L'attuale situazione è figlia del fallito tentativo di contrastare la caduta del saggio di profitto attraverso la riduzione del pianeta a mercato. Ma la globalizzazione ha alimentato la crisi della democrazia, perché la libera circolazione dei capitali ha impedito ai governi di attuare una politica economica. La recessione globale letta da 14 economisti: comincia Giorgio Lunghini
La crisi economica, questa nostra sconosciuta. Viene presentata così l'attuale recessione, alternando la previsione di una uscita ravvicinata da essa a una lettura che indica nella lunga durata la sua dimensione temporale. Allo stesso tempo l'oscillazione tra le speranze, da parte della teoria economica mainstream, di uscirne fuori in continuità con il passato e la convinzione che «niente sarà come prima» segna la discussione pubblica. Con l'intervista a Giorgio Lunghini inizia una ricognizione su come autorevole economisti italiani affrontono la natura della crisi attuale. Studioso noto ai lettori de «il manifesto», Lunghini propone di leggere la crisi sia in una prospettiva storica che di analisi critica del capitalismo.
Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica osistemica? Ha senso un confronto con la crisi del '29?
Un sistema economico capitalistico - un'economia monetaria di produzione, nel linguaggio di Keynes - è impensabile senza moneta, senza banche e senza finanza, dunque nella struttura del sistema gli elementi reali e gli elementi monetari sono strettamente interconnessi. Tra elementi reali e elementi monetari c'è però una gerarchia, nel senso che un sistema economico capitalistico potrebbe riprodursi senza crisi, per usare il linguaggio di Marx, se la distribuzione del prodotto sociale fosse tale da non generare crisi di realizzazione, di «sovrapproduzione» (di sovrapproduzione relativa: rispetto alla capacità d'acquisto, non rispetto ai bisogni); e se moneta, banca e finanza fossero soltanto funzionali al processo di produzione e riproduzione del sistema, e non dessero invece luogo a sovraspeculazione e a crisi di tesaurizzazione.
Nel linguaggio di Keynes, non si darebbero crisi se la domanda effettiva, per consumi e per investimenti, e la domanda di moneta per il motivo speculativo fossero tali - by accident or design - da assicurare un equilibrio di piena occupazione. Ora è improbabile che questo caso si dia automaticamente, di qui la necessità sistematica di un disegno di politica economica. In breve: il sistema capitalistico - il «mercato» - non è capace di autoregolarsi. In tutto ciò ha un ruolo essenziale il saggio dei profitti che, come hanno mostrato gli economisti classici, ma sopra tutti Marx, tende a cadere. Quando il saggio dei profitti è tale da generare crisi di realizzazione, poiché vi si associano bassi salari e disoccupazione, e a un tempo tale da generare crisi di tesaurizzazione, il sistema capitalistico va incontro a crisi che se si vuole si possono chiamare sistemiche. Così è stato nella crisi del '29 (le cui radici risalgono però al 1870), così è oggi. In tutti e due i casi - e a ciò mi limito, quanto al confronto tra il '29 e l'oggi - la crisi si è manifestata dopo un tentativo fallimentare di contrastare la caduta del saggio dei profitti con un processo di globalizzazione, di riduzione del mondo a mercato. Aggiungo soltanto che la risposta europea alla crisi del '29 fu il nazifascismo.
Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell'analisi economica - e della storia in generale?
Di per sé l'uso della matematica nell'analisi economica non è biasimevole, lo diventa quando si vogliono trattare in forma matematica questioni che non lo consentono, oppure quando non si trattano questioni importanti perché non consentono una trattazione matematica. Di questioni del genere in economia ce ne sono molte. In visita alla London School of Economics, l'anno scorso, la Regina Elisabetta aveva chiesto - con regale candore - come mai soltanto pochi economisti avessero previsto la crisi. Dieci autorevoli economisti inglesi hanno poi scritto alla Regina una lettera, in cui scrivono che una delle ragioni principali dell'incapacità della professione di dare avvertimenti tempestivi della crisi imminente è una formazione inadeguata degli economisti, concentrata sulle tecniche matematiche: così che l'economia - l'economics - è diventata una branca delle matematiche applicate.
I firmatari della lettera ricordano anche che l'insospettabile American Economic Association aveva costituito, nel 1988, una commissione sull'insegnamento postuniversitario dell'economia negli Stati Uniti. La commissione, nelle sue conclusioni, manifestò il timore che «i programmi di formazione post-laurea possano produrre una generazione con troppi idiot savants, addestrati alle tecniche ma ignari delle questioni economiche importanti». Nell'educazione degli economisti, aggiungono i firmatari della lettera, vengono omesse la storia economica, la filosofia e la psicologia, e non vengono messe in discussione né l'opinabile credenza in una «razionalità» universale né l'«ipotesi di mercati efficienti». Anche per questa ragione non si è dato il peso dovuto agli avvertimenti non quantificati circa la potenziale instabilità del sistema finanziario globale. C'è un tipo di giudizio, quello cui si può attingere immergendosi nella letteratura e nella storia, che non può essere espresso adeguatamente in modelli matematici. In breve: la matematica decontestualizza i suoi oggetti, e in campo economico ciò comporta il rischio del riduzionismo e della falsa neutralità. L'unico antidoto è la conoscenza della storia e la consapevolezza - l'orgogliosa consapevolezza - della dimensione politica dell'analisi economica.
Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mini le basi stesse della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in là?
