dei loro coetanei. Per comprendere l’emergenza del terrorismo e la potenza della seduzione che Daesh ha potuto esercitare su dei giovani frustrati e senza punti di riferimento, non necessariamente di origine magrebina, attraverso i metodi di propaganda dei djihadisti sul modello dei videogiochi e la loro perfetta padronanza di tutti i metodi hollywoodiani, è importante capire che si tratta innanzitutto di una reazione alla perdita di senso generata dalla società della crescita. Il processo di radicalizzazione, come si dice oggi, non ha molto a che vedere con l’islam autentico, ma molto con il fascino del carattere distraente della guerra.

Ciò che noi chiamiamo il terrorismo è, in realtà, un controterrorismo di risposta al totalitarismo del mercato e al terrorismo dell’imperialismo culturale occidentale che Jean Baudrillard definiva anche come “il fondamentalismo terrorista di questa nuova religione sacrificale della prestazione(13)”. Si tratta in realtà di una reazione all’occidentalizzazione del mondo. Questa analisi si contrappone frontalmente alle due analisi statunitensi più diffuse dai media dopo il il 1989, quella de “La fine della storia” di Francis Fukuyama e quella de “La Guerra delle civilizzazioni” di Samuel Huntington.

La mondializzazione che rappresenta il compimento relativo di un’epoca è tutto tranne che felice; si tratta piuttosto di una “immondializzazione”, cioè di una globalizzazione immonda. E se la storia sembra conclusa e che una fase sia terminata, la successione degli avvenimenti che ha fatto seguito alla caduta del muro di Berlino non ha nulla di definitivo e ancor meno di auspicabile. Il “terrorismo islamico” non è da questo punto di vista l’ultimo soprassalto di un mondo che avrebbe trovato il suo giudizio finale con lo sposalizio tra la democrazia e il mercato… È chiaro che ciò che è terminato è un certo regime di storicità, mentre ciò che si apre è una avventura indecifrabile e, per noi, letteralmente insensata.

Quanto alle guerre di civiltà, si tratta di un vecchio fantasma occidentale riciclato che cerca di diventare una profezia autorealizzantesi. È il fantasma liberista, quello della indifferenza verso i suoi stessi valori e proprio per questo di una intolleranza totale verso coloro che sono diversi per una qualunque passione. E non è l’elezione di Donald Trump che lo smentirà… Si deve anche aggiungere che lo sterminio universale non è meno insopportabile quando si manifesta sotto la sua forma “di sinistra” della compassione paternalista o nella sua forma etno-nazionalista neo-conservatrice.

Anche se sarebbe un abuso il vedere nel terrorismo anti-occidentale un nuovo “soggetto della storia”, esso rappresenta in qualche modo “La rivincita del popolo dello specchio”, per riprendere il titolo di un racconto famoso di Jorge Luis Borges. In quel testo, i vinti dell’impero sono condannati a restare dall’altra parte dello specchio e a riflettere i gesti dei loro dominatori. Ma «un giorno forse, dice il testo di Borges, essi ( le genti dello specchio) si scuoteranno da questo letargo magico. Le forme cominceranno a risvegliarsi. Essi diventeranno poco a poco diversi da noi, e ci imiteranno sempre meno. Essi spaccheranno le barriere di vetro e di metallo e questa volta non saranno vinti».

Ciò che si vede meno, è che questa egemonia, questa presa del potere di un ordine mondiale di cui i modelli – non solamente tecnici e militari, ma culturali e ideologici – sembrano irresistibili, si accompagna a una recessione straordinaria attraverso la quale questa potenza è lentamente minata, rosicchiata, cannibalizzata, da coloro che ne sono le vittime».

Voi l’avevate già annunciato, con la crisi dell’occidente suona l’ora della verità: una fuga in avanti che rischia di essere sempre più violenta o la strada verso la decrescita. Ora, malgrado il fatto che la ricerca sfrenata della crescita lascia dei naufraghi e che essa devasta il nostro ambiente (la catastrofe ecologica è abbondantemente documentata, escono continuamente dei rapporti sull’estinzione di massa delle specie, la desertificazione di interi territori, ecc.) la decrescita sembra sempre una eresia, la corsa non si arresta, e la “pedagogia delle catastrofi” non si realizza. Siamo diventati incapaci sia pure soltanto di immaginare una qualunque forma di società diversa, non strutturata intorno all’imperativo della crescita?

«Non si può dire che la pedagogia delle catastrofi non si è realizzata. Le disfunzioni ineluttabili della megamacchina, le contraddizioni, le crisi, i rischi tecnologici principali, i bloccaggi, sono fonti di sofferenze insopportabili e sono delle disgrazie che si possono soltanto deplorare. Tuttavia, sono anche delle occasioni di presa di coscienza, di rifiuto, anche di rivolta. Certamente gli esempi di catastrofi che non determinano alcun cambiamento o peggio che provocano dei ripiegamenti che possono dar luogo a delle reazioni di tipo “fascista” non mancano. L’elezione del presidente Trump ne costituisce un buon esempio… Tuttavia, vi sono anche numerosi esempi in senso contrario. Richiamiamo qui un caso tra gli altri, nel dicembre 1952, lo smog di Londra aveva ucciso 4.000 persone in cinque giorni! Ma ciò provocò una reazione tale che portò ad approvare la legge sull’aria pulita del 1956. La storia della mucca pazza è nello stesso tempo una buona testimonianza della follia degli uomini e un segnale forte che ha determinato dei cambiamenti nelle maniere di alimentarsi. Tutto ciò peraltro non è sufficiente a provocare la grande rottura auspicata dal movimento per la decrescita. Ricordiamoci che malgrado tutto la preoccupante canicola dell’estate 2003 ha fatto molto più di tutti gli argomenti da noi presentati per far comprendere la voce della decrescita e per convincere almeno una minoranza della necessità di orientarsi verso una società dell’abbondanza frugale o della prosperità senza crescita.

Inoltre, non manchiamo di immaginazione per proporre delle alternative alla civilizzazione capitalista occidentale, ma per realizzare a livello delle masse lo scatto sufficiente per rompere con la tossicodipendenza del consumismo e per procedere alla necessaria decolonizzazione dell’immaginario, non si può certo contare solo sulla pedagogia delle catastrofi. Il vero problema, come sottolinea Jean Pierre Dupuy, è che «noi non riusciamo a dare un peso di realtà sufficiente all’avvenire che si prospetta, e, in particolare, all’avvenire catastrofico» (14). La catastrofe, scrive ancora, ha questo di terribile che non si crede solamente che essa si produrrà quando anche si hanno tutti i motivi per sapere che essa si produrrà, ma che una volta che essa si è realizzata essa sembrerà far parte dell’ordine normale delle cose. La sua realtà stessa la rende banale. Essa non era stata giudicata possibile prima che si realizzasse; ma eccola integrata senza alcuna forma di processo nel “mobilio ontologico” del mondo, per usare il gergo dei filosofi. (..) È questa metafisica spontanea dei tempi delle catastrofi che costituisce l’ostacolo maggiore alla definizione di una prudenza adeguata ai tempi attuali.

In altri termini, conclude, ciò che rappresenta qualche possibilità di salvarci è ciò stesso che ci minaccia. Io credo che questa sia l’interpretazione più profonda di ciò che Hans Jonas chiama “l’euristica della paura”(15). “Sarebbe meglio – scrive Jonas – ascoltare la profezia della disgrazia piuttosto che quella della felicità”(16). Tutto ciò, non per un gusto masochista dell’apocalisse, ma proprio per scongiurarla. La politica dello struzzo è in ogni caso una forma di ottimismo suicida. E inoltre, non si ha alcuna certezza che ciò funzionerà nei tempi previsti. Tuttavia, non si ha nulla da perdere a fare il tentativo».

Tutte le saggezze, le filosofie, le religioni insistevano sulla virtù della temperanza e sulla necessità dell’autolimitazione. E tuttavia, la decrescita sembra oggi come una provocazione finale, mentre la trasgressione è proclamata essere la norma. Come spiegare questo immenso sconvolgimento, la perdita del senso della misura? Dobbiamo ritornare nelle biblioteche per riannodare una visione del mondo e una concezione dell’esistenza in contrapposizione alla volontà di potenza distruttrice che divora le nostre società? La decrescita, è prima di tutto una questione di senso, per rimettere in gioco i valori sui quali si basa l’Occidente moderno, “capovolgere i nostri modi di pensare”?

«La decrescita implica certamente di “capovolgere i nostri modi di pensare”, ma comporta certamente delle nostre modalità di fare. Per cambiare i nostri comportamenti e a livello collettivo, cambiare il sistema, cambiare il paradigma e anche la civilizzazione, in breve per uscire dalla società della crescita, è necessario decolonizzare (vale a dire soprattutto de-economicizzare) i nostri immaginari. Per fare questo, si deve dapprima comprendere come tutto ciò è stato colonizzato, e quindi fare una “metanoia”, un percorso inverso di tutto il pensiero. Come le saggezze, le filosofie, le religioni, come voi dite, che insistevano sulla virtù della temperanza e sulla necessità dell’autolimitazione, sono state abbandonate, rifiutate, tradite. È una lunga storia. Ciascuna delle tappe che hanno portato alla società globalizzata del mercato contemporaneo è stata accompagnata da cambiamenti importanti nei differenti ordini: tecnico, culturale, politico. L’invenzione della contabilità a partita doppia e della banca, degli ordini mendicanti e delle spinte eretiche, dell’autogoverno delle piccole repubbliche italiane e fiamminghe, per la prima fase del capitalismo mercantile in una Europa cristiana e feudale.

La riforma, il capovolgimento etico di Bernard de Mandeville e il cambiamento dell’egemonia culturale con il trionfo dei Lumi e della modernità grazie alle rivoluzioni politiche delle borghesie nazionali, quando è emersa la società termo-industriale, caratterizzata dalla scelta del fuoco e l’utilizzazione delle energie fossili. La rivoluzione numerica e l’installazione del virtuale, la controrivoluzione neoliberista, sono tutte cose che hanno fatto sparire le ultime barriere contro l’illimitato e la dismisura, con l’emergere contemporaneo dell’impero mondiale del mercato.

Liberarsi dalla cappa di piombo dell’ideologia così dominante, quando l’enorme macchina mediatica si sforza di decerebrarci, non è certo una cosa da poco. Per fortuna, noi abbiamo due emisferi nel cervello e la parte sinistra resiste sempre… E può risvegliarsi in qualunque momento. Ogni speranza non è quindi perduta ed è opportuno gioire serenamente del miracolo di essere ancora semplicemente vivi.»
Tradotto da Alberto Castagnola per Comune-info.net.

Articolo tratto da comune-info.net qui raggiungibile in originale

Note
(1)Vedi Marcellesi Florent, Cooperacion al postdesarrollo. Bases teoricas para la transformacion ecologica de la coopéracion al desarrollo, Bakeaz, Bilbao 2012
(2)Pierre-Joseph Laurent, Le don comme ruse. Anthropologie de la coopération au développement chez les Mossi du Burkina Faso: la fédération Wend-Yam, avril l996, Louvain. p. 274.
(3)Ibid. p. 226.
(4)Françoise Morin, «Les droits de la Terre-Mère et le bien vivre, ou les apports des peuples autochtones face à la détérioration de la planète» MAUSS revue n° 42. Que donne la nature? L’écologie par le don. Second semestre 2013, La découverte, p. 230.
5) Ibid. p. 232.
(6)Louis Dumont, Homo hiérarchicus, Le système des castes et ses implications, Gallimard, Paris l966.
(7)Madeleine Biardeau, L’hindouisme, Anthropologie d’une civilisation, Flammarion, col. Champs. Paris l981, p. l56.
(8)Cité parJean‑Pierre Séris, La technique, P.U.F, l994, p. 183.
(9)Jacques Ellul, “Recherche pour une éthique dans une société technicienne” in La technique, Cahiers Jacques-Ellul pour une critique de la société technicienne, N° 2, Bordeaux, 2004, p. 139.
(10) Rapporté par Le monde du 29/30 mai 2016.
(11)«Le plus odieux chez les terroristes palestiniens, ironise Baudrillard, c’est qu’ils se font tuer dans leurs attentats. Ils trichent. Ils engagent leur mort comme prix à payer. C’est inacceptable. Ces gens-là n’ont pas le courage de lutter à armes égales ». Cool Memories IV, Galilée, 2000, p. 36.
“I più odiosi tra i terroristi palestinesi , ironizza Baudrillard, sono quelli che si fanno uccidere nei loro attentati. Sono dei truffatori. Essi impegnano la loro morte come se fosse un prezzo da pagare. Non è accettabile. Questa gente non ha il coraggio di lottare ad armi pari“.
(12)L’Illusion de la fin ou la grève des événements, Galilée, 1992., p. 150.
(13Cahier de IUED juin 2003, p.161
(14)Pour un catastrophisme éclairé, Seuil 2003, p. 84-85.
(15 Ibidem, p. 215.
(16)Hans Jonas, Le principe responsabilité, une éthique pour la civilisation technologique, Editions du Cerf, l990, Paris p. 54.

Nell'immagine il quadro realizzato con ciottoli di mare dai bambini e dalle bambine della IV A e della IV B della scuola elementare I.C. Santa Marina ???

OpenDemocracy, 15 novembre 2017. Mentre al COP23 di Bonn si parla dei cambiamenti climatici, il gasdotto avanza indifferente alle proteste e alla incongruenza tra uso di combustibili fossili e agenda climatica: si sa gli affari prima di tutto (i.b.)
Un nuovo rapporto della Corporate Europe Observatory - espone la rete di lobbismo e ipocrisia che si celano dietro la deleteria espansione dei combustibili fossili in Europa. L’articolo dell’ Open Democracy riporta alcuni dei tanti episodi di corruzione e riciclaggio di denaro sporco legati a questa opera. (i.b)


FROM THE BOAT RACE TO AZERBAIJANI JAILS:
HOW DIRTY GAS SELLS ITSELF TO ELITE

di Jo Ram e Pascoe Sabido

The European Investment Bank (EIB) is at COP23, the UN climate talks in Bonn, talking about financing climate solutions.

Yet this week it is also facing mass protest over its possible multi-billion euro loan to the Trans-Adriatic Pipeline (TAP). The pipeline would transport Azerbaijani gas from the Turkish-Greek border to the heel of Italy. The $4.5bn TAP is the last leg of the BP-led Euro-Caspian Mega-Pipeline, or Southern Gas Corridor as the industry calls it. The entire Euro-Caspian Mega-Pipeline costs $45bn and is mired in human rights abuses, corruption scandals and numerous illegalities - but it’s still going ahead.

New research from Corporate Europe Observatory exposes the web of lobbying and PR that has allowed the pipeline to to get this far, roping in prestigious London universities and top politicians along the way.

The Trans-Adriatic Pipeline’s shareholders include oil and gas majors BP and Azerbaijani state-owned SOCAR (1), along with gas pipeline builders and operators from Italy (Snam, 20%), Belgium (Fluxys, 19%), Spain (Enagás, 16%) and Switzerland (Axpo, 5%).

But construction is being held up by communities along the pipeline whose livelihoods are being threatened. In Greece, farmers have been organising themselves through the courts and on the ground, while in Italy local communities have been physically putting themselves in the way of the diggers. The military has just locked down two local villages to ensure construction begins. In Azerbaijan, local activists and journalists opposing TAP and the entire Southern Gas Corridor have been thrown in jail on trumped up charges. Azeri President Aliyev has been keen to silence dissent and quash any hint his corrupt regime is rigging elections and violating human rights.

The recent Azerbaijani Laundromat scandal exposed the regime's use of tax havens and money laundering to fund its efforts to curry favour with European politicians and other figures – buying their silence and political support with gifts and bribes. Less notorious are the softer approaches; the campaigns to make Azerbaijan and the entire Southern Gas Corridor acceptable in the eyes of the political and economic elites in national capitals and with the European Commission. The latter is lending substantial political as well as economic support to the mega-pipeline.

A key player is The European Azerbaijan Society (TEAS), an Azeri lobby group with offices around Europe. Headed up by the son of an Azeri Minister and member of President Aliyev's inner circle, TEAS is teaming up with think tanks, lobby groups and academic institutions to organise high-level events to build credibility around the Southern Gas Corridor.

One TEAS collaborator is the prestigious King’s College London. Alongside BP and the consortium TAP AG, TEAS is an official partner and supporter of the university's European Centre for Energy & Resource Security (EUCERS). In January 2014 they organised the European Energy Forum, putting ambassadors and ministers from TAP countries on panels alongside friendly academics, think tanks, and top executives from BP and TAP AG. The supportive European Commission was not just a speaker, but also sponsored the event's networking session. The keynote was delivered by Michael Fallon, the UK's then-Minister for Energy. Two months later in Parliament his government publicly championed Azerbaijan as a European gas supplier.

TEAS also targets UK decision makers through organising and sponsoring cultural and sporting events, such as the iconic Oxford-Cambridge University Boat Race in 2014 or the jazz events organised during the Conservative, Labour and Liberal Democrat party conferences.

TEAS is just one channel used by the consortium TAP AG to win support. The combined lobbying budget of TAP AG and its shareholders exceeded €6m in 2016, with 26 lobbyists on the payroll. This secured them more than 30 meetings between late 2014-2017 with Vice-President Maros Šefčovič and his cabinet, the European Commission's Southern Gas Corridor champion.

More examples are given in the report, but the gas industry in general is a major player in Brussels, convincing the EU that gas is a 'clean' fuel (despite its methane emissions making it as bad for the climate as coal). If the gas industry and it’s PR bedfellows get their way, the result will be a completely unnecessary gas infrastructure building programme, with TAP just one of many new projects. In fact, European gas demand has fallen 13% since 2010 while liquified natural gas (LNG) infrastructure is being used at less than 25% of its capacity.

The new pipelines and gas infrastructure will lock Europe into 40-50 more years of fossil fuels and the social and environmental consequences it entails. Gas expansion is not something the EIB should be funding. Around Europe groups are calling on the public bank to not fund TAP or any new gas infrastructure. Given their posturing at COP23 around climate solutions, pulling out of gas should be a no-brainer.

il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2017. Non è più possibile continuare con politiche che accollano sui poveri (del primo, secondo, terzo e quarto modo) le furberie compiute da finanza, banche e multinazionali. (p.d.)

Le cifre immense di ricchezze immense poste al sicuro nei “paradisi fiscali” con una vasta collaborazione tecnica, politica, economica, da coloro che consideriamo leader o classe dirigente, sono la prova che il mondo è sostenuto dai poveri. Apparentemente i sistemi di tassazione sono in vari tipi di proporzione al reddito, più pesanti per alcuni e più lievi per altri. Ma la realtà è rovesciata. Sui medi, i piccoli e i modesti compensi di lavoro la tassa è un peso sociale, un buco nella lotta per sopravvivere, che diventa più insopportabile per i lavoratori più poveri. Ma un sistema inesorabile di controllo non lascia scampo all’intero universo del lavoro subordinato. Le Forze armate. Le scuole, gli ospedali, le autostrade, sono finanziate dalla parte povera del mondo, ciascuno con i pochi soldi che sarebbero indispensabili per finire il mese, o con la metà di un salario che consentirebbe una modesta agiatezza.
Fuori di questi confini, comincia il trucco della tassazione della ricchezza, sia essa di impresa, o di scambio o di rendita, che dispone di numerose e fantasiose piazzole di sosta dove può attendere mentre si studiano vie di fuga, disponendo di tempo e di libertà che non sarebbero mai concessi al reddito da lavoro. Ci hanno spiegato la strategia. Un atteggiamento benevolo e relativamente tollerante verso il capitale, incoraggia una parte dei grandi pagamenti che, altrimenti, potrebbero non avvenire mai. In questa fase (che sembra la battaglia finale di difesa della ricchezza, ma riguarda invece una serie di espedienti per tenere impegnata e dividere la politica fino a quando più o meno tutti, salvo pochi fuori gioco, si convincono che, con le buone, qualcosa si ottiene sempre, e che qualcosa è meglio di niente) cambiano i ruoli dei protagonisti della scena sociale.
Gli operai diventano ostaggi. “Spiacenti, ma dovremo chiudere e licenziare tutti se non accettate le nostre richieste”. Ma anche: “È necessario un taglio di una certa parte del personale, altrimenti non potremo rilanciare l’impresa e non saremo in grado di pagare”. Si parla di tasse, e dunque i governi si fanno attenti. Accade che i ministri del Lavoro partecipino (a volte con i sindacati) a preparare le liste degli ostaggi da offrire, qualche migliaio di vittime per il bene di tutti, un rito sacrificale che si ripete infinite volte. I politici diventano gabellieri. E devono essere gabellieri inesorabili con il lavoro, da cui bisogna esigere l’ultimo centesimo, e aggiungono le tasse nascoste dei ticket e degli improvvisi aumenti di tariffe (elettricità, treni), ma rispettosi con le imprese, altrimenti collezionano dati e valutazioni economiche che non favoriscono le rielezioni.
Alcuni intellettuali (specialisti di sociologia e di lavoro) assumono spontaneamente il ruolo dei prigionieri che facevano i comici nei campi di sterminio: ti spiegano che sono arrivati in massa i robot e non c’è più bisogno di operai. Ti dicono che bisogna imparare l’uso proficuo delle ore libere, che non sono poi così male. Ti suggeriscono uno slogan popolare in tempi completamente diversi: “Lavorare meno per lavorare tutti”. Gli economisti contano in piccolo e, se possono, non alzano gli occhi per vedere dove si nascondono le grandi ricchezze. Sono medici militari che si prestano a dichiarare “abili al servizio” uomini e donne per compensi sempre più bassi. Intanto arrivano le cifre della ricchezza dislocata in un altrove che non fa più parte di ciò che chiamiamo “gli Stati” o “la società”.

