I veri porci sono quelli con giacca e cravatta. La chimera genetica detta «influenza suina» non è una sorpresa, Science l'aveva prevista da anni. È nata in allevamenti-industrie, ha travolto la Maginot chimica dei grandi paesi, ha beffato l'Oms. In nome del profitto
Le orde di turisti primaverili sono tornate quest'anno da Cancún con un invisibile ma sinistro souvenir. L'influenza suina messicana, chimera genetica probabilmente concepita in qualche pantano fecale di un industria di maiali, all'improvviso minaccia di portare la sua febbre in giro per il mondo. Il suo rapido propagarsi nel continente nord americano rivela una velocità di trasmissione superiore all'ultima varietà pandemica ufficialmente riconosciuta, la febbre di Hong Kong del 1968.
Rubando la scena all'assassino ufficialmente designato, l'H5N1 altrimenti conosciuto come influenza aviaria - che oltretutto ha dimostrato di mutare vigorosamente - questo virus suino costituisce una minaccia di sconosciuta magnitudo. Sicuramente, sembra meno letale della Sars del 2003 ma, essendo un'influenza, potrebbe durare molto più di questa ed essere meno incline a tornare nelle segrete caverne da cui è saltata fuori.
Dato che una normale influenza stagionale di tipo A uccide un milione di persone ogni anno, un suo anche modesto incremento di virulenza, specialmente se accoppiato con un'alta incidenza, potrebbe produrre una carneficina pari a un grande conflitto bellico. Intanto, una delle sue prime vittime sembra essere la consolante fiducia, per lungo tempo predicata dagli spalti dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che la pandemia potesse essere contenuta tramite una rapida risposta della burocrazia medica, indipendentemente dalla qualità dello stato di salute della popolazione locale. Sin dalle prime morti causate dall'H5N1 a Hong Kong nel 1997, l'Oms, con il sostegno della maggior parte dei servizi sanitari nazionali, ha promosso una strategia concentrata sull'identificazione e l'isolamento del ceppo pandemico e della sua area di contagio, cui segue la distribuzione alla popolazione di medicinali antivirali e, se disponibili, di vaccini. Un esercito di scettici ha giustamente contestato questo metodo di risposta all'insorgere di nuove minacce virali, sostenendo che i microbi sono ormai in grado di volare intorno al mondo (letteralmente, per quanto riguarda l'aviaria) più velocemente rispetto ai tempi di reazione dell'Oms o dei servizi sanitari nazionali. Sono finite sotto accuse anche le primitive, spesso inesistenti misure di sorveglianza del rapporto tra le malattie animali e umane.
Ma il mito dell'audace, preventivo ed economico intervento contro l'aviaria non è stato valutabile per colpa dei paesi ricchi, come Stati uniti e Gran Bretagna, che preferiscono investire in una loro linea Maginot biologica piuttosto che incrementare fortemente gli aiuti alle frontiere delle epidemie fuori dai loro confini. Allo stesso modo agiscono le multinazionali farmaceutiche, che combattono la domanda dei paesi del Terzo mondo di fabbricazione pubblica di antivirali generici come il Tamiflu della Roche. Ad ogni modo, è probabile che l'influenza suina dimostri che la versione Oms/Ccd (Centro di controllo sulle malattie) della preparazione contro una pandemia - senza nuovi corposi investimenti in sorveglianza, infrastrutture scientifiche e regolatorie, salute pubblica generale e accesso globale a medicinali di base - appartenga alla stessa classe di rischio del truffaldino management piramidale dei derivati della Aig o dei titoli di Madoff.
Non si tratta tanto di un fallimento del sistema di allarme della pandemia, quanto della sua completa inesistenza, persino negli Stati uniti e in Europa. Forse non sorprende che il Messico non abbia né la capacità né la volontà politica di monitorare le malattie del bestiame e il loro impatto sulla salute pubblica, ma la situazione è quasi la stessa a nord del confine, dove la sorveglianza è un fallimentare mosaico di giurisdizioni statali e le corporazioni dei commercianti di bestiame trattano la salute con lo stesso atteggiamento con cui sono soliti trattare lavoratori e animali.
Allo stesso modo, una decade di avvisi urgenti da parte di scienziati sul campo non è riuscita ad assicurare il trasferimento di sofisticate tecnologie virali al paese sulla strada diretta di probabili pandemie. Il Messico conta esperti di fama mondiale ma ha dovuto mandare i tamponi ai laboratori di Winnipeg (che ha meno del 3% ella popolazione di Città del Messico), per poter identificare il genoma del virus. Motivo per il quale si è persa quasi una settimana. Ma nessuno era meno in allerta dei leggendari controllori di Atlanta. Stando al Washington Post, il Cdc è rimasto all'oscuro dello scoppio della pandemia fino a sei giorni dopo che il governo messicano aveva iniziato ad impartire misure di sicurezza. Infatti il Post scrive: «A distanza di due settimane dal riconoscimento dell'epidemia in Messico, i funzionari dei servizi sanitari americani non hanno ancora valide informazioni a riguardo».
Non ci sono scuse. Non si tratta di un evento straordinario. Di fatto, il vero paradosso di questo panico da virus suino è che, sebbene del tutto inaspettato, era stato previsto con precisione. Sei anni fa Science aveva dedicato un lungo articolo (mirabilmente scritto da Bernice Wuetrich) per dimostrare che «dopo anni di stabilità, il virus nord-americano dell'influenza suina è entrato in una fase di rapida evoluzione».
Dalla sua identificazione all'inizio della Depressione, il virus H1N1 aveva solo leggermente deviato dal suo genoma originario. Poi, nel 1998, si è scatenato l'inferno. Una varietà altamente patogena ha cominciato a decimare le scrofe di un allevamento di maiali nella Carolina del Nord, e nuove virulente versioni hanno iniziato ad apparire quasi ogni anno, inclusa un'insolita variante dell' H1N1 che conteneva geni interni di H3N2 (l'altro tipo di influenza A che circolava tra gli umani). Ricercatori da Wuethrich, intervistati, espressero la preoccupazione che uno di questi ibridi potesse diventare un'influenza che colpiva gli umani (si ritiene che le pandemie del del 1957 e del 1958 siano state originate da una mescolanza di virus aviari e umani nei maiali) e sollecitarono la creazione di un sistema ufficiale di sorveglianza per l'influenza suina. Quell'ammonimento, naturalmente, passò inosservato in una Washington che si preparava a gettare miliardi in fantasie bioterroriste e trascurava i pericoli più ovvii.
Ma cosa ha provocato l'accelerazione di questa evoluzione dell'influenza suina? Probabilmente la stessa cosa che ha favorito la riproduzione dell'influenza aviaria. I virologi hanno a lungo ritenuto che il sistema agricolo intensivo della Cina meridionale - un'ecologia immensamente produttiva di riso, pesci, maiali e uccelli selvatici e domestici - sia il motore principale delle mutazioni influenzali: sia degli «spostamenti» stagionali sia dei «cambiamenti» episodici del genoma (più raramente può verificarsi un passaggio diretto dagli uccelli ai maiali e/o agli umani, come con l'H5N1 nel 1997).
Ma l'industrializzazione indotta dalle corporation della produzione da allevamenti ha rotto il monopolio naturale della Cina sull'evoluzione dell'influenza. Come molti autori hanno evidenziato, nei recenti decenni la zootecnia è stata trasformata in qualcosa che somiglia più all'industria petrolchimica che all'allegra famiglia contadina raffigurata nei libri di scuola. Nel 1965, ad esempio, c'erano in America 53 milioni di maiali per più di un milione di fattorie. Oggi, 65 milioni di maiali sono concentrati in 65mila strutture - la metà delle quali con più di 500mila animali. In sostanza è avvenuta una transizione dai vecchi porcili a enormi inferni di escrementi, mai visti in natura, contenenti decine, persino centinaia di migliaia di animali con sistemi immunitari indeboliti, che soffocavano nel caldo e nel letame, mentre si scambiavano agenti patogeni a velocità accecante con i loro compagni di sventura e con la loro patetica progenie.
Chiunque passi per Tar Heel, North Carolina o Milford, Utah - dove ogni partecipata di Smithfield Foods produce annualmente più di un milione di maiali, oltre che centinaia di pozze piene di merda tossica - capirebbe in modo intuitivo quanto profondamente l'agrobusiness ha interferito con le leggi della natura.
Lo scorso anno una rispettata commissione convocata dal Pew Research Center ha rilasciato un clamoroso rapporto sul tema «produzione animale in allevamenti industriali», sottolineando il grosso rischio che «i continui cicli di virus in larghe mandrie aumenteranno le possibilità di generazione di nuovi virus attraverso mutazioni o ricombinazioni che potrebbero risultare in una più efficiente trasmissione uomo-uomo». La commissione ha anche avvertito che l'uso promiscuo di diversi antibiotici negli allevamenti suini (alternativa meno costosa di un sistema di drenaggio o di ambienti più umani) stava causando l'aumento di resistenti infezioni da stafilococco, mentre le perdite fognarie producevano esplosioni da incubo di Escherichia Coli e Pfisteria (l'apocalittico protozoo che uccise più di un milione di pesci negli estuari della Carolina e fece ammalare decine di pescatori).
Tuttavia ogni tentativo di migliorare questa nuova ecologia patogena è destinato a scontrarsi con il mostruoso potere esercitato dai conglomerati dell'allevamento come Smithfield Foods (maiale e manzo) e Tyson (pollo). I commissari della Pew, guidati dall'ex governatore del Kansas John Carlin, hanno raccontato di sistematiche ostruzioni alle loro ricerche da parte delle corporation, comprese sfacciate minacce di far ritirare i finanziamenti ai ricercatori.
Inoltre questa è un'industria altamente globalizzata, con equivalente peso politico internazionale. Come il gigante thailandese del pollame Charoen Pokphand riuscì a sopprimere le inchieste sul suo ruolo nell'espansione dell'influenza aviaria attraverso il sudest asiatico, allo stesso modo è probabile che l'epidemiologia forense dell'esplosione della febbre suina vada a sbattere la testa contro le mura di pietra dell'industria delle costolette.
Non vuol dire che la «pistola fumante» non sarà mai trovata: c'è già del gossip sulla stampa messicana circa un epicentro dell'influenza intorno a una gigantesca sussidiaria della Smithfield Foods nello stato di Veracruz. Ma ciò che importa di più (specialmente a causa della continua minaccia costituita da H5N1) è il quadro più ampio: la fallita strategia anti-pandemie dell'Organizzazione mondiale della sanità, l'ulteriore declino della salute pubblica mondiale, il ferreo controllo di Big Pharma sui farmaci vitali e la catastrofe planetaria di un allevamento industrializzato e ecologicamente disordinato.
Il caso italiano è esemplare. In ogni assemblea di Confindustria, in ogni convegno dei Giovani Imprenditori (che in Italia sono in gran parte figli di industriali e dunque rappresentanti di dinastie) per anni si è denunciato l’alto costo del lavoro, presentato come il peggior ostacolo alla competitività. Solo molto più tardi e senza clamori, senza la minima autocritica da parte dei focosi antagonisti del lavoro, è diventata nota e pubblica la verità: i salari italiani sono da decenni i più bassi d’Europa.
Eppure presidente, responsabili dell’ufficio studio e notabili di Confindustria sono considerati dai media le voci più autorevoli e competenti sulla questione, mentre i media dipingono i sindacati a turno come infidi, settari, estremisti. Sugli stessi sindacati, rimasti ormai isolati nella difesa dei lavoratori, vengono riversate accuse di privilegio, di improprio vantaggio, e se ne reclama la tassazione. (...) Alla presidente di Confindustria preme avallare due concetti. Il primo: licenziare è in sé un bene. Marcegaglia non sa se ci sono troppi maestri e se ha valore il taglio di 87mila cattedre. Ma nel suo mondo "sfoltire" è sempre una buona idea: aumenta il potere dei capi e la paura dei sottoposti. Il secondo: licenziare introduce la parola "merito", fondamentale in un’industria di padri e figli, in cui gli altri devono meritare anche la più piccola parte di quello che loro hanno semplicemente ereditato.
Un mondo di sottocultura sente gratitudine profonda e istintiva per il profeta Renato Brunetta, il primo a scoprire la turpe razza dei fannulloni. Più che alla sociologia del lavoro, i fannulloni sembrano far parte di personaggi della commedia all’italiana. Sono mostri che, nonostante l’eroismo del ministro per la Pubblica amministrazione e l’innovazione, Brunetta, nella vita vera nessuno è ancora riuscito ad acciuffare ed esporre alla pubblica gogna.
(...) Il vero obiettivo di Brunetta non è portare giustizia e meritocrazia nella pubblica amministrazione. Il vero obiettivo è un altro: denigrare il lavoro, umiliarlo, ridicolizzarlo e sbugiardarlo, mostrare il lato infido e un po’ ignobile dei lavoratori pubblici. I lavoratori sono profittatori, questuanti che, se non hanno lavoro, scendono in piazza; se lo hanno, si lamentano della precarietà e vogliono - oggi, nel mondo dell’informatica, della finanza e delle banche on-line - il posto fisso come nell’Ottocento. E se hanno il posto fisso non lavorano, o almeno non dimostrano di aver meritato il proprio compenso, anche se raramente supera i 1000 euro. (...)
GESTI DA KING KONG
Ci troviamo di fronte a una sottocultura primitiva, che si estende dalla manager Emma Marcegaglia al docente universitario Renato Brunetta, e lo prova il modo rozzo ed elementare con cui vengono "afferrati" i grandi problemi. Con gesti da King Kong in cima al grattacielo, la Marcegaglia approva con slancio il ritorno al maestro unico senza chiedersi che conseguenza potrà avere l’improvviso cambiamento su insegnanti e bambini. Un solo, o una sola docente a spiegare italiano, matematica, inglese, storia e scienze, e tutto in classi multietniche, ovviamente senza insegnanti di sostegno per i bambini portatori di handicap, tra alunni in divisa, tenuti in riga dalla minaccia del 5 in condotta.
Il presidente di Confindustria esulta per la cancellazione di 87mila posti di lavoro; afferma, con automatismo padronale, che gli insegnanti sono troppi; non sa e non chiede quanti bambini dovrà seguire adesso un maestro solo. Più di venti per ogni classe? Meno di venti? Si arriva a trenta? Ma forse questo non fa differenza nel mondo competitivo del merito e dell’efficienza.
Pensate a un ministro della Pubblica amministrazione e dell’innovazione, che divide il mondo in due. Da una parte vede funzionari ossessivi degni dell’eroe sovietico Stachanov o dell’indimenticato protagonista del film polacco L’uomo di marmo, dall’altra infidi fannulloni che si nascondono, da "furbi", dietro familiari menomati da handicap.
Provate adesso a tracciare una linea che unisca questi due mondi, il privato della Marcegaglia e il pubblico di Brunetta. Troverete una cultura che disprezza il lavoro, che respinge chi osa chiedere di più e, con l’aiuto dei media, mette in cattiva luce chi lo difende, spostando su di esso tutta la responsabilità della crisi di un paese privo di ricerca, di progetti, di prospettive. C’è una classe imprenditoriale che da decenni esige meno tasse, meno costi per il lavoro; ma non condivide mai i risultati economici, a volte clamorosamente buoni.
La "nuova" politica del settore pubblico è basata su una verità tanto sbandierata dal ministro: "C’è gente che lavora? Non credeteci, mentono".
Tre parole vengono usate come se fossero, allo stesso tempo, formula organizzativa perfetta e prova di rettitudine morale. Tre parole destinate a essere l’"Apriti Sesamo" imprenditoriale italiano, formula magica capace di rilanciare le imprese e provocare all’istante una buona economia: "competitività", "produttività", "merito".
Per la cultura imprenditoriale del mondo industriale, la "competitività" è un motore potente, un vanto al quale ogni impresa aspira per se stessa, cercando di distinguersi nel settore in cui opera. Ma in Italia la competitività dà adito - nelle imprese - a un doppio lamento, diventa una rete buttata su un animale focoso per rallentarne la corsa. È il lamento fatto di tasse troppo alte e di stipendi troppo costosi. La spesa pubblica e l’esosità dei lavoratori iperprotetti sono due parassiti che si mangiano i profitti, divorano gli investimenti, frustrano la scelta di fare impresa.
La "produttività", come qualunque scuola di management insegna, è frutto della buona progettazione come disegno e della buona organizzazione come gestione. Ne sono responsabili i manager alti per quanto riguarda i piani di produzione, i manager intermedi per i risultati presentati trimestre dopo trimestre, mese dopo mese e giorno per giorno. L’autonomia produttiva del singolo lavoratore è un tassello troppo piccolo per poter migliorare o peggiorare la produttività di tutta un’impresa. Eppure non si conosce convegno in cui, invece di discutere della produttività a partire dalla proprietà dell’impresa e dai suoi vertici, non se ne addossi la responsabilità ai lavoratori. Non c’è discussione sul rinnovo dei contratti in cui non si torni a proporre come buono, sensato, realistico e possibile, il legame consequenziale tra aumento dei salari e crescita della produttività.
IL MIRACOLO
Come fa l’operaio a provocare questo miracolo? Diventando forse attivista, mobilitando i colleghi, accordandosi con loro ("Dai ragazzi, diamoci dentro!") o seguendo scrupolosamente il piano della fabbrica pur sapendo che non è abbastanza produttivo? Il "merito" e il ritorno alla meritocrazia sono forse il più sfacciato e offensivo slogan del nuovo manifesto aziendale e morale. Come fa un operaio a meritare più del dovuto, secondo le regole e secondo il contratto? L’unica risposta è lo straordinario, e la sua detassazione. Il "premio" per chi fa più fatica per più ore di lavoro, in certi casi anche rischiando di più. Questo premio serve a stimolare chi lavora a lavorare oltre l’orario stabilito e, dunque, a evitare nuove assunzioni. È progresso o un espediente manageriale e padronale che raschia il barile della fatica umana? L’intento, comunque, è di tenere in pugno il lavoro, generare diffidenza, isolamento, paura, accrescendo il rischio, perché le precauzioni contro i pericoli rallentano il lavoro e certo non giovano alla competitività, non aumentano la produttività e non si prestano a essere esibite come merito. Come vedete, non è un percorso di civiltà. Ma è ciò che oggi accade in Italia.
Il destino incerto della democrazia. È questo il tema attorno al quale ruota l'iniziativa in corso a Torino, che non a caso ha come titolo "Biennale democrazia". Tema articolato in più sessione, attraverso "parole chiave" che hanno accompagnato la discussione sullo stato di salute dei sistemi politici appunto democratici. Il multiculturalismo, il potere pervasivo dei media, ma anche i rischi che la attuale crisi economica possa determinare la crescita di un populismo che in nome del popolo limita libertà civili, politiche e ridimensiona ulteriormente i diritti sociali. L'economista indiano Prem Shankar Jha è stato invece chiamato a discutere di quel "caos" originato dalla crisi economica e di come quel caos possa accelerare la crisi della democrazia.
Prem Shankar Jha è, oltre che uno studioso, anche un noto commentatore dell'economia mondiale da una prospettiva, quella dell'India, cioè di una nazione considerata l'esempio vivente di una nazione che è potuta crescere economicamente grazie a quella deregolamentazione dei mercati che ha caratterizzato il cosiddetto neoliberismo. Tesi che lo studioso indiano ha più volte contestato, come d'altronde dimostra il ponderoso volume Caos prossimo venturo pubblicato da Neri Pozza lo scorso anno. Un libro che prevedeva l'eclissi del neoliberismo. Prem Shankar Jha sarà oggi a Torino, dove terrà una "lezione" proprio sulla realtà originata dalla crisi, prefigurando ancora anni di "caos", indipendentemente da quanto sostengono alcuni commentatori sulla fine della crisi economica.
Capitalismo e democrazia. Due termini spesso in conflitto, nonostante la retorica sulla loro indissolubilità. Cosa ne pensa di questa "querelle"?
Storicamente, la democrazia politica è stata voluta dalla borghesia per contrastare il potere dei proprietari terrieri e dell'aristocrazia. Poi è stata usata dal movimento operaio per contrastare il potere del capitale, dando vita all'intensa, seppur breve stagione dei diritti sociali. Stagione tuttavia che ha reso la democrazia e il capitalismo come realtà in conflitto. Per me, sono da considerare come fratelli siamesi. Aggiungo, però, che stiamo parlando di un contesto molto preciso, quello dove lo stato-nazione esercitava la sovranità sulla nazione. La globalizzazione ha lentamente ridimensionato, se non distrutto lo stato-nazione. C'è stata l'unificazione dei mercati nazionali in un unico, grande mercato, mentre le imprese manufatturiere e finanziarie sono diventate globali e profondamente antidemocratiche. Ogni azione politica deve essere quindi globale, come le imprese. È questa la cornice antro la quale agire politicamente per ridimensionare il potere del capitale e per sviluppare l'equivalente globale di ciò che è stato il welfare state.
In "Caos prossimo venturo", lei sosteneva che la crisi dell'economia mondiale era una probabilità che non poteva essere esclusa. Il bailout delle borse ha drammaticamente confermato la sua analisi. Alcuni studiosi e economisti, come Immanuel Wallerstein, ora scrivono che la crisi attuale possa coincidere con la fine del capitalismo e con lo sviluppo di una economia di mercato senza capitalisti. Tesi molto provocatoria, non crede?
Inviterei alla cautela. È difficile infatti pensare una economia di mercato senza la proprietà privata. Più realisticamente il nodo da sciogliere è come affrontare la crisi e nessuno ha ricette pronte. Durante il cosiddetto ciclo neoliberista abbiamo assistito al divorzio tra stato-nazione e l'attività economica, fattore che ha messo fine all'"alleanza" tra il potere politico e le imprese. La crisi, invece, ripropone con urgenza un rinnovato controllo e regolazione nella circolazione dei capitali e della finanza; assieme a un maggiore rigore nella certificazione dei bilanci delle imprese. Infine, la crisi economica può favorire un cambiamento negli assetti proprietari delle imprese, come imprese a capitale misto pubblico e privato; oppure forme inedite di proprietà "sociale". Più che fine del capitalismo parlerei quindi di una trasformazione del capitalismo.
Green economy: è la parola magica per uscire dalla crisi. Lo dicono e scrivono in tanti. Il personaggio più noto a usarla è il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, il quale ha illustrato la sua azione per favorire lo sviluppo di uno sviluppo economico sostenibile e compatibile con l'ambiente. Una lieta novella, non crede?
L'"economia verde" è proprio una parola magica, proprio come lo fu carbone in un mondo dove il vento e l'acqua costituiscono le uniche potenze energetiche usate nell'attività produttiva nel diciassettesimo secolo. Le stesse speranze sulla possibilità di uno sviluppo economico duraturo sono state rinnovate con il petrolio agli inizi del Novecento, il motore a scoppio, fino all'ultimo prodotto, il computer, che doveva, al pari degli altri esempi che ho fatto, garantire lo sviluppo ecconomico. Per il momento, tuttavia non ci sono tecnologie "ambientaliste" che possono essere sfruttate economicamente, cioè che possono fare da traino alle attività produttive. Quindi ci sarà un'"economia verde" solo quando si creeranno le condizioni che hanno portato il carbone, il motore a scoppio, il petrolio, l'automobile e il computer a essere fattori energetici e prodotti che potevano essere usati o prodotti secondo precisi requisiti economici e altrettanti prevedibili profitti. Allo stato attuale, per quanto riguarda le fonti energetiche non c'è infatti nessuna "vera" alternativa al petrolio. Né esistono al momento attività produttive che possono sostituire quelle attuali.
Il neoliberismo ha alimentato la crescita di forti diseguaglianze sociali, proprio quando veniva alimentata la speranza che la ricchezza avrebbe trovato nel mercato uno straordinario strumento di redistribuzione. Lei, invece, ha spesso sostenuto il contrario, cioè che l'essenza dell'economia mondiale erano proprio le diseguaglianze sociali. In questo mondo in fibrillazione c'è chi guarda alla crisi come a una possibilità per politiche sociali più egualitarie....
Quest'ultima è proprio un'opinione bizzarra basata su un errore logico che scambia le coincidenze con la causalità. Potrebbe certo accadere che una società industriale privilegi politiche sociali più eque. Ma viviamo in un'economia di mercato dove le differenze di reddito determinano disparità nel consumo, nel mercato del lavoro e precarietà nei rapporti di lavoro. È quindi auspicabile la presenza di interventi politici tesi a ridurre le diseguaglianze sociali. Ma per questo serve limitare il potere delle imprese e favorisca la redistribuzione della ricchezza. Non vanno però nascoste le difficoltà che incontrerebbe tale azione politiche in un mondo globalizzato che vede la messa all'angolo degli stati nazionali, il luogo e il contesto cioè dove far crescere gli interventi politici necessari per ridurre le diseguaglianze sociali. Questo non significa che non bisogna comunque provarci. Lo ripeto: la necessità di una regolamentazione dell'economia è necessaria anche perché l'economia e la finanza lasciate libere di fare ciò che volevano hanno determinato questa crisi.
Voce autorevole nel dibattito internazionale, Loretta Napoleoni ha una biografia che sembra una sintesi della globalizzazione: università e nessuna prospettiva di lavoro in Italia negli anni '70, nel '79 un master negli Stati uniti - "sono un'emigrata, non un cervello in fuga, me ne sono dovuta andare dall'Italia contro la mia volontà, niente di glamour" -, negli anni '80 due esperienze di lavoro a Budapest per il Fondo monetario internazionale e nella City di Londra per una banca russa, nel '93 una consulenza per la Berd (la banca europea deputata alla transizione dei paesi dell'est verso l'economia di mercato) poi abbandonata per contrasti politici, nel 2005 la presidenza del gruppo di lavoro sull'economia terrorista per il Club de Madrid. E nel frattempo la specializzazione alla London School of Economics, le collaborazioni con El Pais, Le Monde, The Guardian, Internazionale, L'Unità, Repubblica, due saggi - Economia canaglia e I numeri del Terrore, Il Saggiatore - tradotti in quattordici lingue, e perfino due romanzi.
L'ultimo nato, per l'editore Chiare Lettere, si intitola La morsa e in questi giorni è oggetto di un lancio mediatico imponente, e per una volta meritato, al quale volentieri ci associamo. E' un libro che mette coraggiosamente i piedi nel piatto delle ragioni inconfessate della crisi economica mondiale, argomentando con dovizia di dati la seguente tesi: all'origine della crisi non c'è un estemporaneo impazzimento della finanza, c'è una follia politica che comincia dopo la caduta del Muro di Berlino e raggiunge l'apice nella guerra al terrorismo di Bush, finanziata con l'abbattimento dei tassi d'interesse e legittimata con l'uso della paura e l'illusione dell'arricchimento facile.
Quanto al futuro, due prescrizioni obbligatorie: dire addio al consumismo sfrenato e farla finita con le classi dirigenti che ci imbrogliano e con la nostra creduloneria verso le favole che ci raccontano. Chi teme un indigesto tomo per specialisti si tranquillizzi: si tratta di un racconto avvincente e tagliente ambientato nelle location più sintomatiche del mondo globale, dalla New York scintillante di Clinton e impaurita di Bush alla Londra dei personal shopper, dal parco giochi di Las Vegas agli hotel a sette stelle di Dubai. Meglio di un film. Abbiamo cominciato a discuterne durante un Faccia a faccia a Radio Tre mercoledì scorso e continuiamo qui.
La morsa che secondo te sta soffocando l'economia e la democrazia occidentale è quella fra la paura del terrorismo e la bolla speculativa innescata dalla guerra al terrorismo: in sintesi, Al Quaeda ci ha distratti mentre Wall Street ci derubava. E' un'ipotesi che conquista, mettendo a contatto la nostra esperienza del disastro politico mondiale successivo all'11 settembre con quella del disastro economico attuale. Ma fa luce anche su dinamiche poco esplorate del periodo fra l''89 e il 2001, gli anni ruggenti della globalizzazione. Quali sono i passaggi principali di tutta questa vicenda?
Lo snodo cruciale è la politica economica con cui Bush risponde all'attacco alle Torri gemelle: un abbattimento precipitoso e aggressivo dei tassi d'interesse - dal 6% di fine 2001 all'1,5% della primavera 2003 - che serve a finanziare senza drenaggio fiscale le guerre in Afghanistan e in Iraq e a legittimarle, creando le condizioni per la bolla speculativa e alimentando contemporaneamente una bolla di consenso basata sulla crescita continua.
Con la vendita e la cartolarizzazione dei mutui subprime, la bolla finanziaria crescerà a dismisura, fino a esplodere sei mesi fa nella recessione che sappiamo. Dunque le responsabilità economiche e politiche di Bush sono enormi. Tuttavia questa politica economica non comincia con lui ma con Greenspam, negli anni '90, per garantire agli Stati uniti la guida del processo di globalizzazione innescato dalla caduta del Muro facilitando la deregulation. Ogni volta che sul mercato globale si prospetta una crisi - la crisi del rublo, del dot.com, dei mercati asiatici, della Turchia, del Messico - Greenspam taglia i tassi e pompa il credito, proteggendo Wall Street, la City di Londra e tutta la finanza occidentale da un'onda che in tal modo la sfiora ma non la travolge. Le crisi restano regionali, la finanza occidentale ci specula sopra, ma la crisi di sistema non viene scongiurata, viene solo rinviata.
Finché il meccanismo salta: stavolta la crisi è globale, ed epocale. Chiude l'epoca cominciata nell'89 e culminata nella guerra al terrorismo.
Che cosa succede nel frattempo nell'altro campo, quello del terrorismo internazionale? Il tuo libro dà molto rilievo alle dinamiche della finanza islamica.
La finanza islamica nasce negli anni 70, dopo la prima crisi del petrolio, ma resta allo stato embrionale fino all'ingresso di Cipro nell'area dell'euro, quando Dubai diventa uno snodo finanziario cruciale fra Est e Ovest. L'impulso decisivo per il grande salto, però, lo riceve anch'essa, per una strana eterogenesi dei fini, dalla guerra americana al terrorismo. Il Patriot Act, la famosa legge antiterrorismo varata dal Congresso all'indomani dell'11 settembre, oltre a limitare pesantemente le libertà civili conteneva delle norme contro il riciclaggio del danaro sporco, volte a bloccare l'ingresso negli Stati uniti di soldi di Al Quaeda. Il sistema bancario internazionale reagì suggerendo ai clienti di disinvestire in dollari e investire in euro. Ma una parte dell'ingente flusso di danaro che uscì dagli Usa era fatto di capitali arabi - 900 miliardi di dollari, prima dell'11 settembre - , che non furono reinvestiti in euro ma rimpatriati nei paesi d'origine, soprattutto in Malesia e a Dubai, dando così impeto alla finanza islamica. Tutto questo è avvenuto nella più completa ignoranza e sottovalutazione da parte degli Stati uniti, che non solo non ne sapevano nulla prima dell'11 settembre, ma dopo si guardarono bene dal seguire le piste finanziarie per indagare e combattere Al Quaeda.
Eppure all'epoca si disse che era la prima pista da seguire, come mai non fu fatto?
Perché quello che importava a Bush non era affatto catturare Osama Bin Laden, ma scatenare la "guerra al terrore" per invadere l'Iraq, dove Al Quaeda non c'era, e mettere in atto a partire dal "Grande Medioriente" il progetto di dominio globale degli Stati uniti delineato dai neoconservatori. Risultato: il sogno di Bin Laden di dissanguare il capitalismo occidentale si è realizzato, per merito non suo ma dei governi occidentali.
La finanza islamica è diversa da quella occidentale? In che cosa?
Completamente diversa, perché poggia sul codice etico della Sharia che vieta la speculazione: il danaro non può essere usato per creare danaro, il credito viene concesso solo per finanziare delle imprese produttive. E il rapporto fra banca e cliente è un rapporto solidale, di due soci in affari. Questi due elementi hanno tenuto la finanza islamica fuori dal business dei mutui subprime. Da noi invece si vende il rischio come se fosse un bene, e le banche non hanno più nulla di un'istituzione sociale, sono diventate solo aziende a fini di lucro.
Tu hai studiato l'economia criminale. Che ruolo hanno avuto le mafie nell'incubazione di questa crisi, e che ruolo possono giocare ora che è esplosa?
Un ruolo enorme in entrambi i casi. Dubai è cresciuta negli anni 90 anche come paradiso fiscale della mafia russa. Dopo il Patriot Act, la 'ndrangheta si è avvalsa del trasferimento del business del riciclaggio dagli Stati uniti all'Europa. E oggi, la crisi è di sicuro una grande occasione per l'economia criminale, come insegna la storia della mafia americana dopo il '29. Quando non c'è né liquidità né credito, un'economia come quella mafiosa basata sui contanti ha un enorme potere di penetrazione ed è pronta a soccorrere le imprese che le banche abbandonano. Inoltre, in tempi di crisi il controllo politico si abbassa: non si bada troppo alla provenienza dei soldi, pecunia non olet. Infatti al G20 s'è parlato dei paradisi fiscali degli evasori, ma non di quelli del crimine organizzato.
