L'uscita dalla crisi sarà possibile solo se saranno rispettate alcune condizioni: regole certe a livello internazionale; un cambiamento delle priorità, mettendo cioè al primo posto le condizioni dei lavoratori; una democrazia politica che veda il massimo della partecipazione nelle procedure decisionali a tutela dei beni comuni. Con questa intervista si chiude la serie «il capitalismo invecchia?», avviata, coinvolgendo un nutrito gruppo di economisti, per cercare di spiegare la natura di una crisi che in molti degli intervistati hanno definito sistemica, senza che questo significhi il superamento del capitalismo. La discussione proseguirà nel sito internet de il manifesto (www.ilmanifesto.it).
Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del '29?
Considererei la crisi attuale come una crisi sistemica, dove il termine sistemica deve accompagnarsi ad una serie di specificazioni. È sistemica perché riguarda il sistema economico sia nei suoi aspetti reali che finanziari; perché ora riguarda tutto il mondo e si è innestata su criticità, anche extraeconomiche, specifiche di singole regioni geografiche; riguarda il sistema delle relazioni tra gli agenti di un sistema economico in cui non c'è trasparenza, non c'è possibilità di ricondurre fatti a responsabilità precise; riguarda il rapporto tra teoria economica e policy, perché la teoria si è focalizzata sulla produzione di modelli econometrici - tipo il Var sviluppato all'inizio degli anni Novanta e adottato ampiamente - con cui si pensava di poter controllare i rischi delle sempre più numerose e varie attività finanziarie ed è diventato impossibile inserire nell'analisi economica elementi di valutazione. Infine, perché da un epicentro, si è subito dispiegata sui paesi più poveri e sulle fasce più povere di ogni paese. È il disvelamento di distorsioni presenti nel sistema mondo che riguardano, tra l'altro, lo sfruttamento delle risorse e la distribuzione del reddito.
Le vittime saranno tante e ben sappiamo chi saranno. Per quanto riguarda i confronti con il 1929, è bene sottolineare che è sempre importante tener conto delle specificità di qualsiasi evento. Se proprio vogliano guardare al passato, vediamo che ieri come oggi è sul tappeto il rapporto tra stato e mercato. Proprio a questo riguardo allora chiediamoci: come agì Franklin Delano Roosevelt nel 1933? Entrò nella Stanza Ovale e decise che dopo anni di depressione era improcrastinabile prendere decisioni: nominò Ferdinand Pecora a capo di una commissione che investigasse sugli eccessi speculativi che avevano favorito la depressione. Interrogò l'élite della finanza e svelò tutto lo svelabile. Fu promulgato il Glass-Steagall Act e le leggi che hanno dato vita anche alla Securities and Exchange Commission. L'Nber ha datato l'inizio della crisi nel dicembre 2007, ma non circolano ancora informazioni certe sui comportamenti tenuti dalle élite della finanza, né la società sembra ancora sufficientemente indignata e irritata da ciò, mentre le discussioni interne rischiano di erodere la possibilità di un sostegno politico sufficiente per procedere ad una complessiva ri-regolazione della finanza.
Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell'analisi economica - e della storia in generale?
Non si tratta di condannare la costruzione dei modelli economici in sé ma di condannare la mancanza di una valutazione critica dei modelli. In questo serve coltivare sensibilità storica: la storia abitua a guardare con attenzione molteplici scenari ognuno diverso dall'altro e diverso dal nostro. Chi non ha questa dimestichezza non trova interesse nella lettura degli scenari attuali allo scopo di portarne in evidenza i fattori di complessità, tende a semplificare e impoverire la propria capacità di analisi e a scambiare le sfumature del quadro scenico per mere ombre, non sa dare importanza alla ricerca delle radici dei fenomeni complessi. Il passato lo si ri-legge, lo si ri-scrive, lo si ri-vede non per farne un monumento ad uso e consumo di interessi passeggeri ma per preservare ciò che di vitale dal passato arriva a noi costituendo il tessuto, oggi, della continuità del lavoro umano.
Il cambiamento nel tempo e nello spazio della «pasta» di cui noi siamo fatti, così come lo sono le istituzioni, rappresenta un processo incessante di cui bisogna tener conto. Ciò è perlomeno strano, in quanto la storia del pensiero economico rivela come i grandi economisti abbiano costante questa preoccupazione e anche quella del mantenimento del dialogo tra i saperi, economici e non. Poi c'è un terzo problema, quello della divulgazione e dell'applicazione del sapere: si preferisce divulgare «certezze» semplificatorie, slogan, piuttosto che dibattiti sulla problematicità delle questioni teoriche e delle ipotesi sottostanti alle teorie. È più facile e veloce applicare modelli, scambiandoli per la realtà, piuttosto che chiedersi cosa ci sia effettivamente dentro questi modelli. La storia insegna che la società non è un laboratorio a cui applicare modelli. Non si vuole ammettere che l'essere umano è sempre in fieri e mai «concluso»? ma non è di questa certezza che si vive? Perché, allora, negarla? quello che disorienta è ammettere che otium e neg-otium sono elementi non disgiungibili per gli esseri umani? Che la contemplazione del bello fa parte della vita umana?
Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mina le basi stesse della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in la?
Non riesco a intravedere che ruolo oggi possa svolgere la politica se si assegna a questo ambito professionale ciò che concerne il bene comune sulla base di un dettame costituzionale dal carattere rigido, diciamo, molto meno flessibile del resto del sistema giuridico. Vorrei aggiungere a quanto già detto in tema di governance che oggi si fa urgente pensare ad un cambiamento della forma di governo «democrazia» la cui tenuta è debole perché si regge soprattutto sul criterio della governabilità a scapito di quello della rappresentanza e sul suo ripiegamento su molti appetiti privati. Come passare, allora, da una democrazia politica bloccata, anzi vittima di eutanasia, ad una democrazia che prenda vita dal basso, dalla voce cioè di quelli che vivono operando nel sistema? Sarebbe necessario considerare la politica una esperienza etica che si pratica, ascoltare le voci dalla società, tutte voci di persone che, in quanto tali, ontologicamente sono in dialogo. Forse eccedo nella fantasia. Ma forse no.
Molti ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull'asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al Washington Consensus, quanto al capitalismo di stato cinese? O c'è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l'Europa (con il sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
La crisi ha fatto emergere un dato ineludibile: non c'è un sistema monetario internazionale, non una istituzione in grado di coordinare o «sorvegliare» le politiche macroeconomiche dei paesi più influenti. E restano le domande: c'è l'intenzione che Fed, Bce e autorità monetarie cinesi si accordino per mantenere il tasso di cambio tra le valute entro limiti prefissati? Ci sono le condizioni perché ciò avvenga? L'Europa deve esserci attorno ad un tavolo di governance altrimenti si cancella il percorso originale e unico di un continente che va unificandosi non attraverso guerre e politiche di annessione; bisogna considerare, a proposito, che l'unificazione non si realizza attraverso una comune, indispensabile, politica monetaria, ma attraverso un «governo» dell'Europa.
L'attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e le pensioni): un intervento dal lato dell'offerta, anziché della domanda è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?
È vero che la prima mossa è stata quella di «salvare la finanza» e ciò non ha fatto che aggravare il problema delle disuguaglianze che è stato alla radice della crisi. Sono convinta che al centro del processo di cambiamento del sistema economico si debba porre attenzione primaria al «lavoro», o meglio ai «lavoratori». Da questa centralità la scienza economica dovrebbe prendere le mosse perchè il lavoro è la forma prima che il dialogo prende, perché il lavoro è, ontologicamente, parte e manifestazione della persona stessa che traffica col mondo e nel mondo. Questo è vero per ogni persona del mondo, perché il lavoro crea la ricchezza sia nei paesi in cui si vive miseramente sia in quelli in cui la conoscenza è la risorsa principale. Nella nostra società avanzata si lavora sulla base e attraverso la conoscenza: chi «conosce» mette in gioco la propria libertà, può accogliere, custodire, rendere disponibile, maturare, incrementare gli insegnamenti; ma può anche rapinare informazioni, nasconderle gelosamente, contraffare o mentire sulla conoscenza acquisita. E così facendo, nell'uno e nell'altro caso, ognuno diviene se stesso in questo genere di tessuto, genera frutti (istituzioni e rapporti).
Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle forme e delle dimensioni dell' indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l'economia mondiale?
Non abbiamo forse due orecchie, due occhi e una bocca? Dovremmo allora ascoltare e guardare il doppio di quello che diciamo. Ma forse questo non accade perché le due mani che abbiamo ci portano ad appropriarci in fretta e furia allungando le braccia più in là possibile per espandere e affermare noi stessi. In questo gli economisti possono dare veramente tanto, indagando i processi moltiplicativi del valore della conoscenza e analizzando funzione e ruolo dell'economia della conoscenza. Però, è chiaro, non si lavora se non si hanno le capacità e le motivazioni e se non si ha fiducia nel sistema in cui si vive. La strategia di rientro dal debito sarà in tutti i paesi una tragica realtà perché renderà le disuguaglianze più marcate e devastanti per molti. Interessanti sono i ragionamenti degli economisti di oggi attorno al problema dell'esistenza di una domanda effettiva e di una «offerta effettiva», cioè di capacità di produrre. Fare ciò può servire a stimolare, a far ripartire il processo produttivo anche se si teme che le imprese stimolate da interventi governativi possano trovarsi troppo «legate» e meno flessibili, meno favorevoli a cogliere opportunità di cambiamento e meno creative. Insomma, l'imprenditore vorrebbe poter scegliere lui il proprio finanziatore e scegliere lui a quali consumatori proporre i propri prodotti.
Ci sono forti analogie tra la crisi del '29 e quella attuale. Ma l'aspetto che colpisce di più è che i responsabili della crisi sono ancora al loro posto, continuando ad arricchirsi, cosa che non accadde con Roosevelt. Un'altra differenza è il ritorno sulla scena mondiale delle economie orientali, mentre l'Europa continua a inseguire il modello statunitense, invece che diventare un polo «autonomo» che attiri a se la Russia e gli altri paesi dell'ex-socialismo reale. Marcello De Cecco, rispondendo alle domande che annodano i fili di questa serie su «il capitalismo invecchia?», invita però a sviluppare un punto di vista «forte» sulla crisi economica.
Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del '29?
Ha sempre senso confrontare quel che accade nella economia del mondo nella fase attuale con quel che è accaduto in precedenza. E lo facciamo sempre, per definizione, con gli occhi del presente, come diceva Croce. Riandando, ad esempio, alla grande crisi, oggi notiamo, assai più dei contemporanei, che il 1929 fu preceduto da un decennio di prezzi stabili, ma di prezzi relativi che, come nella fase attuale, avevano visto l'aumento enorme dei valori dei beni immobili e di quelli patrimoniali. Si era avuta, come notò a suo tempo Sylos Labini, una inflazione senza inflazione, che aveva anche allora favorito i rentiers contro i percettori di salari. Quindi, qualche somiglianza esiste, tra il presente e il tempo della grande crisi. Anche l'additare da parte dei politici e della stampa i grandi finanzieri alla pubblica opinione come i veri responsabili è un elemento comune.
Oggi, tuttavia, la lezione keynesiana è ritornata molto velocemente di moda in tutti gli ambienti, anche i più neoclassici. La velocità con la quale economisti e uomini di governo, e anche la stampa che fa loro da eco senza ragionare in proprio, hanno voltato gabbana è veramente impressionante. Naturalmente, se la situazione si raddrizza, torneranno all' antico, a predicare le loro pseudo leggi economiche, quando sarà opportuno farlo di nuovo. Di «giapponesi» che si sono legati all'affusto dei loro cannoni invece di fuggire, ne conto veramente pochi. La coerenza come virtù è in grande ribasso. Probabilmente è un bene, ma personalemente trovo abbastanza squallido questo girare assieme al vento anche se, dopo un cinquantennio di vita professionale, dovrei essere abituato vederlo ciclicamente accadere.
Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell'analisi economica - e della storia in generale?
Non è corretto porre il problema come derivante dalla «predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazione matematica». Il guaio è solo che costoro, per motivi che sarebbe troppo lungo esaminare in dettaglio, si sono procurati la formazione matematica sbagliata. Quella, tanto per capirsi, che era più facile apprendere e più agevole usare. Esistono strumenti matematici che permettono di modellare o per lo meno studiare anche i fenomeni turbolenti, quelli caotici, le variabili che non si comportano bene, cioè in maniera regolare. Solo che sono assai più difficili da padroneggiare e da usare e far usare come routine a gente di non eccelsa mente.
Il modello in uso presso gli economisti mainstream ha il vantaggio di essere facilmente apprendibile da una vasta platea di studenti, non tutti di livello superiore. Quindi si ricorre, per trasmetterlo, ad una sua versione che Federico Caffè mirabilmente definì «marionettistica» parecchi decenni prima che gli studenti francesi la chiamassero «autistica».
Francamente, poichè credo che gli economisti abbiano avuto assai scarso impatto sulle cose del mondo, in questa come in altre occasioni, li paragono alla mosca cocchiera di Fedro, pronta a esclamare «aremus». La cosa sgradevole è che la mosca cocchiera resta al suo posto anche quando l'aratore cambia metodo o addirittura c'è un nuovo aratore. Si adatta, la mosca, e resta a mettere insieme , come faceva prima, «quattro paghe per il lesso», per citare Carducci, un signore ignoto alla gran parte dei giovani di oggi. Ma non per questo la mosca diviene meno irrilevante.
Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mina le basi stesse della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in là?
Non sono autorevole, e anche meno lo ero quando cominciai a scrivere proprio su questo argomento. I miei primi due articoli sulla responsabilità dei movimenti a breve di capitale nello smantellare il sistema di Bretton Woods sono del 1975 e del 1977. Entrambi facilmente leggibili su riviste inglesi. Mi cito, non solo perché, da buon accademico, ci tengo a far vedere di avere avuto naso in tempi non sospetti, ma anche perchè in quegli articoli non solo sottolineavo quanta importanza Keynes e White avessero dato, a Bretton Woods, al controllo dei movimenti di capitale, ma anche cercavo di individuare chi avesse voluto, assai prima del 1971, abolire anche quei pochi controlli che i due padri di Bretton Woods erano riusciti a far entrare nell'«Accordo finale» del 1944.
I nemici dei controlli sono quelli che imperversano anche oggi: quelli che dal libero movimento traggono enormi guadagni, le grandi banche internazionali. Allora erano essenzialmente le grandi banche di New York. Poi, dopo la quadruplicazione del prezzo del petrolio nel 1973 e l'arricchimento di alcuni principi arabi incapaci di spendere tutti i soldi che gli erano arrivati, furono anche la grandi banche inglesi e anche qualcuna francese e svizzera, ad associarsi ai demolitori dei controlli.
Oggi e negli ultimi vent'anni, sono state essenzialmente le grandi banche di investimento anglo-americane a demolire tutte le leggi e i regolamenti che impedivano loro di fare i propri comodi senza controllo alcuno. Lo hanno fatto con Carter e Reagan, con Bush padre e figlio, ma anche con Clinton. Quest'ultimo, insieme alla sua squadra di governo e di consulenza, è uno dei maggiori responsabili della gravità con la quale questa crisi ha potuto manifestarsi, aggravarsi e trasmettersi alla intera economia reale del mondo.
Putroppo, di quella squadra di consiglieri economici clintoniani, quasi tutti sono tornati a Washington insieme a Obama e hanno nuovamente operato affinchè i responsabili della crisi, invece di essere puniti, riuscissero ad arricchirsi anche nella fase dei salvataggi bancari. Alcuni di costoro sono distinti economisti, estremamente versati nel mettere le vele al vento anche dal punto di vista teorico.
Questa è una differenza tra i tempi di Roosevelt e l'oggi. Negli anni Trenta, la squadra di governo cambiò e i colpevoli del disastri furono puniti. Oggi, al contrario, essi restano imperturbabili a far soldi, perchè non esistono più poteri alternativi, come quello sindacale e quello della grande industria fordista, sui quali Roosevelt potè contare. La lobby, con l'eccezione dei fabbricanti d'armi e di prodotti farmaceutici e sanitari, è una sola e foraggia tutta la classe politica, a prescindere dalla affiliazione partitica.
Molti studiosi ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull'asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al «Washington Consensus», quanto al capitalismo di stato cinese? O c'è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l'Europa (con il sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
Che quella presente è una crisi sistemica lo prova proprio il prepotente ritorno sulla scena delle economie orientali, Cina in primo luogo, ma anche India, Corea. Dico ritorno perchè - lo ripeto spesso - un grande storico, Alan Milward, affermò parecchi anni fa che il predominio industriale mondiale dell'Occident, sarebbe apparso, agli storici di domani, come una parentesi di due o tre secoli in una storia che vede il primato produttivo e anche scientifico dell'Oriente come una costante plurimillenaria. Oggi questo è già accaduto e continuerà ad accadere. Sarà bene che noi occidentali cominciamo a rendercene conto. Qualcuno lo ha già fatto. Sono le grandi multinazionali americane e tedesche, che operano da protagoniste in Cina da anni, fornendo a quel paese i capitali, i beni di investimento e le tecnologie che gli hanno permesso di metttersi su un sentiero (meglio sarebbe dire, una autostrada) di sviluppo rapido e resistente alle scosse della congiuntura mondiale.
Di duopolio cino-americano non mi pare il caso di parlare. È stato Gorbachov ad affermare di recente che quel che è accaduto alla Unione Sovietica sta accadendo anche agli Stati Uniti.
Quanto all'Europa, se riuscirà a mettersi di nuovo sulla via della seta, come seppero fare gli italiani nel medioevo, riuscirà ancora una volta a costruire le cattedrali e il Rinascimento. Ma deve farlo con la massima decisione, realizzando una più stretta integrazione federale, e provando ad associare al proprio modello anche la Russia, oltre agli ex satelliti dell'Urss che già le gravitano attorno. Nella sola intervista al manifesto che ricordo di aver dato, quasi quarant'anni fa, discussi con Valentino Parlato proprio di questo tema, che ora è divenuto in parte realtà, per la parte cinese, ma non ancora riesce a realizzarsi, per la parte russa.
L'attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e pensioni): un intervento dal lato dell'offerta, anziché della domanda, è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?
Sulla finanza come unica lobby ho già detto.Quanto all'intervento dal lato della domanda, esso sta avendo luogo, ma non in Europa, bensì in Cina, India, Brasile, etc. Noi forniamo merci e servizi, comprimendo i costi, cioè riducendo i salari e i redditi fissi. È il destino dell'Europa, di non riuscire a essere padrona del proprio futuro economico. Questo può cambiare solo se la Russia, che ha bisogno di una vera e propria rivoluzione economica e che ha le dimensioni territoriali e le materie prime, sarà stabilmente associata come parte dell'Europa e non continuerà, come disse Mazzini, a comparire e scomparire dalla storia d'Europa.
Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare, a fronte delle forme e delle dimensioni dell'indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l'economia mondiale?
Se torniamo a crescere stabilmente, il debito pubblico può tornare rapidamente a pesare assai meno sul Pil di quanto sia giunto a fare oggi. Ma la crescita rapida e stabile deve avvenire preferibilmente su un sentiero di sviluppo meno stupidamente scimmiottante quel che di peggio accade negli Usa, favorendo cioè quelli che sono beni e servizi europei, la sicurezza sociale, la cultura e la ricerca pubbliche e non scioccamente privatizzate, i trasporti alternativi a quelli inventati per un paese enorme come sono gli Stati Uniti, lo sfruttamento di fonti energetiche tradizionali, come il carbone e il petrolio, in maniera non tradizionale, di nuovo non correndo dietro a folli avventure tecnologiche americane, del tutto prive di futuro, ma sviluppando la ricerca europea, che in questo settore ha un passato illustre e ora misconosciuto. Ma dobbiamo fare l'Europa dei popoli e non quella dei governi, il contrario quindi di quel che si è appena fatto a Lisbona.
La crisi ha reso evidente il fatto che la politica è ostaggio del capitale finanziario. La possibilità di una risposta degli Stati nazionali è quindi limitata. Ma difficoltà sono emerse quando il cosiddetto G20 ha provato a individuare misure adeguate alla radicalità della crisi, riuscendo alla fine a proporre strumenti che hanno rafforzato il processo di finanziarizzazione dell'attività economica. Ma ciò che è emerso in questo ultimo anno è che la finanza è diventato il cuore del capitalismo contemporaneo.
Si è giunti a questa situazione dopo che alla fine degli anni Ottanta il capitale ha puntato, riuscendovi, a produrre plusvalore e profitti non solo nell'attività produttiva in senso classico, ma anche nei settori della distribuzione e dellla circolazione. Ciò è stato reso possibile da due fattori: una privatizzazione dei servizi sociali e un cambiamento delle relazioni tra capitale e lavoro a favore delle imprese tanto nazionali che sovranazionali.
L'unica possibilità di invertire tale tendenza può venire solo da forti movimenti sociali che chiedano un reddito garantito, in quanto riappropriazione di una ricchezza prodotta dal lavoro in tutte le sue forme. È questa la lettura della crisi che emerge in questa intervista che si aggiunge alla altre della serie «il capitalismo invecchia?».
Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del '29?
È da trent'anni ormai che assistiamo al susseguirsi di maggiori o minori crisi finanziarie, più o meno una ogni tre anni, a dimostrazione che il capitalismo si è ormai struturalmente finanziarizzato, cioè ha posto i mercati finanziari al centro della sua stessa logica di funzionamento mondiale. Questa crisi è «sistemica» perché è nata negli Stati Uniti, svelando le contraddizioni (gli squilibri fondamentali) della globalizzazione così come essa si è data a partire dagli anni Ottanta, con il peso del debito pubblico e del debito commerciale statunitensi e il ruolo della politica monetaria incentrata sul dollaro. È però anche una crisi «congiunturale», se è vero che il capitalismo finanziario è intrinsecamente instabile, terribilmente fragile, all'interno del quale la privatizzazione del deficit spending di keynesiana memoria gioca un ruolo fondamentale.
Il confronto con la crisi del '29 serve soprattutto per evidenziare le differenze tra un capitalismo fordista nascente, quello degli anni Venti del Novecento, e un capitalismo finanziario, quello odierno, per certi versi anch'esso nascente, nel senso che è caratterizzato dalla pervasività delle dinamiche finanziarie e, soprattutto, dalla sovrapposizione dell'economia finanziaria e di quella reale.
Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell'analisi economica - e della storia in generale?
Il capitalismo finanziario è attraversato da contraddizioni formidabili, oltretutto contraddizioni che si dispiegano su scala globale e che in buona sostanza rimandano al problema della realizzazione del plusvalore con ricorso al deficit spending di mercato, ossia privato. Questa metamorfosi rispetto al deficit spending pubblico, in cui gli Stati giocavano un ruolo centrale nella determinazione della domanda effettiva, è simmetrica ai cambiamenti nei modi di produrre plusvalore a partire dalla fine degli anni Settanta, ossia la progressiva estensione dei processi di valorizzazione alla sfera della circolazione, dello scambio, insomma della riproduzione. Quello che è stato chiamato «biocapitalismo», in cui le forme di vita e la vita stessa sono «messe al lavoro», fino a trasformare il consumatore in produttore di beni e servizi, è un capitalismo storicamente nuovo contrassegnato dalla crisi della misura del valore e, quindi, dalla impossibilità strutturale di governarlo a mezzo di regolazione.
È questa natura del nuovo capitalismo che mette fuori gioco gli economisti mainstream e i loro modelli econometrici basati sull'ipotesi dell'efficienza dei mercati. Una maggiore conoscenza storica delle trasformazioni del capitalismo permetterebbe certamente di capire che questi cambiamenti riflettono, sono indotti da una nuova composizione sociale del lavoro.
Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mina le basi stesse della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in la?
La politica, oggi, è certamente ostaggio della finanza, nel senso che l'autonomia del politico è molto ridotta, costretto come è ad inseguire le vicissitudini dei mercati finanziari e gli effetti devastanti della finanziarizzazione sulle grandezze ecomomiche e sociali. Basti pensare alla spesa pubblica sociale, che subirà tagli pesantissimi a causa della crescita smisurata del debito pubblico. Si può forse affermare che la finanziarizzazione mina alle radici la stessa rappresentanza politica, nel senso che la priva della capacità di autonomizzarsi dalle contraddizioni e dai conflitti interni ai processi economico-finanziari. Il politico non riesce neppure a implementare regole minime per contenere la finanza e la sua estensione, anche se ci prova con fughe in avanti, ad esempio il «governo mondiale del G20», che però si rivelano ben presto ulteriori rafforzamenti dei processi di finanziarizzazione. Per «spingersi più in là» la politica deve riconoscere la sua crisi e, come dire?, ripartire dal basso, dalle lotte, dalle forme di vita, dalle rivendicazioni sociali che nella e contro la crisi stanno maturando ovunque.