Ti dicono che è evaporato il 10 per cento, il 20 per cento, il 30 per cento dei Pil del mondo. Devi per forza trarre alcune conseguenze. La prima è che si tratta, in realtà, di cifre molto più alte, perché, se questo sistema di separazione dei mondi funziona, non è ragionevole pensare che vi sia continenza e una propensione a dire “adesso basta”. Sottrarre tutto sembra un progetto possibile. La seconda conseguenza è che tutti i conti del mondo sono falsi e che adesso si spiega, in modo antico, quasi da favola, la frase che precede tanti sacrifici: “Sono finiti i soldi” oppure “una volta si poteva ma adesso non si può più”. La terza conseguenza è che, dopo un simile furto, non rimediabile e non punibile, se con gravi giudizi morali, non può continuare la politica come prima. E gli economisti devono smettere di non vedere l’immenso scarabocchio che cambia il senso dei loro trattati. Tutto, in condizioni immensamente difficili, deve ricominciare da capo. Deducendo le enormi perdite, ma smettendo di metterle a carico dei poveri.

Pangea.news, 12 novembre 2017. Giovanni Zimisci interviata Guido Viale. Un breve profilo e un bel libro di uno dei pochi intellettuali italiani che sappia saldare pensiero e azione, presente e futuro, persona e universo

In rete gira ancora un video che s’intitola “Manifestazione per la liberazione di Guido Viale”. Siamo nel 1968. Università di Torino. A ‘fare il 68’, a Torino, davanti a tutti, c’è lui, Guido Viale. Classe 1943, nato a Tokyo, compleanno fra qualche giorno – il 20 novembre – “Guido Viale è stato – ed è, e rimane – l’autore di una delle cose più belle scritte in quell’anno. L’‘anno mirabile’. Cioè il ’68.

L’articolo si intitolava Contro l’Università ed apparve nel numero 33 (febbraio 1968) della rivista Quaderni Piacentini. Contro l’Università – scriveva Viale dall’interno della Università di Torino occupata – che conferma e consolida i rapporti autoritari di classe: baroni contro studenti, studenti benestanti contro studenti nullatenenti. Contro quell’Università che contribuiva, sempre secondo Guido Viale, ad una cultura fatua e compiaciuta”. Questo è Beniamino Placido, su la Repubblica, parecchi anni fa, era il 1994. Quell’anno Viale aveva pubblicato per Feltrinelli Un mondo usa e getta. La civiltà dei rifiuti che lo aveva eletto a “filosofo ambientalista” (ancora Placido).
Nel mezzo, Viale, insieme a Sofri, Pietrostefani, Rostagno, Deaglio, Boato, è stato tra i leader di Lotta Continua. “Nel Sessantotto il tentativo è stato quello di costruire una cultura alternativa dal basso. Il tentativo era buono, gli errori sono stati tanti, lo slancio ha perso smalto, e il trionfo di Donald Trump negli Usa è la stravittoria della politica elaborata nelle sedi della grande finanza e dei grandi interessi”, dice oggi il più lucido esegeta di quell’epoca (basta leggersi Il sessantotto. Tra rivoluzione e restaurazione, costantemente ristampato; un suo testo è anche nel catalogo Electa legato alla rassegna è solo un inizio. 1968 attualmente alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma, tra Goffredo Fofi, Rossana Rossanda, Luciana Castellina, Achille Bonito Oliva, Nanni Balestrini).
Ora Viale, voce un tempo necessaria e oggi marginalizzata (comunque, lo leggete qui), pubblica un libro pensante e pesante, Slessico familiare. Parole usurate, prospettive aperte (Interno4 Edizioni, pp.184, euro 14,00), che di fatto, da ‘Proprietà’ a ‘Ricreare’, tra ‘Sopraffazione’ e ‘Denaro’, è l’abbecedario del mondo di oggi, il tentativo di risillabare il tempo presente. Troppo colto per la politica attuale – viene in mente il Moretti di Palombella rossa, “bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!” – contattiamo Viale per dissezionare convenienze e convenevoli.

Cominciamo a ragionare sulla parola ‘Sinistra’, su cui lei affonda una critica con il bisturi. La cito. “Oggi essere ‘di sinistra’ è per molti solo un alibi per evitare di pronunciarsi e impegnarsi in scelte dirimenti, come accoglienza dei profughi, debito pubblico, euro, criminalità, merito, privatizzazioni, lavoro precario, reddito garantito, ecc.”. Ecco, proviamo a riabilitare il concetto di ‘sinistra’: cosa significa?
“Guardi, per me il concetto di ‘sinistra’ non si può più riabilitare. Molto semplicemente, non ha più alcun senso. La stessa sterile battaglia che si fa per capire quanto a sinistra o a centro-sinistra, con il trattino o senza, sia un partito o l’altro, denota il vuoto totale dei temi sui quali ci si dovrebbe confrontare. Io ho partecipato come promotore a tre sperimenti falliti: ‘Alba’, ‘Cambiare si può’ e ‘L’altra Europa con Tsipras’. In tutti e tre i tentativi, dove, nonostante le ripetute insistenze, non c’era la parola ‘sinistra’, si è cercato di misurarsi su cose da fare e da non fare, più che sulle etichette. Ora guardo con interesse al tentativo ‘Montanari-Falcone’, ma vedo che la battaglia, tra D’Alema, Bersani, Civati, è ancora sul misurare il grado di ‘sinistra’ che ciascuno ha nel sangue. La sinistra tradizionale è legata a un mondo che non ha più diritto di esistere in un presente dove vincono ‘merito’ – inteso come metodo per creare gerarchie e precari – e ‘competitività’”.

Altra parola magica, ‘Democrazia rappresentativa’. Come nel caso di ‘Sinistra’, anche qui la crisi è irreversibile.
“La democrazia rappresentativa è legata all’esistenza di partiti di massa, che creano strumenti di educazione e di autoeducazione. Cioè, ad esempio, circuiti autonomi di dibattito e di informazione, per non dipendere, se non parzialmente, dai media. Alterato il carattere dei partiti di massa, la rappresentatività ha perso credibilità. Basta guardare alle elezioni siciliane e a quelle di Ostia, dove è saltato il meccanismo di selezione del personale politico garantito dalle elezioni. Ma se guardiamo più in alto, ci accorgiamo che le elezioni di Trump e di Macron sono dettate da una competizione fatta unicamente di slogan”.

…e di chi è la colpa? Sempre di Berlusconi?

“Con Berlusconi, è un fatto, i media e la comunicazione di massa prevalgono brutalmente sulla cultura interna alla formazione partitica. Ma la svolta, devo dire, accade proprio con il Sessantotto, le cui istanze profonde di cambiamento hanno perso la capacità di incidere. Ad ogni modo, teniamoci stretta la democrazia rappresentativa se non c’è altro di meglio: meglio questa di una dittatura che abolisca le elezioni”.

Diversi termini catalogati nel suo libro hanno un tono cupo: ‘Sopraffazione’, ‘Servilismo’, ‘Paura’, ‘Chiusura’, ‘Cinismo’, ‘Corruzione’. Cosa è accaduto al concetto, capitale, di ‘lavoro’?
“I termini cui le fa cenno sono legati al concetto di gerarchia. Al merito imposto dall’alto e al servilismo praticato dal basso per salire i gradini della gerarchia. ‘Lavoro’ è parola, etimologicamente, legata a fatica, asservimento, tortura, subordinazione imposta. Ancora oggi mi pare che la maggior parte delle persona intenda il lavoro in questa accezione. Eppure, c’è una componente positiva del lavoro, che è quella di poter costruire, tramite un lavoro attivo, la propria identità, di fondare il proprio ruolo nella società. Chi non ha un lavoro, non ha una identità sociale. Ecco, io non sono per l’abolizione del lavoro, ma per la sua trasformazione in libera attività. Per questo, penso che sia giusto il reddito minimo garantito, il reddito di base o ‘di cittadinanza’, lo chiami come vuole. Questo reddito minimo con cui campare è la condizione necessaria per sottrarsi al ricatto del datore di lavoro e scegliere a quale attività votarsi, da svolgere autonomamente o da subordinati, ma in piena libertà”.

La risposta al delirio turbo capitalista lei la intende nei termini di accoglienza e di ecologismo. Non si rischia di imbarcarsi nella pura utopia, nella solita utopia?
“Accoglienza è diventata di attualità quando il problema dei migranti è balzato all’ordine del giorno. L’accoglienza, di per sé, non basta. Quello è il primo passo che dovrebbe portare non a una integrazione in quanto inserimento organico di una persona nel nostro assetto sociale, ma a una inclusione, garantendo al migrante di non essere escluso pur mantenendo la propria identità. In questo modo è possibile elaborare politiche ‘di ritorno’ del migrante nel proprio paese: una volta resa stabile la sua condizione, egli potrebbe addirittura desiderare il ritorno nel suo paese, diventando protagonista di riconciliazione e di risanamento. Il mio intento, a lungo termine, è la circolarità dei movimenti, con migranti che approdano da noi, per poi fare ritorno in patria ed europei che esprimano la propria attività sociale in quei paesi”.

Quanto all’ecologismo…
“Siamo messi malissimo. I governi non vedono i grandi problemi che attanagliano il pianeta, nonostante gli scienziati continuino a ripetere che siamo sull’orlo di un baratro irreversibile. I governi lavorano con l’unico scopo di mantenere le proprie clientele e le proprie basi elettorali, a tutti i costi”.

Qual è la parola che non ha inserito nel suo ‘slessico’.
“La parola ‘cultura’. Manca, in particolare, in questi tempi, l’esigenza di raccogliere la cultura popolare per portarla all’attenzione degli strati alti, intellettuali. Ci sono persone che vivono scrivendo libri, monopolizzando i media – basti vedere allo stato della televisione e delle case editrici – disinteressate ad ascoltare la cultura del popolo. Ecco, penso che la battaglia culturale vada intesa come costruzione di idee nuove e partire da uno scambio, da una capacità di ascolto”.

Ultima. La parola più rappresentativa per dire il presente.
“Competizione. Una corsa sfrenata al dominio, la prepotenza contro chi è più debole e ha meno tutele”.

lavoce.info, 10 novembre 2017. Il fatto che persone e aziende dei paesi avanzati utilizzino i paradisi fiscali non dovrebbe suscitare tanta ipocrita sorpresa. Se davvero si vuole farla finita con queste pratiche sono necessari interventi decisi, da applicare a livello internazionale. (m.c.g.)

Ricchi in paradiso

Con stucchevole sorpresa si scopre, praticamente una volta l’anno, che i paradisi fiscali esistono. E che li usano perlopiù i potenti (persone fisiche e imprese) di paesi di “elevato standing” internazionale. Non sarà, per caso, che il rapporto risulta invece organico tanto allo stile di vita che alle modalità organizzative di coloro che vivono proprio in questi paesi? Proviamo, allora, a vedere le cose un po’ più da vicino evitando, innanzitutto, equivoche generalizzazioni.
Le persone fisiche usano i paradisi fiscali per “risparmiare” sulle imposte dovute. Ma questo vale per chi non ha bisogno di nascondere le proprie ricchezze e, anzi, ne fa volentieri sfoggio. Appartengono alla categoria sportivi, attori, cantanti e modaioli di vario genere. Gente benestante, ma col pallino della furbizia: sono ricco e famoso e ci so fare anche con le tasse. Basta pensare, per non andare troppo lontano, a Luciano Pavarotti e Valentino Rossi.
Vi è, però, una diversa categoria di persone fisiche: coloro che devono mostrare modestia in patria e sostanza nascosta all’estero con cui pagarsi campagne elettorali o comunque di accreditamento delle proprie virtù, quella dei prestanome che nascondono ricchezze di “persone di specchiata moralità”, quella dei criminali che devono nascondere il “corpo del reato”. Per costoro il “risparmio d’imposta” è un gradito accessorio, ma non l’obiettivo principale, che è il puro e semplice occultamento dell’esistenza stessa della ricchezza ivi parcheggiata.
I vantaggi delle imprese

Anche le imprese usano i paradisi fiscali. Lo fanno – di massima – per minimizzare non solo il proprio carico tributario, ma anche quello dei costi operativi da sostenere. Basta pensare a quelle imprese che accettano di pagare un testimonial del loro prodotto versando il corrispettivo a società – sistematicamente off shore – che appaiono titolari del diritto di sfruttamento della sua immagine. Queste imprese sono semplicemente ipocrite complici di uno schema che consente al testimonial di pagare meno tasse e, quindi, di accontentarsi anche di un minor compenso. Sulle spalle, è ovvio, della collettività. Vi sono, poi, i manager delle imprese che su acquisti e vendite operate all’estero trovano spesso occasione di far emergere differenziali che prendono strade diverse da quelle dei conti delle parti contraenti e vanno a finire su quelli di società da loro controllate. Qui il manager non solo evade ma anche ruba; e l’impresa per cui lavora è la parte lesa. L’opacità vale, anche in questo caso, di più dell’evasione.
Si aggiunge poi un’altra tipologia di utilizzo dei paradisi fiscali che nel tempo si è addirittura ampliata: quella dei veicoli di raccolta, canalizzazione e distribuzione di denaro da investire. Si tratta di strutture giuridiche – perlopiù “limited partnership” – che consentono di raccogliere investitori della più diversa specie (istituzioni finanziarie, oligarchi e sceicchi) e tenerli insieme in un salvadanaio comune, regolato da disposizioni interne alla partnership (e, quindi, senza alcun vincolo regolamentare esterno), amministrato da illustri sconosciuti al di fuori di qualsivoglia meccanismo di controllo da parte delle autorità del paese destinatario delle risorse di provenienza off-shore. La partnership, peraltro, è, come si dice in gergo, “trasparente”: cioè trattiene le sue eventuali (modestissime) spese di gestione e devolve tutto il ricavato ai partner (cioè ai soci) senza ritenute né sgradite domande. Questi veicoli di investimento vengono utilizzati in una grande varietà di casi. Per acquistare azioni, per sottoscrivere quote di fondi di private equity, per sottoscrivere o acquisire bond (titoli di debito) emessi da imprese di variabile solvibilità, per partecipare a operazioni mordi e fuggi in ogni angolo della terra: salvo che dette operazioni sono sistematicamente sponsorizzate, guarda un po’, da qualche primaria istituzione finanziaria di un paese di “elevato standing”.
C’è da domandarsi, allora, dove sono finite tutte le dichiarazioni di lotta ai paradisi fiscali e tutti gli accordi, anche recentissimi (vedi quelli emersi in periodo di voluntary disclosure), tesi a rendere trasparente ciò che viene venduto e valorizzato – e, ahimè, a ragion veduta – come opaco.
Se davvero la si vuole far finita con i paradisi fiscali occorre usare le maniere forti e anche un po’ spicce. Cominci l’Ocse che ha costituito tanti gruppi di studio al riguardo. Per esempio, sarebbe il caso di dire chiaro e tondo che gli investimenti nella cui catena societaria o finanziaria sono presenti soci o finanziatori di provenienza off shore al di sopra di una certa soglia (per esempio, il 10 per cento) danno luogo a contratti nulli. Bisognerebbe, poi, considerare sempre e comunque indeducibili i costi pagati a un soggetto residente in paradisi fiscali (lasciando a questi la valutazione circa l’opportunità di trasferirvisi). Bisognerebbe concordare fra gli stati di “elevato standing” il sequestro dei patrimoni rinvenuti in quei paradisi se il proprietario apparente non ha i presupposti minimi per renderne credibile la relativa proprietà. E, in questa prospettiva, si potrebbe concedere anche un tempo adeguato – magari persino un biennio, ma senza sconti – per mettere a posto la propria posizione.
Illusioni? Attendiamo fiduciosi.

il Fatto Quotidiano, 10 novembre 2017. Per l’attivista canadese Naomi Klein, intervistata da Guida Rempoldi, il presidente incarna le tendenze che convergono nel “capitalismo dei disastri” che indirizza le scelte globali. (p.d.)

Se Trump non esistesse, Naomi Klein dovrebbe inventarlo. Perché nella storia dell’Occidente non c’è leader mondiale che riesca a inverare in modo altrettanto convincente la tesi che la Klein propose dieci anni fa: quel liberismo duro chiamato neoliberalism ha bisogno di cavalcare o produrre traumi collettivi. Solo nel caos di quelle esplosioni (crisi economiche, guerre, colpi di Stato) società disorientate saranno disposte ad accettare il liberismo selvaggio imposto con metodi autoritari. Dieci anni fa la shock economy pareva una di quelle tesi semplicistiche e apocalittiche con le quali il movimento no-global si era giocato la credibilità. Ma con Trump alla Casa Bianca la teoria della Klein potrebbe aver trovato il suo caso di scuola. Il presidente incarna perfettamente tutte le tendenze che convergono nel ‘capitalismo dei disastri’, scrive la Klein nel suo ultimo libro (Shock politics, pubblicato in Italia da Feltrinelli). Vuole condurre “una guerra in piena regola alla sfera pubblica e al pubblico interesse” e persegue “choc di sistema”, come dicono esplicitamente i suoi collaboratori.
Quello che non dicono è che un presidente impopolare può infliggere “choc di sistema” solo sfruttando lo stordimento prodotto da crisi gravi. Quali?
Innanzitutto Trump potrebbe sfruttare un attacco terroristico per mettere sotto accusa i musulmani e imporre soluzioni autoritarie. Inoltre ha cancellato regole varate dopo la crisi finanziaria del 2008, e questo rende possibile una nuova crisi. Trump ne approfitterebbe per imporre un’austerity brutale.
Se le circostanze non gli fornissero pretesti potrebbe crearli lui stesso?
La sua popolarità affonda, l’indagine sul Russiagate procede: Trump ha necessità di distruggere. E la guerra è la distruzione per eccellenza. L’Iran? Forse.
Però un pezzo dell’establishment sembra considerare il suo estremismo pericoloso, come in fondo l’indagine sul Russiagate suggerisce.
Non credo sia così. Malgrado tutto il Partito Repubblicano non gli ha voltato le spalle e Wall Street è con lui. Le corporates si attendono ulteriori deregulation e tagli che gli economisti stimano in 5,8 trilioni di dollari: li avranno.
Lei sostiene che per liberarsi di Trump, in sostanza, occorre lavorare in positivo negli stessi territori nei quali ha costruito il proprio consenso-senso di appartenenza, desiderio di tribù: non è pericoloso?
Per cominciare, a favore di Trump ha giocato soprattutto il dilagare dell’infotainment (cioè l’intrattenimento travestito da informazione), che rende superflui le proposte politiche e riduce tutto a scontri tra personalità, a reality. E quello è il terreno sul quale Trump è più a suo agio, il reality che conduceva aveva un successo straordinario...
Le democrazie dovrebbero in qualche modo proteggersi dal rischio che l’infotainment sostituisca l’informazione politica: sta dicendo questo?
Le tv svolgono un servizio pubblico anche quando sono private, non vedo perché non dovrebbero sottostare a regole che tutelino l’informazione nel suo scopo, dare notizie. Ma per tornare a Trump: quel che è importante è che l’infotainment si sposa perfettamente con una strategia commerciale suscettibile di diventare strategia politica.
Come funziona?
Molte corporates vendono essenzialmente la marca, il brand. Ci sono prodotti che vanno fortissimo sul mercato non perché siano fatti meglio, ma perché chi li compra ha l’impressione di entrare in una certa tribù. Ora, questo non sarebbe possibile se il bisogno di appartenenza non fosse così forte e diffuso. In passato erano le religioni, le ideologie… Ma siamo in una fase storica in cui le nostre vite sembrano disconnesse dalle altre.
E Trump è il prodotto di tutto questo?
Entrando in politica Trump ha offerto al pubblico del suo reality la possibilità di diventare una tribù: la tribù di Trump. E così ha rimodellato la politica. A differenza del politico tradizionale il capotribù non deve rispondere a nessuno di quel che fa, e più è attaccato dall’esterno più la tribù gli si stringe intorno per proteggerlo. Come in effetti sta accadendo negli Usa.
Alla tribù che potrebbe scalzare Trump lei non dà mai il nome di ‘sinistra’. Dopo le pessime prove degli ultimi anni, ‘sinistra’ è un termine di cui lei non si fida più?
Mi sembra una parola che sta perdendo significato. Forse è meglio descrivere quel che si vuole fare.
Offrire il contenuto, non il brand.
Beninteso, non ho problemi con la sinistra, vengo da lì. Corbyn, Sanders, il municipalismo radicale di Ada Colau: gente che non ha paura ad affrontare ineguaglianza, ambientalismo, corruzione, il potere delle grandi imprese… questo certo è di sinistra.
Come vede l’Europa, le sue angosce identitarie, le sue ostilità etniche?
Trump è pericolo globale ma se devo essere onesta non mi pare più osceno di certe vostre politiche, per esempio il modo in cui Europa e Italia rispondono ai flussi migratori. Costruire un muro al confine con il Messico non è più mostruoso che impedire ai migranti di imbarcarsi o riconsegnarli ai campi di concentramento in cui erano detenuti.
È disposta ad ammettere che il movimento no-global aveva idee molto confuse?
La questione è diversa. Il neoliberalismo mosse una guerra all’immaginazione politica. Annunciò che il suo modello non aveva alternative, che la storia era finita. Esercitò un controllo poliziesco sui confini del possibile. E vinse. Dovevamo essere un movimento propositivo, fummo solo movimento d’opposizione. Ma l’ultima generazione è diversa. Quei ventenni sono capaci di immaginare un mondo oltre.