In "Economia canaglia" hai analizzato il mercato del sesso come ingrediente importante della globalizzazione. C'è una relazione fra questo mercato e quello dell'economia criminale?
Sì, strettissima. Dopo l''89 l'industria del sesso in Occidente è diventata un immenso business a cui partecipano e attraverso cui sono entrate in contatto le mafie europee, quella russa e quella americana.
Negli anni passati hai seguito la transizione degli ex paesi dell'Est all'economia di mercato. Come li vedi in questa crisi?
E' uno dei punti fragili dell'Europa, ed è un punto potenzialmente esplosivo anche per le banche europee che hanno investito molto nell'ex Est: un collasso del mercato immobiliare lì avrebbe conseguenze molto negative qui. Per ora la situazione è sotto controllo perché l'Europa è intervenuta, ma il problema è fino a quando continuerà ad aiutarli, e come. Non vedo alternative al quantitative easing, la creazione di moneta apposita da immettere in questi paesi, anche se per ora la Bce esita di fronte ai rischi di inflazione.
Questa crisi penalizzerà, com'è sempre accaduto, più le donne che gli uomini?
Stavolta pare di no: negli Usa sta producendo disoccupazione più maschile che femminile, colpendo un settore prevalentemente maschile come la finanza. E' un dato interessante, un'inversione di tendenza rispetto al passato.
Ma se il tracollo di oggi ha avuto un'incubazione lunga come quella che tu descrivi, perché nessuno ha suonato l'allarme prima? Gli economisti non hanno nessuna responsabilità? E l'informazione? Abbiamo ballato tutti sul Titanic, sottovalutando quello che si preparava?
Va detto intanto che negli anni '90 tutti gli economisti sono finiti a lavorare in finanza, e osservare un fenomeno da dentro è molto diverso che osservarlo da fuori. Salvo poche voci isolate e inascoltate, ha prevalso una euforia della globalizzazione che ha convinto tutti dell'infallibilità del modello occidentale. Fatto sta che oggi, di fronte alla crisi del modello infallibile, non abbiamo una teoria economica alternativa! Quanto all'informazione, ha fatto solo da eco alle favole dei politici e degli uomini di finanza. Mi rendo conto che oggi i giornalisti non hanno tempo di approfondire nulla, ma possibile che nessuno guardi a un orizzonte di lungo periodo?
In attesa della teoria alternativa, proviamo almeno a ipotizzare qualche rimedio. Come se ne esce? Obama, secondo te, ha preso la strada giusta?
Primo rimedio: per uscirne dobbiamo prendere in considerazione tutto, Marx, Keynes, la teoria della decrescita, tutto quello che ci può aiutare, senza farci appannare da veli ideologici. Secondo: il consumismo sfrenato e la finanza cosiddetta creativa, che io preferisco chiamare finanza degli effetti speciali, ci ha portato a questo disastro: fermiamoci. Terzo: il protezionismo, che si associa sempre al nazionalismo, al populismo e agli arroccamenti identitari e razzisti, sarebbe un rimedio peggiore del male. Questa è una delle ragioni per cui nutro dei dubbi sulla strategia anticrisi di Obama, che non mi pare esente dal virus protezionista.
E le altre ragioni?
Non mi convince una risposta alla recessione che invece di porsi il problema di azzerare il rischio si limita a trasferirlo dal settore privato allo Stato, salvando il sistema bancario: ci vedo un tentativo di ripristinare lo status quo ante, un palliativo che non aggredisce il male alla radice. Per aggredirlo davvero bisogna cambiare più radicalmente strada, cominciando a infrangere tre miti: quello del rischio come bene commerciabile, quello del consumo invece della produzione come motore dell'economia, quello degli immobili come generatori automatici di ricchezza. Bisogna rilanciare la produzione riconvertendola. E soprattutto bisogna che noi cittadini ricominciamo a vigilare su quello che politici e banchieri ci raccontano, e su quello che non ci raccontano: la crisi non è affatto superata e può riservarci ancora brutte sorprese.
Quello che viene impropriamente chiamato «gruppo dei venti» (G20) si è riunito a Londra il 2 aprile 2009 per discutere su come salvare il sistema finanziario globale. È troppo tardi. La prova è che non abbiamo le risorse per salvare questo sistema - neanche se volessimo. È diventato «troppo grande da salvare» (non «troppo grande per fallire», come si dice per giustificare il soccorso ai colossi bancari, ndt): il valore degli assets finanziari globali supera di parecchie il Prodotto interno lordo (Pil) globale. La vera sfida non è salvare questo sistema, ma definanziarizzare le nostre economie, come premessa per superare il modello attuale di capitalismo. Perché mai il valore degli assets finanziari dovrebbe ammontare quasi al quadruplo del Pil complessivo dell'Unione europea, e ancor più per quanto riguarda gli Usa? Che vantaggio hanno i comuni cittadini - o il pianeta - da questo eccesso?
La domanda si risponde da sola. Esplorare più a fondo i meccanismi nascosti del sistema finanziario che ha portato il mondo a questa crisi significa anche intravedere un futuro oltre la finanziarizzazione. Il compito che il G20 dovrebbe affrontare non è salvare questo sistema finanziario, ma cominciare a definanziarizzare le principali economie in misura tale che il mondo possa andare verso la creazione di un'economia «reale» capace di garantire sicurezza, stabilità e sostenibilità. C'è molto lavoro da fare.
La logica
Una caratteristica specifica del periodo iniziato negli anni '80 è l'uso di strumenti estremamente complessi, tesi a nuove forme di accumulazione originaria, per cui i soldi dei contribuenti sono l'ultima frontiera da sfruttare. Le imprese globali che esternalizzano centinaia di migliaia di posti di lavoro nei paesi a basso reddito hanno dovuto sviluppare modelli organizzativi complessi, facendo ricorso a esperti estremamente costosi e abili. A quale scopo? Poter contare su più lavoro possibile al prezzo più basso possibile, compreso il lavoro non qualificato che sarebbe poco remunerato anche nei paesi sviluppati. L'elemento insidioso è che i milioni di centesimi risparmiati si traducono in guadagni per gli azionisti.
La finanza ha creato strumenti finanziari sofisticati per spremere i magri guadagni delle famiglie a reddito modesto offrendo credito per beni superflui, e (ancor più grave) promettendo loro la proprietà una casa. Lo scopo era assicurarsi il maggior numero possibile di titolari di carte di credito e di mutui, per adescarli agli strumenti d'investimento. Non importa poi che i mutui o le carte di credito siano onorati: quel che conta è assicurarsi un tot di prestiti da trasformare in «prodotti d'investimento». Una volta creato il meccanismo, l'investitore non dipende più dalla capacità individuale di ripagare il prestito o il mutuo. L'uso di queste sequenze complesse di «prodotti» ha consentito agli investitori di accaparrarsi profitti di migliaia di miliardi di dollari alle spalle di persone dal reddito modesto. Ecco la logica della finanziarizzazione, diventata dominante dall'inizio dell'era neoliberista, negli anni '80.
Così negli Stati Uniti - vivaio per queste forme di accumulazione originaria - ogni giorno 10.000 proprietari di casa, in media, perdono la propria abitazione perché pignorata. Si stima che nei prossimi quattro anni, negli Stati Uniti, da 10 a 12 milioni di famiglie non saranno in grado di pagare il mutuo; alle condizioni attuali perderebbero la casa. E' una forma brutale di accumulazione originaria: di fronte alla possibilità (quasi sempre solo immaginaria) di possedere una casa, molte persone a basso reddito porranno a garanzia i loro magri risparmi o guadagni futuri.
Questo tipo di complessità mira a estrarre valore aggiunto ovunque sia possibile: dai piccoli e modesti, e dai grandi e ricchi. Questo spiega perché il sistema finanziario globale è in crisi permanente. A dire il vero, il termine «crisi» è fuorviante: quello che succede è più vicino al business as usual, è il modo in cui funziona il capitalismo finanziarizzato nell'era neoliberista.
A partire dagli anni '80, la finanziarizzazione di sempre più vasti settori economici è diventata sia un segno del potere di questa logica finanziaria, sia un segno del suo auto-esaurimento. Quando tutto è finanziarizzato, la finanza non può più estrarre valore. Ha bisogno di settori non finanziarizzati su cui basari. L'ultima frontiera è il denaro dei contribuenti: che è denaro reale, alla vecchia maniera, non (ancora) finanziarizzato.
Il limite
La specificità della crisi attuale sta proprio nel fatto che il capitalismo finanziarizzato ha raggiunto i limiti imposti dalla sua stessa logica. Ha avuto successo nell'estrarre valore da tutti i settori economici attraverso la loro finanziarizzazione. Ha permeato una parte così grande di ogni economia nazionale (specie nel mondo altamente sviluppato), che le aree dell'economia da cui può ancora estrarre capitale non finanziario sono diventate troppo ridotte, e non possono fornire sufficiente capitale per salvare il sistema finanziario nel suo insieme.
Per esempio: nel settembre 2008 - mentre la crisi esplodeva con il crollo di Lehman Brothers - il valore globale degli assets finanziari (cioè: indebitamento) nel mondo intero era di 160.000 miliardi di dollari: ovvero tre volte e mezzo il Pil globale. I soldi disponibili non bastano per salvare il sistema finanziario.
Prima che l'attuale «crisi» esplodesse, il valore degli assets finanziari negli Usa aveva raggiunto il 450% del Pil, vale a dire quattro volte e mezzo il Pil totale (vedi «Mapping global capital markets», McKinsey Report, ottobre 2008). Nell'Unione europea, esso ammontava al 356% del Pil. Più in generale, il numero dei paesi dove gli assets finanziari superano il valore del Pil è più che raddoppiato, da 33 nel 1990 a 72 nel 2006.
Inoltre nell'ultimo decennio il settore finanziario è cresciuto in Europa più in fretta che negli Stati Uniti, soprattutto perché è partito da un livello più basso: il suo tasso composto di crescita annuale negli anni 1996-2006 è stato del 4,4%, a fronte del 2,8% per gli Stati Uniti.
Neanche le economie capitalistiche - tralasciando se questo sia più o meno desiderabile - hanno bisogno di assets finanziari quattro volte il valore del Pil. Anche in una logica capitalistica, finanziare ancora il settore finanziario per risolvere la «crisi» finanziaria non funzionerà: non farebbe altro che accrescere il vortice della finanziarizzazione delle economie.
Le proporzioni
Un altro modo di leggere la situazione è attraverso i diversi ordini di grandezza del sistema bancario e di quello finanziario. Nel settembre 2008, il valore degli assets bancari ammontava a svariate migliaia di miliardi di dollari; ma il valore totale dei Cds (credit-default swaps) - la goccia che ha fatto traboccare il vaso - ammontava a quasi 60.000 miliardi di dollari. Si tratta di una somma maggiore del Pil globale. Quando i debiti sono venuti a scadenza, i soldi non c'erano. Più in generale - e ancora una volta, per dare un'idea degli ordini di grandezza che il sistema finanziario ha creato a partire dagli anni '80 - il valore totale dei derivati (una forma di indebitamento, e lo strumento finanziario più comune) era di oltre 600.000 miliardi di dollari. Questi assets finanziari sono cresciuti molto più rapidi di ogni altro settore economico (Gillian Tett, «Lost through destructive creation», Financial Times, 9 marzo 2009).
Il livello del debito negli Stati Uniti oggi è più alto che durante la Grande Depressione degli anni '30. Nel 1929 il rapporto debito-Pil era all'incirca del 150%; nel 1932 era cresciuto al 215%. Nel settembre 2008, lo scoperto per l'indebitamento relativo ai Cds - un prodotto made in America (e, ricordiamolo, è solo un tipo di debito) - corrispondeva a più del 400% del Pil. In termini globali, il valore del debito nel settembre 2008 era di 160.000 miliardi di dollari (il triplo del Pil globale), mentre il valore dei derivati senza copertura è un quasi inconcepibile 640.000 miliardi (14 volte il Pil di tutti i paesi del mondo).
Queste cifre dimostrano che il momento attuale è davvero «estremo». Ma non è anomalo, né è determinato da fattori esogeni (come suggerirebbe l'idea di «crisi»). Piuttosto, è il modo normale di operare di questo particolare tipo di sistema finanziario. Inoltre i governi (cioè i cittadini e i contribuenti), ogni volta che hanno salvato il sistema finanziario, sin dalla prima crisi di questa fase - il crollo della borsa di New York del 1987 -hanno dato alla finanza gli strumenti per continuare la sua corsa speculativa. Dagli anni '80 a oggi ci sono state cinque manovre di salvataggio; ogni volta, i soldi dei contribuenti sono stati usati per pompare liquidità nel sistema finanziario, e ogni volta la finanza li ha usati per speculare. Questa volta, le vacche grasse stanno finendo - abbiamo finito i soldi che servirebbero per le enormi esigenze del sistema finanziario.
Il ponte
Quanto sopra esposto implica che vi sono due sfide da affrontare: l'esigenza di definanziarizzare le principali economie e l'esigenza di uscire dal modello attuale del capitalismo.
Entrambe saranno difficili, ma è utile focalizzarsi su alcuni fatti basilari. L'attuale stima della disoccupazione globale ufficiale è di 50 milioni di unità; l'Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) calcola che altri 50 milioni di persone potrebbero perdere il lavoro per l'aggravarsi della recessione. Queste cifre sono tragiche per le persone coinvolte. Sono anche relativamente modeste (senza minimizzare in alcun modo la realtà umana), se confrontate ai due miliardi di persone nel mondo disperatamente povere. Ma quanti «posti di lavoro» sarebbero creati se ci fosse un sistema il cui obiettivo fosse sfamare questi due miliardi di persone e dare loro un alloggio? Il mondo allora avrebbe bisogno di far lavorare questi 50 milioni di persone ora disoccupate - e di far rientrare in gioco un altro miliardo di lavoratori.
In questa luce, la «crisi» finanziaria potrebbe essere un ponte verso un nuovo ordine sociale. Potrebbe aiutare tutti i soggetti interessati - cittadini e attivisti, Ong e ricercatori, comunità locali e reti, governi democratici - a focalizzarsi sul lavoro che serve per dare una casa a tutti, per depurare la nostra acqua, per rendere più verdi i nostri edifici e le nostre città, per sviluppare un'agricoltura sostenibile (compresa l'agricoltura urbana) e per fornire assistenza sanitaria universale. Questo nuovo ordine garantirebbe un impiego a chiunque interessato a lavorare. Con tutto il lavoro che c'è da fare, l'idea della disoccupazione di massa ha poco senso.
Già da decenni esiste la tecnologia per sostenere questo lavoro, e contribuire a debellare le malattie che affliggono milioni di persone, e produrre cibo per tutti. Eppure milioni di umani muoiono ancora per malattie prevenibili, e ancor più soffrono la fame. La povertà si è radicalizzata: se un tempo significava possedere solo un fazzoletto di terra che non produceva molto, oggi consiste nel possedere solo il proprio corpo. Anche l'ineguaglianza è aumentata e ha assunto nuove dimensioni, compresi una nuova classe globale di super-ricchi e l'impoverimento dei tradizionali ceti medi.
La storia dell'ultima generazione conferma che la forma neoliberista di economia di mercato non rispondere ai problemi di malattie, fame, povertà e ineguaglianza - anzi li rafforza. Un mix di mercati «puliti» e di forte welfare state (come in Scandinavia) ha prodotto fino a oggi i risultati migliori; ma per la maggior parte delle economie capitalistiche anche approssimare questo modello comporterebbe un cambiamento radicale (vedi Amartya Sen, «Capitalism Beyond the Crisis», New York Review of Books, 26 marzo 2009).
* Questo testo è tratto da Open Democracy, 2 aprile 2009. (Traduzione Marina Impallomeni)
SASKIA SASSEN
La sociologa delle città globali»
Saskia Sassen (nella foto in alto, a destra) è nota in Italia soprattutto come teorica delle «città globali», ma l'oggetto della sua analisi è più in generale la sociologia della globalizzazione (ha fatto anche parte del «gruppo di Lisbona»).
Sassen ha insegnato alla London School of Economics e all'Università di Chicago.
Attualmente è ordinaria di sociologia e membro del Committee on Global Thought alla Columbia University di New York.
Tra i suoi libri tradotti in italiano:
Territorio, autorità, diritti (Bruno Mondatori, Milano 2008);
Una sociologia della globalizzazione (Einaudi, Torino 2008);
Globalizzati e scontenti (Il Saggiatore, Milano 2002);
Migranti, coloni, rifugiati: dall'emigrazione di massa alla fortezza Europa (Feltrinelli, Milano 1999);
Città globali: New York, Londra, Tokyo (Utet, Torino, 1997);
Le città nell'economia globale (Il Mulino, Bologna 1997).
C’è un tema che ricorre costantemente negli incontri e dibattiti sullo stato pietoso della sinistra italiana, ed è la sua scarsa e quasi inesistente capacità di critica incisiva, perché informata e teoricamente meditata, delle forme e dei caratteri realmente assunti, oggi, dal predominio capitalistico.
Ad esempio nel presentare – il 2 marzo 2009 a Roma – lo studio a più voci su Nord operaio. Lavoratori, sindacato, politica tra globalizzazione e territorialità (manifestolibri 2008), Aldo Tortorella, dopo aver parlato di “catastrofe culturale” della sinistra nel nostro Paese, ha aggiunto che “se essa vuole riprendere a contare deve riprendere a pensare”. Mario Tronti ha auspicato nuovi luoghi dove “pensare politicamente”, perché non si può avere, a sinistra, un soggetto politico forte senza basi e strumenti teorici adeguati. Fausto Bertinotti ha detto chiaramente che non si possono dare risposte sufficienti all’odierna debolezza contrattuale e sociale del lavoro se non si capiscono le trasformazioni radicali intervenute nel modello stesso di economia e di società.
All’Assemblea nazionale per una lista unica della sinistra (Firenze, 7 marzo 2009) Mario Agostinelli ha sostenuto che “le nostre radici” – cioè il patrimonio di esperienze e d’idee accumulato durante un secolo e mezzo dal movimento operaio – non sono più sufficienti per affrontare la fase attuale del capitalismo e tanto meno la sua crisi. Nichi Vendola: se non si riprende un percorso di edificazione teorica, non si uscirà dall’attuale “insignificanza politico-sociale della sinistra italiana”. E Piero De Siena: senza una tale ripresa, non si potrà avere “una nuova classe dirigente della sinistra”, come è necessario – secondo Carlo Lucchetti - data la “irriformabilità” dei suoi attuali partiti.
Avrete notato che, in queste come in tante altre occasioni, quando si parla della fase storica attuale si tende subito a identificarla con le nuove forme assunte dal capitalismo negli ultimi trent’anni. A mio parere questa identificazione è giusta e continuerà ad esserlo fino a quando l’economia rimarrà la dimensione predominante e quasi esclusiva nella vita umana.
Non a caso, già nel pieno della cosiddetta rivoluzione industriale del secolo XIX, il fondatore del movimento operaio europeo giunse ben presto alla consapevolezza critica di tale predominio. Avendo deciso – dopo le prime esperienze di pubblicista – di “ritirarmi nella stanza da studio” – dichiara egli stesso – “per sciogliere i dubbi che mi assillavano”, la mia ricerca “arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per se stessi né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l’esempio degli inglesi e dei francesi del secolo XVIII, sotto il termine di ‘società civile’; e che l’anatomia della società civile è da ricercare nell’economia politica […]. Il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito, mi servì da filo conduttore nei miei studi, può essere brevemente formulato così: nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporto di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale…” (Karl Marx: Per la critica dell’economia politica. Tr. It. Editori Riuniti 1971, p. 4-5).
E’ ben noto che, una volta giunto a questo “risultato generale”, Marx dedicò la maggior parte delle sue energie a studiare criticamente l’economia e gli economisti del suo tempo, fino a diventare egli stesso un classico di tale ramo della conoscenza. Oso dire – e lo faccio quasi tremando, perché chi sono io, chi siamo noi per criticare a nostra volta Marx – che il suo errore, e certo non soltanto il suo, fu di aver identificato l’ economia capitalistica con l’economia tout court, tanto da aver prospettato un riscatto dell’uomo dall’alienazione capitalistica in termini di approdo a una “società comunista” svincolata da ogni legge economica, assieme a ogni “sovrastruttura giuridica e politica”.
Credo che oggi, per ricostruire una sinistra, sia condizione essenziale non solo rimettersi a studiare l’economia nei suoi attuali nuovi modi e meccanismi, ma farlo nell’intento di vedere come l’economia possa tornare a svolgere il ruolo giusto che le spetta in una distinta e paritaria interrelazione con ogni altra fondamentale dimensione della vita umana. Questo, ovviamente, come traguardo a lungo termine, come ispirazione e tensione ideale di fondo. Ma solo con questo spirito si può pronunziare in modo aggiornato, e usare in termini adeguati al presente, un’antica e oggi ignorata parola: la parola rivoluzione. Non la si adopera più perché – e giustamente – si ha vergogna di farlo nelle attuali condizioni della sinistra. Ma se non si sarà in grado di tornare a usarla a viso aperto, perché in modo corretto e credibile, nessuna vera sinistra potrà mai riapparire sulla scena politica.
Il Picchio Rosso è il sito dell’Associazione culturale “Romualdo Chiesa”
Il mondo possibile dei nostri nipoti
Guido Rossi
Anticipiamo parte del testo pubblicato accanto a una lezione di John Maynard Keynes del ‘28: ambedue intitolati "Possibilità economiche per i nostri nipoti" (Adelphi, pagg. 52, euro 5,50) in questi giorni in libreria.
A Keynes si deve sempre tornare - se non alle sue profezie, alle sue terapie. In particolare, la crisi dei subprime mortgages, che ha dato l’avvio a un crollo del sistema finanziario di cui è oggi impossibile definire le esatte dimensioni, o le probabili ripercussioni, fa tornare d’attualità una questione molto importante nel pensiero keynesiano, e cioè la domanda se sia giusto o legittimo pagare un interesse sul denaro preso a prestito. Già nelle ultime pagine della Teoria generale Keynes aveva previsto la possibilità che il venir meno della scarsità del capitale riducesse i tassi di interesse, provocando «l’eutanasia del rentier». E’ un dilemma antico (...) e generalmente ignorato, ma che oggi, improvvisamente, appare irrisolto: oggi, improvvisamente, spostare il centro dell’economia dal capitale al lavoro non sembra più utopico, e nemmeno impossibile. La ricchezza delle nazioni, appare evidente, non si costruisce sul denaro, sugli interessi di mercato o sull’ingegneria azionaria (...): si misura sulla capacità dell’uomo di apprendere, e di applicare le sue conoscenze ai procedimenti di produzioni e di consumo. Di conseguenza il prodotto del denaro, cioè l’interesse, dovrebbe essere commisurato alla produttività del lavoro, anziché a un mercato retto dall’azzardo, e dall’azzardo oggi distrutto.
Fino a pochissimo tempo fa, il feticcio della liquidità come unica fonte di ricchezza avrebbe sbarrato la strada a qualsiasi discorso di questo genere, ma oggi si comincia a capire cosa succederà domani, quando qualcuno (o più di qualcuno) pretenderà di incassare strumenti finanziari come i credit default swaps - per chi non li conoscesse, si tratta di titoli che costituiscono vere e proprie «scommesse» senza regole né rete sull’inadempienza di enti pubblici e privati nel rimborso dei propri debiti - mettendo a rischio un giro di affari virtuale, ma che ammonta a più di 62 trilioni di dollari (...). «Il decadente capitalismo internazionale, eppure individualistico, nelle cui mani siamo finiti, non è un successo. Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso - e non fornisce nessun bene». Keynes lo scriveva nel 1933 su The New Statesman and The Nation dell’8-15 luglio. E stavolta aveva ragione. (...)
Prima o poi, il fenomeno che ci siamo abituati, in mancanza di meglio, a chiamare globalizzazione richiederà una gestione, un controllo altrettanto globali. (...)
Questo postula una sorta di Commonwealth che non sembra alle viste, ma che se venisse istituito in una forma qualsiasi non potrebbe (non potrà) non affrontare precisamente quei problemi (la disoccupazione, lo squilibrio fra Nord e Sud del mondo, l’ambiente) che oggi vengono con sconcertante regolarità accantonati in nome di una superiore ragione economica (...).
E un cambiamento di agenda di queste proporzioni porrebbe il problema (che in effetti comincia a porsi) di rivoluzioni solo in apparenza impensabili, a cominciare dall’avvento di una valuta globale. Non sarebbe in fondo nulla di così diverso dai certificati aurei internazionali che Keynes, durante la tempesta degli anni Trenta, proponeva di emettere e distribuire simultaneamente a tutti i Paesi, a condizioni diverse per ciascuno, con lo scopo di rivitalizzare il potere d’acquisto, consentendo il pagamento dei debiti e la ripresa del commercio internazionale. Se dovesse realizzarsi, questo fronte comune fra Occidente e Oriente contro diseguaglianze e conflitti creerebbe le condizioni per qualcosa di molto, molto simile alla fine dell’economia classica (e, oggi possiamo dirlo, anche moderna, e postmoderna) invocata da Keynes.
Da dove può cominciare, una rivoluzione di queste proporzioni? Senza andare troppo lontano, proprio dalle linee d’intervento proposte da Keynes a Bretton Woods (quella vera, del 1944), che gettavano le basi sia di un nuovo sistema di regolamentazione finanziaria mondiale sia di una politica monetaria internazionale tesa a scongiurare tanto i «credit booms», quanto gli «asset bubbles», cioè l’espansione incontrollata del credito, e più in generale le bolle speculative sui beni, immobiliari, energetici o alimentari che fossero.
La fenice dello sviluppo economico contemporaneo sta bruciando su un rogo che si è accesa da sola. Ciò che nascerà dalle sue ceneri dovrà essere molto diverso dal capitalismo come lo abbiamo fin qui conosciuto (...). Che cosa sarà non è ancora chiaro, ma nel pensarlo possiamo in un certo senso permetterci più utopia di quanta se ne sia concessa Keynes.
Dopotutto il suo mondo era più piccolo del nostro, e l’unico risultato che i suoi nipoti - cioè noi - hanno ottenuto è di renderlo più grande e più instabile. Ma anche meno limitato, più aperto. Questa apertura sembra oggi l’unica possibilità economica che i nostri nipoti, essendone capaci, avranno modo di sfruttare.
E’ ancora lui il terapeuta
Federico Rampini
E’ un Keynes insolito quello che l’Adelphi rivela pubblicando il discorso Possibilità economiche per i nostri nipoti con un commento di Guido Rossi. Non stupisce solo per l’attualità dei giudizi formulati ottant’anni fa. Siamo ormai costretti a rivisitare la Grande Depressione degli anni Trenta per capire il nostro presente, e il grande economista britannico ne rimane l’analista-terapeuta più autorevole. Sembrano scritti oggi quei passaggi datati 1928-1930: «Ci troviamo a soffrire di una forma virulenta di pessimismo economico. E’ opinione comune che il progresso economico sia finito per sempre; che il miglioramento del tenore di vita abbia imboccato una parabola discendente; che per il prossimo decennio ci si debba aspettare un declino della prosperità».
E’ singolare la preveggenza con cui mette a fuoco la disoccupazione tecnologica («il lettore ne sentirà molto parlare negli anni a venire»). Sorprendente, e poco nota, è la sua dimestichezza con Freud e la psicanalisi, i cui strumenti interpretativi applica con disinvoltura all’economia: Guido Rossi ricorda le affermazioni dell’economista sulla pulsione «sadico-anale» insita nella bramosía capitalistica di profitto. La dimensione più inedita in assoluto è quella del Keynes visionario, sognatore, idealista, che qui viene alla luce. Staccandosi per un attimo dalle preoccupazioni del presente, il grande intellettuale élitario del circolo Bloomsbury e l’ispiratore del New Deal disegna un futuro in cui «l’amore per il denaro sarà, agli occhi di tutti, un’attitudine morbosa e repellente». Immagina una società fondata su valori più solidi, dove cammineremo spediti sui sentieri della virtù e della saggezza. «Dobbiamo tornare a porre i fini avanti ai mezzi, ad anteporre il buono all’utile. Dobbiamo onorare chi può insegnarci a cogliere meglio l’ora e il giorno, quelle deliziose persone capaci di apprezzare le cose fino in fondo».
Per arrivare a quello stadio Keynes pone la barra molto in alto, tra le condizioni dell’avvento di una società ideale elenca la pace universale e un perfetto controllo della crescita demografica. Non si fa illusioni sul breve termine ma spiega che sognare è un obbligo, perché «l’utopia appare oggi l’unica possibilità economica che i nostri nipoti possano, essendone capaci, sfruttare». Più dei singoli dettagli, allora, conta il nocciolo duro di questo pensiero che viene catturato e attualizzato da Rossi: ciò che nascerà dalle ceneri della grande crisi del XXI secolo, «dovrà essere molto diverso dal capitalismo come lo abbiamo fin qui conosciuto».
Sta proprio qui l’interesse di questo Keynes riesumato dall’oblìo. Di lui ricordavamo soprattutto il tecnico pragmatico, capace di rovesciare tutta l’ortodossìa economica pur di trovare ricette efficaci per rimettere in moto la macchina paralizzata dello sviluppo. Fu senza dubbio colui che teorizzando il ruolo benefico della spesa pubblica salvò il capitalismo da se stesso, nonché dalla sfida di movimenti rivoluzionari e modelli alternativi: il comunismo sovietico; i capitalismi autoritari e illiberali nel Giappone militarista, nella Germania nazista, nell’Italia fascista. E’ utile scoprire che dietro la prodigiosa fecondità intellettuale di Keynes c’era la capacità di guardare ben oltre la semplice crescita materiale. Le grandi crisi servono a rimettersi in discussione, costringono a osare là dove il pensiero non si era mai avventurato: quella del XXI secolo è ancora in attesa del suo Keynes.
Nazionalizzare significava, una volta, trasferire permanentemente allo Stato la proprietà di una impresa privata, o di un intero settore di imprese private - per esempio le imprese elettriche - o addirittura di tutte le imprese operanti nell’economia. In tal caso si parlava, più propriamente, di socializzazione. Tutto ciò non avveniva senza "rumore e furore".
C’era una differenza di grande rilievo tra le imprese nazionalizzate e le imprese "partecipate" dallo Stato. Le prime assumevano solitamente, oltre che una diversa struttura proprietaria, anche criteri di gestioni diversi da quelli delle imprese private (per esempio, adottando come obiettivo fondamentale dell’impresa il valore della produzione piuttosto che il margine del profitto). Ciò si verificava soprattutto quando il fine prevalente della nazionalizzazione era di acquisire materie e prodotti essenziali per la sicurezza e la sopravvivenza economica di un paese. Per le altre la quota dello Stato sul capitale, pure restando di regola maggioritaria, poteva variare, ed erano osservati criteri di gestione "di mercato", spesso in concorrenza con altre imprese private del settore. Viene subito in mente la differenza tra l’Enel e l’Eni.
I fini della nazionalizzazione possono essere i più diversi. A un estremo c’è il pregiudizio ideologico contro la proprietà privata. E’ il caso della primissima fase del regime sovietico, il cosiddetto comunismo di guerra, quando ogni forma di proprietà privata, tranne quella dei beni domestici, venne abolita. Al lato opposto c’è l’intenzione di venire in soccorso della proprietà privata, investita da crisi economiche e finanziarie particolarmente gravi. In tal caso lo Stato interviene per colmare perdite ormai irrecuperabili confiscando le azioni; si incarica di ricapitalizzare l’impresa con fondi tratti dal bilancio pubblico (insomma, con i soldi dei contribuenti); e, quando l’impresa è stata risanata, la reimmette nel mercato.
Questa è evidentemente la nazionalizzazione che il capitalismo di gran lunga preferisce: specie se grazie a qualche marchingegno istituzionale i capitalisti espropriati possono riappropriarsi delle loro azioni. In tal caso si dice che a pagare è stato Pantalone. Ma Pantalone può anche guadagnarci. Se infatti il risanamento riesce, come spesso capita, lo Stato può rivendere l’impresa a un prezzo anche molto superiore a quello al quale l’ha acquistata. Agli svedesi è riuscito molto bene. Nel 1992 il governo svedese ha rilevato le banche insolventi, le ha convenientemente ripulite per poi rivenderle (chi sa perché agli svedesi certe cose vanno meglio che a noi: per esempio, il welfare! anziché l’esempio americano, che ci veniva insistentemente raccomandato, forse avremmo dovuto seguire quello svedese).
Può invece accadere che lo Stato "ci prenda gusto" e tenga per sé le imprese risanate costituendo, come è avvenuto in Italia a suo tempo, un settore di imprese a partecipazione statale. Ciò che invece non è mai avvenuto è che il guadagno realizzato dallo Stato sia stato restituito a Pantalone.