Molti ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull'asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al Washington Consensus, quanto al capitalismo di stato cinese? O c'è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l'Europa (con il sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
Non c'è dubbio che lo scenario Chimerica, in cui Cina e America si sostengono reciprocamente con politiche monetarie e di finanziamento del debito pubblico compatibili con lo squilibrio fondamentale venutosi ad instaurare negli ultimi anni (la Cina con un surplus di risparmio, l'America con una montagna di debiti), è uno scenario per così dire inevitabile. La domanda è quanto durerà. Ad esempio, quanto tempo ci vorrà prima che la Cina riesca a rilanciare in modo duraturo la domanda interna, non solo con programmi di investimento infrastrutturale giganteschi, ma anche con salari e spesa sociale all'altezza dei bisogni del popolo cinese?
È forse il caso di ricordare che oltre la metà delle corporations americane quotate a Wall Street realizzano profitti producendo direttamente in Cina, il che complica non poco la possibilità stessa di riequilibrare l'assetto economico globale attraverso il solo asse Cina-Stati Uniti. L'impressione è che la Cina sosterrà gli Stati Uniti, attraverso politiche di sostegno al dollaro e il finanziamento del debito pubblico americano, fino a quando sarà riuscita a espandersi solidamente nel Sud del mondo, in America Latina e in Africa. A questo punto, forse già tra cinque anni, l'asse globale non sarà più est-ovest, ma est-sud.
In questo scenario l'Europa è perdente, a meno che non riesca a sviluppare politiche di welfare incentrate sull'accesso alla conoscenza e lo sviluppo di tecnologie eco-sostenibili, politiche sociali di investimento realmente autonome rispetto al modello americano e a quello cinese.
L'attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e le pensioni): un intervento dal lato dell'offerta, anziché della domanda è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?
La finanziarizzazione dell'economia, così come si è data in questi ultimi anni, comporta un mutamento delle modalità di monetarizzazione del circuito economico, nel senso che oggi è nella sfera direttamente finanziaria che la moneta viene creata e iniettata nel circuito economico sotto forma di rendite. Si tratta di una vera e propria privatizzazione della moneta assecondata dalla politica monetaria delle banche centrali. Questo comporta la possibilità di una ripresa dei mercati finanziari indipendentemente dalla ripresa dell'economia reale, il che spiega, tra l'altro, come i salari diretti e indiretti (rendite pensionistiche) possano continuare a rimanere bassi ancora per un lungo periodo di tempo.
D'altra parte, come osservava recentemente l'economista francese Michel Husson confrontando il rapporto tra tassi di crescita e occupazione del periodo tra il 1959 e il 1974 e quelli del periodo tra il 1993 e 2008, la capacità di un'economia di creare occupazione è ampiamente indipendente dalla sua crescita economica. Infatti, negli ultimi quindici anni dei Trenta gloriosi, l'aumento dell'occupazione è stato inferiore a quello degli ultimi quindici anni, e questo è avvenuto con un tasso di crescita del Pil tra il 1959 e il 1974 mediamente superiore a quello constatato tra il 1993 e il 2008. La qual cosa, nella situazione attuale in cui le prospettive occupazionali e di crescita sono molto negative, mette fuori gioco le politiche keynesiane secondo le quali un aumento dei salari, cioè della domanda, può di per sé trainare il rilancio occupazionale.
In altre parole, l'aumento della domanda, cioè del reddito, deve basarsi su un'aspirazione di giustizia sociale e di autonomia dalle dinamiche della ripresa economica. È in questo senso che vanno interpretate le rivendicazioni di un reddito garantito, o di una «rendita» agganciata ai bisogni sociali: domandiamoci quali sono gli impieghi di cui abbiamo bisogno per ridurre la sofferenza del lavoro, domandiamoci di quale reddito abbiamo bisogno per difendere i beni comuni, invece di privatizzarli per «creare occupazione».
Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle forme e delle dimensioni dell'indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l'economia mondiale?
Il prezzo può essere molto alto, e già lo stiamo pagando con l'aumento della disoccupazione e i tagli alla spesa sociale. È d'altronde sicuro che la pressione fiscale per far fronte ai deficit accumulati in questo periodo si farà sentire molto presto. Ma questo stesso prezzo possiamo farlo pagare al capitale finanziario, rovesciando i debiti privati in reddito sociale. È in gioco la nostra sopravvivenza come soggetti capaci di lottare, di creare forme autonome di vita. Nulla è deciso, tutto è possibile.
Le conseguenze della crisi sono state contenute anche attraverso l'indebitamento pubblico, evitando alle generazioni future di pagare un prezzo maggiore di quello che stanno già pagando. L'economia di mercato capitalistica è iniqua, inquinante e instabile. Nonostante la crisi attuale, è prevedibile che si consolidi ulteriormente. Ciò che serve è una politica riformista che compensi i suoi indesiderabili effetti collaterali
La crisi economica ha mostrato gli equilibri tra gli elementi fondamentali dell'attività economica. E tuttavia l'attuale recessione non ha molti punti di contatto economici politici con quella del 1929. Anche se gli effetti sono drammatici, l'economica mercato capitalistica uscirà in qualche misura rafforzata da questa crisi, mentre a livello internazionale il centro dell'economica mondiale sarà basato sulle relazioni tra Stati Uniti e Cina. Sono questi i temi dell'intervista a Pierluigi Ciocca, nuova puntata della serie «Il capitalismo invecchia?», dove sono state poste le stesse domande a un gruppo di economisti tanto mainstream che eterodossi rispetto alle teorie economiche correnti.
Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del '29?
Come quasi sempre è avvenuto, profondi squilibri nei fondamentali preesistevano. Fra essi, quelli incombenti sul dollaro. Solo negli ultimi dieci anni, gli Stati Uniti hanno cumulato disavanzi nella bilancia dei pagamenti di parte corrente, e quindi accresciuto la posizione debitoria netta verso l'estero, nella misura di oltre 5.000 miliardi di dollari (un terzo del loro prodotto lordo). Giappone e soprattutto Cina, in strutturale avanzo, sono divenuti i principali creditori degli Stati Uniti. In sintesi, gli americani non risparmiano, gli asiatici risparmiano troppo. La crisi 2008-2009 si è innestata su questi squilibri: una crisi grave, accesa dalla finanza, estesa alla produzione, in via di superamento ma con aspetti sistemici irrisolti. Tuttavia, non v'è confronto con la disastrosa, interminabile contrazione degli anni Trenta. Il Prodotto interno lordo del mondo cadde del 5 per cento nel 1930; cadde ancora nel 1931 e nel 1932, crollando del 17 per cento nell'intero triennio.
Quest'anno diminuirà dell'1 per cento, ed è previsto risalire del 3 per cento nel 2010. Nemmeno si configurano analogie d'ordine politico seriamente fondate con quegli anni, segnati da Hitler, Mussolini, Stalin. Abbiamo avuto l'ennesima conferma della intrinseca instabilità dell'economia di mercato capitalistica. Formidabile motore di crescita, essa è tendenzialmente iniqua, inquinante e, per l'appunto, instabile. Nonostante queste carenze - queste tre «i» - il sistema di mercato si radica e si diffonde in ragione del potenziale di sviluppo economico che prospetta.
Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell'analisi economica - e della storia in generale ?
L'instabilità - come Thornton, Bagehot, Marx, Keynes, Minsky, fra gli altri economisti, hanno da tempo teorizzato e come i banchieri centrali da sempre sanno per esperienza - è insita nel modo di funzionamento del sistema. Nella General Theory Keynes ha chiarito che in una «economia monetaria di produzione» le decisioni d'investimento - altamente decentrate, atomistiche - si fondano su «aspettative molto precarie». Seppure razionali, esse sfociano spesso in «improvvisi crolli dell'efficienza marginale del capitale». Allora, la crisi, reale e finanziaria, viene innescata da qualunque causa prossima che induca gli investitori a svendere merci, prodotti primari, immobili, titoli, valute. La scintilla può essere «una bancarotta, un suicidio, una fuga, una notizia, un debitore razionato, un mutamento d'opinione che induca un operatore importante a smobilitare» (Kindleberger).
Nell'economia di mercato le crisi sono certe; sono imprevedibili nei tempi e nelle sequenze; quando assumono forme nuove, come non di rado avviene, sono difficilmente prevedibili. Nondimeno, dopo Keynes, le crisi sono contenibili nelle loro ripercussioni, finanziarie e reali. Nel 2008-2009, l'applicazione acritica da parte degli operatori di modelli fondati sulla ipotesi di efficienza dei mercati può aver concorso ad aggravare la dimensione finanziaria della crisi. Pure, i pensieri della massa degli economisti accademici di stampo neoclassico hanno contato meno degli assetti strutturali che il sistema assumeva e meno del suo spontaneo modus operandi, largamente indipendente dalle politiche economiche, attuate o non attuate. Semplicemente, il sistema non è plasmabile a piacimento, così da conformarsi alla teoria economica di volta in volta prevalente.
Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mina le basi stesse della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in la?
La liberalizzazione dei movimenti internazionali dei capitali è stata talvolta troppo brusca. Ha provocato instabilità valutaria, quindi finanziaria e reale, in più occasioni (Argentina, Messico, Russia, Asia). Ma ciò non è avvenuto in questa crisi. Lo si temeva con riferimento al dollaro, che invece, sebbene sopravvalutato rispetto alle valute asiatiche, si è rafforzato fino al marzo scorso nella fase più turbolenta della crisi. Al contrario, all'interno delle singole economie, la finanza non è mai stata tanto regolamentata segnatamente nei mercati finanziari. Sono cambiate le modalità della regolamentazione e della supervisione. La discrezionalità delle banche centrali e la loro azione orientata alla prudente gestione degli intermediari creditizi sono state ritenute eccessivamente invasive dagli interessi finanziari e quindi dai legislatori.
L'accento è stato spostato sulle regole formali. Queste sono state rivolte a imporre ai mercati della finanza correttezza e trasparenza di comportamenti. Attraverso di esse, si pensava, i mercati avrebbero espresso autonoma stabilità. La crisi è esplosa nonostante questa fitta rete di regole. Più in generale, le regole, se efficaci e rispettate, evitano il ripetersi delle crisi finanziarie quando queste assumono le stesse forme già sperimentate in precedenti occasioni. Ma, come la presente crisi conferma, le forme della instabilità sono spesso nuove, e le regole non possono prevenire la speculazione realmente innovativa. Entro limiti, in passato vi sono riuscite le banche centrali, agendo in modo discrezionale, tanto discrezionale da apparire arbitrario, intrusivo. La discrezionalità delle banche centrali è stata fortemente ridimensionata proprio alla vigilia della crisi in corso, forse anche perché sgradita alla cultura economica «mercatista» fino a ieri prevalente. V'è da chiedersi se quella discrezionalità non vada accettata, giuridicamente meglio definita, ripristinata, politicamente confortata.
Molti ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull'asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al Washington Consensus, quanto al capitalismo di stato cinese? O c'è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l'Europa (con il sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
La Cina ha sostenuto il mondo nella recessione. Lo ha fatto con senso di responsabilità e con pragmatismo, cosciente del proprio ruolo. La sua economia ne esce rafforzata. Politicamente, si va verso un G2 tra Usa e Cina. Sono in più aspetti convergenti gli interessi dei due paesi leader, che rappresentano da soli oltre un terzo del prodotto lordo mondiale. L'economia europea è la meno dinamica al mondo. Nondimeno, l'Europa ha ancora la potenzialità politica per svolgere un ruolo. Sta agli europei affrettarsi a esprimerla. Sinora non l'hanno fatto. Per difetto di politica economica - cioè di politica - nel 2009 la stessa regressione del prodotto interno lordo è stata più acuta in Europa (-4,2 per cento) che negli Stati Uniti (-2,7 per cento), dove pure la crisi finanziaria era esplosa. Il caso italiano è specifico. Anche per l'inazione della politica economica, l'Italia patisce quest'anno la più grave contrazione del Pil mai sperimentata in tempi «normali», con conseguente crollo dell'occupazione. Ma la recessione si è innestata su un male più profondo, cronico: il ristagno della produttività in atto dal 1992, con le sue pesanti ripercussioni sul potenziale produttivo, sulla competitività, sui conti con l'estero.
L'attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e le pensioni): un intervento dal lato dell'offerta, anziché della domanda è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?
Sono occorsi, e occorreranno ancora, cospicui danari pubblici sia per turare le falle nella finanza sia per sostenere la domanda effettiva. I moltiplicatori dei bilanci statali sono risultati, in diverse economie del G-20 inferiori all'unità. Ciò è dovuto ai ritardi nell'incentrare la politica fiscale sulla protezione dei redditi più bassi e sulla spesa in infrastrutture utili. L'una e l'altra avrebbero espresso effetti moltiplicativi del reddito più pronunciati. Resta prioritario agire dal lato della domanda, che non è ancora in una espansione autoalimentantesi.
In alcuni paesi, peraltro, la possibilità di accrescere la spesa pubblica per infrastrutture, finanziare ammortizzatori sociali, ridurre la tassazione in modo progressivo è strettamente collegata con l'avvio di politiche strutturali, o dell'offerta, che prospettino, per il medio periodo, il consolidamento dei bilanci pubblici e una più sostenuta dinamica della produttività. Ciò è particolarmente vero per l'Italia, la cui economia vive due crisi: recessione e produttività stagnante. Da noi, urge l'avvio di una risposta ai problemi strutturali, a cui sono chiamati sia il governo sia le imprese, su quattro fronti: risanamento del bilancio, adeguamento delle infrastrutture, innovazione, concorrenza. Se questa risposta si concretizzerà, la stessa fuoruscita dalla recessione sarà accelerata. Un maggior deficit temporaneo di bilancio - imperniato sugli investimenti della Pubblica amministrazione e sul sostegno ai senza lavoro e ai meno abbienti - verrebbe accolto dai mercati finanziari senza aggravi del premio al rischio sul debito pubblico, perché inscritto in un programma serio volto, oltre il ciclo, a risanare le finanze dello Stato e a riformare fondamentali assetti dell'economia.
Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle forme e delle dimensioni dell'indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l'economia mondiale?
Il riformismo ha i suoi limiti. Sarebbe pura demagogia affermare che l'economia di mercato sia pienamente governabile. E tuttavia, se le ripercussioni finanziarie e reali della crisi non fossero state contenute anche attraverso l'indebitamento pubblico, le generazioni future avrebbero pagato un prezzo ben maggiore. Il reddito medio mondiale pro capite è oggi dieci volte quello di due secoli fa, quattro volte quello di un secolo fa, tre volte quello di soli cinquanta anni fa.
Nei principali paesi industriali, il patrimonio netto delle famiglie è oggi mediamente pari a sette volte il loro reddito disponibile. Figli e nipoti devono poter pienamente disporre dei proventi del loro lavoro ma - a differenza di quanto era avvenuto ai loro genitori e ai loro nonni, che non avevano ricevuto eredità - vivranno anche del lascito di benessere e di produttività, della ricchezza accumulata dai loro genitori e dai loro nonni. «L'umanità sta procedendo alla soluzione del suo problema economico»: così valutava Keynes «le prospettive dei nostri nipoti» nel 1930. Sta a loro saper scegliere, fra libertà e necessità, fra mezzi e fini, fra il bene e l'utile.
Un originale incontro alla Sapienza, in collaborazione con l'Università della Calabria, pensato da Piero Bevilacqua, la scorsa settimana, ha costituito un'interessante e in parte mancata occasione per riflettere sul senso del lavoro scientifico nei luoghi deputati a farlo: l'università, innanzi tutto. Il titolo A che serve la storia?, accattivante ma fuorviante, riceve un più preciso senso dal sottotitolo: I saperi umanistici alla prova della modernità. Compiendo uno sforzo per estrarre il succo del convegno, assai denso, e non sempre limpido, potrei cavarmela dicendo che si è trattato di un raduno dei renitenti alla mercificazione e alla funzionalizzazione delle scienze.
Letterati, urbanisti, filosofi, storici, giuristi hanno disegnato il profilo di un sapere «disinteressato», nel senso della sua non riducibilità alle esigenze del mercato, secondo quella logica perversa che certamente non solo in Italia, sta passando come un tornado sulla cultura libera, che si rifiuta di adottare la grammatica e la logica dell'«a che serve?». Di qua, il provocatorio titolo delle giornate romane. «A nulla», dovremo rispondere, ha ricordato Pitocco nell'intervento conclusivo. A nulla, se per «servire» si intende l'accettazione dell'inserimento della ricerca, dello studio, della creazione, nelle coordinate mentali e pratiche del sistema di dominio turbocapitalistico. A tutto, se vogliamo badare ai diritti delle persone e delle comunità, e alle esigenze di liberazione di milioni di esseri umani da condizioni di oppressione, sfruttamento, indigenza, malattia.
L'ossessione del mercato
Il quadro tracciato dalla introduzione di Bevilacqua, fondata specialmente su Edgar Morin e con qualche accento a Nietzsche e Heidegger non sempre condivisibile, è stato di drammatica potenza, all'insegna di un dolente pessimismo: non cosmico, ma storico, e dunque contenente in sé i germi di una possibile, necessaria rinascita. Giustamente Bevilacqua ha puntato l'indice contro le classi dirigenti europee che hanno preteso che le università si adeguassero «alle richieste, ai miti, all'ossessione economicistica di una stagione ideologica del capitalismo contemporaneo». L'attacco alla sottomissione della scienza alle esigenze di questo capitalismo, la sua trasformazione in tecnica, la cui potenza fa paura sia quando è dominata dall'ossessione del «travalicamento» (il dover/voler superare ad ogni costo i limiti: un tema ripreso e sviluppato nell'affascinante affabulazione di Laura Marchetti), sia allorché tenta la soggiogazione del mondo naturale, aprendo campi di inquietante prospettiva.
E come la scienza «pura», che tale non appare - ma vi è stato il duro contraltare di Paolo Flores d'Arcais, che ha sottolineato, senza tanti complimenti in una platea poco simpatetica, la necessità di una scienza pura, per ogni utile progresso del genere umano, distinguendola dai suoi usi politici -, anche l'economia è finita sotto accusa, per la sua passiva sopravvivenza inerte, in un mondo che richiederebbe ben altro sforzo.
Oggi, gli economisti si sono ridotti a numericizzare e quantificare gli elementi di quella scienza, banalizzandola, e sottraendosi al confronto con le altre discipline, a cominciare da quelle propriamente umanistiche. Che sono state le protagoniste del convegno: non nel senso di reclamare il ritorno del «latinorum», nelle scuole, o di imporre Dante e Shakespeare a memoria, ma nel senso che nelle università, in particolare, non si può pensare di cancellare, in nome di una immediata professionalizzazione dei curricula, elementi di conoscenza fondamentali per dare spessore culturale, e dimensione critica alla formazione.
E Alberto Asor Rosa ha dal canto suo preso a bersaglio il «mostro» della cultura di massa, invocando una difesa ad oltranza del vertice dell'«inutilità» della cultura: la letteratura. E l'arte in generale. L'artistico, ha scandito, è il massimo punto di resistenza rispetto al degrado e all'appiattimento delle civiltà. Dove c'è arte e letteratura le civiltà resistono più efficacemente. Perciò, aristocraticissimamente, Asor ha dichiarato l'imprescindibilità di una nuova élite, formata da «traghettatori». Piuttosto che intellettuali legislatori, o maestri, c'è bisogno di intellettuali che traghettino la civiltà occidentale al di là delle secche in cui si è arenata.
Amare autocritiche
Non so quanto gli altri relatori e il pubblico abbiano condiviso la proposta. Certo, anche a volerla seguire, siamo in ritardo. La prepotenza le culture dominanti che colonizza l'immaginario, come ha ricordato Serge Latouche, che ha riproposto la sua concezione della decrescita invitando a liberarci dalla «tossicodipendenza della crescita»; il senso comune imposto in società cloroformizzate dalla televisione; una scuola che sempre più a stento resiste all'assedio del mercato, e di una politica che se ne fa espressione; i territori e le città abbandonati allo sfruttamento intensivo e allo scempio, come ha ricordato l'impietosa, amarissima disamina di Edoardo Salzano; la terra, la terra intera - e qui Vandana Shiva, star del convegno, ha fornito dati impressionanti - ormai a rischio; il trionfo dell'idiozia nei mercati finanziari, punto di partenza dell'appassionato intervento di Giuseppe Cantarano.
Il quadro emerso da tanti, diversi specialismi è desolante (le relazioni di Cassano e di Rodotà). Ma contro la tentazione di dire che noi accademici siamo innocenti, Igor Mineo ha accennato alla necessità dell'autocritica dei professori, corresponsabili di una situazione di degrado e di perdita di dignità che ha fornito un valido appiglio per far passare nella pubblica opinione la bontà delle «ricette» governative di «riforma».
Qui però il convegno ha fallito. Ossia sarebbe stato necessario provare a tradurre politicamente i lacerti di analisi troppo difformi e rapsodiche, anche quando fascinose e convincenti. E magari lanciare dalla Sapienza un autunno caldo dei professori. Ma su questo siamo ancora in tempo. Può anche trattarsi, in fondo, di un inverno, o di una primavera.
Del convegno romano, su eddyburg potete leggere le relazioni di Piero Bevilacqua ed Edoardo Salzano.
Il ruolo fuorviante delle previsioni economiche stilate da fisici e matematici che non capiscono quasi nulla del funzionamento dell'economia; l'assenza di regole internazionali condivise sulla circolazione dei capitali; la difficoltà di riuscire a «ripulire» il capitale finanziario dai titoli «tossici». Ma anche l'assenza di garanzie sociali per i giovani che entrano, e rimangono si dovrebbe aggiungere, come precari: sono queste le radici e alcune conseguenze dell'attuale crisi economica. L'analisi di Tito Boeri rinvia alla «politica» nodi che spesso il nostro governo nazionale sceglie di non sciogliere. Un'intervista, questa che segue, che si affianca a quelle già pubblicate sul «capitalismo che invecchia», invitando a quelle riforme senza le quali non è possibile garantire, secondo Boeri, il rilancio dello sviluppo economico.
Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del '29?
Ogni crisi finanziaria è diversa dalle precedenti e questa non fa eccezione. Quindi i paragoni possono essere fuorvianti. Negli anni Trenta lo shock derivò dalla caduta di un terzo dell'indice generale dei prezzi con il conseguente crollo dell'attività economica. La soluzione era perciò chiara: si doveva stabilizzare il livello dei prezzi, come fece Franklin D. Roosevelt aumentando l'offerta di moneta, per stabilizzare l'economia e di conseguenza rimettere in piedi il sistema bancario. Questa volta, assorbire lo shock è più difficile perché è interno al sistema finanziario. Il cuore del problema sono gli eccessi di esposizione, opacità e rischi assunti nel settore finanziario stesso. C'è stato, sì, un crollo del mercato immobiliare, ma a differenza di quanto avvenne negli anni Trenta, non c'è stata una caduta generale dei prezzi e dell'attività economica.
I fallimenti di impresa sono rimasti relativamente pochi e ciò è stato un più che necessario elemento di conforto per il sistema finanziario. Ma tutto ciò rende ancora più difficile la soluzione del problema. Se non c'è stato crollo dei prezzi e dell'attività economica, non possiamo uscire dalla crisi attraverso crescita e inflazione, come nel 1933. Dobbiamo uscirne riformando il sistema finanziario. Ma riformare il sistema finanziario è molto complesso. Le lobby che vi si oppongono sono potentissime e il potere contrattuale dei banchieri nei confronti dei governi è addirittura aumentato nella crisi.