Ilsole24ore, 4 novembre 2017. Gentiloni inaugurerà F.i.co, la Disneyland del cibo. Una partneship dove il pubblico ha messo i 100 mila metri quadri dell'ex mercato ortofrutticolo e il privato ha investito dei soldi che gli garantiranno un ritorno del 6% annuo, con postilla spassosa

La Disneyland del cibo, il parco dedicato alla biodiversità dell’agricoltura italiana, il primo al mondo per dimensione e contenuti, aprirà a Bologna il 15 novembre. E’ F.I.CO. (Fabbrica Italiana contadina) una struttura di 10 ettari, sorta su quello che era il mercato ortofrutticolo CAAB, destinato alla dismissione ora risorto a nuova vita. Un percorso chilometro da visitare in bici dove il tema sarà la didattica: due ettari di campi e stalle con più di 200 animali e 2000 cultivar all’aria aperta ed 8 ettari coperti che ospitano i percorsi per capire la trasformazione alimentare con le diverse filiere per la produzione di carni, pesce, formaggi, pasta, olio, dolci, birra. E ancora botteghe, mercati, ristoranti, un campo da calcetto, aree dedicate ai bambini e alla lettura, un centro congressi in grado di ospitare fino a mille persone, tutto coordinato dalla Fondazione Fico a cui collaborano ai progetti didattici l'Università Alma Mater Studiorum di Bologna, l'Università di Trento, l'Università Suor Orsola Benincasa, l'Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e il Future Food Institute.

I 10 ettari dell'ex mercato ortofrutticolo trasformati nella Disneyland del cibo
Raccolti 120 milioni da investitori privati
Dal campo alla forchetta in questo Expo permanente che doveva sorgere subito dopo la chiusura dell’Esposizione universale di Milano (Feed the planet). Mancano pochi giorni all’inaugurazione del 14 novembre alla quale parteciperà il premier Paolo Gentiloni. Un’operazione pubblico-privata, quella di Fico, dove il pubblico è rappresentato dal conferimento da parte del Comune di Bologna della struttura dell’ex mercato ortofrutticolo, valutato 50 milioni di euro e da una concessione per 40 anni, e il privato rappresentato dai 25 investitori che hanno apportato complessivamente 120 milioni di euro al fondo Pai, gestito da Prelios con il compito del fund raising che ha raccolto più di quanto era stato previsto inizialmente. I fondi sono serviti per realizzare i lavori di ristrutturazione e la costruzione della struttura oltre all’ albergo da 200 posti che sarà costruito alle porte di Fico.

E’ lungo l’elenco dei soci che hanno contribuito al fund raising: circa il 38% del capitale è stato sottoscritto dai principali Enti Previdenziali italiani delle professioni come la Cassa Forense, Enpam, Enpav, Epap, Enpab, Enpaia, Inarcassa ed Eppi, un altro 30% è stato sottoscritto da banche, fondazioni bancarie, Camera di Commercio di Bologna, Coop Reno, Coop Alleanza 3.0, Eataly e Prelios SGR. Il resto è nelle mani del Caab, la società del Comune di Bologna che gestisce la struttura destinata a Fico precedentemente occupata dall'ex Mercato Agro-Alimentare di Bologna. Un finanziamento quello delle casse previdenziali che si coniuga con la volontà di investire in un asset reddituale, ma anche di partecipare a un progetto che ha come obiettivo quello di fare cultura nel campo nutrizionale e degli stili di vita di una corretta alimentazione.

Un modello in cui confluiscono investitori privati e università, con il compito di creare occupazione (sono previsti più di 700 i nuovi posti di lavoro, a cui se ne aggiungono altri 3mila per l’indotto), ma anche un ritorno per gli investitori, circa il 6% di rendimento l’anno e un fatturato a regime stimato tra 85 e 90 milioni di euro.

Farinetti: «Puntiamo a 6 milioni di visitatori»

«Puntiamo a portare 6milioni di visitatori entro i prossimi tre anni e farlo diventare un volano per il turismo e l’export di uno dei nostri patrimoni riconosciuti in tutto il mondo, il cibo ». Oscar Farinetti, patron di Eataly, è il testimonal di Fico-EatalyWorld di cui è anche socio direttamente e attraverso la sua creatura destinata a quotarsi in Borsa entro il 2019. E proprio Eataly che rappresenta l’anima commerciale della struttura, avrà il compito di fare da volano di Fico: «Creeremo dei corner all’interno dei punti vendita di Eataly in Italia e all’estero dedicati a Fico perché diventi un volano per il turismo e per i suoi 53 siti riconosciuti dall’Unesco. Gli americani hanno inventato Pippo, Pluto e Paperino. Noi, invece, abbiamo un patrimonio mostruoso da valorizzare».

Le dispiace non avere realizzato Fico nella sua Torino? «Ci stavo pensando da tempo quando da Bologna è arrivata la proposta: la città è posizionata benissimo ed è raggiungibile in poco tempo. Senza dimenticare che in Emilia Romagna ci sono Parma con le sue eccellenze alimentari e la Romagna con il turismo entrambi bacini di attrazione per visitatori italiani e stranieri». Le collaborazioni con Enit, Ferrovie dello Stato e Poste Italiane vanno in questa direzione: «L’ultima che abbiamo firmato la collaborazione con Poste Italiane consentirà di spedire interi prosciutti e forme di parmigiano in tutto il mondo». Dal turismo al business con il centro congressi che può ospitare fino a mille persone ed è già prenotato fino a marzo.

Farinetti appena tornato da Los Angeles per l’apertura del nuovo Eataly pensa ai nuovi progetti «tutti nel campo ambientale» perché «l’obiettivo è salvare il pianeta (...) Non lo salvo io», scherza. «Questo secondo me è il mestiere del futuro, che creerà nuovi posti di lavoro», ha affermato il manager. «Immaginate la creatività italiana, pale eoliche disegnate da Renzo Piano, i pavimenti fatti dal distretto di Forlì che creano energia», ha detto facendo qualche esempio. Fico ci prova con l’impianto fotovoltaico più grande d’Europa e un’organizzazione che punta sul riciclo e sul recupero degli scarti alimentari. Entrare dentro Fico sarà gratis, raggiungibile dalla stazione dei treni e dall’aeroporto di Bologna con bus ibridi ogni mezz’ora.

postilla

Che tra gastronomia e affari ci siano importanti relazioni lo sapevamo. Che ci siano anche tra gastromia e cultura lo sapevamo anche: il
Pantagruel di François Rabelais e il pittore Giuseppe Arcimboldo li abbiamo sempre amati; e non parliamo della Università del gusto di Carlin Petrini a Bra. Purtroppo la triade Gastronomia-Affari-Cultura è più difficilmente raggiungibile. A volte i risultati dei tentativi compiuti dagli ignoranti è semplicemente ridicolo. Come, appunto, quello di Oscar Farinetti, del quale offriamo ai lettori un gustoso saggio, dove la cultura di Farinetti è aiutata niente di meno che dall'ubiquo Vittorio Sgarbi. Eccolo in un commento di Tomaso Montanari.

Il Fatto Quotidiano, 1 Novembre 2017. Per garantire la salute del capitale il G7 sulla salute che si terrà a Milano il 5 e il 6 novembre si appresta a privatizzare quel che resta della sanità pubblica. (p.s.)
Il 5 e 6 novembre si riunirà a Milano il G7 sulla salute. I temi all’ordine del giorno, definiti dalla ministra Lorenzin, saranno: le conseguenze sulla salute dei cambiamenti climatici, la salute della donna e degli adolescenti e la resistenza antimicrobica. Da un tale incontro non uscirà assolutamente nulla se non un semaforo verde per trarre ulteriore profitto dalla nostra salute e dalla devastazione del pianeta.

Considerato chi siederà attorno a quei tavoli non è possibile immaginare nulla di diverso. Sono gli stessi governi che in gran segreto dal 2013 stanno trattando l’accordo TiSA (Trade in Services Agreement) sugli scambi dei servizi, tra questi quelli finanziari, ma anche l’istruzione e la sanità.

Nel 2014 WikiLeaks, l’organizzazione di Julian Assage, ha per la prima volta rivelato l’esistenza di tali trattative. Il Tisa sarebbe il più grande accordo commerciale mai discusso: i servizi infatti rappresentano circa il 70% del Pil mondiale, che potrebbe portare, secondo una simulazione realizzata per l’Italian Trade Agency/ICE ad un possibile aumento degli scambi di servizi fra paesi aderenti all’accordo nell’ordine del 20%, quasi 400 miliardi di euro considerando i livelli del 2013.

Il 4 febbraio 2015 l’agenzia AWP Associated Whistleblowing Press (agenzia formata da giornalisti investigativi) ha reso pubblico un documento del Tisa dove si può leggere: “C’è un potenziale enorme ancora non sfruttato per la globalizzazione dei servizi sanitari”. La ragione, come viene spiegato, è che “sino ad ora questo settore di servizi ha giocato solo un ruolo ridotto negli scambi internazionali. Ciò è dovuto al fatto che i sistemi sanitari sono finanziati ed erogati dallo Stato o da enti assistenziali e non sono di nessun interesse da parte degli investitori stranieri a causa dell’assenza di finalità commerciali”. La soluzione è semplice: privatizzare tutto aprendo le porte ai grandi fondi finanziari, alle compagnie internazionali di assicurazioni e contemporaneamente cancellando il ruolo dello Stato come responsabile della salute della propria popolazione.

In Italia questo significa fare carta straccia della nostra Costituzione. “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, di lingua, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.” Così recita l’art. 3 che prosegue: “ E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana…”. Questa è senza dubbio la parte più innovativa che testimonia la grandezza della nostra Costituzione e che spiega perché tanti hanno fatto di tutto per modificarla. Infatti non si limita ad affermare dei principi teorici di uguaglianza ma affida esplicitamente allo Stato il compito di rimuovere tutti quegli ostacoli che non rendono pienamente fruibili i diritti declamati.

Nel caso della salute l’art. 32 recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti…”. Nessuno può quindi essere privato delle terapie necessarie a causa della sua condizione economica.

Ma per i governi l’importanza della nostra salute è pari a 0; un diritto universale è trasformato nel più produttivo businessdel secolo per gli squali della finanza internazionale e per i loro terminali politici. Se le aziende di Big Pharma non si sono scomposte di fronte alla condanna a 14 miliardi di dollari di multe in cinque anni per corruzione e pubblicità fasulla è perché si paga volentieri quando il reato produce guadagni molte volte maggiori delle sanzioni!

Nel frattempo undici milioni di italiani hanno rinunciato a curare almeno una patologia e negli Usa i più poveri muoiono in media 14 anni prima dei più ricchi; la metà delle persone sieropositive nel mondo non possono accedere alle cure e in quello che era il ricco Occidente oltre un milione di persone non possono assumere le nuove efficaci terapie contro l’epatite C solo per fare degli esempi.

Di fronte alle falsa recita del G7 decine di associazioni hanno costituito il comitato “Salute senza padroni e senza confini”e, insieme al Gue, gruppo parlamentare «Sinistra Unitaria Europea/Sinistra Verde Nordica» e al gruppo consiliare «Milano in Comune», hanno organizzato a Milano due iniziative.

Sabato 4 novembre un “Forum internazionale per il diritto alla salute e l’accesso alle cure” nel quale si confronteranno ricercatori, scienziati, medici, biologi di altissima professionalità con attivisti di tutto il mondo per individuare obiettivi condivisi. I temi del Forum saranno: la disuguaglianza sociale come determinante di malattie, l’accesso alle cure, la privatizzazione dei servizi sanitari e le conseguenze sulla salute dei cambiamenti climatici.

Domenica 5 novembre si svolgerà un incontro tra i movimenti italiani attivi nella difesa della salute per organizzare insieme delle campagne nazionali.

comune-info.net, 25 ottobre 2017. «Il comando del popolo sta cedendo terreno al comando del denaro. L’unico modo per ripristinare la democrazia è il ritorno della partecipazione». (p.d.)
L’80 per cento del commercio nel mondo è in mano alle multinazionali. Ma il dato più significativo che emerge dal rapporto “Top 200”, curato dal Centro nuovo modello di sviluppo (Cnms) e dedicato alle multinazionali, è probabilmente un altro: i primi duecento gruppi di imprese transnazionali realizzano, da soli, il 14 per cento di tutto il fatturato delle multinazionali. Per arrivare a cifre di quel tipo sono necessarie, tra le altre cose, grandi attività di pressione, più o meno spudorata, sui governi di tutto il mondo. Tuttavia, quello che altri rapporti e iniziative del Cnms hanno mostrato, è che il dominio di quelle imprese dipende in primo luogo dai lavoratori e dai cittadini consumatori…
Se compilassimo una lista delle prime 100 realtà economiche, includendovi i governi in base ai loro introiti fiscali e le multinazionali in base ai loro fatturati, scopriremmo che 66 sono multinazionali. La prima comparirebbe al 10° posto e sarebbe Wal-Mart con un fatturato di 485 miliardi di dollari, somma superiore alle entrate governative di paesi come Spagna, Australia, Russia, India. Lo rende noto il Centro Nuovo Modello di Sviluppo, tramite il dossier Top 200 dedicato alle prime 200 multinazionali. In totale, le multinazionali, o meglio i gruppi multinazionali, visto che si tratta di raggruppamenti di imprese afferenti ad una stessa società capofila, sono 320 mila per un numero complessivo di oltre un milione di filiali. Tutte insieme fatturano 132 mila miliardi di dollari e generano profitti lordi per 17mila miliardi. E se in certi settori, come i velivoli, il petrolio, l’auto, l’acciaio, sono i protagonisti esclusivi, non meno importante è il loro peso sull’economia mondiale considerato che contribuiscono al 35-40% del prodotto lordo mondiale e che alimentano l’80% del commercio internazionale. Solo in ambito occupazionale i loro numeri si fanno più timidi dal momento che impiegano solo 300 milioni di persone pari al 15% dell’intera mano d’opera salariata mondiale.
Le Nazioni Unite definiscono multinazionale qualsiasi gruppo con filiali estere. Ma al di là di questa caratteristica, ognuna differisce dall’altra non solo per attività, ma anche per dimensioni. Al pari dei mammiferi che comprendono sia i topolini che gli elefanti, anche le multinazionali comprendono gruppi che fatturano qualche manciata di milioni di euro e altri che realizzano centinaia di miliardi. Tant’è che i primi 200 gruppi realizzano, da soli, il 14% di tutto il fatturato delle multinazionali. E se un tempo le capogruppo battevano quasi esclusivamente bandiera europea, statunitense o giapponese, oggi battono sempre di più bandiera cinese. Rimanendo alle prime 200, in cima alla lista troviamo ancora gli Stati Uniti con 63 capogruppo, ma al secondo posto incontriamo la Cina con 41 capogruppo. Con la differenza che mentre quelle cinesi sono tali di nome e di fatto perché sono per la maggior parte di proprietà governativa, tutte le altre hanno una doppia personalità: con una patria ben precisa da un punto di vista giuridico, ma apolidi da un punto di vista proprietario perché i loro azionisti sono banche e fondi di investimento di ogni paese del mondo. Tanto per confermare, ancora una volta, che il potere finale è della finanza, considerato che 25 gruppi finanziari controllano il 30% del capitale complessivo di 43mila gruppi multinazionali.
Una volta Louis Brandeis, membro della Suprema Corte degli Stati Uniti dal 1916 al 1939, disse che possiamo avere la democrazia o la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe le cose. E la realtà sembra dargli ragione. Democrazia significa comando di popolo, ma indagini più accurate ci dicono che parlamenti e governi ricevono forti pressioni da parte del mondo delle imprese affinché siano varati provvedimenti a loro graditi.Spesso con successo. L’attività di pressione è definita lobby, termine inglese che indica i locali antistanti le sale di riunione di parlamentari e ministri, spazi di attraversamento che in passato venivano utilizzati dai difensori di interessi particolari per avvicinare i politici e convincerli a sostenere le loro cause.
Oggi l’attività di lobby non è più improvvisata, ma talmente organizzata da essere istituzionalizzata. Sia negli Stati Uniti che nell’Unione Europea è stato istituito un registro dei lobbisti nel quale debbono iscriversi tutte quelle realtà che intendono svolgere attività di lobby, potendo godere di una serie di vantaggi come l’accesso ai palazzi istituzionali e la possibilità di relazionarsi con parlamentari e funzionari. Si stima che a Bruxelles lavorino più di 25 mila lobbisti per una spesa complessiva di un miliardo e mezzo di euro incanalata in forme di rappresentanza di varia natura. Le imprese più grandi, ovviamente, dispongono di propri apparati come mostrano Exxon e Shell che nel 2016 hanno speso entrambe 5 milioni di euro, senza dimenticare Microsoft, Deutsche Bank, Dow, Google, Total, tutte sopra i 3 milioni di euro. Ma oltre che tramite i propri uffici, le imprese svolgono attività di lobby anche tramite associazioni di categoria e agenzie specializzate. Fra le prime possiamo citare CEFIC, associazione europea dell’industria della chimica con 48 lobbisti e 12 milioni di spesa nel 2016; EFPIA, associazione europea dell’industria farmaceutica con 15 lobbisti e 5 milioni e mezzo di spesa; Business Europe, associazione degli industriali a livello europeo con 30 lobbisti e 4,25 milioni di spesa; ISDA, associazione internazionale per i derivati finanziari con 5 lobbisti e 2,7 milioni di spesa. Fra le agenzie, invece, possiamo citare studi legali come Fleishman-Hillard, Burson-Martsteller, Interel European Affairs, tutti con spese per lobby di livello milionario.
Purtroppo il sistema delle lobby non è l’unica via che permette alle imprese di esercitare potere sulla politica. L’altro canale, forse ancora più potente, è quello dei finanziamenti. Da quando la gente si è allontanata dalla politica, trasformandola in un affare privato di pochi professionisti che hanno bisogno di una montagna di soldi per farsi conoscere e convincere gli elettori della bontà del proprio programma come se fosse un prodotto da vendere, il ruolo delle imprese è diventato cruciale perché i soldi ce li hanno loro. Il paese che meglio mette in evidenza l’avanzare dell’impresacrazia sono gli Stati Uniti che almeno hanno il merito della trasparenza. Dai dati forniti da Open secrets si apprende che la somma messa in campo dalle imprese statunitensi per condizionare la politica, nel 2016 ha raggiunto i 2,4 miliardi di dollari, di cui 351 milioni per contributi diretti ai partiti. Il comando del popolo sta cedendo terreno al comando del denaro. L’unico modo per ripristinare la democrazia è il ritorno della partecipazione.
Francesco Gesualdi: allievo di don Milani, fonda nel 1985 il Centro Nuovo Modello di Sviluppo. È autore di numerosi libri. Questa è la sua adesione alla campagna 2017 di Comune “Un mondo nuovo comincia da qui”

ilSole24Ore, 15 settembre 2017. Un'ampia rassegna dei "progressi" compiuti sorregge l'auspicio dell'allegro mondo del capitalismo italiano che la rapina della speculazione immobiliare cammini ancora più svelta. Usque tandem?

Al via oggi i lavori del Forum di Previsioni e strategie di Scenari Immobiliari a S. Margherita Ligure, l'evento clou del real estate italiano alla ripresa post vacanze. Oggi e domani si riuniscono a full time i leader dell'industria immobiliare nazionale per la 25a edizione del Forum, in un'atmosfera di ottimismo europeo e un mercato italiano che riparte dalle città.

La giornata si apre con la presentazione dell'European Outlook 2018 (si vedano le anticipazioni sul Sole 24 Ore di ieri e in queste pagine). A seguire, i dettagli del Primo osservatorio sulla sostenibilità in edilizia, focalizzato sull'efficienza energetica e la sicurezza (Johnson Controls). Sigest si concentrerà sui mercati residenziali e le opportunità per gli operatori immobiliari e uno spazio particolare viene riservato a Idea Fimit Sgr, che viene premiata come “impresa d'eccellenza nel real estate”. L'intera 25a edizione del Forum è dedicata a Paola Gianasso, vice presidente di Scenari Immobiliari e socia fondatrice di Arel (l'Associazione delle ladies del rea estate), prematuramente scomparsa.

La città degli uomini
Il pomeriggio viene dedicato al tema “La città degli uomini”, con una carrellata di relatori (oltre a una video intervista esclusiva a Ermanno Olmi). Con la moderazione di Mario Deaglio (Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi), parlano Roberta Brandes Gratz (sociologa urbana), Carlo Ratti (Mit Senseable City Lab) e Cino Zucchi (Cza Cino Zucchi architetti). Nella seconda parte, con la moderazione di Giuseppe Roma (Rete urbana delle rappresentanze) intervengono Valentino Castellani (ex sindaco di Torino), Suketu Mehta (scrittore, New York University), Carlo Puri Negri (Aedes Siiq) e Silvia Viviani (Inu, Istituto nazionale di urbanistica). La seconda giornata di lavori verrà invece divisa in quattro slots.

Il residenziale
Il primo slot è dedicato al residenziale, con interventi di Immobiliare Caltagirone (Alessandro Caltagirone), Ance (Filippo Delle Piane), Allegroitalia (Piergiorgio Mangialardi), Casa.it (Luca Rossetto), Vonovia Se (Rolf Buch) e Sidief (Carola Giuseppetti). Il fatturato immobiliare italiano è previsto in aumento, nel 2018, del 6,2%, ma con una previsione di rialzo dei prezzi di appena l'1,1% medio. Molto meglio altri mercati, nel mirino degli investitori, privati e non. Parlando di previsioni di fatturato immobiliare, l'anno che verrà vede in una posizione di forte ripresa la Spagna, con un aumento previsto del 15,1%, conseguenza dei marcati ribassi accusati dalla Penisola Iberica durante gli anni della crisi e la relativa discesa dei prezzi, che per esempio in Italia è mancata. Bene anche la Francia, con un turnover previsto al rialzo del 10,5%, in forte ripresa rispetto al mini-dato del +2,6% del 2016. L'altro grande mercato a cui guardare sono gli Stati Uniti, dove tutti gli indicatori segnalano un momento di vivacità e forte ripresa degli investimenti immobiliari. Il fatturato immobiliare è previsto in aumento del 10,3% nel 2018. Qualche perplessità, invece, sul Regno Unito, dove il fatturato del real estate è previsto al +9%, ma dove il fattore di maggior incertezza è senz'altro la Brexit, con effetti soprattutto su Londra.