Oggi le nazionalizzazioni sono tornate di moda. E c’è da notare lo stupefacente mutamento intervenuto nell’opinione pubblica capitalistica, soprattutto quella bancaria, durante quest’ultima devastante crisi.
Ricordiamo tutti come la nazionalizzazione fosse diventata, nel secolo scorso, lo spauracchio del capitalismo e l’araldo del socialismo. O piuttosto, del dirigismo, che è cosa un po’ diversa. Ricordiamo la nazionalizzazione della rete ferroviaria italiana del 1902. Quella del settore assicurativo del 1912. La grande stagione delle partecipazioni statali degli anni Trenta. E la nazionalizzazione dell’industria elettrica del 1962, che segnò uno dei più alti livelli di scontro tra interventisti e liberisti nella storia di questo paese.
Adesso, il quadro è completamente cambiato.
Orde di banchieri americani, - l’Economist che immagina la scena - si avventano all’inesorabile inseguimento dei funzionari di governo. Come, dice, nella Notte dei morti viventi. Che cosa invocano selvaggiamente? La nazionalizzazione.
Il nuovo Segretario al Tesoro Geithner resiste (anche questa è da raccontare: le banche che chiedono l’invasione e l’invasore che si sottrae). Non potrà però resistere a lungo alle nazionalizzazioni, dice sempre l’Economist, perché i costi del cosiddetto stress test e cioè dei controlli di tipo sovietico cui sono sottoposte le banche che ricevono denaro pubblico sono troppo pesanti. Nazionalizzateci, invocano le banche americane. Persino Alan Greenspan, l’uomo che avrebbe ottime ragioni per tacere essendo uno dei maggiori protagonisti del disastro, si unisce al coro. È proprio vero che le vie del capitalismo sono infinite.
Certo: il moralista avrebbe qualche cosa da dire. Ma, come diceva il vecchio Premier britannico Macmillan, se chiedete la morale dovete rivolgervi al Vescovo.
Sembra che nel periodo in cui viviamo l’etica abbia invaso tutti gli spazi: commercio etico, finanza etica, imprese che adottano una Carta etica, preoccupazione per le generazioni future espresse in tutti i discorsi.
Eppure il capitalismo è ormai come fuori di sé. Mai prima d’ora «l’amore per il denaro», per usare l’espressione di Keynes, l’aveva condotto a simili eccessi: remunerazioni astronomiche ai più facoltosi, speranze realizzate di rendimenti chimerici, oscenità della miseria nel mondo, esplosione delle disuguaglianze, degrado ambientale ecc. Per spiegare questo paradosso si possono formulare, in sostanza, due sole ipotesi: la prima è che l’etica sia emersa come reazione allo spettacolo sconfortante delle conseguenze morali e sociali di un mondo economico per l’appunto alieno dall’etica. L’altra è che il tema morale costituisca l’elemento chiave di una nuova strategia di marketing, finalizzata a soddisfare più che mai la voglia di accumulare capitale. Del resto, queste due ipotesi non si escludono affatto a vicenda.
Non c’è dunque da stupirsi di quanto avviene nel momento attuale, caratterizzato da una grande distanza tra etica e capitalismo. Ma come spiegarla? È stata l’assenza di etica a spingere il capitalismo sull’orlo dell´abisso? In questo caso viene da pensare a un apologo: l’avidità e la cupidigia sarebbero gli "attivi" più "tossici" della finanza mondiale. Di fatto, non si può scartare l’ipotesi che oggi come ieri, l’abbandono dell’etica abbia portato il sistema alla crisi. «Due sono i vizi più caratteristici del mondo economico in cui viviamo», scriveva Keynes. «Esso non assicura né la piena occupazione, né l’equità della ripartizione della ricchezza e del reddito, che è arbitraria». Da dove procede questo giudizio morale sullo stato del mondo? Oppure, in altri termini: l’economia non è stata definita come scienza per eccellenza, avulsa da ogni considerazione etica?
Il suo irresistibile slittamento dallo status di disciplina morale e politica verso quello di economia-scienza, concepita come un ramo della matematica applicata, si è cristallizzato in un concetto di economia di mercato, apparentemente scevro da ogni connotazione storica o istituzionale. Eppure il capitalismo è senza dubbio una forma di organizzazione storica, con una sua precisa collocazione (un modo di produzione, direbbe Marx), nata dalle macerie e dalle convulsioni politiche dell´Ancien régime. Perciò il suo destino non è inciso nel marmo. In due parole, non è dissociabile dal politico. È l’interdipendenza tra lo Stato di diritto e l’attività economica a conferire al capitalismo la sua unità. L’autonomia dell´economia è dunque un’illusione, come lo è la sua presunta capacità di autoregolarsi. Ed è proprio perché il bilanciere si è inclinato un po’ troppo verso quest’illusione che siamo giunti all’attuale rottura.
Dal punto di vista dell’etica, questo movimento del bilanciere corrisponde a un’inversione dei valori. Il rispetto dell’etica, si pensava, può essere meglio garantito imponendo più regole al funzionamento degli Stati (soprattutto in Europa, ma la teoria ci viene dall’America) e meno regole ai mercati. E a fare il resto ha provveduto dapprima l’ingegnosità dei mercati finanziari, poi il loro accecamento. Non è neppure il caso di sottolineare qui quanto fosse lontana dall’etica la grossa bugia delle istituzioni finanziarie, quando promettevano a tutti i loro clienti - contro ogni logica aritmetica - rendimenti superiori alla media. Era solo incompetenza? O forse, come recentemente ha osservato Paul Krugman, in fin dei conti l’attività finanziaria lecita non si è rivelata moralmente superiore a quella di un Bernard Madoff?
In ogni caso, alla radice del deficit etico del capitalismo contemporaneo c’è l’inversione della gerarchia tra politica ed economia, o spesso la pura e semplice subordinazione della prima alla seconda. Lo scandalo etico del nostro tempo sta nella globalizzazione della povertà, diffusa ormai anche nei Paesi più ricchi; e ancor più nell’accettazione di un grado insostenibile di sperequazione nei regimi democratici. Di fatto, il nostro sistema procede da una tensione tra due principi: quello del mercato e della disuguaglianza da un lato (un euro, un voto) e dall’altro quello della democrazia e dell’uguaglianza (una persona, un voto). E ciò comporta di necessità la ricerca permanente di una via di mezzo, di un compromesso.
La tensione tra questi due principi è dinamica, in quanto consente al sistema di adattarsi senza incorrere nella rottura che invece generalmente si produce nei sistemi retti da un solo principio organizzativo (il sistema sovietico). In altri termini, la tesi in base alla quale il capitalismo è sopravvissuto come forma dominante di organizzazione economica solo grazie alla democrazia, piuttosto che suo malgrado, appare intuitivamente assai più convincente. Ne abbiamo oggi una nuova dimostrazione.
Una normale gerarchia di valori esigerebbe allora che il principio economico sia subordinato alla democrazia, e non viceversa. Ora, i criteri generalmente adottati per giudicare se una politica o una riforma siano ben fondate o meno sono criteri di efficienza economica. Dan Usher ha proposto un altro criterio, che consiste nel chiedersi se una riforma sia suscettibile di rafforzare la democrazia, o al contrario di indebolirla; di promuovere l’adesione dei cittadini al regime politico, o di ridurla. Come appare evidente oggi, è questo il criterio giusto. In nome di quale pretesa efficienza si costringerebbero le persone a essere meno solidali di quanto vorrebbero?
Di fatto, i rapporti tra democrazia e mercato sono più complementari che conflittuali. Impedendo al mercato di generare esclusione, la democrazia rafforza la legittimità del sistema economico; e il mercato a sua volta favorisce l’adesione alla democrazia limitando l’incidenza del politico sulla vita dei cittadini.
Quando il valore primario è l’accumulazione del capitale, lo spettacolo del denaro facile offusca gli orizzonti temporali. L’anomalia di rendimenti finanziari eccessivi contribuisce al deprezzamento del futuro, all’impazienza verso il presente, alla disaffezione per il lavoro. Non c’è bisogno di ricorrere all’Antico Testamento, ad Aristotele o a Tomaso D’Aquino per illustrare la problematicità dei rapporti tra l’etica e il rendimento del denaro. Basta fare riferimento ad Adam Smith - non alla sua Teoria dei sentimenti morali, bensì alla Ricchezza delle nazioni. Smith postulava un controllo rigoroso dei tassi d’interesse, per un motivo apparentato a quello che ho appena sottolineato: il rischio di un deprezzamento del futuro. Scrive Adam Smith: «Se il tasso d’interesse legale in Gran Bretagna fosse fissato a un livello molto elevato quale ad esempio l´8 o il 10% … gran parte del capitale del Paese sarebbe sottratto ai soggetti in grado di farne probabilmente l’uso più proficuo, per cadere nelle mani di chi finirebbe per dilapidarlo o distruggerlo».
Il deprezzamento del futuro, in conseguenza di insostenibili pretese di rendimenti finanziari (ieri), o di tassi d’interesse anormalmente alti (oggi) si pone in contrasto con l’orizzonte temporale della democrazia, necessariamente di lungo periodo. E questa contrapposizione pregiudica la possibilità degli Stati di fornire beni pubblici essenziali, e in particolare quei beni che dovrebbero rispondere alle preoccupazioni per le generazioni future.
Il benessere dell’attuale generazione può essere analiticamente dissociato da quello delle generazioni future, o accresciuto a spese di queste ultime; in altri termini, tra le generazioni di oggi e di domani esiste in teoria un arbitraggio politico. Una delle chiavi di quest’arbitraggio è il tasso sociale di preferenza temporale, che ad esempio Nicholas Stern ha scelto di considerare pari a 0. Evidentemente, a determinarlo dovrebbe essere il dibattito politico, cioè la democrazia.
I rapporti tra le generazioni non sono tanto semplici da consentire l’ipotesi di un altruismo generalizzato. Esiste tuttavia un ambito in cui il benessere delle generazioni presenti e di quelle future si può considerare più complementare che alternativo: quello della giustizia sociale. Quando le disuguaglianze sono stridenti, una parte importante della società non ha più alcuna possibilità di proiettarsi nel futuro, neppure se lo desidera, imprigionata com’è nelle necessità impellenti del presente e del quotidiano. La questione ecologica si può allora riassumere nei seguenti termini: di quale politica abbiamo bisogno per consentire a ciascuno di proiettarsi nel futuro? Nell’ipotesi ottimistica che l’altruismo intergenerazionale sia "un sentimento morale" spontaneo, come sembra peraltro indicare l’attenzione di tutti noi per la sorte dei nostri figli, appare evidente che una riduzione delle disuguaglianze potrebbe riconciliare il capitalismo con il lungo termine.
In sintesi, per restituire più etica al capitalismo conviene approfittare dell’attuale momento di rottura negativa per rompere anche concettualmente con un passato dottrinale che ci ha condotto alle gravi turbolenze di oggi.
Allo stesso modo, per restituire prospettive al futuro servirebbe una "deregulation delle democrazie", riservando cioè più spazio alla volontà politica, e imponendo al tempo stesso più regole ai mercati. Ma non è proprio questo che oggi si sta verificando spontaneamente?
Sarebbe inoltre il caso di prendere più sul serio l’attività deliberativa sulle norme di giustizia che caratterizzano la democrazia. Il grado di disuguaglianza accettabile dovrebbe essere oggetto di una deliberazione pubblica annuale in sede parlamentare. Questo dibattito, basato sulle informazioni fornite degli istituti di statistica e dal lavoro dei ricercatori, avrebbe l’insigne vantaggio di evitare la deriva delle società democratiche verso livelli di disuguaglianza insostenibili, in assenza di controlli e di campanelli d’allarme e senza che l’opinione pubblica ne sia informata. La pubblicità che dovrebbe essere data ai dibattiti e la loro solennità permetterebbe di interrompere, una volta tanto, la concorrenza sociale e fiscale verso il basso, con la conseguente distruzione di beni pubblici. La speranza è che possa instaurarsi al suo posto una concorrenza verso l’alto.
Traduzione di Elisabetta Horvat
La situazione delle persone che in numero crescente cercano con urgenza un’occupazione qualsiasi, anche se precaria, sgradevole e mal pagata, rivela come in Italia la rete di cui un Paese avanzato dovrebbe disporre per proteggere i suoi cittadini dai guai economici sia piena di buchi.
Molte di esse non sono più giovani; altre non hanno mai lavorato in azienda ma a causa di vicende familiari si son trovate all’improvviso senza fonti di sussistenza; quasi tutte hanno competenze professionali superiori a quelle richieste per lavorare come addetti alle pulizie, al lavaggio delle pentole in un ristorante o come badanti. Per avere il tempo e la voglia di trovare un’occupazione migliore, in un periodo di aumento drammatico e prolungato della disoccupazione, avrebbero bisogno d’un sostegno al reddito che la nostra rete di protezione sociale assicura poco e male.
I suoi buchi sono di diversa natura. Innanzitutto, per avere titolo a qualche sorta di sostegno, tipo la cassa integrazione, il sussidio di mobilità o l’indennità di disoccupazione, bisogna prima aver lavorato per un certo periodo alle dipendenze di un’impresa; un’impresa che per di più deve avere certe caratteristiche e dimensioni, altrimenti non può chiedere che i suoi dipendenti ricevano l’uno o l’altro dei sostegni indicati.
Va aggiunto che questi, a paragone di altri Paesi europei, sono modesti e, per quanto riguarda la condizione di disoccupato, di durata relativamente breve. In Danimarca, ad esempio, l’indennità di disoccupazione può arrivare al 90 per cento del reddito degli ultimi tre mesi di lavoro, con un tetto annuo di 20.000 euro, e può venir percepita per anni.
Da noi uno può arrivare al massimo al 60 per cento, e per pochi mesi.
Un altro buco della nostra rete di protezione sociale è l’indigenza delle politiche attive del lavoro, quelle che offrono alla persona in cerca di occupazione corsi di qualificazione, consulenze professionali, ricerca sistematica di posti disponibili.
Non va taciuto che sotto il profilo etico-politico tali politiche rappresentano una combinazione autoritaria di bastone e di carota: se non accetti il posto che ti offriamo, ti taglieremo l’indennità che attualmente ricevi.
Resta però vero che per molti individui in cerca di occupazione esse offrono un aiuto efficace per superare periodi anche lunghi di difficoltà. In tale ambito i nostri Centri per l’impiego fanno quello che possono, poiché dispongono di risorse assai limitate. La quota di Pil che l’Italia destina alle politiche attive del lavoro è infatti minima rispetto a vari altri Paesi europei, per non parlare di quelli scandinavi.
Il quesito al quale ci pone davanti la crisi economica in atto, che per anni moltiplicherà il numero dei disperati pronti a fare un lavoro qualsiasi, pur a condizioni pessime, è se il reddito necessario per vivere debba venire sempre e necessariamente collegato al lavoro. In altre parole la crisi rilancia in sostanza la discussione sulla opportunità di introdurre un reddito di cittadinanza. Versato dallo Stato, dovrebbe essere un reddito modesto ma sufficiente per coprire i bisogni di base, al quale una persona ha diritto indipendentemente dalla sua posizione lavorativa.
Un reddito di base, versato senza condizioni di alcun genere, ha come funzione principale quella di porre la persona in una posizione di ragionevole sicurezza socio-economica. Accresce la sua libertà di scegliere un lavoro confacente alla sua situazione personale e familiare. Riduce l’ansia per l’avvenire suo e della famiglia.
Sulle difficoltà, le possibili conseguenze negative, i costi di un reddito di base esteso a tutti sono stati scritti innumerevoli saggi e volumi. Altrettanti sono stati scritti per dimostrarne i benefici. Si noti che l’idea di un reddito di base non è esattamente, o meglio non è soltanto un’idea di sinistra. Alcuni dei suoi più autorevoli sostenitori, come gli economisti premi Nobel Friedrich Hayek e James E. Meade, erano liberali.
Né questi autori erano mossi esclusivamente da istanze morali o di giustizia sociale. Essi rilevavano piuttosto che l’eccesso di offerta di occupazioni poco qualificate, sottopagate e intrinsecamente precarie, e la relativa moltiplicazione di lavoratori malcontenti in conflitto tra loro, finirebbero inevitabilmente per generare tensioni sociali insostenibili.
La corsa di ex dipendenti disoccupati e di neolavoratrici per necessità verso occupazioni che fino a ieri erano accettate solamente da extracomunitari, quelli provenienti dalle masse dei disperati del mondo, mostra che questo è precisamente quello che sta succedendo.
È un effetto della crisi, ma dovremmo forse sforzarci di vederlo come un’occasione. Ossia come il momento adatto per allargare finalmente l’angusto dibattito sul mercato del lavoro che ha contrassegnato l’ultimo decennio a temi di più ampio rilievo per il futuro non solo economico, ma anche politico e sociale del Paese.
“Ma tu lo sai quante crisi ha attraversato il capitalismo? E quali speranze ogni volta sono nate nel mondo del lavoro? Speranze poi puntualmente crollate di fronte a clamorosi rilanci del sistema, alla conquista di nuovi pezzi di mondo?” Di questo tenore è di regola la risposta delle sinistre quando si avanzi l’idea che, forse, la crisi attuale potrebbe proporsi come occasione per provare a ripensare il mondo, magari guardando il capitalismo come un fenomeno non necessariamente eterno. Le eccezioni non mancano, ma sono rare, e di solito non vanno oltre l’auspicio.
D’altronde lo stanco scetticismo delle sinistre circa un possibile superamento del capitalismo non può stupire. Nulla di simile gli ultimi secoli della nostra storia promettono o autorizzano a sperare. Ma si dimentica che la storia è fatta di cose che prima non c’erano. E la storia più recente è stata appunto un lungo succedersi di fenomeni nuovi, non pochi di dimensioni clamorose, che contribuiscono a fare di quella attuale una crisi decisamente diversa.
Oggi, parlando di crisi, ci si riferisce a quella che ha colpito prima le grandi banche americane, poi la finanza mondiale, e ora va mettendo in panne l’economia tutta intera, con pesanti ricadute su occupazione, condizioni dei ceti più deboli, ecc. Ma in realtà le crisi che scuotono il mondo oggi sono due, la seconda non meno della prima determinante per il nostro futuro; due crisi (a parere di non pochi cervelli di tutto rispetto) strettamente connesse l’una all’altra. Mi riferisco alla crisi ecologica planetaria, che la politica - di sinistra come di destra - ha a lungo ignorato, nonostante i sempre più allarmati richiami della scienza mondiale; che solo di recente ha preso in considerazione, ma solo per alcuni aspetti, e con provvedimenti lontanissimi dall’essere risolutivi. Inoltre senza mai considerarne il diretto rapporto con il sistema produttivo.
Eppure il problema è tutt’altro che sconosciuto. Fin dal primo affermarsi del capitalismo industriale grandi pensatori della scienza economica e non solo sono andati interrogandosi sull’aporia di una produzione in crescita esponenziale all’interno di uno spazio dato e non dilatabile quale il pianeta Terra, costretta pertanto a confrontarsi con l’inevitabile esauribilità delle risorse di cui si alimenta. La cosa apparve poi inoppugnabile quando (particolarmente per merito di Nicholas Georgescu Roegen,(1) che in base al 2° principio della termodinamica dimostrò l’inevitabile e irreversibile degrado dell’energia e delle materie prime impiegate nei processi produttivi industriali) fu scientificamente provato che il capitalismo andava consumando la base stessa del suo operare. E sempre più risultò evidente via via che (stagioni impazzite, ghiacci polari disciolti, alluvioni cicloni tornado sempre più devastanti, enormi ingestibili mucchi di rifiuti, 3 milioni di morti, 50 milioni di profughi) il guasto degli ecosistemi è andato palesandosi in tutta la sua terribilità.
Pagine e pagine di tutti i giornali sono dedicate a questi temi; puntualmente si rende noto che, secondo la scienza più accreditata, le risorse disponibili sono in via di esaurimento, e che continuando a consumare al ritmo attuale presto avremmo bisogno di 5,4 pianeti; che buona parte delle coste del globo finiranno sott’acqua, quelle italiane per prime; che in molte città respirare è un grave rischio. Eccetera. Ma sono i medesimi organi d’informazione a dedicare spazi ancor più ampi e vistosi alla preoccupazione per l’auto che non “tira” come dovrebbe, al Pil che non cresce abbastanza, ai mercati che rischiano una battuta d’arresto: facendosi tramiti convinti, e spesso entusiasti, dell’invito al consumo. La crescita - non importa se all’interno di uno spazio che non può crescere - rimane la nostra stella polare.
Una sorta di schizofrenia che appartiene d’altronde all’intero agire economico e sociale. Basti ascoltare qualche convegno tra grandi industriali, magari affiancati da illustri economisti e noti politici: da sempre, e ancora oggi, l’ambiente, i rischi che anche all’economia il suo dissesto comporta, sono del tutto ignorati, o evocati per brevi accenni. Ma lo stesso accade se l’ascolto è dedicato a un dibattito tra sindacalisti, politici di sinistra, economisti di analoga collocazione politica. Come se non fosse la natura, l’ecosistema, a fornire tutto quanto il lavoro trasforma, quanto consente all’impresa di esistere, all’economia di operare. Come se non provenisse dalla natura, non “fosse natura”, tutto quanto vediamo, tocchiamo, usiamo, indossiamo, mangiamo, beviamo, respiriamo… Per tutti, imprenditori, banchieri, economisti, politici di ogni colore, il collasso degli ecosistemi non è che una variabile marginale, di cui è inevitabile occuparsi quando causa danni di qualche entità: una seccatura insomma, un disturbo collaterale, nulla che riguardi le radici dell’agire economico.
Accennavo sopra ad alcuni aspetti del problema ambiente che economisti e politici da alcuni anni hanno preso in seria considerazione; i quali però con le cause della crisi ecologica non hanno molto a che fare, non almeno nei modi e per i motivi dell’interessamento. E’ dall’inizio del 2000 che la “fine del petrolio”, o comunque la crescente antieconomicità della sua estrazione, suscita viva preoccupazione tra economisti e politici; e anche l’innalzamento della temperatura del globo comincia a suscitare qualche interrogativo negli ambienti che “contano”. Nasce così un interesse via via più vivace per le energie alternative (vecchio cavallo di battaglia dei Verdi, a lungo duramente osteggiato dalle compagnie petrolifere) e per ogni ritrovato capace di assicurare risparmio energetico; ciò che presto dà luogo a un fiorente “green business”. E la parola stessa dice quale sia il vero, o comunque prioritario, scopo di questa nuova politica, di fatto opposto a quello per cui si batte l’ambientalismo più qualificato, e per cui le stesse “rinnovabili” sono state pensate.
Di questo genere sono oggi, in presenza della recessione mondiale, i soli provvedimenti dedicati all’ambiente da tutti i governi. D’altronde in perfetta sintonia con le posizioni che ignorano lo squilibrio ecologico in tutta la sua complessità, limitandolo all’”effetto serra” (certo la sua manifestazione più vistosa e devastante, ma non la sola, né risolvibile con i mezzi proposti) così da diffondere l’illusione di un possibile felice futuro, che grazie al “green business” garantirà un forte rilancio della crescita, consentendo produzione e uso di motori di ogni sorta, senza limiti e al netto da inquinamenti. In linea dunque con l’insistita sollecitazione al consumo rivolta a popolazioni impoverite, indebitate, disoccupate; con l’imperterrita strategia della cementificazione, che va programmando grattacieli, superstrade, alte velocità, nuovi piccoli e grandi aeroporti, villaggi e porti turistici, interi quartieri destinati a restare, come in Usa, invenduti; e con la logica che affida al mercato e alle sue “leggi” il compito di dettare la politica economica, solo nell’eccezionalità del momento disponibile a una momentanea deroga che affidi allo Stato la salvezza di giganti finanziari e industriali in bancarotta.
E però sono sempre più numerose le voci - anche di commentatori lontani da ogni estremismo - che apertamente denunciano l’insensatezza di questa linea e in vario modo argomentano la necessità di superare, o comunque ripensare, il capitalismo. L’elenco è lungo e include grandi nomi della cultura mondiale: Eric J.Hobsbowm, Edgard Morin, Jurgen Habermas, Ulrich Beck, Nicholas Stern, Paul Virilio... E, nell’ambito di questa lettura nettamente critica dell’economia mondiale, è di particolare interesse l’affermazione e la messa a fuoco di una radice comune delle due crisi, quella economico-finanziaria e quella ecologica, da alcuni intuita più che dimostrata, ma dettagliatamente analizzata da altri.
Il primo non solo a intuire ma a descrivere il modo in cui i due fenomeni si influenzano a vicenda, è stato André Gorz, il quale, in particolare in un articolo pubblicato poco prima della sua morte(2), con parole addirittura profetiche ha indicato nella sovrapproduzione l’origine della crisi finanziaria. Egli nota infatti come l’enorme massa monetaria, derivante dalla vendita delle merci prodotte in quantità sempre più massicce, e in crescente difficoltà nella propria messa a profitto, sempre più si orienti a investire nell’”industria finanziaria”: quella che “crea danaro mediante danaro (…) comprando e vendendo titoli finanziari e gonfiando bolle speculative”, dando l’impressione di grande floridezza economica, ma fondata “in realtà su una crescita vertiginosa di debiti di ogni sorta (…) destinata prima o poi a esplodere, portando al limite al crollo del sistema bancario mondiale”.
La sovrapproduzione è d’altronde un fenomeno che Gorz in precedenza aveva ampiamente studiato come tipico dell’economia capitalistica, connesso alla stessa meccanica dell’accumulazione e promosso dalla cultura consumistica (3). E appunto l’assurdo del consumismo, cioè della “quantità in continua espansione” (dimensione precipua del capitalismo, fisicamente incompatibile con le dimensioni della Terra) aveva segnalato come causa principale dello squilibrio ecosistemico. In questa analisi trovando accenti vicini al pensiero di Immanuel Wallerstein(4) che, pur senza specificamente occuparsi di ambiente, si è ripetutamente soffermato sulla progressiva riduzione di spazi disponibili all’espansionismo del capitale; anche lui dunque indicando nei “limiti del pianeta” una delle cause della crisi “sistemica”, che da anni diagnosticava come irreversibile.
Ad accomunare le due crisi, e a ricondurle a un’unica origine, cioè l’insostenibilità (fisica oltre che sociale) del capitalismo, è anche il celebre antropologo Jared Diamond (5). Di “due minacce”, entrambe determinate dai processi di globalizzazione parla in un suo ponderoso saggio l’economista indiano Prem Shankar Jha (6). Sul complesso effetto negativo - sociale, ambientale, finanziario - della globalizzazione neoliberista, insiste anche Walden Bello(7). “Le due crisi si alimentano a vicenda”, scrive il prestigioso notista politico George Monbiot (8)… L’elenco è assai più lungo di così. D’altronde non manca soltanto un elenco completo degli autori, bensì un quadro organico di questo ormai nutrito filone di pensiero. Il perché non è difficile da intuire: si tratta di posizioni che parlano dell’impossibilità di trovare soluzione ai tremendi problemi attuali all’interno del capitalismo, ed esprimono ben scarsa fiducia in una sua piena ripresa; posizioni opposte a quelle prevalenti, coltivate dai media e dalle più potenti agenzie d’opinione. Che si tenda a ignorarle non può stupire: come sempre “le idee dominanti sono quelle delle classi dominanti”.
E qua ci si ritrova al punto da cui questo articolo si è mosso. Al fatto cioè che tra le sinistre manchino tentativi di leggere il terremoto che scuote oggi la società come un’occasione per ripensarla: provarci almeno, sperarlo, sognarlo… Ripeto: rilancio produttivo, crescita, consumi, sono le parole d’ordine anche a sinistra, e anche tra i pochi che indicano il capitale come “il nemico” da combattere. E non serve dire che tra le organizzazioni del lavoro questi obiettivi hanno fini e urgenze diversi da quelli delle destre; o che è più facile trovare occupazione in un’azienda in ripresa piuttosto che in una in pieno dissesto. Sono indubbie verità ma di breve respiro, certo da considerare nella pratica immediata, ma che non dovrebbero inibire il coraggio di guardare più lontano, di capire che oggi nemmeno le cose di casa nostra si possono risolvere, o anche solo leggere correttamente, se non si guarda al mondo, del quale le cose di casa nostra sono ormai parte più o meno omogenea; e che a guardarlo attentamente, il mondo, si capisce che così com’è non regge più. Come concordemente ritengono i commentatori appena citati. I quali tra l’altro, tutti, fanno riferimento all’ambiente quale determinante della nostra condizione presente e futura.
Problema che le sinistre, alla pari delle destre, hanno a lungo rifiutato di considerare, e che neppure oggi seriamente considerano, quanto meno non nella sua complessità: accodandosi all’entusiasmo per le “rinnovabili” e in generale per il “business verde”, sempre in funzione dell’auspicato “rilancio produttivo” (ripeto, non proprio la medicina più adatta alla malattia), e magari genericamente riferendosi alla “qualificazione” dell’ambiente, mentre (fatta eccezione per alcune “sinistre critiche”) ignorano, o apertamente contrastano, le battaglie locali (Tav, Dal Molin, Civitavecchia, ponte di Messina, ecc., per limitarmi ad alcuni casi italiani) che, benché limitati, sono coerenti antefatti di quella che dovrebbe essere la giusta cura per la natura gravemente ammalata.
Anche Claudio Napoleoni si interrogava su questa “timidezza” delle Sinistre, quasi una “sorta di complesso di inferiorità nei confronti di quelle che vengono chiamate le leggi economiche”; per cui - diceva - “nei partiti comunisti c’è sempre stato un curioso miscuglio, di esigenza di superamento del capitalismo e di paura di disturbare un assetto al di fuori del quale non sembra esistere possibilità di ordine.” (9) E forse sarebbe utile chiedersene il perché, magari rileggendo la storia, non per concedersi ai rimpianti o impegnarsi al recupero di identità perdute, ma per capire come è nata quella quota di “industrialismo” che innegabilmente appartiene alle sinistre. Che forse addirittura risale al momento in cui Henry Ford spontaneamente aumenta il salario dei suoi operai perché comprino le sue auto: cioè al primo gesto esplicito compiuto dalla grande industria al fine di reperire un bacino di consumo adeguato alla programmata dilatazione dei mercati; avvio di quel processo di assimilazione della classe lavoratrice a valori e modelli funzionali alla crescita del prodotto, impostasi poi come una sorta di mutazione antropologica. Mentre la “rivoluzione”, pur senza mai essere cancellata come obiettivo ultimo delle sinistre, in qualche modo “entrava in sonno”.
La cosa d’altronde ha certo comportato anche risultati positivi. Per decenni in Occidente le sinistre hanno avuto spazio per conseguire cospicui miglioramenti nelle condizioni dei lavoratori; in qualche modo creando anche una larga speranza di ricchezza per tutti. Speranza poi duramente delusa con la netta inversione di tendenza degli ultimi decenni: sia nella sempre più disuguale distribuzione del reddito (oggi l’1 % della popolazione del mondo ne detiene il 50%), sia nella crescente insicurezza (di occupazione, di mansione, di salario, di orario) che caratterizza il lavoro e il suo abuso; una precarietà diffusa, cui anche la percezione del rischio ambientale si somma in un pesante disagio. Il tentativo di salvarci da questa realtà, e dal terrificante futuro che potrebbe seguirne, esige un deciso scatto di fantasia, oltre che un’enorme dose di coraggio: recuperando l’idea di “rivoluzione”, ma ripensandone il senso e i modi alla luce dell’ultima storia.
“Violento, profondo rivolgimento dell’ordine politico-sociale costituito, tendente a mutare radicalmente governi, istituzioni, rapporti economico-sociali”, così (non troppo diversamente da analoghi repertori) recita “Il Nuovo Zingarelli” alla voce “Rivoluzione” (10): descrivendo (a mio parere con buona approssimazione) ciò che un’azione capace di conseguire un soddisfacente risanamento degli ecosistemi, così da garantire il futuro della specie umana, richiederebbe. Vale a dire (come quasi vent’anni fa André Gorz già lucidamente intendeva) l’assunzione dell’ equilibrio ecologico come asse portante di un nuovo ordine mondiale: per una trasformazione del paradigma economico, con “un rallentamento dell’ accumulazione”, e dunque un calo generale dei consumi e della distruzione di risorse, ma insieme con un nuovo impianto dei rapporti sociali non più “motivato dall’opportunità economica”, e definito invece soprattutto da una decisa correzione delle disuguaglianze. (11) Superamento del capitalismo dunque, e generale ripensamento della convivenza umana e degli istituti che la definiscono e governano. La rivoluzione, appunto. Rivoluzione ecologica, economica, sociale, culturale.