Inoltre, lo sviluppo delle cartolarizzazioni complica il processo di riordino della situazione. Negli anni Trenta, la «Federal Home Owners Corporation» acquistò singoli mutui ipotecari per ripulire i bilanci delle banche e dare un aiuto ai proprietari di casa. Questa volta, l'agenzia federale responsabile della ripulitura del sistema finanziario dovrà acquisire titoli garantiti da ipoteca, obbligazioni di debito collateralizzato, e tutte le varie forme in cui questi titoli sono stati tagliuzzati e rimpacchettati. Rimettere in ordine i bilanci delle banche e aiutare i proprietari di casa sarà infinitamente più complicato. E sarà molto più difficile raggiungere la trasparenza necessaria a ridare fiducia al sistema.
Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell'analisi economica - e della storia in generale?
Nel caso degli economisti poco o niente. Ogni economista sa bene che un modello è solo un modo di organizzare le informazioni disponibili e di controllare che il proprio ragionamento sia coerente. Chi scambia i modelli per la realtà è solo un cattivo economista. L'unica possibile deformazione indotta dalla formalizzazione è nello spingere molti ricercatori a non allontanarsi troppo da schemi analitici consolidati. Estendere un modello è molto più facile che costruire un modello ex novo. Questo può avere indotto conformismo. Ma molti modelli sono molto flessibili e permettono di considerare molte ipotesi alternative, comportamenti non razionali, problemi di informazione.
Un problema più serio ci può essere stato nel mondo della finanza, dove da anni si è consolidato il ruolo dei quant (da quantitative analyst), persone che hanno ottenuto un PhD in una materia scientifica, di solito matematica o fisica, e che prestano i loro servizi all'industria. I quant in genere, si occupano di gestione degli investimenti, creazione o quotazione di derivati e prodotti strutturati, gestione del rischio. Hanno contribuito alla crisi attuale prendendo cantonate epocali nella misura dei rischi effettivi di mercato.
Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mina le basi stesse della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in la?
Questa crisi non è legata alla globalizzazione. Né dei beni, né tantomeno dei capitali. È frutto della mancata regolamentazione di intere parti dei mercati finanziari, soprattutto negli Stati Uniti. E questa mancata regolamentazione è frutto della politica che si è prestata alle pressioni delle lobby per chiudere un occhio sul sistema bancario ombra che si era sviluppato negli Stati Uniti. Dunque non è tanto questione di avere più o meno politica, ma regole migliori che riducano la stessa discrezionalità del politico, spesso vulnerabile alle pressioni delle lobby.
Molti ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull'asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al «Washington Consensus», quanto al capitalismo di stato cinese? O c'è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l'Europa (con il Sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
Sì il vero G20 è oggi il G2 di Stati Uniti e Cina. L'Europa potrebbe contare, approfittando anche della debolezza del dollaro, se avesse una voce sola. Ma siamo molto molto lontani da questo. Un terreno su cui l'Europa potrebbe giocare un ruolo importante è nell'aiutare la Cina a costruirsi uno stato sociale. Prima lo farà, meglio sarà per tutti. La popolazione cinese delle campagne è rimasta sin qui ai margini della crescita. Gli immigrati interni, quelli che si spostano dalle campagne alle città, non possono neanche mettere i propri figli a scuola. Chi perde il lavoro perde tutto. Per questo i cinesi risparmiano così tanto. Quando la Cina affronterà questo immenso problema distributivo, ne beneficeremo tutti. Perché il superamento degli squilibri globali richiede una Cina che consumi di più e che esporti di meno. La Cina guarda all'Europa quando si tratta di progettare sistemi di protezione sociale. Ma sin qui lo ha fatto solo a parole. Fin quando non ci sarà democrazia in Cina sarà difficile andare molto al di là di queste dichiarazioni di principio.
L'attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e le pensioni): un intervento dal lato dell'offerta, anziché della domanda è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?
Non è vero. In Italia l'aumento della spesa pubblica è legato soprattutto alla dinamica di pensioni e salari nel pubblico impiego. I «Tremonti bond» sono rimasti nel cassetto e comunque non aumentano il debito pubblico. Del resto basta guardare alla struttura della spesa per rendersi conto di perché la spesa pubblica continui a crescere del 2 per cento all'anno, in termini reali, indipendentemente dall'andamento dell'economia. Quasi un quarto dei fondi pubblici va alle «Relazioni finanziarie con le autonomie territoriali», leggi Regioni ed enti locali. Il nostro federalismo è una voragine perché non responsabilizza gli organi di governo locali. Si interviene solo per coprire amministrazioni inefficienti e non si puniscono gli amministratori e politici locali nell'unico modo possibile, vale a dire riducendone la sovranità. Un altro quinto della spesa va al pagamento degli oneri sul debito pubblico. La terza posta fondamentale è rappresentata dalla spesa pensionistica, che assorbe anch'essa ormai quasi il 20 per cento delle risorse. Queste tre poste assorbono due terzi delle risorse disponibili.
Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle forme e delle dimensioni dell' indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l'economia mondiale?
Temo molto alto. Come Antoine nei racconti di Paul Nizan, credo che si troveranno un giorno a dire: «Avevo vent'anni, non permetterò a nessuno di dire che è l'età più bella della vita». Spero di sbagliarmi ovviamente. Non è solo un problema di debito, ma anche di mercato del lavoro. Nella crisi e nel dopo-crisi, infatti, rischiamo di perdere intere generazioni di lavoratori qualificati che, assunti solo con contratti temporanei, non ricevono adeguata formazione in azienda e diventano così manodopera di riserva, di cui disfarsi al primo calo degli ordini. È esattamente quanto avvenuto nello scorso decennio in Giappone e in Svezia che hanno conosciuto prima di noi una lunga e profonda crisi scaturita dai mercati finanziari.
Le imprese, quando prevale l'incertezza, smettono di assumere con contratti a tempo indeterminato. Solo una ripresa forte e sostenuta potrebbe convincere i datori di lavoro ad offrire contratti a tempo indeterminato. Ma sin qui questa ripresa non si vede. Per questo non è più rinviabile una riforma del percorso di ingresso nel mercato del lavoro che porti le imprese ad assumere senza una scadenza fissata a priori. Ci vuole un percorso graduale che costruisca tutele crescenti, garantendo al datore di lavoro maggiore flessibilità all'inizio del rapporto di lavoro e poi, via via, sempre meno. Chi si oppone a riforme di questo tipo, come alla riforma degli ammortizzatori sociali e all'accelerazione nell'entrata in vigore della riforma delle pensioni varata nel 1996 (!) si prende una grandissima responsabilità nei confronti dei giovani. Sta pregiudicando gravemente il loro futuro.
Le precedenti interviste sono state: a Giorgio Lunghini, Katia Caldari, Giacomo Becattini, tutti in questa cartella.
È difficile capire come il pianeta possa riuscire a trovare una via d'uscita dalla attuale recessione. L'accentuarsi dei conflitti per il controllo delle risorse prepara però un futuro poco roseo, rendendo risibile l'immagine del mercato come paese delle meraviglie La crisi è sistemica, perché investe le sue componenti finanziarie, sociali e culturali . E va compreso il fatto che la borsa e le banche costituiscono ormai l'ossatura dell'economia reale.
Il capitalismo è di fronte a una crisi sistemica, che coinvolge sia la dimensione finanziaria che quella «reale». Per Giacomo Becattini è questo il punto da cui partire per comprendere le conseguenze e gli «effetti collaterali» dell'attuale situazione economica. Studioso dei distretti industriali come modello di sviluppo economico parallelo a quello basato sulla grande impresa, Becattini sostiene che la crisi mette a nudo i limiti e le difficoltà della sinistra nella comprensione dei processi economici. Allo stesso tempo, in questo terzo appuntamento su come alcuni economisti italiani riflettono sulla situazione attuale, invita a non fare facili profezie sulle vie d'uscita dalla crisi, perché dipendenti da «logiche sistemiche» proprie del processo economico che dalle politiche nazionali e internazionali.
Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del '29?
La crisi è anzitutto sistemica, perché investe tutto l'organismo sociale, non solo nelle sue componenti economico-finanziarie, ma anche in quelle sociali e culturali. Essa è finanziaria e reale al tempo stesso, perché la finanza (la borsa, le banche, ecc..) nel capitalismo avanzato, costituisce l'ossatura - strutturalmente infetta - dell'economia reale. Ciclica, infine, per la natura stessa del mercato, che chiudendo i conti sempre ex post deraglia sistematicamente dal sentiero dello sviluppo equilibrato e deve esservi ricondotto, prima o poi, dalla crisi.
Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti «mainstream» per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell'analisi economica - e della storia in generale?
Senza negare ogni utilità alla modellistica politicamente uncommitted dilagante nel mondo degli studi economici, credo, in sostanza, che questo orientamento contenga una rinuncia al compito principale dell'economista, che, per me, è di analizzare il funzionamento dei sistemi economici nel loro complesso, fra cui «l'economia di mercato», come strumenti non semplicemente di massimizzazione del benessere economico, ma anche e soprattutto di attivazione e valorizzazione delle potenzialità intellettuali di ogni popolo e di ogni strato sociale. Il «grande spreco» del capitalismo attuale, non compensabile da alcun aumento del Prodotto interno lordo, è la sua incapacità di valorizzare la potenzialità intellettuale di qualche miliardo di esseri umani. Altro che bassi salari o disoccupazione nel mondo «civilizzato», questo è il vero e fondamentale fallimento del mercato.
Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mini le basi della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in là?
Bella domanda! A cui, però, non so rispondere altro che: siamo nei guai e non ne usciremo facilmente. Né vedo in giro risposte convincenti. Come economisti il contributo che possiamo e dovremmo dare è una critica intelligente e onesta, ma sempre più approfondita, del capitalismo oligopolistico-finanziario, che ci sta portando, sospetto, all'apocalisse. Il punto mi pare essere che non c'è più una politica distinta dall'economia. Ricordo la storiella di E.D. Domar in cui il ministro del commercio statunitense presenta su di un vassoio tutti i progetti dell'amministrazione, invitando ogni rappresentante dell'industria a togliere quello che gli da più fastidio. Bene, al termine del giro, il vassoio è vuoto. Un esempio aggiornato della storiella ce lo offrono, più o meno, le vicende del piano sanitario di Obama.
Molti ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull'asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al «Washington Consensus», quanto al capitalismo di Stato cinese? O c'è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l'Europa (con il Sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
L'assetto mondiale di un domani anche relativamente prossimo - diciamo 10 anni - è una grande incognita. Focolai immensi, positivi e negativi, come il risveglio economico di Cina ed India e i «subbugli», sudamericano e africano, ancora largamente non analizzati, sono all'opera e nessuno può dire cosa accadrà dell'Europa, se resisterà allo sconquasso. Certo è che, da un lato le linee divisorie tracciate dalla storia europea, sono nette e profonde e, conseguentemente, le spinte antiunitarie sono numerose e vigorose; dall'altro la filosofia dell'Europa Unita è squallidamente economicistica. Dietro a questa Europa, non riesco vedere, almeno finora, una idea-forza di vero superamento degli egoismi nazionali e di costruzione di un nuovo protagonista della scena mondiale futura. Vedo solo atteggiamenti difensivi, non privi di utilità, certo, ma che non disegnano alcun futuro propriamente europeo. Insomma: Io, speriamo che me la cavo.
L'attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e pensioni): un intervento dal lato dell'offerta, anziché della domanda è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?
Proprio qui sta l'astuzia della manovra. Il '29 ha insegnato che il principale amplificatore della crisi, una volta avviata, sta nel panico dei depositanti e degli operatori in borsa. Quindi le prime misure sono state garantire i depositanti e immettere liquidità. Naturalmente, questa prassi, una volta metabolizzata dal sistema, riduce la paura del fallimento e delle sue conseguenze patrimoniali, negli consigli di amministrazione delle banche e delle multinazionali, e negli operatori di borsa, generando, di conseguenza, un «capitalismo bastardo» in cui è sufficiente portare, con qualsiasi mezzo, la propria azienda a dimensione socialmente rilevante (Fiar e Alitalia docent), per essere garantiti contro il fallimento. In sintesi, si è violata quella che D.H. Robertson chiamava la «regola aurea del capitalismo»: chi decide paga errori e imbrogli (se vengono svelati o se non riescono bene) - forse con la prigione (e qui gli americani c'insegnano qualcosa), ma, sicuramente, col suo patrimonio. E invece. È precisamente questo l'andazzo che denunciava sommessamente Ernesto Cuccia - che il capitalismo lo conosceva bene - in un suo famoso appunto del 1978: «non si può fare a meno di chiedersi se, nel caso in cui non fosse stato facilitato l'abbondante flusso di finanziamenti agevolati a taluni imprenditori - privati e pubblici - nell'illusione che non la bontà degli investimenti e la oculatezza della gestione avrebbero assicurato il successo dell'iniziativa, bensì la protezione politica quale mezzo per raggiungere il gigantismo delle imprese e con il gigantismo, non si sa come o perché, la loro fortuna (ora lo si è capito!) c'è da chiedersi, dicevamo, se in tal caso non avremmo avuto aziende molto più modeste, ma più sane, con una crescita fondata almeno in parte sull'autofinanziamento e non soltanto sui debiti, capacità produttive più aderenti alle effettive dimensioni dei mercati e, soprattutto, minori interferenze politiche, lecite e illecite, nella vita economica del paese».
Un capitalismo, insomma, quello che ci attende, da «Alice nel paese delle meraviglie». Il problema vero, dalla cui soluzione si giudica sub speciae aeternitatis il sistema, non è la piena occupazione purchessia, ma «quale occupazione». Il sistema economico ottimale è, per me, quello che apre al massimo numero di giovani in età lavorativa, un certo numero di alternative d'impiego. Una situazione che si è presentata - in modo rudimentale, beninteso! - in quei microcosmi di capitalismo concorrenziale che sono i nostri distretti industriali. Ma la sinistra italiana, imprigionata in schemi del passato - duole dirlo - non se n'è accorta - pagando puntualmente il fio in termini elettorali. Che tristezza.
Questo implica immense responsabilità del sistema. Per garantire questa pluralità di possibilità a tutti i giovani occorrono riforme che incidono nella carne viva della società. La tendenziale uguaglianza dei punti di partenza, all'età in cui uno entra nella vita sociale (16-18 anni), con tutto ciò che implica, è, per me, l'idea forza di una nuova sinistra. E se questo diventasse l'impegno fondamentale di chi governa il paese, ne discenderebbe una graduatoria degli interventi di natura economica, sociale e formativa assai diversa da quelle in circolazione.
Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle forme e delle dimensioni dell'indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l'economia mondiale?
Precisiamo: se ci si riferisce al mondo attualmente sviluppato, un prezzo certamente alto, che dimostra ancora «di che lacrime grondi e di che sangue» lo sviluppo capitalistico, ma probabilmente non più alto di quello di percorsi più classici di fuoriuscita dalla crisi. Se ci si riferisce, invece, al mondo nel suo insieme, si possono fare molte ipotesi, ma, per quanto ne so io, non si dispone di modelli logici che consentano una risposta non campata in aria.
Quello che si può dire con certezza è che la crisi attuale non porterà certamente al crollo del capitalismo, anche perché non disponiamo di alternative radicali di sicuro funzionamento, e un sistema sociale non può scomparire finché non è pronto il successore. Il cosiddetto «socialismo alla cinese» e le altre pretese vie al socialismo sono, infatti, per ora, una grande incognita.
Ma l'accentuazione dei contrasti per il controllo delle risorse naturali e l'incarognimento dell'umanità, i quali procedono implacabili, non promettono niente di buono. Mi dispiace a chiudere in negativo, ma questa è, purtroppo, la convinzione che pervade il mio stato d'animo.
Le interviste già pubblicate sono: con Giorgio Lunghini il 18 novembre; con Katia Caldari
Gli Stati nazionali hanno optato per lo status quo, sperando che la situazione si mettesse in qualche modo a posto da sola
La crisi, nonostante le speranza di molti governi nazionali e alcuni studiosi, non si chiuderà con un ritorno ai precedenti assetti sociali, istituzionali. L'economia mondiale risulterà profondamente trasformata, anche se è impossibile pronosticare in quale direzione cambierà. Per il momento, è chiaro che gran parte delle misure adottate a livelo nazionale e internazionale sono finalizzate al mantenimento dello status quo. L'intervista a Katia Caldari, la seconda di questa serie, si muove proprio su quest'asse.
Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del '29?
Fin dall'inizio della crisi, è stato evidenziato come essa sia stata causata dai cosiddetti «titoli tossici» e innescata da una serie di innovazioni, fra cui la securitization con la possibilità per le banche di vendere i mutui (anche subprime) sui mercati obbligazionari. Ne è stata così sottolineata la natura finanziaria.
I subprime erano presenti negli Usa dal 2005 ma è stata la loro diffusione sul mercato finanziario internazionale che ha creato il vero problema. Alle prime insolvenze (con l'aumento dei tassi d'interesse), il mercato è caduto nel panico. Non c'è dubbio che la crisi attuale abbia natura finanziaria; del resto sono state le banche a esserne inizialmente coinvolte (Northen Rock, Bear Stearns). Ma gli aspetti finanziari non sono sufficienti a spiegare tutta la storia. Dietro l'emergere di una crisi nel mercato finanziario vi sono spesso elementi di debolezza strutturale.
Se consideriamo l'economia americana degli ultimi anni, vediamo che a fronte di una crescita economica piuttosto moderata, il consumo privato come percentuale del Prodotto interno lordo è cresciuto in misura maggiore, insieme al livello di indebitamento medio procapite. La crescita del consumo non è stata finanziata da un aumento proporzionale del reddito ma da un incremento sproporzionato del livello del debito. Inoltre, con la forte diminuzione del tasso d'interesse attuata da Greenspan dopo l'attacco alle «Torri gemelle», anche le banche hanno innalzato il loro livello di indebitamento. Ma il debito rappresenta ricchezza disponibile solo in un tempo futuro e genera, quando le sue dimensioni acquisiscono carattere di eccezionalità come nel caso americano, una debolezza strutturale che non permette ai singoli soggetti e al paese nel suo complesso di affrontare eventuali shock senza ripercussioni gravi.
Guardiamo ora all'Europa, dopo gli Stati Uniti l'area maggiormente colpita dalla crisi.
Il contagio della crisi è stato spiegato in termini di integrazione globale dei mercati e spesso si è posto l'accento sui mali della globalizzazione (come ha fatto il nostro Ministro dell'Economia Giulio Tremonti). Ma, a ben guardare, anche i paesi europei evidenziavano una situazione di debolezza strutturale prima della crisi: l'economia è stata stagnante in termini di crescita del Pil, con un livello di disoccupazione che è andato via via crescendo, e la bilancia delle partite correnti è peggiorata negli anni.
Inoltre, nonostante la politica restrittiva perseguita dalla Banca centrale europea, l'inflazione effettiva non è diminuita nel tempo, mentre in molti paesi (primo fra tutti l'Italia) le famiglie hanno sofferto e stanno ancora soffrendo gli effetti dell'introduzione della moneta unica in termini di potere d'acquisto, a causa di un livello generale dei prezzi drogato da una conversione all'euro priva di qualsiasi controllo. Anche in Europa, l'impoverimento reale è stato spesso ammortizzato col ricorso all'indebitamento e per un po' la situazione è parsa di «accettabile normalità». Tuttavia, quando l'aumento dei prezzi legato al costo del petrolio ha spinto la Bce (con un targeting sull'inflazione complessiva, senza distinguere la componente da costi rispetto a quella da domanda) ad aumentare ulteriormente i tassi di interesse, il costo del debito è salito in modo preoccupante. Con una domanda interna già bassa e la diminuzione della domanda americana, le imprese hanno arrestato gli investimenti e la crisi, da finanziaria, è diventata decisamente «reale».
In tal senso è giustificato un confronto con la crisi del '29. L'impulso dato alla Grande Depressione seguita al crollo della borsa di Wall Street e ai suoi effetti domino, era di natura finanziaria: un boom speculativo aveva investito pesantemente il mercato azionario americano. Ma a monte, anche in quel caso, esistevano debolezze strutturali, reali: dopo il boom economico del periodo post bellico, era seguito un vero e proprio collasso della produzione e del consumo che avevano preparato il terreno al cambiamento degli umori nel mercato borsistico.
La grande differenza sta nelle misure che sono state adottate al verificarsi della crisi: allora i governi sono entrati in una nefasta spirale protezionistica nel tentativo di salvare l'economia reale (soprattutto in termini di occupazione) e le autorità monetarie hanno reagito con politiche restrittive che hanno peggiorato la situazione. Con la crisi attuale si è deciso di salvare le banche, pensando forse che bloccando la crisi nella sua dimensione finanziaria, lì si sarebbe fermata.
Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell'analisi economica - e della storia in generale?
I modelli econometrici si sono evidentemente dimostrati incapaci di predire il futuro (si veda la Lehman Brothers, caduta nella spirale della bancarotta nonostante il suo staff di economisti esperti). Qualcuno ancora rimane stupito. Ma stupito di cosa? In tempi lontani l'economista inglese Alfred Marshall ricordava che l'economia è una scienza che ha che fare con l'uomo «di carne e di sangue», il quale non sceglie e agisce solo sulla base del calcolo dell'interesse personale; l'economia quindi non è riducibile a puro calcolo matematico e non è - né può essere - una scienza esatta, al pari della fisica. È una scienza inesatta che ha che fare con una materia molto complessa e aleatoria. Affidare la comprensione o previsione del futuro a un modello basato su una lunga lista di assunzioni irrealistiche non può che portare a delusioni.
Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mini le basi stesse della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in la?
Il mercato non è una macchina perfetta che fa ottenere sempre e comunque risultati ottimali. È una macchina imperfetta, complessa. Anche questo non è un aspetto nuovo. Si era ben evidenziato con la crisi del '29; ma lo sapeva bene perfino Adam Smith che è considerato il padre fondatore dell'economia politica.
Il mercato deve essere senza dubbio regolato. Il problema semmai è capire da chi. Nel mondo globalizzato in cui viviamo, il singolo Stato si è già dimostrato insufficiente o incapace di intervenire efficacemente in tal senso. La globalizzazione impone nuove sfide e per farvi fronte occorre coraggio: di cambiare, di rinunciare alle vecchie logiche di equilibrio - o pseudo-equilibrio - internazionale. Siamo ancora regolati da istituzioni nate alla fine della seconda guerra mondiale, create in quel contesto storico per quel contesto storico. Il «Washington Consensus» aveva (forse) ragione di esistere allora ma oggigiorno è decisamente anacronistico.
Molti ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull'asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al «Washington Consensus», quanto al capitalismo di stato cinese? O c'è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l'Europa (con il sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
La Cina riceve ormai l'attenzione che ogni grande nazione economica deve avere. Ma perché non si parla di India che pure sta imponendosi come paese di nuova industrializzazione fortemente competitivo a livello mondiale? E perché ancora Washington? Gli Stati Uniti vengono ancora considerati la nazione in grado di far pendere l'ago della bilancia delle decisioni mondiali, soprattutto per il potere militare. Ma questa situazione non ha più ragione di essere dal punto di vista del potere economico, che si sta diffondendo rapidamente in altre parti del mondo. In questo contesto, l'Europa avrebbe grandi potenzialità ma è anche evidente che, allo stato attuale, è incapace di imporsi quale importante attore nell'assetto economico-politico mondiale. Soffre di troppe divisioni, frammentazioni. Non esiste, di fatto, una politica economica comune; la politica monetaria e la moneta unica non sono sufficienti per fare dell'Europa un'area compatta piuttosto che un insieme di paesi diversi. L'attuale crisi ha evidenziato molto bene la pressoché totale mancanza di coesione decisionale.
L'attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e le pensioni): un intervento dal lato dell'offerta, anziché della domanda è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?
Le banche più che salvate andrebbero regolarizzate e controllate. La ricchezza di un paese è data anche dall'assenza di contrasti sociali ed è fatalmente legata al grado di occupazione e alla produzione. In questa crisi si è scelto prima di tutto di salvare le banche, ovvero le lobbies ad esse collegate o in esse rappresentate, ubbidendo a logiche che sempre più, purtroppo, vedono il potere economico legato inestricabilmente a quello politico. Ma, come ho detto, la crisi non è solo finanziaria: è anche e soprattutto economica e per questo l'intervento sulle banche non è sufficiente.
Tra l'altro, va sottolineato che finanziando le banche non si sta facendo neanche un vero e proprio intervento sul lato dell'offerta. Se pensiamo al nostro paese, l'offerta è data soprattutto dalla media e piccola impresa, che sono invece escluse da questi tipi di intervento, come la crisi di molti distretti industriali dimostra chiaramente.
Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle forme e delle dimensioni dell' indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l'economia mondiale?
Il prezzo è ovviamente alto ma soprattutto è alto il prezzo delle non scelte: i governi hanno, di fatto, optato per lo status quo, sperando che la situazione si mettesse in qualche modo a posto da sola, con un ragionamento del tipo «passata la burrasca, tutto (o quasi) tornerà come prima». Quasi, perché le famiglie delle generazioni attuali e di quelle future avranno sulle spalle il costo di queste non-scelte. Con il rischio, o la certezza, che la disparità sociale che oggigiorno è già grande e crescente, aumenterà ancora di più.
La prima intervista, con Giorgio Lunghini, è apparsa mercoledì 18 novembre. Per la prossima settimana, l'appuntamento è per mercoledì 25 novembre con Giacomo Beccattini
L'attuale situazione è figlia del fallito tentativo di contrastare la caduta del saggio di profitto attraverso la riduzione del pianeta a mercato. Ma la globalizzazione ha alimentato la crisi della democrazia, perché la libera circolazione dei capitali ha impedito ai governi di attuare una politica economica. La recessione globale letta da 14 economisti: comincia Giorgio Lunghini
La crisi economica, questa nostra sconosciuta. Viene presentata così l'attuale recessione, alternando la previsione di una uscita ravvicinata da essa a una lettura che indica nella lunga durata la sua dimensione temporale. Allo stesso tempo l'oscillazione tra le speranze, da parte della teoria economica mainstream, di uscirne fuori in continuità con il passato e la convinzione che «niente sarà come prima» segna la discussione pubblica. Con l'intervista a Giorgio Lunghini inizia una ricognizione su come autorevole economisti italiani affrontono la natura della crisi attuale. Studioso noto ai lettori de «il manifesto», Lunghini propone di leggere la crisi sia in una prospettiva storica che di analisi critica del capitalismo.
Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica osistemica? Ha senso un confronto con la crisi del '29?
Un sistema economico capitalistico - un'economia monetaria di produzione, nel linguaggio di Keynes - è impensabile senza moneta, senza banche e senza finanza, dunque nella struttura del sistema gli elementi reali e gli elementi monetari sono strettamente interconnessi. Tra elementi reali e elementi monetari c'è però una gerarchia, nel senso che un sistema economico capitalistico potrebbe riprodursi senza crisi, per usare il linguaggio di Marx, se la distribuzione del prodotto sociale fosse tale da non generare crisi di realizzazione, di «sovrapproduzione» (di sovrapproduzione relativa: rispetto alla capacità d'acquisto, non rispetto ai bisogni); e se moneta, banca e finanza fossero soltanto funzionali al processo di produzione e riproduzione del sistema, e non dessero invece luogo a sovraspeculazione e a crisi di tesaurizzazione.
Nel linguaggio di Keynes, non si darebbero crisi se la domanda effettiva, per consumi e per investimenti, e la domanda di moneta per il motivo speculativo fossero tali - by accident or design - da assicurare un equilibrio di piena occupazione. Ora è improbabile che questo caso si dia automaticamente, di qui la necessità sistematica di un disegno di politica economica. In breve: il sistema capitalistico - il «mercato» - non è capace di autoregolarsi. In tutto ciò ha un ruolo essenziale il saggio dei profitti che, come hanno mostrato gli economisti classici, ma sopra tutti Marx, tende a cadere. Quando il saggio dei profitti è tale da generare crisi di realizzazione, poiché vi si associano bassi salari e disoccupazione, e a un tempo tale da generare crisi di tesaurizzazione, il sistema capitalistico va incontro a crisi che se si vuole si possono chiamare sistemiche. Così è stato nella crisi del '29 (le cui radici risalgono però al 1870), così è oggi. In tutti e due i casi - e a ciò mi limito, quanto al confronto tra il '29 e l'oggi - la crisi si è manifestata dopo un tentativo fallimentare di contrastare la caduta del saggio dei profitti con un processo di globalizzazione, di riduzione del mondo a mercato. Aggiungo soltanto che la risposta europea alla crisi del '29 fu il nazifascismo.
Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell'analisi economica - e della storia in generale?
Di per sé l'uso della matematica nell'analisi economica non è biasimevole, lo diventa quando si vogliono trattare in forma matematica questioni che non lo consentono, oppure quando non si trattano questioni importanti perché non consentono una trattazione matematica. Di questioni del genere in economia ce ne sono molte. In visita alla London School of Economics, l'anno scorso, la Regina Elisabetta aveva chiesto - con regale candore - come mai soltanto pochi economisti avessero previsto la crisi. Dieci autorevoli economisti inglesi hanno poi scritto alla Regina una lettera, in cui scrivono che una delle ragioni principali dell'incapacità della professione di dare avvertimenti tempestivi della crisi imminente è una formazione inadeguata degli economisti, concentrata sulle tecniche matematiche: così che l'economia - l'economics - è diventata una branca delle matematiche applicate.
I firmatari della lettera ricordano anche che l'insospettabile American Economic Association aveva costituito, nel 1988, una commissione sull'insegnamento postuniversitario dell'economia negli Stati Uniti. La commissione, nelle sue conclusioni, manifestò il timore che «i programmi di formazione post-laurea possano produrre una generazione con troppi idiot savants, addestrati alle tecniche ma ignari delle questioni economiche importanti». Nell'educazione degli economisti, aggiungono i firmatari della lettera, vengono omesse la storia economica, la filosofia e la psicologia, e non vengono messe in discussione né l'opinabile credenza in una «razionalità» universale né l'«ipotesi di mercati efficienti». Anche per questa ragione non si è dato il peso dovuto agli avvertimenti non quantificati circa la potenziale instabilità del sistema finanziario globale. C'è un tipo di giudizio, quello cui si può attingere immergendosi nella letteratura e nella storia, che non può essere espresso adeguatamente in modelli matematici. In breve: la matematica decontestualizza i suoi oggetti, e in campo economico ciò comporta il rischio del riduzionismo e della falsa neutralità. L'unico antidoto è la conoscenza della storia e la consapevolezza - l'orgogliosa consapevolezza - della dimensione politica dell'analisi economica.
Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mini le basi stesse della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in là?
Non c'è nessun dubbio che la libera circolazione dei capitali, libera nella misura e nelle forme attuali, sia pericolosa per la democrazia economica e dunque per la democrazia in generale. È la tesi del «senato virtuale», una tesi su cui molto insiste Noam Chomsky (che la mutua da B. Eichengreen) e che a me pare difficile da confutare. Questo senato virtuale è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali che continuamente sottopongono a giudizio le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano «irrazionali» tali politiche - perché contrarie ai loro interessi - votano contro di esse con fughe di capitali, attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi (e in particolare delle varie forme di stato sociale).
I governi democratici hanno dunque un doppio elettorato: i loro cittadini e il senato virtuale, che normalmente prevale. Questo è un portato della liberalizzazione sconsiderata dei movimenti di capitale, a sua volta un effetto dello smantellamento del sistema di Bretton Woods negli anni Settanta: ne sono ovvie le conseguenze per la democrazia economica (i più colpiti sono i più deboli tra i cittadini dei diversi paesi) e dunque per la democrazia in generale.
Credo che la politica economica debba andare al di là della semplice regolamentazione dei mercati, ma anche se si limitasse a questa dovrebbe trattarsi di un disegno condiviso di politica economica e finanziaria internazionale. Un nuovo piano Keynes - che aveva ben chiari i rischi di una circolazione dei capitali sfrenata - non mi pare in vista.
Molti studiosi ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull'asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al «Washington Consensus», quanto al capitalismo di stato cinese? O c'è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l'Europa (con il sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
Temo che il modello europeo di stato sociale non sia più un modello nemmeno per gli europei. Lo stato sociale è una delle più grandi invenzioni politiche e istituzionali del secolo passato, la sua distruzione una delle più gravi responsabilità dei governi europei degli ultimi trent'anni. La responsabilità è tanto più grave, in quanto ha natura culturale ancor prima che politica. Anche in Europa ha avuto un peso il senato virtuale, ma soprattutto ha pesato una adesione acritica, antistorica e non necessitata dalle circostanze, al liberismo imperiale: che nulla ha a che fare con la tradizione liberale, ancor prima che socialdemocratica, dell'Europa. In verità non è mai esistito un vero e proprio modello europeo di stato sociale, le varianti nazionali avevano storie e articolazioni differenti. Ciò che ancora oggi costituisce un modello intellettuale - modello nel senso di disegno da prendere ad esempio, e cui dovrebbero guardare per primi i keynesiani dell'ultima ora - è la «Filosofia sociale» cui avrebbe potuto condurre la Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta di Keynes.
Oggi come allora i «difetti» più evidenti della società economica in cui viviamo sono l'incapacità ad assicurare la piena occupazione e una distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito (che sono tra le cause principali della crisi attuale). Per rimediare a questi difetti, Keynes propone tre linee di intervento: una redistribuzione del reddito per via fiscale (imposte sul reddito progressive ed elevate imposte di successione), l'eutanasia del rentier, e un certo, non piccolo, intervento dello stato nell'economia. La redistribuzione del reddito comporterebbe un aumento della propensione media al consumo e dunque della domanda effettiva. L'eutanasia del rentier, dunque del «potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale», renderebbe convenienti anche investimenti a redditività differita e bassa agli occhi del contabile, quali normalmente sono gli investimenti a alta redditività sociale.
Per quanto riguarda l'intervento dello stato, secondo il Keynes de La fine del laissez faire, «l'azione più importante si riferisce non a quelle attività che gli individui privati svolgono già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d'azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno prende se non vengono prese dallo stato. La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po' meglio o un po' peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto». Se i difetti denunciati da Keynes fossero stati emendati con le misure da lui indicate, questa crisi non ci sarebbe stata (talvolta i ragionamenti controfattuali sono efficaci), e d'altra parte temo sia improbabile che questa filosofia sociale sia messa in pratica oggi nel mondo occidentale.
Dunque un'uscita dalla crisi sull'asse Washington-Pechino? Un qualche negoziato tra Stati Uniti e Cina è imposto dal nuovo assetto della divisione internazionale del lavoro, ma quale sarà la strategia di Pechino? Il mondo riconosce che la Cina sta emergendo come grande potenza, ma è un peccato - scriveva di recente l'Economist - che a tutt'oggi non sempre agisca come tale.
L'attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e pensioni): un intervento dal lato dell'offerta, anziché della domanda, è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?
Della necessità di una redistribuzione del reddito per via fiscale, della opportunità di una eutanasia del rentier, e della necessità di un intervento attivo dello stato ho già detto. Le politiche dell'offerta fanno parte di quel paradigma teorico, la cui accettazione da parte dei governi ha portato alla crisi attuale. La disoccupazione e il timore di perdere il lavoro innescano un circolo vizioso: consumatori e imprese riducono le loro spese, generando nuovi tagli dell'occupazione. Fino a quando i salari e l'occupazione non saranno risaliti almeno ai livelli di dieci o vent'anni fa, la crisi non sarà finita.
Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare, a fronte delle forme e delle dimensioni dell'indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l'economia mondiale?
Se quel debito fosse stato contratto per assicurare istruzione, sanità e assistenza ai cittadini, le future generazioni non dovrebbero sopportare nessun prezzo, poiché a fronte di quel debito avrebbero oggi e domani quelle strutture e quei servizi. Il prezzo che pagheranno è la mancanza di quelle strutture e di quei servizi, a causa di un debito pubblico che è stato contratto a favore di quei privati che hanno determinato la crisi attuale.
Un acume scanzonato, è questa la caratteristica che da più di trent'anni ritrovo intatta in Giorgio Ruffolo. Una qualità di cui c'è tanto bisogno oggi, quando siamo sballottati dalle vicissitudini economiche che ci cadono addosso o si allontanano senza che ne riusciamo a coglierne la logica soggiacente. Tra il 2007 e il 2008 la recessione è piombata sull'economia occidentale, tanto da far gridare alla crisi del capitalismo; ora - all'improvviso - molti dicono che stiamo vedendo la luce alla fine del tunnel (a meno che non si tratti del classico treno che arriva dall'altra parte), il tutto senza che riusciamo a realmente a capire. Ci proviamo con questa conversazione.
La recessione è stata attribuita allo scoppio della bolla creditizia. Si tratta allora di una crisi semplicemente finanziaria?
L'origine della crisi è reale, non è finanziaria. Sta nella distribuzione del reddito squilibrata. Certo, la crisi è esplosa quando è scoppiata la bolla creditizia, che però a sua volta è stata una conseguenza della stagnazione, negli ultimi decenni, dei salari reali per la gran massa dei consumatori: per alimentare la domanda, visto che i salari non crescevano, si è ricorso sempre più al credito facile. Si è reagito con un'inflazione finanziaria, che è diversa dall'inflazione normale, da aumento dei prezzi: in quest'ultima, quando cresce la domanda di patate, le patate rincarano, allora la gente compra meno patate; c'è quindi un'autocorrezione del sistema. Invece quando si tratta di finanza e i titoli aumentano, la gente compra ancora più titoli in attesa che aumentino ancora. La distinzione fondamentale è che l'inflazione dei titoli ha in sé un meccanismo cumulativo, e non ha un meccanismo compensativo come quella normale, dei beni. Dell'inflazione finanziaria ci si accorge quando i guai sono già prodotti.
Si dice che c'è ripresa, ma i salari non aumentano, né l'occupazione cresce. Cosa alimenta allora la ripresa, se c'è?
I governi hanno iniettato enorme liquidità nell'economia. Nel caso degli Stati uniti siamo a più di un quarto del Pil (3.000 miliardi di dollari per il salvataggio delle banche, 700 miliardi per il rilancio dell'economia, cui andrebbero aggiunte altre voci, su un Pil Usa di 14.000 miliardi di dollari, ndr). Certo, prima o poi, il rifornimento di liquidità da parte degli stati deve esaurirsi, quindi la ripresa può essere effimera, ma se riuscisse a rimettere in moto i consumi e anche i salari, allora avrebbe svolto la sua funzione. Ma di aumenti salariali non si vede traccia.
I soldi sono andati quasi tutti alle banche.
Lo dice anche l' Economist che le cose non stanno andando bene: stiamo rifinanziando l'economia attraverso quelli che l'hanno mandata in tilt.
Ma così tutto riparte come prima, con un altra bolla di credito
Esattamente, ma questa è la storia delle ultime crisi capitalistiche, è una storia di bolle.
Da più parti si dice che c'è un ritorno in auge del keynesismo e che la risposta alla crisi è stata keynesiana.
Ritorno in auge un accidenti. Qui c'è stata una socializzazione delle perdite: "buttate fuori i soldi mascalzoni che non siete altro, cercate di rifinanziarci e levatevi di torno". Se questo è Keynes, allora io letto male Keynes.
Insomma, cosa ci insegna questa crisi?
L'insegnamento non è nuovo: è la fragilità del capitalismo. Sempre le crisi capitalistiche sono state fronteggiate con aumenti di liquidità e sempre i debiti sono stati ripagati con altri debiti. E' un meccanismo intrinseco al capitalismo moderno.
Ma questi debiti vengono poi bruciati con l'inflazione.
Sì, ma l'inflazione è come le onde del mare che si accavallano l'una con l'altra, finché poi vanno a sbattere contro la riva e i debiti devono essere pagati. Il capitalismo è una serie di accavallamenti di orde che generano la sua forza espansiva, ma anche la sua estrema vulnerabilità. Un economista francese, Marc Bloch, ha detto che il capitalismo è un regime in cui i debiti non si ripagano mai, perché se si dovessero ripagare tutti, il capitalismo crollerebbe. Quando i debiti devono essere ripagati, è il momento della crisi, è il momento che - dice Galbraith - separa gli sciocchi dal loro denaro, ma anche gli operai dal loro lavoro. Il capitalismo si fonda su iniezioni progressive di liquidità, e questo dipende dalla sua malattia originaria, che è di mercificare tutto. La moneta è un'istituzione; non può essere trattata come una merce da comprare e da vendere. Invece la moneta è stata mercificata, come la terra e il lavoro. Quindi, oltre alle sue funzioni di unità di conto e di mezzo di pagamento, la moneta ne ha assunto una terza, legata alla sua mercificazione, e cioè di riserva di valore. Ciò ha fatto sì che la moneta fosse trattenuta a fini di accumulazione, diminuendo la liquidità esistente e quindi obbligando a una continua iniezione di liquidità. Il capitalismo si regge grazie a questo continuo flusso di liquidità che deve essere regolato. Certo, ci sono stati degli ancoraggi: l'ancoraggio della convertibilità in oro, il tallone aureo, che per due secoli ha retto il sistema ed è naufragato nel 1971 con il famoso disancoraggio del dollaro. E poi c'era un altro ancoraggio: la redimibilità del credito; il credito poteva essere erogato fino a un tetto in rapporto fisso con il capitale, che era stabilito per legge: anche queste limitazioni sono state non abolite ma allentate progressivamente. E la storia della finanza mondiale è la storia di questi disancoraggi. Non a caso, oggi sono due le scuole per uscire dalla crisi, una è quella «anglosassone» che fa leva sulla liquidità: che gli stati facciano quello che devono fare (immettano nuova liquidità) e poi tolgano il disturbo; l'altra, la scuola «renana» fa leva sugli ancoraggi e dice: rafforziamo le regole. Il problema è che in ogni caso la moneta è diventata qualcosa che si regge su stessa, è diventata una prerogativa delle banche e della élite finanziaria che è diventata plutocrazia.
Quando sento la distinzione tra cattivo capitale finanziario e sano capitale industriale, m'insospettisco, perché mi ricorda il complotto della finanza pluto-giudaica di cui parlava la destra degli anni '30.
In qualche modo «pluto» lo è. Giudaico no, ma nell'ultimo secolo la ricchezza finanziaria è esplosa in maniera anomala rispetto a quella reale. Non è solo una litania. Il ruolo fondamentale della finanza è d'indirizzare il risparmio verso gli investimenti veri; ma grazie ai disancoraggi e alle continue iniezioni di liquidità, questa funzione è venuta meno e si è rovesciata: ora è la liquidità che domina il risparmio e lo dirotta verso gli impieghi finanziari, e non verso gli investimenti. C'è un'effettiva finanziarizzazione dell'economia.
Ma allora come si dovrebbe uscire dalla crisi?
Qui si rasenta l'utopia: non attraverso un aumento o una restrizione di liquidità, ma - scusa il gioco di parole - attraverso una liquidazione della liquidità. Alcuni economisti non ortodossi, liberals come John Maynard Keynes, ma anche conservatori come Irving Fisher, hanno sostenuto che la moneta non può essere riserva di valore, ma deve essere svalutata nel tempo. Silvio Gesell, curioso personaggio ma economista assai apprezzato sia da Keynes, sia da Fischer, propose un «bollo di svalutazione della moneta» ( 'stamped' money), cioè una moneta che per poter essere scambiata doveva portare un bollino di circolazione che andava acquistato periodicamente, cioè un disincentivo all'accumulazione di moneta. Vallo a dire a Franceschini o a Bersani che bisogna svalutare la moneta! In realtà questa proposta scandalosa non fece scandalo perché nessuno la riprese, tranne Keynes e Fischer.
Da come se ne parla adesso, sembra che la crisi sia stata solo un incidente di percorso: Ma è stata grave o no?
I due effetti duraturi e gravi, secolari, della crisi, sono uno l'ingiustizia sociale, cioè una distribuzione del reddito sempre più concentrata, e l'altro l'enorme impoverimento dei beni pubblici rispetto ai beni privati. Con questo tipo di economia, sempre meno risorse sono allocate ai beni pubblici, l'istruzione, la sanità, la sicurezza stessa. L'impoverimento sociale è il vero costo che stiamo pagando della crisi, non è solo che l'economia si ferma o rallenta. Il costo storico è un impoverimento sociale dell'economia, una diminuzione della felicità. E questo mostra come non ci sia proprio niente di keynesiano nelle ricette attuali. Nel keynesismo, lo stato si sostituiva come fattore produttivo a un capitalismo che aveva fallito e quindi lo ricostituiva sì, ma attraverso forme di ricchezza sociale, identificate in termini di welfare, di beni sociali e non beni privati. Quindi anche dal punto della economia sociale era un progresso, accentuava la ripresa, ma attraverso la dotazione di beni pubblici. Qui non c'è nulla di tutto questo, c'è un rifinanziamento delle banche e del ceto finanziario che hanno provocato questo sconquasso.
Però non c'è stata nessuna rivolta, persino in società storicamente battagliere: questo dimostrerebbe secondo alcuni che la crisi non era poi così grave.
Le conseguenze sociali di enorme ingiustizia sono state fronteggiate grazie alla collusione della gente, che ha accettato il meccanismo di avere i propri soldi non dal lavoro, ma dal credito e questo ha sancito una forte alleanza tra capitalismo e ceti medi, una collusione.
Di solito le crisi generano nuove idee. Questa non sembra.
Non c'è una visione della storia. Diceva Sweezy che il presente bisogna viverlo come storia e invece oggi non lo si vive più come storia. Dove stiamo andando? è una domanda che nessuno si pone più. Si tira avanti. La coscienza della storia dava alla società politica una direzionalità: bisognava spiegare alla gente verso dove si andava. Ma tutti quelli che predicavano la progettazione, la programmazione, sono stati completamente surclassati (Ruffolo evidentemente annovera se stesso tra costoro, ndr), perché il tirare a campare è meno costoso dell'impegno politico. Ero accusato di tradimento del proletariato perché sostenevo il mercato, adesso sono accusato di sovversivismo perché parlo di demercatizzazione. La sinistra si è mercatizzata completamente. Al dogmatismo statalista è subentrato un mimetismo, un fideismo di mercato.
Ma non è puro conformismo? erano di sinistra quando la sinistra era egemone, mentre ora sono di destra: seguono il vento.
Seguono la moda. Nel primo centrosinistra, io stavo lì a fare il «tecnocrate», ma senza potere, «tecno» ma non «crate» e coloro (allora erano i socialisti) che arrivavano al cosiddetto «potere» (anche se non contavano assolutamente niente e non se ne accorgevano), erano estasiati quando potevano incontrare Gianni Agnelli: c'era un complesso d'inferiorità nei confronti del capitalismo, anche nei confronti della cultura liberista. La vera rivoluzione la fece Milton Friedman contro Keynes e contro la socialdemocrazia. Questi abbandonarono l'unico vero socialismo reale che ci sia mai stato: quello del welfare. Non è che abbandonarono il comunismo, abbandonarono il socialismo. Perché è avvenuto? In qualche modo è misterioso, forse perché non ci sono state guerre. Certo, c'è stata un'enorme promozione culturale della destra, una progettualità, in qualche modo un indottrinamento.
Un articolo come quello di Riccardo Petrella apparso sull'ultimo Monde Diplomatique testimonia la possibilità di un ambientalismo adeguato alla gravità della crisi ecologica attuale; capace non solo di vederne la disperata urgenza, ma di individuare la pressoché illimitata complessità di problemi che in essa si intrecciano, in un confronto finora squilibrato a favore dei poteri costituiti e delle idee dominanti, cioè degli stessi agenti che della crisi sono responsabili.
In vista della Conferenza sul clima programmata per dicembre a Copenaghen, Petrella innanzitutto analizza e duramente critica l'assurda contesa che, da un Summit all'altro, si riproduce praticamente invariata tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo, con ciascuno che pretende solo dall'altro drastici tagli alle emissioni di Co2. Una sceneggiata in cui, scontata l'evidente maggiore responsabilità dei «ricchi», è difficile anche assolvere i «poveri», non solo preoccupati esclusivamente della propria salvezza, ma ormai acquisiti al produttivismo occidentale e, come tutti, lontanissimi dall'auspicare un reale cambiamento del sistema operante: che è la causa prima sia dell'iniquità sociale di cui sono vittime, sia del collasso degli ecosistemi di cui anch'essi sono responsabili. E in ciò Petrella merita la nostra gratitudine per affrontare il problema con un taglio che - tranne rare eccezioni - anche gli ambientalisti più impegnati ignorano.