Alla previsione di andamento dei fatturati va poi aggregata la previsione relativa ai prezzi, che non per forza rispecchia la precedente. Così, relativamente al settore residenziale, l'incremento più marcato è quello della Germania, con un +4,4%, dove però il turnover complessivo è previsto in aumento del 6% (dunque meno che in Italia). A seguire, la Spagna, dove si prevede un incremento dei prezzi delle case, nel 2018, del 4,1%, questa volta sì associato alla citata vivacità del mercato in termini di transazioni. Seguono gli Stati Uniti, con un previsto +3,2%, anche in questo caso associato a un vivace andamento delle transazioni: in definitiva, si può dunque affermare che, incrociando i due indicatori, i mercati prospetticamente più attraenti sono, appunto, la Spagna (+15,1% e +4,1%) e gli Stati Uniti (+10,3% e +3,2%).

Il settore corporate
Il secondo slot di interventi di sabato è dedicato al settore terziario. Si confrontano Alberto Agazzi (Generali Real Estate Sgr), Ivano Ilardo (Bnp Paribas Reim Sgr), Alessandro Mazzanti (Cbre), Roberto Reggi (Agenzia del Demanio), Gabriele Scicolone (Oice), Dario Valentino (InvestiRE Sgr) con la moderazione di Paola Ricciardi (Duff & Phelps Reag) e l'intervento del nuovo presidente di Assoimmobiliare, Silvia Rovere.

Secondo l'Outlook di Scenari Immobiliari, il bicchiere è sicuramente più pieno che vuoto per quanto riguarda gli spazi a uso uffici, che in Europa attraversano una fase positiva. Uno degli indicatori più importanti per gli investitori è il cosiddetto assorbimento, cioè la percentuale di spazi affittati e, da questo punto di vista, a livello europeo la situazione è migliorata del 5% nel 2017 e dovrebbe crescere almeno del 6% nel 2018. In Italia è nettamente inferiore, con una media di incremento dell'1,6% e previsioni 2018 del 2,5%. “Il 2018 dovrebbe costituire un anno positivo per i diversi mercati - spiega Mario Breglia, presidente di Scenari Immobiliari -. I mercati “core” dell'Europa del nord, guidati da Berlino, Stoccolma e Amsterdam, vedranno una crescita robusta, mentre in fase di recupero saranno Madrid e Barcellona, seguiti da Milano e Francoforte, che dovrebbero consolidare il trend positivo del 2016, con un costante calo dei livelli di sfitto. I mercati dell'est vedranno performance mediamente deboli, fatta eccezione per Praga, in forte crescita. Solo il Regno Unito, e soprattutto Londra, vedranno calare domanda e valori, con alcune zone che evidenzieranno un eccesso di offerta, mentre il trend dei Paesi continentali sarà diversificato”. L'andamento dei prezzi sarà fortemente differenziato. Si prevede un incremento medio europeo superiore all'uno per cento, ma variazioni decisamente più consistenti sono attese a Stoccolma, oltre l'otto per cento, seguita da Praga e Barcellona.
Nella maratona di lungo periodo (dal 2007 al 2017) la miglior performance in termini di prezzi nominali degli uffici spetta alla Germania, con il +5,7%, seguita dalla Francia con il +2%. Tutti gli altri Paesi esaminati hanno risultati negativi: -6,6% l'Inghilterra, -14,4% l'Italia e -18% la Spagna, con una media dell'Europa a 5 del -6,3 per cento.

Imprese pubbliche e private
Particolarmente attesa è la sessione riguardante le strategie delle imprese, pubbliche e private. Ne parleranno Emanuele Caniggia (IDeA Fimit Sgr), Manfredi Catella (Coima Sgr), Valter Mainetti (Sorgente Group), Aldo Mazzocco (Generali Real Estate), Marco Sangiorgio (Cdp Investimenti Sgr), Elisabetta Spitz (Invimit Sgr), moderati da Mario Breglia.

Riflettori su Milano
Il pomeriggio del sabato è dedicato alla città italiana più europea, Milano, con un focus sulle prospettive. Si confronteranno Mario Abbadessa (Hines Italy Re), Gregorio De Felice (Intesa Sanpaolo), Marco Doglio (Ubs Global Asset Management Sgr), Antonio Mazza (Aareal Bank Ag), Mauro Montagner (Allianz Real Estate), con la coordinazione di Armando Borghi (Citylife). E parlando di città, non si può prescindere da un'analisi di lungo periodo, nella quale Scenari Immobiliari ha esaminato le performance delle principali città europee dal 2007 al 2017. Chi vince e chi perde dunque a livello di residenziale? Esaminando l'andamento dei prezzi nominali medi delle residenze in aree centrali, al primo e al secondo posto svettano Stoccolma, con un aumento nonostante la crisi del 47%, ed Helsinki, con il 46 per cento. Seguono Ginevra (+27%), Berlino (+26%), Oslo (+5%), Londra e Zurigo (+9%) e poi Milano con il + 4 per cento. In ultima e quindicesima posizione Madrid, che perde il 39 per cento.

Le prospettive del residenziale estero
Il residenziale estero sta diventando sempre più una vera e propria asset class di investimento, anche per gli istituzionali. Quali le previsioni? “Le compravendite sono in crescita nella maggior parte dei Paesi _ spiega Mario Breglia, presidente di Scenari Immobiliari_. Il 2017 ha registrato un aumento medio compreso tra il 2,1% della Germania, attribuibile allo sviluppo dell'attività da parte degli investitori esteri nelle città di seconda fascia, e l'8% della Spagna, che continua il trend positivo dello scorso anno grazie alla spinta derivante dal mercato delle case esistenti in leggero calo rispetto al nuovo. I prezzi sono in aumento nella maggior parte delle piazze e alcuni Paesi europei, quali Romania, Germania e Svezia, figurano ai primi posti nella classifica mondiale quanto a incremento annuo”. Londra ha invece mostrato una performance negativa, con cali delle quotazioni compresi tra il 3 e il 9%, perché i prezzi avevano raggiunto un livello insostenibile, così che combinati con l'aumento dell'imposta di registro, accompagnato dalle incertezze legate a Brexit, si è rallentata la domanda. Le prospettive di Londra sono in questo momento incerte. “È in crescita l'interesse per il residenziale come asset class, soprattutto da parte degli investitori istituzionali americani, che negli ultimi due anni hanno investito circa la metà della cifra globale, 6 miliardi di dollari, nel Regno Unito - spiega Breglia - e recentemente hanno incrementato la quota di acquisti nell'Europa continentale, con particolare riferimento alle quattro principali città tedesche, vale a dire Berlino, Amburgo, Francoforte e Monaco”.

non tentare di aprire gli occhi a chi non vede.

Qualche giorno fa, sul sito di Amazon è apparso un bando che invita le città nord americane a candidarsi per ospitare il secondo quartier generale del gruppo. Denominato HQ2 (second headquarters), il nuovo insediamento avrà dimensioni non inferiori a quelle dell’attuale sede di Seattle, dove la corporation, con i suoi 40 mila dipendenti, occupa il 20% della superficie destinata a uffici.

Che le città facciano a gara per attirare le grandi imprese non è una novità, ma l’iniziativa rappresenta un cambiamento notevole rispetto alla prassi di trattative segrete con i pubblici amministratori, perché il bando elenca e descrive in dettaglio i requisiti per candidarsi, ed i criteri con i quali verrà scelta la località vincitrice del premio, che consiste nel miraggio di cinquanta mila posti di lavoro.

Dovrà trattarsi di un’area metropolitana con almeno un milione di abitanti, un ambiente business friendly - documentato da testimonianze di grandi compagnie già attive nella zona - buone scuole e università tali da attrarre e mantenere in loco talenti e forza lavoro altamente qualificata, un’ottima dotazione in infrastrutture e trasporti. Requisiti irrinunciabili sono anche una adeguata offerta residenziale, un basso livello di criminalità, un’ampia diversificazione demografica e una ricca gamma di servizi e amenità ricreative, perché, dice il bando, “ vogliamo investire in comunità dove i nostri dipendenti possano godere di un’alta qualità di vita”.

Ovviamente, la compagnia chiede di specificare gli incentivi finanziari offerti dai governi locali e statali, nonché la disponibilità ad approvare nuove leggi ad hoc per aumentare la convenienza finanziaria dell’investimento, perché “sia il costo iniziale del progetto che i successivi costi dell’attività sono fattori decisivi nella nostra scelta”.

Alcuni commentatori hanno definito l’iniziativa “the Olimpics of corporate relocation” e paragonato i suoi presumibili effetti a quello che succede quando le città competono per ospitare le Olimpiadi, negoziando accordi e concessioni i cui costi superano ampiamente i benefici per le comunità interessate.

Tra gli osservatori più attenti, l’organizzazione Good Jobs First ha ricostruito la serie di enormi favori che Amazon ha già ricevuto in sgravi fiscali e sussidi di vario genere, che ammonterebbero a circa un miliardo di dollari negli ultimi dieci anni, ed ha suggerito ai contribuenti di “stare attenti al loro portafoglio perché, per aggiudicarsi il trofeo, i politici offriranno tagli di tasse e incentivi che verranno pagati dai residenti e dalle piccole attività economiche locali”.

Interessanti sono anche le reazioni che il bando per HQ2 ha suscitato a Seattle, dove il gruppo si è insediato a metà degli anni ’90, e dove si trova HQ1. Qui, con la sua presenza predominante, Amazon ha fatto lievitare i prezzi delle case e il costo della vita ed è da tempo oggetto di campagne antigentrification, mentre poco migliorano la sua immagine sporadici gesti di beneficenza, come la concessione di una parte di un suo edificio a un ricovero per senza tetto. Anche i rapporti con l’amministrazione sono altalenanti, e una recente proposta di aumentare le tasse per i redditi più alti ha irritato la compagnia. Nel complesso in città si registra “sollievo” perché “Amazon non va via, ma non raddoppia la sede qui”, riconoscendo che, in ogni caso, “sono loro che decidono”.

Incuranti di questi avvertimenti, lo stesso giorno in cui è apparso il bando, sindaci e amministratori in tutti gli Stati Uniti e il Canada hanno rilasciato dichiarazioni perentorie circa la loro intenzione di vincere la gara. Da Dallas (dimostreremo in modo aggressivo che siamo il posto giusto) a Toronto (abbiamo tutto quello che stanno cercando) a Baltimora (sanno che siamo un buon partner), tutti sono pronti a battersi fino all’ultimo dollaro pubblico e hanno formato gruppi di lavoro che sono già all’opera. Bisogna, infatti, agire in fretta (la scadenza per presentare le offerte è il prossimo 17 ottobre) e costruire candidature corroborate da concrete informazioni, a cominciare dai siti che le città mettono a disposizione.

A questo proposito il bando specifica che sono accettabili sia zone urbane che suburbane, vuote o con edifici abbandonati, purché in posizione pregiata e con molto spazio (a prime location with plenty of space to grow), e che Amazon vuole avere a che fare con “comunità che pensano in grande e in modo creativo quando si tratta di localizzazioni e scelte di sviluppo”, vale a dire sono disposte ad adottare norme e regolamenti edilizie e urbani tali da non rallentare le sue attività di costruzione.

Società di developers stanno affiancando le amministrazioni nella identificazione dei siti adatti a quello che, secondo gli esperti del real estate, sarà il più grande affare immobiliare dei prossimi anni. Si inizierà con un lotto di cinquanta mila metri quadrati, ma alla fine l’intervento consisterà in oltre settecentomila mila metri quadrati di superficie (più grande del Pentagono che ne misura seicentomila) su un’area di almeno quaranta ettari. Su questa enclave privilegiata il governo dell’area metropolitana concentrerà enormi risorse, inevitabilmente togliendole da altre voci di spesa.

Le offerte saranno rese note fra un mese, ma sembra fin d’ora condivisibile l’opinione di chi ritiene che stiamo per assistere ad “un’asta tra le città americane che diventerà un capitolo da manuale nella evoluzione dei rapporti tra corporations e comunità locali”.

il manifesto, 1° settembre 2017 (p.d.)

Ai distributori di New York e Washington la benzina già costa già dieci centesimi in più solamente rispetto a una settimana fa. I depositi e le raffinerie della East Coast sono a corto di petrolio, l’«oil» che, tramite una vasta rete di condutture, proviene dal Texas e dal Golfo del Messico, resta lì. La pipeline gestita da Colonial, che innerva tutta la costa orientale, è paralizzata e non si sa ancora quanto ci vorrà per renderla di nuovo operativa. L’economia americana, con la sua strutturale bulimia di petrolio, è messa duramente alla prova. Questa volta non è l’arretrata Louisiana a essere messa in ginocchio ma il Texas dei petrolieri e delle booming cities come Houston. Lo stato americano delle booming cities come Houston, uno degli stati trainanti e indispensabile serbatoio dell’intero sistema energetico.

Gli uragani americani, si sa, picchiano molto duro, specie negli stati del sud, e ormai non solo in quell’area degli Usa. Si può ancora dubitare che la loro forza brutale sia diventata vieppiù distruttiva per via del cambiamento climatico? Chi lo nega – Trump in testa – avrà la decenza di non ripeterlo, almeno in questi giorni? Di sicuro, ogni volta che un hurricane assume la portata di Katrina o di Harvey – ma è il caso anche di uragani meno impetuosi – l’America mette in evidenza le sue fragilità. Dovute anche alla sua indiscutibile potenza economica. Alle distorsioni di una crescita che non si pone confini.

In un’area metropolitana di sei milioni di abitanti – Houston e dintorni – si scopre l’esistenza di impianti chimici molto pericolosi dentro il centro abitato. Impianti vulnerabili. Così alle devastazioni di un meteo impazzito s’aggiunge l’allarme di una fabbrica che produce perossido organico e i cui serbatoi, uno dopo l’altro, deflagrano creando nubi altamente tossiche. Houston, scrive The Nation «è un monumento a un capitalismo senza limiti». Il gigante americano, con il suo nuovo presidente gradasso, si scopre debole. E se ieri insolentiva i paesi di confine, oggi deve ringraziare il Messico, che invierà in Texas personale medico, tecnici, provviste, farmaci e veicoli. Lo fece già nel 2005, quando duecento militari messicani portarono acqua, viveri e medicine agli abitanti di New Orleans stremati da Katrina. E allora s’accorsero perfino, i media americani, che Cuba era meglio equipaggiata per fronteggiare quella stessa emergenza che prima aveva colpito l’isola.

Il presidente Donald Trump, che vive in una sua realtà parallela, probabilmente considera superata la crisi texana, per il solo fatto di aver visitato le zone del disastro senza avere aggiunto altri danni, e già si dedica ad altro, alla sua riforma fiscale, che poi non è altro che l’ennesima riedizione della reaganomics, la ricetta che lo stesso Bush padre definì «voodoo economics», l’economia dello stregone. In borsa non ci credono, ovviamente, molti affaristi conoscono di persona the Donald, manager e i consiglieri di amministrazione delle maggiori banche corrono al disimpegno nei confronti dei loro stessi gruppi. Warren Buffett non crede neppure agli ultimi dati sulla crescita sbandierati dall’amministrazione: «Non sembra di essere in un’economia che sale del tre per cento, sembra più un’economia al più due».

Tutto questo in uno scenario in cui non è ancora chiara l’entità dei danni provocati da Harvey e le loro conseguenze, non solo per il Texas. L’intero scenario va ricalibrato, ma appare evidente che la ripresa del Texas dipenderà da ingenti aiuti federali, proprio mentre la destra al potere racconta favole di un’America che può fare a meno dello stato. Ma loro sono oggi i primi a non crederci. Ted Cruz, il senatore del Texas che era considerato il candidato presidenziale in pectore, prima del ciclone Trump, oggi invoca l’intervento di Washington nel suo stato. Fu lo stesso che cercò di bloccare gli aiuti agli stati della costa orientale colpiti dall’uragano Sandy. E già, «siamo tutti socialisti dopo un disastro naturale, perfino il senatore del Texas Ted Cruz», commenta sarcastico The Nation.

Internazionale, 31 agosto 2017 (i.b).

«Dall’uragano Katrina alle crisi finanziarie, alcune multinazionali statunitensi sfruttano da anni le emergenze per imporre riforme liberiste e fare enormi profitti, a spese dei cittadini più poveri. Oggi i dirigenti di queste aziende sono ai vertici dell’amministrazione Trump».

Nei viaggi che ho fatto per scrivere reportage dalle zone di crisi ci sono stati momenti in cui ho avuto l’inquietante sensazione non solo di assistere al succedere di un evento, ma di scorgere un barlume di futuro, un’anteprima di dove ci porterà la strada che abbiamo preso se non afferriamo il volante e non diamo una bella sterzata.