Una rivoluzione che somiglia pochissimo a quelle del passato. L’aggettivo “violento”, che apre la “voce” dello Zingarelli sopra riportata, fa riferimento a quello che è stato finora il tratto precipuo di tutte le rivoluzioni, nei loro processi come nel loro assunto. Ma questo è ciò che occorre superare, per inventare una rivoluzione diversa. In altra occasione (12) ho parlato di una “rivoluzione dolce”, incisiva e tenace e però priva di eventi traumatici e sanguinosi, che in nessun modo preveda uso della forza. Forse, chissà, l’obiettivo di questa nuova rivoluzione, e i suoi processi, potrebbero magari imporsi come incontestabili, addirittura ovvie, necessità. E’ lo stesso Gorz a suggerirlo: “Alla lunga, ciò che è ecologicamente irragionevole, non potrà essere economicamente razionale”. (13)
Certo, è comprensibile come un’impresa di tale portata, anche quando si ritenga non infondata nelle sue ragioni, difficilmente possa trovare concreta disponibilità. Da che parte incominciare, è un interrogativo che pare senza risposte. A meno che non sia la crisi stessa a dare suggerimenti. Di recente più d’uno ha avanzato l’idea di una forte riduzione degli orari di lavoro così da poter “dividere equamente” la disoccupazione, e/o sostituire la cassa integrazione. La proposta ha incontrato un certo ascolto, qualcuno si è spinto a recuperare l’ipotesi sessantottina del “salario di cittadinanza”, ne è nato un minimo di dibattito. Insomma dalla mancanza di lavoro, che per molti è già una dura realtà e per moltissimi una disperante prospettiva, si è rimesso in pista un discorso cui qualche decennio fa si era guardato come alla possibilità di una vera, grande rivoluzione, individuale e sociale. Dopotutto, dove sta scritto (se non appunto nelle logiche del capitalismo industriale) che la più gran parte della vita debba essere spesa lavorando? Ma la “rivoluzione del tempo” è una possibilità da potersi recuperare (anche) al fine di quel rallentamento dell’ accumulazione capitalistica necessario a una concreta difesa dell’ambiente, oltre che presupposto di rapporti sociali più equi.
Alla proposta non poteva non seguire la domanda “Chi paga?”. Ma subito si è risposto ricordando che Luigi Einaudi, che non era un barricadero, teorizzava l’esigenza di un’imposta patrimoniale di successione che, oltre una certa soglia di reddito, tassasse i patrimoni per un’aliquota del 50 %, al fine di combattere le disuguaglianze. Nato senz’altro obiettivo che la difesa dell’occupazione, senza mettere in discussione il rilancio produttivo, il discorso relativo ai tempi di lavoro (uno dei temi più carichi di implicazioni politiche, sociali e esistenziali, caro a tutti i grandi utopisti, e su cui anche Marx ha a lungo ragionato) potrebbe dunque trovare futuro proprio entro la prospettiva di “rivoluzione” di nuovo conio cui accennavo. Come si vede, se si trova il coraggio di uscire dai vicoli asfittici della piccola politica consueta, si trovano anche le ragioni per sostenerlo e pure gli antefatti su cui appoggiarlo.
Ma c’è un altro tema, presente nel frantumato dibattito di quel che resta delle sinistre, che potrebbe partecipare alla medesima ipotesi, divenirne forse materia decisiva. Penso al pacifismo, alla sua denuncia della guerra praticata come normale strumento politico, che un’idea di rivoluzione non violenta non potrebbe ignorare. Anche perché la guerra, tra l’altro, è agente crudelissimo di devastazione ambientale. A partire dalle armi: merci che pesantemente inquinano, nell’essere prodotte, trasportate e “consumate”; merci che rappresentano oggi il 3,5% del Pil mondiale (cifre ufficiali, assai inferiori alla realtà, dato il floridissimo contrabbando del settore) e che costituiscono uno dei pochi mercati oggi in crescita; al rilancio del quale, secondo autorevoli opinionisti, non è estraneo il moltiplicarsi di guerre, guerriglie, terrorismi. Qualora, per (oggi pressoché surreale) ipotesi, la produzione di armi venisse proibita, questa da sola costituirebbe una concreta risposta alla necessità ecologica di contenere la produzione; oltre a inserirsi nel modo più naturale in quella “rivoluzione diversa”, ecologica economica sociale culturale, di cui dicevo. (14)
Insomma, se le sinistre ci provassero a considerare la possibilità di un mondo senza capitalismo, forse oggi l’impresa non sarebbe del tutto disperata.
NOTE
1) Cfr. Nicholas Georgescu-Roegen, „The Entropy Law and the Economic Process“; Cambridge (Mass) 1971
2) A. Gorz, “Crise mondiale, décroissence et sortie du capitalisme”, in « Entropia », Printemps 2007, pp.51-59.
3) A. Gorz, “Capitalismo, socialismo, ecologia”, Roma 1992
4) CfrI. I.Wallerstein, „Dopo il liberalismo“, Milano 1999, e “Il declino dell’America”, Milano 2004.
5) Cfr. J. Diamond, “Collasso”, Torino 2005.
6) Cfr.P. Shankar Jah, „Il caos prossimo venturo“, Vicenza 2007
7) Walden Bello, “Deglobalizziamo”, intervista a cura di G. Battiston, Il manifesto 11-12-08.
8) George Monbiot, The Guardian, 12 – 12 - 08
9) Claudio Napoleoni, in “La politica degli orari di lavoro”, Dialogo in appendice a Carla.Ravaioli, “Tempo da vendere, Tempo da usare”, 2° edizione. Milano 1988. p.144.
10) Zingarelli, “Vocabolario della lingua italiana”, Bologna 1990, p.1651
11) A. Gorz , “Capitalismo, Socialismo, Ecologia”, cit. pp. 72-78 passim.
12) C. Ravaioli, “La crescita non è illimitata”, “Carta” giugno 2004
13)A. Gorz, “Capitalismo, Socialismo, Ecologia”, cit. p. 74.
14) Cfr. Carla Ravaioli, “Ambiente e pace – Una sola rivoluzione”, Milano 2008.
Da trent'anni a questa parte Susan George si dedica all'individuazione di percorsi praticabili per una vera giustizia globale, che possano «democratizzare lo spazio internazionale e assicurare una vita dignitosa a ogni abitante del pianeta». E da trent'anni a questa parte si trova ad assediare il «muro impenetrabile costruito intorno alla cittadella del sapere» neoliberista, quel muro che ostacola i tentativi di quanti vogliono espandere gli spazi di trasparenza, inclusione e democrazia. Già da tempo consapevole dei rischi che nascono quando, «come diceva Keynes, la schiuma della finanza diventa molto più importante del fiume dell'attività economica reale», e certa che «lo stimolo alla "crescita di coscienza" non può sostituire la costruzione di nuovi rapporti di forza, di nuovi equilibri di potere», prima che divenisse una formula largamente dibattuta Susan George ha proposto un nuovo «keynesianesimo verde» come via d'uscita dall'attuale crisi finanziaria. Di questo e altro abbiamo parlato con lei, a Roma, nei giorni scorsi, prima che Barak Obama definisse le prime linee della sua politica economica.
Sin dal suo primo libro, «Come muore l'altra metà del mondo», lei è sempre stata scettica sull'efficacia degli appelli alla buona volontà per ottenere dei cambiamenti effettivi. E recentemente ha scritto che una via d'uscita dalla crisi ambientale ci sarebbe, ma non può essere quella suggerita «dai molti ambientalisti di buona volontà, secondo i quali basterebbe che ognuno di noi cambiasse le proprie abitudini». Perché «la semplice consapevolezza dei problemi ecologici, per quanto diffusa possa essere, non sarà mai sufficiente a garantire cambiamenti di politica»?
In questi anni ho avuto modo di parlare di fronte a diverse platee, con membri di organizzazioni non-governative, con persone molto bene intenzionate, che credevano sinceramente nella necessità di cambiare il proprio comportamento individuale. Non c'è niente di male in questo, anche perché l'assunzione di responsabilità nasce sempre con il chiedersi cosa si possa fare individualmente per risolvere un problema; dunque, se per esempio «diventare vegetariano» si trasforma per qualcuno in un imperativo morale, o se è una maniera per entrare nell'ordine di idee che occorre agire in qualche modo, ben venga. Ma che questo non diventi una scusa per evitare di agire in modo politicamente più efficace, sollevandoci dall'onere di intraprendere iniziative capaci di andare al cuore del problema. Nonostante quel che pensano alcuni, come Serge Latouche, l'appello alla buona volontà di ognuno non funziona veramente.
Non a caso lei sostiene che le soluzioni locali sono necessarie, ma non sufficienti, perché occorre preoccuparsi delle questioni di «scala»...
È così: alcune cose possono essere localizzate, come la produzione e il consumo di cibi, alcune forme di trasporto, oppure il settore energetico, la cui decentralizzazione è stata fortemente ostacolata dalle grandi compagnie; ma credo che, qualunque forma avranno le società in cui vivremo in futuro, ci saranno comunque strutture complesse e molto estese. La localizzazione in questo senso è una scelta importante, ma non dovrebbe essere vista come un punto di arrivo: dobbiamo pensare a delle risposte che, in termini di scala, siano adeguate alle dimensioni delle emergenze che ci troviamo di fronte; abbiamo bisogno di soluzioni su larga-scala, di soluzioni «industriali», che prevedano un ampio coinvolgimento dei governi. Solo così potremmo trovare il coraggio di sfidare l'interno sistema economico capitalistico, privatizzato e senza regole. Dovremmo riuscire per esempio a coinvolgere anche gli Stati (ancora meglio istituzioni come l'Unione Europea, ma i suoi rappresentanti pensano a tutt'altro) per una conversione radicale verso un'economica completamente libera dalle emissioni di gas nocivi. Dovremmo convertire del tutto l'economia, come fecero gli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale.
Diversi mesi fa infatti lei ha suggerito che di fronte alla crisi del sistema economico c'è una sola via d'uscita: che «individui, business e governi» si mettano insieme per dare vita a «una nuova incarnazione della strategia keynesiana dell'economia di guerra», che però sia di natura ambientale, non militare. Ci può dire qualcosa di più su questa idea?
È una idea che mi sembra stia circolando con sempre più insistenza ai quattro angoli del pianeta, e che ho presentato pubblicamente per la prima volta nel settembre 2007 (alla conferenza promossa dall'International Forum on Globalization, ndr). Ero certa che fosse in arrivo una crisi profonda, e mi sono chiesta quali fossero gli strumenti generalmente usati durante le crisi finanziarie: si riducono i tassi di interesse, si svaluta la moneta per rendere più appetibili all'estero le proprie merci, si aumenta in modo mirato la spesa pubblica; tutti strumenti che mi sembravano ancora una volta insufficienti: i tassi di interesse non potevano scendere troppo, il deficit commerciale non poteva crescere eccessivamente, il dollaro era già molto basso. Che altro si poteva fare? La risposta mi è sembrata ovvia: investire completamente nel settore ecologico, convertire rapidamente l'economia, spingere per un investimento massiccio verso una politica industriale eco-friendly, produrre nuovi materiali «leggeri», organizzare un trasporto pubblico efficiente, insomma, dare vita a un keynesismo verde. C'è chi obietta che così facendo forniremmo nuova linfa vitale al capitalismo, e probabilmente ciò era vero soprattutto quando ho presentato per la prima volta questa idea. Ma oggi che alcune banche sono state nazionalizzate si può immaginare una gestione parzialmente statale di questa conversione economica, che non sia subalterna ai dettami del neoliberismo. Il primo passo, però, è riconoscere l'urgenza del momento e comprendere che non si può uscire dalla crisi economica senza uscire da quella ambientale. Questo riconoscimento è però ostacolato da trent'anni di neoliberismo, che ci hanno fatto credere per esempio che le operazioni delle banche debbano essere segrete, che il profitto sia segreto, che nazionalizzazione sia una parola terribile. Mi sembra comunque che questa idea del keynesianesimo verde si stia diffondendo sempre più, vedremo cosa succederà.
Il suo ultimo libro, «L'America in pugno», è dedicato al lungo viaggio del neo-conservatorismo nelle istituzioni americane. Nell'introduzione scrive che a partire dagli anni Settanta «la cultura americana ha subito un lento progressivo dirottamento verso la destra», la quale ha creato «un vero e proprio sistema di valori che non può essere alterato da un mero cambiamento di maggioranza o dall'elezione di un nuovo presidente». Neanche se quel presidente si chiama Barack Obama?
Sfortunatamente l'ideologia che permea un intero sistema di valori non scompare con la semplice elezione di un presidente dell'opposto schieramento, e di certo la destra non scomparirà così facilmente come le prime impressioni del dopo-elezione di Obama ci potrebbero far credere. Obama è certo un uomo che, nonostante il tono volutamente ambiguo della sua campagna elettorale, ha una visione del mondo ben precisa, delle idee chiare, ma la loro realizzazione è fortemente condizionata dalla terribile situazione che si trova a ereditare. Tralasciamo per ora la crisi finanziaria, e pensiamo al disastro del sistema scolastico americano, al sistema sanitario, alle infrastrutture che sono al collasso perché negli ultimi trent'anni non c'è stato alcun investimento, o se c'è stato è stato fatto senza la dovuta accortezza. La situazione è molto grave. Spero però che abbia la forza sufficiente, nonostante non sia stato un frequentatore dei circoli di Washington e nonostante molti dei suoi consiglieri provengano dalla «vecchia guardia clintoniana», di dire alle banche: bene, se volete l'aiuto dello stato, se volete essere salvate, dovete concedere prestiti per i progetti ecologici, dovete destinare una parte dei soldi agli investimenti sulla conversione ecologica, dovete dare soldi ai cittadini che ne hanno bisogno. Se non lo farà, le banche, ancora una volta, useranno quei soldi per altre operazioni di concentrazione, per fusioni varie, per un nuovo business. Pericoloso per ognuno di noi.
In un suo contributo alla conferenza del 2008 su «The fight against poverty», lei ha sostenuto che oggi, per la prima volta nella storia, la povertà potrebbe essere sradicata, ma ha anche aggiunto che «l'Unione Europea, con la complicità degli Stati membri, sta facendo tutto quel che è in suo potere per impedire che questo accada, sia all'interno dell'Europa che nel mondo». Quali sono le maggiori responsabilità europee?
Le responsabilità dell'Europa sono enormi. L'Unione Europea e gli Stati membri non intendono ridurre la povertà perché hanno deciso di promuovere la «flexicurity», un termine orribile che equivale a maggiore precarietà per i lavoratori. La direttiva sull'orario di lavoro ci riporta indietro al diciannovesimo secolo, elimina le già esigue protezioni dei lavoratori stagionali, ci catapulta in altri termini nel capitalismo della Manchester del diciannovesimo secolo descritto da Engels. Anche sul fronte economico, le partnership e gli accordi non mirano ad altro che allo sfruttamento delle risorse e delle persone, senza tener conto delle necessità occupazionali, puntando invece su privatizzazione e deregulation. Ci si consegna completamente al capitale. D'altronde non è un caso che negli ultimi trent'anni ci sia stato uno spostamento così significativo dal salario al profitto del capitale: ci si è adoperati affinché così accadesse, e l'Europa è sembrata essere una entusiasta sostenitrice di questo processo. Mi sorprenderebbe molto se mi dicessero che i nostri rappresentanti europei non sapevano quel che facevano.
Si sono appena conclusi a Belem gli incontri del World Social Forum, e ci si interroga nuovamente sul suo futuro e sul modo migliore per conciliare carica utopica ed efficacia politica. Alla fine di «Un altro mondo è possibile se»..., lei scriveva che «anche se non è riuscito a fermare la guerra (in Iraq), il movimento oggi è una potenza». Qual è, oggi, il suo giudizio sullo stato del movimento per la giustizia globale?
Spero che il movimento abbia ancora la consapevolezza che potrebbe essere una potenza. È certo un bene che il World Social Forum sia pensato come uno spazio dove persone dai retaggi molto diverse possono incontrarsi e condividere percorsi e iniziative, ma questo finora ha troppo spesso impedito che potesse essere un luogo dove prendere decisioni politicamente significative. Credo che si debba prendere un tema, qualunque esso sia, e, declinandolo a seconda delle culture e della latitudine, farne l'occasione, in una giornata di mobilitazione globale, per pronunciarsi su una questione tutti insieme, trovando un'espressione comune su un tema specifico. Solo così il movimento per la giustizia globale potrà acquistare visibilità mediatica e tornare allo spirito di quel 15 febbraio 2003. Altrimenti si rischia di sprecare la costruzione di un network così importante. Temo però che ora il movimento non abbia sufficiente consapevolezza del suo potenziale potere simbolico.
Introduzione
Lo studio precedente dal titolo la sinistra e il moderno predominio dell’economia terminava ponendo l’esigenza d’individuare meglio quei nuovi bisogni “che stranamente, pur essendo tali nel modo più reale e più pieno, non si traducono ancora in ‘domanda’ d’interesse anche economico”. Ci riallacciamo adesso a quello studio, cercando di avvalerci più direttamente dell’elaborazione “trimestralica” sul tema delle implicazioni – se ci si passa l’ardita espressione – economiche-filosofiche di una concezione dell’uomo come “ente naturale-storico”, che fu appunto alla base di tale elaborazione. Per questa via, come si vedrà, si giunge a riproporre la stessa esigenza. Restiamo quindi in obbligo di provarci poi a dire, in proposito, qualcosa di più. Ci si vorrà perdonare se alcune citazioni fatte e argomentazioni svolte nello studio precedente sono qui ripetute, lungo linee di ragionamento simili ma non identiche. Si vede che siamo rimasti particolarmente colpiti dalle une e che ci teniamo a insistere sulle altre.
Il tema della “società opulenta” (in inglese “Affluent Society”) fu dibattuto in profondità dalla Rivista Trimestrale (1962-70), dalla Scuola Italiana di Studi Politici ed Economici (1968-72) e dai Quaderni della Rivista Trimestrale (1972-83)(1). Per “opulenta” s’intendeva – in linea generale e di principio – una società in cui il bisogno umano, e con esso il lavoro teso a soddisfarlo, ristagnano sul livello qualitativo storicamente dato. Conseguenze: -complicazione assurda dei modi per soddisfare un bisogno umano che è ormai, a quel livello, essenzialmente saturato; -necessità allora di “indurre” ulteriori consumi allo stesso livello, per dare comunque sbocchi alla produzione, cosicché non il consumo ma la produzione diviene, di fatto, il fine dell’attività economica; -involuzione dell’attività economica in forme abnormi e contraddittorie; -decadenza degenerativa dei costumi e dei rapporti sociali; -crisi del governo politico e dell’ordinamento giuridico della società. Non si può fare a meno di osservare che se tali conseguenze, in linea di fatto, erano già gravi allora, quando appunto si aveva ragione di definire la società vigente come “opulenta”, sono oggi – quando nuove definizioni vengono usate per processi economici e sociali nuovi ma radicati in quelli di allora - catastrofiche.
* * *
Nel saggio La posizione del consumo nella teoria economica (RT n.1/1962), Claudio Napoleoni esordisce citando i seguenti brani, rispettivamente di Smith, Ricardo e Menger:
“Il consumo è il solo fine e scopo di ogni produzione; e non ci si dovrebbe mai prender cura dell’interesse del produttore, se non in quanto ciò possa tornare necessario per promuovere quello del consumatore”(2). “Nessuno produce se non allo scopo di consumare o di vendere, e non vende mai se non con l’intenzione di comprare qualche altra merce che possa essergli immediatamente utile o che possa contribuire alla produzione futura. Producendo, dunque, egli diviene necessariamente o il consumatore dei propri beni, o l’acquirente e il consumatore dei beni di qualcun altro”(3). “Il punto di partenza di ogni indagine economica è dato dai bisogni umani. Senza bisogni non esisterebbe alcuna economia, alcuna economia sociale, alcuna scienza relativa ad esse. I bisogni sono la causa fondamentale, l’importanza che la loro soddisfazione ha per noi, la misura fondamentale; la sicurezza della loro soddisfazione, lo scopo finale di ogni economia umana”(4). [Nel Menger, l’A. nota un passo avanti, dato dal riferirsi al consumo non immediatamente, ma attraverso il concetto di bisogno].
Ma allora, osserva l’A., se veramente, nella costruzione della teoria economica, “si vuole che il consumo adempia al suddetto ruolo di fine, occorrerebbe che esso fosse definito indipendentemente dalla produzione, in modo da essere una categoria realmente autonoma. [Al contrario] nella teoria economica, quale si è svolta sino a oggi, il consumo è stato concepito, pur nella varietà delle diverse dottrine, in modi che escludevano la possibilità stessa di una sua definizione come categoria autonoma dalla produzione, [e ciò] sta alla radice delle difficoltà che il pensiero economico ha incontrato, e non superato, dall’epoca classica a quella contemporanea”(5)).
Dopo aver supportato questa sua tesi attraverso un esame del modo in cui il consumo è stato considerato – e delle contraddizioni che ne sono derivate – nella “tradizione principale” (classica e moderna) della teoria economica, in quella “eterodossa” (da Malthus a Keynes) e infine in Sraffa, l’A. conclude il saggio sostenendo la necessità, per la coerenza dell’indagine economica, di riprendere in esame e ridefinire i concetti di produzione e di consumo.
* * *
Il citato saggio di C. Napoleoni – molto articolato e ovviamente ben più complesso di quanto abbiamo qui potuto accennare – può essere considerato un primo approccio della RT al problema della “società opulenta”, sul terreno del discorso economico. Ulteriori saggi seguirono nella stessa RT, sia di Claudio Napoleoni che di Franco Rodano e di altri, sempre su tale problema. F. Rodano lo approfondì, sotto profili storici, sociali, politici e filosofici, specialmente nei saggi Il processo di formazione della società opulenta (n. “/1962), Il pensiero cattolico di fronte alla società opulenta (n. 3/1962)(6), Società opulenta e politica rivoluzionaria (n. 22-23/1967), Considerazioni sulla dialettica sociale dell’opulenza (n. 28-30/1969). Lo stesso F. Rodano riprese la ricerca nel primo corso (1968-69) di storia del pensiero politico da lui tenuto alla SISPE, scavandone ancor più gli aspetti “antropologici”: quelli inerenti cioè all’auto-consapevolezza che l’uomo ha avuto e ha di sé e delle proprie operazioni fondamentali. Ai fini del presente articolo, riteniamo utile provarci a richiamare, molto sinteticamente, alcuni passaggi essenziali delle argomentazioni svolte da F. Rodano in quel corso(7).
Partendo da un’interpretazione, diversa da quella corrente, di alcuni versetti della Lettera ai Filippesi di S. Paolo(8), F. Rodano giunge alla conclusione che il messaggio cristiano avrebbe potuto aprire la strada a un’auto-coscienza umana e a una società diverse da quelle storicamente affermatesi lungo i secoli, attraverso i processi contraddittori sboccati nella modernità di stampo capitalistico. Quella che è prevalsa è stata (ed è) una ricezione del messaggio cristiano in termini di immediata tensione all’assoluto: alla “rapina dell’assoluto” da parte dell’uomo, come si esprime F. Rodano. Questa tensione “davvero incomportabile” – dice – nasce “dal convincimento che il limitato, il definito, il caratterizzante siano negatività, e che quindi, sul piano esistenziale, non vi possano essere dignità e bellezza della condizione dell’uomo come essere determinato […]. Quando avviene ciò, allora lo sbocco nella tensione all’assoluto è inevitabile”(9).
Non crediamo che F. Rodano conoscesse l’esperienza e gli scritti di sorella Maria, dell’eremo di Campello, ma non possiamo fare a meno di rilevare l’assonanza del citato brano dell’uno con la critica dell’altra a quelle “persone spirituali” che “considerano difettosa, contaminata la vita umana, e cercano come perfetta la via soprannaturale”(10). F. Rodano conosceva bene e apprezzava, invece, Péguy, che si era espresso in modo del tutto analogo: “Perché non hanno il coraggio d’essere col mondo, credono d’essere con Dio”(11). La “rapina dell’assoluto” è insomma legata a un sostanziale rifiuto, da parte dell’uomo, della propria finitezza e determinatezza, sentite come un fardello da cui liberarsi. E in questo modo è sofferta quindi, con particolare acutezza, la manifestazione più tangibile e coinvolgente del carattere finito e determinato dell’essere umano, vale a dire il lavoro. Ma poiché scrollarsi di dosso il lavoro non è possibile per tutti gli uomini (che in realtà, malgrado ogni loro ribelle insofferenza, finiti e determinati sono e restano), si ripiegò socialmente, nel mondo “signorile”, sul raggiungimento di questo obiettivo da parte di alcuni e a danno degli altri. Almeno negli uni, l’uomo si pensa ed è pensato come realizzato; gli altri, condannati a lavorare per sé e per i rimanenti, non sono veramente uomini e non possono esserlo. La società signorile, con la sua tensione alla “rapina dell’assoluto”, porta dunque allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e all’alienazione di gran parte del genere umano. Successivamente, la soluzione borghese della crisi della società signorile – che non l’ha superata ma solo rovesciata, “uccidendo” il signore – ha esteso a tutti il lavoro alienato. F. Rodano sostiene che, invece, dal messaggio cristiano avrebbe potuto prendere avvio una società ispirata al riconoscimento, da parte dell’uomo, della propria “creaturalità”, ossia all’umile e gioiosa accettazione della finitezza come propria condizione istitutiva e definitoria. Nei versetti citati – sottolinea – S. Paolo dice che Cristo, incarnandosi, “prese la forma di servo, fatto simile agli uomini, e per condizione riconosciuto come uomo”.
“E qual è questa condizione di uomo? Qual è questa forma per cui Cristo diviene servo? Le due cose, infatti, coincidono. La condizione di “uomo” è la condizione di “servo”; non di schiavo, poiché lo schiavo è il servo del padrone terreno, è un servo deformato. Nel legare, in pieno mondo signorile, la parola “servo” alla parola “uomo”, sta la concretizzazione sociale del primo grande attacco all’ideologia signorile […]. La condizione dell’uomo è il servizio. L’uomo è servo di Dio, come direbbe Paolo in termini teologici; in termini laici – filosofici e politici – l’uomo è servo dell’umanità. Ma che differenza c’è poi tra l’espressione laica e quella teologica? Nel Vangelo l’amore del prossimo non è forse l’amore di Dio, e viceversa? E per converso, l’amore di Dio fuori dell’amore del prossimo, non è una delle tante forme di “rapina”? Dunque l’ “uomo” è “servo”: servo dell’umanità. Quella dell’uomo – ripeto – è una condizione di servizio”(12).
Da qui, F. Rodano passa a introdurre il tema della crescita storica del bisogno umano, quindi del lavoro – in termini economici, del consumo e della produzione - che sarà poi ulteriormente approfondito nei QRT.
“Se la storia si fosse svolta secondo l’idea per cui l’uomo è servizio, allora evidentemente la mediazione dell’immediato, l’elaborazione del dato, e insomma l’operazione naturale dell’uomo, sarebbe stata ordinata soltanto alla soddisfazione – in termini storici e quindi secondo un processo via via ascendente – del reale bisogno umano nel suo carattere comune: dunque del bisogno dell’umanità storicamente definito, concreto ed effettivo nel momento storico determinato. Né il fatto di porre l’uomo come servo dell’uomo, l’operazione umana come servizio, significa appiattire tutti in forme identiche di lavoro comune; significa invece l’opposto. La proprietà [qui per “carisma”, dote e capacità individuali – n.d.c.], che - se intesa correttamente – non corrisponde ad altro se non alla limitata specificità di ciascuna persona, deve avere tutta la sua esplicazione nel momento produttivo; ma deve essere ordinata al bisogno comune. Il momento comune, a sua volta, va positivamente fondato nel consumo, e le diverse proprietà trovano la loro legge, il loro ordine, nel tendere tutte a consentire appunto tale consumo, ossia la soddisfazione di quel bisogno che storicamente, nel momento dato, si presenta come ciò che all’umanità occorre assolutamente di appagare. Così, le stesse proprietà dei singoli possono crescere e svilupparsi a un livello storico più alto”(13).
A dirla in breve, la complessiva ricerca “trimestralica” muove da un’ipotesi o scelta filosofico-antropologica, sintetizzata nella definizione dell’uomo come “essere naturale-storico”. Naturale sta per finito, determinato, soggetto a limite, come avviene per qualunque essere vivente. Storico significa che è però carattere specifico dell’uomo il vivere la propria limitatezza non in maniera fissistica, bensì nel quadro di un processo di sviluppo teso a spostare in avanti, via via, il limite di volta in volta storicamente dato, la determinazione della propria limitatezza concretizzatasi nella fase storica data. Tale processo di sviluppo si svolge sui due versanti essenziali della vita umana: il bisogno e il lavoro. Sviluppo del bisogno umano è da intendere nel senso che nell’uomo vi è una “spinta continua e mai del tutto arrestabile a crescere, a dilatarsi, ad assumere sempre più realtà entro le proprie categorie e i propri valori”(14). Perciò, una volta appagato il bisogno come si configura a un determinato livello qualitativo raggiunto nella sua crescita, sono poste le condizioni per il passaggio dell’uomo a un livello ulteriore e più alto; e questo passaggio è per lui necessario e vitale. Sviluppo del lavoro umano comporta un concetto di esso come “strumento generico” del bisogno umano, nel senso che il lavoro è capace di svilupparsi a sua volta, parallelamente, per far fronte ai nuovi livelli qualitativi via via raggiunti dal bisogno. Logicamente, se lo sviluppo del bisogno “tira” quello del lavoro, si verifica anche, al tempo stesso, l’inverso.
L’umanità dei Paesi “avanzati” – quelli cioè sotto segno e dominio economico capitalistici – dopo aver sostanzialmente raggiunto e completato, salvo eccezioni, la soddisfazione del bisogno al suo primo livello storico, invece di andare avanti sta attualmente ristagnando su di esso, con le gravi conseguenze di cui si è detto. Come primo livello storico del bisogno umano, l’elaborazione “trimestralica” intende quello della “sussistenza corporea”. E’ un concetto su cui occorre soffermarsi. Nell’aristotelica tripartizione della vita umana secondo le “anime” vegetativa, sensibile e razionale, tale primo livello del bisogno rientra evidentemente nella prima. Un importante economista contemporaneo come John Kenneth Galbraith ce ne dà un’idea molto spiccia, individuandone le seguenti specificazioni assolutamente indispensabili ed elementari: “il cibo, l’abbigliamento, un riparo”(15). Marx lo definisce come ciò che assicura, attraverso il salario, “il sostentamento dell’operaio durante il lavoro, e in più quel tanto con cui egli possa nutrire una famiglia e la razza degli operai non vada estinta”. Si tratta – aggiunge criticando Smith – del minimo indispesabile per una “esistenza animale”(16).
Molti autori sottolineano il fatto che comunque, sebbene a gravissimi costi umani e sociali, una soddisfazione progressivamente più ampia fino a dimensione “di massa” di questo bisogno – che essi identificano come il bisogno umano tout court – è stata raggiunta per impulso del capitalismo moderno. Scrive ad esempio Fernand Braudel che nella fase pre-capitalistica la gente, prevalentemente contadina, era “accanita a produrre il pane quotidiano, e tanto più ostinatamente quanto più difficile – e per ciò stesso essenziale – diventava ottenerlo. Il pane è l’ossessione della vita, l’insicurezza che prevale su ogni altra […]. Se si tiene conto che alle fasi in cui aumenta il prezzo dei cereali corrispondono impennate impressionanti della mortalità, si capirà come questo evento profondo, drammatico, inevitabilmente ricorrente, immobilizzi l’Europa, la tenga ancorata alle fatiche quotidiane”(17).
E il Galbraith, nel libro citato in nota:
“Il nuovo mondo industriale […] benché fosse, in base a un metro moderno, un mondo crudele e oppressivo, rappresentava tuttavia un grande passo in avanti rispetto a tutto quello che l’aveva preceduto. Per migliaia d’anni […] l’umanità non aveva conosciuto alcun fondamentale e duraturo mutamento del suo tenore di vita. Le cose andavano ora un po’ meglio, ora un po’ peggio, senza che emergesse una qualsiasi durevole tenenza di fondo. Adesso, con l’industrializzazione, le condizioni basilari della vita migliorano: per quanto potesse esser dura la schiavitù della fabbrica, essa era però quasi certamente migliore […] della precedente vita nei villaggi, incessantemente trascorsa in casa, al telaio, o nella solitaria, mal retribuita fatica dei campi”(18).