«I paesi potenti non hanno alcun interesse a modificare le cause strutturali del disastro climatico. Al contrario tutti sembrano ormai convinti, al Nord come al Sud, che la soluzione alla crisi mondiale passi per il rilancio della crescita, dell'economia di mercato, ma di colore verde (automobile verde, energia verde, abitazione verde...). Nessuno potrebbe contestare l'importanza e l'urgenza di 'mettere al verde' le nostre economie. Tuttavia, colorare di verde il sistema economico senza modificarne i principi e le modalità di funzionamento che sono all'origine della crisi, ha poco senso (...). Abbiamo davvero bisogno di altre centinaia di milioni di automobili e di camion, anche se verdi? Così milioni di abitazioni supplementari a energia passiva e attiva, a New York, Parigi, Francoforte, Osaka, Dubai, Los Angeles... non risolveranno niente per miliardi di persone povere, senz'acqua potabile né servizi sanitari, senza abitazione decente, senza accesso alla sanità e all'istruzione base».
Sono parole su cui dovrebbero riflettere i tanti ambientalisti che credono di poter arrestare il collasso degli ecosistemi affidandosi al «green business», di fatto identificando il problema ambiente soltanto con il mutamento climatico; il quale certo, nell'impazzimento delle stagioni e nel moltiplicarsi di fenomeni meteorologici «estremi», ne costituisce la conseguenza più grave, ma non può essere considerata la sola, col rischio di mancare l'intero obiettivo. Come appunto dice Petrella, «la vampirizzazione» dell'agenda relativa all'ambiente da parte della questione energetica «costituisce un'evidente mistificazione delle priorità del mondo».
A cominciare dall'acqua, gigantesco problema di cui Petrella è studioso di fama mondiale. L'acqua dolce, necessaria garanzia della nostra salute e insostituibile alimento di ogni forma di vita, oggi va facendosi sempre più scarsa: certo a causa del riscaldamento atmosferico e conseguente scioglimento dei ghiacciai, ma anche (e questo quasi sempre si dimentica) per via del moltiplicarsi delle attività industriali, non soltanto forti consumatrici d'acqua, ma agenti di gravi forme di inquinamento.
Per continuare con la quotidiana produzione di miliardi di tonnellate di rifiuti non trattati e non trattabili, tra cui scorie tossiche e radioattive; con mari e oceani sistematicamente invasi da idrocarburi e immondizie di ogni tipo, sovente secondo criminali operazioni di lucro; con milioni di intossicati e migliaia di morti da pesticidi tra i lavoratori agricoli; con malformazioni e tumori che si moltiplicano specie tra i giovani nei territori a intensa industrializzazione; con tossicità diffusa anche sotto l'innocua apparenza di sostanze e oggetti d'uso quotidiano (plastiche, vernici, colle, conservanti, detersivi, additivi, ecc.). E' accettabile tacere tutto ciò e puntare solo sulla «green economy», creando l'ottimistica attesa di un futuro libero da inquinamento e da scarsità energetica, con sicuro rilancio di produzione e consumi? «Negoziare il futuro dell'umanità unicamente a partire dall'energia (...) è una grave colpa storica», è il duro, lucido, sacrosanto giudizio di Petrella.
Il quale, proprio sulla base di queste verità avanza ben poco ottimistiche previsioni circa la prossima Conferenza di Copenhagen. E al proposito commenta la recente convocazione da parte del governo danese di un World Business Summit, organizzato «per ottenere il sostegno delle imprese e della finanza». Al termine del quale è stata emessa una dichiarazione «i cui propositi sono tutti centrati sulla priorità da dare alle innovazioni tecnologiche, ai meccanismi di mercato e agli strumenti finanziari favorevoli al mondo dell'impresa privata», mentre è mancato qualsiasi altro impegno. «In queste condizioni - conclude Petrella - è difficile pensare che eventuali proposte contrarie agli orientamenti e agli interessi del mondo degli affari abbiano qualche possibilità di essere prese in considerazione». Di fatto i responsabili del nostro futuro «hanno di nuovo imposto le logiche economiche, soprattutto finanziarie, per risolvere il disastro ecologico.
Una volta di più, insomma i cosiddetti «grandi» non solo sottovalutano la crisi ecologica e ignorano le vergognose iniquità che pure appartengono al mondo loro affidato, ma puntano a legittimare il dominio del capitalismo, il culto della ricchezza individuale, il primato del consumo. Consumo «sempre energivoro, ma verde», ribadisce Petrella, mentre sembra abbandonare ogni speranza nella prossima Copenhagen. Come dargli torto?
E però, fra circoli culturali, gruppi pacifisti, centri ecologisti, organizzazioni femministe, ecc. si avverte un fermento, certo non chiaramente definito, ma presente e vivo, e - parrebbe - disponibile a un discorso radicale. Forse il mio è solo un esorcismo, un'illusione scaramantica. Ma insomma, come immaginare che si continui a tollerare indefinitamente la sceneggiata di questi Summit che si susseguono senza senso né conseguenze di qualche utilità? Voglio dire, una sorta di Seattle ecologista a Copenhagen sarebbe davvero impensabile?
Un'analisi puntuale sulla natura del potere nella globalizzazione, dove i media sono diventati il luogo privilegiato della decisione politica come testimonia il laboratorio italiano. Ma anche ipotesi di resistenza alla «fabbrica del consenso»
Lo stato nazionale esercita da sempre un potere sulla società, ma in quelle democratiche deve sottostare a regole che ne limitano l'azione. È questo, da sempre, l'architrave delle teorie liberali del potere, che hanno dovuto fare i conti con la critica di molti teorici - da Max Weber a Georg Simmel, da Lenin a Carl Schmitt, da Antonio Gramsci a Jürgen Habermas - che hanno invece analizzato il potere a partire dalle differenze sociali, di ceto, di casta, di classe, cercando così di svelare l'arcano del perché, nelle società borghesi, lo stato impone rapporti di sudditanza e legittima gerarchie sociali attraverso il consenso dei «governati».
È questa la cornice analitica di Potere e comunicazione (Università Bocconi Editore, pp. 665, euro 34.50), un importante volume di Manuel Castells sul ruolo esercitato dalla comunicazione all'interno delle società capitaliste. Anche Castells crede che c'è esercizio del potere e non dominio solo se c'è consenso verso l'operato dello stato nazionale, ma è compito della «comunicazione pubblica» circoscrivere le dinamiche, talvolta conflittuali altre volte no, in cui ogni «attore sociale» esprime i suoi interessi, definendo le relazioni di reciprocità, autonomia o dipendenza rispetto gli altri attori sociali. Una proposizione che pone questo saggio di Castells sulla scia dalla riflessione di Jürgen Habermas sull'opinione pubblica e sull'agire comunicativo come una prassi sociale che definisce la «virtù pubblica». Con una sostanziale differenza: per Castells la comunicazione non è relegata solo alla formazione di un'opinione pubblica che controlla l'operato del sovrano, ma è un agire pubblico che «produce società» senza l'intervento delle tradizionali istituzioni delegate alla «messa in scena» della weltanshauung degli attori sociali. In questa vision, la carta stampata, la televisione, la radio e più recentemente Internet non sono un quarto potere, bensì i medium del potere sans phrase. Ipotesi altresì suggestiva laddove l'autore la affianca con una lettura della globalizzazione economica come potente acido corrosivo dell'ordine politico liberale e di quella democrazia rappresentativa che ne era la più compiuta espressione. L'esercizio del potere non passa quindi attraverso il controllo dello stato, ma attraverso il «governo» dei media, tanto di quelli antichi che ipermoderni.
Il mondo in casa
L'autore ha fatto molto parlare di sé per la trilogia su L'era dell'informazione, dove sosteneva l'emergere di una nuova forma di capitalismo definita «informazionale» per la centralità dell'informazione nella produzione di valore e per l'egemonia di modelli produttivi «reticolari». Per Castells, infatti, l'informazione è, al tempo stesso, materia prima del processo lavorativo in quanto conoscenza, ma anche strumento di coordinamento per reti produttive diffuse che spesso ignorano, meglio scavalcano i confini nazionali. In altri termini, l'informazione alimenta e governa i flussi produttivi che non coincidono necessariamente con uno spazio delimitato. La rilevanza delle tecnologie digitale nel garantire il coordinamento delle reti produttive è fuori discussione. E ciò vale anche per la comunicazione.
Castells dà quindi per acquisito il fatto che il mondo possa essere considerato, dal punto di vista della circolazione delle informazione, il villaggio globale di Marshall McLuhan, ma sottolinea la novità costituita dalla globalizzazione, che porta il mondo dentro le case attraverso la televisione e come la differenziazione sociale alimenti la costituzione di molti pubblici. Il linguaggio specialistico parla di crisi dei media generalisti e del passaggio dal modello broadcasting (da uno a molti) al modello narrowcasting, cioè che esistono molte platee che vanno soddisfatte attraverso una differenziazione nei contenuti offerti tuttavia sempre secondo una modalità unidirezionale. La globalizzazione si basa cioè su una differenziazione dei prodotti editoriali e una parallela proposta di una vision omogenea della realtà. Un doppio obiettivo che per essere raggiunto alimenta la concentrazione della proprietà dei media o la partnership tra imprese, visti gli alti costi delle piattaforme tecnologiche e dei prodotti editoriali. Questa pluralità di fonti di informazione e un'altrettanta pluralità di media a disposizione alimenta la convinzione che mai nella storia umana c'è stata così tanta libertà di espressione, come in questo inizio di millennio. Convinzione errata, perché la differenziazione di prodotto e di strumenti rispecchia la accentuata differenziazione sociale allo scopo, però, di confermare opinioni predefinite e offrire un contesto dove i processi di identificazione culturale possano trovare il percorso meno accidentato nella sequenza individualismo, «comunalismo», che secondo Castells costituisce la polarità potenzialmente destabilizzante della globalizzazione e che per questo va governata attraverso i media.
Significativa è, a questo proposito, la lunga parentesi che l'autore dedica alle posizioni del neuroscienziato Antonio Damasio attorno alle emozioni e i processi decisionali. Per Damasio, infatti, quando uomini e donne devono decidere, scelgono sempre l'alternativa che poco si distanzia dalle proprie convinzioni. Se questo frame analitico si applica alla ricezione dell'informazione, le posizioni che incontrano il favore del pubblico si snodano attorno alle loro convinzioni, rifiutando invece quelle lontane. Accade così che i media organizzino la comunicazione in maniera tale che le contraddizioni e i punti di conflitto in una discussione pubblica siano depotenziati e ridotti a un talk show attorno a opinioni tanto generiche, quanto inoffensive.
I nemici del diritto
Siamo quindi al di là della vecchia querelle se i media siano dispositivi di manipolazione delle coscienze o se invece rispecchino tendenze, modi di essere, opinioni già presenti nella realtà. Nello schema proposto dall'autore i media riflettano identità, opinioni già esistenti proprio perché, in quanto dispositivi normativi, esercitano potere. Non è però un gioco a somma zero quello che propone Castells, perché se il potere è la prassi comunicativa tesa all'imposizione, attraverso il consenso, di un ordine sociale servono regole precise che fissino confini e limiti all'azione dei media, in quanto confini e limiti a chi esercita un potere - politico o economico, poco importa - nella società. Posizione liberal che l'autore sostiene evidenziando come gran parte dei paesi democratici hanno regolamentato l'uso dei media. Ed è con tono allarmato che l'autore denuncia l'anomalia italiana, dove Silvio Berlusconi è un imprenditore politico che non tollera appunto regole e limiti alla sua azione, in quanto proprietario di una corporation che fa coincidere il suo destino con quello dell'Italia.
La denuncia degli aspetti degenerativi del caso italiano - conflitto di interessi, gestione disinvolta del potere esecutivo per rafforzare il proprio potere economico, la minaccia reiterata di ritorsioni verso i media non omologati ai voleri del cavaliere - sono tutti condivisibili, ma portano a considerare, a differenza di quanto fa Castells, l'Italia non un'anomalia, bensì un laboratorio dove la comunicazione è sussunta definitivamente dal potere. Ciò che sta accadendo nel nostro paese è il tentativo di mettere a fuoco una compiuta produzione mediatica della decisione politica. Le istituzioni statali vanno occupate non perché luoghi esclusivi del «politico», ma per prevenire una «politica insorgente» attraverso la gestione diretta, dai media alla formazione, dei processi di identificazione culturale. Che poi ci sia un imprenditore politico a tirare le fila dovrebbe far riflettere sulla natura del populismo postmoderno che occupa il centro della scena politica nel capitalismo contemporaneo: non un residuo del passato, ma la forma politica che si candida a indicare via d'uscita dalla crisi della democrazia rappresentativa e dello stato-nazione. L'enfasi sulla libertà e sulla differenziazione sociale e culturale del populismo postmoderno convive infatti con la produzione mediatica di una sintesi tra interessi conflittuali tra loro, fattore indispensabile per la decisione politica.
Il potere dei movimenti
La possibilità di fermare questa «fabbrica del consenso» sta dunque nello sviluppo di una «politica insorgente» da parte dei movimenti sociali. Castells non sfoggia un ottimismo di maniera, quanto la motivata convinzione che gli attuali movimenti sociali sono da leggere anche come un agire comunicativo che sviluppa un punto di vista critico sull'esistente e che individua in alcune tecnologie dell'informazione il medium privilegiato. Internet, dunque, come medium alternativo, che però esprime un contropotere con cui i media mainstream devono confrontarsi. La candidatura di Barack Obama, il tam-tam che ha portato alla sconfitta il partito popolare in Spagna nel 2004, la rivolta dei giovani iraniani contro il governo di Tehran o i movimenti antiglobalizzazione sono tutti esempi di una «politica insorgente» che ha avuto la capacità di condizionare e influire sul potere costituito per poi dissolversi come accade in natura agli sciami.
La «politica insorgente» è cioè vincolata a una contingenza, esaurita la quale il contropotere espresso dai movimenti sociali ripiega su forme più convenzionali di pressione politica. Manca cioè quell'elemento che rende un fattore permanente la presenza di una politica insorgente e il suo corollario sociale, il contropotere esercitato dai movimenti sociali. È cioè assente un'analisi critica sul modo di produzione, delle gerarchie e dei rapporti di sfruttamento dentro la fabbrica del consenso. In assenza di questo la teoria del potere proposta da Castells riposa sul terreno delle regole e dei diritti, disincarnati dai rapporti sociali esistenti nella realtà.
Le esperienze di social networking, le liste di discussione, il Citizen journalism sono cioè una presa di congedo dal modello in cui c'è un'emittente e molti destinatari per sostituirlo, con una circolazione dei contenuti dai «molti a molti». Ma questa rappresentazione dell'«autoproduzione comunicativa» pone il problema su come il contropotere della politica insorgente si debba rapportare con il potere costituito. Castells sostiene cioè che la politica insorgente non prevede continuità, ma si manifesta come uno sciame che si dissolve una volta raggiunto l'obiettivo per cui si era formato. La sua è la fotografia di ciò che avviene nella realtà. Ma se la «politica insorgente» è anche la critica ai prodotti della fabbrica del consenso, il passo successivo da compiere è la critica del modo di produzione vigente al suo interno. Le tecnologie digitali, il contropotere dei movimenti sociali sono solo la fenomenologia della «politica insorgente». Serve solo organizzarla nel tempo e nello spazio.
Manuel Castells
Il teorico dell'«Era dell'informazione»
Catalano di nascita, cosmopolita per vocazione. La biografia di Manuel Castells è infatti contrassegnata da una tensione a non circoscrivere l'oggetto dei suoi studi a un ambito nazionale. Fuggito dalla Spagna di Franco, approda a Parigi, dove lavora con lo studioso marxista Nicolas Poulantzas. Sono gli anni in cui Castells scrive e partecipa a gruppi interdisciplinari di lavoro sulla città culminati con la pubblicazione del volune «The Urban Question: A Marxist Approach». Nel 1979 si trasferisce negli Stati Uniti per insegnare all'università di Berkeley. È in questo contesto che nasce l'opera che lo rende famoso, «L'era dell'informazione», una trilogia sull'emergere di una nuova forma di capitalismo che l'autore definisce come informazionale («L'era dell'informazione» è stata tradotta e più volte ristampata dall'Università Bocconi Editore). Negli anni Novanta pubblica i volumi «Galassia internet» (Feltrinelli) e insieme a Pekka Himanen «L'etica hacker e lo spirito del capitalismo» (Feltrinelli). Sempre con Himanen pubblica «Società dell'informazione e welfare state» (Guerini Associati), mentre cura la ricerca a livelo globale su «Mobile communication e trasformazione sociale» (Guerini Associati). Infine la traduzione di questa ambiziosa opera «Potere e comunicazione», tradotta e pubblicata da Università Bocconi editore.
Un mondo spiegato a partire dalla centralità del capitale finanziario che stringe nella sua morsa l'economia. È questa la lettura dominante della crisi, relegata a incidente di percorso del capitalismo. Spiegazione che può essere smontata a partire dagli scritti di Marx dedicati al tema e che sono stati raccolti in un volume da oggi in libreria di cui pubblichiamo brani dell'introduzione
La spiegazione della crisi attuale come una crisi finanziaria che ha contagiato l'economia reale è oggi largamente prevalente. Si tratta della versione contemporanea della concezione, ben nota a Marx, secondo cui la crisi sarebbe dovuta «all'eccesso di speculazioni e all'abuso del credito». Precisamente questa spiegazione delle crisi era stata sostenuta dalla commissione incaricata dalla Camera dei Comuni inglese di redigere un rapporto sulla crisi del 1857. Marx contestava questo punto di vista: «la speculazione di regola si presenta nei periodi in cui la sovrapproduzione è in pieno corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco, e proprio per questo accelera lo scoppio della crisi e ne aumenta la virulenza. La crisi stessa scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della produzione. Non la sovrapproduzione, ma la sovraspeculazione, che a sua volta è solo un sintomo della sovrapproduzione, appare perciò agli occhi dell'osservatore superficiale come causa della crisi».
Oltre ogni limite
Per Marx i motivi per cui le crisi si presentano come crisi creditizie e monetarie sono senz'altro radicati in alcune caratteristiche di fondo del funzionamento dell'economia capitalistica. Ma le crisi non sono in primo luogo creditizie e monetarie: alla loro base si trova la sovrapproduzione di capitale e di merci. Il fatto è che per Marx il credito è uno dei principali strumenti attraverso cui il capitale tenta di superare i propri limiti. Infatti, grazie al credito i «limiti del consumo vengono allargati dalla intensificazione del processo di riproduzione, che da un lato accresce il consumo di reddito da parte degli operai e dei capitalisti, d'altro lato si identifica con l'intensificazione del consumo produttivo». Inoltre il credito «spinge la produzione capitalistica al di là dei suoi limiti» anche nel senso di porre a disposizione della produzione «tutto il capitale disponibile e anche potenziale della società, nella misura in cui esso non è stato già attivamente investito».
È precisamente per questi motivi, osserva Marx nel manoscritto del terzo libro del Capitale, che il credito appare come la causa della sovrapproduzione: «se il credito appare come la leva principale della sovrapproduzione e degli eccessi e della sovraspeculazione nel commercio, ciò accade soltanto perché il processo di riproduzione, che per sua natura è elastico, viene qui forzato sino al suo estremo limite, e vi viene forzato proprio perché una gran parte del capitale sociale viene impiegata da coloro che non ne sono proprietari, che quindi rischiano in misura ben diversa dal proprietario il quale, sinché agisce in prima persona, considera con preoccupazione i limiti del proprio capitale privato».
A questo riguardo è interessante notare come un aspetto contro cui puntano il dito alcuni critici odierni della finanza, ossia il fatto che essa utilizza il denaro di altri, per Marx non è una patologia ma una caratteristica di fondo del sistema creditizio. Ancora più interessante è notare che credito e finanza negli ultimi decenni hanno avuto proprio la funzione di forzare i limiti di consumo dei lavoratori (contrastando le conseguenze della compressione dei redditi da lavoro) e di allontanare nel tempo lo scoppio della crisi da sovrapproduzione nell'industria (grazie sia al credito al consumo che a tassi molto bassi tali da consentire alle imprese di rinegoziare il proprio debito a tassi favorevoli), oltre a fornire al capitale in crisi di valorizzazione nel settore industriale alternative d'investimento ad elevata redditività (la finanza ha consentito di drogare i profitti di molte imprese manifatturiere).
Purtroppo, grazie al credito si può ben spingere la produzione oltre i limiti del consumo (ossia dell'effettiva domanda pagante), ma alla fine il processo si inceppa e la crisi si incarica di dimostrarci che quel limite è invalicabile. Le merci restano invendute, cominciano i ritardi nei pagamenti, la circolazione si arresta in più punti, e infine tutto il meccanismo entra in stallo.
A questo punto il credito si contrae: la restrizione del credito e la richiesta di pagamenti in contanti contribuiscono a conferire alla crisi la sua apparenza di crisi creditizia e monetaria. Ma la realtà secondo Marx è un'altra. Emergono «transazioni truffaldine, che ora sono scoppiate e vengono alla luce del sole; esse rappresentano speculazioni andate male e fatte con il denaro altrui». Ma emerge soprattutto il fatto che le merci restano invendute e perdono il loro valore e che i profitti attesi non possono più essere realizzati.
I sintomi nascosti dalla bolla
Dietro la crisi «creditizia e monetaria», oltre al fallimento di speculazioni nate nel momento di massima espansione del credito, c'è insomma una crisi di sovrapproduzione e di realizzazione del capitale. Questo è vero in generale, ed è vero anche per quanto riguarda la crisi scoppiata nel 2007. Lo dimostra una ricerca pubblicata dall'Ocse nel maggio del 2009 - e completamente ignorata da gran parte degli economisti e dei commentatori - che evidenzia come la produttività del lavoro fosse in rallentamento già molto prima dello scoppio della crisi finanziaria. Ora, siccome la produttività è calcolata in termini di quantità di merci prodotte per lavoratore, un suo calo (soprattutto se marcato e improvviso) indica una diminuzione della produzione a seguito di sovrapproduzione, o - come oggi si preferisce dire - «eccesso di offerta» (excess supply): in tal caso infatti le merci invendute inducono a diminuire la produzione e a non utilizzare appieno la capacità produttiva. Nel settore delle costruzioni Usa il calo inizia tra i due e i quattro anni prima della crisi; sino a quando, nel 2007, la produttività del lavoro in tale settore segna un -12%. Alla base c'è quindi, affermano quindi D. Brackfield e J. Oliveira Martins, gli autori della ricerca, «un problema di eccesso di offerta». Per un certo periodo è sembrato che «una forte spinta alla domanda attraverso un'estensione delle facilitazioni creditizie avrebbe potuto compensare i problemi dal lato dell'offerta. Ma alla fine si è dovuto pagare pegno all'economia reale». Va notato che non soltanto negli Usa, ma anche in Europa e in Giappone, tra il 2006 e il 2007 vi è un stato chiaro rallentamento della produttività. La conclusione della ricerca è espressa in termini diplomatici, ma è chiara lo stesso: «rispetto all'assunto che il deterioramento dell'economia reale sia stato semplicemente causato dalla crisi finanziaria, i dati danno sostegno ad una relazione più complessa». Insomma: la crisi, una classica crisi da sovrapproduzione, è precedente lo scoppio della bolla creditizia. La bolla creditizia l'ha prima mascherata e poi, esplodendo, ha creato l'illusione di esserne la causa.
La carestia di denaro
A questo punto, proprio per il fatto che l'eccesso del credito nel settore immobiliare statunitense era solo la punta dell'iceberg di un fenomeno molto più generale, si è prodotta una drammatica accelerazione della crisi, con massicce svalutazioni di titoli finanziari dovute a vendite a qualsiasi prezzo pur di onorare i propri debiti (infatti molti investimenti in titoli erano stati effettuati per mezzo di debito, che si contava di ripagare - come era sempre avvenuto in precedenza - grazie alla crescita di prezzo di quegli stessi titoli).
Si è inoltre prodotta quella caratteristica «carestia di denaro» che trasforma il denaro stesso, da semplice mezzo di circolazione del capitale, in «merce assoluta», in «forma autonoma del valore» superiore e contrapposta alle singole merci: in parallelo all'assottigliarsi dei flussi finanziari è aumentata la richiesta di mezzi di pagamento, quali le banconote, e si sono verificati rilevanti fenomeni di tesaurizzazione. Dopo il fallimento di Lehman Brothers, nel settembre 2008, la circolazione del capitale è sembrata interrompersi e gli stessi prestiti interbancari si sono per qualche tempo letteralmente paralizzati su scala mondiale.