Quando sento parlare il presidente degli Stati uniti Donald Trump, che evidentemente si diverte a creare un clima di caos e destabilizzazione, penso spesso di avere già visto quella scena. Sì, l’ho vista negli strani istanti in cui ho avuto l’impressione che mi si spalancasse davanti il nostro futuro collettivo. uno di questi momenti arrivò a new Orleans dopo l’uragano Katrina, nel 2005, mentre guardavo calare sulla città inondata orde di mercenari armati. Erano lì per trovare il modo di guadagnare dal disastro, perino mentre migliaia di abitanti, abbandonati dal governo, erano trattati come pericolosi criminali solo perché cercavano di sopravvivere.
E mi era successo anche nel 2003 a Baghdad, poco dopo l’invasione. In quei giorni l’occupazione statunitense aveva diviso in due la città. al centro, dietro enormi muraglioni di cemento e rilevatori di esplosivi, c’era la zona verde, un pezzettino di Stati uniti ricostruito in pieno Iraq, con bar che servivano superalcolici, fast food, palestre e una piscina dove sembrava che ci fosse una festa perenne. Oltre quel muro c’era una città ridotta in macerie dai bombardamenti, dove spesso mancava la corrente elettrica per gli ospedali e dove la guerriglia tra le fazioni irachene e le forze d’occupazione stava diventando rapidamente ingestibile. era la zona rossa.
All’epoca la zona verde era il feudo di Paul Bremer, che era stato assistente dell’ex segretario di stato Henry Kissinger e direttore della sua società di consulenza. era stato nominato dal presidente George W. Bush primo inviato statunitense in Iraq. Dato che non c’era un governo locale operativo, Bremer era in pratica il leader supremo del paese. Il suo era un impero totalmente privatizzato. In un elegante completo da uomo d’affari e anfibi da combattimento, era sempre protetto da una falange di mercenari vestiti di nero, che lavoravano per la compagnia militare privata Blackwater, oggi scomparsa (ha cambiato nome ed è stata comprata dal gruppo Constellis). La zona verde era gestita, insieme a una rete di altre aziende private, dalla Halliburton, una delle più grandi aziende al mondo per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi. In passato era stata guidata da Dick Cheney, all’epoca vicepresidente degli Stati uniti.
Quando i funzionari statunitensi si arrischiavano a uscire dalla zona verde, viaggiavano all’interno di un convoglio corazzato, circondati da soldati e mercenari che puntavano le mitragliatrici in tutte le direzioni. gli iracheni non avevano nessuna protezione, a parte quella fornita dalle milizie religiose in cambio della loro lealtà. Il messaggio lanciato dai convogli era forte e chiaro: alcune vite contano molto più delle altre. Bremer, al sicuro dentro la fortezza della zona verde, emanava decreti su come rifare l’Iraq trasformandolo in un modello di libero mercato. a pensarci bene, somigliava molto alla Casa Bianca di Donald Trump.
Bremer decise che l’Iraq doveva avere una lat tax del 15 per cento (abbastanza simile a quello che ha proposto Trump), che i beni pubblici dovevano essere messi all’asta al più presto (Trump ci sta pensando) e che i poteri del governo dovevano essere drasticamente ridotti (la stessa idea di Trump). Senza mai perdere di vista i giacimenti di combustibili fossili in Iraq, era deciso a completare la ricostruzione del paese prima che la popolazione andasse alle urne, e aveva sempre l’ultima parola sulla forma che avrebbe avuto il futuro “libero” degli iracheni.
Con una scelta particolarmente surreale, Bremer e il dipartimento di stato statunitense fecero arrivare dalla russia gli stessi consulenti che avevano guidato il disastroso esperimento della “terapia d’urto economica”, una deregolamentazione intrisa di corruzione e di smania delle privatizzazioni che aveva fatto nascere la nota classe degli oligarchi russi. Dentro la zona verde gli ospiti, tra cui Egor Gajdar, noto come il “dottor Shock” russo, tennero per i politici scelti dagli statunitensi alcune conferenze sull’importanza di realizzare una profonda ristrutturazione dell’economia rapidamente e senza esitazioni, prima che la popolazione si potesse riprendere dalla guerra. gli iracheni non avrebbero mai accettato queste misure se avessero avuto voce in capitolo (e infatti più tardi ne ripudiarono parecchie). Fu solo la crisi gravissima a rendere concepibile il piano di Bremer.
In pratica, l’evidente proposito bremeriano di mettere all’asta i beni iracheni di proprietà dello stato con la scusa della crisi confermò il sospetto generalizzato che l’invasione servisse a mettere le ricchezze dell’Iraq a disposizione delle aziende straniere. Il paese stava sprofondando nella violenza. I militari e i mercenari statunitensi reagivano con altra violenza. Somme enormi di denaro sparirono nel buco nero degli appalti, soldi passati alla storia come i “miliardi spariti dell’Iraq”.
Non fu solo la fusione senza soluzione di continuità tra potere delle multinazionali e guerra vera e propria a sembrarmi una finestra aperta su un futuro distopico tante volte immaginato dalla fantascienza e dai ilm di Hollywood. Fu anche l’evidente uso della crisi per imporre con la forza misure che non sarebbero mai state realizzabili in tempi normali. È stato in Iraq che ho maturato la tesi alla base del libro Shock economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri (Rizzoli 2008).
Inizialmente quel libro si sarebbe dovuto concentrare esclusivamente sulla guerra di Bush, ma poi avevo cominciato a notare le stesse strategie (e le stesse aziende, come Halliburton, Blackwater, Bechtel) nelle zone disastrate di tutto il mondo. Prima arrivava una grave crisi, una calamità naturale, un attacco terroristico e poi c’era la guerra lampo delle misure a favore delle multinazionali. Spesso la strategia dello sfruttamento della crisi era discussa alla luce del sole, non c’era alcun bisogno di formulare oscure teorie del complotto.
Un copione chiaro
Man mano che scavavo più a fondo, capivo che questa strategia era stata l’alleata silenziosa del neoliberismo per più di quarant’anni. Le strategie dello shock seguono un copione chiaro: aspetti una crisi, dichiari un breve periodo di quella che a volte viene chiamata “iniziativa politica straordinaria”, sospendi alcune o tutte le regole della democrazia e poi imponi appena possibile le misure volute dalle multinazionali. La mia ricerca dimostrava che in teoria qualsiasi situazione difficile, se presentata con sufficiente isterismo dai leader politici, può lubrificare gli ingranaggi. Potrebbe essere un evento estremo come un colpo di stato militare, ma funziona molto bene anche uno shock economico come un crollo dei mercati o una crisi del debito. In un periodo di iperinflazione o dopo il crollo delle banche, per esempio, le élite di un paese sono state spesso in grado di presentare a una popolazione in preda al panico gli attacchi allo stato sociale o i salvataggi fatti con il denaro pubblico come misure indispensabili per tenere in piedi il settore finanziario privato, perché secondo loro l’alternativa era l’apocalisse economica.
I repubblicani statunitensi alimentano l’atmosfera di crisi costante che circonda Trump per imporre molte politiche impopolari e favorevoli alle grandi aziende. e senza dubbio sarebbero pronti a muoversi con più decisione e rapidità se ci fosse uno shock esterno ancora più grande. anche perché diversi ministri del governo statunitense sono stati protagonisti di alcuni dei più chiari esempi di dottrina dello shock della storia recente. l’attuale segretario di stato rex Tillerson ha fatto carriera soprattutto sfruttando le opportunità create dalla guerra e dall’instabilità. la exxonMobil, di cui è stato amministratore delegato dal 2006 al 2017, ha guadagnato più di molte altre grandi aziende petrolifere grazie all’aumento del prezzo del greggio causato dall’invasione dell’Iraq nel 2003. Ha anche sfruttato direttamente la guerra in Iraq, ignorando i consigli del dipartimento di stato e facendo prospezioni nel Kurdistan iracheno. un’iniziativa che, scavalcando il governo di Baghdad, avrebbe potuto innescare una guerra civile e ha contribuito a far scoppiare il conflitto interno nel paese.
Come amministratore delegato della ExxonMobil, Tillerson ha tratto vantaggi dal disastro anche in altri modi. Ha passato la sua vita professionale in un’azienda che ha deciso di finanziare e diffondere la disinformazione e studi scientifici falsi sul clima, anche se le ricerche dei suoi stessi scienziati confermavano che il cambiamento climatico causato dagli esseri umani era una realtà. Secondo un’inchiesta del Los Angeles Times, la ExxonMobil si è molto impegnata per capire come ricavare ulteriori profitti e come proteggersi dalla stessa crisi su cui gettava dubbi. lo ha fatto con le perforazioni nell’artico (che grazie al cambiamento climatico si stava sciogliendo) e riprogettando un gasdotto nel mare del nord in previsione della crescita del livello delle acque e di uragani devastanti. nel 2012 Tillerson ha ammesso pubblicamente che il cambiamento climatico è una realtà, ma quello che ha detto subito dopo è signiicativo: gli esseri umani come specie si sono sempre adattati, “quindi ci adatteremo anche a questo. Ci adatteremo ai cambiamenti climatici che toccano le aree agricole”.
Tutto sommato ha ragione: gli esseri umani si adattano quando un territorio smette di produrre cibo. lo fanno spostandosi. lasciano la casa in cerca di posti dove vivere e nutrire se stessi e le loro famiglie. Purtroppo, e Tillerson lo sa bene, non viviamo in un’epoca in cui i paesi aprono volentieri le frontiere alla gente afamata e disperata.
In realtà oggi Tillerson lavora per un presidente che ha deinito i profughi in arrivo dalla Siria, un paese dove la siccità ha accelerato le tensioni che hanno portato alla guerra civile, dei cavalli di Troia del terrorismo. Questo presidente ha imposto un divieto d’ingresso temporaneo negli Stati uniti ai migranti siriani. Questo presidente, parlando dei bambini siriani richiedenti asilo, ha detto: “Posso guardarli dritto negli occhi e dirgli ‘non potete entrare’”. Questo presidente non ha cambiato idea neanche dopo aver ordinato il lancio di missili sulla Siria, in teoria spinto dalle immagini terriicanti degli attacchi con armi chimiche contro i bambini siriani, “bambini bellissimi” (ma non è stato abbastanza commosso da accoglierli insieme ai loro genitori). Questo presidente ha annunciato progetti per far diventare l’identificazione, la sorveglianza, la detenzione e l’espulsione degli immigrati i tratti distintivi della sua amministrazione. Dietro le quinte, senza fretta, sono pronti a entrare in azione molti altri componenti della squadra di Trump, estremamente abili nello sfruttare queste situazioni.
Tra il giorno delle elezioni presidenziali, l’8 novembre 2016, e la fine del primo mese di amministrazione Trump, il 20 febbraio, le quotazioni in borsa delle due più grandi aziende carcerarie private negli Stati uniti, la CoreCivic e la geo, sono raddoppiate, salendo rispettivamente del 140 e del 98 per cento. Perché sorprendersi? Se la exxon ha imparato a guadagnare dal cambiamento climatico, queste aziende fanno parte della iorente industria delle prigioni private, della sicurezza e della sorveglianza, un’industria che vede nelle guerre e nelle migrazioni – due fenomeni spesso collegati ai problemi climatici – altrettante interessanti e sempre più ghiotte opportunità di mercato.
Negli Stati Uniti l’Immigration and customs enforcement (Ice), l’agenzia governativa che si occupa della sicurezza dei conini, ha mandato dietro le sbarre 34mila immigrati accusati di essere entrati illegalmente nel paese, il 73 per cento dei quali è detenuto in carceri private. Quindi non è afatto strano che le azioni di queste aziende siano decollate dopo l’elezione di Trump. Poco dopo hanno avuto altre occasioni per festeggiare: una delle prime cose che ha fatto il ministro della giustizia Jef Sessions è stata cancellare la decisione dell’amministrazione Obama di non usare prigioni private per i detenuti comuni.
Trump ha scelto come viceministro della difesa Patrick Shanahan, un dirigente della Boeing che, a un certo punto, era stato incaricato di vendere costosi armamenti all’esercito statunitense, tra cui gli elicotteri apache e Chinook. Shanahan ha anche supervisionato il programma di difesa con missili balistici della Boeing. Tutto questo fa parte di una tendenza più ampia. Come ha scritto lee Fang sulla rivista online The Intercept nel marzo del 2017, “Trump ha militarizzato il cosiddetto sistema delle porte girevoli, piazzando in posizioni chiave del governo persone di aziende militari private e lobbisti e cercando di aumentare rapidamente le spese militari e i programmi per la sicurezza nazionale. Finora sono stati candidati o insediati almeno quindici funzionari che hanno legami economici con l’industria privata della difesa”.
Il sistema delle porte girevoli (cioè il passaggio da incarichi pubblici ad aziende private e viceversa) non è nuovo, natural mente. I militari in pensione trovano sempre lavoro e contratti nelle aziende del settore degli armamenti. la novità è il numero di generali sul libro paga delle aziende militari private che Trump ha inserito nel governo in ruoli in cui hanno la possibilità di stanziare finanziamenti, compresi quelli previsti dal piano per l’aumento delle spese per l’esercito, il Pentagono e il dipartimento della sicurezza nazionale, che vale più di 80 miliardi di dollari all’anno.
L’altra novità sono le dimensioni del settore della sicurezza interna e della sorveglianza, cresciuto in modo esponenziale dopo gli attacchi dell’11 settembre, quando l’amministrazione di George W. Bush annunciò l’inizio di un’infinita “guerra al terrore” e garantì che tutto l’esternalizzabile sarebbe stato esternalizzato. nuove aziende dai vetri oscurati sono spuntate come funghi velenosi per tutta la Virginia, e quelle già esistenti, come la Booz allen Hamilton, sono entrate in nuovi mercati. Daniel gross, in un articolo scritto nel 2005 per Slate, rese alla perfezione l’atmosfera di quella che tanti chiamavano la bolla della sicurezza: “la sicurezza nazionale potrebbe essere appena arrivata allo stadio toccato da internet nel 1997. ll’epoca ti bastava sbattere una ‘e’ davanti al nome della tua azienda e il tuo collocamento in borsa schizzava alle stelle. Oggi puoi fare altrettanto con fortress (fortezza)”.
Molti esponenti del governo vengono da aziende specializzate in alcune funzioni che, non molto tempo fa, sarebbe stato impensabile esternalizzare. Il capo dello staf del consiglio nazionale per la sicurezza è Keith Kellogg, un generale di corpo d’armata in pensione. Tra i tanti incarichi di Kellogg nelle compagnie di sicurezza private c’è stato quello con la Cubic. Secondo l’azienda, Kellogg guidava “un progetto di addestramento al combattimento a terra ed era impegnato ad allargare la clientela mondiale della compagnia”. Se pensate che “l’addestramento al combattimento” sia un’attività che un tempo gli eserciti svolgevano in proprio avete ragione.

Cocktail velenoso

È interessante notare quante delle persone nominate da Trump vengono da aziende che non esistevano prima dell’11 settembre: l-1 Identity Solution (specializzata nella biometrica), Chertof group (fondata da Michael Chertof, segretario per la sicurezza nazionale con George W. Bush), Palantir Technologies (un’azienda di sorveglianza fondata, tra gli altri, dal miliardario e cofondatore di PayPal Peter Thiel, un grande sostenitore di Trump). le aziende che si occupano di sicurezza attingono pesantemente per il loro personale alle agenzie governative del settore militare e della sorveglianza. Con Trump molti lobbisti e dipendenti di queste imprese stanno tornando a lavorare per il governo, dove molto probabilmente cercheranno di avere altre occasioni per monetizzare la caccia a quelli che il presidente Trump ama definire bad hombres (uomini cattivi, i narcotrafficanti messicani). Questo crea un cocktail velenoso. Prendi un certo numero di persone che guadagnano direttamente dalla guerra in corso e le inili nel governo. Chi si batterà per la pace? l’idea che una guerra possa mai finire sul serio sembra una pittoresca reliquia di quello che negli anni di George W. Bush fu archiviato come “pensiero pre- 11 settembre”.

Poi c’è il vicepresidente Mike Pence, considerato da tanti l’adulto nella classe indisciplinata di Trump. eppure è proprio Pence, ex governatore dell’Indiana, ad avere il curriculum più inquietante quando si tratta di sfruttare senza pietà le sofferenze umane. appena ho saputo che sarebbe stato lui il candidato alla vicepresidenza di Trump mi sono detta: “Conosco questo nome. l’ho visto da qualche parte”. Poi mi è venuto in mente. era stato al centro di una delle storie più sconvolgenti che abbia mai seguito: lo sfrenato capitalismo del disastro legato all’uragano Katrina e all’inondazione di new Orleans. le cose che Pence ha fatto speculando sulle sofferenze umane sono così agghiaccianti che vale la pena di analizzarle un po’ più a fondo, anche perché ci dicono molto su quello che possiamo aspettarci da quest’amministrazione nel caso di crisi più gravi.
Prima di approfondire il ruolo di Pence, è importante precisare a proposito dell’uragano Katrina che, anche se in genere è definito una “calamità naturale”, non ci fu niente di naturale nelle conseguenze che ebbe su new Orleans. Quando Katrina si abbatté sulla costa del Mississippi, nell’agosto del 2005, era stato abbassato da uragano di livello 5 a un ancora devastante livello 3. Ma quando arrivò a new Orleans aveva perso quasi tutta la sua forza ed era stato declassato a “tempesta tropicale”.
È un dettaglio importante, perché una tempesta tropicale non avrebbe mai sfondato le difese di new Orleans contro le alluvioni. Invece Katrina ci riuscì: gli argini artificiali che proteggevano la città non ressero. Perché? Oggi sappiamo che, nonostante i ripetuti allarmi sui possibili rischi, la ma nutenzione degli argini era stata insufficiente. I motivi erano due. Il primo era il disprezzo per le vite dei neri poveri del lower ninth Ward, la zona di new Orleans più a rischio in caso di cedimento degli argini. Questo faceva parte di una più ampia negligenza nella gestione delle infrastrutture pubbliche in tutti gli Stati uniti, esito diretto di decenni di misure neoliberiste. Perché quando fai una guerra sistematica alla stessa idea di sfera pubblica e di bene pubblico, ovviamente l’impalcatura pubblica della società – le strade, i ponti, gli argini, i sistemi idrici – scivolerà in un tale stato di degrado che ci vorrà poco per superare il punto di rottura. Questo succede quando si tagliano pesantemente le tasse, con il risultato che non ci sono più soldi da spendere per niente, a parte la polizia e l’esercito.
Non furono solo le infrastrutture pubbliche a tradire new Orleans, e in particolare i più poveri, che erano in gran parte afroamericani, come in molte città statunitensi. La tradirono anche i responsabili del sistema d’intervento contro il disastro, la seconda grande crepa. l’ente del governo federale incaricato di intervenire in crisi simili è la Federal emergency management agency (Fema), insieme alle amministrazioni degli stati e a quelle municipali, che svolgono un ruolo cruciale nella pianificazione dell’evacuazione e della risposta al disastro. a new Orleans il governo fallì a tutti i livelli.
La Fema ci mise cinque giorni per portare acqua e viveri agli abitanti di new Orleans che avevano cercato riparo nel Superdome, il palazzo dello sport. le immagini più strazianti di quei giorni furono quelle delle persone confinate sui tetti delle case e degli ospedali con cartelli che imploravano aiuto mentre gli elicotteri passavano sopra le loro teste. le persone si aiutarono a vicenda come potevano. Si salvarono in canoa e in barca a remi. Si diedero da mangiare a vicenda. Dimostrarono la stupenda capacità umana di essere solidali, spesso rafforzata dai momenti di crisi. Ma il settore pubblico fu l’esatto contrario. non dimenticherò mai le parole di Curtis Muhammad, attivista di vecchia data dei diritti civili a New Orleans, quando disse a proposi to di quell’esperienza: “Ci ha fatto capire che nessuno si occupava di noi”.
Quell’abbandono fu profondamente disuguale, e le disparità seguirono le linee di spartizione tra bianchi e neri e tra le classi sociali. Molti riuscirono a lasciare la città con i loro mezzi: salirono in auto, andarono in un albergo asciutto e telefonarono alla loro assicurazione. altri restarono perché erano convinti che le difese contro l’uragano avrebbero retto. Ma molti altri restarono perché non avevano scelta: non avevano un’auto o erano troppo malati per guidare o, semplicemente, non sapevano cosa fare. erano le persone che avevano assoluto bisogno di un piano di evacuazione e soccorso efficace. non furono fortunate. I più poveri, abbandonati in una città senza cibo né acqua, fecero quello che avrebbe fatto chiunque in quelle circostanze: si presero le provviste dai negozi del posto. Fox news e altre testate ne approfittarono per definire i residenti neri di new Orleans “sciacalli” che presto avrebbero invaso le parti asciutte e bianche della città. Sugli edifici comparirono scritte minacciose: “Spareremo agli sciacalli”. Furono istituiti posti di blocco per intrappolare la gente nelle aree sommerse. Sul Danzier bridge i poliziotti sparavano a vista ai residenti neri (alla fine cinque agenti implicati sono stati dichiarati colpevoli e la città ha patteggiato un risarcimento di 13,3 milioni di dollari alle famiglie coinvolte in quello e in altri casi simili dopo Katrina). nel frattempo bande di vigilanti bianchi armati battevano le strade in cerca “dell’occasione per dare la caccia ai neri”, come spiegò in seguito un residente in un articolo del giornalista d’inchiesta A.C. Thompson.
Con i miei occhi
Ero a new Orleans e ho visto con i miei occhi quant’erano su di giri i poliziotti e i militari, per non parlare delle guardie private di aziende come la Blackwater, arrivate da poco dall’Iraq. Sembrava di essere in una zona di guerra, con i poveri e i neri al centro del mirino, gente il cui unico crimine era cercare di sopravvivere. Quando arrivò la guardia nazionale per organizzare l’evacuazione totale della città, lo fece con un cinismo e un’aggressività diicili da comprendere. I soldati puntavano i mitra contro i cittadini che salivano sui pullman senza dargli la minima informazione su dove li stessero portando. Spesso i bambini venivano separati dai genitori.
Quello che vidi durante l’inondazione mi sconvolse. Ma quello che successe dopo Katrina mi sconvolse ancora di più. Mentre la città barcollava sotto i colpi del disastro e i suoi abitanti erano sparpagliati in giro e non potevano proteggere i loro interessi, spuntò un piano per far approvare alla velocità della luce una lista dei desideri delle multinazionali. Milton Friedman, che all’epoca aveva 93 anni, scrisse un articolo per il Wall Street Journal in cui diceva: “Quasi tutte le scuole di new Orleans sono in macerie, come le case dei bambini che le frequentavano. Ora i bambini sono sparsi ovunque. È una tragedia. Ma è anche l’occasione buona per riformare radicalmente il sistema scolastico”.
Richard Baker, all’epoca deputato repubblicano della louisiana, dichiarò: “Finalmente abbiamo ripulito le case popolari di new Orleans. non ci saremmo riusciti, ma ce l’ha fatta Dio”. Mi trovavo in un rifugio per sfollati a Baton rouge quando Baker fece quella dichiarazione. Le persone con cui parlai erano sconvolte. Immaginatevi di essere costretti ad abbandonare casa vostra e dormire su una branda in un centro congressi per poi scoprire che quelli che in teoria dovrebbero rappresentarvi dichiarano che è stato una specie d’intervento divino. a quanto pare, Dio ama molto gli investimenti immobiliari.

Baker ebbe la sua “pulizia” delle case popolari. nei mesi successivi all’uragano, mentre gli abitanti di New Orleans e tutte le loro scomode obiezioni, la loro ricca cultura e il profondo radicamento erano fuori dalle scatole, furono abbattute migliaia di case popolari – molte delle quali avevano subìto danni minimi perché si trovavano in un punto elevato della città – e furono sostituite da condomini e grattacieli dal costo proibitivo per chi aveva vissuto lì fino ad allora.