Come abbiamo visto poco sopra, quello che secondo la linea di pensiero “trimestralica” è il primo livello storico del bisogno umano, è ridotto da Marx a bisogno animale; ma nel quadro – occorre precisare – della sua critica alla società capitalistico-borghese. Il bisogno “di sussistenza”, cioè, è visto da Marx come “animale” finché e in quanto l’uomo è alienato; in sé, “mangiare, bere e procreare sono anche funzioni schiettamente umane” (19). Tornando alla ricerca “trimestralica”, la questione è posta da F. Rodano nei seguenti termini:
“L’uomo ha evidentemente un bisogno di sussistenza corporea: può esso venir definito solo come naturale? Che valore ha questa parola? […] In realtà, qualunque bisogno dell’uomo non è mai puramente naturale, ossia non può essere riferito all’uomo in maniera immediata. Se così fosse, si avrebbe veramente, per l’uomo, un livello di bisogno indistinguibile da quello animale. Ma a veder bene, anche al suo primo gradino, al livello cioè della sussistenza corporea, il bisogno umano è già a carattere storico, ossia mediato dal lavoro. In altri termini, è bisogno di un essere che non si limita a sussistere, ma che, per sussistere, deve svilupparsi, deve trasformare l’immediatezza del dato naturale” (20).
Si può ritenere che i rapidi progressi delle capacità produttive compiuti sotto segno capitalistico – dalla smithiana fabbrica degli spilli in poi – grazie alla divisione del lavoro, e ai correlati incrementi della sua produttività, consentiti dall’applicazione della scienza e della tecnica ai processi industriali e post-industriali, abbiano riguardato e riguardino bisogni umani ulteriori rispetto a tale “primo livello” o “gradino”? Il passaggio – nei Paesi capitalistici – della produzione e del consumo (quasi generalizzato) dai tessuti di cotone alla plastica, dalla ferrovia all’aereo, dal telegrafo al cellulare plurifunzionale, può essere considerato un reale “salto di qualità”?
Non crediamo che a queste domande possa darsi una risposta soddisfacente se ci si impelaga in considerazioni – per così dire – merceologiche, aggiungendo al “cibo, vestizione e riparo” del Galbraith altre specificazioni del bisogno umano come il trasporto, la comunicazione, ecc. e mettendo in rilievo che dai modi in cui tutte venivano soddisfatte fino a due secoli e mezzo fa ai modi attuali, ce ne corre parecchio. Il punto non è questo. Ciò che occorre vedere è se gli esiti produttivi vigenti siano poi tali da poter essere orientati ad appagare realmente i nuovi bisogni umani in via di emersione (ormai, anzi, diffusamente percepiti). Per decidere su questo, è a nostro avviso dirimente un metro di valutazione che si rifaccia al rapporto tra produzione e consumo: si tratta cioè di vedere se, allo stato degli atti, la prima sia finalizzata al secondo (come nei brani di Smith, Ricardo e Menger che abbiamo visto citati da C. Napoleoni) o se non accada il contrario.
Ora, la crescente pressione esercitata dalle imprese, destinandovi buona parte dei loro investimenti, a sempre più martellanti e insopportabili campagne pubblicitarie finalizzate a “indurre” il consumo, a imporre “sul mercato” i propri prodotti, è chiaro segno che il tipo corrente di produzione è in eccesso, che il mercato è saturo, insomma che si sta ristagnando e imputridendo sul livello del bisogno umano ormai storicamente raggiunto, consolidato e colmato. Paradossalmente, è proprio nel quadro di tale ristagno, e nell’inavvertito ribadimento di esso, che alcuni economisti credono di poter rilevare – analizzandolo anche con un certo timore – non solo un processo di sviluppo, ma di frenesia dello sviluppo innescata dai progressi compiuti dalle “Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione” (TIC, sigla inglese ICT). Dominique Foray, ad esempio, parla di “economia del cambiamento permanente”: di un’economia, cioè, incentrata sul cambiamento stesso in quanto tale e, per di più, sulla sua continua accelerazione, vale a dire sul cambiamento permanente al quadrato. La scienza economica – osserva il Foray – ha gravi difficoltà a trovare criteri e metodi atti a misurare questo inusitato fenomeno. Sui meccanismi sociologici che lo accompagnano e sollecitano, adduce effetti di “isteresi” legati alla crescita di una categoria di lavoratori la cui attività è finalizzata non alla produzione ma, appunto, al cambiamento. Sono gli “agenti del cambiamento”, a proposito dei quali cita un brano di A. P. Carter:
[…] la crescita continua di questa categoria di impieghi traduce un impegno a persistere nel cambiamento […]. Il cambiamento interviene perchè alcuni agenti – ingegneri, venditori e dirigenti – lo provocano. Coloro che hanno realizzato cambiamenti coronati da successo tendono ad amplificare l’attività dedicata alla preparazione di nuovi cambiamenti. L’esperienza genera la capacità. L’abilità negli ambiti della progettazione, della vendita o della gestione è un bene che può produrre un flusso importante di benefici […], l’impiego continuo di individui capaci di risolvere una certa classe di problemi posti dal cambiamento e dalla necessità di adattarsi ad esso determina il cambiamento stesso”.
Così stando le cose – conclude il Foray –
“uscire da un’economia ad elevata intensità di innovazione può essere difficile quanto entrarvi! E il problema di come uscirne può effettivamente risultare rilevante in più di una situazione” (21). In effetti, siamo di fronte a un falso sviluppo, e non è certamente in esso che può consistere il “salto di qualità” di cui si diceva.
* * *
Per rispondere alle domande avanzate poco sopra, riteniamo si possa partire dalla seguente considerazione. Posta la tripartizione delle attività economiche in settore privato, settore pubblico e “terzo settore”, non sembra infondato dire che il primo può essere “indotto” a produrre in funzione dei nuovi bisogni umani emersi ed emergenti, il secondo tende a farlo in parte e in modi ancora insufficienti, mentre il terzo si propone consapevolmente di farlo e lo fa con qualche apprezzabile risultato. Se così è, per definire meglio i nuovi bisogni può essere d’aiuto prendere a campione, appunto, alcune delle molteplici attività del “terzo settore”. E’ quanto ci proveremo a vedere, fra l’altro, in un successivo articolo.
NOTE
(1) Da ora in poi useremo, rispettivamente, le sigle RT, SISPE, QRT.
(2) La ricchezza delle nazioni, trad. it. UTET 1948, p. 601.
(3) Principles, Cambridge 1951, p. 290.
(4) Principi fondamentali di economia politica, trad. it. Laterza 1925, p. 1
(5) P. 26
(6) Questi due saggi sono stati ripubblicati, a cura e con introduzione di Marcello Mustè, nel volume Franco Rodano: Cristianesimo e società opulenta, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002.
(7) La cui registrazione è stata pubblicata, a cura dello scrivente, in Lezioni di storia ‘possibile’, Marietti 1986, e in Lezioni su servo e signore, Editori Riuniti 1990.
(8) Fil. 2, 5-11.
(9) Lez. st. possib., cit, p. 62.
(10) Cfr. L’ineffabile fraternità (recante il carteggio completo tra sorella Maria di Campello e don Primo Mazzolari, a cura di Mariangela Maraviglia), Qiqajon, Bose 2007, p. 54.
(11) Citato ivi.
(12) Lez. st. possib, cit., p. 87.
(13) Ivi, p. 100.
((14) F. Rodano: Contratti e costo del lavoro: al nocciolo delle questioni. Imprese e sindacati, partiti e istituzioni, QRT n. 71-72/1982, p.111.
(15) Storia dell’economia, trad. it. Rizzoli 1997.
(16) Manoscritti economico-filosofici del 1944, trad. it. Einaudi 1968, p.11.
(17) Espansione europea e capitalismo. 1450-1650, trad. it. Il Mulino 1999, p. 32.
(18) P. 102
(19) Manoscritti cit., p.75.
(20) Lez. servo e signore cit., p.33.
(21) L’economia della conoscenza, trad. it. Il Mulino 2006. La citazione del Carter è tratta da Change as economic activity, Brandeis University 1994.
Introduzione
Da infima “ancella” che era nell’antichità, l’economia è diventata in epoca moderna, col capitalismo, signora e padrona delle nostre vite. Questo rovesciamento è patito anche, in diverso modo, dalle sinistre, siano esse “moderate” o “radicali”. Viene qui pubblicata la prima parte di uno studio dove si cerca di affacciare alcune idee forse utili per un’auspicabile dislocazione dell’economia al suo ruolo giusto (non più capitalistico) di dimensione umana essenziale, integrata alle altre con pari dignità.
Sorte singolare quella dell’economia, sia in quanto parola e concetto, sia in quanto dimensione della vita umana. Sta di fatto che nel corso dei secoli, dall’antichità alla modernità, ha subito un totale rovesciamento di ruolo e d’importanza. Nelle pur ricche e articolate letterature antiche (almeno in quelle che noi conosciamo meglio) non esistono scritti o trattati che possano essere fatti rientrare in ciò che oggi intendiamo per scienza economica. Soltanto in un autore come Aristotele, attento osservatore di ogni aspetto della realtà naturale e umana, e precisamente nella Politica, si trovano alcune argomentazioni espressamente dedicate all’economia. E questa vi è confinata al ruolo, del tutto subordinato e ancillare, di “amministrazione della famiglia”(1) (o della “casa”, conformemente alla nota etimologia della parola che usiamo ancora). Ora, la famiglia descritta da Aristotele – non necessariamente ricca, ma fornita delle articolazioni adeguate a una moderata agiatezza – è composta dal padre, dalla madre, dai figli, dai servi e dal patrimonio. Il capo-famiglia ha perciò quattro figure o funzioni, in successione gerarchica: di coniuge, di padre, di padrone (A. scrive “despota”) e, appunto, di amministratore(2). Le ultime due sono strettamente legate, così da poter essere considerate unitariamente. Si tratta infatti di procurare - di “acquisire”(3) - dal patrimonio o dall’esterno (noi diremmo “sul mercato”) quanto è necessario al mantenimento della famiglia e al tempo stesso di sovrintendere ai lavori servili, siano essi “fattivi”, tesi cioè a trasformare risorse già possedute dalla famiglia (e solo questi lavori appaiono accostabili al nostro concetto di produzione), siano “attivi”, volti cioè ad approntarle più direttamente (a “servirle”) per il conviviale consumo della famiglia stessa.
L’economia si colloca dunque, nella concezione aristotelica, all’infimo gradino della struttura familiare. A sua volta la famiglia – in quanto sede e organo degli “atti di tutti i giorni”(4) – è condizione preparatoria di una sana e ordinata vita degli uomini, se “liberi”, come cittadini, partecipi delle decisioni e delle attività della “polis”. Ne deriva che delle due istituzioni fondamentali della società aristotelica, quella familiare è subordinata a quella, suprema e “architettonica”, della politica. Quindi, in conclusione, l’economia sta all’ultimo posto nell’istituzione sociale di livello inferiore. Tutti sanno che, al contrario, nel mondo moderno l’economia è venuta ad occupare, in chiave capitalistica, una posizione e a svolgere un ruolo di assoluto predominio, e che almeno da Smith in poi la scienza economica non solo si è affermata come imprescindibile, ma ha avuto un massimo sviluppo. Rilevazioni, teorie e “modelli” economici si sono susseguiti e si susseguono ramificandosi in numerose discipline specialistiche, mentre non c’è governo che non metta indirizzi di politica economica al centro dei propri programmi e non ricorra sistematicamente alla collaborazione di esperti in tale campo. Innumerevoli sono stati e sono, difatti, gli economisti che alternano attività scientifica di ricerca e docenza a incarichi di governo nazionale e internazionale. Solo per fare qualche nome fra i tanti, di epoca recente: John Kenneth Galbraith, oltre a insegnare nelle università di Princeton, Cambridge e, come “Professor emeritus”, di Harvard, ha partecipato attivamente alla vita politica e istituzionale degli Stati Uniti(5); Joseph E. Stiglitz, premio Nobel per l’economia, è passato da incarichi universitari a quelli di consulente di Bill Clinton, poi di “Senior vice-president” e di “Chief economist” della Banca Mondiale. Ma si possono menzionare anche persone più vicine a noi, come i più stretti collaboratori di Romano Prodi e Prodi stesso.
Tra coloro che hanno teorizzato con maggior chiarezza, nel secolo XIX, questo ruolo dominante raggiunto nel mondo moderno dall’economia, per impulso e nei modi del capitalismo, è da annoverare senza dubbio Marx. Proprio perché sosteneva che ci si era dedicati abbastanza a “interpretare il mondo” ma che era tempo di “cambiarlo”(6), si mise a studiare assiduamente l’economia, e con alti costi personali(7), tanto da diventarne uno dei grandi classici. Dopo appassionate meditazioni e ricerche svolte, nel 1844-45, «per sciogliere i dubbi che mi assillavano […] - ci narra in un brano famoso della Prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859) – il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito, mi servì da filo conduttore nei miei studi, può essere brevemente formulato così: nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forze determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza […]. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle forze di produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo»(8).
Già nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, del resto, Marx aveva sostenuto, più brevemente, che «la religione, la famiglia, lo Stato, il diritto, la morale, la scienza, l’arte ecc., non sono che modi particolari della produzione e cadono sotto la sua legge universale»(9). Meno singolari appaiono le vicende delle molteplici formazioni complessivamente assumibili come le espressioni politiche delle reazioni di larghi strati sociali ai pesanti costi umani della logica economica capitalistica. Anche se i nomi, le configurazioni, gli strumenti teorici e pratici di tali formazioni sono stati e sono assai vari e diversi, le indicheremo qui, nel loro insieme, ricorrendo al termine, storicamente ricco, di “sinistre”. Sempre semplificando molto, caratterizzeremo sinteticamente le loro diversità sottolineandone la fondamentale dicotomizzazione in due grandi indirizzi o tendenze (e persino “habitus mentis”), per i quali useremo rispettivamente le correnti denominazioni di sinistre “moderate” e “radicali”.
L’indirizzo “moderato” è segnato essenzialmente - riteniamo – dall’accettare il “modello capitalistico” dello sviluppo economico, lasciando da parte come mera “filosofia” ogni ipotesi di alternative ad esso; dal prefiggersi allora di “regolarlo”, o almeno “emendarlo”, promuovendone l’ efficienza possibile nella situazione data, cosicché possa lasciare spazio a politiche redistributive capaci, al tempo stesso, di stimolarne la crescita e di condizionarla socialmente. Massimi risultati conseguiti per questa via appaiono gli assetti di “welfare” europei, soprattutto scandinavi. Più generalmente, vanno rilevati i periodi di compromissorio equilibrio tra la logica capitalistica e le ragioni della società e dell’uomo, raggiunti anche per più di un decennio in contesti di democrazia dispiegata e quindi di forte pressione organizzata della “società civile”, grazie a condizioni congiunturali favorevoli. Si pensi ad esempio agli anni Cinquanta–Sessanta in Italia. Il compromesso allora raggiunto – sotto segno politico di centro-sinistra(10) – tra le rivendicazioni sociali e le “compatibilità” delle imprese “fordiste”, in tanto poté portare a più elevati livelli medi di vita e ai cosiddetti “consumi di massa”, in quanto poggiava sul triplice sostegno degli aiuti americani al nostro come ad altri Paesi europei (“Piano Marshall”), del basso costo delle materie prime e del petrolio, e soprattutto del responsabile dosaggio degli aumenti del costo del lavoro adottato dagli stessi sindacati. Ma appena tali condizioni favorevoli vennero meno, il compromesso entrò in crisi e tornò a discoprirsi con evidenza, dagli anni Settanta, la fondamentale “incompatibilità tra capitalismo e democrazia”(11).
Su scala mondiale – come è ben noto - il sistema capitalistico “rovesciò il tavolo”, avviando quel trend di spregiudicato recupero della propria logica esclusiva, che era destinato a sfociare nel generale allineamento alle politiche “neo-liberiste” affermatesi anche per impulso di dirigenti politici di rilievo come Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Quanto all’indirizzo “radicale”, esso appare animato invece, con maggior o minore chiarezza e coerenza, dal rifiuto del capitalismo. Va però osservato che quando non si limita ad auspicare “alternative” non meglio precisate, può essere indotto a ripercorrere in termini nuovi la vecchia (e, una volta, illustre) strada dell’utopia, come è evidente ad esempio nelle posizioni “anti-sviluppiste” sostenute da autori come Serge Latouche e da Dichiarazioni come quella dell’”International Network for Cultural Alternatives to Development” (INCAD) datata 4 maggio 1992, tra le cui proposte di globale «decrescita conviviale» figura quella di ««ridurre il reddito pro capite nei Paesi del Nord al livello del 1960»(12) . Proprio quello “stato di declino” che secondo Smith è invece “pura melanconia”.
Un’altra tendenza che affiora a più riprese nel corso storico dell’indirizzo “radicale”, è quella di ritenere che la fase capitalistica in atto sia l’ultima. Ve ne sono esempi di diverso rilievo ed efficacia politica. Rudolf Hilferding – il quale, sviluppando alcune anticipazioni di Marx, teorizzò il processo di finanziarizzazione dell’economia durante la fase di globalizzazione accelerata avutasi negli ultimi decenni dell’Ottocento e ai primi del Novecento – era convinto di trovarsi di fronte a un “nuovo capitalismo” in procinto di auto-sopprimersi: «La funzione socializzante del capitale finanziario – scrisse Hilferding in Il capitale finanziario – facilita enormemente il superameno del capitalismo. Una volta che il capitale finanziario abbia assoggettato a sé i più importanti rami produttivi […] la società non avrà che da impadronirsi del capitale finanziario servendosi in ciò del proprio consapevole organo esecutivo: lo Stato»(13).
Se è lecito accostare nomi grandi ad altri meno grandi, ricordiamo che Lenin teorizzò le contraddizioni interne al trend capitalistico finanziarizzato, espansivo e conflittuale del primo Novecento in termini di Imperialismo come fase suprema del capitalismo(14) e vide nella rivoluzione russa del ’17 l’inizio del rovesciamento definitivo del capitalismo stesso su scala globale. Dopo la seconda guerra mondiale Paul Sweezy, analizzando l’affermarsi del capitalismo “statalista”(15) – sostenuto cioè, come puntualizza Silvano Andriani, dall’«intervento diretto dello Stato nel processo di accumulazione, anche attraverso la gestione di imprese pubbliche» - fu indotto a sua volta a «considerare il capitalismo finanziario superato per sempre e il modello statalista come l’incarnazione definitiva del capitalismo».
Esso era invece la risposta - osserva S.Andriani – che lo stesso capitalismo stava dando alla sua crisi, in pratica alla crisi del processo di globalizzazione da esso generato e crollato con la grande depressione degli anni trenta. La storia ha dimostrato e sta dimostrando che il modello statalista era anch’esso solo una fase dello sviluppo capitalistico, pronta a essere superata dal rilancio della globalizzazione e della finanziarizzazione»(16). Un esempio attuale dell’abbaglio di cui stiamo parlando, è quello di studiosi a giudizio dei quali l’”economia della conoscenza”, alias “capitalismo cognitivo”, ci starebbe aprendo quella «possibilità di una transizione diretta al comunismo» che sarebbe prefigurata nel c.d. Frammento sulle macchine di Marx(17). Come risulta da qualcuno degli esempi addotti, se da una parte l’indirizzo “moderato” incentiva la professionalità, generando schiere di specialisti in economia e altro, sinceramente desiderosi di “migliorare” l’esistente “per quel che si può” (ma restando dunque entro una visione riduttiva dei problemi sul tappeto), dall’altra l’indirizzo “radicale”, accanto ad elaborazioni e personalità teoricamente e politicamente decisive, può dar luogo anche a posizioni che, sebbene si sforzino con altrettanta sincerità di condurre a loro volta analisi approfondite, non riescono a liberarsi di presupposi ideologici del tutto anacronistici e persino, oramai, un po’ comici.
Ma quel che soprattutto vorremmo mettere in evidenza, è il fatto che ambedue gli indirizzi – “moderato” e “radicale” - sono accomunati da una pari subalternità alla corrente assimilazione dell’economia in quanto tale al capitalismo; quindi da una pari sottomissione, come se fosse un comandamento divino, a quel ruolo dominante dell’economia su ogni altra dimensione dell’umana vita associata, che è carattere pressoché definitorio dell’età moderna. Ambedue gli indirizzi, insomma, non si accorgono di assolutizzare in linea di principio (ideologicamente, “filosoficamente” o come altro si voglia dire) quello che è soltanto un evento storico: cioè il fatto innegabile che la dimensione economica ha raggiunto una pienezza di dispiegamento e di articolazione per impulso del capitalismo. Ambedue trascurano di considerare – in altre parole – che se il capitalismo ha portato per mano l’economia nella sua vigorosa crescita degli ultimi due secoli o due e mezzo in alcune nazioni del mondo, non sta scritto da nessuna parte che ciò debba continuare all’indefinito: non è detto cioè che l’economia, pervenuta all’età adulta, non possa svincolarsi dalla tutela del capitalismo cominciando legittimamente a camminare (per più retti sentieri) sulle proprie gambe di dimensione autonoma della vita umana, correlata con pari dignità a ciascuna delle altre.
In conseguenza di questa incapacità, nel caso di specie, di vedere (e criticare) storicamente le cose, avviene che, su terreno “moderato”, ci si acconcia con tutta tranquillità a “stare” nel capitalismo, ritenendo (giustamente) assurdo e impensabile allontanarsi dall’economia; su terreno “radicale”, viceversa, la repulsione al capitalismo porta in sostanza al rifiuto di ogni economia propriamente tale. Porta allora a contrapporsi, in definitiva, alla stessa organizzazione della società in sistema (alla società in quanto fondata comunque su una logica strutturale), dal momento che liquidare una dimensione essenziale di sistema (di qualsiasi possibile sistema) significa liquidarle tutte. In altre parole, l’indirizzo “radicale” – una volta identificata, non diversamente dall’indirizzo “moderato”, l’economia data con l’economia in quanto tale – viene a concepire, al limite, l’uscita dal sistema capitalistico come uscita da qualunque ordinamento razionale della società.
Un esempio assai chiaro e assolutamente “di vertice” della seconda linea e del suo esito ci è dato, di nuovo, da Marx, al quale però, ben più che la qualifica di “radicale”, si addice quella di rivoluzionario(18). Nei Manoscritti – testimonianza massimamente tesa e densa di quella “ricerca” il cui sbocco è enunciato dallo stesso Marx nel citato brano del ’59, e che sono essenziali per la comprensione della sua intera opera – si legge che la “proprietà privata” (termine equivalente, nel contesto, a quello di economia(19) «è l’espressione materiale e sensibile della vita umana estraniata»(20). Analoga tesi è sostenuta a proposito del lavoro: «Lo studio della divisione del lavoro e dello scambio [cioè dell’economia] è di grande interesse, perché l’una e l’altro costituiscono le espressioni visibilmente alienate dell’attività e della forza essenziale dell’uomo come attività e forze essenziali proprie del genere umano [costituiscono cioè le espressione alienate del lavoro, della cui reale essenza l’uomo, in quanto “ente generico”, in quanto essere capace di universalità, è destinato a riappropriarsi fuori dell’alienazione, “sopprimendone” la divisione e la finalizzazione al mercato].
L’affermazione che la divisione del lavoro e lo scambio riposano sulla proprietà privata [cioè sono strutture portanti dell’economia] non è altro che l’affermazione che il lavoro è l’essenza della proprietà privata [dell’economia]: ed è un’affermazione che l’economista non può dimostrare, e che noi vogliamo provare per lui. Proprio nel fatto che la divisione del lavoro e lo scambio appartengono alla struttura della proprietà privata [alla struttura dell’economia], proprio qui risiede la duplice prova tanto del fatto che la vita umana ha avuto bisogno [si noti il tempo storico], per realizzarsi, della proprietà privata [dell’economia], tanto dell’altro fatto che ora [n. cors.] essa ha bisogno della soppressione della proprietà privata »(21). Ha bisogno cioè – come ci pare esatto interpretare – che l’umanità pervenga, nella pienezza del “comunismo”, a uscire dall’economia. E difatti, la terza e più alta forma del “comunismo” è vista appunto da Marx:
«come soppressione positiva della proprietà privata [dell’economia] intesa [che l’umanità è ormai pervenuta a intendere] come autoestraniazione dell’uomo, e quindi [il comunismo si definisce] come ritorno dell’uomo per sé, dell’uomo come essere sociale, cioè umano, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino ad oggi. Questo comunismo [pervenuto alla sua forma più alta] d’identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l’umanismo; in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo(22); è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’affermazione, tra la libertà e la necessità [n. cors.], tra l’individuo e il genere(23). E’ la soluzione dell’enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione»(24).
A quest’ultima proposizione, e particolarmente all’affermazione che il “comunismo” nella sua forma più alta è la soluzione dell’antitesi tra la “libertà” e la “necessità”, crediamo sia accostabile e collegabile in modo pienamente congruo (lasciando da parte la distinzione cara a molti, ma a nostro avviso fuorviante, tra un “giovane Marx” e un Marx “maturo”), un brano del terzo volume del Capitale, citato spesso: «Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna [il lavoro umano catturato e alienato nelle strutture dell’economia]; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale [dell’economia] vera e propria»(25).
Nel prosieguo di questo brano Marx configura due stadi, logicamente e cronologicamente successivi, del passaggio dalla “necessità” alla “libertà”. Dapprima lo stadio che nella Critica al programma di Gotha è descritto, più dettagliatamente, come “prima fase della società comunista” e che qui è enunciato come lo stadio in cui, pur essendo ormai intervenute una massima espansione delle “forze produttive” e, sulla base di essa, la “libertà”, non può tuttavia consistere, ancora, se non nel fatto che «l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa»(26).
Ma questo primo stadio – aggiunge subito Marx – non è ancora il raggiungimento della vera e compiuta “libertà”; quindi esso «rimane pur sempre un [n. cors.] regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il [n. cors.] vero regno della libertà»(27). Nella Critica al programma di Gotha Marx descrive la “fase più avanzata della società comunista” in termini sostanzialmente analoghi, diffondendosi appena un po’ di più: quel tanto che gli basta per essere coerente con la sua dichiarata volontà di astenersi dal “preparare menù per le cucine dell’avvenire”. In questa fase – scrive – «dopo la scomparsa della subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche del contrasto tra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro è diventato non solo mezzo di vita ma anche il primo bisogno di vita; dopo che con lo sviluppo completo degli individui sono aumentate anche le loro forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze collettive scorrono in abbondanza – soltanto allora può il ristretto orizzonte giuridico borghese essere oltrepassato e la società può scrivere sulle bandiere: Ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni!»(28).
Se questi importanti brani di Marx or ora citati, e vari altri analogihi, non significano prospettare e definire l’”auto-appropriazione dell’uomo” come uscita dall’economia, si dica cosa significano. Come uscita – giova ribadire – non solo dall’ economia capitalistica, che schiaccia ed esautora ogni altra dimensione umana, ma dall’economia in quanto tale, cioè in quanto elemento strutturale di ogni possibile organizzazione della società in sistema. In definitiva – possiamo ora tornar a sottolineare col conforto, appunto, di Marx – è precisamente la strutturazione della società in sistema, qualunque essa sia, a esser vista come allenatrice dell’uomo e delle sue operazioni. Al suo posto si ipotizza un’amorfa socialità (o convivenza sociale) in cui ognuno può perseguire, nelle proprie “libere” attività, obiettivi “liberamente” scelti e il cui senso è soltanto – come abbiamo visto esprimersi Marx alla lettera – uno «sviluppo della capacità umane che è fine a se stesso».
A questo punto è necessario aprire una parentesi per rispondere a una possibile obiezione. Sta di fatto – ci si potrebbe opporre – che nel corso del Novecento si sono avuti, con richiamo alle idee di Marx e nel dichiarato intento di applicarle, vari tentativi di edificare sistemi sociali fuori del capitalismo e che alcuni di essi, a cominciare da quello sovietico, hanno segnato profondamente le vicende del secolo. Poiché non ci accontentiamo della sbrigativa risposta che essi hanno finito per fallire ovunque, ma nemmeno possiamo qui impegnarci, evidentemente, in analisi dei “socialismi reali” a livello di quelle intraprese da tempo ad opera di non pochi storici (alcune delle quali serie, oneste e di tutto rispetto), ci limitiamo a qualche sommaria osservazione attinente al discorso che stiamo provandoci a portare avanti.
Cadute le aspettative di un rapido estendersi della rivoluzione ai “punti più alti” del capitalismo, già Lenin si trovò a dover fare i conti con le ragioni dell’economia e ripiegò – come è noto – sulla parziale e controllata ripresa del mercato interno detta “Nuova politica economica” (NEP). Morto Lenin, fattosi chiaro che l’unica strada realistica era ormai lo sviluppo e il consolidamento del “socialismo in un solo Stato”, il realistico Stalin (e statista di grande levatura) si accinse all’opera immane di costruire quasi dal nulla un sistema economico-sociale capace di reggere il confronto col “campo capitalistico” .
L’industrializzazione a tappe forzate della Russia mediante i “piani quinquennali”, l’edificazione in breve tempo di una struttura economica a onniestensiva, programmatoria direzione statuale, riuscirono a trasformare il Paese in una grande potenza mondiale, che nei primi anni Quaranta seppe resistere vittoriosamente (non dimentichiamocelo mai) al poderoso attacco delle armate tedesche, fino a battere definitivamente il nazismo in concorso con gli USA di Roosevelt. Certo, questi risultati non poterono essere raggiunti se non per impulso e sotto la tensione di una forte volontà politica, che comportò costi umani estremamente pesanti, paragonabili – ma con l’aggiunta di vari zeri – a quelli del “Terrore” con cui Robespierre salvò la Rivoluzione francese nel momento del suo maggior pericolo. Ma se il “Termidoro” russo ebbe luogo soltanto a parecchi decenni di distanza da Lenin e da Stalin, ciò fu dovuto essenzialmente – riteniamo – al fatto che in Russia si era riusciti comunque a edificare un sistema. Alla “resa dei conti”, tuttavia, si doveva arrivare, e vi si arrivò nel 1989, fallito l’estremo tentativo intrapreso da Gorbaciov per salvare l’essenza “socialista” del sistema stesso aprendolo alla democrazia interna e al mercato internazionale. Lasciamo da parte ogni considerazione sulla sostanziale vacuità delle giustificazioni ideologiche, scolasticamente marxiste e in definitiva pretestuose, del “socialismo” sovietico come preparatorio della transizione al “comunismo” (che certo Marx non immaginava così sanguinosa e protratta).
E’ piuttosto da sottolineare – a nostro avviso – che per quanto Stalin cercasse di rivendicare le ragioni dell’economia (in uno dei suoi ultimi scritti dichiarò che una società socialista senza una sua base economica sarebbe stata «una cosa abbastanza allegra»(29), tuttavia il sistema sovietico fu costruito negando alcune categorie economiche essenziali portate a pienezza moderna dal processo capitalistico, a cominciare dalla propulsiva dinamica dell’iniziativa imprenditoriale. Quello sovietico fu insomma un sistema mancante di alcuni assi portanti dell’economia moderna in sé considerata, e per tale mancanza era destinato a risultare perdente nel lungo confronto col sistema capitalistico. Analoga sorte, sebbene con evoluzioni più o meno diverse, toccò, per analoghe ragioni, agli altri tentativi “socialisti” intrapresi in varie parti del mondo. Riassumendo molto brevemente il discorso interrotto da questa parentesi, eravamo arrivati a sostenere che, a nostro avviso, una volta postulata senza vaglio storico-critico l’identità capitalismo=economia, delle due l’una: o si accetta il capitalismo per tenere ferma l’economia, o ci si scollega da questa per contrapporsi a quello. “Tertium non datur”.
Eppure – va sottolineato con forza – l’esigenza, anzi la necessità di superare il capitalismo, e di farlo prima possibile, c’è. E’ un’esigenza, una necessità che si pone ormai non solo dal punto di vista di una universale ripresa di respiro sul piano sociale e umano, ma anche da quello di una riemersione della stessa economia dal “cul de sac” in cui è venuta a trovarsi. Si è parlato e scritto abbastanza, ci pare, sull’artificiosità crescente dei consumi “indotti” o meglio imposti; sul rischio che la strabocchevole offerta di prodotti a tecnologia sofisticata fino all’assurdo finisca per saturare ogni ragionevole domanda; sul mortale squilibrio tra lo sviluppo di alcune aree del mondo e la persistente, tendenzialmente cronica arretratezza di altre; sull’insopportabile contrasto, all’interno delle stesse aree “avanzate”, tra sottili strati ultra-ricchi e ampie fasce povere della popolazione; tra vincenti e perdenti nel dislivello sociale derivante dal “digital divide”; sui devianti, pericolosi oltreché non di rado scandalosi eccessi della “finanziarizzazione”; sul rapido succedersi di “crisi cicliche” che induce gli economisti, nell’esaminare quella in atto, a prefigurare già quella «prossima ventura»(30); sulle imminenti catastrofi ecologiche e su tante altre cose ancora.