La crisi scoppiata nel 2007 ha assunto col passare dei mesi le caratteristiche di una vera e propria crisi generale. Attraverso di essa si è verificata una enorme distruzione di capitale su scala mondiale. Questa fase è tuttora in corso, a dispetto del fiume di denaro impiegato dagli Stati per tamponare la crisi e del mantra secondo cui «il peggio è alle nostre spalle». Anche molti di coloro che ripetono queste parole rassicuranti in realtà si chiedono di quale entità debba essere la distruzione di capitale per ripristinare condizioni più elevate di redditività del capitale investito e quindi a far ripartire l'accumulazione. Non è facile rispondere: l'unica certezza è che lo scenario è senz'altro assai peggiore delle recessioni dei primi anni Settanta, e trova confronti soltanto con le crisi del 1873 e del 1929.
Tutto questo dovrebbe però sollecitare alcuni interrogativi più di fondo: circa la sensatezza e sostenibilità sociale di un sistema che ha bisogno di crisi ricorrenti e di distruzione di capitale su così larga scala per andare avanti. Per Marx, proprio «nelle contraddizioni, crisi e convulsioni acute si manifesta la crescente inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società rispetto ai rapporti di produzione che ha avuto finora» e la necessità di «far posto a un livello superiore di produzione sociale». Come sappiamo, negli ultimi decenni l'idea stessa di un «livello superiore di produzione sociale» è stata accantonata come un'utopia totalitaria. Da allora, la nostra vita non sembra migliorata.
Anticipiamo un brano da Capitalismo parassitario, il nuovo libro di , in uscita in questi giorni (Laterza, pagg. 66, euro 8)
Come il recente «tsunami finanziario» ha dimostrato, «al di là di ogni ragionevole dubbio», ai milioni di individui che il miraggio della «prosperità ora e per sempre» aveva cullato nella convinzione che i mercati e le banche del capitalismo fossero i metodi garantiti per la risoluzione dei problemi, il capitalismo offre il meglio di sé non nel risolvere i problemi, ma nel crearli. Il capitalismo, proprio come i sistemi di numeri naturali dei famosi teoremi di Kurt Gödel (anche se per ragioni diverse...), non può essere simultaneamente coerente e completo; se è coerente con i suoi princìpi insorgono problemi che non è in grado di affrontare (voglio ricordare che l’avventura dei «mutui subprime», sbandierata all’opinione pubblica come la via per mettere fine al problema dei senzacasa, quella piaga che il capitalismo, come è risaputo, produce sistematicamente, ha invece moltiplicato il numero dei senzacasa attraverso l’epidemia di pignoramenti...); e se cerca di risolverli non può riuscirvi senza cadere nell’incoerenza con i propri presupposti di fondo. Molto prima che Gödel stilasse il suo teorema, Rosa Luxemburg aveva scritto il suo studio sull’«accumulazione del capitale»,dove sosteneva che il capitalismo non può sopravvivere senza le economie «non capitalistiche»: esso è in grado di progredire, seguendo i propri princìpi, fintanto che vi sono «terre vergini» aperte all’espansione e allo sfruttamento; ma non appena le conquista per poterle sfruttare, le priva della loro verginità precapitalistica e così facendo esaurisce le fonti del proprio nutrimento.
Il capitalismo, per dirla crudamente, è in sostanza un sistema parassitario. Come tutti i parassiti, può prosperare per un certo periodo quando trova un organismo ancora non sfruttato del quale nutrirsi. Ma non può farlo senza danneggiare l’ospite, distruggendo quindi, prima o poi, le condizioni della sua prosperità o addirittura della sua sopravvivenza. Scrivendo nell’era dell’imperialismo rampante e della conquista territoriale, Rosa Luxemburg non prevedeva e non poteva immaginare che i territori premoderni di continenti esotici non erano gli unici potenziali «ospiti » di cui il capitalismo poteva nutrirsi per prolungare la propria esistenza e avviare una serie di periodi di prosperità. In tempi recenti, abbiamo assistito a un’altra dimostrazione concreta della «legge di Rosa», ossia il famigerato affaire dei «mutui subprime» all’origine dell’attuale depressione: l’espediente di breve respiro, deliberatamente miope, di trasformare in debitori individui privi dei requisiti necessari per la concessione di un prestito, salvo che per la speranza (scaltra, ma in ultima analisi vana) che l ‘aumento dei prezzi delle case stimolato da una domanda gonfiata ad arte potesse garantire, come un cerchio che si chiude, che questi «nuovi acquirenti» avrebbero pagato gli interessi regolarmente (almeno per un po’)...
Oggi, a distanza di quasi un secolo da quando Rosa Luxemburg rese pubblica la sua intuizione, noi sappiamo che la forza del capitalismo sta nella straordinaria ingegnosità con la quale esso cerca e scopre specie ospitanti nuove ogni volta che le specie sfruttate in precedenza diminuiscono di numero o si estinguono; e nell’opportunismo e nella velocità, simili a quelle di un virus, con le quali si riadegua alle idiosincrasie dei suoi nuovi terreni di pascolo. Nel numero del 4 dicembre 2008 della New York Review of Books, in un articolo intitolato “The Crisis & What to Do About It”, George Soros, brillante analista economico e praticante delle arti del marketing, presentava il percorso delle avventure capitalistiche come una successione di «bolle» che regolarmente si espandono al di là della propria capacità di tenuta e scoppiano non appena raggiungono il limite della resistenza.
L’attuale stretta creditizia non è il segnale della fine del capitalismo, solo dell’esaurimento di un altro pascolo... La ricerca di un nuovo pascolo partirà quanto prima, alimentata, proprio come in passato, dallo Stato capitalistico attraverso la mobilizzazione forzata di risorse pubbliche (usando le imposte invece che il potere di seduzione, deficitario e temporaneamente non operativo, del mercato); si andrà alla ricerca di nuove «terre vergini» e si farà in modo, di riffa o di raffa, di renderle sfruttabili, fino a quando anche la loro capacità di rimpolpare i profitti degli azionisti e le gratifiche dei dirigenti non sarà stata spremuta fino in fondo. E come sempre – l’abbiamo imparato nel XX secolo da una lunga serie di scoperte matematiche, da Henri Poincaré a Edward Lorenz – un minimo scarto laterale può condurre al precipizio e far concludere l ‘avventura in una catastrofe; perfino minuscoli passi in avanti possono scatenare un’inondazione e concludersi con un diluvio... L ‘annuncio di un’altra «scoperta», di un’isola che ancora non era segnata sulle mappe, attira frotte di avventurieri molto più numerose rispetto alle dimensioni e alla capienza del territorio vergine: frotte che in men che non si dica dovranno tornare alle proprie navi per scampare al disastro imminente, sperando contro ogni speranza che le navi siano ancora intatte, al sicuro nel porto...
La grande domanda è quando si esaurirà l’elenco delle terre assoggettabili a «verginizzazione secondaria», e quando le esplorazioni, per quanto frenetiche e ingegnose, non garantiranno più un sollievo temporaneo. Non saranno quasi certamente i mercati, dominati come sono dalla «mentalità del cacciatore» liquido-moderno che ha preso il posto dei due approcci precedenti – quello premoderno del guardacaccia e quello solido-moderno del giardiniere – a porre questa domanda, loro che vivono passando da una battuta di caccia fortunata all’altra, fintanto che riescono a scovare un’altra occasione per rimandare il momento della verità, non importa se per breve tempo e non importa a quale costo.
Copyright 2009, Gius. Laterza & Figli. Traduzione di Fabio Galimberti
Dal 2012, grazie alla legge 133/08 "recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria" approvata ad agosto dal Parlamento la gestione del servizio idrico integrato in Italia sarà privatizzato. Da diritto acquisito, l'acqua diventa merce, prodotto commerciale soggetto alle regole del mercato
L'articolo 23bis della legge 133 favorisce "il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali, in via ordinaria, a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica". Ciò al fine - afferma la legge - "di favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale in ambito locale". In altre parole si spalanca la via alla privatizzazione dell'acqua, infatti il servizio idrico è stato equiparato a qualunque servizio pubblico di rilevanza economica, costringendolo alle regole della concorrenza.
Da diritto acquisito, l'acqua diventa merce, prodotto commerciale soggetto alle regole del mercato. Lo stesso sistema che solo nell'ultimo anno si è dimostrato pronto a implodere su sé stesso, con fallimenti a catena di banche e assicurazioni.
Eppure, dopo un rapido sguardo alle esperienze cosiddette "pilota" in Italia, sorgono non pochi dubbi proprio sulle garanzie di accesso al servizio.
Basta leggere l'inchiesta pubblicata il 4 dicembre 2008 dal Corriere Magazine sull'acqua privata e sui costi delle bollette, per scoprire che in città come Arezzo ed Agrigento, comuni che ha sposato il progetto di privatizzazione dell'acqua già da diversi anni, si è assistito a un processo rapido e febbrile di innalzamento vertiginoso dei costi delle tariffe (+ 300%).
Personalmente ritengo che l'art. 23 bis del ddl 133 andato ben oltre le competenze statali e l'ordinamento comunitario. La categoria dei servizi pubblici di rilevanza economica, oggetto dell'affidamento secondo la norma, è una categoria oscura e non presente nell'ordinamento comunitario. Come è noto, l'ordinamento comunitario distingue tra servizi di interesse economico-generale e servizi di interesse generale, entrambi, seppur con caratteristiche differenti, servizi pubblici essenziali, ed in quanto tali, entrambi, in relazione al nostro ordinamento, riconducibili all'art. 43 della Costituzione. Cioè riconducibili a quella norma che non è una mera norma di carattere organizzativo-funzionale, ma è una norma che contribuisce alla caratterizzazione più profonda del modello di Stato sociale; una norma che continua a riconoscere, garantire e legittimare, proprietà e gestione pubblica dei servizi pubblici essenziali, anche, laddove necessario, in regime di monopolio.
Trasformare la nozione di servizio pubblico essenziale in servizio di rilevanza economica, significa violare l'art. 43, il modello di Costituzione economica e tutte le norme ad essa raccordate in primis gli artt. 2, 3, 5 della Costituzione; significa violare la peculiarità che l'ordinamento comunitario riconosce allo status di servizio di interesse economico-generale e servizio di interesse generale, peculiarità ancor più rafforzata dopo l'approvazione del Trattato di Lisbona ed i suoi protocolli.
La norma in oggetto in questi ambiti, in questi servizi, caratterizzati da condizioni oggettive di monopolio naturale, introduce un astratto principio di concorrenza per il mercato, che significa di fatto riconoscere e favorire l'insorgere di malcelati monopoli privati. La norma non sembra assolutamente percepire e assimilare le tipologie comunitarie dei servizi di interesse economico-generale, seppur con una serie di limiti, orientati al mercato, e dei servizi di interesse generale, decisamente al di fuori delle logiche mercantili.
Mi spiego meglio: questa nuova categoria dei servizi pubblici locali di rilevanza economica tout court rientra tra i servizi pubblici essenziali? È possibile immaginare servizi pubblici che non abbiano carattere generale? Sarei portato a ritenere che ciò debba escludersi. E allora se così è, tale categoria, così come configurata, presenta evidenti difformità rispetto al quadro comunitario e statale i quali, seppur con toni differenti, pongono in posizione rilevante il ruolo dei poteri pubblici e subordinano la regola della concorrenza al prius del perseguimento degli interessi generali e al soddisfacimento del servizio universale. Si delinea dunque una duplice violazione sia del dettato comunitario, che di quello interno.
Non è un caso che il Comune di Parigi ha deciso la ripubblicizzazione dei servizi idrici. Infatti dal 1 gennaio 2010 un Ente di diritto pubblico, nel cui comitato di gestione siederanno anche i rappresentanti dei lavoratori e degli utenti, gestirà l'intero ciclo dell'acqua della capitale francese. Nel 1985 le multinazionali Suez e Veolia si erano accaparrate la gestione delle acque parigine con la complicità di Chirac Sono stati vent'anni di abusi, prezzi "gonfiati" e casi talora clamorosi di corruzione. Per contro, non ci sono stati cambiamenti di rilievo sotto il profilo della qualità dei servizi.
Anche a Parigi, come da noi, la gestione privata ha portato con sé una serie di effetti collaterali dovuti alla mancanza di concorrenzialità. In Francia tre quarti della gestione delle acque è oggi in mano ai privati, ma la speranza è che, sul modello parigino, il ruolo pubblico torni ad essere prevalente anche nelle altre zone del Paese.
Nella primavera del 2007 più di quattrocentocinquantamila mila firme furono raccolte a sostegno della legge d'iniziativa popolare che vede come primo punto il riconoscimento dell'acqua come "diritto inalienabile ed inviolabile della persona". Ma la sensazione forte è che la straordinaria raccolta firme sia già stata oscurata. Con un semplice colpo di spugna. Seguendo il manuale del "buon governo" che approva leggi impopolari e antidemocratiche proprio quando imperversa l'afa estiva e l'attenzione della stampa è rivolta altrove.
Il 2010 si candida quindi ad essere l'anno della svolta, ed è incredibile pensare come la Francia e l'Italia prenderanno direzioni cosi diverse in merito ad un bene fondamentale come l'acqua. Da una parte abbandonando una lunga privatizzazione e dall'altro si inaugurando una stagione di privatizzazione diffusa, che già negli esperimenti locali si è dimostrata allo stato attuale fallimentare e onerosa per gli utenti.
E' necessario una forte opposizione sia istituzionale, a partire dai ricorsi di incostituzionalità che le Regioni e gli enti locali debbono presentare, sia sociale al dispositivo della legge 133, affinché in Italia si costruisca la strada della promozione di una società mirante alla garanzia dei principi di uguaglianza nei diritti, di giustizia sociale, di solidarietà e di un vivere insieme fondato sul rispetto e la salvaguardia dei beni comuni
L’Autore è segretario regionale del Prc Basilicata
Carla Ravaioli, ultimo intervento della mattina, è la prima voce di donna. Fin quando non cambieremo il nostro modello, non distribuiremo diversamente i nostri interventi, l'assetto del mondo non cambierà sul serio, rimarremo sempre indietro rispetto ai nostri avversari tra i quali imperversa Emma Marcegaglia, tra i protagonisti della loro giornata. Il parlare di Carla, deciso e saggio, è un richiamo alla sinistra a correggersi finché c'è tempo e l'ambiente tiene ancora, chissà fino a quando. Ma non si tratta solo di questo, questo accorato richiamo non è il solo rimprovero. «Le sinistre per la paura della disoccupazione tecnologica hanno osteggiato ogni progresso», consegnando nei fatti al capitale le chiavi del cambiamento del futuro del mondo.
La tessile dismessa
In complesso il nostro Cernobbio non è poi male. L'organizzazione, tutta sulle spalle di persone singole, di associazioni e gruppi locali, tutta giocata in agosto, senza fondi da spendere se non il tempo delle vacanze e la voglia di fare bene, è riuscita a organizzare un'assemblea numerosa, a nutrirla di idee e companatico, con la Digos fuori dai cancelli a perdere tempo, forse nel timore che un'orda di cattivi soggetti potesse attaccare la pace dei signori, poco distante. E noi che credevamo che fossero le nostre idee a fare paura. Anche il luogo della riunione è sintomatico dei tempi. Una fabbrica tessile dismessa, con un grande salone, dove lavoravano le operaie settanta anni fa, trasformata in una bella sala in cui si sta insieme e si parla di quello che conta per cambiare, per muovere le cose.
Dopo la presentazione di Giulio Marcon, il primo intervento di rilievo è quello di Mario Agostinelli. Il suo argomento è la scelta nucleare. Badate, dice in sostanza, è sbagliato l'atteggiamento di chi è sicuro che «tanto non lo faranno mai». La verità è che lo stanno già facendo, sulla base di una doppia menzogna: Kyoto e il prezzo dell'energia al consumo. Kyoto «scade» nel 2012 e il primo chilowatt nucleare italiano arriverà semmai nel 2018. Fino a quel momento si continuerà a pagare anche per l'inquinamento proibito e per la produzione di Co2 necessaria per costruire le centrali». D'altro canto l'energia costerà meno, ma non per tutti. Anzi è sicuro che il costo chilowatt per le famiglie crescerà, caricato dei costi della Co2 della costruzione nucleare.
Parlano tra gli altri Lenzi del Wwf, buoni economisti come Pianta, Fumagalli, Santoro, Fassina, Merli e poi Beni dell'Arci, Rinaldini della Fiom. Quest'ultimo difende la posizione del suo sindacato in modo appassionato: «C'è una sottovalutazione di quello che sta succedendo a livello sociale, non solo nella gravità delle condizioni occupazionali ma nella ridefinizione del sistema delle relazioni sociali attraverso l'accordo separato che mira esplicitamente a negare l'autonomia e la democrazia nei luoghi di lavoro».
In conclusione circola un documento che esprime la convinzione diffusa: si può fare, le risorse si possono trovare; ma dove trovare la volontà?
5 modi per trovare le risorse
Se si vuole, le risorse si trovano. Ad esempio con la lotta all'evasione fiscale e con politiche fiscali più eque: portando al 23% la tassazione sulle rendite e aumentando l'imposizione fiscale al 45% per i redditi oltre i 70mila euro e al 49% sopra i 200mila euro e introducendo una tassa patrimoniale sui grandi patrimoni. Altre risorse potrebbero provenire dalla riduzione delle spese militari, rinunciando al programma delle grandi opere e introducendo l'uso di Open Office nella pubblica amministrazione.
Non è vero che lo tsunami di Natale sia stato la più grave calamità a memoria di uomo, perché nel 1970 in Bangladesh un ciclone uccise 500.000 persone mentre nel 1976 un terribile terremoto in Cina fece 600.000 morti. Però è stato il più mediatico di tutti. Ed è stato così evidente e seguito proprio perché ha colpito il fenomeno più diffuso e globale del mondo occidentale: il turismo. E oggi, a distanza di tempo, si possono cominciare a misurarne le conseguenze.
Il turismo rappresenta insieme il tempo libero delle società più “avanzate” del capitalismo che il settore economico trainante per molte realtà “sottosviluppate”, anzi sviluppate nella dipendenza al modello dominante di capitalismo global-finaziario. Per quasi tutti i paesi in questione il turismo rappresenta la prima o la seconda fonte di valuta, con il 10 %del Pil in Thailandia e addirittura il 33% delle Maldive.
In questo contesto, il turismo lega in modo indissolubile la parti più avanzate del capitalismo con le aree più arretrate come lo Sri Lanka, dove il 25% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. Questo legame distrugge le economie agricole precedenti e soprattutto modifica radicalmente il territorio, trasformando in speculazione edilizia e alberghiera una sottile fascia di terra, che rimane così totalmente squilibrata rispetto al clima e al ciclo delle acque.
Queste realtà sociali e territoriali vengono risucchiate nei vortici di uno sviluppo tardo capitalista di cui il turismo è l’espressione più evidente. Di qui, rapida crescita edilizia e sfruttamento del territorio con gestione difficile dell’equilibrio bio-climatico.
In questo contesto il turismo è insieme fattore di reddito e di costruzione della dipendenza: per cui si accentua la globalizzazione ma si riduce la capacità della crescita autonoma di queste economie. Questo il primo motivo della diversità di questo evento, lo tsunami recente, rispetto a quelli precedenti, mentre il secondo motivo è che la dimensione del fenomeno è sovranazionale, anzi planetaria.
A confronto infatti con il terremoto in Cina o al ciclone in Bangladesh questo evento è strutturalmente globale, ed ha colpito le zone più popolose del globo. Tra i 300 e 400 milioni di persone vivono nelle zone in qualche modo interessate dal cataclisma e questo rende evidente la debolezza dello Stato-Nazione nel gestire e governare la “globalità”, dalla finanza al cataclisma. In questo evento drammatico risulta evidente come i fenomeni globali, come la finanza e la conseguente delocalizzazione manifatturiera, incidano pesantemente nella dinamica della dipendenza e della morfologia del capitalismo subalterno. E’ evidente come Reebok o Nike, che ora hanno quote elevate di produzione in Thailandia e in Indonesia, possono guardare ad altri mercati produttivi ed è altresì evidente come la geografia degli aiuti possa favorire nuove geografie della dipendenza. E’ comprensibile dunque la preoccupazione dell’India nel controllare gli aiuti sia per evitare spionaggio militare sia per governare i propri confini nazionali.
Qui si apre proprio una contraddizione violenta tra il ruolo degli stati nazionali e le complesse forme della dipendenza. Un intreccio di fenomeni sia climatici che relativi alla morfologia del capitalismo rendono esplicita la crisi dello stato nazione come garante dei confini e della sicurezza nazionale. A parte l’India, che correttamente pretende di gestire direttamente l’intervento sul suo territorio, risulta la crisi anche organizzativa degli stati nazionali.
Non solo, ma questa catastrofe è differente dalle altre appunto a causa dalle altre appunto a causa della presenza di turisti, epifania della nuova dipendenza, la dimensione sovranazionale obbliga a rendere operativa la questione degli interventi globali. Sicuramente, in questo contesto l’Onu è apparsa come un soggetto garante, però burocratico, per cui il movimento no global e la rete delle ong dovrebbero, come hanno cercato di fare, aprire il fronte degli interventi dal basso, magari di azione globale.
Si pone qui il vero problema, cioè l’essere apparentemente solo le multinazionali, ossia la forma-impresa, i soggetti che si arrogano il diritto di agire “globalmente”, definendo strategia della geopolitica della fabbrica nel mondo e quindi la sua morfologia sociale. In questo contesto appare debole lo stato nazionale, come conferma paradossalmente il comportamento dell’India, e ancor embrionale il movimento delle Ong.
C’è il comando capitalista, con le forma dell’impresa che vorrebbe essere l’unico paradigma del globale, ci sono le strutture burocratiche come l’Onu, ma manca un’azione dal basso che rappresenti anche dentro alle situazioni di crisi ed a livello globale i soggetti sociali. Lo scontro è proprio sul dispositivo di comando, di rappresentazione del globale, di chi è Gaia, il pianeta Terra? La forma impresa non può essere la sintesi del globale, perché perde e distrugge la geografia del sociale, ma qui sta la nostra debolezza.
Oggi ci sono forse solo le Ong che praticano dal basso in modo disorganico e pulviscolare un’azione che interagisce con il tessuto sociale. Si tratta di capire se la rete delle Ong possa tramutarsi in uno dei tanti controlli del capitale o essere un tassello del tessuto autonomo con cui si esprime e realizza l’autonomia dei soggetti sociali, capaci di leggere e tradurre la complessità di Gaia, del suo territorio e dei suoi problemi.
Attorno allo tsunami e alle sue conseguenze si apre dunque la geografia del “sottosviluppo”, delle migrazioni, della dipendenza e della necessità di una nuova internazionale non del turismo ma dei soggetti sociali che sappia accumulare sapere e identità anche partendo proprio dai cataclismi. Di che è Gaia? Non certo del capitale.
Sul sito internet del Dipartimento di Stato americano, in un documento intitolato A safe trip abroad, un viaggio sicuro all’estero, si legge una curiosa raccomandazione: non accettate cibo né bevande da stranieri. Nella sua semplicità, questo consiglio cancella millenarie tradizioni di ospitalità: è davvero possibile viaggiare senza accettare cibo da sconosciuti? Dunque in futuro viaggeremo con la valigia piena di cibo in scatola, autosufficienti come extraterrestri in missione spaziale?
Inutile negarlo: la paura di malattie, attentati e spiacevoli imprevisti ci ha fatto passare un po’ la voglia di compiere lunghi viaggi. Eppure - detto brutalmente - rinunciare a viaggiare per paura di morire è assurdo, visto che la grande maggioranza delle persone muore nel proprio letto. Combattuti da neofilia e neofobia, tra desiderio di novità e voglia di familiarità, quando ci avventuriamo “altrove” ci sentiamo comunque insicuri, precari, poco garantiti.