Ed è qui che entra in gioco Mike Pence. Quando Katrina si abbatté su New Orleans, Pence era presidente del potente Republican Study Committee (Rsc), un comitato repubblicano fortemente ideologizzato che riuniva politici conservatori. l’11 settembre 2005, appena quattordici giorni dopo il crollo degli argini e con interi quartieri di New Orleans ancora sott’acqua, l’Rsc tenne una riunione nella sede della Heritage Foundation a Washington. Sotto la guida di Pence fu stilato un elenco di “idee a favore del libero mercato per reagire all’uragano Katrina e agli alti prezzi del petrolio”. Si trattava in tutto di 32 misure di pseudo-aiuto agli alluvionati, ognuna presa direttamente dal manuale del capitalismo del disastro.
Emergeva con chiarezza l’intenzione di scatenare una guerra a oltranza al settore pubblico e alle tutele dei lavoratori, un fatto paradossale, perché Katrina fu una catastrofe umanitaria in primo luogo a causa dei problemi delle infrastrutture pubbliche. E si notava anche la determinazione a sfruttare qualsiasi occasione per rafforzare il settore petrolifero e del gas naturale. L’elenco comprendeva raccomandazioni per sospendere la legge che imponeva agli appaltatori federali di pagare stipendi dignitosi, per trasformare l’intera area colpita in una zona di libera impresa e per “eliminare le restrittive regole ambientali che intralciano la ricostruzione”.
Il presidente Bush accolse molte di quelle raccomandazioni nel giro di una settimana, anche se alla fine, sottoposto a dure pressioni, fu costretto a reintrodurre le misure standard per la tutela dei lavoratori. Un’altra raccomandazione chiedeva di distribuire ai genitori dei voucher da usare nelle scuole private e nelle charter school (istituti a scopo di lucro finanziati dai contribuenti), una mossa in linea con le idee tanto amate da Betsy DeVos, la ministra dell’istruzione di Trump. Nel giro di un anno a new Orleans ci fu il sistema scolastico più privatizzato degli Stati uniti.
E non è finita. Nonostante i climatologi abbiano riscontrato un collegamento diretto tra l’intensità degli uragani e il riscaldamento degli oceani, Pence e il suo comitato fecero una serie di richieste al congresso: abrogare le regole ambientali sulla costa del golfo del Messico, rilasciare i permessi per nuove raffinerie negli Stati uniti e dare il via libera alle “perforazioni nell’arctic national wildlife refuge”, un’area naturale protetta dell’Alaska. Queste iniziative faranno aumentare automaticamente le emissioni di gas serra, il maggior contributo umano al cambiamento climatico, e provocheranno cicloni più devastanti. eppure furono immediatamente appoggiate da Pence e poi adottate da Bush con la scusa della risposta a un uragano devastante.
Vale la pena di soffermarsi un attimo per spiegare alcune conseguenze di tutto questo. l’uragano Katrina diventò una catastrofe a new Orleans grazie a una combinazione di forte maltempo, forse collegato al cambiamento climatico, e infrastrutture fragili e trascurate. le presunte soluzioni proposte dal gruppo guidato all’epoca da Pence avrebbero inevitabilmente aggravato il cambiamento climatico e indebolito le infrastrutture pubbliche. Pence e i suoi compagni di viaggio “liberisti” erano intenzionati a fare esattamente le cose che in futuro causeranno automaticamente altre Katrina. e oggi Pence ha il potere di estendere queste idee a tutti gli Stati uniti.
Un progetto preciso
Il settore petrolifero non è l’unico che ha guadagnato dall’uragano Katrina. Immediatamente dopo il disastro, calò su New Orleans l’intera banda di multinazionali di Baghdad, formata da Bechtel, Fluor, Halliburton, Blackwater, CH2M Hill e Parsons, tristemente famose per il mediocre operato in Iraq. avevano un progetto preciso: dimostrare che i servizi privati forniti in Iraq e in Afghanistan avevano un mercato anche negli Stati Uniti e, già che c’erano, ottenere contratti senza gare d’appalto per un totale di 3,4 miliardi di dollari.
L’esperienza delle aziende chiamate a operare sembrava spesso estranea alla logica con cui erano assegnati i contratti. Prendiamo, per esempio, l’agenzia privata a cui la Fema pagò 5,2 milioni per svolgere il lavoro cruciale di allestire un campo base per i soccorritori a Saint Bernard Parish, un sobborgo di new Orleans. La costruzione del campo registrò ritardi e non fu mai completata. Durante le successive indagini si scoprì che la ditta che si era aggiudicata l’appalto, la lighthouse Disaster relief, era in realtà un’organizzazione religiosa. “Prima di allora avevo organizzato al massimo un campo per ragazzi con la mia parrocchia”, confessò il direttore della lighthouse, il reverendo Gary Heldreth. Dopo che le varie ditte subappaltatrici si furono intascate la loro fetta di torta, non restò quasi niente per la gente che ci lavorava. lo scrittore Mike Davis rintracciò il pagamento da parte della Fema al gruppo Shaw di 15 dollari al metro quadrato per installare i teloni impermeabili azzurri sui tetti danneggiati, anche se i teloni erano forniti dal governo. Dopo che i vari subappaltatori avevano intascato la loro fetta, i lavorato ri che inchiodarono i teloni furono pagati meno di venti centesimi al metro quadrato. “In parole povere, ogni livello della catena alimentare degli appalti è grottescamente ipernutrito tranne lo scalino più in basso, quello dove si fa il lavoro vero,” ha scritto Davis. Questi presunti “appaltatori” erano in realtà marchi vuoti, come la Trump Organization, che incassava i proitti e poi metteva il suo nome su servizi modesti o inesistenti.
Per compensare le decine di miliardi che andavano ai privati in contratti ed esenzioni fiscali, nel novembre del 2005 il congresso a maggioranza repubblicana annunciò che doveva tagliare 40 miliardi dal bilancio federale. Tra i programmi più colpiti ci furono i prestiti agli studenti, il programma di assistenza sanitaria Medicaid e i buoni alimentari. e così gli statunitensi più poveri finanziarono la pacchia degli appaltatori due volte: la prima quando lo sforzo dei soccorsi dopo Katrina si trasformò nelle mance sregolate alle grandi imprese, senza che fornissero posti di lavoro decenti o servizi pubblici funzionanti; la seconda quando i pochi programmi che assistevano direttamente i disoccupati e i lavoratori poveri a livello nazionale furono falcidiati per pagare quelle parcelle gonfiate.
New Orleans è il modello del capitalismo del disastro, progettato dall’attuale vicepresidente degli Stati Uniti e dalla Heritage foundation, il pensatoio di estrema destra a cui Trump ha esternalizzato gran parte del bilancio della sua amministrazione. Alla fine la risposta a Katrina innescò la caduta libera della popolarità di George W.Bush, un crollo che costò ai repubblicani la presidenza nel 2008. nove anni dopo, con i repubblicani che controllano il congresso e la Casa Bianca, non è difficile immaginare che questo esperimento di risposta privatizzata a una calamità sia adottato su scala nazionale. La presenza a new Orleans di una polizia militarizzata e di milizie private armate fu una sorpresa per molti. Da allora il fenomeno si è allargato, con le forze di polizia in tutto il paese piene fino a scoppiare di equipaggiamenti militari, tra cui mezzi corazzati e droni, mentre le aziende per la sorveglianza privata garantiscono spesso addestramento e appoggio. Vedendo la sfilza di aziende private di sorveglianza e militari che occupano posizioni chiave nell’amministrazione Trump, possiamo aspettarci che tutto questo si ampli ulteriormente a ogni nuovo shock.
L’esperienza di Katrina è anche un cupo monito per chi non ha ancora smesso di sperare nei mille miliardi di dollari promessi da Trump per finanziare investimenti nelle infrastrutture. Questi finanziamenti sistemeranno qualche strada e ponte e creeranno posti di lavoro (anche se molti di meno rispetto a quelli che creerebbero gli investimenti nelle infrastrutture verdi). Dettaglio cruciale: Trump ha fatto capire che userà il più possibile non il settore pubblico ma una partnership tra pubblico e privato, una formula che ha pessimi precedenti di corruzione e può portare a stipendi molto più bassi di quelli che riceve chi lavora nei veri progetti pubblici. Dati i trascorsi di affarista di Trump e il ruolo di Pence nell’amministrazione, abbiamo tutti i motivi di temere che questa spesa in infrastrutture produrrà una cleptocrazia in stile Katrina, un governo di ladri, con i frequentatori di Mar-a-lago (la lussuosa villa di Trump in Florida) che si elargiscono enormi somme di quattrini dei contribuenti.
New Orleans ci ha regalato un quadro straziante di quello che ci possiamo aspettare quando ci sarà il prossimo shock. Purtroppo non è affatto un quadro completo: l’attuale governo degli Stati Uniti può tentare ben altro con il pretesto della crisi. Per diventare immuni agli shock, dobbiamo prepararci anche a questa possibilità.

«È urgente ormai interrogarsi su quando un aumento del libero scambio generi benefici, e a vantaggio di chi, e quando invece gli effetti deleteri siano molto superiori ai vantaggi». vocidall'estero, 30 agosto 2017 (c.m.c)

Il sito Global Research mette in luce l’inversione di rotta delle istituzioni mainstream sulla globalizzazione. Sopraffatte dalle giuste intuizioni dell’opinione pubblica, sono costrette ad ammettere che la globalizzazione più che aumentare la ricchezza, la distribuisce in maniera iniqua, riversandone una quantità maggiore sui già ricchi e mettendo in reale competizione solo i più poveri. È urgente ormai interrogarsi su quando un aumento del libero scambio generi benefici, e a vantaggio di chi, e quando invece gli effetti deleteri siano molto superiori ai vantaggi. Una discussione finora totalmente ignorata dai politici ed economisti che considerano gli accordi di libero scambio sempre “buoni a prescindere”.

Tutti abbiamo sentito dire che la globalizzazione fa crescere l’economia per tutti e aumenta la nostra ricchezza… Ma ora gli economisti e le organizzazioni più importanti iniziano a dire che la globalizzazione aumenta la disuguaglianza.

L’Ufficio Nazionale di Ricerca Economica (NBER) – la più grande organizzazione di ricerca economica degli Stati Uniti, che vanta come membri numerosi premi Nobel e dirigenti del Consiglio dei Consulenti Economici – a maggio ha pubblicato un rapporto secondo il quale:

«Le recenti tendenze verso la globalizzazione hanno aumentato la disuguaglianza negli Stati Uniti, aumentando in maniera sproporzionata il reddito dei più ricchi.L’aumento della competizione delle importazioni ha avuto un effetto deleterio sui lavori manifatturieri, ha portato le aziende a migliorare la loro produzione e causato una diminuzione dei redditi dei lavoratori.»

Il NBER spiega che la globalizzazione permette ai dirigenti di utilizzare il sistema a proprio vantaggio:

«Questo articolo esamina il ruolo della globalizzazione nel rapido aumento dei redditi più alti. Grazie all’utilizzo di un’ampia fonte di dati riguardanti migliaia di dirigenti presso aziende degli Stati Uniti tra il 1993 e il 2013, scopriamo che le esportazioni, così come la tecnologia e la dimensione dell’azienda, hanno contribuito all’aumento dei compensi dei dirigenti. Isolando le variazioni nell’export non legate alle azioni e alle qualità dei dirigenti, mostriamo che la globalizzazione ha influenzato il salario dei dirigenti non solo attraverso il mercato, ma anche in altri modi. Inoltre, shock esogeni alle esportazioni hanno aumentato i compensi dei dirigenti per lo più attraverso i bonus anche in casi di cattiva gestione, elemento che conferma l’ipotesi che la globalizzazione ha aumentato le opportunità per i dirigenti di acquisire rendite di posizione. Nel loro insieme, questi risultati indicano che la globalizzazione ha giocato un ruolo più centrale nella rapida crescita dei compensi ai dirigenti e della disuguaglianza americana di quanto si pensasse, e che l’acquisizione di rendite di posizione è una tassello importante del quadro complessivo.»

Un documento della Banca Mondiale sostiene che la globalizzazione “potrebbe aver portato a un aumento della disuguaglianza dei salari”. Fa notare che:

«Dati USA recenti suggeriscono che i costi dell’aggiustamento per chi lavora in settori esposti alla competizione delle importazioni cinesi sono molto più alti di quanto precedentemente ipotizzato. Il commercio potrebbe aver contribuito ad aumentare la disuguaglianza nelle economie ad alto reddito…»

La Banca Mondiale cita inoltre l’economista premio Nobel Eric Maskin, secondo cui la globalizzazione aumenta la disuguaglianza in quanto aumenta la disparità di competenze dei diversi lavoratori.

Un rapporto del Fondo Monetario Internazionale nota che:

«Un alto livello di commercio e flussi finanziari tra i paesi, in parte reso possibile dalle scoperte tecnologiche, è comunemente ritenuto causa di un aumento della disuguaglianza di reddito… Nelle economie avanzate, la capacità delle aziende di adottare tecnologie per ridurre l’impiego di manodopera e la tendenza a spostare le produzioni all’estero sono state citate come fattori importanti nel declino del settore manifatturiero e nell’aumento del divario di compenso tra le diverse competenze (Feenstra and Hanson 1996, 1999, 2003) …

È stato mostrato che i flussi finanziari in aumento, in particolare gli Investimenti Esteri Diretti (IDE), e i flussi di portafoglio, aumentano la disuguaglianza sia nelle economie avanzate, sia nei mercati emergenti (Freeman 2010). Una possibile spiegazione è la concentrazione di attività e passività straniere in settori relativamente caratterizzati da maggiori competenze ed elevato livello di tecnologia, che spinge verso l’alto la richiesta e i salari dei lavoratori più qualificati. Inoltre, gli IDE potrebbero indurre cambiamenti tecnologici specifici per competenze, essere associati a contrattazioni salariali divise per competenze, e risultare in un aumento della formazione dei lavoratori già formati anziché di quelli meno formati (Willem te Velde 2003). Inoltre, Investimenti Diretti in uscita dalle economie avanzate in settori a bassa competenza, potrebbero di fatto risultare relativamente ad alta competenza nei paesi a cui si rivolgono nelle economie emergenti (Figini and Görg 2011), accentuando così la richiesta di lavoratori ad alta formazione in questi ultimi paesi. La deregolamentazione finanziaria e la globalizzazione sono stati inoltre citati come fattori determinanti per l’aumento della ricchezza finanziaria, della relativa intensità di competenze, e dei salari all’interno dell’industria finanziaria, uno dei settori a crescita più rapida delle economie avanzate (Phillipon and Reshef 2012; Furceri and Loungani 2013).»

La Banca dei Pagamenti Internazionali – La “Banca Centrale delle Banche Centrali” – nota inoltre che la globalizzazione non è tutta rose e fiori. Il Financial Times spiega:

«Tuttavia tre recenti articoli di esponenti di spicco della Banca dei Pagamenti Internazionali si spingono oltre, sostenendo che la globalizzazione finanziaria stessa rende i cicli di boom e crash molto più frequenti e destabilizzanti di quanto sarebbero altrimenti.»

McKinsey & Company nota che:

«Anche se la globalizzazione ha ridotto la disuguaglianza tra paesi, l’ha aggravata all’interno dei paesi stessi.»

L’Economist sottolinea che:

«La maggior parte degli economisti è stata presa alla sprovvista dal rifiuto [della globalizzazione]. Alcuni invece l’avevano previsto. Val la pena studiare come hanno ragionato… Branko Milanovic dell’università di New York crede che tali costi perpetuano un ciclo di globalizzazione. Sostiene che periodi di integrazione globale e progresso tecnologico generano crescenti disuguaglianze… I sostenitori dell’integrazione economica hanno sottovalutato i rischi… che ampi settori della società si sentissero tagliati fuori…»

Il New York Times riporta:

«Gli esperti si sono sbagliati riguardo ai benefici del commercio per l’economia americana?

La rabbia e la frustrazione degli elettori, dovuta in parte ai cambiamenti tecnologici e alla continua globalizzazione, [hanno reso Trump e Sanders molto popolari e] stanno già avendo un impatto rilevante sul futuro dell’America, mettendo in discussione il concetto, in precedenza largamente condiviso, che scambi commerciali più liberi siano necessariamente una cosa positiva. "Il populismo economico della campagna presidenziale ha costretto a riconoscere che l’espansione del commercio è una lama a doppio taglio", ha scritto Jared Bernstein, ex consigliere economico del Vice Presidente Joseph R. Biden Jr.

Quello che più colpisce è che la classe lavoratrice arrabbiata – così spesso bollata come miope, incapace di capire i vantaggi economici legati al commercio – sembra aver capito un concetto che gli esperti solo tardivamente stanno ammettendo essere vero: i benefici del commercio per l’economia americana non sempre giustificano i costi ad esso associati.

In uno studio recente, tre economisti – David Autor dell’Istituto di Tecnologia del Massachusset, David Dorn dell’Università di Zurigo e Gordon Hanson dell’Università di San Diego, in California – hanno messo profondamente in discussione le convinzioni di quelli come noi, cresciuti nella convinzione che le economie si riprendano velocemente dagli shock del commercio. In teoria, un paese industrialmente sviluppato come gli Stati Uniti si adegua alla competizione delle importazioni spostando i lavoratori verso industrie più avanzate che possono competere con successo sui mercati globali.

Gli autori hanno esaminato l’esperienza dei lavoratori americani dopo l’esplosione della Cina sui mercati mondiali circa due decenni fa. Il presunto adeguamento, hanno concluso, non è avvenuto. O quantomeno non lo è ancora. Nei mercati del lavoro locali più colpiti i salari sono rimasti bassi e la disoccupazione alta. A livello nazionale non c’è alcun segno che su altri mercati del lavoro ci siano stati vantaggi in grado di compensare. Inoltre, hanno scoperto che i salari in discesa sui mercati del lavoro locali esposti alla competizione cinese hanno ridotto i redditi di 213 dollari all’anno per ogni adulto.

In un ulteriore studio da loro scritto con Daron Acemoglu e Brendan Price dell’MIT, hanno stimato che la crescita delle importazioni dalla Cina tra il 1999 e il 2011 è costata 2,4 milioni di posti di lavoro negli USA.
Sostengono che «questi risultati dovrebbero farci cambiare opinione sui vantaggi di breve e medio termine associati al commercio. Dopo che non siamo stati capaci di anticipare le significative dislocazioni causate dal commercio, la letteratura deve ora stimare in maniera più convincente i vantaggi del commercio, in modo che il sostegno al libero scambio non sia basato soltanto sulla teoria più alla moda, ma sulla base di evidenze che mettono in luce chi ci guadagna, chi ci perde, di quanto, e a quali condizioni».

Il sostegno alla globalizzazione basato sul fatto che essa aiuta a espandere la “torta” economica del 3% diventa molto meno forte nel momento in cui essa cambia anche la distribuzione delle “fette” del 50%, sostiene Autor.”

E Steve Keen – professore di economia e capo della Suola di Economia, Storia e Politica all’Università di Kingston a Londra – fa notare che:

«Molte persone tenteranno di convincervi che la globalizzazione e il libero scambio potrebbero portare benefici a tutti, se solo i vantaggi fossero suddivisi più equamente. L’unico problema di questa bella festa è che i vicini di casa non erano invitati. Ma adesso vi promettiamo che distribuiremo i vantaggi più equamente. Continuiamo con la festa. La globalizzazione e il libero scambio sono ottimi.

Questa convinzione è comune tra la maggior parte dei politici di entrambe le fazioni, ed è un dogma di fede per la professione economica.
Si tratta di una fallacia basata sul nulla, e lo è stata fin da quando David Ricardo sognava riguardo all’idea del ‘Vantaggio Comparato e dei vantaggi del Commercio’ due secoli fa.Il gioco delle tre carte [della globalizzazione] è come quello della maggior parte della teoria economica: pulito, plausibile e sbagliato. È il prodotto di un ragionamento a tavolino di persone che non hanno mai messo piede in una delle fabbriche che le loro teorie economiche hanno mandato in rovina.

E quindi i vantaggi del commercio per tutti e per tutte le Nazioni, che dovrebbero poter essere divisi in maniera più equa, semplicemente neppure esistono. La specializzazione è una truffa – che ha fatto innamorare le élite di Washington (a loro vantaggio, ovviamente). Anziché far migliorare le condizioni di un Paese, la specializzazione le rende peggiori, con macchinari rottamati che non servono più a nulla, e con meno modi per reinventare nuove industrie dalle quali la crescita arriva davvero.

Un’eccellente ricerca a livello globale dell’Università di Harvard “Atlas of Economic Complexity” ha identificato che la diversificazione, non la specializzazione, è l’”ingrediente magico” che genera realmente la crescita. I Paesi più di successo hanno un set di industrie diversificato, e crescono di più rispetto alle economie più specializzate perché possono inventare nuove industrie integrando quelle esistenti.

Naturalmente la specializzazione, e il commercio di cui ha bisogno, generano un sacco di servizi finanziari, di spese di assicurazione e di riunioni internazionali per negoziare accordi commerciali. La ricca élite che bazzica i festini di Washington si arricchisce, ma il Paese nel suo complesso ci perde, specialmente la classe lavoratrice.»

Alcune grandi società stanno perdendo interesse nella Globalizzazione

Ironicamente, il Washington Post faceva notare nel 2015 che le stesse mega multinazionali stavano perdendo interesse nella globalizzazione… e molte iniziano a riportare le fabbriche a casa:

«Ma nonostante tutta questa attività ed entusiasmo, quasi nessuno dei vantaggi promessi dalla globalizzazione si è materializzato, e quello che fino a poco tempo fa era un tema tabù nelle multinazionali – ossi, dovremmo rivalutare, o addirittura frenare, la nostra strategia globale di crescita? – è diventata una questione urgente, anche se ancora solo sussurrata.Considerando i fallimenti della globalizzazione, praticamente tutte le più grandi società stanno facendo fatica a trovare il modello di business internazionale più produttivo.

Il Reshoring – ossia riportare le operazioni manifatturiere nelle fabbriche occidentali dai mercati emergenti – è una delle opzioni. Mentre il costo del lavoro aumenta in paesi come la Cina, la Thailandia, il Brasile e il Sud Africa, le società stanno scoprendo che produrre le merci, per esempio, negli Stati Uniti quando sono destinate al mercato nord americano è molto più efficiente a livello di costi. I vantaggi sono ancora maggiori se consideriamo la produttività dei paesi in via di sviluppo.

Inoltre, le nuove tecnologie distruttive di manifattura – come le stampanti in 3D, che permettono una produzione in situ di componenti e parti presso i siti di assemblaggio – rendono l’idea di riportare le fabbriche dove i prodotti assemblati verranno venduti ancor più praticabile. Società come GE, Whirlpool, Stanley Black & Decker, Peerless e molte altre hanno riaperto fabbriche in precedenza chiuse o ne hanno aperte di nuove negli Stati Uniti.»

«La scoperta dell'Africa . Al vertice di Parigi l’Europa fa sua la linea italiana per contenere i flussi dei migranti. E promette di voler di riformare Dublino»

Campi profughi in Niger e Ciad, addestramento di personale dei due paesi africani per arrivare alla costituzione di una guardia di confine lungo la frontiera con la Libia. Ma anche trasferimenti dalla Libia direttamente nei Paesi di origine dei migranti, un ulteriore rafforzamento della guardia costiera di Tripoli e sostegno economico ai Paesi di transito, perché si adoperino nel contrasto dell’immigrazione irregolare.

A Parigi, in un vertice che vede riuniti i leader di Francia, Spagna, Italia e Germania con quelli di Libia, Ciad e Niger, l’Unione europea fa sua la linea indicata dal governo italiano per fermare i flussi diretti nel nostro Paese e, in questo modo, sposta ancora più a sud i suoi confini. Non più il Mediterraneo, non più la Libia – che nonostante la sua instabilità resta un punto di riferimento – ma Ciad e Niger, due Paesi che sono altrettanti punti di passaggio per quanti fuggono da miseria e persecuzioni e ai quali, adesso, si chiede di sigillare ulteriormente le proprie frontiere in cambio di aiuti allo sviluppo. Una linea che, prima ancora che al vertice francese, è stata confermata in un incontro che si è tenuto in mattinata al Viminale tra il ministro degli Interni Marco Minniti e i colleghi di Ciad, Mali e Niger nel quale è stata decisa la costituzione di una task force tra le polizie dei quattro Paesi.
E’ nei prossimi mesi che il «piano d’azione» messo a punto ieri a Parigi diventerà operativo. A spiegarlo è stato il presidente francese Emmanuel Macron sottolineando come, negli sforzi per contenere i migranti, non sia escluso un contributo militare da parte delle forze del G5 Sahel. «Allo scopo – ha spiegato – di mettere in sicurezza le frontiere all’interno del G5, misure che sono oggetto di vari milioni di euro di finanziamento a livello Ue».