Alcuni economisti segnalano inoltre un processo in corso, davvero impressionante. Si tratta del fatto che la cosiddetta “economia della conoscenza” (attualmente settore di punta dello sviluppo economico capitalistico, in via di affermazione così rapida e intensa da indurre a vedervi un ulteriore “cambiamento di pelle” del capitalismo stesso) sta portando ad assumere non più tanto l’innovazione, quanto l’accelerazione dell’innovazione a principale metro di valutazione delle operazioni imprenditoriali o almeno di quelle, appunto, più “avanzate”. Anzi la sta portando a divenire, in sostanza anche se al limite, fine a se stessa. Ad esempio Dominique Foray sottolinea, richiamandosi anche ad A.P.Carter, «il ruolo sempre più importante del cambiamento come attività economica autonoma» e parla di un «nuovo regime caratterizzato dall’innovazione permanente». Elemento trainante di questo processo sono «le tecnologie dell’informazione come fonte di sconvolgimenti permanenti». Si è così arrivati a un «paradosso della produttività», la cui chiave
«[…] è da ricercarsi non tanto nei tempi necessari all’organizzazione economica e sociale per adattarsi progressivamente all’innovazione (che comunque consentirebbe di prevedere la soluzione dei problemi in un periodo relativamente breve), quanto in questa economia del cambiamento permanente, che erode incessantemente le basi delle variazioni di produttività: si vedono computer ovunque, certo… ma non sono mai gli stessi! Il ritorno al sentiero di crescita regolare sembra essere continuamente spostato in avanti».
Sul piano delle “risorse umane” tutto ciò determina – prosegue D.Foray - «effetti di isteresi, legati alla crescita della classe di lavoratori non direttamente legati alla produzione, gli “agenti del cambiamento”». Segue una citazione da A.P.Carter:
«[…] la crescita continua di questa categoria di impieghi traduce un impegno a persistere nel cambiamento […]. Il cambiamento interviene perché alcuni agenti – ingegneri, venditori e dirigenti – lo provocano. Coloro che hanno realizzato cambiamenti coronati da successo, tendono ad amplificare l’attività dedicata alla preparazione di nuovi cambiamenti […]. Mentre la quantità di soluzioni e di idee nuove può fluttuare, l’impiego continuo di individui capaci di risolvere una certa classe di problemi posti dal cambiamento e dalla necessità di adattarsi ad esso, determina il cambiamento stesso».
Così – conclude il Foray - «uscire da un’economia ad elevata intensità di innovazione può essere difficile quanto entrarvi! E il problema di come uscirne può effettivamente risultare rilevante in più di una situazione»(31). Già nell’ambito di un discorso che vuol essere puramente scientifico, queste osservazioni e rilevazioni sono fatte –come si sarà notato – usando più di una volta dei punti esclamativi. In effetti bisogna riconoscere – con l’ovvia avvertenza che un conto sono le “nuove tecnologie”, un altro l’uso che se ne fa - che siamo di fronte a un fenomeno davvero inaudito, eccedente ogni umana razionalità e tendente ad avvitare l’attività economica in forme impazzite.
A questo punto bisogna cominciare – ci sembra evidente – a porsi il problema, certo non da poco, di come riequilibrare la collocazione e il ruolo dell’economia: non più “ancilla” come nell’antichità ma nemmeno “domina” come nella modernità; piuttosto una delle fondamentali dimensioni e condizioni delle attività umane. Non ci si può chiedere quali operazioni politiche e di politica economica siano adeguate a un tale obiettivo. Possiamo solo tentare qualche accenno di carattere molto generale a mutamenti e sviluppi di concetti e d’idee, atti a orientare l’opinione pubblica e la stessa elaborazione culturale nel senso a nostro avviso desiderabile. Ricordiamo in primo luogo – come una sorta di premessa a quanto ci proponiamo di dire – che non tutti concordano sulla liceità o sulla esattezza del termine stesso di capitalismo e che molti di coloro che si pronunciano a favore, lo fanno con esitazioni, con riserve, sottolineando difficoltà e problemi semantici. Scrive ad esempio Michel Beaud:
«Portatore di tracce di una storia complessa – in cui rientrano l’epopea della banca e dell’industria, l’evoluzione delle condizioni di lavoro e di vita del mondo operaio, le lotte operaie e sindacali e la loro repressione, gli studi di storici e di specialisti delle scienze sociali, i dibattiti ideologici e politici -, bandiera per alcuni, emblema di un sistema da distruggere per altri, il termine “capitalismo” reca in sé molteplici implicazioni e si presta a un uso rischioso. Alcuni autori liberali, come Friedrich von Hayek, e certi ambienti imprenditoriali ne rifiutano l’utilizzo, preferendogli definizioni più generali, quale per esempio quella di “economia di mercato”. Altri, al contrario, lo considerano un vocabolo di uso corrente che permette di indicare una larga gamma di economie moderne. Per altri ancora, all’interno di particolari tradizioni teoriche, si tratta di un concetto che risponde a definizioni elaborate utili nell’analisi economica e sociale.
Per quanto mi riguarda, ero lontano dall’avere una chiara coscienza di tutto questo quando cominciai a parlare di “capitalismo”. La mia preoccupazione è sempre stata quella di comprendere il mondo, le evoluzioni in corso, ciò che non funziona e perché, e come porvi rimedio. Presto, quel termine mi è sembrato designare rilevanti realtà del nostro tempo, la cui conoscenza è in grado di illuminare dei processi essenziali, di identificare problemi e di riflettere sui rimedi. E’ un vocabolo insostituibile nella misura in cui è l’unico capace di indicare chiaramente tali realtà: rifiutarne l’uso significa rinunciare a prendere in considerazione aspetti importanti del mondo contemporaneo. Detto ciò, occorre aggiungere che si tratta di un termine difficile da maneggiare, dato il peso delle implicazioni ideologiche e politiche, di carattere sia apologetico sia critico, che rendono imprevedibile il modo in cui viene inteso»(32).
Un altro brano molto significativo ci pare il seguente, di Fernand Braudel:
«Visto che ciascuno propone una propria definizione della parola “capitalismo”, provocando non pochi inconvenienti e rendendola sempre più oscura, alcuni storici (ci riferiamo a Lucien Febvre, Herbert Heaton, Heinrich Bechtel) hanno proposto, tempo fa, di bandire il vocabolo. Ma non si rischia che la parola, cacciata dalla porta, rientri subito dalla finestra? Si tratta di una parola complicata, fonte di molte controversie e per giunta fabbricata, intorno al 1900, ad uso e in funzione di una causa ben precisa (in quegli anni, infatti, essa appare e si afferma negli ambienti del socialismo tedesco). Anticiparne l’applicazione significa poi rischiare un anacronismo, proprio come accade per le parole industria o funzionari, quando vengono usate per lo stesso periodo del passato. Ma abolire il termine capitalismo, in verità, non ci libererebbe dalle controversie che non solo ha prodotto m spesso ha ereditato, né dalle dispute che suscita anche quando non gli sono strettamente pertinenti. Accettiamo dunque il termine senza entusiasmo e senza ipocrisia. Se lo controlleremo da vicino, potrà esserci di grande utilità»(33).
Ai fini del nostro discorso riteniamo sufficiente – e congruo anche con quanto osservato finora – la breve definizione di capitalismo, che troviamo in un saggio di Franco Rodano, come «quel sistema la cui dimensione economica è caratterizzata dal fatto che il fine delle imprese (la massimizzazione del reddito di impresa) divine fine generale del sistema»(34).
Non c’è dubbio che il capitalismo, dove si è affermato, ha progressivamente condotto a un aumento di ricchezza complessiva, consentendo di soddisfare più stabilmente, anche – fatte le debite proporzioni sociali - a livello “di massa”, bisogni primari come il cibo, l’abbigliamento, un riparo. Erano questi – ci ricorda J.K.Galbraith - «i tre elementi fondamentali che all’epoca costituivano il tenore di vita della stragrande maggioranza degli uomini»(35). Si cominciava così a uscire, in alcuni Paesi europei, da quelle sofferenze millenarie, da quelle calamità endemiche – peste, fame, carestie – che il Manzoni chiamava le “rugiade del Medioevo”. Si cominciava a ridurre le dimensioni del pauperismo (quindi a poterlo controllare in qualche modo, sebbene spesso vessatorio e forcaiolo); un fenomeno che in vari Paesi e periodi si era tradotto su vasta scala in accattonaggio a ondate incessanti, anche trans-europee e sistematicamente organizzate sotto segni religiosi, tanto da far dire a Martin Lutero:
«I principi e le autorità cittadine dovrebbero vigilare affinché siano interdetti gli itineranti, i fratelli di S, Giacomo, e tutti i mendicanti stranieri, o almeno che siano tollerati con ordine e misura, cosicché non sia consentito a questi imbroglioni, col pretesto di questuare, di andar vagabondando a commettere le loro scelleratezze, il cui numero è oggi assai grande»(36). «Io ho calcolato che ogni anno vengono nel medesimo luogo cinque o sei ordini di mendicanti, ciascuno più di sei o sette volte; aggiungi i comuni accattoni, gli inviati di S. Antonio e i pellegrini, e ne risulta che ogni città viene tassata ogni anno più di sessanta volte»(37).
E’ parimenti fuori discussione, tuttavia, che i predetti miglioramenti furono ottenuti a costi molto elevati, all’esterno e all’interno dei Paesi dove il capitalismo si stava impiantando. Da una parte, allo sterminio di intere popolazioni (America centrale e meridionale), alla rapina di uomini (tratta degli schiavi dall’Africa) e di materie prime (dall’Asia) attraverso le varie “compagnie delle Indie”, subentrò nel secolo XIX la dominazione diretta (coloniale) su mezzo mondo. Dall’altra parte va messo nel conto lo sfruttamento intenso sino alla ferocia, nelle fabbriche, di uomini donne e bambini, già famiglie di piccoli coltivatori trasferitisi nelle città industriali spesso forzatamente, come nel caso dell’esodo di contadini dalla Scozia, dove “le pecore mangiarono gli uomini”. Su ambedue gli aspetti – esterno e interno – la “letteratura” è immensa, prima e dopo la Situazione della classe operaia in Inghilterra di Friedrich Engels(38). Parecchi autori sostengono comunque – e crediamo non a torto – che, tutto sommato, il bilancio fu positivo . Scrive ad esempio il Galbraith:
«Il nuovo mondo industriale […], benché fosse, in base a un metro moderno, crudele e oppressivo, rappresentava tuttavia un grande passo in avanti rispetto a tutto quello che l’aveva preceduto. Per migliaia d’anni […] l’umanità non aveva conosciuto nessun fondamentale e duraturo mutamento del suo tenore di vita: le cose andavano ora un po’ meglio, ora un po’ peggio, senza che emergesse una qualsiasi durevole tendenza di fondo. Adesso, con l’industrializzazione, le condizioni basilari della vita migliorano: per quanto potesse essere dura la schiavitù della fabbrica, era però quasi certamente migliore […] della precedente vita nei villaggi, incessantemente trascorsa in casa, al telaio, o nella solitaria, mal retribuita fatica dei campi […]. Nei primi anni della rivoluzione industriale, gli uomini e le donne che affluivano nelle città industriali e nelle fabbriche dell’Inghilterra e della Scozia meridionale avevano in generale l’impressione di un miglioramento della loro vita. I vantaggi offerti dai villaggi e dal lavoro a domicilio da cui fuggivano – cordialità paesana, paesaggio rurale, vegetazione intatta e un’aria universalmente, straordinariamente pura – erano quasi certamente più attraenti per i commentatori posteriori che non per chi doveva vivere in tale realtà»(39).
Osservazioni di questo tipo, del resto, sono in sintonia con opinioni già espresse parecchio tempo prima non solo da apologeti del capitalismo, ma anche da suoi critici, come John Maynard Keynes, che aveva scritto nel 1931:
«Dai tempi più remoti di cui abbiamo conoscenza – diciamo duemila anni prima di Cristo – fino all’inizio del diciottesimo secolo, il livello di vita dell’uomo medio, che vivesse nei centri civili del mondo, non ha subito grandi mutamenti. Alti e bassi sicuramente. Comparse di epidemie, carestie e guerre. Intervalli aurei. Ma nessun balzo in avanti, nessun cambiamento radicale»(40).
Un poco più dettagliatamente, un autore moderno come il già citato F. Braudel, in un libro dedicato ai progressi economici fatti dall’Europa durante un periodo anteriore solo di un secolo alla nascita del capitalismo propriamente detto, scrive che:
«dal 1460 al 1650 la popolazione europea è certamente aumentata, passando forse da 60 a 80 o a 90 o a 100 milioni di individui. Ma si trattava di una popolazione contadina, ferocemente radicata nel proprio suolo, poco mobile, accanita a produrre il pane quotidiano e tanto più ostinatamente quanto più difficile – e per ciò stesso essenziale – diventava ottenerlo. Il pane è l’ossessione della vita, l’insicurezzza che prevale su ogni altra durante il periodo di cui ci occupiamo. Per sopravvivere, ogni uomo ha bisogno di un ettolitro e mezzo di cereali (frumento, granturco, segala, orzo) all’anno […] Se si tiene conto che alle fasi in cui aumenta il prezzo dei cereali corrispondono impennate impressionanti della mortalità, si capirà come questo evento profondo, drammatico, inevitabilmente ricorrente, immobilizzi l’Europa, la tenga ancorata alle fatiche quotidiane […]»(41).
“Il cibo, l’abbigliamento, un riparo”, dice il Galbraith parlando – come si è visto poco sopra – dei bisogni primari dell’uomo, che con l’avvento del capitalismo cominciarono a essere soddisfatti in modo meno aleatorio e socialmente più esteso. Marx, riferendosi polemicamente alla tendenziale riduzione dei salari al minimo per massimizzare il profitto, considera bisogni primari quelli la cui soddisfazione è necessaria ai fini del «sostentamento dell’operaio durante il lavoro e in più quel tanto con cui egli possa nutrire una famiglia e la razza degli operai non vada estinta» e li riporta, in questa loro figura, alla smithiana simple humanité, cioè – interpreta e commenta - al livello della mera «esistenza animale»(42). Lo stesso Marx, però, dopo aver insistito nel definire come “funzioni animali” «il mangiare, il bere, il procreare e tutt’al più ancora l’abitare una casa e il vestirsi», aggiunge che esse, fuori della condizione alienata cui è ridotto l’operaio, «sono anche funzioni schiettamente umane»(43).
Se si prescinde dal contesto critico in cui Marx fa quest’affermazione, si deve a nostro avviso togliere quell’”anche” e dire semplicemente che i bisogni primari e la loro soddisfazione sono funzioni schiettamente umane. Ma se sono tali, si deve prendere atto altresì che, stante il carattere storico dell’uomo e della sua esistenza, questi bisogni e la loro soddisfazione non sono concepibili se non nel quadro di un processo di sviluppo.
«L’uomo – afferma Franco Rodano – ha evidentemente un bisogno di sussistenza corporea: può esso venir definito come naturale? […] In realtà, qualunque bisogno dell’uomo non è mai puramente naturale, ossia non può essere riferito all’uomo stesso in maniera immediata. Se così fosse, si avrebbe veramente, per l’uomo, un livello di bisogno indistinguibile da quello animale. Ma a veder bene, anche al suo primo gradino, al livello cioè della sussistenza corporea, il bisogno umano è già a carattere storico, ossia mediato dal lavoro. In altri termini, è bisogno di un essere che non si limita a sussistere, ma che, per sussistere, deve svilupparsi, deve trasformare l’immediatezza del dato naturale»(44).
A questo punto potrebbe esser posto il problema di che cosa intendere materialmente (o magari merceologicamente) per bisogni “di sussistenza” e per prodotti finalizzati a tali bisogni. Come si è appena visto, Marx dice che “il mangiare, il bere, il procreare”, nonché “l’abitare una casa e il vestirsi” sono “funzioni animali”, ma anche “schiettamente umane”. A un secolo di distanza – intervenuta, grazie anche alla riscoperta e interpretazione crociane del Vico, una più piena consapevolezza della necessità di storicizzare le analisi delle attività e dei processi umani fuori da impalcature dialettiche o di altro tipo - un autore come F. Rodano, molto attento al tema di cui stiamo occupandoci, può parlare dei bisogni della “sussistenza corporea” come del “primo gradino” del bisogno umano.
Ora, sotto segno capitalistico non si sono prodotti soltanto, a costo economico minore e in quantità maggiore, cereali, cotone o laterizi. Si sono anche inventati e diffusi su larga scala, nel corso di due secoli e mezzo, beni come le macchine e le navi a vapore, le ferrovie, l’elettricità, il telegrafo, il telefono, la radio, le automobili, gli aeroplani, le lavatrici, la televisione e così via, fino ai computer, ai cellulari e alle molte altre cose (forse troppe) dei nostri giorni. Anche tutto questo può esser fatto rientrare nel concetto di “bisogni primari” o “di sussistenza corporea”, per quanto considerati in senso lato e visti in un’ottica storico-dinamica? Riteniamo che il problema, almeno su di un piano di discorso molto generale, non sia questo. Si deve piuttosto cercar di vedere e di capire se e fino a che punto tale tipo di bisogni e correlate attività produttive, tale grande insieme di produzioni e di consumi (in molti rami però, oramai, sempre più “indotti”, secondo la logica dell’”affluent society” e contro ogni razionale rapporto tra produzione e consumo), in una con ogni loro probabile e anzi certa evoluzione, esauriscano il bisogno umano in quanto tale, ossia in ogni sua possibile e necessaria forma. In altre parole, si tratta di vedere se ogni ulteriore sviluppo della produzione e del consumo nel quadro del predominio capitalistico dell’economia sulle restanti dimensioni della vita umana, possa essere congruo con la totalità del progrediente e pluridimensionale bisogno umano.
Ovvero, rovesciando “in positivo” il ragionamento, si tratta di vedere se non possano esservi, anzi non siano già pressantemente in atto, bisogni umani vitali appartenenti a sfere alle quali non è in grado di arrivare, o di farlo in maniera adeguata, l’economia di tipo capitalistico. Non diciamo quindi – giova sottolinearlo – l’economia “tout court”, ma quell’economia che in epoca moderna, col capitalismo, si è fatta padrona e signora delle nostre vite. Completiamo allora il quesito: si tratta di vedere e capire se si pongano bisogni essenziali appartenenti a sfere cui l’economia capitalistica rimane estranea, ma per una sufficiente soddisfazione dei quali è necessaria, in integrato concorso con le altre dimensioni dell’attività umana a cominciare dalla politica, l’economia. Un’economia – insistiamo a scanso di equivoci – non più capitalistica perché non più fagocitante, appunto, le altre dimensioni; nel mantenimento però e anzi nel riequilibrato incremento di tutte le articolazioni in cui l’economia stessa si è dispiegata storicamente, in epoca moderna, per impulso del capitalismo: iniziativa imprenditoriale, accumulazione, profitto, mercato, finanza e quant’altro. A nostro avviso, la risposta non può non essere affermativa. Ci pare evidente che i bisogni storicamente ulteriori di cui stiamo parlando si pongono come necessari e vitali; e ciò, sia pure per esigenze e a livelli diversi, per tutti i popoli della terra, siano essi “avanzati” o no. Quali sono dunque questi bisogni che stranamente, pur essendo tali nel modo più reale e più pieno, non si traducono ancora in “domande” d’interesse anche economico? Sebbene siano sotto gli occhi di tutti, acutamente sentiti da tutti, focalizzati in mille dibattiti, convegni, manifestazioni, “forum” e quant’altro, converrà ricordarli brevemente.
(continua)
NOTE
(1) I, 1253b
(2) Ivi
(3) Ivi
(4) Ivi, 1252b
(5) Ad es. nella Storia dell’economia (trad. it. di Fausto Ghiaia – Rizzoli 2004) J.K. Galbraith torna spesso a sottolineare le esperienze personali pratico-politiche di cui si alimentano molte sue argomentazioni.
(6) Tesi su Feuerbach, XII
(7) [Alla mia opera] «ho sacrificato la salute, la felicità e la famiglia» - Lettera a Sigfrid Mayer, 30 aprile 1867
(8) Trad. it. di Emma Cantimori Mezzomonti – Ed. Riuniti 1971, p.4
(9) Trad. it. di Norberto Bobbio – Einaudi 1968, p.112 (10) Il primo governo “organico” di centro-sinistra, presieduto da Aldo Moro, fu varato nel dicembre 1953, dopo un lungo e tormentato processo “di avvicinamento”
(11) E’ il titolo di un saggio di Franco Rodano sui Quaderni della Rivista Trimestrale n. 55-56/luglio-ottobre 1978. Lo si può leggere adesso in questo sito, nella sezione “La lezione di Franco Rodano”
(12) Cfr. Serge Laouche: Come sopravvivere allo sviluppo – Trad. it. di Fabrizio Grillenzoni, Bollati –Boringhieri 2005, p. 86-87.
(13) Il capitale finanziario – Feltrinelli 1961, p. 487 (brano citato da Silvano Andriani ne L’ascesa della finanza – Donzelli 2006, p.18)
(14) E’ questo, come è noto, il titolo di una delle sue opere più importanti, pubblicata nell’aprile del 1917
(15) Cfr. The Present as History – Montley Review Press, New York 1959
(16) Op. cit., p.20
(17) Cfr. Carlo Vercellone in Capitalismo cognitivo – Manifestolibri 2006, cap. 2,, in particolare a p. 40
(18) Cfr. Federico Engels: Sulla tomba di Marx, in AA:VV.: Ricordi di Marx – Ed. Rinascita 1951, p. 7-9
(19) «Si vede facilmente la necessità che l’intero movimento rivoluzionario trovi la propria base tanto empirica che teoretica nel movimento della proprietà privata, per l’appunto dell’economia». Op. cit., p. 112
(20) Ivi
(21) Vi, p. 149
(22) Per una migliore comprensione di questo passo, cfr. ivi, p. 110
(23) Nella traduzione citata è scritto “specie”; tuttavia la parola “genere” – del resto comunemente usata in altre traduzioni – ci sembra più congrua al concetto marxiano dell’uomo come capace di universalità
(24) Ivi, p. 111
(25) Trad. it. di Maria Luisa Boggeri – Ed. Riuniti 1968, p. 933
(26) Ivi
(27) Ivi
(28) Trad. it. di Ileana Pasqualini – Ed. Simonà e Savelli, Roma 1968, p. 38
(29) Problemi economici del socialismo nell’URSS – Trad. it. Ed. Rinascita 1952, p. 28
(30) S. Andriani – op. cit., p. 78
(31) Dominique Foray: L’economia della conoscenza – Trad. it. di Francesco Saraceno, Il Mulino 2006, p. 52-54. La citazione da A. P. Carter è tratta da Change as Economic Activity, Brandeis University, Dep. of Economics, Working Paper n. 333
(32) Storia del capitalismo – Trad. it. di Giuliana Picco, Mondatori 2004, p, 14
(33) Espansione europea e capitalismo (1450-1650) – Trad. it. di Graziella Zattoni Nesi, Il Mulino 1999, p. 46
(34) Alla radice della crisi cit., p. 7, n. 4
(35) Op. cit., p. 70
(36) Delle buone opere – VII, 1
(37) Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca – 21
(38) Trad. it. di Raniero Panzieri – Ed. Riuniti 1972
(39) Op. cit. , pp. 102, 131
(40) Cfr. Essays on Persuasion – London 1931. Trad. It. Ed. Il Saggiatore, p. 275 (brano citato da Pier Angelo Toninelli: Lo sviluppo economico moderno, Marsislio 2005, p. 34)
(41) Op. cit., p. 32
(42) Manoscritti, p. 11
(43) Ivi, p. 75
(44) Lezioni su servo e signore – Ed. Riuniti 1990, p. 33
Se il prossimo anno, come promesso da Obama, Guantanamo sarà svuotata potrebbe essere utilizzata per trasferirci il meeting di Davos. Buttando via la chiave, perché il mondo vivrebbe meglio. Come da tradizione, nello scenario da cartolina - Davos coperta di neve - per ora i grandi della terra sono da ieri in conclave. Partecipare costa caro - 40 mila euro la quota di iscrizione - ma non per i circa 1.500 rappresentati del mondo finanziario provenienti da tutto il mondo. Quest'anno al centro del World Economic Forum è la ricerca di una strategia di uscita dalla crisi. La cronache ci dicono che sono assenti un po' di banchieri: pochi finiti in carcere, altri «dimissionati» per salvare la faccia. Aver eliminato un po' di mele marce non rende il meeting svizzero una cosa seria e pulita: la maggior parte dei presenti è almeno correa del tracollo dell'economia mondiale.
Dalla relazione introduttiva abbiamo saputo che nel 2009 il Pil mondiale per la prima volta dal 1944 dovrebbe diminuire, nonostante il Fmi internazionale insista su un aumento dello 0,5%. Ma che fiducia possiamo dare al massimo organismo monetario internazionale che da anni non ne azzecca una? Ovviamente nessuna. E ieri abbiamo avuto l'ultima conferma dall'aggiornamento del Global Financial Stability Report che ha rivisto le cifre sul deterioramento potenziale degli asset originati negli Stati uniti a «2.200 miliardi di dollari dai 1.400 previsti appena in ottobre»: in appena tre mesi un errore di oltre il 50%. Roosevelt appena insediato alla presidenza degli Usa fece una dichiarazione di fuoco contro le banche che avevano distrutto l'economia. La sua analisi è attualissima. E la conferma l'abbiamo avuto dal Global Employment Trends pubblicato dall'Ilo, l'ufficio internazionale del lavoro, uno dei bracci dell'Onu. Con maggiore prudenza del Fmi (ma anche dell'Ocse, della Bce o della Banca mondiale) l'Ilo presenta tre scenari delle conseguenze della crisi sul lavoro nel 2009: nell'ipotesi più favorevole saranno distrutti nel mondo 18 milioni di posti di lavoro; in quella peggiore 51 milioni.
I senza lavoro aumenteranno di una cifra pari all'1% della popolazione mondiale, neonati compresi. Ma non è solo la disoccupazione a preoccupare l'Ilo che annuncia anche un incredibile aumento dei lavoratori poveri e del loro potere d'acquisto. La crisi come sempre la pagano i lavoratori, ma a Davos sembrano non accorgersene e si discute soprattutto di come salvare il sistema finanziario sul quale sono già piovuti centinaia di miliardi di aiuti pubblici. Molte banche sono già state nazionalizzate, altri centinaia di miliardi sono pronti a essere girati alle banche per rilevare i bond tossici emessi dalle stesse banche. E quando (ma quando?) il sistema sarà risanato il tutto sarà riprivatizzato. A Davos uno degli ospiti d'onore è il mitico Soros. Per chi ha la memoria corta il finanziere svizzero fu quello che nel 1992 mise in crisi la sterlina e la lira. Il risultato fu l'uscita delle due monete dallo Sme (il sistema monetario europeo) una svalutazione pesantissima e - per l'Italia - una stangata senza precedenti da oltre 90 mila miliardi di lire (governo Amato) che mandò in recessione il paese con quasi un milione di nuovi disoccupati.
Soros passa per essere una persona per bene: un capitalista perfetto che guadagna tantissimo e si libera la coscienza girando miliardi di dollari alla sua Ungheria. Tutto «regolare» insomma. Così regolare che Soros in una intervista pubblicata ieri ha confessato che sta puntando parecchi soldini ancora una volta contro la sterlina giocando al ribasso, puntando sulla svalutazione della valuta e destabilizzando l'economia della Gran Bretagna. Ma si sa la speculazione è il sale del capitalismo.
Nato nel 1940, il sociologo Boaventura de Sousa Santos ha prodotto molte ricerche nei campi che si estendono dalla sociologia del diritto all'epistemologia, ricerche che toccano particolarmente la mondializzazione, la multiculturalità, la democrazia, i diritti umani, la teoria postcoloniale, i movimenti sociali. Insegna all'Università di Coimbra, all'Università di Winsconsin-Madison e all'Università di Warwick. È direttore del Centro di Studi Sociali e del Centro di documentazione sul «25 aprile 1974» dell'Università di Coimbra. Punto di riferimento dei movimenti altermondialisti, è uno scrittore di frontiera, capace di articolare ricerche e riflessioni su un vasto arco di discipline. Tra i suoi testi tradotti in italiano (dalla casa editrice Città Aperta): «Democratizzare la democrazia», a sua cura, 2003); «Il forum sociale mondiale» (2003); «Produrre per vivere. Le vie della produzione non capitalistica» (2005); «Diritto ed emancipazione sociale» (2008).
Alla base del lavoro di Boaventura de Sousa Santos, il sociologo portoghese che ha contribuito enormemente al rinnovamento delle scienze sociali e alla reinvenzione dell'emancipazione sociale, c'è un'idea della scienza come «esercizio di cittadinanza e di solidarietà, la cui qualità si misura in ultima istanza attraverso la qualità della cittadinanza e della solidarietà che promuove o rende possibile». Ma c'è soprattutto una versione ampia di realismo, che, contrariamente all'interpretazione positivistica fatta propria tanto dal liberalismo che dal marxismo, non riduce la realtà a ciò che esiste, ma include anche «le realtà rese assenti dal silenzio, dalla repressione e dalla emarginazione», le realtà «attivamente prodotte come non esistenti», e insieme le potenzialità, le latenze, le tendenze e le «emergenze» presenti in ogni frammento di realtà. Secondo Boaventura de Sousa Santos, infatti, solo concentrandosi attivamente sulla parte indiziaria della realtà possiamo opporci alla credibilità esclusiva delle prassi egemoniche, dare credito alla diversità delle prassi sociali alternative e, attraverso un cosmopolitismo antagonista, superare il modello di democrazia liberale. Perché questo modello «garantisce solo una democrazia di bassa intensità» e si basa su «un'inclusione politica astratta fatta di esclusione sociale». Al suo posto sarebbe augurabile una democrazia emancipatoria, che sappia trasformare i rapporti di potere in rapporti di autorità condivisa. Alla vigilia del World Social Forum (WSF) di Belem, inaugurato ieri, abbiamo incontrato Boaventura de Sousa Santos e gli abbiamo chiesto di parlarci del suo lavoro e di come si configura, per lui, un altro mondo possibile: «può essere molte cose, ma mai un mondo senza alternative».
Lei ha sostenuto che la resistenza politica alla globalizzazione egemonica deve basarsi sulla resistenza epistemologica, e che il World Social Forum solleva questioni che possono essere riassunte nell'idea che «non vi è giustizia sociale globale senza una giustizia cognitiva globale». Cosa intende quando suggerisce di decolonizzare anche il pensiero e le pratiche della sinistra, per «imparare dal sud attraverso una epistemologia del sud»?
Se intendiamo avanzare una critica realmente radicale alle forme di sapere egemoniche, dobbiamo essere in grado di suggerire delle alternative alla cornice eurocentrica e nord-centrica, e riconoscere che l'epistemologia non può essere spiegata soltanto in termini epistemologici. L'epistemologia infatti è contestuale, legata alle condizioni storiche in cui prende corpo e a particolari agenti, e dietro una certa concezione epistemologica molto spesso ci sono idee promosse con la forza: non la forza delle idee, ma le idee della forza, della potenza militare, inclusa quella del colonialismo e del capitalismo. In questo senso, per rinnovare il pensiero epistemologico dobbiamo cominciare dalle esperienze degli oppressi, da ciò che definisco come «sud globale». Non il sud inteso in termini geografici, ma il sud come metafora per indicare chi più subisce gli effetti del capitalismo. Dobbiamo partire dalla loro esperienza cognitiva, da quel che pensano, dalle loro nozioni relative al modo in cui la società si muove o dovrebbe muoversi, perché solo attraverso questa operazione epistemologica possiamo apprendere forme di sapere più complesse e scoprire aspetti sconosciuti delle nostre società. Quelle forme di sapere infatti non sono disciplinari, non sono prodotte nelle «istituzioni» (le nostre università sono istituzioni reazionarie dove vengono confinate anche le idee rivoluzionarie), nascono da premesse molto diverse, sottopongono a critica molti dei concetti eurocentrici, compreso quello di democrazia, ed elaborano nozioni che non sono disponibili nelle lingue coloniali e nel nostro immaginario. Abbiamo bisogno di nuove idee, soprattutto ora che il neoliberalismo si sta suicidando: l'epistemologia del sud è un modo per afferrare la ricchezza delle esperienze sociali senza che vada dispersa.
Per fare questo, come lei stesso ha sottolineato, è però necessario avviare un dialogo interculturale, operare una continua traduzione tra diverse pratiche e saperi critici ed elaborare una teoria della traduzione che crei intelligibilità reciproca, riconoscendo la diversità «non come fattore di frazionamento e isolamento, ma piuttosto come fattore di condivisione e solidarietà». Ci può dire qualcosa di più a proposito del concetto di traduzione interculturale?