Non c'è nessun dubbio che la libera circolazione dei capitali, libera nella misura e nelle forme attuali, sia pericolosa per la democrazia economica e dunque per la democrazia in generale. È la tesi del «senato virtuale», una tesi su cui molto insiste Noam Chomsky (che la mutua da B. Eichengreen) e che a me pare difficile da confutare. Questo senato virtuale è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali che continuamente sottopongono a giudizio le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano «irrazionali» tali politiche - perché contrarie ai loro interessi - votano contro di esse con fughe di capitali, attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi (e in particolare delle varie forme di stato sociale).
I governi democratici hanno dunque un doppio elettorato: i loro cittadini e il senato virtuale, che normalmente prevale. Questo è un portato della liberalizzazione sconsiderata dei movimenti di capitale, a sua volta un effetto dello smantellamento del sistema di Bretton Woods negli anni Settanta: ne sono ovvie le conseguenze per la democrazia economica (i più colpiti sono i più deboli tra i cittadini dei diversi paesi) e dunque per la democrazia in generale.
Credo che la politica economica debba andare al di là della semplice regolamentazione dei mercati, ma anche se si limitasse a questa dovrebbe trattarsi di un disegno condiviso di politica economica e finanziaria internazionale. Un nuovo piano Keynes - che aveva ben chiari i rischi di una circolazione dei capitali sfrenata - non mi pare in vista.
Molti studiosi ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull'asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al «Washington Consensus», quanto al capitalismo di stato cinese? O c'è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l'Europa (con il sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
Temo che il modello europeo di stato sociale non sia più un modello nemmeno per gli europei. Lo stato sociale è una delle più grandi invenzioni politiche e istituzionali del secolo passato, la sua distruzione una delle più gravi responsabilità dei governi europei degli ultimi trent'anni. La responsabilità è tanto più grave, in quanto ha natura culturale ancor prima che politica. Anche in Europa ha avuto un peso il senato virtuale, ma soprattutto ha pesato una adesione acritica, antistorica e non necessitata dalle circostanze, al liberismo imperiale: che nulla ha a che fare con la tradizione liberale, ancor prima che socialdemocratica, dell'Europa. In verità non è mai esistito un vero e proprio modello europeo di stato sociale, le varianti nazionali avevano storie e articolazioni differenti. Ciò che ancora oggi costituisce un modello intellettuale - modello nel senso di disegno da prendere ad esempio, e cui dovrebbero guardare per primi i keynesiani dell'ultima ora - è la «Filosofia sociale» cui avrebbe potuto condurre la Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta di Keynes.
Oggi come allora i «difetti» più evidenti della società economica in cui viviamo sono l'incapacità ad assicurare la piena occupazione e una distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito (che sono tra le cause principali della crisi attuale). Per rimediare a questi difetti, Keynes propone tre linee di intervento: una redistribuzione del reddito per via fiscale (imposte sul reddito progressive ed elevate imposte di successione), l'eutanasia del rentier, e un certo, non piccolo, intervento dello stato nell'economia. La redistribuzione del reddito comporterebbe un aumento della propensione media al consumo e dunque della domanda effettiva. L'eutanasia del rentier, dunque del «potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale», renderebbe convenienti anche investimenti a redditività differita e bassa agli occhi del contabile, quali normalmente sono gli investimenti a alta redditività sociale.
Per quanto riguarda l'intervento dello stato, secondo il Keynes de La fine del laissez faire, «l'azione più importante si riferisce non a quelle attività che gli individui privati svolgono già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d'azione degli individui, a quelle decisioni che nessuno prende se non vengono prese dallo stato. La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po' meglio o un po' peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto». Se i difetti denunciati da Keynes fossero stati emendati con le misure da lui indicate, questa crisi non ci sarebbe stata (talvolta i ragionamenti controfattuali sono efficaci), e d'altra parte temo sia improbabile che questa filosofia sociale sia messa in pratica oggi nel mondo occidentale.
Dunque un'uscita dalla crisi sull'asse Washington-Pechino? Un qualche negoziato tra Stati Uniti e Cina è imposto dal nuovo assetto della divisione internazionale del lavoro, ma quale sarà la strategia di Pechino? Il mondo riconosce che la Cina sta emergendo come grande potenza, ma è un peccato - scriveva di recente l'Economist - che a tutt'oggi non sempre agisca come tale.
L'attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e pensioni): un intervento dal lato dell'offerta, anziché della domanda, è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?
Della necessità di una redistribuzione del reddito per via fiscale, della opportunità di una eutanasia del rentier, e della necessità di un intervento attivo dello stato ho già detto. Le politiche dell'offerta fanno parte di quel paradigma teorico, la cui accettazione da parte dei governi ha portato alla crisi attuale. La disoccupazione e il timore di perdere il lavoro innescano un circolo vizioso: consumatori e imprese riducono le loro spese, generando nuovi tagli dell'occupazione. Fino a quando i salari e l'occupazione non saranno risaliti almeno ai livelli di dieci o vent'anni fa, la crisi non sarà finita.
Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare, a fronte delle forme e delle dimensioni dell'indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l'economia mondiale?
Se quel debito fosse stato contratto per assicurare istruzione, sanità e assistenza ai cittadini, le future generazioni non dovrebbero sopportare nessun prezzo, poiché a fronte di quel debito avrebbero oggi e domani quelle strutture e quei servizi. Il prezzo che pagheranno è la mancanza di quelle strutture e di quei servizi, a causa di un debito pubblico che è stato contratto a favore di quei privati che hanno determinato la crisi attuale.