Le prossime tappe prevedono un nuovo vertice in autunno da tenersi in Spagna prima di arrivare a novembre, quando si terrà il previsto summit tra Ue e Unione africana. Ma la strada – che punta alla chiusura la rotta del Sahel per chiudere definitivamente quella del Mediterraneo centrale, è ormai tracciata.

Ai paesi africani, ha spiegato Macron, l’Unione europea garantirà dotazioni economiche, di personale e di mezzi: jeep e sistemi radar per controllare i confini terrestri, addestramento del personale sono gli obiettivi a breve termine, ai quali faranno seguito finanziamenti destinati a progetti allo sviluppo. Come quelli su sanità e istruzione che l’Italia si è impegnata a finanziare ai sindaci libici e che sabato scorso, in un incontro al Viminale, sono stato consegnati al ministro Minniti.

Da tutti i partecipanti al vertice è stata sottolineata la necessità che si arrivi al più presto a una stabilizzazione della Libia, così come quella di riformare il regolamento di Dublino. A rimanere invece sullo sfondo, se non a parole, è come al solito la questione più delicata, vale a dire il rispetto dei diritti umani dei migranti. Era stato garantito per quelli detenuti nei centri di detenzione in Libia, – e oggi tutti sanno che non è così, al punto che ieri il segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha chiesto alle autorità libiche di «rilasciare immediatamente» i migranti più vulnerabili. Ora viene garantita per i campi che verranno allestiti in Ciad e Niger e che dovrebbero essere gestiti dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) e dall’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni.

«Abbiamo preso atto – ha assicurato sempre Macron – di poter avere un trattamento umanitario all’altezza delle nostre aspettative». Scopo dei campi sarà quello di selezionare i migranti dividendoli tra economici e quanti invece hanno diritto a presentare domanda di asilo. In Niger, come in Ciad e soprattutto in Libia, ha spiegato Macron, «l’identificazione degli aventi diritto avverrà su liste chiuse dell’Unhcr».

Ci vorrà qualche mese per capir se il piano d’azione messo a punto ieri a Parigi risponderà ai desideri europei oppure no. Tutto dipenderà anche da quanto l’Europa sarà disposta a investire in Africa, come ha ricordato ieri il presidente del Ciad Idriss Deby, presente anche lui al vertice. «Cos’è che spinge i giovani africani ad attraversare il deserto a rischio della vita?», ha chiesto. «E’ la povertà, la mancanza di istruzione. Il problema resterà sempre lo sviluppo, c’è bisogno di risorse».

Sbilanciamoci.info, 23 agosto 2017 (p.d.)

Quali sono le nuove forme di dominio dei gruppi transnazionali di interesse privato? […] Da anni echeggia il refrain secondo cui i soggetti privati transnazionali avrebbero ormai acquisito un potere paragonabile o addirittura superiore a quello di molti Stati. In grado di ricattare i governi, le corporations sono considerate alla stregua di veri e propri enti sovrani[1], in una trama istituzionale sfaccettata, entro la quale la capacità di controllo degli Stati è sfidata anche dalla presenza di regimi regolatori globali e di organizzazioni sovrannazionali di vario genere, governativo e non. […]
Ma in che cosa consistono, effettivamente, gli elementi di potere, di influenza e di dominio delle corporations? La risposta non è scontata, se è vero che spesso, nel formularla, si ricorre a una serie di cifre che testimoniano null’altro che la forza economica. Si assume come valida misura della potenza delle global companies il confronto tra il loro fatturato annuo e i bilanci degli Stati: nel 2014 la prima azienda privata si sarebbe posizionata al ventiseiesimo posto nella classifica degli Stati più ricchi al mondo, prima di un paese come l’Argentina; e al ventisettesimo posto, prima dell’Austria, si sarebbero posizionate le altre prime quattro grandi imprese elencate dalla rivista «Fortune» (tutte aziende petrolifere, due cinesi). Insomma, solo le più grandi e influenti potenze statuali del mondo possono rivaleggiare con le global companies sul terreno economico. Ma questi numeri, pur significativi, non dicono nulla sulle modalità di potere, influenza e dominio. È opportuno, dunque, isolare tre aspetti del potere esercitato dai vari “giganti transnazionali”: strumentale, discorsivo e strutturale[2]. […]

L’odierno potere delle grandi imprese transnazionali si manifesta e rafforza innanzitutto in termini strumentali, asservendo le istituzioni pubbliche a interessi privati. E quando si parla di potere strumentale, la pratica cui la mente ricorre veloce è il lobbying: un’attività volta a condizionare le politiche pubbliche, favorendo determinati interessi a scapito di altri, soprattutto in tema di diritto societario, diritto del lavoro e diritto tributario. […]

Il potere culturale delle grandi imprese nel contesto del capitalismo globale ha un nome piuttosto preciso: quello […] del neoliberalismo. È questa la parola chiave per definire la cultura preminente dell’età globale, ovvero di quella fase della storia mondiale che prende avvio con il crollo delle regole di Bretton Woods e perdura ancora oggi. […]

Ma ciò che rende dominanti i gruppi di interesse privato transnazionale è il potere strutturale, legato alla spropositata asimmetria tra il carattere territoriale degli Stati e il carattere deterritorializzato dei grandi conglomerati economici che, facendo leva sulle proprie risorse, influenzano pesantemente le regole stabilite dalla politica.

La prima forma del potere in questione riguarda i grandi potentati finanziari e si esprime nel giudizio che costoro forniscono sulla condizione economica degli Stati. Tale forma di potere, esercitata attraverso le agenzie di rating, finisce in qualche modo per occupare il luogo stesso della sovranità[3]. […] Infatti, il principio su cui questa si erigeva era la presenza di un territorio statale nettamente confinato. Ma se nell’età globale la separazione tra "dentro" e "fuori" risulta quanto mai appannata, è anche perché le agenzie di rating – attori esterni, rappresentanti null’altro che la sommatoria di interessi economici sparsi in tutto il mondo – incidono profondamente sulle decisioni degli Stati. E vi riescono in quanto mandatari di un potere finanziario che appare, nelle parole di Alessandro Ferrara, come «una nuova specie di potere assoluto, cresciuto all’ombra di regimi democratici dediti ai valori della libertà e dell’eguaglianza e dello stato di diritto»[4]. La prima forma di potere strutturale può essere in effetti considerata come una forma di potere rigorosamente assoluto, nel senso che riesce a modificare, senza subire un effetto reciproco, le decisioni che sostanziano l’esercizio della sovranità politica all’interno di un determinato territorio.

La parola chiave, da questo punto di vista, è per l’appunto rating. Com’è noto, si tratta della valutazione del merito creditizio delle economie nazionali, ovvero di una stima del rischio che lo Stato debitore, per varie ragioni, non sia in grado di rimborsare puntualmente il credito garantitogli dagli investitori. E la crescente rilevanza di questa procedura è segnalata bene dal modo in cui si suole chiamare il rating relativo ai titoli di Stato: rating sovrano. Come se la valutazione di rischio dei titoli obbligazionari emessi dagli Stati diventasse essa stessa sovrana, violando proprio quella separazione tra "dentro" e "fuori" su cui si edificava l’ordine politico moderno. Perché nonostante i rating siano, in teoria, semplici opinioni e non voti certificati, di fatto, negli ultimi decenni, hanno finito per influenzare e, talvolta, distorcere il mercato finanziario.

Si è creata una situazione di predominio, aggravata dal fatto che i rating sono ormai appannaggio di un ristretto oligopolio di agenzie private, controllate da capitali di imprese finanziarie transnazionali e da fondi speculativi. E il fatto che il volume d’affari abbia superato i 4 miliardi di dollari (tra assegnazioni di rating, consulenze finanziarie e servizi) non ha impedito che il settore si concentrasse fino all’attuale predominio delle “tre sorelle”, Standard & Poor’s, Fitch e Moody’s, capaci di acquisire decine e decine di società minori. Insomma, il cosiddetto “giudizio dei mercati” rappresenta una minaccia ben più preoccupante rispetto a quella costituita dai faticosi colloqui in cui consiste il lobbying, ma rappresenta soprattutto un’ulteriore limitazione del principio di sovranità che caratterizzava lo Stato moderno.

La seconda forma di potere strutturale viene esercitata dalle grandi imprese e consiste nella pratica di regime shopping: un’espressione che si riferisce alla possibilità delle aziende di indirizzare i propri investimenti verso paesi nei quali il costo e il diritto del lavoro, le infrastrutture materiali e immateriali, i prelievi fiscali e la protezione dell’ambiente siano più convenienti. Svincolate dai singoli territori e capaci di grande mobilità, le global companies hanno così guadagnato un notevole potere di condizionamento sugli Stati, che non sono più la loro patria obbligata, ma solo una delle possibili mete di investimento. Ed è questa nuova condizione strutturale a consentire loro di ottenere maggiori tassi di profitto a fronte di un impegno anche piuttosto scarso nelle innovazioni tecnologica, merceologica o strategica.

A onor del vero, il legame delle imprese con i paesi d’origine non è mai stato irrecidibile. Il mercato è da sempre un potenziale non-luogo, ma non c’è dubbio che lo sviluppo tecnologico abbia permesso un incremento straordinario della mobilità del capitale e della connettività della produzione. Al punto che il regime shopping è diventato un problema endemico.

Le conseguenze si riflettono non solo e non tanto nella contrapposizione tra imprese globali e Stati nazionali, tale per cui le prime cercano i modi per sottrarsi ai secondi e questi tentano di ampliare le proprie dimensioni per tenerle sotto controllo. Il rilievo del regime shopping dipende innanzitutto dalla sua capacità di produrre un superamento dello schema centro-periferia, cioè della struttura tipica del sistema-mondo moderno. Le disuguaglianze tra le varie aree del mondo restano ampie ed estremamente rilevanti, ma la peculiarità dell’età globale è che le nuove disuguaglianze non si articolano più secondo una gerarchia geografica a livello mondiale, bensì intorno a rapporti asimmetrici all’interno di ciascun paese[5].

E venendo al terzo e ultimo aspetto del potere strutturale, ci troviamo di fronte a uno dei risvolti più oscuri dell’attuale fase di globalizzazione economica: la quotidiana sottrazione di una colossale massa di denaro alla tassazione statale, anche nelle nazioni più ricche, e il suo trasferimento in paesi dove vigono speciali giurisdizioni segrete. L’offshoring, ecco la parola chiave, è una delle principali strategie attraverso cui i gruppi capitalistici transnazionali mettono a frutto la loro posizione dominante.

I numeri del fenomeno sono da capogiro. Si stima che ogni anno oltre la metà del commercio mondiale e degli attivi bancari venga dirottata verso i cosiddetti “paradisi fiscali”. Circa un terzo dell’investimento diretto estero effettuato dalle imprese transnazionali passa attraverso i tesori nascosti, entro cui si svolgono circa tre quarti delle emissioni bancarie ed obbligazionarie internazionali. La stragrande maggioranza delle più grandi imprese statunitensi ed europee possiede società off-shore. […]

E sebbene il termine "off-shore" evochi luoghi esotici, le giurisdizioni segrete, eredi come sono delle colonie britanniche e statunitensi, non abitano soltanto isole lontane. Se la più antica giurisdizione segreta d’Europa è la Svizzera, sono in particolare due i filamenti principali della ragnatela off-shore: uno fa capo alla City di Londra; l’altro alla borsa di Wall Street. […]

Non è mancato chi, in nome del principio della concorrenza fiscale, appoggiasse espressamente la diffusione di questi paradisi off-shore: gli Stati più efficienti, si diceva, sarebbero stati premiati. Le conseguenze sono state invece ben altre, due in particolare: una gara al ribasso nella quale tutti gli Stati hanno perso cospicue risorse e, così, la capacità di ripristinare l’eguaglianza nelle condizioni di partenza tra i propri cittadini; e un aumento della pressione fiscale sugli stessi contribuenti, che ha prodotto una sperequazione per la quale chi aveva di meno si è visto costretto a pagare di più.

Dopodiché, è vero che i paradisi fiscali servono anche a riciclare denaro sporco, ma ciò che conta qui è enfatizzare come il sistema off-shore sia al centro del processo di globalizzazione. Benché sia rimasto confinato nelle discussioni tra addetti ai lavori, esso rappresenta infatti una quota rilevante dell’economia globale, anche per il suo strettissimo legame con il sistema bancario, dove attraverso pratiche riservate ed estremamente complicate avvengono continui spostamenti di capitali, spesso usati per azioni speculative nei mercati borsistici. Il sistema off-shore non è, dunque, una semplice escrescenza, ma la testimonianza di come quei non-spazi, costruiti, protetti e incentivati da specifici soggetti politici ed economici, siano consustanziali alla logica del capitalismo globale[6].

È pur vero che qualcosa sta cambiando, che dopo anni di “concorrenza fiscale” distruttiva per le finanze pubbliche e assai vantaggiosa per le imprese transnazionali, i governi dei paesi industrializzati stanno cominciando a invertire la rotta. Ma la strada è ancora molto lunga e la determinazione politica non è sempre salda. Insomma, per dirla con Innerarity, non abbiamo ancora smesso di vivere in «un mondo offshore, cioè di poteri letteralmente “lontani dalla costa”, delocalizzati, un mondo i cui poteri rilevanti [o dominanti] non rendono conto a nessuno, sono irresponsabili e al di là della portata dell’autorità politica legittima»[7].

Il testo pubblicato è un estratto dal libro di Giulio Azzolini, Dopo le classi dirigenti. La metamorfosi delle oligarchie nell’età globale, (Laterza, Roma-Bari 2017, euro 20).

L’autore è Dottore di ricerca in Filosofia politica, già borsista presso l’Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli, attualmente Junior Research Fellow presso la Scuola Superiore di Studi Avanzati della Sapienza Università di Roma e visiting scholar presso l’École Normale Supérieure di Lione.

[1] Cfr. S. George, Shadow Sovereigns: How Global Corporations are Seizing Power, Polity, Cambridge 2015.

[2] Cfr. D. Fuchs, Business Power in Global Governance, Lynne Rienner, Boulder 2007, pp. 71-158; Ead., Theorizing the Power of Global Companies, in J. Mikler (a cura di), The Handbook of Global Companies, Wiley-Blackwell, Oxford 2013, pp. 77-95. Ma si veda anche S. Wilks, The Political Power of the Business Corporation, Edward Elgar, Cheltenham 2013.

[3] Sulla sovranità dello Stato al tempo della finanza, G. Zagrebelsky, Moscacieca, Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 33-45.

[4] A. Ferrara, La democrazia e il potere assoluto dei mercati finanziari disancorati, in «Politica & Società», a. IV, 2015, n. 1, pp. 7-26: 15.

[5] Lo dimostra al meglio François Bourguignon nel suo La mondialisation de l’inégalité, Seuil, Paris 2012.

[6] Insiste su questo punto Ronen Palan nel suo fortunato Tax Havens. How Globalization Really Works, Cornell University Press, Ithaca 2010. In proposito, con un taglio più teorico, è da vedere anche il libro di Alain Deneault: Offshore. Paradis fiscaux et souveraineté criminelle, La Fabrique, Paris 2010.

[7] D. Innerarity, Un mundo de todos y de nadie. Piratas, riesgos y redes en el nuevo desorden global, Paidós, Barcelona 2013, p. 30.

R.it scienze, online, 21 agosto 2017

Elon Musk (Tesla) e altri 116 fondatori di aziende di robotica e intelligenza artificiale chiedono di bloccare la corsa agli armamenti autonomi. Si rischiano conflitti destabilizzati da queste tecnologie

"Fermate i soldati-robot" è l'appello che 116 fondatori di aziende di robotica e intelligenza artificiale - tra cui Elon Musk, da sempre sensibile a questo tema e Mustafa Suleyman, fondatore di DeepMind (Google) - lanciano all'Onu da Melbourne, dove sono riuniti nella International Joint Conference on Artificial Intelligence (IJCAI).

La lettera è l'accorata reazione dell'industria dell'intelligenza artificiale alla notizia che il primo meeting del gruppo di esperti governativi (Gge) sui sistemi di armi letali autonome, che avrebbe dovuto aver luogo ieri, è stato rimandato a data da desinarsi. "Invitiamo i partecipanti ai lavori del GGE a sforzarsi di trovare modi per prevenire una corsa agli armamenti autonomi, per proteggere i civili dagli abusi e per evitare gli effetti destabilizzanti di queste tecnologie" recita la lettera aperta.
"Le armi letali autonome minacciano di essere la terza rivoluzione in campo militare. Una volta sviluppate, permetteranno ai conflitti armati di essere combattuti su una scala più grande che mai, e su scale temporali più veloci di quanto gli umani possano comprendere: sono armi che despoti e terroristi potrebbero rivolgere contro popoli innocenti, oltre che armi che gli hacker potrebbero riprogrammare per comportarsi in modi indesiderabili. Non abbiamo molto tempo per agire: una volta aperto il vaso di Pandora, sarà difficile richiuderlo"
Cosa cambia di più quando ad essere impiegati nei conflitti sono macchine in grado di prendere in autonomia decisioni letali quando hanno un nemico umano nel mirino? Innanzitutto c'è un incentivo all'azione militare perché si elimina il contraccolpo psicologico della guerra: "Se si usano i robot autonomi per le operazioni militari, il danno psicologico della guerra - pensiamo all'impatto sull'opinione pubblica della morte di un soldato - diventa un mero danno economico: la distruzione di un robot non è nulla di più che una perdita in un bilancio" spiega a Repubblica.it uno dei primi firmatari dell'appello: Alberto Rizzoli, fondatore di AIPoly, startup che ha lanciato un'app che grazie all'intelligenza artificiale permette ai ciechi di fruire di descrizioni audio di ciò che il loro smartphone inquadra. "Se si trattasse soltanto di robot contro robot, un conflitto sarebbe un'attività poco efficace, visto che è più semplice implementare delle sanzioni piuttosto che sprecare milioni di dollari in un "match" tra macchine intelligenti. Purtroppo è più probabile che i robot killer vengano utilizzati per attaccare esseri umani".

Un elemento di rischio in più è la sostanziale imprevedibilità delle decisioni prese da un'intelligenza artificiale sufficientemente sofisticata: "L'autonomia ha subito un importante cambiamento dal 2012: siamo passati da sistemi prevedibili e programmati manualmente all'uso di reti neurali. Ovvero una vasta serie di neuroni artificiali organizzati in matrici che possono essere addestrati a ripetere, comprendere e prevedere dati numerici in un modo ispirato alla corteccia visiva animale" spiega Alberto Rizzoli.

"Il problema è che le reti neurali sono probabilistiche di natura: un po' come la mente umana, una volta addestrate non possono essere analizzate in dettaglio per capire esattamente perché hanno preso una decisione - magari letale - invece di un'altra. Il cervello di questi robot è una "scatola nera" che compie decisioni, a volte anche sbagliate, che ancora non riusciamo ad analizzare bene. Se un drone autonomo è dotato di armi, bisogna essere certi che non colpisca civili e innocenti, e bisogna che qualcuno sia legalmente responsabile per il suo operato: non si può dar la colpa a un algoritmo". Siccome tutta questa possibilità di controllo appare ancora difficile da ottenere, la strada più praticabile è quella del bando e delle sanzioni per i Paesi trasgressori.

"Per fortuna siamo riusciti ad evitare la diffusione di armi chimiche e nucleari in maniera efficace negli ultimi 70 anni, con qualche eccezione seguita da pesanti sanzioni" osserva Rizzoli. "Forse con un trattato potremmo ottenere lo stesso auspicabile risultato con le armi autonome. Il rischio è comunque alto: il prezzo dei sistemi autonomi scenderà negli anni, e costruire un robot killer nel 2035, ad esempio, sarà come costruire un mortaio improvvisato ad Aleppo nel 2015. L'unica vera soluzione è quella di rendere la guerra obsoleta, cosa che comunque sta succedendo col tempo, dove ogni guerra regala sempre di meno ai vincitori perché il valore economico dei Paesi si è trasferito dalle risorse fisiche (ovvero quelle conquistabili) alle risorse mentali e operative dei loro abitanti".

il manifesto, 9 agosto 2017 (c.m.c.)

Le critiche teoriche avanzate nei confronti del Prodotto interno lordo (Pil) e le dimostrazioni pratiche della sua fallacia si vanno accumulando. Lorenzo Fioramonti, giovane economista approdato all’università di Pretoria e collaboratore del gruppo di ricerca «New Economy Foundation», le ha raccolte lungo la breve storia di «una delle più grandi invenzioni del XX secolo», secondo la definizione del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti. Dietro ad un titolo che vorrebbe essere scherzoso (Presi per il Pil. Tutta la verità sul più potente numero del mondo, L’asino d’oro, pp. 193, euro 20, con presentazione di Enrico Giovannini, già direttore dell’Istat e ministro con Letta), il volume ricostruisce rigorosamente l’evoluzione di un concetto che ha segnato la nostra epoca. Un sistema statistico che ha inventato la cifra con cui il discorso pubblico corrente indica il grado di sviluppo, progresso e benessere dell’intera società. Un sistema di contabilità che è diventato la base simbolica e retorica delle politiche tanto delle destre, quanto delle sinistre.

Ma come è possibile che un numeretto così rozzo e arbitrario sia riuscito ad avere tanta importanza? Secondo Fioramonti la ragione del successo non va ricercata nella sua fondatezza tecnica-scientifica, ma nell’essere un mezzo molto potente di egemonia politica: «uno strumento di dominio». Per questa ragione «sfidare la logica del Pil», demitizzarlo e detronizzarlo è un’operazione culturale necessaria che secondo l’autore va preliminarmente condotta da parte di chiunque sia interessato ad un reale processo di trasformazione economica e sociale.