Secondo alcuni, non si può mai stabilire un vero e proprio dialogo tra culture perché queste sarebbero incommensurabili, mentre secondo altri esisterebbero delle costanti universali. Le differenze culturali sarebbero più superficiali di quanto non appaia, e si tratterebbe soltanto di trovare il giusto procedimento. Io sostengo invece una terza posizione, secondo la quale non esistono vere incommensurabilità, ed è dunque possibile intrattenere una dialogo interculturale, a patto però che si stabiliscano adeguate condizioni; ma sostengo anche che ci sono cose che non possono essere tradotte senza residui. Pensiamo per esempio al concetto di ubuntu nelle culture subsahariane, per il quale non disponiamo di equivalenti, perché la cultura occidentale ha talmente reificato la divisione tra natura e cultura da non essere più in grado di riconoscere nella natura la nostra Terramadre. In linea generale, dunque, dovremmo cercare di creare intelligibilità reciproca senza eliminare le specificità culturali, creando dei terreni sui quali sia possibile comprendere le differenze e al contempo capire ciò che rimane in comune pur usando lingue differenti. Lo scopo non deve essere l'intrattenimento intellettuale, ma stabilire alleanze tra movimenti sociali. Solo così potremmo combattere il capitalismo e il colonialismo su scala globale.
Secondo la sua analisi, il pensiero occidentale moderno sarebbe un «pensiero abissale», perché fondato su un sistema di divisioni e distinzioni visibili e invisibili, nel quale le divisioni visibili costituiscono il fondamento di quelle visibili. Ci può spiegare meglio cosa intende?
Il pensiero abissale è una disposizione intellettuale, filosofica e politica, che si traduce nella capacità di tracciare linee attraverso le quali istituire divisioni radicali all'interno della realtà, rendendone una parte «riconoscibile», rispettata, rilevante, e condannando tutto il resto all'irrilevanza e all'inesistenza. È una pratica strettamente connessa al colonialismo: nel capitalismo, infatti, la linea che divide i lavoratori dai capitalisti non deve essere abissale, perché per poter essere sfruttati i lavoratori devono essere visibili e riconoscibili, altrimenti l'economia capitalista non funzionerebbe; i contadini, le popolazioni indigene, le donne, tutti coloro che non sono «direttamente» sfruttati dal capitalismo invece possono essere facilmente dimenticati in quanto non esistenti. E la stessa operazione si applica alle forme di conoscenza e ai modi di organizzazione sociale. A partire dal XVI secolo, in particolare, tutto le regole che vengono applicate nel «vecchio mondo», non valgono per il «nuovo mondo», dove una linea abissale divide i «selvaggi», gli indigeni dal resto. Nelle colonie dunque non è mai valsa la tensione tra regolamentazione ed emancipazione sociale, che caratterizza invece il nord globale, ma soltanto quella tra appropriazione e violenza. E questa divisione continua ad operare ancora oggi: il colonialismo infatti non è cessato con la fine del colonialismo politico, ma prosegue, insieme al razzismo, che si definisce proprio per la capacità di disegnare linee abissali dichiarando irrilevante chi si trova «al di là» della linea. D'altra parte, la dicotomia appropriazione-violenza sta contaminando anche l'altro paradigma socio-politico. Negli ultimi anni l'emancipazione, che ha sempre rappresentato il polo opposto della regolamentazione, è diventata l'«altro» della regolamentazione, il suo doppio. La «democrazia sociale», come la intendiamo in Europa, lo testimonia: originariamente intesa come orizzonte di emancipazione, è divenuta una forma di regolamentazione sociale per il capitalismo, e dopo il 1989 ha perso anche il suo volto umanitario, dimenticando le politiche sociali.
Lei sostiene che da trent'anni a questa parte il paradigma sociale, politico e culturale del contratto sociale verte in uno stato di «grave turbolenza», che si manifesta nella predominanza strutturale dei processi di esclusione su quelli di inclusione. Ci può descrivere i fenomeni del post-contrattualismo e del pre-contrattualismo, e spiegare perché essi sarebbero «soltanto apparentemente contraddittori»?
Quando venne elaborata la metafora fondante della società capitalistica occidentale, quella del contratto sociale, molte persone non ne potevano far parte; i lavoratori non ne erano parte, e così le donne, i servi, e via dicendo. In sintesi ne erano parte solo quelli che avevano delle proprietà e pagavano le tasse. L'idea, dunque, era che gli esseri umani non fossero naturalmente parte del contratto sociale, e che dovessero venirvi inclusi. La storia della modernità occidentale negli ultimi trecento anni può essere vista come una continua battaglia per l'inclusione nel contratto sociale. Fino a poco tempo fa, i gruppo sociali che continuavano a rimanere esclusi avevano la speranza di poter essere inclusi in un futuro prossimo. A partire dal 1980, invece, il movimento di inclusione è finito, e assistiamo a un opposto movimento di esclusione, che procede secondo due aspetti: quelli che erano già entrati a farne parte ne vengono esclusi, non possono più affidarsi allo Stato per essere protetti socialmente, e non hanno speranza di potervi rientrare di nuovo (il post-contrattualismo), mentre i loro figli sanno che non entreranno mai a far parte del contratto sociale, e che se dovessero ottenere dei benefici li otterranno non dallo Stato ma grazie alla filantropia (pre-contrattualismo). Mentre il pre-contrattualismo e il postcontrattualismo continuano a espandersi, il contrattualismo si ridimensiona. Il rischio è il fascismo sociale.
In uno dei saggi dedicati al World Social Forum, lei scrive che la sua novità sta nel fatto che è «inclusivo», e che questa tendenza all'inclusione potenzialmente illimitata ha contribuito a creare una nuova cultura politica. Dando priorità a ciò che è comune piuttosto che alle differenze, questa politiica risulta estranea alla teoria politica della modernità occidentale, tanto nella sua variante liberale che in quella marxista. In che senso questa tendenza inclusiva è «sia la forza che la debolezza» del World Social Forum?
In termini politici il World Social Forum rappresenta una novità: Innanzitutto è stato creato nel sud, e inoltre rappresenta uno spazio aperto in cui confluiscono tutti quelli che rifiutano l'idea che il neoliberalismo rappresenti la fine della storia. Messe insieme, tutte queste persone che condividono idee molto generali sono in grado di avviare una conversazione attraverso la quale individuare le basi su cui creare le alleanze per muovere battaglia al capitalismo e al colonialismo. La novità del WSF sta dunque nella capacità di tenere insieme, per la prima volta nella storia, tutte queste persone di diversa provenienza, e soprattutto nel riconoscere non solo che esistono forme di oppressione non riconducibili a quella specifica forma di oppressione che è lo sfruttamento del lavoro (su cui si concentravano invece le tradizionali battaglie anticapitaliste), ma che esse operano congiuntamente, dando forma a un network di oppressione. La sua debolezza sta invece nel fatto che, seguendo la tradizione politica occidentale, le lotte vengono organizzate politicamente seguendo l'omogeneità del gruppo sociale di riferimento, in modo tale che sia l'omogeneità del gruppo a determinare l'unità dell'azione politica. L'altra debolezza sta nella scarsa capacità di progettare azioni politiche globali. Non a caso la Carta dei Principi del WSF esclude che possa organizzare in suo nome delle azioni politiche. Per quanto mi riguarda ritengo che oggi, dopo la maturazione del WSF e di fronte al suicidio del neoliberalismo, sia possibile trovare un accordo su cinque e o sei idee che costituiscano una sorta di prima agenda globale. Mi sembra che il WSF sia stato molto più efficace di quanto non si pensi, ma potrebbe esserlo anche di più. Oggi si presentano le condizioni favorevoli per introdurre alcuni temi nella sua agenda, penso per esempio ai temi ecologici, che a Belem saranno importantissimi grazie alla forte presenza dei movimenti indigeni.
Ipotesi a cui seguono congetture, gole profonde che sfornano scenari apocalittici, mentre la borsa procede il suo andamento caotico al ribasso, ma alla fine è certo: la Microsoft "metterà in libertà" una parte consistente dei suoi dipendenti. L'unica incertezza è sul numero dei licenziati. C'è chi parla di "aggiustamento strutturale"; chi si limita a sottolineare, con cinica amarezza, che all'annuncio di ieri sui cinquemila licenziamenti da qui a Luglio ne seguiranno altri, perché la società di Bill Gates vuole disfarsi degli "esuberi" in vista di una ristrutturazione interna per reggere al ciclone della recessione. Indipendentemente dai motivi che stanno portano la Microsoft a una riduzione drastica di forza-lavoro qualificata, è certo che si sta chiudendo un'epoca, quella che ha portato l'high-tech a essere il settore portante dell'economia mondiale negli anni Novanta.
Alcuni analisti finanziari dicono che nel quartier generale di Redmond i dirigenti di Microsoft stanno pensando di rinnovare a Yahoo! la proposta di acquisto; altri guru dell'hi-tech invitano invece a guardare con realismo alla crisi economica, di cui gli effetti attuali sono solo il prodromo di ben altri scosse che cambieranno radicalmente il panorama dell'industria informatica. Nel frattempo, i grani del rosario di dolore hanno come nomi Google, Ibm, Dell, Hewlett Packard, Intel, Cisco: imprese leader del settore che hanno tutte annunciato licenziamenti. Finora, gli esuberi sono individuati fuori dai confini statunitensi, quasi a scarica fuori dagli Stati Uniti gli effetti della crisi, ma non è detto che nel futuro sarà sempre così.
I guerrieri del software
Dunque fine di un lungo periodo, quello che ha visto il neoliberismo andare a braccetto con l'industria high-tech. Un legame certo burrascoso, ma che ha comuqnue caratterizzato la cosiddetta "rivoluzione del silicio". In primo luogo, perché la critica antigerarchica presente nella sottocultura tecnologica è stata piegata al una flessibile organizzazione capitalistica del lavoro; dall'altro l'insofferenza verso l'intervento statale nell'economia, perché sinonimo di burocrazia e negazione della creatività necessaria a sviluppare prodotti hardware e software innovativi. Società come Microsoft, Cisco, Intel hanno infatti organizzato la produzione prendendo congedo da quella separazione tra ideazione e esecuzione, cioè da uno degli imperativi dell'organizzazione scientifica del lavoro che hanno contraddistinto l'operato delle grandi imprese novecentesche. Ora, la forza-lavoro deve ideare e al tempo stesso trovare le procedure per rendere esecutivo ciò che è stato progettato in brain storming che coinvolgono gran parte della forza-lavoro. La crisi irreversibile della Ibm in quanto produttore di computer e di software alla metà degli anni Ottanta del Novecento è esemplificativa di quel cambio di paradigma nell'organizzare la produzione nel settore hig-tech.
La critica antigerarchica dei pionieri dell'industria high-tech è quindi diventata un senso comune anche alla Microsoft, che formalmente era ed è organizzata come un "impresa tradizionale". Ne I guerrieri del software - volume pubblicato in Italia da Utet e che è diventato una sorta di cult nella ricostruzione della genesi della "rivoluzione al silicio" - il suo autore Pascal Zachary si sofferma a lungo sulle aporie tra l'organizzazione del lavoro formale e quella effettiva in Microsoft, per giungere alla conclusione che una impresa che si vuole innovativa deve necessariamente ridurre al minimo i livelli gerarchici. Le lancette della storia dovevano scorrere un po' di anni per apprendere che alla Microsoft non tutto era rose e fiori.
È toccato a uno scrittore come Douglas Coupland descrivere la fuga dei Microservi (Feltrinelli) dal regno panoptico di Bill Gates, mentre alcuni giornalisti e attivisti sindacali documentavano negli stessi anni, come ad esempio nel libro sui Netslaves (Fazi), che a Redmond il controllo sulla forza-lavoro veniva esercitato attraverso l'accesso alle stock option (la possibilità cioè di acquistare azioni della società a prezzi facilitati), stringendo in un abbraccio mortale i dipendenti ai successi dell'impresa; oppure che c'era una sottile, ma feroce linea divisoria tra chi lavora alla Microsoft. Da una parte ci sono infatti i temps, cioè programmatori, analisti con un contratto a tempo determinato che non accedono alle stock options né ai fondi pensione e che non hanno copertura sanitaria nonostante siedano accanto e svolgano lo stesso lavoro dei perms, cioè quella forza-lavoro che è pagata profumatamente, ha il proprio fondo pensione e l'assicurazione sanitaria.
L'assenza di rigide gerarchie, l'invito alla creatività e all'innovazione sono diventate una forte spinta affinché il neoliberismo si potesse affermare quale modello dominante nella produzione della ricchezza. È solo con la crisi del 2001 e il fallimento di molte imprese dot.com che il neoliberismo mostra come fosse "strumentale" la sua attitudine libertaria. Per sopravvivere alla crisi del 2001, molte imprese hi-tech cominciano a sviluppare "tecnologie della sicurezza" che prevedono una limitazione nella libertà d'azione della forza-lavoro in nome appunto della sicurezza e della segretezza per prevenire l'azione dei "terroristi".
Il neoliberismo mostra così il suo lato autoritario, teso a esercitare il controllo sulla forza-lavoro e a regolamentare la produzione e circolazione della conoscenza, che in questo settore è indiscussa materia prima. La definizione, a livello sovranazionale, dei Trips (i trattati relativi al commercio della proprietà intellettuale del Wto), così come le continue revisioni delle norme nazionali sul diritto d'autore e sui brevetti hanno sempre un duplice obiettivo. L'appropriazione privata della conoscenza è il primo, mentre l'uso della proprietà intellettuale per disciplinare i comportamenti nel World wide Web e della forza-lavoro è sicuramente il secondo.
Nel saggio scritto nel pieno della crisi delle imprese dot-com, Manuel Castells mette a fuoco i cambiamenti che stanno modificando La Galassia Internet (Feltrinelli), inviduando nelle eterogenee "culture" presenti nel World wide web un antidoto all'autoritarismo del capitalismo. Ciò che però lo studioso di origine catalana sottovaluta è il fatto che l'high-tech è diventato il settore trainante del capitalismo contemporaneo. I microprocessori e il software sono presenti nei frigoriferi come nelle televisioni, nei lettori dvd come negli aeroplani, nelle automobili come nei telefoni cellulari. L'innovazione è il mantra che tutti recitano. Ma innovazione vuol dire che gli equilibri, i rapporti di forza tra le imprese e tra queste e la forza-lavoro sono instabili. Microsoft rischia così di diventare una comparsa su Internet quando fanno l'irruzione sulla scena altre società, come Google. E quando la convergenza tecnologica tra informatica, telecomunicazioni e televisione diviene realtà il panorama comincia freneticamente a movimentarsi di nuovo.
La società di Redmond reagisce, forte anche del flusso di cassa garantito dalla sua egemonia nei sistemi operativi, ma è in affanno. La parola d'ordine nella rete è social networking, ma Microsoft non ha mai amato la condivisione della cononoscenza. E perde quindi colpi su Internet, dove la cooperazione e relazioni sociali che lì sono considerati la fonte dell'innovazione, nonché "bacino" per accurate strategie di marketing per chi vende le sue merci. Su tutto ciò Microsoft è solo una comparsa. Quando i subprimes fanno implodere l'accurata strategia del credito al consumo "affinata" nel corso del tempo, anche la locomotiva dell'high-tech perde colpi. E la strategia del plunder, il "saccheggio" delle risorse fisiche e intellettuali tipico del neoliberismo sembra giunto su un binario morto, come ha più volte ricordato su queste pagine Ugo Mattei.
Produttori alla pari
L'attuale recessione ha certamente messo in secondo piano i nodi irrisolti di Internet. Silenti sono gli studiosi che parlavano di wikinomics (pessimo neolinguismo derivanta dall'unione tra il termine wikipedia e economics) e di peer to peer production (la produzione alla pari tanto amata dai libertari della rete). Solo Yochai Benkler, autore dell'importante saggio su La ricchezza della rete (Università Bocconi editore), continua a sostenere che estendendo fuori lo schermo l'organizzazione produttiva nata nel web il capitalismo può uscire da questa crisi. Ma al di là del fatto che quella organizzazione produttiva, quella messa al lavoro della cooperazione e delle relazioni sociali è già dominante al di fuori dello schermo, aiutando a comprendere meglio tanto i comportamenti della forza-lavoro che delle imprese, resta il fatto che le notizie che vengono dall'high-tech appiano come un bollettino di guerra, dove le perdite significano licenziamenti, ristrutturazioni industriali. In altri termini distruzione di intelligenza collettiva, quasi una masochistica rinuncia alla fonte dell'innovazione. Nel frattempo, Google annuncia la cacciata di esuberi per razionalizzare le spese; Intel "mette in libertà" centinaia di tecnici. L'informato Wall Street Journal sostiene che Microsoft, oltre ai cinuquemila licenziamenti, ne dovrà fare altri diecimila, indipendentemente dalle scelte imprenditoriali che vorrà fare per mantenere la posizione.
La crisi è sempre un periodo di trasformazione. E forse ciò che stiamo assistendo è l'avvio di quella "distruzione creativa" che il capitalismo usa per innovarsi e per riprendere il controllo su una situazione ingovernabile. La distruzione di intelligenza collettiva a cui stiamo assistendo è forse il prezzo da pagare affinché la necessaria discontinuità rispetto al passato coincida con la continuità del capitalismo stesso.
Autore dalla mentalità filosofica radicata nel pragmatismo americano e dall'atteggiamento critico proprio degli etnografi - perché «un'idea deve confrontarsi con l'esperienza reale, altrimenti diventa una pura astrazione» -, Richard Sennett è il sociologo contemporaneo che ha offerto strumenti indispensabili per comprendere le conseguenze del capitalismo sulla vita quotidiana e i deficit sociali prodotti dall'erosione del «capitalismo sociale», dimostrando che il capitalismo flessibile conduce al disordine, dando vita a «forme culturali che celebrano il cambiamento personale ma non il progresso collettivo» e, allo stesso tempo, a forme di potere ancora più opache. Di fronte a questa opacità, suggerisce Sennett, non dovremmo mai stancarci di elaborare strategie per rendere leggibile e visibile la figura che incarna l'autorità pubblica, smascherando le sue illusioni attraverso l'uso dell'immaginazione. Dopo tutto, «il difficile, scomodo, e spesso amaro compito della democrazia» è proprio questo: introdurre un «disordine intenzionale dentro l'edificio del potere».
Nato a Chicago nel 1943, dopo aver abbandonato una promettente carriera di musicista Richard Sennett si è dedicato alla sociologia, formandosi nelle Università di Chicago e Harvard. Negli anni Settanta insieme a Susan Sontag ha fondato (e poi diretto) il «New York Institute for the Humanieties». Già consigliere dell'Unesco e presidente dell'«American Council on Work», si divide tra l'insegnamento alla New York University e alla London School of Economics. È autore di tre romanzi e di diversi testi. In Italia sono stati pubblicati L'uomo flessibile (Feltrinelli), Rispetto (il Mulino), La cultura del nuovo capitalismo (il Mulino), Autorità (Bruno Mondadori), Il declino dell'uomo pubblico (Bruno Mondadori). Lo abbiamo incontrato a Milano, dove ha presentato il suo ultimo libro, L'uomo artigiano (Feltrinelli, traduzione di Adriana Bottini, pp, 311, euro 25), di cui il manifestoha già parlato il 27 novembre.
Alla fine de «La cultura del nuovo capitalismo», lei scrive che l'abilità artigianale è un valore «che potrebbe fare da contrappeso alla cultura del nuovo capitalismo», ma aggiunge che immaginarla «in termini di policy rappresenta la sfida più radicale». Potremmo leggere il suo ultimo libro, L'uomo artigiano, anche come un tentativo di affrontare questa sfida?
In parte è così, dal momento che dietro la questione centrale, relativa a cosa significhi acquisire delle capacità, sviluppare le competenze espresse nel lavoro, diventare capaci di fare bene qualcosa, c'è la convinzione che nel momento in cui rispondiamo a questo interrogativo comprendiamo anche che tipo di istituzioni dovremmo edificare per rendere possibile quell'acquisizione. Dunque, se è vero che in questo testo, per una precisa convinzione, non ho voluto presentare alcuna policy esplicita, se non in senso molto generale, è altrettanto vero che L'uomo artigiano è un contributo che propongo alla sua definizione. Infatti, se non riusciamo a capire cosa si intende la promozione tra «le persone comuni» della possibilità di dare forma ed esprimere le proprie capacità non potremmo inventare gli strumenti che permettano loro di farlo. Tradotto in questioni di attualità politica, il programma di Obama per la creazione di nuovi posti di lavoro si avvicina a ciò che intendo: bisogna fare in modo non solo che la gente torni a lavorare, ma che torni a farlo in un modo che gli consenta di dispiegare le proprie abilità.
Ne L'uomo artigiano lei ricorda un incontro, avvenuto nel 1962, con Hannah Arendt - convinta «che le persone che fabbricano cose di solito non capiscono quello che fanno» -, mentre nella parte conclusiva sostiene che l'intento del libro «era quello di salvare l'animal laborans dalla svalutazione di cui lo aveva fatto segno» la sua maestra. Cosa c'è di sbagliato nella distinzione arendtiana tra «homo faber», colui che si chiede «perché», e «homo laborans», colui che si chiede semplicemente «come»?
Si tratta di una distinzione da cui discendono conseguenze disastrose, e che non ha fondamento. Quando tentiamo di risolvere un problema concreto, ad esempio una macchina che non funziona, pensiamo sempre criticamente, senza che si dia alcuna distinzione effettiva tra il «come» e il «perché». Allo stesso modo, quando ci chiediamo perché una cosa è così come è, che si tratti di un oggetto fisico o di un processo sociale, dobbiamo comprendere in che modo effettivamente funziona.
Ho voluto molto bene ad Hannah Arendt, e la mia è una polemica che investe soltanto la dimensione intellettuale, certo non quella personale. Ritengo che sia del tutto sbagliata la sua idea che per capire quel che stiamo facendo dobbiamo ritrarci dalle azioni pratiche, anziché indugiarvi. Dietro questa distinzione c'è poi una rilevante questione filosofica: quella di Hannah Arendt è una nozione molto «greca», che sembra avvicinarsi alla concezione del piacere inteso come sospensione dell'interesse; all'idea cioè che si debba riflettere senza essere mossi dall'urgenza di agire per la propria sopravvivenza. Per tutte queste ragioni credo che sia una distinzione falsa e insieme idealistica, che non «tiene»: possiamo capire il «perché» soltanto quando guardiamo anche al «come»; la tecnica infatti è una diversa forma di teoria, e teoria e pratica sono elementi inseparabili.
Ne L'uomo artigiano lei scrive che «le capacità che il corpo possiede di conformare oggetti fisici sono le medesime capacità a cui attingiamo nelle relazioni sociali». Quali sono le conseguenze politiche che derivano dall'idea che ci sia «un continuum tra l'organico e il sociale»?
Le rispondo partendo da un esempio. Nel XVIII secolo persone come Thomas Jefferson sostenevano che i lavoratori dotati di capacità tecniche potessero essere i cittadini migliori. Credevano cioè che coloro che facevano esperienza e dovevano affrontare difficoltà, che sapevano istituire relazioni tra la soluzione dei problemi e l'individuazione di nuovi problemi, che conoscevano le strategie da adottare per ovviare alla «resistenza» che gli oggetti oppongono alla risoluzione dei problemi, insomma che coloro che possedevano tutte le abilità necessarie a un buon processo lavorativo fossero individui in grado di esercitare la capacità di giudizio politico. Potevano cioè valutare la realtà politica molto più profondamente di quanti erano invece irretiti dalle ideologie o ancorati al peso della tradizione. L'esperienza maturata nel campo del lavoro era così collegata alla capacità di giudicare e riflettere sul tessuto politico. Una lezione che abbiamo dimenticata. Il marxismo avrebbe potuto e dovuto elaborarla, ma non l'ha fatto.
Quando vedo persone come Silvio Berlusconi mi viene da pensare a ciò che sosteneva Diderot, per il quale la situazione politica viene deteriorandosi quando le persone smettono di guardare al proprio lavoro come a uno strumento per misurare le proprie affermazioni come personae. Il contemporaneo personalismo politico può essere ricondotto a una delle idee dimenticate dell'Illuminismo: l'idea cioè che le esperienze che confluiscono nelle capacità artigianali di costruire oggetti concreti possano orientare la dimensione politica. Da qui la rimozione del realismo inteso come capacità di sapere ciò che è possibile e ciò che non lo è, facendo però in modo che le cose possibili accadano.
Credo fortemente nell'Illuminismo come progetto; per questo sono convinto che per recuperare e ristabilire il senso della realtà dovremmo concentrarci sulla capacità di fare un buon lavoro, sulla virtù dell'esercizio. E i cittadini, dal canto loro, dovrebbero capire da sé che i criteri da adottare nelle scelte dei loro rappresentanti politici non risiedono nel presunto fascino, bellezza, simpatia che hanno. La politica ha perso contatto con il lavoro inteso in senso qualitativo.
Riprendendo le note riflessioni di Max Weber sulla «gabbia d'acciaio», lei ha indagato la differenza tra le vecchie istituzioni civili ed economiche, modellate sulla struttura piramidale dell'esercito, che richiedevano l'obbedienza all'autorità ma allo stesso tempo promuovevano l'inclusione sociale, e quelle attuali, basate sulla rottura tra potere e autorità e sull'esclusione. In che termini sostiene «che la "gabbia d'acciaio" era tanto una prigione quanto una casa»?
Una delle idee dominanti del neoliberalismo, da sempre connotato in senso anti-burocratico, era quella, divenuta particolarmente pervasiva negli anni Novanta, che le istituzioni e la burocrazia fossero una cosa morta, da cui le persone avrebbero dovuto essere liberate. Io ho cercato di sottoporre ad analisi, criticandola, quest'idea che la burocrazia sia destinata inevitabilmente a imprigionare le persone: non era così e non è così neanche oggi. Direi infatti che, per poter pensare alle condizioni in cui vivono e in cui potrebbero vivere, gli individui hanno bisogno di strutture sociali. Altrimenti avviene quel che abbiamo visto accadere con l'ascesa e la caduta dei mercati finanziari: un mercato non strutturato, basato sulla mera competitività tra individui, segue inevitabilmente le regole dell'irrazionalità, che producono comportamenti reciprocamente distruttivi, dai quali escono tutti perdenti.
In una struttura più burocratica, all'interno della quale le persone sanno quel che ci si aspetta che facciano e in cui le regole sono negoziate ed «equilibrate» attraverso il coinvolgimento di un ampio numero di persone, si possono ottenere invece comportamenti più razionali nell'organizzazione generale; piuttosto che il caos, si daranno limitazioni e permessi, attraverso il lavoro con gli altri potrà essere realizzato un network di conoscenze, si potrà attingere a serbatoi di risorse diverse, dando vita a nuove forme di collaborazione. Certo, la burocrazia può diventare rigida, ma basta riflettere sull'assetto burocratico dei paesi scandinavi per accorgerci che quel pericolo può essere evitato orientando diversamente le strutture. Nel caso scandinavo, infatti, servono a strutturare l'esperienza, non sono un dominio che garantisce il mantenimento dei privilegi.
Lei ha sempre prestato molta attenzione a quella che definisce come «libertà narrativa», la capacità cioè dei singoli di modellare e interpretare attivamente la propria esperienza, di riconoscere un continuum biografico. Perché ritiene che l'organizzazione del lavoro nelle economie capitalistiche ostacoli l'esercizio di questa libertà?
Con le mie ricerche, penso per esempio a quelle confluite in Rispetto, ho verificato che l'organizzazione del lavoro del capitalismo flessibile rende difficile pensare strategicamente in una prospettiva temporale di lungo termine. Per i lavoratori «flessibili», la maggiore sofferenza sembra essere legata proprio alla difficoltà di dare forma a una narrazione strategicamente orientata, di definire una storia, di riconoscere una «trama» nelle cose che fanno così come di individuare un obiettivo riconoscibile da raggiungere. È una sofferenza perché quando non abbiamo obiettivi a lungo termine, quando non sappiamo cosa dovremmo e potremmo fare, diventiamo estremamente vulnerabili nei confronti dell'urgenza del momento e degli altri.
Questo ci riporta a quello che dicevamo poco fa, perché la burocrazia potrebbe aiutarci nella ricerca di un senso da attribuire alle nostre narrazioni. Potrebbe offrirci delle coordinate per rendere più trasparente ai nostri occhi ciò che vogliamo, ciò che possiamo ottenere, la «lontananza» verso cui orientare i nostri sforzi. D'altronde ciò vale anche per le imprese, che potrebbero ottenere livelli di produttività più alti se solo sapessero opportunamente orientare la propria burocrazia.
La vita urbana è un altro dei suoi interessi più evidenti, e in un saggio ha sostenuto che il capitalismo flessibile ha sulla città precisamente gli stessi effetti che produce nei luoghi di lavoro. Ci può spiegare meglio cosa intende?
L'influenza del capitalismo flessibile sulla città si traduce nell'aumento della segregazione, della differenziazione, nella tendenza alla iper-semplificazione. In queste condizioni i cittadini trovano estremamente complicato comprendere quali siano le cose su cui si deve negoziare nel contatto quotidiano e nelle esperienze con gli «stranieri». L'ambigua complessità che si crea nelle forma urbane di vita sociale fa inoltre diminuire il coinvolgimento reciproco e l'interesse per l'ambiente circostante.
Mi sono interrogato spesso sui modi attraverso i quali è possibile evitare tutto ciò, su come contrastare questa tendenza alla «purificazione», alla segregazione. La pianificazione urbanistica potrebbe essere uno strumento. Ma questo è un altro discorso.
Un'analisi preziosa quella di Beverly Silver. Frutto di un lavoro più che ventennale di raccolta dati e di comparazione tra realtà nazionali, questa studiosa statunitense giunge alla conclusione che la vulgata sulla scomparsa della classe operaia è una cortina fumogena per occultare la realtà di sfruttamento che caratterizza l'economia mondiale. Allo stesso tempo, Beverly Silver sostiene che anche negli Stati Uniti e in Europa non è scomparso il conflitto operaio, semmai mutano le figure produttive che ne sono le protagoniste. Al posto degli operai delle imprese automobilistiche o dei minatori possiamo intravedere, a Varsavia come a Parigi, a San Diego come a New York, a Roma come a Madrid, la silhouette dei lavoratori dei servizi, della formazione, dei trasporti, delle pulizie.
Il pregio del saggio Le forze del lavoro (Bruno Mondadori, pp. 292, euro 29) sta quindi nel contestare i luoghi comuni che hanno recentemente marchiato lo studio del movimento operaio, facendo discendere dalla perdita di potere del sindacato la legge aura sulla residualità della lotta di classe nel capitalismo contemporaneo. Con l'aggiunta che la comprensione della globalizzazione economica passa attraverso la costruzione di una mappa dei conflitti della forza-lavoro.
Ascesa del made in Usa
La tesi della studiosa statunitense è presto riassunta riassunta. La spinta propulsiva del capitalismo non va cercata nella sua capacità di organizzare al meglio la produzione, bensì nel conflitto operaio che costringe le imprese a innovare continuamente il processo lavorativo, sia dal punto di vista del sistema di macchine che del flusso del processo produttivo stesso. Lo spostamento di baricentro dell'economia mondiale dall'Inghilterra agli Stati Uniti è stato dovuto soprattutto al fatto che le imprese made in Usa hanno fatto proprio l'insegnamento derivante dall'aspro conflitto di classe al di là dell'Oceano e innovato le forme di relazione con la classe operaia, giungendo a quella organizzazione scientifica del lavoro che doveva preservare la società statunitense dal conflitto operaio. Per fortuna che la storia non ha seguito il corso ipotizzato dai manager di Chicago: i primi vent'anni del Novecento sono infatti costellati da forti conflitti operai nelle imprese statunitensi, senza per questo sminuire cosa accadeva nel vecchio continente tra Berlino, Torino, Manchester e Mosca. Da qui al nesso evidente tra le trasformazioni nell'economia-mondo e conflitto operaio.
Il capitalismo globale muta infatti al ritmo del conflitto di classe. Detto in termini più che sintetici, le imprese statunitensi, negli anni Sessanta e Settanta, cominciano a indirizzare i propri investimenti diretti all'estero verso quei paesi dove è assente un movimento operaio organizzato. Lo stesso faranno, da lì a poco, le «sorelle» europee. E questo per due motivi: da una parte il basso costo della forza-lavoro nei paesi «ospiti»; dall'altra la preventiva disponibilità di quei governi «amici» a reprimere ogni tentativo di organizzare un movimento sindacale degno di questo nome.
Declino del Sol levante
L'economia capitalista è tuttavia innervata anche di competizione. E può quindi accadere che imprese giapponesi, coreane, thailandesi, malaysiane, filippine crescono perché fortemente insediate in paesi con una forte tradizione autoritaria e antioperaia. Il successo del made in Japan e, attualmente, della Cina e dell'India vanno cercati proprio in questa disponibilità del potere politico a stabilire le condizioni necessarie e sufficienti allo sviluppo di imprese che non contemplino la presenza di una classe operaia organizzata.
Il conflitto operaio può certo essere sconfitto, ma è però come l'araba fenice: risorge sempre, anche dove meno te lo aspetti. Da questo punto di vista i dati forniti da Beverly Silver sono impressionanti. Con puntigliosità ha infatti raccolto, assieme a altri, i dati della presenza di conflitti operai nei paesi capitalistici. Ne emerge un affresco di un'economia mondiale costellata da scioperi, rivolte e insurrezioni operaie, tanto nel Nord che nel Sud del pianeta, in Europa come negli Stati Uniti, in Asia come nei paesi dell'ex-socialismo reale.