Viaggiare ha sempre comportato relative quantità di azzardo. Il rischio è sempre stato insito nel mettersi in cammino. Anche etimologicamente, chi dice travel dice travaglio. E non meraviglia che i verbi inglesi to fare, viaggiare, e to fear, temere, discendano da una radice comune. Nel 1865, l’agente di borsa inglese William Moens viene rapito dagli “indigeni” salernitani sulla via di Paestum. Già a quell’epoca le attrazioni turistiche – ritenute obiettivi a rischio – erano presidiate dai militari. Ma i carabinieri schierati a guardia delle antiche rovine per proteggere i visitatori stranieri, in questo caso vengono beffati dai briganti, i quali dopo qualche mese ottengono dalla moglie di William Moens un consistente riscatto. Per inciso, Moens svilupperà quella sindrome, detta poi di Stoccolma, che lega affettivamente il sequestrato ai suoi sequestratori, al punto che al momento della sua liberazione scorrono le lacrime, da entrambe le parti.
Negli ultimi decenni uno stillicidio di aggressioni a turisti di diverse nazionalità ha funestato meravigliose destinazioni turistiche. I target sono stati scelti con cura: hotel, musei, siti archeologici, aeroporti, battelli da crociera. Le reazioni non sono mancate. Il primo industriale del turismo armato, o se vogliamo del turismo sicuro fai-da-te, è giapponese. Ai connazionali in partenza per l’estero, Katsuichiro Sato offre una linea di prodotti che costituisce una sorta di survival kit turistico: giubbotti antiproiettile, lanciarazzi fumogeni, tagliole da camera d’albergo, spray al peperoncino e cinture anti-stupro, sul modello di quelle di castità.
I controlli, le perquisizioni e in generale la security sono stati potenziati in tutto il mondo. Portare a casa la pelle è giustamente la priorità di ogni viaggiatore, e siamo grati a chi ce lo consente. Anche se è evidente che più ci si blinda, più ci si sente minacciati, e viceversa. Socializzare la paura è confortante. Purtroppo questa socializzazione è spesso accompagnata da un indebolimento dello spirito critico. In cambio dell’illusione della sicurezza, perché di un’illusione si tratta, siamo disposti a cedere sul piano della riservatezza e della libertà di movimento. Giungendo ad accettare perfino gli abusi. A questo proposito l’organizzazione londinese Privacy International ha lanciato un’ironica competizione a premi per la misura di sicurezza più stupida (Stupid Security Competition). Il concorso si basa sulle segnalazioni arrivate sia dal settore pubblico, sia da quello privato: circa cinquemila all’anno, provenienti da 35 nazioni. Si va dall’Australia alla Russia, ma la maggioranza delle segnalazioni riguarda gli Stati Uniti e non a caso le più numerose giungono dagli aeroporti. In questi non-luoghi ormai si assiste a scene grottesche. All’aeroporto internazionale di Philadelphia (tra i “premiati” nell’ultima edizione del concorso di Privacy International) l’acqua di Cologna di un giovane arabo saudita, scambiata per un pericoloso agente di contaminazione chimica, ha allarmato l’FBI al punto da allestire una camera di quarantena d’emergenza. Mentre all’aeroporto JFK di New York, una giovane mamma americana, in viaggio con il suo bebè, è stata costretta dalla security a bere il suo stesso latte, contenuto nei biberon che trasportava con il bagaglio a mano, poiché il liquido suscitava sospetti.
Esistono studi scientifici sulla accettazione delle misure di controllo da parte degli utenti. Se n’è parlato per esempio al BioSecurity Summit di Las Vegas, dove il “benessere” provocato dalle misure di sicurezza sui mezzi di trasporto e nei luoghi di transito - misure sempre più fantascientifiche - è stato paragonato all’effetto placebo di certi farmaci. In molti casi, infatti, non si tratta di provvedimenti realmente efficaci, ma solo rassicuranti. Nella prevenzione del rischio di attentati, per esempio, i limiti etici, gli errori e gli enormi costi dell’identificazione individuale sono temi controversi.
Dal punto di vista antropologico, l’insicurezza del turista, come quella dei prodi viaggiatori del passato, è l’atavico terrore nei confronti della diversità. Ma è anche l’insicurezza della nostra civiltà, al contempo innocente e prevaricatrice, che, da opulenti e un po’ svagati turisti occidentali, rappresentiamo giocosamente. In un mondo che non se la passa troppo bene. Oltre gli orizzonti della nostra civiltà, e fuori dalle nostre regole, chi ci sta? Sunt leones, rispondevano i latini. Che avevano ben definito il significato di questa parola: non solo leoni, ma anche mostri, barbari e spaventatori di viaggiatori. Ma attenzione. I leones hanno abbandonato le loro plaghe esotiche e oggigiorno si aggirano anche tra di noi. O, perlomeno, così sembra. Converrà dunque vivere in allarme, precauzionalmente. Tutti belli spaventati.
A ben vedere, non è soltanto quando siamo in viaggio che cerchiamo sicurezza. Dal punto di vista psicologico, infatti, è facile accorgersi quanto il bisogno, se non la retorica della sicurezza dilaghino ben oltre la vacanza e l’attività turistica. Le nostre abitudini e persino il nostro linguaggio tradiscono un’ansia di sicurezza e di certezze, di cui spesso non siamo neppure consapevoli. Si va dall’ambito delle assicurazioni a quello dell’informatica, dalle automobili ai trattamenti economici previdenziali, dalla sanità all’alimentazione, ai rapporti affettivi e sessuali.
L’ossessione per la sicurezza, a casa e in viaggio, oltre che costarci cara, sta mangiando una bella fetta di piacere e di semplicità nel fare le cose. Mi chiedo: non staremo esagerando?
Ho l’impressione che il mondo delle garanzie, delle vaccinazioni, delle omologazioni, delle standardizzazioni, delle certificazioni, questo mondo ben temperato e fiscalizzato, abbia sconfinato. I suoi criteri, ormai sdoganati da ogni parte politica, hanno invaso la nostra vita quotidiana. In breve, sembriamo davvero appartenere a quella che lo psicoanalista americano James Hillman ha chiamato la “civiltà dell’airbag”. Dove il feticismo delle assicurazioni e della security ci solleva dal ragionare in maniera responsabile sulla correttezza del nostro modo di capire la realtà e sulla necessità dei nostri comportamenti. La cosa più importante, ci dicono, è non andare a sbattere. E ognuno provveda come meglio può. Va da sé che le certezze, come gli airbag e le porte blindate, abbiano un certo costo. Altissimo, quello della abolizione del “sale” del viaggio (e della vita). L’imprevisto.
Notizie sull'autore e le sue pubblicazioni in homoturisticus.com
I fondi d’investimento cercano appezzamenti a prezzi ridicoli. Tra i compratori anche molti Paesi con poca terra coltivabile
Ogni crisi ha i suoi vincitori. Alcuni di loro sono seduti nella sala Stuyvesant dell’Hotel Marriott a New York. Gli uomini sono agricoltori di mais, proprietari terrieri, manager di fondi provenienti dall’Iowa, da San Paolo, da Sydney. Ognuno di loro ha pagato 1995 dollari per partecipare alla prima conferenza sul commercio mondiale di terreni coltivabili: la Global AgInvesting 2009. Il primo a intervenire è un rappresentante dell’Ocse, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico. Sui suoi grafici in Powerpoint ci sono delle curve che schizzano su e giù. Alcune si piegano tanto più verso il basso quanto più si avvicinano all’anno 2050: si tratta dei terreni agricoli che andranno persi a causa dei cambiamenti climatici, del degrado del suolo, dell’urbanizzazione e della carenza d’acqua. Le altre linee, invece, puntano decisamente verso l’alto: rappresentano la domanda di carne e biocarburanti, il prezzo del cibo e l’incremento demografico. Tra le curve si apre un divario che diventa sempre più grande. Quel divario è la fame.
La fame è il nostro business
Ma per gli uomini e le poche donne raccolti nella sala Stuyvesant si tratta di buone notizie, l’atmosfera è allegra. La combinazione «più uomini-meno terra» rende il cibo un investimento sicuro, con rendite annuali del 20 o 30%. Susan Payne, una inglese dai capelli rossi, è direttrice del più grande fondo terriero dell’Africa meridionale, che si estende per 150.000 ettari, principalmente in Sud Africa, Zambia e Mozambico. Payne, che vuole raccogliere dagli investitori mezzo miliardo di euro, parla di lotta alla fame, ma le slide della sua presentazione in Powerpoint, abbellite da foto di campi di soia al tramonto, hanno dei titoli come «Africa - the last frontier for finding alpha». Alpha è un investimento il cui ritorno supera i rischi. L’Africa è la terra-Alpha: su quel continente impoverito la terra costa poco. Il fondo della Payne paga tra 350 e 500 dollari per ettaro nello Zambia; in Argentina o negli Usa per la stessa superficie dovrebbe sborsare dieci volte tanto.
Si tratta di condizioni perfette per chi investe. La società d’investimento statunitense Blackrock ha creato un fondo agricolo da 200 milioni di dollari. La russa Investor Renaissance Capital ha acquistato oltre 100.000 ettari in Ucraina. Deutsche Bank e la banca statunitense Goldman Sachs hanno investito in aziende che allevano suini e pollame in Cina. Il cibo sta diventando il nuovo petrolio. La novità di questo colonialismo sta nel fatto che i Paesi si lasciano conquistare volentieri. Il premier etiope ha affermato che il suo governo «arde» dalla voglia di mettere a disposizione centinaia di migliaia di ettari di terreni coltivabili. Il tutto è legato a due speranze: la speranza degli Stati poveri di poter sviluppare e modernizzare la loro agricoltura a pezzi e la speranza del resto del mondo che gli investitori stranieri possano produrre in Asia e Africa cibo sufficiente per i 9,1 miliardi di persone che popoleranno presto la Terra; che possano portare con loro tutto quello che adesso manca: tecnologie, capitali, conoscenze, sementi moderne e fertilizzanti.
Ma l’accaparramento moderno delle terre, il cosiddetto «land grabbing», è una questione politicamente delicata. Nessuno sa di preciso quanta terra in tutto sia in gioco. L’Istituto internazionale di ricerca sulle politiche alimentari parla di 30 milioni di ettari. Klaus Deininger, un economista della Banca mondiale specializzato in politiche agricole, stima che simili trattative di accaparramento della terra potrebbero riguardare dal 10 al 30% dei terreni coltivabili disponibili.
Governi in prima linea
Gli affari più spettacolari però non li fanno i privati, bensì i governi. Il governo sudanese ha ceduto per 99 anni agli Stati del Golfo Persico, all’Egitto e alla Corea del Sud 1,5 milioni di ettari di terra coltivabile della migliore qualità. Il paradosso: il Sudan è il Paese che riceve i maggiori aiuti al mondo e la sopravvivenza di 5,6 milioni di sudanesi dipende dagli aiuti alimentari. Il Kuwait ha preso in affitto 130.000 ettari di risaie in Cambogia. L’Egitto vuole coltivare grano e mais su una superficie di 840.000 ettari in Uganda. Il presidente della Repubblica democratica del Congo ha offerto in affitto 10 milioni di ettari al Sud Africa. Il Pakistan vuole mettere a disposizione degli Stati del Golfo Persico un milione di ettari di terreni coltivabili, le Filippine attirano gli investitori con oltre 1,2 milioni di ettari.
L’Arabia Saudita è uno dei più grandi e aggressivi tra i Paesi che fanno incetta di terra. In primavera il re ha partecipato alle celebrazioni per l’arrivo del primo raccolto di riso estero, coltivato per il regno saudita in Etiopia, un Paese tormentato dalla fame. Gli Stati ricchi scambiano soldi, petrolio e infrastrutture con cibo, acqua e foraggio. Tuttavia molti degli Stati in cui si verifica l’accaparramento dei terreni soffrono di scarsità d’acqua, come ad esempio il Kazakistan o il Pakistan. L’Africa subsahariana ha riserve idriche naturali a sufficienza, eppure soltanto il Sud Africa riesce a realizzare un surplus alimentare.
Olivier De Schutter, il relatore speciale dell’Onu per il diritto al cibo, avverte: «Siccome in Africa gli Stati sono in concorrenza tra loro per accaparrarsi gli investitori, si superano l’un l’altro offrendo prezzi più bassi». Alcuni contratti sono lunghi appena tre pagine. Alcuni promettono di costruire delle scuole o di asfaltare delle strade, ma, anche quando gli investitori rispettano queste promesse, i vantaggi per lo Stato e i contadini locali sono spesso di breve durata. Questo perché i grossi proprietari terrieri stranieri praticano l’agricoltura su scala industriale, altrimenti sarebbe impossibile aumentare i raccolti in modo da raggiungere rendite annuali del 20% e anche più. E se dopo un paio d’anni la terra è ormai impoverita, gli investitori si trasferiscono semplicemente altrove.
Guerra tra poveri
«Quando il cibo scarseggia - spiega l’imprenditore americano Philippe Heilberg - gli investitori hanno bisogno di uno Stato debole che non imponga loro nessuna regola». Uno Stato che, nonostante la carestia all’interno dei propri confini, consente l’esportazione di cereali, perché è piegato dalla corruzione o è iperindebitato. Heilberg ha trovato uno Stato così: il Sud del Sudan. Un pre-Stato, autonomo, ma non indipendente. Il quarantaquattrenne americano, figlio di un commerciante di caffè e fondatore della società d’investimenti Jarch Capital, è il più grande affittuario di terra nel Sud del Sudan, con 400.000 ettari. Nella parte occidentale del Kenya l’appropriazione dei terreni è più avanzata. Lì vive il trentatreenne Erastas Dildo, il tipo di persona che gli investitori di New York definirebbero un «fattore di rischio»: Erastas è un piccolo agricoltore che possiede tre ettari di terra. Terra fertile, su cui il mais cresce, verdissimo, fino a due metri d’altezza, in cui i bovini sono grassi come ippopotami e le piante di pomodori si piegano sotto il loro stesso peso. Erastas raccoglie il mais due volte l’anno. Un ettaro gli frutta 3.600 euro all’anno, molto, per gli standard kenioti.
Multinazionali contro contadini
Ora però alla porta di Erastas ha bussato la Dominion Farms, un’azienda agricola statunitense che ha costruito lungo il delta dello Yala una propria colonia, affittando per 45 anni 3600 ettari di terra per un prezzo irrisorio: 12.000 euro all’anno. Sui terreni dovrebbero crescere riso, verdure e mais. E Dominion vorrebbe volentieri anche i tre ettari di Erastas Dildo. Gli inviati della Dominion gli hanno offerto un indennizzo di circa dieci centesimi al metro quadro. Erastas ha rifiutato e ora quelli di Dominion gli rendono la vita difficile. La loro arma più potente è lo sbarramento idrico che hanno costruito. Quando lo scorso anno Erastas ha provato a raccogliere il suo mais l’ha ritrovato inondato. «E se questo non basta - racconta - mandano bulldozer, squadre di picchiatori». Dominion aveva promesso per contratto il risanamento di «almeno una scuola e un ospedale» in ognuno dei due distretti locali. «Invece hanno cacciato 400 famiglie», afferma Gondi Olima dell’associazione «Amici della palude dello Yala». Dominion Farms respinge le accuse e fa notare che ha fatto costruire otto classi, concesso borse di studio a 16 bambini e dotato una struttura ospedaliera di letti ed elettricità.
In Africa, stima la Banca mondiale, esistono diritti formali di possesso o affitto soltanto per una percentuale di terra compresa tra il 2 e il 10%, e ciò riguarda per lo più le città. Una famiglia può anche vivere da decenni su un pezzo di terra o possederlo, ma spesso non può dimostrarlo. Inutilizzata, comunque, la terra non lo è quasi mai. Soprattutto i più poveri vivono grazie a essa, raccogliendo frutta, erbe o legna da ardere o facendovi pascolare il bestiame. Così l’acquisto di grossi terreni può anche trasformarsi in un disastro, visto che oltre il 50% degli africani sono piccoli contadini.
La Banca mondiale e altre organizzazioni stanno ora preparando un codice di condotta per gli investitori. Al vertice del G8 dell’Aquila di luglio era prevista la firma di una dichiarazione di intenti, ma i capi di Stato non sono riusciti a trovare un’intesa su standard vincolanti. E così la caccia prosegue. E nella sala Stuyvesant a New York uno degli oratori chiarisce il ritmo di crescita del genere umano: 154 persone al minuto, 9240 all’ora, 221.760 al giorno. E tutte vogliono mangiare.
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I cosiddetti «germogli» della ripresa si stanno seccando sotto lo spietato sole estivo. In realtà l'intero dibattito sul quando e sul come la ripresa inizierà è impostato male. Da una parte vi sono i sostenitori della dinamica a «V» che guardano alle recessioni passate e concludono che più veloce è il crollo dell'economia, più veloce il suo rientro nei binari. E poiché lo scorso autunno l'economia è caduta da una scogliera, si aspettano che ruggisca a nuova vita all'inizio dell'anno prossimo. Da cui la forma a «V».
Sfortunatamente i Vuisti guardano alle recessioni sbagliate. Concentratevi piuttosto su quelle che iniziarono bruciando una gigantesca bolla speculativa e vedrete riprese lente. La ragione è che al punto minimo i valori dei beni sono così bassi che la fiducia degli investitori ritorna solo gradualmente. E qui dove entrano in gioco gli U-isti. Predicono una ripresa più graduale, in cui gli investitori rientrano nel mercato in punta di piedi.
Personalmente, non m'iscrivo a nessuno dei due partiti. In una recessione tanto profonda, la ripresa non dipende dagli investitori. Dipende dai consumatori che, dopo tutto, sono il 70 per cento dell'economia Usa. E stavolta i consumatori hanno preso una bella botta. Finché i consumatori non torneranno a spendere, potremo scordarci la ripresa, che sia a «V» o a «U».
Il problema è che i consumatori non riprenderanno a spendere finché non avranno soldi in tasca e non si sentiranno ragionevolmente sicuri. Ma i soldi non li hanno, ed è difficile vedere da dove possano venire. Non possono prendere in prestito. Le case valgono una frazione di quel che valevano prima e perciò scordatevi pure i ripianamenti del mutuo e nuove ipoteche. Un proprietario su dieci è sotto la linea di galleggiamento - cioè è debitore di più di quanto valga la sua casa. La disoccupazione continua a salire e il numero di ore lavorate a scendere. Chi può, risparmia. Chi non può, sta acquattato, come è giusto. Alla fine i consumatori dovranno rimpiazzare auto, elettrodomestici e quel che hanno addosso, ma una ripresa non può basarsi sul rimpiazzo. Non ci si può aspettare che gli imprenditori investano senza una massa di consumatori che si precipita su nuova merce. E non ci si può affidare all'esportazione: l'economia globale si sta contraendo.
La mia predizione allora? Non una «V», non una «U», ma una «X». L'economia non può rimettersi nei binari perché i binari su cui abbiamo viaggiato per anni - salari piatti o in calo, debito crescente dei consumatori e insicurezza dilagante, per non menzionare l'anidride carbonica nell'atmosfera - non possono semplicemente essere sostenuti.
La «X» simboleggia un nuovo binario, una nuova economia. Come sarà fatta? Nessuno lo sa. Tutto quel che sappiamo è che l'economia attuale non può ripartire perché non può tornare dove stava prima del botto. Così, invece di chiederci quando comincerà la ripresa, dovremmo chiederci quando partirà la nuova economia. A seguire.
Robert Reich insegna economia a Berkeley e il suo ultimo libro s'intitola «Capitalismo». L'articolo che pubblichiamo è ripreso da «CommonDreams.org»
Un saggio sul mondo occidentale di Mauro Magatti Noi vittime del tecno-nichilismo Il mito della libertà assoluta svincolata dall’etica della responsabilità Come nel film ‘The Millionaire’ tutti sognano di vincere con facilità Nelle società avanzate si vive come adolescenti senza più regole
Una libertà illimitata, assoluta, indifferente a norme e freni. Una libertà spesso apparente, spezzata, che limita gli uomini più che spingerli a realizzarsi, che li isola più che aiutarli a creare solidarietà. E’ la libertà del capitalismo tecno-nichilista, il mondo segnato da razionalità scientifica e volontà di potenza - economica, politica, esistenziale - raccontato da Mauro Magatti in Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista (Feltrinelli, pagg. 432, euro 30).
"Ci siamo dentro da almeno trent’anni, ma ormai siamo alla fine del ciclo", spiega Magatti, che insegna sociologia alla Cattolica di Milano e che allo studio del capitalismo tecno-nichilista ha dedicato gli ultimi dieci anni della sua vita. Ne è uscito un libro vasto e complesso, che spazia da Max Weber a Friedrich Nietzsche, da Pierre Bourdieu a René Girard, che affronta diverse parole chiave delle nostre vite - libertà, e poi giustizia, identità, potere - che cerca di seguire alcune correnti profonde della modernità. "Ma solo alcune. La vita sociale è come il mare, ma non si può studiare il mare. Troppo grande. Troppo maestoso".
Mauro Magatti, come si afferma il capitalismo tecno-nichilista?
«Le due ali di questo capitalismo sono storicamente il neo-liberismo thatcheriano, reaganiano, che si afferma all’inizio degli anni Ottanta, combinato con l’eredità dei movimenti giovanili e libertari degli anni Sessanta, segnati da forti spinte antiautoritarie, dall’idea che esiste uno spazio di soggettività che deve essere il più possibile protetto e ampliato. Questi mondi criticano l’equilibrio istituzionale ed economico che si era imposto nel secondo dopoguerra. Affermano l’idea che ognuno è capace di dare un senso individuale alla propria vita, che ognuno può essere libero per conto proprio».
Perché il capitalismo, che a partire dal secondo dopoguerra aveva offerto una certa stabilità di figure sociali e valori, ha bisogno a un certo punto di mettere l’accento sull’individuo?
«Perché è un capitalismo che evade dal quadro dei confini nazionali, che si dà obiettivi di crescita globali, sovranazionali: in termini di reperimento delle materie prima, di organizzazione della produzione, di ricerca di nuovi mercati. Il capitalismo tecno-nichilista porta a una riduzione dell’integrazione sociale, su base nazionale. Crede che i significati possono essere allocati soltanto sul piano soggettivo».
Il soggetto sociale che ne deriva è molto più isolato, frammentato, scollegato dal contesto?
«Più che l’immagine della solitudine, userei quella dell’adolescenza. Le società avanzate hanno creato un soggetto sociale che assomiglia sempre più all’adolescente, che esce da casa e vive l’ebbrezza di essere lontano dallo sguardo oppressivo dei genitori. Come l’adolescente, anche il cittadino dell’Occidente democratico crede che libertà significhi fare quello che si crede. Il problema non è tornare alla fase precedente, quella dell’autorità paterna. Ma riuscire a gestire la libertà sapendo che ci sono dei limiti, senza i quali la libertà è distruttiva».
Tutti noi vogliamo essere più liberi. Ci riusciamo anche?
«Non mi pare. La nostra è diventata una libertà astratta, indifferente al fatto che la libertà è sempre storicamente fondata, che la libertà non è mai disgiunta dalle opportunità, dall’etica della responsabilità, dal rispetto delle libertà degli altri. Crediamo di essere più liberi. Il titolo del mio libro, Libertà imma-ginaria, si permette di avanzare molti dubbi».
Ci fa un esempio?
«Il lavoro precario. Anni fa, per il mio lavoro di sociologo, ho condotto un’inchiesta tra i precari italiani. Interi pezzi di questo mondo erano soggiogati dall’idea che il lavoro flessibile non fosse poi così male, che aumentasse la libertà individuale, la possibilità di cambiare e di scegliere. Eppure, non mi pare che la flessibilità abbia aumentato le opportunità. Il fatto è che la libertà, spogliata dei suoi caratteri individuali, storici, è diventata il discorso fondativo delle nostre società. Chi controlla questo immaginario, vince».
Lo controlla la destra?
«Beh, mi è sempre parso molto significativo che Silvio Berlusconi abbia scelto il termine "libertà" per contrassegnare il suo popolo. Gestire il discorso sulla libertà, significa gestire l’egemonia».
Quali gruppi sociali hanno risentito di più di questo doppio processo: esaltazione - e svuotamento - del concetto di libertà?