A dispetto del significato generale che nel tempo gli è stato attribuito, il Pil non nasce (nel 1934 nel pieno della Grande depressione) affatto per indicare il benessere dei cittadini, o le attività utili alla società e nemmeno il grado di soddisfazione dei consumatori, ma per quantificare il volume delle transizioni monetarie che avvengono sui mercati nell’arco di un determinato periodo (oggi, trimestralmente). La corrispondenza tra gli interessi delle popolazioni e quello dei mercati non è però assiomatica e men che meno automatica. Lo sapeva anche il suo inventore, Simon Kuznets, economista e statistico di origine Russa, approdato negli Usa negli anni Trenta, che invitata a non far diventare il reddito nazionale «la principale preoccupazione dell’economia».

In realtà il sistema di contabilità nazionale adottato dal governo degli Stati Uniti nel 1934 era nato per pianificare la conversione dell’economica civile nella gigantesca macchina da guerra che si voleva realizzare. Da allora le spese militari sono rimaste ben saldamente dentro la metrica del Pil come una forma di investimento tra le altre e continuano a concorrere non poco alla «ricchezza delle nazioni» più armate. Ma non è questa la sola «aberrazione» di un sistema di contabilità nazionale che Fioramonti definisce in vario modo: «fondato su una grande menzogna», «obsoleto e inefficace», «distruttivo» e che Giorgio Ruffolo aveva già bollato come un «idolo bugiardo». In sostanza, un indicatore che non rispecchia né i desideri autentici delle persone, né l’effettiva utilità sociale delle attività economiche che si svolgono.

I prezzi di mercato delle merci non sono certo un onesto indicatore della loro utilità. Il tempo libero non ha valore. Le connessioni con l’occupazione e la diminuzione della povertà sono indimostrabili. Esiste un rapporto tra aumento del Pil e diminuzione delle disuguaglianze? Per Fioramonti il Pil è solo una «lavatrice statistica» che serve ad accompagnare la «furia inarrestabile del mercato» (come la chiamava Albert Hirschmann nel 1968).

Moltissime sono state le proposte avanzate a più riprese mirate quantomeno ad addolcire il Pil, correggerlo, integrarlo, relativizzarlo. Ma nessuna è fin’ora andata in porto. William Nordhaus e Jones Tobin nei primi anni settanta avevano elaborato una Misura del Benessere Economico che escludeva le spese militari. Robert Eisner negli anni Ottanta aveva proposto un Sistema di contabilità dei redditi totali con l’inclusione delle produzioni domestiche e l’esclusione delle attività di servizio alla produzione. Di Herman Daly e John Cobb è l’Indicatore del Progresso Autentico che prevedeva di dedurre dal Pil i «consumi difensivi», cioè i costi dovuti al consumo del capitale naturale, agli incidenti stradali, ai crimini.

Nel regno buddista del Bhutan è nato l’indicatore della Felicità Interna Lorda che tiene conto del benessere psicologico, dell’uso del tempo e della biodiversità. Nel 1994 l’amministrazione Clinton propose una riforma, ma il Congresso la bocciò. Per loro conto le Nazioni Unite hanno iniziato nel 1994 ad elaborare l’Indice di Sviluppo Umano che considera il reddito una condizione non sufficiente. Dal 2010 in 20 paesi si sta sperimentando un nuovo indice della Ricchezza Inclusiva che cerca di calcolare il valore del capitale sociale, umano e naturale. Infine, in Italia, proprio grazie alla tenacia di Enrico Giovannini, dall’anno in corso è entrato ad accompagnare il Documento di economia e finanza il Bes (l’indice del Benessere equo e sostenibile che aggiunge al Pil una serie di indicatori non economici).

La strada per abbattere il Pil sembra ancora lunga e, secondo l’autore, non può che procedere nella misura in cui avanza concretamente, dal basso, nella società un sistema di relazioni economiche liberato dall’ossessione della crescita monetaria. Fioramonti le individua, ad esempio, in ciò che è successo in Argentina durante la crisi o in Grecia oggi: officine autogestite, sistemi di scambio non monetari, mutualità, condivisione. Vi sono gli esempi pratici di decrescita suggeriti dalle «8 R» di Serge Latouche, le esperienze delle «Transition Town» inglesi, l’ecomunicipalismo catalano, la rete delle 70 valute locali (Regiogeld) in funzione in Germania, le mille esperienze dell’Economia solidale. E molto altro ancora.

comune-info.net, 9 agosto 2017 (p.d.)



Le corporation stanno giocando con le nostre vite e con quella dell’intero pianeta. A 88 anni Noam Chomsky non attenua la critica nei confronti degli Stati Uniti e del capitale transnazionale che, spinto da un’insaziabile dinamica neocoloniale di accumulazione, non esita a depredare ogni possibile ricchezza dei popoli e della natura. In una recente conferenza a Montevideo, dove è stato invitato per girare un documentario con l’ex presidente José Mujica, il vecchio linguista non ha risparmiato le critiche rigorose quanto scomode nemmeno ai governi progressisti latinoamericani, nella migliore delle ipotesi inerti di fronte alla corruzione e all’estrattivismo. Chomsky ha poi ribadito che l’umanità ha costruito due macchine di distruzione: le armi nucleari e la catastrofe ambientale. Gli storici del futuro, ha detto, osserveranno il curioso scenario dell’inizio del ventunesimo secolo, dove per la prima volta nella storia gli esseri umani devono affrontare la prospettiva di una grave calamità che ne minaccia la sopravvivenza. La cosa assurda è che se la sono provocata da soli. E il paese più potente, quello che godeva di incomparabili vantaggi, ha fatto di tutto per accelerare il disastro.

Il pensatore anarchico statunitense Noam Chomsky, è stato ospite in queste ultime settimane, della Fundación Liber Seregni, a Montevideo in Uruguay. Ha tenuto una conferenza, accompagnato dall’ex Presidente José “Pepe” Mujica, il presidente buono, che ha sostenuto la depenalizzazione dell’aborto, il riconoscimento dei matrimoni omosessuali, i ceti meno ambienti e più disagiati. Il Pepe anti-capitalista rifiuta apertamente il modello consumistico: «La mia idea di felicità è soprattutto anticonsumistica. Hanno voluto convincerci che le cose non durano e ci spingono a cambiare ogni cosa il prima possibile. Sembra che siamo nati solo per consumare e, se non possiamo più farlo, soffriamo la povertà. Ma nella vita è più importante il tempo che possiamo dedicare a ciò che ci piace, ai nostri affetti e alla nostra libertà. E non quello in cui siamo costretti a guadagnare sempre di più per consumare sempre di più. Non faccio nessuna apologia della povertà, ma soltanto della sobrietà». Si è sentito onorato, Mujica, di poter affiancare Noam Chosmky, che ha ribadito l’urgenza di affrontare seriamente i cambiamenti climatici e il rischio di una guerra nucleare, affermando: «L’umanità ha costruito due macchine di distruzione: le armi nucleari e la catastrofe medio-ambientale».
Il linguista poi si è soffermato sul grande problema che tocca tutta l’America Latina: la nuova colonizzazione da parte delle Corporation che con le loro imprese stanno devastando i territori, affamando le popolazioni, e minacciano l’esistenza dei popoli sacri ancestrali. Solo in Colombia, a causa delle miniere, ben 40 popoli indigeni sono a rischio di estinzione. Afferma Chomsky: «L’America Latina possiede grandi ricchezze che però servono solo a dare benessere a un piccolo settore delle società e alle imprese multinazionali, il capitale transnazionale continua a rubare queste ricchezze e i governi attuali sono incapaci di cambiare questa situazione». Chomsky poi ha puntato il dito anche sulla sinistra sud-americana che non ha avuto la capacità di risolvere la “corruzione endemica”, presente in ogni luogo. «Ci sono due problemi molto importanti: uno è l’incapacità dei leader politici di sinistra di fermare i forti livelli di corruzione, l’altro problema è che alcuni paesi del continente con governi di sinistra non sono riusciti a contrastare il modello economico estrattivista delle materie prime». L’oppressione neo-liberista statunitense e delle multinazionali straniere non ha fatto che creare una struttura sociale inclinata, con forti disparità tra classi, una mancanza di uguaglianza, e una grande concentrazione di potere nelle mani di oligarchie economico-finanziarie. Ma gli Stati Uniti, per Chomsky, restano un paese incontrastato da un punto di vista militare: «Nessun altro paese ha tante basi militari nel mondo» afferma, e anche le Corporation restano prime quasi in tutti i settori, dall’energia alle telecomunicazioni: «India e Cina sono ancora molto lontane dal poter rendere opaco il potere statunitense, restano comunque essenzialmente dei paesi poveri con problemi interni molto marcati».
Gli Stati Uniti sono sordi all’allarme cambiamento climatico. Diverse multinazionali canadesi e americane sono presenti in America Latina, continuando una politica di saccheggio delle materie prime presenti sul territorio, distruzione ambientale, contaminazione delle acque, con conseguenti piogge acide. La macchina di demolizione repubblicana per Chomsky ha smantellato quelle strutture come l’Agenzia di Protezione Ambientale, persegue una politica economica selvaggia in nome del profitto e del guadagno: «Proibito parlare di cambiamento climatico. Si sono distrutti tutti gli sforzi per ridurre il consumo di combustibili fossili. Non è solamente Donald Trump, ma sono tutti i leader repubblicani. Ognuno dei candidati, senza eccezione, o nega il cambiamento climatico o afferma che questo problema potrebbe esistere, ma non bisogna fare nulla a riguardo».
In più occasioni e in varie conferenze Noam Chomsky ha lanciato l’allarme cambiamento climatico e catastrofe ambientale: «La catastrofe ambientale è una cosa molto seria. L’effetto collaterale che stanno ignorando è il destino della specie. E in questo caso nessuno la salverà. Gli storici del futuro osserveranno questo curioso scenario dell’inizio del ventunesimo secolo, in cui per la prima volta nella storia gli esseri umani hanno dovuto affrontare la prospettiva di una grave calamità provocata da loro e che minaccia la loro sopravvivenza. E noteranno che il paese più potente di tutti, che godeva di incomparabili vantaggi, ha fatto di tutto per accelerare il disastro. Il tentativo di preservare le condizione in cui i nostri discendenti potrebbero avere ancora una vita decente, invece, l’hanno fatto le società cosiddette primitive: le tribù indigene e aborigene. Le popolazioni indigene da varie parti del mondo che chiedono l’aiuto dei paesi ricchi per poter lasciare le loro riserve di petrolio sottoterra, dove dovrebbero restare. E le nazioni più civili e sofisticate ridono della loro ingenuità. È proprio al contrario dì ciò che imporrebbe la ragione, se non fosse una forma di razionalità distorta dal filtro della democrazia capitalista».
E qual è la responsabilità delle multinazionali nel futuro e nella sopravvivenza del nostro pianeta? Con la loro politica che segue la massima di Adam Smith «tutto per noi, niente per loro», i nuovi padroni dell’umanità, con le loro logiche volte al ricavo del massimo profitto, i loro istituti finanziari, le collusioni con i governi locali, e l’utilizzo di gruppi armati e paramilitari, per reprimere ogni forma di protesta e opposizione, continuano indisturbati a prelevare, ad estrarre ogni forma di materia prima dalla nostra madre terra, cambiando e modificando gli equilibri dell’ecosistema, deturpando bellezza e natura. Le conseguenze dello loro azioni indiscriminate non stanno tardando a farsi sentire. Il clima sul pianeta sta cambiando. Il riscaldamento globale si alza sempre più, cresce di anno in anno e in questo gioco, la posta è molto alta, si tratta del proseguimento della nostra specie, le multinazionali stanno giocando con le nostre vite e con la vita dell’intero pianeta.

il manifesto 30 luglio 2017 (c.m.c.)

Sarebbe un errore considerare lo scontro tra Francia e Italia sul controllo dei cantieri navali di Saint-Nazaire solo come una manifestazione della grandeur d’Oltralpe.

Quest’ultima, sia chiaro, è ben presente e rinvigorita dall’energica figura di Macron, che vuole reincarnare i tradizionali miti patriottardi, espansivi e (neo)coloniali da Napoleone Bonaparte a De Gaulle.Senza scordare che anche Mitterand non scherzava quando affermava “La France c’est l’Europe”. La vittima più prossima è spesso l’Italia, al netto della vittoria di Bartali al Tour de France del lontano ’48 (e Paolo Conte ne registrò il sempiterno risentimento francese).

L’Italia: surclassata nella geopolitica, e sul terreno del militarismo, nel Mediterraneo e in Africa. Ultimo esempio, la vicenda libica. Sbeffeggiata sul tema dei migranti, vittime predestinate di ogni litigio tra i potenti. Oggetto di shopping da parte francese in ogni campo, da quello agroalimentare a quello della grande distribuzione commerciale, da quello finanziario – bancario a quello delle telecomunicazioni. Campi strategici per il nostro interesse nazionale inclusi, come si può notare. Non desta quindi sorpresa – casomai necessità di approfondimento critico – se l’iniziativa di una minacciata nazionalizzazione, seppure temporanea, dei cantieri Stx, per bloccare il take over di Fincantieri, da parte di Macron, in spregio agli accordi fatti con Hollande (ma non sarebbe questa la novità), incontri immediatamente il plauso di Force Ouvriere e di Jean Luc Melenchon.

In realtà la vicenda va inquadrata in un contesto più ampio che vede la crisi della globalizzazione, come fin qui l’abbiamo conosciuta, con consistenti segnali di contrazione della medesima , ovvero di deglobalizzazione, sia in campo commerciale – anche in questo modo si spiega la di per sé positiva marcia indietro francese sulla Torino – Lione – sia in quello industriale, come in quello finanziario. Questo non significa che l’impresa capitalistica abbia smesso di espandersi spazialmente. Solo che vengono avanti nuovi protagonisti che cambiano il volto del capitalismo moderno. Come il cosiddetto platform capitalism che esige investimenti fissi enormemente inferiori e sfrutta il lavoro precario o addirittura servile. Su questo movimento di fondo dell’economia, fioriscono – si può dire a destra come a sinistra – varie forme di protezionismo e di nazionalismo. Trump ed epigoni ne sono il prodotto più che la causa.

Le conseguenze in Europa sono ormai evidenti. Proprio i ministri dell’economia di Italia, Francia e Germania avevano chiesto alla Commissione di Bruxelles di rivedere le regole per gli investimenti stranieri nell’Unione, soprattutto per osteggiare l’aggressività della imprenditoria asiatica. L’altro elemento che, determinando uno spostamento del baricentro economico da Ovest ad Est su scala globale, mette in crisi i precedenti presupposti della globalizzazione. Solo che così facendo la Ue ha introiettato il protezionismo. In Spagna l’acquisto di Abertis da parte di Atlantia è messo in forse.

Nella patria dell’ordoliberismo, la Germania, viene varata una legge per limitare le scalate a società e infrastrutture strategiche per evitare che la tecnologia venga catturata dal Dragone cinese.

Mentre si vuole addirittura cambiare la geografia, spostando ad esempio i confini dell’Italia fino a quelli tra Niger e Libia per bloccare i migranti, in Europa si riaprono conflitti antichi attorno agli assetti proprietari e di comando di grandi società. Nel caso in questione di Stx l’incidenza del militare nella partita industriale, complica le cose, ma non ne costituisce la motivazione esclusiva.

Per queste ragioni appare inadeguato un semplice sussulto d’orgoglio italiano, ad esempio contro il controllo francese di Vivendi su Telecom, se non è già troppo tardi. Intendiamoci, meglio di un’inerte sottomissione, visto l’effettivo carattere strategico del settore delle telecomunicazioni.

L’incontro di martedì a Roma con il ministro dell’economia francese e il bilaterale di fine settembre a Lione fra Francia e Italia servirà a poco. Il vero problema è invertire la direzione verso un’Europa a due velocità, impedire che si rafforzi dopo le urne tedesche del 24 settembre e affrontare di petto la questione delle politiche economiche, delle diseguaglianze e dei rapporti ineguali fra i paesi. In sostanza il cambiamento radicale dei Trattati.

comune.info.net, 22 luglio 2017 (p.d.)

Che cos’è l’etica? Roberto Mancini, filosofo che insegna Etica pubblica e culture della sostenibilità, ha scritto: “Etica è il nome che diamo alla fedeltà al bene. Una disposizione interiore, un criterio di scelta, uno stile di comportamento e di azione” (Eclissi dell’etica, Altrapagina, ottobre 2011). Da dove viene questa felice prerogativa umana? Dal profondo della coscienza che ci fa capire cosa è giusto e cosa è sbagliato, istintivamente, affettivamente, emotivamente. Nei bambini – sono certo – è così. Ma poi intervengono serie infinite di avvenimenti storici, ideologie, convenienze… che ci fanno credere che il bene comune dipenda da qualcosa d’altro e di diverso dai nostri singoli e specifici comportamenti. Il senso etico e la comune morale cambiano nel tempo, nei luoghi, nei diversi contesti.

Più o meno nel XVII secolo prende corpo in Europa l’etica del nostro tempo: l’etica del capitalismo, l’etica dell’utilitarismo individualista che afferma: se ognuno bada al proprio tornaconto, l’intera società ne beneficerà. L’egoismo individuale diventa virtù pubblica. In fin dei conti (lo ha ripetuto qualche secolo più tardi la signora Margaret Thatcher, credendo di essere moderna) la società non esiste: esiste solo una somma di singoli individui. Il benessere di ciascuno di loro è il benessere dell’insieme della comunità. “Arricchirsi è glorioso”, ha detto Deng Xiao Ping all’inizio delle grandi modernizzazioni che hanno portato la Cina ad essere la più grange potenza industriale. L’economia è diventata la scienza sociale più importante, perché insegna come fare ad aumentare indefinitamente le capacità produttive degli individui rendendoli ingranaggi di una megamacchina votata alla massimizzazione dei risultati.
Già John Locke (Secondo Trattato sul governo, 1662) era stato chiarissimo: “Colui che recinta un terreno e da dieci acri trae maggiore quantità di mezzi di sussistenza di quanto potrebbe trarne da cento acri lasciati allo stato naturale, dona novanta acri all’umanità”. In queste poche righe sono contenuti tutti i fondamenti teorici del sistema e dell’etica del capitalismo. L’appropriazione privata di un bene è non solo giustificata, ma esaltata in forza della ragione di un maggiore rendimento economico del bene utilizzato, di qualsiasi materia prima e fattore di produzione. Le risorse naturali, i beni comuni, comprese le popolazioni indigene insediate, non hanno alcun valore in sé (diritto di esistenza) se non generano utilità economiche tali da poter competere con i sistemi di produzione di tipo capitalistico. L’imprenditore diventa la figura sociale principale, il civilizzatore (colui che sviluppa i ritrovati della tecnica) e il benefattore a cui l’intera comunità deve riconoscere diritti di proprietà sui mezzi di produzione e maggiori quote sui benefici ridistribuiti. Ci sono tutte le premesse per la travolgente espansione del sistema di produzione capitalistico ai danni di qualsiasi altra diversa forma di organizzazione sociale.
Qualcosa, però, è andato storto. Ad un certo punto i costi della crescita economica misurata in valori monetari sono diventati maggiori (specie in campo ambientale) dei benefici sociali percepiti. Il calcolo economico ha preso il sopravvento su ogni altro tipo di valutazione della qualità delle vite personali. La concorrenza si è trasformata in feroce competizione. Il denaro da mezzo è diventato fine. L’avidità ha desertificato i sentimenti compassionevoli. L’egoismo ha riempito la psiche… Potremmo continuare, ma la Laudato si’ di Bergoglio ha reso verità a molti discorsi sulla crisi ecologica sistemica del modello sociale di sviluppo oggi prevalente (leggi anche Il Cantico che non c’era, ndr).
Per cambiare rotta serve quindi un ritorno delle ragioni etiche su quelle meramente economiche (economiciste). Semplicemente, servirebbe un ritorno alla etica della responsabilità (Hans Jonas) da parte di tutti gli operatori economici. Sulla Corporate Social Responsability (responsabilità sociale dell’impresa) si sono scritte intere biblioteche (Luciano Gallino, L’impresa irresponsabile, Einaudi, 2005). Così come sui sistemi di certificazione eco lab e sui listini specializzati delle Borse degli strumenti finanziari “etici”. Ultime comparse le Benefit Corporate. Troppo spesso si tratta di strategie di marketing per mettere a frutto il “capitale di reputazione” delle società. Era già capitato con le tecnologie green washing. Ma i cambiamenti di cui c’è bisogno non possono essere solo di facciata. Abbiamo visto che nemmeno le forme giuridiche più democratiche, come in teoria sono le cooperative e le società non profit, sono sufficienti a garantire delle buone conduzioni aziendali. I cambiamenti devono penetrare fino nei sistemi di governo sostanziali delle imprese. È necessario un processo di auto responsabilizzazione e autodisciplinamento delle imprese che devono maturare l’esigenza di dotarsi volontariamente di propri codici e carte di valori. Per sé stesse, prima che per i “clienti”. Per vivere in pace con sé stessi, prima che per non danneggiare gli altri. Come lo sono i sistemi di autocertificazione partecipata dei produttori biologici o i Bilanci del bene comune della rete delle imprese che l’hanno adottato. Come lo sono le cooperative e le fondazioni di comunità che hanno scelto di integrarsi con le popolazioni insediate in quel particolare contesto territoriale, nel solco delle intuizioni di Adriano Olivetti.
Insomma non basta pensare al prodotto (che sia buono, sano, bello …) e nemmeno al processo (economia circolare, rifiuti zero, basso impatto ambientale …), serve un’etica dell’impresa che – a prescindere dalla stessa forma giuridica adottata – sia capace di introiettare stabilmente nei suoi comportamenti i principi morali del bene comune. Non è poi una grande scoperta se pensiamo che l’articolo 42 della nostra Costituzione tutela la proprietà (quel “colui che recinta un terreno…”) solo se svolge una funzione sociale. Cioè, utile a tutti, non solo agli stakeholders più potenti.


Articolo preparato per l’incontro Etica del prodotto ed etica d’impresa, promosso a Padova il 16 luglio 2017 per Eco & Equo.
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