Un altro elemento significativo dell'opera di Beverly Silver è il rifiuto di individuare un settore specifico della forza-lavoro come elemento trainante del conflitto di classe. Con realismo, infatti, la studiosa afferma che il conflitto può coinvolgere operai delle fonderie, minatori, delle imprese automobilistiche, ma anche dei trasporti e dell'istruzione, a seconda della centralità o meno di ognuno di questi ultimi settori nel «regime di accumulazione capitalistico» globale o nazionale. Un'innovazione da valorizzare rispetto a quanti continuano a sostenere che si può parlare di classe operaia solo se i suoi «componenti» indossano o meno una tuta blu.
Se il saggio di Beverly Silver fosse però solo come una ricostruzione storica dei conflitti operai dal 1870 perderebbe il contenuto problematico rispetto al presente. Le parti più «incompiute» sono quelle più interessanti, in particolare quelle in cui la studiosa analizza le possibilità di autorganizzazione di una forza-lavoro dispersa e frammenta. Interessanti, e propedeutici a futuri sviluppi analitici, sono le parti in cui Beverly Silver parla degli scioperi che hanno coinvolto gli insegnanti e i lavoratori dei servizi tanto negli Stati Uniti, che in Europa che in Asia. Forza-lavoro fortemente diffusa nel territorio, sfuggente, all'interno della quale svolge un ruolo importante la «linea del colore», come per i lavoratori dei servizi, o di un contenuto «intellettuale», come per gli insegnanti. E dunque forza-lavoro paradigmatica di quelle difficoltà nell'organizzare il conflitto sociale e di classe nel capitalismo contemporaneo. Uno dei limiti del libro è da rintracciare semmai nella sottovalutazione che hanno i cosiddetti «knowledge workers» nei timidi conflitti che hanno contraddistinto il capitalismo statunitense nell'ultimo decennio. Una lacuna da colmare proprio in questa fase di recessione economica, dato il carattere rilevante della produzione hig-tech nel capitalismo contemporaneo.
La talpa che scava
Nel saggio ci sono comunque importanti accenni alla necessità di «sindacati metropolitani», ma sono solo brevi note per un necessario lavoro di ulteriore inchiesta. Frammenti di analisi che tuttavia illustrano bene la posta in gioco. La dimensione dispersa, eterogena, multinazionale della forza-lavoro costituiscono tanto una ricchezza che un nodo da sciogliere. Una ricchezza perché sottolinea l'impossibilità di una ricomposizione «dall'alto» della forza-lavoro, evidenziando così la sua irriducibilità ai dispositivi di controllo messi in atto tanto dalle imprese che dal potere politico nazionale; ma anche come effetto miserabile di quegli stessi dispositivi di controllo.
Un nodo da sciogliere perché finora le rivolte e i conflitti di una forza-lavoro frammentata non riescono a modificare in profondità i rapporti di forza nella società. L'indicazione di un «sindacato metropolitano» è da considerare quindi solo come un forma organizzativa transitoria a un «altro» ancora difficile da definire. Sapendo però che nel frattempo la talpa continua a scavare con metodo e pazienza.
Dice Giovanni Sartori: «Il 2009 sarà il primo anno – temo – di una tempesta economica perfetta. Una tempesta destinata a durare finché non torneremo a capire come nasce il denaro, cosa fa ricchezza». (Corriere della Sera, 31dicembre)... E io temo proprio che abbia ragione.
Poi imputa alla sinistra la responsabilità di avere travisato la questione anteponendo il problema della distribuzione della ricchezza al problema della creazione della ricchezza. Ora, se si tratta di questa crisi, a me sembra che, per una volta, la "sinistra" sia innocente.
Dio solo sa se la sinistra ha compiuto errori fatali. Al punto da restare ammaccata e a indurre a invocare i suoi critici di non sparare sull’ambulanza. È vero. In tempi nei quali disponeva di un rapporto di forza politico favorevole, ha forzato talvolta le rivendicazioni salariali (anche se bisogna qualificare: in certi casi, come nel nostro attuale, un aumento di salari si impone proprio per uscire dalla crisi).
Ma poiché si tratta della tempesta nella quale siamo immersi, mi sembra superfluo ricordare che essa è stata confezionata in America da un governo di destra, con l’osservanza di una politica che più disegualitaria non avrebbe potuto essere. La sinistra di tipo europeo, cui Sartori implicitamente si riferisce, in America neppure esiste e dunque deve essere assolta per non aver commesso il fatto.
Ma c’è di più. L’accusa che Sartori muove alla sinistra si adatta perfettamente alla destra "liberista". Qual è, infatti, lo "specifico filmico" della crisi se non proprio quello di avere per anni distribuito ricchezze inesistenti? Su tre piani distinti ma convergenti.
Sul piano mondiale l’America ha vissuto e vive tuttora di risorse ben superiori a quelle che produce, finanziandole con il risparmio della sobrietà asiatica e realizzando così la parabola del ricco debitore. Sul piano dell’economia nazionale l’altissima pressione dei consumi, che ha finora mantenuto la domanda a livelli elevati, si basa su un colossale indebitamento delle famiglie americane che, con buona pace di Max Weber, hanno cessato da tempo di risparmiare. Che cos’è quell’indebitamento da cui è originata la crisi americana se non ricchezza distribuita senza essere prodotta?
Infine, sul piano dell´impresa, della grande impresa, della Corporation, che cosa sono gli sconfinati guadagni dei manager americani, i loro stipendi di favola, le loro opzioni azionarie, le loro liquidazioni faraoniche, se non rendite di posizione: differenze tra valori di mercato che essi stessi sono in grado di influenzare e valori reali? Anche questa è ricchezza distribuita senza essere stata prodotta.
Sartori si batte da tempo valorosamente contro l’irresponsabile e criminosa proliferazione della popolazione che condanna alla fame alla sofferenza alla morte milioni e milioni di bambini innocenti. Non possono sfuggirgli i disastri di una finanza basata sulla proliferazione di un indebitamento irresponsabile.
La finanza ha molti meriti. Fornisce liquidità al risparmio e agli investimenti. Contribuisce, se gestita con prudenza, a coprire i rischi degli investimenti, Di più. Entro certi limiti, anche le sue "scommesse" possono promuovere decisioni di investimento che le realizzano. Entro certi limiti, che sono stati irresponsabilmente travolti generando quest´ultima crisi.
Sono stato talvolta accusato di "finanzobia". Se fosse per me, si è detto, non ci sarebbe neppure l’assegno. No, ho risposto e ripeto. L’assegno ci sarebbe. Non ci sarebbe l’assegno a vuoto.
Resta l’ineccepibile affermazione di Sartori sulla necessità di capire come nasce il denaro, cosa fa ricchezza. Soprattutto, e credo che sarà d’accordo con me, ricchezza reale, non immaginaria. E non a scapito degli incolpevoli. Si è detto che l’indebitamento sregolato va a carico dei nostri posteri. E Woody Allen ha commentato: che c’è di male? Dopo tutto che cosa hanno fatto i posteri per noi? Ma non è vero. Quando le bolle scoppiano, e inevitabilmente scoppiano nel nostro tempo, sono i contemporanei a pagare. Anzitutto, quelli che non si sono arricchiti di ricchezze non prodotte, quindi sottratte ad altri: i lavoratori disoccupati, i risparmiatori frodati, i contribuenti chiamati a risolvere problemi che altri hanno creato.
Anno che viene, anno che va. Un passaggio normale, ma dominato da una crisi anomala e poco domabile. Questa crisi maturata sotto i nostri occhi annebbiati e ora è esplosa e ci domina. È - come abbiamo imparato sui libri - una crisi del capitalismo, del sistema che cerchiamo di avversare, ma gli effetti più disastrosi li ha su di noi. Innanzitutto sui lavoratori diventati non più oggetto di sfruttamento e di profitto come ai bei tempi quando sostenevamo la lotta di classe, ma spesa inutile e quindi da mandare per un po' in cassa integrazione e poi alla mendicità. La crisi restringe, elimina, i margini di trattativa. La crisi è del capitalismo, ma la prima vittima è il suo antagonista, la classe operaia e con lei tutte le speranze di crescita e di benessere. Le crisi economiche producono anche la guerra, che è un modo estremo di riaffermare il potere dei ceti dominanti.
La sanguinosa aggressione dello stato di Israele contro i disperati della striscia di Gaza va collocata in questo quadro di crisi e di oscurità del futuro. Non sono i rozzi razzi di Hamas a provocare l'aggressione. Ci sono le elezioni in Israele: per vincerle bisogna essere più duri e selvaggi del concorrente. C'è l'incognita di Obama: la guerra, serve a farlo schierare per Israele e per i suoi bombardamenti criminosi.
Nel nostro mondo occidentale c'è una crisi generale delle sinistre, delle forze che in qualche modo vorrebbero uscire dalla macchina infernale del capitalismo, che diventa più feroce quando è incalzato dalla crisi. Il capitalismo è - credo io - nella sua più grave crisi, peggio del famoso 1929. Più grave proprio perché il capitalismo si è perfezionato. Non ci sono più spazi vuoti nei quali la crisi si arena. Mai come oggi vale il detto secondo il quale il battito di una farfalla a Pechino provoca un terremoto a New York.
Ma allora cosa fare? Difficile rispondere: bisogna tentare come con questo giornale facciamo da più di trentotto anni. Non cedere alle tentazioni elettorali (siamo un giornale extraparlamentare) e stare più attenti ai fatti. Fare più inchieste in tutti i campi, a cominciare dalla scuola e dal lavoro, dai lavoratori per poi mettere in piena luce i nuovi meccanismi di sfruttamento e di dominio. Davanti a noi - se ne saremo capaci - c'è l'impegno in una grande battaglia culturale. Le pagine della cultura debbono essere il centro di una continua battaglia delle idee.
Siamo riusciti, con il sostegno di lettori e compagni, a uscire vivi dal 2008. Non è stato facile (molti ci hanno sostenuto, anche se sono scontenti di noi, e la campagna «Fateci uscire» dovrebbe continuare). Ora per il 2009 siamo impegnati in una lotta ancora più difficile e per questo dovremo intensificare il rapporto con i nostri lettori. La pagina delle lettere deve diventare una piazza d'incontro, discussione, progetto, iniziativa. Siamo ancora in edicola (anche in web ci stiamo impegnando per un sito migliore) e non abbiamo nessuna intenzione o tentazione di mollare. L'anno nel quale entriamo può - deve - essere di ripresa, di approfondimento dell'analisi e di rilancio dell'iniziativa. Buon anno.
La gestione dell'attuale fase di convulsione capitalistica offre una nuova importante occasione di saccheggio. La giornalista e studiosa Naomi Klein, in un recente editoriale, mostrava le impressionanti analogie fra la campagna di Iraq e il bailout di banche e big corporations. Mutatis mutandis, si tratta di due disastri costruiti ad arte (invenzione delle armi di distruzione di massa in un caso; illusionismo finanziario nell'altro) e della «naturale» assegnazione della loro soluzione a quegli stessi soggetti che li hanno determinati. L'essenza del disaster capitalism. Cambiano i perdenti e il valore assoluto delle perdite umane dirette, ma l'ordine di grandezza del disastro trasformato in bottino è simile e si calcola nell'ordine delle migliaia di miliardi di dollari.
Il 28 ottobre, con una lettera aperta al Segretario al Tesoro Paulson, anch'essa assai poco diffusa dai media ufficiali, Leo W. Gerard, presidente di United Steelworkers (sindacato metalmeccanico), dimostrava come i primi 125 miliardi del bailout fossero stati spesi in modo tale da regalarne metà al management delle imprese beneficiarie del salvataggio. Nel caso di Goldman Sacks, precedente datore di lavoro dello stesso Paulson, le proporzioni del saccheggio sono state clamorose. Pochi giorni prima Warren Buffet aveva investito cinque miliardi in azioni privilegiate della stessa banca, ricevendone in cambio almeno sette volte di più di quante Paulson ne abbia acquistate con la medesima somma in denaro pubblico.
La legge del saccheggio
Evitare che il saccheggio venga gestito dai saccheggiatori è una questione strutturale, che richiede, anche dal punto di vista giuridico, un ripensamento profondo dell'idea «americanizzata» di corporate governance che domina il dibattito giuridico-economico sulle istituzioni del capitalismo globale. Questa nozione, mal traducibile con «governo dell'impresa», pone al centro della scena la massimizzazione del shareholder value, vale a dire il valore delle azioni in borsa. Si tratta di un modello di impresa «leggero», contrattuale nella forma (l'impresa è vista come un semplice nesso di contratti), che concepisce l'efficienza come mera massimizzazione del valore delle azioni. La sua strutturale irresponsabilità sociale (il management è legato contrattualmente ai soli azionisti) spiega molto della logica di breve periodo che caratterizza il comportamento manageriale. I managers sono «vincenti» se massimizzano il valore delle azioni (cui sono legati i lauti bonuses e le options). Il lavoro è un mero input del processo di massimizzazione. L'impresa è efficiente se minimizza i costi (scaricandoli il più possibile sulla collettività) e massimizza il rendimento del capitale sotto forma appunto del valore delle azioni. Questa logica spiega la chiusura spietata di imprese sane, cosa fatta in Europa di recente da Electrolux, Motorola e molte altre, in virtù del fatto che il capitale poteva remunerare meglio gli azionisti se investito altrove, cioè nei paesi «poveri» dove è più facile scaricare i costi sociali sulla collettività. È questo modello diffusosi a macchia d'olio nel capitalismo globale alle radici della crisi che ormai si protrae da un anno e mezzo.
Il coro del realismo politico
Come in tutte le crisi, le prime reazioni sono le meno costose: taglio dei tassi di interesse, caute manovre sui deficit statali, classe politica che dichiara di ripensare certi eccessi, e perfino l'emergere di qualche nuovo politico «più credibile» nel risolvere il problema. Normalmente, ciò si accompagna ad un coro di intellettuali organici che ricordano a tutti la saggezza di John M. Keynes e le follie dell'ortodossia neoclassica. Questo spettacolo patetico presenta tratti comici quando offerto da quegli stessi che poco prima erano liberisti fanatici. Quando le prime soluzioni non funzionano, si diffondono misure più drastiche e costose: grandi bailouts per salvare chi è sufficientemente forte da aver accesso alle leve dello Stato, maggiore disponibilità all'utilizzo del deficit e della politica fiscale, riduzione del «rigore», perfino qualche nazionalizzazione di corporations particolarmente compromesse. È a questo punto che si accende il coro politico-accademico-mediatico del «troppo grande ed importante per fallire», del salvataggio come «rischio necessario» per riportare l'economia sul giusto binario. Questa fase può comprendere qualche estensione degli ammortizzatori sociali. Quando poi si rivelerà insufficiente, si procede verso un terzo livello che può comprendere (indipendentemente dal «colore» politico dei governi) assunzioni dirette da parte dello Stato, piani sostenuti di opera pubbliche, più significative nazionalizzazioni.
Certamente esponenti politici ed intellettuali di «sinistra», con accesso ai media dominanti, cercheranno di presentare questi interventi come conquiste radicali o perfino socialiste, cosa che ha come unico vero scopo quello di marginalizzare coloro che cercano una vera alternativa strutturale. Quest'ultima non può che passare da un ripensamento del corporate governance.
Il credito al consumo
L'attuale crisi, prodotto dell'insostenibilità sociale dell'impresa, è infatti dovuta ad un fenomeno molto semplice che tuttavia non viene mai utilizzato nello spiegarla. A livello globale, dagli anni Settanta ad oggi, il cosiddetto surplus cooperativo, ossia il valore aggiunto dei processi produttivi, anziché essere equamente diviso fra remunerazione del capitale e del lavoro è stato interamente assorbito dal primo. Né è conseguita una stagnazione dei salari, perché il corporate governance ha esasperato la riduzione dei lavoratori a «merce». Essi sono stati ridotti anche lessicalmente a stake holders, cioè uomini e donne che hanno un interesse (stake) all'andamento dell'impresa in cui la soggettività (anche politica) è riconosciuta ai soli imprenditori. Con la stagnazione salariale che ne è derivata, negli Stati Uniti è aumentato esponenzialmente il ricorso all'indebitamento personale per far fronte a bisogni (reali o indotti) di prima necessità. Se la «bolla casa» è già esplosa, quella delle carte di credito esploderà ben presto e potrebbe essere il colpo del ko.
Pensiamo a come le cose sarebbero andate diversamente se i consigli di amministrazione delle imprese al posto di essere costituiti da rappresentanti degli azionisti, avessero visto rappresentate, con autentico potere, le collettività coinvolte ed i lavoratori. Certamente si sarebbe verificata una progressive crescita dei salari piuttosto che la brutale crescita dei bonuses dei managers. Non ci sarebbe dunque stata la corsa all'indebitamento subprime che è andata di pari passo con l'impoverimento della classe media e con la crescita del divario sociale.
Naturalmente, una tale trasformazione strutturale del corporate governance, come ogni inversione di rotta autentica, non ha alcuna possibilità di verificarsi se non sostenuta da una forte «domanda politica». È soltanto nell'ambito di shock catastrofici che maturano le condizioni politiche per trasformazioni sistemiche profonde. Ne segue che il piano di restituire al lavoro e alle collettività la soggettività economica nell' impresa va posto in opera in modo tecnicamente provveduto e sofisticato fin da subito. In un certo senso, si tratta di riprendere il filo di un discorso interrotto, di quel «governo democratico dell'economia» di cui si parlò molto in Italia nel corso degli anni Settanta senza tempo tuttavia per trasformare l'elaborazione teorica in prassi o anche soltanto in tecnica applicativa.
Il passato che ritorna
Nei momenti di crisi, una classe dirigente degna di questo nome deve avere il coraggio di guardare con rinnovato rispetto ai modelli recessivi, imparando dalle ragioni della loro sconfitta ma anche sapendo immaginare una loro possibile posa in opera adeguata alle condizioni presenti. La soggettività del lavoro nell'impresa ha un pedigree storico e offre materiali di riflessione che non vanno dimenticati.
In Jugoslavia, una di queste esperienze recessive, due leggi, rispettivamente del 1950 e del 1976 (la «Legge sul lavoro associato»), si fecero carico di disciplinare la «socializzazione» dei mezzi di produzione e l'autogestione d'impresa. Idea fondante era quella di «democrazia nel proprio ambiente immediato», secondo la quale l'elezione delle alte cariche politiche costituisse una vuota forma se non accompagnata dal diretto potere decisionale sul posto di lavoro. Tale modello autogestito, ancorché complesso nel suo funzionamento, e quindi meno «efficiente» sul piano decisionale, fu accompagnato da qualche importante successo anche sul piano degli investimenti esteri, cosa completamente obliterata dalla successiva damnatio memoriae ma ben documentata nella letteratura giuridica anche internazionale. Purtroppo in Jugoslavia la questione dell'efficienza dell'autogestione non venne mai davvero affrontata a causa dell'eccessiva coltre ideologica che accompagnava il modello. Proprio la stessa ragione per cui oggi nessuno ripensa al corporate governance.
Siti Internet e libri
per aiutare la navigazione nell'attuale crisi
L'editoriale di Naomi Klein si può leggere nel sito Internet: http://www.redroom.com/blog/ugo-mattei/plunder-blog-naomi-klein-bailout). La lettera aperta a Paulson: http://www.redroom.com/blog/ugo-mattei/plunder-blog-mr-paulson-plunders-taxpayers-sake-his-own-firm). Per una discussione interessante sulla crisi subprime: « Plunder. Investigating our Economic Calamity and the Subprime Scandal» di Danny Sheckter. Sull' autogestione in Yugoslavia si veda: «La proprietà nell' impresa autogestita jugoslava» di Gianantonio Benacchio (Giuffrè); e per una discussione sul successo del modello misurato dal punto di vista dell' attrazione dell' investimentoi estero il saggio di Tibor Varadi in «Revue de droit des affaires internationals alias International Business Law Journal», No. 4/5 1990.
C’era una volta una confraternita di volenterosi che pretese di vedere, in Iraq, funghi atomici inesistenti e armi di distruzione di massa introvabili. Lanciarono una guerra, contro queste chimere, spargendo caos nel mondo. È strano, ma oggi sono gli stessi volenterosi a ritenere chimerico il disastro climatico che invece esiste, e inani oltre che costosi i piani di salvataggio della Terra. Tanto più inani in tempi di crisi economica. Il più esplicito è il presidente del Consiglio italiano, che ha dichiarato: «È assurdo parlare di clima quando c’è la crisi: è come se uno con la polmonite pensa a farsi la messa in piega». Si aggiungono gli europei dell’Est, tra cui spicca il capo di Stato ceco: secondo Vaclav Klaus (prossimo presidente del Consiglio europeo) la battaglia climatica è uno «stupido prodotto di lusso». In pericolo non è il clima ma la libertà, minacciata da un’ideologia verde che «spezza la fiducia nello sviluppo spontaneo della società umana». La politica che s’immischia è il comunismo pianificatore che torna, e l’ecologia ne è la reincarnazione. Peggio ancora: la Germania abdica al ruolo guida che ha avuto in questo campo.
L’amministrazione Bush ha guidato anche questa coalizione, come in Iraq: la distruzione del pianeta «non è il prodotto accidentale della sua ideologia».
La distruzione è l’ideologia. Il neo-conservatorismo è un potere che s’esprime dimostrando che puoi trasformare in macerie qualsiasi parte del mondo», scrive George Monbiot sul Guardian, denunciando i «Nuovi Vandali» del clima. La guida dei volenterosi ha cominciato a vacillare, con l’elezione di Obama, ma influenza tuttora gli affiliati. Il loro motto è: «Finché non vediamo la rovina qui, ora, essa non esiste. Magari esisterà per i nostri discendenti ma che importano i discendenti». Ieri avevano visto in Iraq la pistola fumante che non c’era. Oggi il pianeta stesso è smoking gun e non lo vedono.
L’accordo europeo di venerdì ribadisce, per fortuna, l’obiettivo fissato per il 2020: taglio del 20 per cento delle emissioni di diossido di carbonio, aumento del 20 per cento delle energie rinnovabili, miglioramento del 20 per cento dell’efficienza energetica. Ma l’accordo è pieno di concessioni ai riluttanti: Italia, Germania, Polonia sono esentati da vincoli rigidi, come ha spiegato Enrico Deaglio su La Stampa. Tutti sono contenti del vertice europeo perché l’unanimità - quando c’è forte dissenso su cose fondamentali - genera accordi falsi e non sceglie fra le posizioni preservandole dissennatamente tutte. Una parte dell’Europa non reputa la Terra in pericolo, e non è sconfessata. Non scorge minacce ma assurdi capricci: una messa in piega, un lusso da abolire quando occorre stringere la cinta in economia.
Dicono che atteggiamenti simili sono pragmatici, attenti agli interessi nazionali. Nelle stesse vesti si presentò la rivoluzione conservatrice, quando nacque negli Anni 70 e teorizzò il mercato che si riequilibra spontaneamente, senza ingerenze statali o politiche. La bolla finanziaria infrantasi quest’estate ha dimostrato quanto fosse irreale e ideologico questo pragmatismo. Esattamente lo stesso accade con il clima; solo che la bolla, ancora più enorme, è dura a svanire. Il governo italiano è d’altronde affezionato alle bolle, abituato com’è a giocare con l’illusione televisiva. Secondo Berlusconi «la crisi economica è psicologica, fatta di paura anti-consumista». È quanto sostenne nelle elezioni Usa il consigliere di McCain, l’imprenditore Phil Gramm («Questa è una recessione mentale: siamo diventati una nazione di piagnucolosi», disse al Washington Times il 9 luglio 2008). Si è visto che fine ha fatto tanta spocchiosa certezza.
Privo di sapienza pragmatica è anche il senso del tempo, in chi diffida della questione climatica. Dice ancora Berlusconi che «questa non è l’ora dei Don Chisciotte. Abbiamo tempo». Non è vero che l’abbiamo, e lo confermano non solo i rapporti Onu del 2007 ma i dati più recenti. Di qui all’estate 2013, il Polo Nord avrà perso i ghiacciai. E il permafrost in Siberia si scioglie, liberando metano letale. Da mesi ripetiamo: una crisi finanziaria come questa non c’era dal ’29. Johann Hari sull’ Independent scrive che lo scioglimento del ghiaccio artico è da 3 milioni di anni che non lo vedevamo.
I riluttanti hanno questo, in comune: sono dirigenti che sprezzano intensamente la politica, che si fanno portavoce delle imprese più influenti, che accentrano lo Stato ma non per rafforzarne davvero le funzioni. Anche per questo non capiscono l’esistenza di un’economia che distrugge senza creare nulla. La lotta contro la crisi, per costoro, non fa tutt’uno con la lotta climatica. È loro ignoto quel che le unisce: le patologie, le comuni opportunità, i peccati di omissione commessi in ambedue i casi dalla politica, così bene illustrati da Jürgen Habermas nell’intervista alla Zeit del 6 novembre, e l’indifferenza ai tempi lunghi, alla posterità. I riluttanti sono aggrappati a paradigmi di un mondo ormai vecchio, in cui non è la politica a imporre il bene pubblico sugli interessi costituiti ma sono questi a comandare. E comandano le industrie più inquinanti, non le più deboli lobby verdi. Se non fosse così, la prospettiva sarebbe assai diversa. Il clima sarebbe esaminato non solo dal punto di vista dei costi, ma dei benefici.
La prospettiva sarebbe quella illustrata magistralmente dall’economista Marzio Galeotto, il 10 dicembre sul sito www.lavoce.info. Chiari apparirebbero i danni evitati dalla riduzione delle emissioni di gas-serra. Basti ricordare la canicola del 2003, che secondo l’Organizzazione mondiale della salute costò 52 mila morti in Europa. O il risparmio di spese sanitarie, ottenibile se le emissioni saranno ridotte del 20 per cento: 51 miliardi di euro (76 con un taglio del 30). L’indipendenza energetica italiana aumenterebbe, con un guadagno di 12,3 miliardi. Quanto all’occupazione, già oggi l’industria europea delle energie rinnovabili impiega più di 400 mila persone, con un giro di affari di 40 miliardi di euro (gli occupati salgono a 2 milioni nel 2020). Investimenti forti in tale settore creerebbero in Italia più di 100 mila occupati in 12 anni.
La crisi presente è un’opportunità, se crescita e energia verde son collegate. È la tesi di Obama, che vuol creare 5 milioni di posti e investire 150 miliardi di dollari nell’uscita dal petrolio: questo bene sempre più caro, raro, politicamente ustionante. Non a caso ha scelto un Nobel della fisica, l’ecologista Steven Chu, come ministro dell’Energia. Gli sforzi si concentreranno sul risparmio nella costruzione e nel riadattamento delle abitazioni (il 40 per cento delle emissioni di diossido di carbonio proviene in America da esse, secondo Al Gore). Sono proprio gli sforzi che Roma abbandona, non certo per pragmatismo ma per cinico tedio. Le misure adottate da Prodi, che agevolavano fiscalmente i lavori domestici di risparmio energetico, sono state abolite.
Finché penseremo che tutte queste crisi sono mentali non faremo nulla, pensando che nulla valga la pena. È un po’ come nella Dolce Vita di Fellini. Nella campagna romana, c’è una famiglia principesca che possiede una villa del ’500 del tutto decaduta. Il capofamiglia s’aggira sconsolato fra le rovine, sogna di mettere un pilastro qui, una trave lì. Si lamenta col figlio inerte, stanco di tutto. «Ma cosa vuoi che faccia, papà?», replica quest’ultimo stomacato.
È la cinica, accidiosa risposta di un ultimo rampollo aristocratico. Cosa volete che facciamo, per la Terra? I falsi pragmatici la trattano come personale proprietà, che muore con loro. I profeti e veggenti vedono il lungo termine, il pianeta intero, e pensano come gli antichi indiani d’America: «Noi non abbiamo ereditato la terra dai nostri antenati, ma l’abbiamo presa a prestito dai nostri figli».
La proposta avanzata da Carla Ravaioli nel suo libro Ambiente e pace, una sola rivoluzione forse è un po' utopistica. Però, come tutte le idee seriamente utopistiche, è una delle poche davvero realistiche. Nel senso che parte dalla spiegazione e dalla definizione di un problema vero - cioè "reale" - e indica delle soluzioni concrete, cioè anch'esse "reali". Dove sta allora l'utopismo? Semplicemente nella politica: nella forza degli interessi che si oppongono alla soluzione realista.
Qual è l'idea di Ravaioli? Di avviare il disarmo unilaterale dell'Europa, come mezzo per abbassare drammaticamente le emissioni di gas nocivi nell'atmosfera senza, per ora, mettere mano alla grande questione dei consumi, che sono folli e vanno ridotti e modificati.
Dunque, in questo libro, Carla Ravaioli oppone una misura ad occhio e croce impossibile - ma realistica - il disarmo unilaterale di un intero continente, ad un'altra che lei stessa giudica ancora più impossibile - e al momento irrealistica - e cioè l'improvvisa presa di coscienza dei suoi limiti ormai visibilmente abnormi da parte del capitalismo e la rinuncia al profitto di fronte al pericolo imminente in cui versa il pianeta. Per il capitalismo - almeno, se avesse un forte senso di sopravivenza e dunque una disposizione al compromesso - tra la rinuncia al profitto e la rinuncia al profitto solo in campo militare, la seconda opzione dovrebbe essere più digeribile.
Cosa si intende per capitalismo? Non solo i suoi gruppi dirigenti, il suo Gotha. Ma tutto il sistema, comprese le sue opposizioni interne. Le quali, sul tema ambientale - cioè sul piccolo problema se salvare o no il futuro del pianeta - non hanno mai funzionato da anticorpi, come hanno fatto su altri versanti della battaglia politica e sociale. Carla Ravaioli non salva nessuno, che siano le socialdemocrazie nordeuropee o il difensore dei diritti civili Zapatero. Che sia l'inemendabile classe politica berlusconiana al potere o il Pd o il Prc, i Verdi e tutti gli altri. Destra e sinistra. Centro e estremisti. Marxisti e libertari.
Ed è proprio la dimensione diciamo così, universalmente politica, di questo libro, che ne è l'aspetto più seducente. L'analisi della politica delle sinistre, il suo cogliere la trappola in cui si sono ficcate senza rendersene conto.
Sono convinto da tempo - e lo ho scritto - che la sinistra oggi ha bisogno di andare oltre se stessa - cioè oltre i suoi schemi, i suoi tic, le sue ideologie novecentesche - se vuole recuperare la sua forza rivoluzionaria e di trasformazione, e riproporsi come strumento di cambiamento e di governo del mondo. Il libro di Carla Ravaioli va oltre (e non è la prima volta che Carla lo fa); ed è profeticamente uscito con un bell'anticipo sia sulla crisi finanziaria che sta strangolando il mercato globale, che sulla contrapposizione Italia, Polonia e altri paesi dell'est europeo con il governo di Bruxelles sulla questione della riduzione delle emissioni di gas nocivi.
Andare oltre cosa? Carla Ravaioli spiega perché molti aspetti dello stesso marxismo - quelli interni all'ideologia dello sviluppo economico visto come una legge di natura - sono entrati in contrasto con la necessità del pianeta, e del suo futuro, e dunque diventano conservatori, arretrati. Il grande filone di pensiero, ancora attuale, del marxismo è quello che riguarda la riproduzione e la critica del potere e della alienazione. Cioè quello che ha avuto meno ricadute nel comunismo reale e nella storia del movimento operaio. Le sinistre si accorgono di tutto questo? Sì, ma ne sono terrorizzate, lo vedono come una minaccia alle proprie certezze, alle proprie abitudini, alle proprie relazioni e alle proprie politiche.
Sullo sfondo del libro di Ravaioli c'è questa crisi finanziaria internazionale la cui scintilla è, proprio come descrive il libro, l'artificiosa creazione della domanda. In un mondo in cui la produzione di merci non risponde più in alcun modo a dei bisogni precisi, si vendono mutui a chi non sa come pagarli, e si rivendono quotando il debito collettivo in borsa. Fantastico. Crolla tutto ed ecco che gli iperliberisti, fregati, si affannano a chiedere regole, intervento dello stato, parlano di un'etica del capitalismo e della necessità di rimettere in piedi, presto, al più presto, la fiducia dei consumatori nel benedetto mercato.
Carla, con questo suo libro, accompagna l'analisi, sempre molto acuta e informata, sullo "sviluppismo" e sulla grande questione ambientale, a questa idea che un po' spariglia le abituali battaglie politiche. E cioè reintroduce nella discussione la "mozione" pacifista, ma non dal suo abituale versante "etico", bensì da quello ambientale. Il disarmo come necessità "naturale". Mi sembra una ottima idea.