Sicuramente, i ceti medio-bassi. Le risorse soggettive, culturali, necessarie a navigare nell’epoca del capitalismo tecno-nichilistico sono enormemente superiori a quelle che vengono messe effettivamente a disposizione. Di qui gli esiti neo-magici che questa cultura ha sui ceti medio-bassi. L’idea è che la libertà possa realizzarsi attraverso eventi straordinari, al di fuori di ogni controllo: la vincita a un quiz, come nel film The Millionaire, oppure l’entrata in un mondo dorato - come quello di ville e party dei potenti - che ti fa fare un salto immediato, economico e sociale».
Che tipo di libertà è quella che reclamano oggi in Iran?
«La mia analisi, ovviamente, riguarda il mondo occidentale. Da quello che posso leggere e vedere in televisione, mi pare che anche in Iran emerga un modello già sperimentato. Via via che le società crescono - sotto il profilo istituzionale, economico, dell’educazione - emerge anche un’istanza soggettivistica. Il singolo reclama uno spazio di libertà più ampia, le istituzioni autoritativamente costruite vanno a sbattere contro la presa di coscienza dell’individuo».
La crisi finanziaria degli ultimi mesi è il prodotto di questa cultura della libertà?
«La finanza internazionale, in questi anni, è stata guidata soprattutto da un concetto: fare tutto quello che sta in piedi, tecnicamente, a prescindere da ogni considerazione di sostenibilità. Anche qui la volontà di potenza, evocata come vera energia che sostiene la crescita, ha condotto a rischi impressionanti, e alla sottovalutazione di regole e limiti».
La crisi chiude il ciclo del capitalismo tecno-nichilista?
«Sì, mi sembra che ci siano dei segni. L’elezione di Barack Obama è uno di questi. Obama fa agli americani un discorso di crescita ordinata, di sviluppo duraturo e sostenibile. Immagina di agganciare l’idea della produzione, dello sviluppo, a obiettivi dotati di senso. La domanda è: siamo capaci di riportare sotto controllo la nostra volontà di potenza, tecnica ed esistenziale, orientandola verso alcuni grandi obiettivi collettivi?».
Si è dato una risposta?
«Le democrazie hanno grandi risorse. Ma è un processo lungo, e complicato».
Esistono alternative?
«Beh, c’è chi sostiene che la crisi di questi mesi non assomigli a quella del 1929, ma a quella del 1907, che sfociò nella Prima guerra mondiale. Lo sbocco del capitalismo tecno-nichilista potrebbe essere un grande conflitto internazionale. La volontà di potenza, il mito della libertà assoluta, ha creato opinioni pubbliche fameliche, incapaci di qualsiasi tipo di autolimitazione. Di solito, quando non riesci più a sostenere la crescita interna, te la pigli con qualcuno all’esterno».
Per la prima volta nella storia umana soffre la fame più di un miliardo di persone, un sesto della popolazione del pianeta. È la stima della Fao, l’agenzia dell’Onu per l’agricoltura e l’alimentazione. «La sicurezza alimentare è sicurezza tout court - dice Josette Sheridan del World Food Programme - Un mondo affamato è un mondo pericoloso per tutti». La recessione globale è una causa di questo pesante peggioramento: oggi ci sono cento milioni di affamati in più rispetto al 2008. Un altro fattore cruciale è l’inflazione delle derrate agroalimentari che colpisce soprattutto i Paesi in via di sviluppo. Se in Occidente i prezzi sono in flessione, nel Terzo mondo i generi alimentari restano del 24% più cari rispetto al 2006, un onere insostenibile per il potere d’acquisto.
La "frontiera della fame" viene situata dagli esperti della Fao a 1.800 calorie al giorno. Al di sotto di questo livello di nutrizione i danni per la salute sono spesso irreversibili. La Banca mondiale stima che entro il 2015 moriranno da 200.000 a 400.000 bambini in più all’anno. Il 40% delle donne incinte nei Paesi poveri soffre di anemia, quindi dà alla luce neonati più vulnerabili alle malattie. Il numero di bambini sottopeso aumenterà di 125 milioni l’anno prossimo.
La geografia della malnutrizione resta sbilanciata. Al primo posto viene l’Asia-Oceania, con 642 milioni di persone sotto la soglia della fame: un numero impressionante, che però va commisurato a una popolazione di quattro miliardi. Il primato rispetto alla dimensione demografica spetta all’Africa sub-sahariana: 265 milioni di affamati, un terzo degli abitanti. Seguono l’America latina con 53 milioni, Nordafrica e Medio Oriente con 42 milioni. Nei Paesi ricchi abita la quota più piccola, ma pur sempre impressionante di affamati: 15 milioni di europei e nordamericani sopravvivono a stento, vittime di una invisibile carestia in mezzo al benessere. «È una contraddizione insopportabile - dichiara il dirigente Fao Kostas Stamoulis - perché gran parte del mondo gode di una ricchezza senza precedenti, anche in mezzo a questa recessione, eppure le vittime della fame raggiungono un record storico».
La crisi colpisce i Paesi dell’emisfero Sud in vari modi. Innanzitutto la battuta d’arresto della globalizzazione non aiuta: calano le esportazioni, si riducono le entrate dei Paesi emergenti. Automaticamente gli Stati hanno meno risorse da destinare ai sussidi alimentari, tagliano le sovvenzioni ai contadini poveri per l’acquisto di sementi e fertilizzanti. Perfino il disastro dei titoli tossici e della malafinanza ha ripercussioni nelle aree più povere del pianeta: le banche fanno meno credito a tutti, compresi gli Stati sovrani del Terzo mondo. Raccogliere capitali attraverso emissioni di bond sui mercati è diventato più difficile. Un’altra emergenza è il poderoso riflusso dell’emigrazione. Le tensioni xenofobe dei Paesi ricchi sono solo una piccola parte del problema. Ben più grave è l’impatto della crisi in quelle zone come il Golfo Persico che tradizionalmente assorbivano manodopera straniera (da India, Pakistan, Bangladesh, Filippine) e ora ricacciano a casa gli immigrati senza lavoro. Così s’inaridiscono le rimesse degli emigrati, un sostegno vitale per le campagne povere.
Se nei Paesi ricchi la recessione ha avuto almeno un effetto-calmiere sui prezzi, nell’emisfero Sud questo sollievo è quasi introvabile. Pur inferiori ai picchi dell’iperinflazione esplosa nella primavera 2008, i costi delle materie prime agricole restano insopportabilmente elevati rispetto a un paio d’anni fa. Nelle aree più misere del pianeta, per comprare il cibo essenziale a una famiglia di cinque persone oggi occorre lavorare in media dieci ore in più a settimana. «I consumatori dei Paesi poveri - si legge nel rapporto della Fao - devono spendere per nutrirsi il 60% del loro reddito. La caduta del loro potere d’acquisto è brutale».
«Questa crisi - avverte il direttore generale della Fao Jacques Diouf - è una minaccia seria per la pace mondiale». Un anno fa a quest’epoca vaste metropoli dei Paesi in via di sviluppo erano sconvolte dalle rivolte per il pane e per il riso, da Haiti a Giacarta. Più ancora dei contadini, l’anello debole di questa emergenza sono i ceti poveri concentrati nelle zone urbane, incapaci di rifugiarsi in un’economia di sussistenza. È lì che si annidano i focolai di tensione più esplosivi. L’unico raggio di speranza, secondo la Fao, è che gli alti prezzi agricoli diano un sostegno a milioni di contadini poveri, incentivando l’aumento della produzione. Devono rassegnarsi a fare da soli, questo è certo: anche gli aiuti dal Nord al Sud sono in calo, con il pretesto della recessione.
Da qualche tempo si vanno moltiplicando le dichiarazioni di autorità, operatori economici ed esperti secondo le quali il peggio della crisi sarebbe passato. Se non la luce, in fondo al tunnel si scorge un fioco chiarore. Imprenditori e consumatori appaiono un po´ meno pessimisti riguardo al futuro. Il commercio mondiale pare stia risalendo. Da tutto ciò i dichiaranti deducono che si sta avvicinando la ripresa, il ritorno alla normalità della crescita per il nostro paese e per il mondo.
Il rischio che i neo-ottimisti non vedono, o hanno deciso di non vedere, è che il peggior lascito della crisi sarebbe precisamente un ritorno alla normalità. La crisi esplosa nel 2008 non è stato un incidente di percorso dell´economia mondiale. È stata piuttosto un´espressione di quello che per una trentina d´anni è stato giudicato e lodato come il suo normale funzionamento. Era normale per il sistema bancario mettere in circolazione quasi 700 trilioni di dollari di derivati al di fuori delle borse, sì da renderli non rintracciabili dalle autorità di sorveglianza. Le quali, da parte loro, trovavano affatto normale fingere di non vederli. Ma era comunque bene non fare nulla, giacché i mercati finanziari normalmente si auto-regolano, facendo affluire i capitali là dove sono meglio utilizzati per produrre occupazione e ricchezza. Dove si capisce perché nel bene o nel male, come diceva Keynes nelle due ultime righe della Teoria generale, le idee siano più pericolose degli interessi costituiti.
In base alla idea dominante di normalità, era giudicato ugualmente naturale che l´industria manifatturiera dell´Occidente arrivasse a sviluppare un suo sistema finanziario capace di generare una quota di fatturato quasi pari alla produzione di beni materiali; insuperati, in questo, i costruttori di automobili statunitensi, appropriatamente definiti da una ex manager dell´alta finanza (Nomi Prins) «banche che vendevano automobili». E in complesso non era forse considerato l´essenza della normalità un sistema economico che spende trilioni di dollari l´anno in pubblicità e marketing per convincere un miliardo e mezzo di persone a consumare beni in gran parte superflui? Intanto che, si noti, non trova i quattro o cinquecento miliardi annui che basterebbero per dimezzare la quota di coloro che sopravvivono con un dollaro al giorno (1,4 miliardi, secondo le ultime stime della Banca Mondiale), o non dispongono di servizi igienici (2,6 miliardi), o soffrono la fame (1 miliardo, ma in aumento), ovvero abitano in slums (oltre 1 miliardo); o, ancora, il numero dei bimbi che muoiono prima di compiere cinque anni a causa di un raffreddore o un mal di pancia (10 milioni l´anno, 25.000 al giorno).
Ove si consideri che tutto ciò rappresentava la normalità pre-crisi, va aggiunto che sia l´attesa passiva che essa prima o poi si ristabilisca da sola, sia l´intento di accelerare attivamente il ritorno ad essa, aprirebbero la porta a scenari assai peggiori di quelli attuali. Anzitutto si porrebbero le premesse per il verificarsi di un´altra crisi dell´economia mondiale, più grave di quella in corso, entro pochi anni. Basterebbe ricordare che nel volgere di appena un decennio il sistema finanziario e quello ad esso intrecciato delle corporation finanziarizzate hanno fatto registrare ben quattro crisi di portata planetaria.
Ciascuna di queste crisi ha rischiato di affondare l´economia mondiale, con un livello di rischio crescente tra la precedente e la successiva. Ciascuna rifletteva la normalità del sistema in quel dato momento. Ora è vero che la memoria degli operatori economici è notoriamente corta, e altrettanto quella dei governi. Ma aspettarsi ancora una volta che la normalità ritorni, senza provvedere a interventi regolativi sull´insieme del sistema finanziario e industriale del mondo, significherebbe davvero credere che gli asini volano.
Un danno non minore che un ritorno al business as usual provocherebbe sarebbe che la insostenibilità da più punti di vista del sistema economico odierno (o modello di sviluppo che dir si voglia) avvicinerebbe il momento in cui essa comincerebbe a tradursi, più rapidamente di quanto già non faccia ora, in immani tragedie collettive. Avrà forse esagerato un po´, il principe Carlo d´Inghilterra, nell´indicare in soli 99 mesi il tempo per salvare il pianeta. Il fatto è che il rischio non viene solo dal cambiamento climatico. Per assicurare entro una o due generazioni una vita decente a qualche altro miliardo di persone non ci sarà acqua a sufficienza. Lo dicono i rapporti Onu sullo sviluppo umano. Non ci saranno prodotti alimentari a sufficienza, perché le superfici destinate ad usi agricoli si vanno riducendo a causa dell´erosione e salinizzazione dei suoli, dello sviluppo delle colture per la produzione di agrocarburanti, della distruzione di interi eco-sistemi. Per diffondere in tutto il mondo i consumi oggi normali dell´occidente non ci saranno nemmeno abbastanza metalli o carbone o petroli, né abbastanza mari, forse nemmeno abbastanza ossigeno.
Bisognerebbe dunque darsi da fare allo scopo non di ricostruire la normalità di ieri, bensì di sviluppare una idea diversa di sistema produttivo e finanziario normale. Per il momento bisogna ammettere che né l´Unione Europea né gli Stati Uniti sembrano muoversi con decisione in tale direzione, al di là delle generiche quanto inconsistenti dichiarazioni del G-20 e delle terribili quanto inette minacce rivolte ai paradisi fiscali o ai fondi speculativi. Visto che in campo economico e politico non sono molti quelli che si lasciano influenzare da nuove teorie dopo i venticinque o i trent´anni – è ancora un pensiero di Keynes – forse si dovrà mandare al potere i ventenni. A condizione di farli transitare in un sistema scolastico e universitario meno prono dell´attuale al consenso di Washington o di Bruxelles.
Carla Ravaioli e Giorgio Ruffolo: un faccia a faccia a partire dalla crisi economica per ridefinire parole come «crescita», «sviluppo», «politica», «disarmo». E mettere al centro i «vituperati» limiti ambientali.
Carla Ravaioli.Di fronte al terremoto che scuote l’economia mondiale le sinistre non sembrano avere una risposta propria. Uscire dalla crisi, rilanciare l’economia, sono i loro obiettivi, gli stessi di tutti. Cosa da un lato comprensibile: cercar di contenere disoccupazione e precarietà già dilaganti, è compito loro. E tuttavia parrebbe naturale che le sinistre tentassero di spingere lo sguardo oltre l’immediato, per una lettura più approfondita della crisi, e anche per provare a pensarne un esito diverso da quel “superamento” in cui tutti sperano.
Giorgio Ruffolo. Da tempo la sinistra non è più in grado di dare risposte alla politica, e nemmeno di porre le domande giuste, irrigidita com’è su due posizioni: l’una riformista di breve periodo, l’altra contestativa in genere, rivoluzionaria ma solo a parole. Due debolezze in fondo, lontane dalle autentiche vocazioni della sinistra: quella progettuale, impegnata in un riformismo concreto, e quella ideale, orientata a pensare una società diversa.
C. Forse, appunto, la mancanza di una risposta adeguata è dovuta alla mancanza di domande giuste… Si tende, anche a sinistra, a vedere la crisi attuale come una delle tante ricorrenti nella storia del capitalismo. A me pare molto diversa… Se non altro perché in realtà le crisi che scuotono il mondo sono due: quella economica e quella ecologica… Le quali a me (e non a me solo) sembrano strettamente intrecciate…
G. La crisi attuale è crisi dell’accumulazione. L’accumulazione, che è la logica del capitalismo, è per natura illimitata. Di fatto, una logica impossibile, quindi illogica, dissennata. Che è la causa prima sia dei disastri finanziari, sia di quelli ambientali. E parrebbe ormai davvero il momento di recuperare l’etica dei limiti, di saper contrapporre qualità a quantità.
C. E questo è - parrebbe dover essere - compito soprattutto delle sinistre. Ma non sembra un’ipotesi probabile… In realtà uno dei “peccati” che non riesco a perdonare alle sinistre è la loro totale sordità nei confronti del problema ambiente. Che dura ancora oggi: per le sinistre come per tutti, la questione resta marginale. Né mai viene messa in relazione con la crisi economica: relazione che a me pare evidente…
G. Non c’è dubbio. Ambedue le crisi, sia quella finanziaria, poi ricaduta sulla economia “reale”, sia quella ecologica, costituiscono una minaccia gravissima, e ambedue dovrebbero essere affrontate con un’economia di nuovo tipo, capace di evitare da un lato l’indebitamento della finanza, dall’altro l’indebitamento con la natura. Una delle non poche affinità esistenti tra i due fenomeni è appunto il fatto che ambedue nascono da un indebitamento. La diffusione di falsi crediti, che non trovavano riscontro nell’economia reale e non potevano pertanto essere restituiti, è all’origine della crisi finanziaria. Ma anche la crisi ecologica nasce da crediti che non possono essere restituiti: i danni irreversibili recati agli ecosistemi dalla rapacità con cui la società industriale è andata usando le risorse naturali, sono in realtà dei prestiti senza copertura.
C. Già. Ma, per quanto l’ambientalismo insista nell’indicare questa insanabile aporia tra una produzione in crescita illimitata e i limiti del Pianeta, l’economia insiste nell’inseguimento della crescita. Far ripartire l’aumento del Pil è suo obiettivo primario. Le sinistre, i sindacati, si allineano…
G. Eppure non potremo mancare di affrontare una domanda-chiave: è possibile porre in essere un’economia che eviti sia l’indebitamento del denaro, sia quello con la natura? Una domanda che non può prescindere da una seria analisi del rapporto tra l’attuale tipo di sviluppo e la crisi in corso. Rapporto che si manifesta con tutta evidenza, ad esempio, nei modi in cui si tenta di far fronte alla scarsità energetica: spingendo la ricerca di carburanti fossili nei luoghi più remoti, impegnando la tecnologia nella ricerca sempre più attiva di energie rinnovabili, nella messa a punto della massima efficienza; eccetera. Tutte cose utili, ma che, di fatto, non si confrontano con il problema della scarsità; accettano un’economia come la nostra, che ignora ogni fine superiore e impone se stessa come fine; ignorando insomma che il progresso non si misura quantitativamente, in termini di crescita, ma qualitativamente, in termini di sviluppo.
C. Lo sai bene, queste tue posizioni sono anche mie. Da gran tempo. L’evolversi della situazione mondiale mi va però suscitando non poche perplessità circa la possibilità di porle in essere. Perché lo “sviluppo”, così come ormai viene concepito e perseguito, è in realtà sempre meno distinguibile dalla “crescita”. La quantità mi pare si sia ormai imposta come una categoria che pervade e conforma tutti gli ambiti, fino a dare forma a rapporti di ogni tipo, percorsi di vita, progetti di ogni futuro… Non a caso il consumo definisce, non solo nei testi di sociologia, la forma del nostro tempo. Il consumo impostosi come simbolo positivo dell’identità individuale; il reddito, in quanto capacità di consumo, assunto come obiettivo primo di ogni vita, da conseguire non importa come; una massa di consumi individuali che danno corpo e futuro all’accumulazione capitalistica… E’ una vera e propria mutazione antropologica che si è prodotta negli ultimi decenni. Superare questa realtà temo richieda un drastico mutamento di abitudini, modelli, categorie mentali prevalenti, una rottura storica insomma, una “rivoluzione”. Che d’altronde non immagino in alcun modo simile alle rivoluzioni del passato.
G. Io sono convinto che questo capitalismo sia insostenibile. E la crisi attuale lo dimostra. Però sono convinto anche della possibilità di un capitalismo qualitativo, credo insomma che si possa salvare il capitalismo da se stesso. Perché non è vero che l’unica via al capitalismo sia l’accumulazione. E non sono il solo a crederlo. Ad esempio se ne dice convinto anche Muhammad Yunus, il “banchiere dei poveri”, che parla della crisi come di un’opportunità di ridisegnare l’economia e il sistema finanziario, dando luogo a un “capitalismo ben temperato”, non finalizzato alla massimizzazione del profitto, ma alla diffusione del benessere; e a questo proposito ricorda che Adam Smith, oltre a “La ricchezza delle nazioni”, ha scritto anche “Teoria dei sentimenti morali”, un bellissimo libro, in cui si occupa della complessità della natura umana, capace non solo di egoismo, ma anche di sollecitudine per la felicità altrui. Cosa su cui hanno riflettuto grandi economisti italiani, come Federico Caffè, Giorgio Fuà, Paolo Sylos Labini; e che ha trovato attuazione nell’opera di grandi capitani di industria, come Adriano Olivetti e Enrico Mattei, i quali hanno costruito grandi fortune perseguendo ideali non identificabili solo con il danaro.
C. Tutto questo è vero, e anche molto affascinante… Ma francamente non so quale possibilità abbia di messa in opera, nella situazione attuale. Che è una situazione estrema. Sotto l’aspetto ambientale, con la vistosissima accelerazione dello squilibrio ecologico. E sotto l’aspetto sociale, con un crescente sfruttamento del lavoro, insieme a un aumento scandaloso delle disuguaglianze: secondo l’Ocse l’1% della popolazione mondiale detiene il 50% della ricchezza. Ma anche, forse soprattutto, per via del gravissimo guasto, morale, psicologico, mentale, che il dominio della quantità, cioè l’economia degli ultimi decenni, ha prodotto: di cui la corruzione capillarmente diffusa e ormai accettata come normale è un significativo esempio. In questa realtà non so se un riformismo del tipo di cui parli possa trovare spazio e seguito. In che modo convincere la gente che il consumo, simbolo e totem del nostro tempo, va abbandonato, o quanto meno fortemente contenuto?
G. E’ il problema che poni anche nel tuo ultimo libro, “Ambiente e pace – Una sola rivoluzione”. Libro che ho molto apprezzato nella “pars destruens”, ma che mi convince pochissimo nella proposta di disarmo dell’Europa ….
C. Ma l’idea era di iniziare con l’Europa, per poi affidarle il compito di portare avanti la proposta, coinvolgendo anche i molti paesi - soprattutto del Sud del mondo - dove il pacifismo è presente e attivo. Dopo tutto, se produrre meno è, secondo l’ambientalismo più qualificato, l’unica via di salvezza, incominciare tagliando la produzione di armi, non mi pareva sbagliato. E non mi pare nemmeno ora, devo dire. Solo che in un anno, da quando ho dato alle stampe il libro che citavi, ho in qualche modo cambiato, o piuttosto “allargato” la mia ipotesi. In due parole: la produzione di armi rappresenta ufficialmente il 3,5 % del Pil mondiale. Qualora gli umani la piantassero finalmente di risolvere i loro problemi ammazzandosi reciprocamente, e anche di usare la guerra per rimettere in marcia l’economia quando rallenta, questo (due ipotesi azzardatissime, certo) rappresenterebbe per l’ambiente una bella “ripulita”, no?
G. Certo che sarebbe una bella ripulita, ma questa ipotesi irenica (gli umani, tutti, diventati di colpo pacifici) non mi pare, francamente, meno utopistica del mio “capitalismo ben temperato”. A quello si può arrivare gradualmente, come sempre è avvenuto: dopo tutto il capitalismo attuale è ben diverso da quello dei “maitres des forges” del XIX secolo: mentre alla pace universale si può giungere solo con un accordo universale, che non vedo all’orizzonte. D’altra parte, cominciare con l’Europa mi pare fin troppo facile… L’Europa questa scelta l’ha già fatta da tempo, per quanto riguarda le sue “guerre civili”. Eppoi, una prospettiva di pace senza condizioni comporta la “pace con Hitler”: per intenderci, la rinuncia a difendersi da ogni tipo di aggressione. E’ moralmente sostenibile?
C. Se una persona della tua intelligenza e delle tue posizioni politiche risponde così a questa mia idea, dev’essere un’idea davvero sballata…Più di quanto io stessa credessi, ed era tanto… E però m’è capitato di accennarvi in diverse pubbliche occasioni e, certo, le obiezioni non sono mancate, anche molto dure. Esempio: e tutti quelli che nelle armi ci lavorano, che pensi di farne? Ma parlare di riduzione generalizzata degli orari già riportava il discorso a livelli di normale discussione. Oppure: chi pagherebbe tutto questo? E di nuovo bastava ricordare la mostruosa disparità dei redditi e il dovere di una distribuzione più equa, per tornare a ragionare. Eppoi Hitler, certo, sacrosanto combatterlo: e però il nazismo non è stato il prodotto della prima grande guerra? Non è che violenza chiama violenza?
G. Carla, quel che ti si deve riconoscere è il coraggio dell'utopia. Che è più concreta di tante "realistiche" chiacchiere. Al metro della storia, almeno, che è fatta di utopie realizzate. Come l'abolizione della schiavitù. Neppure la Chiesa aveva il coraggio di sostenerla. Del resto, la schiavitù, la praticava largamente. Dunque è giusto battersi per le cause difficili. Senza dimenticare - è questa la virtù del buon riformismo - che esistono vie laterali, anche se più lunghe. L'importante è lo scopo. E su questo mi pare che siamo largamente d'accordo.